IL PELO
Estratto da "Se hai bisogno chiama"
Raymond Carver
Per un po’ cercò di lavorarselo con la lingua, ma poi si tirò a sedere sul letto e cominciò a stuzzicarlo con le dita. Fuori si stava facendo una bella giornata e gli uccelli cantavano. Staccò un angolo della bustina di fiammiferi e se la passò in mezzo ai denti. Niente. Lo sentiva, era sempre là. Si ripassò la lingua sui denti, sia davanti che dietro, fermandosi quando arrivava al pelo. Esplorò tutt’intorno con la punta della lingua, poi la premette sul punto dove si era infilato, in mezzo a un paio di incisivi, lo seguí fino in fondo per un paio di centimetri e se lo appiattí contro la parte superiore del palato. Cercò di toccarlo con le dita.
– Uuuh! Cristo santo!
– Che succede? – gli chiese la moglie, levandosi anche lei a sedere. – Abbiamo dormito troppo? Che ore sono?
– Ho qualcosa in mezzo ai denti. Non riesco a levarlo. Non so... mi sembra un pelo.
Andò in bagno e guardò per un attimo lo specchio, poi si lavò le mani e la faccia con l’acqua fredda. Accese la luce sopra lo specchio.
– Non riesco a vederlo, ma so che c’è. Se solo riuscissi a pigliarlo, magari lo tiro fuori.
La moglie lo raggiunse in bagno; sbadigliava e si grattava la testa. – L’hai preso, tesoro?
Lui strinse i denti e si premette le labbra contro le gengive fino a incidere la pelle con le unghie.
– Aspetta un attimo, – disse lei, avvicinandosi. – Fammi un po’ vedere –. Lui si piazzò sotto la lampadina, con la bocca aperta, e si mise a torcere la testa da una parte all’altra, passando la manica del pigiama sullo specchio quando si appannava.
– Io non vedo niente, – annunciò lei.
– Be’, io però lo sento –. Spense la luce e cominciò a far scorrere l’acqua nella vasca. – Al diavolo! Lascia perdere. Devo prepararmi per uscire.
Decise di arrivare in centro a piedi, tanto non gli andava di fare colazione ed era in anticipo. Nessuno aveva le chiavi oltre al padrone e se arrivava al negozio troppo presto gli toccava aspettare. Camminò fino all’angolo deserto dove di solito prendeva l’autobus. Un cane che aveva già visto gironzolare da quelle parti era lí con la zampetta alzata che pisciava sul cartello della fermata.
– Ehi, – gridò.
Il cane smise di pisciare e gli corse incontro. Un altro cane che non conosceva arrivò trotterellando, annusò il cartello e ci pisciò sopra anche lui. Un flusso dorato e fumante sul marciapiede.
– Ehi, levati un po’ di lí! – Il cane schizzò qualche altra goccia, poi, insieme all’altro, attraversò la strada. Sembrava quasi che stessero ridendo. Intanto lui spingeva il pelo avanti e indietro in mezzo ai denti.
– Bella giornata, non vi pare, eh? – chiese il padrone. Aprí la porta e tirò su le tendine.
Tutti si voltarono a guardare fuori e annuirono, sorridendo.
– Certo signore, proprio una bellissima giornata, – disse qualcuno.
– Troppo bella per stare a lavorare, – aggiunse un altro, mettendosi a ridere con i colleghi.
– Eh già, proprio cosí. Hai detto bene, – disse il capo. Poi, fischiettando e facendo tintinnare le chiavi, salí le scale per aprire il reparto dell’abbigliamento per ragazzi.
Piú tardi, quando lui era appena risalito dallo scantinato e stava concedendosi una piccola pausa nell’atrio per fumarsi una sigaretta, se ne arrivò il capo in camicia bianca a mezze maniche.
– Che caldo eh oggi?
– Eh sí –. Non aveva mai fatto caso a quanto fossero pelose le braccia del capo. Rimase seduto a stuzzicarsi i denti, lo sguardo fisso sui folti ciuffi di peli neri che crescevano tra le dita del capo.
– Scusi, signore, mi chiedevo... se non è possibile non fa niente, è chiaro, ma se fosse possibile, senza creare problemi a nessuno, cioè... vorrei andarmene a casa. Non mi sento tanto bene.
– Mmm... Be’, ce la possiamo fare lo stesso, è chiaro. Il problema non è questo, ovviamente –. Prese una lunga sorsata dalla Coca Cola che teneva in mano, continuando a guardarlo.
– Be’, allora non importa, signore. Cercherò di tener duro. Chiedevo solo cosí, tante volte...
– No, no, va bene, non c’è problema. Va’ pure a casa. Magari chiamami stasera, fammi sapere come ti senti –. Lanciò un’occhiata all’orologio e si finí la Coca Cola. – Le dieci e venticinque, diciamo le dieci e mezza. Va’ pure a casa, diciamo che hai staccato alle dieci e mezza.
In strada si allentò il colletto e cominciò a camminare. Era una strana sensazione andarsene in giro per la città con un pelo in bocca. Continuava a toccarlo con la lingua. Non guardava neanche in faccia le persone che incontrava. Dopo un po’ cominciò a sudare sotto le ascelle e sentiva il bagnato che gli si condensava tra i peli e veniva assorbito dalla maglietta. Ogni tanto si fermava davanti a qualche negozio e fissava la vetrina aprendo e chiudendo la bocca, rovistandoci dentro con un dito. Per tornare a casa fece la strada piú lunga, quella che passava per i giardini del Lions Club, dove si mise a guardare i bambini che sguazzavano nella piscinetta, poi pagò quindici cent a una vecchia per entrare nel piccolo zoo a guardare gli uccelli e gli altri animali. A un certo punto, dopo che era rimasto per un bel pezzo a fissare un lucertolone dell’Arizona da dietro il vetro, la creatura aprí un occhio e si mise a guardarlo. Lui si ritrasse subito dal terrario e continuò a girare per i giardini fino all’ora di tornare a casa.
Non aveva molta fame e a cena bevve solo del caffè. Dopo pochi sorsi ricominciò a far scorrere la lingua sul pelo. Si alzò da tavola.
– Tesoro, cosa c’è? – gli chiese la moglie. – Dove vai?
– Mi sa che mi metto a letto. Non mi sento tanto bene. Lei lo seguí in camera da letto e lo osservò mentre si spogliava. – Vuoi che ti prepari qualcosa? Forse dovrei chiamare il dottore. Almeno sapessi che ti succede.
– È tutto a posto. Fra poco starò meglio –. Si tirò le coperte fin sulle spalle e si voltò dall’altra parte, chiudendo gli occhi.
La moglie tirò le tende. – Sistemo un attimo la cucina, poi ritorno.
Stendersi lo fece sentir meglio. Si toccò la faccia, pensando di avere qualche linea di febbre. Si passò la lingua sulle labbra e poi ancora sull’estremità libera del pelo. Fu scosso da un brivido. Dopo pochi minuti s’appisolò ma si risvegliò di soprassalto ricordandosi che doveva chiamare il capo. Si alzò lentamente dal letto e andò in cucina.
La moglie era al lavandino che asciugava i piatti.
– Tesoro, credevo ti fossi addormentato. Ti senti meglio adesso?
Lui annuí, prese il telefono e chiamò il centralino. Mentre faceva il numero sentiva come un cattivo sapore in bocca.
– Pronto? Sí signore, sto un po’ meglio, credo. Volevo solo dirle che domani verrò a lavorare. Certo. Alle otto e mezzo spaccate.
Dopo che se ne fu tornato a letto, si ripassò la lingua sui denti. Magari era solo una cosa a cui doveva fare l’abitudine. Chi lo sa. Poco prima di addormentarsi, era quasi riuscito a non pensarci piú. Gli venne in mente il caldo che aveva fatto quel giorno e i bambini che sguazzavano nell’acqua... come cantavano gli uccelli quella mattina. Ma a un certo punto, durante la notte, lanciò un urlo e si svegliò tutto sudato, gli pareva di soffocare. – No, no, – continuava a ripetere, scalciando le coperte. Spaventò la moglie, che non sapeva che cosa gli stava succedendo.