BELLEZZA E TRISTEZZA
Kawabata Yasunari
Traduzione di Atsuko Suga
Dal groviglio di ombre e di ossessioni che scandiscono ogni storia d'amore, Kawabata tratteggia i personaggi di questo suo romanzo e li introduce in uno strano paesaggio sentimentale; Otoko e la sua bellissima e giovane allieva; un ragazzo ingenuo e appassionato; la moglie di Oki che ha sepolto nelle cure della casa tutto il suo carico di rancori e gelosie. In questa atmosfera grigia, crepuscolare, e quasi rassegnata, irrompe a un certo punto un'ondata di passione torbida e impetuosa. Ognuno dei personaggi appare dominato da un'idea ossessiva e su tutti incombe un presagio di tempesta...
Le campane di Kyoto 5
La primavera precoce 22
La festa del plenilunio 45
Il cielo piovoso 62
Il giardino di rocce 76
Il loto nelle fiamme 92
Le ciocche di capelli neri 116
Dimagrire d'estate 143
Il lago 160
Le campane di Kyoto
Le cinque poltrone girevoli erano allineate lungo i finestrini della vettura panoramica del rapido Tokyo-Kyoto. Toshio Ōki si era accorto che ad ogni movimento brusco del treno, una delle poltrone sul lato opposto, l'ultima della fila, prendeva a girare a vuoto. Le poltrone basse della fila in cui si trovava Ōki erano fisse.
Ōki era l'unico viaggiatore in quel vagone. Sprofondato nel sedile, guardava distratto la poltrona sull'altro lato, che continuava a girare su se stessa. Non che girasse sempre nella medesima direzione o con la medesima velocità. Accelerava, rallentava, si arrestava di tanto in tanto e a volte rimaneva completamente immobile per qualche minuto, poi riprendeva a girare nella direzione opposta. Guardando la poltrona che girava da sola nel vagone deserto, Ōki sentiva affiorare la solitudine stagnante in fondo al suo cuore, dove continuavano a fluttuare pensieri incerti.
Era il ventinove dicembre. L'anno stava per finire. Ōki aveva preso il treno perché voleva sentire il suono delle campane a Kyoto, nell'ultima notte dell'anno.
Da quando aveva preso l'abitudine di ascoltare le campane di fine anno alla radio? Sicuramente da quando era iniziata la trasmissione, diversi anni prima. Mentre la radio diffondeva il suono delle campane, il commentatore raccontava la storia di varie campane dei templi più famosi e antichi di tutto il Giappone. Col suono delle campane, l'anno vecchio se ne andava, e arrivava quello nuovo. A volte i commenti degeneravano in uno stile troppo manierato o sentimentale. Ma il suono delle campane echeggiava egualmente cupo e solenne a lunghi intervalli, trascinandosi dietro l'antica tristezza popolare. La radio alternava le campane dei templi del Nord a quelle dei templi del Sud, e terminava immancabilmente con le campane dei templi di Kyoto. Altre volte trasmettevano le campane dei templi di Kyoto, che riecheggiavano traversando l'aria della vecchia capitale.
Ogni anno, nell'ora in cui la radio trasmetteva il suono delle campane, sua moglie e sua figlia erano solite sfaccendare per la casa. Se non stavano ancora preparando il pranzo del giorno di capodanno, mettevano in ordine la casa, disponevano i fiori o preparavano i kimono da festa. Ōki ascoltava la radio, comodamente seduto nel soggiorno. Le campane gli riportavano al ricordo tutti gli avvenimenti dell'anno che stava per finire, e ne era commosso. La commozione era a volte violenta, a volte amara. I pensieri potevano anche essere dolorosi, o colmi di rimpianto. E anche se il tono sentimentale dell'annunciatore poteva dargli fastidio, il suono delle campane non mancava mai di toccarlo nel profondo del cuore. Aveva perciò a lungo sognato di trovarsi a Kyoto nella notte dell'ultimo dell'anno, invece di ascoltare per radio il suono delle vere campane dei templi antichi.
Il desiderio a un tratto si era trasformato in una decisione, e Ōki aveva preso il treno per Kyoto. In segreto carezzava l'idea di rivedere Otoko Ueno, e ascoltare le campane con lei. Non la rivedeva da tempo: da quando era andata a vivere a Kyoto, non ne aveva avuto più notizia. Otoko era diventata una pittrice di scuola tradizionale, di una certa fama. A quanto dicevano, era rimasta nubile.
Fu una decisione improvvisa; e Ōki, non amando sentirsi legato a una prenotazione d'un posto in treno, era salito alla stazione di Yokohama nella vettura panoramica del rapido. Le feste erano vicine e il treno poteva essere molto affollato. Tuttavia, Ōki conosceva bene il vecchio cameriere del rapido, che in qualche modo gli avrebbe procurato un posto.
Guardando la poltroncina che seguitava a girare da sola, Ōki stava riflettendo sul destino umano, quando arrivò il cameriere con una tazza di tè.
– Sono l'unico passeggero nel treno? – domandò Ōki.
– No, signore. In prima classe ci sono almeno cinque o sei passeggeri.
– Ci sarà molta gente il giorno di capodanno?
– Non credo, signore. Pensa di viaggiare il primo gennaio?
– Sì. Dovrò essere a casa almeno il primo giorno dell'anno, non le pare?
– Già, – osservò il cameriere. – Comunque, ne parlerò al mio collega. Io purtroppo non sarò di servizio quel giorno.
Ōki lo ringraziò.
Il cameriere se ne andò e Ōki, guardandosi attorno, si accorse di due valige di pelle bianca ai piedi dell'ultima poltrona. Erano valige piuttosto piatte, di nuovo modello. La pelle bianca di prima qualità, insolita per il Giappone, era leggermente maculata di un marrone pallidissimo. I proprietari delle valige dovevano essere americani e probabilmente erano andati al vagone ristorante.
Il treno correva in mezzo a un paesaggio di boschi anonimi: la fitta foschia fuori dei finestrini dava una sensazione di calore intimo. Sopra la foschia un vago chiarore illuminava le nuvole opache. La luce sembrava emanare dalla terra. Poi, il cielo si era schiarito e i raggi del sole arrivavano fino al pavimento della carrozza. Quando il treno costeggiò una pineta, si vide il terreno ricoperto di aghi finissimi. Le foglie di bambù erano ingiallite. Contro le rocce di un promontorio nero scrosciavano le onde luccicanti.
Poco dopo, due coppie di americani di mezza età tornarono dal vagone ristorante. Quando dal finestrino si cominciò a intravvedere il monte Fuji, presero a scattare fotografie. Ma quando la montagna apparve intiera, erano ormai stanchi di far fotografie e rivolsero le spalle al paesaggio.
La giornata d'inverno si oscurava rapidamente. Il treno passò sopra un fiume e gli occhi di Ōki serbarono dell'acqua grigia una sensazione fuggevole. Rialzando lo sguardo, vide che di fronte a lui tramontava il sole. Vide poi la striscia fredda e bianca dell'ultimo sole scaturire dall'orlo arcuato delle nuvole nere. La luce ancora indugiava quando, ad un tratto, l'intera fila delle poltroncine girevoli si mise a girare. Poi si fermarono tutte, mentre l'ultima della fila seguitava a muoversi a vuoto.
A Kyoto, Ōki si recò direttamente al Miyako Hotel. Progettava di dare un appuntamento a Otoko nell'albergo, e chiese una camera tranquilla. L'ascensore lo portò su per sei o sette piani, o così gli parve; ma poiché l'albergo era costruito lungo il pendio dei colli di Higashiyama all'est della città, il lungo percorso lo condusse soltanto al pianterreno. L'albergo non sembrava molto affollato. Ma dopo le dieci di sera, quando Ōki era già a letto, le due camere accanto alla sua d'un tratto si riempirono di gente. Dalle voci si capiva che erano stranieri. Ōki chiamò l'inserviente del piano.
– Sono due famiglie con dodici bambini in tutto, – gli fu detto. I dodici bambini gridavano senza ritegno. Visitavano le loro due camere e scorrazzavano schiamazzando nel corridoio.
Ōki si domandò quale necessità vi fosse di mettere gruppi di persone tanto chiassose proprio ai due lati della sua camera dato che l'albergo era quasi vuoto.
Gli parve soprattutto insopportabile sentire quei bambini che correvano nel corridoio. Infine si alzò.
Le voci straniere che riempivano le due camere attigue acuirono la solitudine di Ōki. Gli tornò in mente la poltroncina che seguitava a girare da sola nel treno deserto e adesso gli pareva di vedere la propria solitudine mettersi a girare a vuoto in fondo al suo cuore.
Aveva deciso di venire a Kyoto per sentire le campane e magari incontrare Otoko Ueno. Ma ora che si trovava in quella città si chiedeva quale fosse stato il vero scopo del suo viaggio. Le campane certo le avrebbe sentite, ma l'incontro con Otoko non era altrettanto certo. Di questa possibilità aveva voluto convincersi per darsi coraggio, ma ora si rendeva conto che non ne possedeva alcuna certezza. Quando aveva deciso di venire a Kyoto per sentire le campane insieme a Otoko, la cosa gli era parsa pienamente semplice. Ma tra Ōki e Otoko esisteva ormai un abisso di distanza, che tanti anni di lontananza avevano creato. Il fatto che Otoko non si fosse sposata poteva forse significare che avrebbe ancora accettato di rivedere il vecchio amico? Ōki si rendeva conto quanto fosse effimera la probabilità che quell'incontro si attuasse.
– La conosco bene, – si disse, pur sapendo benissimo che in verità ignorava come l'amica potesse essere divenuta diversa.
Sapeva che Otoko viveva ora in una casetta nel recinto di un tempio buddista, in compagnia di un'allieva. Un giorno Ōki aveva visto la sua fotografia in una rivista d'arte. Dall'immagine si capiva che la casa era una sorta di dépendance del tempio, con lo studio piuttosto ampio. Anche il giardino aveva un aspetto antico e dignitoso. Otoko era fotografata col pennello in mano, e chinava leggermente il capo. La fronte e il naso regolare erano inconfondibilmente suoi. La linea delle spalle era ancora snella. Alla vista della fotografia, prima ancora di assaporare la dolcezza dei ricordi lontani, il cuore gli si strinse al rimorso di aver strappato a quella donna la felicità di essere sposa e madre. Naturalmente il suo era un pensiero del tutto soggettivo. Per tutti gli altri, la fotografia era il semplice ritratto di una pittrice, che, trasferendosi a Kyoto, si era misteriosamente assimilata alla bellezza dell'antica capitale.
Ōki pensava di telefonare a Otoko il giorno seguente, se non proprio quella notte, o di andare senz'altro a casa sua. Ma la mattina dopo, quando si svegliò con i bambini sempre schiamazzanti nelle camere vicine, quel progetto gli sembrò troppo audace. Pensò allora di spedirle una lettera per espresso, ma quando si mise davanti alla scrivania, non sapeva come iniziare. Fissava lo spazio bianco della carta intestata dell'albergo, e si disse che poteva anche fare a meno di incontrarla. Ascolterò le campane e me ne andrò, si disse infine.
Era stato svegliato dal chiasso dei bambini, ma quando le due famiglie furono partite, Ōki si addormentò di nuovo ed erano quasi le undici quando si svegliò di nuovo.
Mentre si faceva svogliatamente il nodo alla cravatta, gli tornarono in mente ad un tratto le parole di Otoko. «Te lo faccio io, il nodo. Me lo lasci fare?» Erano state le prime parole pronunciate dalla ragazza di sedici anni, rivolte all'uomo che le aveva appena portato via la verginità. Ōki non aveva ancora aperto bocca. Non sapeva che dire. Le aveva stretto dolcemente le spalle e le aveva accarezzato i capelli, ma non era riuscito a sillabare una frase. Otoko si era sciolta dalle sue braccia e aveva cominciato a vestirsi. Ōki si era alzato, si era infilato la camicia e cercava di farsi il nodo della cravatta. Otoko lo osservava con gli occhi lucidi. Erano appena umidi, ma non proprio bagnati di lacrime. Ōki aveva evitato il suo sguardo. Pure quando l'aveva baciata poco prima, Otoko era rimasta con gli occhi aperti e Ōki aveva dovuto chiuderli sfiorando le palpebre con le labbra.
C'era qualcosa di tenero e infantile nella voce di Otoko, mentre si offriva di aiutarlo a fare il nodo alla cravatta. D'un tratto, Ōki si era sentito sollevato. Poteva quel gesto essere inteso come un gesto di perdono? O era in lei soltanto un voler evitare la realtà di ciò che era accaduto?
Ad ogni modo Ōki si era intenerito ai movimenti delle mani di Otoko che parevano trastullarsi con la cravatta, senza riuscire subito a fare il nodo.
– Lo sai fare? – aveva domandato Ōki.
– Penso di sì. L'ho visto fare a mio padre.
Suo padre era morto quando Otoko aveva dodici anni.
Ōki si era seduto. Prendendo Otoko sulle ginocchia, aveva sollevato il mento per renderle più semplice l'opera. Con il busto teso leggermente all'indietro, Otoko aveva fatto due o tre tentativi, e alzandosi in piedi, infine aveva detto:
– Ecco, bambino. Ti va bene così? – Guardava la cravatta con una mano su una spalla di Ōki, che si era alzato ed era andato davanti allo specchio: il nodo era perfetto.
Ōki si era passato nervosamente la mano sul volto madido di un sudore appiccicoso. Gli dava fastidio vedersi nello specchio, vedervi riflessa la propria immagine, poco dopo che aveva sverginato una ragazza così giovane. Vedendo poi nello specchio il volto della ragazza che gli si avvicinava, Ōki si era sentito trafitto dalla sua bellezza, così fresca e così innocente, senza alcuna traccia di ciò che le era accaduto poco prima. Stupito, Ōki si era voltato verso di lei. Era stato allora che Otoko, mettendogli una mano sulla spalla e posandogli leggermente il capo sul petto, aveva pronunciato la parola «bambino».
Ōki era rimasto esterrefatto nel sentirsi chiamare «bambino», lui che aveva trentun anni, da una ragazza che ne aveva sedici.
Erano passati ventiquattro anni da allora. Ōki aveva ora cinquantacinque anni. Otoko doveva averne compiuti quaranta. Dopo il bagno, Ōki accese la radio per sentire il bollettino del tempo. Secondo l'annunciatore, la temperatura a Kyoto, nella prima mattina, sarebbe scesa sotto zero. Finora l'inverno era stato mite, ed era stato previsto che dovesse mantenersi così per tutto il periodo delle feste.
Fece venire in camera la colazione, qualche fetta di pane tostato e caffè. Prenotò per la giornata una macchina con l'autista. Si sentiva ancora incerto se andare o no da Otoko, e perciò decise di fare una passeggiata nei dintorni di Arashiyama. Dal finestrino della macchina si vedevano le montagne basse al nord e all'ovest della città, alcune al sole e altre nell'ombra. I contorni delle montagne disegnavano curve leggere, ma il loro colore grigiastro era tipicamente invernale. Anche i raggi del sole che illuminavano le alture erano così pallidi che la luce sembrava quasi una luce crepuscolare. Ad Arashiyama, Ōki lasciò la macchina nei pressi del ponte Togetsu, ma senza traversare il ponte, salì la strada che costeggiava il fiume e conduceva al Parco.
Dalla primavera fino all'autunno, Arashiyama è una meta turistica molto popolare e il luogo è sempre molto affollato. Ma ora, nel penultimo giorno dell'anno, la strada completamente deserta rendeva quel luogo del tutto diverso dal solito. La vecchia montagna era immersa nel suo silenzio. L'acqua del fiume scorreva limpida. Un camion era fermo sul greto; vi stavano caricando il legname, portato sulle zattere dalle montagne circostanti. I tonfi secchi dei tronchi caricati sul camion si sentivano in distanza. Del monte Arashiyama, il versante sul fiume è quello più visitato dai turisti. Ma ora il sole batteva sull'altro versante e una striscia di luce si sprigionava da un lato della montagna, le cui falde scendevano lentamente verso il fiume.
Ōki pensava di pranzare da solo in tranquillità. Conosceva qualche ristorante nella zona. Ma quello vicino al ponte Togetsu era chiuso. Non c'era molto da stupirsi, perché di gente che venisse fino ad Arashiyama proprio il trenta di dicembre non ce ne doveva essere tanta. Camminando a passi lenti, Ōki salì la stradina lungo il fiume per andare a vedere l'altro ristorante, un piccolo locale di costruzione piuttosto vecchia. Anche quello era forse chiuso. D'altra parte, non c'era nessuna ragione per cui dovesse pranzare proprio ad Arashiyama. Una giovane cameriera del piccolo ristorante in cima agli scalini di pietra consumati dagli anni, gli disse seccamente che non c'era nessuno. Quanti anni erano passati, si domandò Ōki, da quando nella stagione dei germogli di bambù, aveva fatto una scorpacciata di quelle grosse fette tenerissime e cucinate a perfezione? Tornato di nuovo al ponte, questa volta prese a salire i bassi gradini che conducevano a un altro locale. Una vecchia che scopava le foglie secche, alla domanda di Ōki, rispose che il ristorante probabilmente era aperto.
Ōki si fermò accanto a lei e accennò alla meravigliosa quiete che vi regnava.
– Oh sì, – rispose, – a volte si possono sentire benissimo le voci delle persone che parlano sull'altra riva.
Il ristorante, mezzo sepolto nel bosco sul pendio in riva al fiume, aveva il tetto ricoperto di un alto strato di paglia diventata rossa per l'umidità, e questo dava all'edificio un aspetto piuttosto stagionato. Il sentiero che conduceva al ristorante era mezzo nascosto nel verde lussureggiante dei cespugli di bambù che lo fiancheggiavano. Al di là del tetto di paglia, si scorgevano quattro o cinque fusti alti di splendidi pini rossi. Lo fecero accomodare in una saletta appartata; pareva fosse l'unico cliente. Regnava un silenzio profondo. Attraverso il vetro delle porte scorrevoli, Ōki vide qualcosa di rosso: erano grappoli rossi di frutti di aoki. Nel cespuglio, c'era anche un'azalea fuori stagione. La vista era limitata dai folti cespugli di aoki e di bambù, pure questi all'ombra dei pini. Ma si vedeva ugualmente, di scorcio, l'acqua immobile del fiume, di un colore di giada azzurra. E come era ferma l'acqua, così pure ferma era tutta la montagna.
Ōki era seduto al kotatsu con i gomiti appoggiati sopra l'intelaiatura. Il carbone di legna nel braciere diffondeva un calore intenso. Si sentiva un cinguettio di uccelli. Il rumore del legname caricato sul camion echeggiava nella valle stretta. D'un tratto, gli sembrò di udire il debole pianto d'un neonato. A diciassette anni, Otoko nel settimo mese di gravidanza aveva partorito una creatura di Ōki. Era una bambina.
Non c'erano molte speranze che la piccola potesse sopravvivere, e non l'avevano portata alla giovane madre. Quando era morta, il medico aveva consigliato di non avvertire subito la puerpera.
– Signor Ōki, – aveva detto allora la madre di Otoko,
– glielo dica lei. Benché tanto giovane, Otoko ha voluto rischiare la vita per dare alla luce la bambina. Io non ho il coraggio di parlarle, sono sicura che scoppierei a piangere.
Nella confusione del parto, la collera e il rancore della madre di Otoko verso Ōki si erano temporaneamente acquetati. Otoko stava per partorire una creatura di Ōki, e alla madre il fatto che Ōki fosse un uomo sposato era apparso di poca importanza. Vedova e madre di figlia unica, probabilmente le mancava la forza di mantenere un atteggiamento severo. Quando aveva saputo che la figlia era incinta, la donna parve soccombere di fronte all'avvenimento, nonostante il suo temperamento forte, probabilmente più forte di quello della figlia. Bisognava farla partorire di nascosto e decidere come sistemare il nascituro. In quella situazione, non era forse Ōki la sola persona alla quale la madre poteva chiedere aiuto? Otoko aveva i nervi a fior di pelle per via della gravidanza e minacciava di uccidersi ogni volta che sua madre dava segno di voler giudicare duramente Ōki.
Quando Ōki tornò al suo capezzale, Otoko gli rivolse uno sguardo puro e pacato, lo sguardo consueto di una donna che da poco ha messo al mondo un bambino. Ma subito grosse lacrime le riempirono gli occhi limpidi e le caddero sulle guance, bagnando il cuscino. Ōki capì che lei aveva intuito tutto. Le lacrime scorrevano abbondanti e Ōki gliele asciugava con una mano. Afferrando quella mano Otoko si mise a singhiozzare. Un pianto soffocato ma violento la scosse con la veemenza dell'acqua che travolge una diga.
– È morta, vero? La mia bambina è morta… è morta…
– Così dicendo, Otoko si contorceva. Ōki cercò di calmarla premendo con le braccia le sue spalle contro il cuscino. Sotto il suo corpo, Ōki sentiva il piccolo seno della giovane madre turgido di latte.
Entrò in quel momento la madre che aveva aspettato fuori della porta, e chiamò la figlia. Ōki teneva ancora le braccia attorno a lei.
– Mi soffochi… Lasciami stare… – si affannò Otoko.
– Mi prometti di stare quieta? Non ti agiterai? – disse Ōki.
– No. Non mi agiterò…
Quando Ōki rallentò la stretta, Otoko ansimava e le sussultavano le spalle. Nuove lacrime le stillarono tra le palpebre.
– Mamma, la porti al crematorio? – domandò Otoko.
La madre non rispose.
– È proprio necessario anche se è così piccola? – Otoko mormorò appena.
Anche questa volta, la madre non disse nulla.
– Mi hai raccontato una volta che quando sono nata, avevo i capelli nerissimi, – disse Otoko a un tratto.
– È vero. Li avevi nerissimi, – disse la madre.
– Anche la mia bambina li aveva nerissimi? Mamma, puoi tagliarne una ciocca per me?
– Otoko, – disse la madre con un'aria costernata, – ne avrai subito un altro –. Poi rendendosi conto del peso di quelle parole, fece una smorfia come per inghiottire le parole inavvertitamente pronunciate, e si girò dall'altra parte.
La madre, e perfino Ōki, non avevano forse pregato segretamente che la creatura non venisse al mondo? Avevano portato Otoko in una piccola clinica squallida nella periferia di Tokyo. Ōki soffriva ora nel pensare che un'assistenza più adeguata in un ospedale migliore avrebbe forse salvato la vita alla bambina. Era stato prima Ōki ad accompagnare Otoko in quella clinica. La madre non aveva avuto il coraggio di venire. Il medico, dal volto arrossato dall'alcool, sembrava di mezza età. La giovane infermiera guardò Ōki con uno sguardo accusatorio. Otoko indossava un kimono di seta grezza color rosso acceso. Il kimono era ancora di foggia infantile.
Dopo ventitré anni, a Ōki tornò alla memoria l'immagine della creatura dai capelli corvini, nata prematura: fluttuava fra le piante e i cespugli invernali e lo fissava dal fondo dell'acqua azzurra del fiume. Ōki chiamò la cameriera. Non era certo una giornata da clienti, e perciò era più che comprensibile che lo facessero aspettare a lungo. Venne la cameriera, e, dopo avergli versato una tazza di tè bollente, si mise a chiacchierare cercando di distrarlo.
Mentre discorrevano del più e del meno, raccontò d'un uomo che, secondo lei, sarebbe stato ingannato da un tasso. Era stato trovato all'alba nel fiume; sguazzava e gridava aiuto. Gridava: «Aiuto!… Muoio!…» Era sotto il ponte Togetsu, dove l'acqua era molto bassa in quella stagione. Non gli sarebbe stato difficile raggiungere la riva, ma barcollava nell'acqua continuando a gridare aiuto. Lo portarono in salvo e quando si riebbe, raccontò di essersi smarrito in montagna verso le dieci di sera del giorno prima e di aver continuato a vagare tutta la notte come un sonnambulo senza rendersi conto di trovarsi nell'acqua.
La cameriera fu chiamata in cucina, poi ritornò con un piatto di pesci d'acqua dolce. Ōki centellinò lentamente la piccola quantità di sakè che aveva ordinato.
Uscendo dal ristorante, Ōki dette un'altra occhiata al tetto di paglia. In alcuni punti il tetto era ricoperto di muschio e in altri punti sembrava addirittura marcito, e Ōki lo trovò quasi elegante. Ma la padrona del ristorante si lamentò dicendo: – Vede? Per via degli alberi sopra, il tetto rimane sempre bagnato.
– Hanno rifatto il tetto meno di dieci anni fa, ma è già ridotto in questo stato, – spiegò la padrona. Nel cielo, sulla sinistra del tetto di paglia, si vedeva una mezza luna bianca. Erano le tre e mezzo. Sulla scalinata che scendeva verso la strada lungo il fiume, Ōki si fermò a guardare un martin pescatore sorvolare la superficie dell'acqua. Si distinguevano bene i colori delle sue ali.
Ōki salì su un taxi vicino al ponte Togetsu. Pensava di visitare il cimitero di Adashino. La foresta di steli tombali e le statue di Jizo nella luce invernale di crepuscolo gli avrebbero ricordato il senso dell'effimero. Ma quando all'imbocco della strada per il tempio Ghioji si accorse del buio che cominciava a calare nel sottobosco di bambù, decise di scendere dalla macchina e andare invece a piedi a Saihōji, il tempio del muschio, prima di tornare in albergo. Nel giardino del tempio, Ōki incrociò una coppia di giovani sposi, probabilmente in viaggio di nozze. Sulla fitta coltre di muschio erano sparsi gli aghi secchi dei pini in uno strato sottile, e le sagome degli alberi che si riflettevano nell'acqua procedevano a passo a passo mentre lui camminava. Infine, Ōki si diresse verso l'albergo, sotto i colli di Higashiyama che splendevano nella luce rosseggiante del tramonto.
Dopo un bagno caldo che gli diede benessere, Ōki cercò nell'elenco telefonico il numero di Ueno Otoko. Rispose una giovane voce di donna, probabilmente un'allieva di Otoko; e subito gliela passò.
– Pronto? – disse la voce.
– Qui parla Ōki.
Non vi fu risposta.
– Sono Ōki. Toshio Ōki, – ripeté.
– Oh. Da quanto tempo… – Nella voce e nel modo di parlare di Otoko si avvertivano le maniere di Kyoto. Ōki sul momento non sapeva che dire; e così decise di dir subito la cosa essenziale, per non metterla nell'imbarazzo.
– Sono venuto a Kyoto per sentire le campane dell'ultima notte dell'anno, – disse in fretta.
– Le campane? – domandò Otoko.
– Sì. Mi sarebbe piaciuto sentirle con te. Non veniva alcuna risposta e Ōki dovette ripetere la stessa domanda. Sempre non veniva risposta e il silenzio gli parve interminabile. Colta di sorpresa, Otoko doveva essere terribilmente sconcertata.
– Pronto? – ripeté Ōki.
– Sei qui a Kyoto da solo? – domandò Otoko.
– Sì. Sono solo.
Ci fu un'altra pausa di silenzio.
– Andrò a sentire le campane e tornerò a casa la mattina del giorno di capodanno. Sono venuto perché volevo sentire le campane con te. Ho raggiunto ormai una bella età. Quanti anni sono passati da quando ci siamo visti l'ultima volta? Tanti, davvero. Non avrei avuto il coraggio di telefonarti senza una scusa così pazza.
Dal lato di Otoko arrivava soltanto silenzio.
– Posso venire a prenderti domani? – rincalzò Ōki.
– No, – fu la risposta frettolosa. – Verrò io a prenderti. Alle otto… È troppo presto? Aspettami alle nove all'albergo. Prenoterò i posti in qualche locale.
Ōki aveva intenzione di cenare con Otoko in tutta tranquillità. Ma Otoko proponeva un incontro dopo cena. Eppure, Ōki era commosso che Otoko avesse accettato l'invito. L'immagine di Otoko prendeva ora contorni più chiari e vividi.
Il giorno dopo, dalla mattina fino alle nove di sera, le ore sembrarono interminabili. Ōki attese l'ora dell'appuntamento nella sua camera dell'albergo. Era l'ultimo giorno dell'anno e per questo il tempo sembrava trascorrere più lentamente. Ōki passò la giornata in ozio. Aveva qualche conoscente a Kyoto, ma poiché era la vigilia di capodanno e poiché inoltre doveva vedere Otoko la sera, non volle cercare nessuno. Non desiderava che si sapesse della sua presenza a Kyoto. Gli sarebbe piaciuto assaggiare qualche specialità di Kyoto, ma infine decise di cenare solo nello squallore del ristorante dell'albergo. Passò quindi immerso nei ricordi di Otoko l'ultima giornata dell'anno che cedeva il posto all'anno nuovo. La memoria dei tempi lontani gli ritornava e acquistava una freschezza che cresceva quanto più le ore passavano. Avvenimenti di più di vent'anni prima erano ora vivi come fossero accaduti ieri.
Dal punto dove stava seduto, nella camera dell'albergo, Ōki non vedeva la strada sotto la finestra. Vedeva invece al di là dei tetti delle case cittadine, i colli all'ovest di Kyoto. Paragonata a Tokyo, Kyoto è una piccola città dalla dimensione più umana. Non molto grande appare la distanza fra i due punti estremi della città. Lembi di nuvole che s'illuminavano di oro pallido, in un attimo scolorirono e si fecero di un gelido grigio. Era già buio. Che cosa sono i ricordi? Ōki si domandò. Che cos'era quel passato che gli appariva così prossimo? Quando Otoko si era trasferita a Kyoto con la madre, Ōki si era detto che tutto era finito ormai. Ma era stata davvero la fine della loro storia? Ōki aveva continuato a tormentarsi per aver rovinato la vita di Otoko, impedendole di sposarsi e di avere dei figli. In tutti quegli anni lei che era rimasta nubile, che cosa aveva pensato di lui? Ōki non conosceva un'altra donna di carattere più forte. Che i ricordi fossero tanto vividi ancora oggi, non significava forse che la loro storia non era ancora finita del tutto? Non era la prova che Otoko aveva continuato a vivere e tuttora viveva dentro di lui? Ōki era nato a Tokyo, ma quando si trovava di sera in mezzo alle strade illuminate di Kyoto, la città diventava come il suo paese natio. Kyoto poteva essere spiritualmente la città natale di tutti i giapponesi, ma per Ōki era la città dove viveva Otoko. Fece il bagno e si cambiò la biancheria e il vestito. Era irrequieto, nervoso, e continuava a camminare per la stanza gettando ogni tanto sguardi allo specchio per osservare la propria figura. Così attese Otoko.
Erano passati più di dieci minuti dalle otto e mezzo quando la portineria chiamò annunciando la signorina Ueno.
– Scendo subito. La preghi di aspettarmi nel lobby, – rispose Ōki, e si domandò se non sarebbe stato meglio pregarla di salire direttamente in camera.
Ma nel vasto lobby, non c'era Otoko. Una giovane gli venne incontro e domandò: – È lei il signor Ōki?
– Sì. Sono io, – rispose Ōki, sorpreso.
– Mi manda la signorina Ueno, – disse la ragazza.
– Oh, grazie… – disse Ōki fingendosi calmo. Era certo che Otoko sarebbe venuta di persona e si sentì terribilmente deluso. La chiara immagine di Otoko, che gli aveva tenuto compagnia tutto il giorno, di colpo si oscurò.
Fuori c'era una macchina con l'autista; ma Ōki, per qualche attimo, non riuscì ad aprir bocca. Infine chiese:
– Lei è forse un'allieva della signorina Ueno?
– Sì, signore.
– Vivete insieme? – domandò Ōki.
– Sì. Con un'altra donna che ci aiuta a sbrigare le faccende di casa.
– Lei, signorina, è di Kyoto?
– I miei sono di Tokyo; io sono venuta a Kyoto da sola, per diventare allieva della signorina Ueno. Ammiro tanto la sua pittura. E lei mi ha permesso di abitare in casa sua.
Ōki si voltò per guardare la ragazza in viso. Da quando gli era venuta incontro nel lobby dell'albergo, la sua bellezza l'aveva colpito. Ora, nella macchina la vedeva meglio. Aveva il collo flessuoso e delicato, un bel profilo dall'orecchio ben disegnato. I suoi tratti avevano qualcosa di luminoso, che quasi non si poteva fissare a lungo, come lo splendore d'un fiore. La sua voce era invece sommessa. Probabilmente si sentiva emozionata in presenza di Ōki. Sapeva forse di ciò che c'era stato tra Otoko e Ōki? A quei tempi, quella ragazza non era nata ancora, pensò Ōki.
– Si veste sempre in kimono? – domandò Ōki, accorgendosi subito della banalità della domanda.
– No, – rispose la ragazza. – A casa porto i pantaloni perché sono più comodi per lavorare, anche se so che non mi stanno bene. La maestra stasera mi ha aiutato a indossare il kimono da festa, perché, ha detto, mentre ascolteremo le campane, festeggeremo il capodanno.
La ragazza appariva ora più disinvolta. Dalle sue parole Ōki capì che la giovane non soltanto era stata mandata a prendere Ōki all'albergo, ma sarebbe rimasta con loro tutta la sera. Era chiaro che Otoko aveva voluto evitare di rimanere sola con Ōki.
La macchina attraversò il parco di Maruyama e si diresse verso il tempio Chion'in. Nella sala all'antica del ristorante Otoko lo aspettava con due maiko. Fu un'altra grande sorpresa per Ōki. Otoko era seduta al kotatsu con le ginocchia sotto la coperta, mentre le due giovani geishe si riscaldavano le mani a un braciere. La giovane allieva salutò Otoko con modi piuttosto cerimoniosi.
Vedendo arrivare Ōki, Otoko si staccò dal kotatsu; brevemente gli diede il benvenuto, e disse:
– Ho scelto questo posto perché sono sicura che le piacerà la campana di Chion'in. Qui al ristorante invece mi dicono che non hanno nulla di speciale stasera. Hanno già quasi chiuso ormai per le feste.
– Grazie lo stesso per il disturbo, – furono le sole parole che Ōki riuscì a mormorare. Otoko si era fatta accompagnare non soltanto dalla allieva, ma perfino da due geishe. Ōki doveva stare attento a non dir nulla che potesse tradire i loro antichi rapporti, a non mostrarlo neppure con l'espressione del volto. Dopo aver parlato con lui al telefono, il giorno avanti, Otoko doveva essere rimasta perplessa e un po' allarmata. Aveva perfino chiamato due geishe certo per non trovarsi sola con Ōki. In tutto questo bisognava leggere lo stato d'animo di Otoko nei suoi confronti? Ōki lo aveva intuito subito. Nello stesso tempo, però, ebbe la certezza di esser vivo ancora nel cuore di lei. Le altre donne nella sala non dovevano aver avvertito nulla. O forse sì. L'allieva abitava con lei; e le geishe, anche se molto giovani, sono creature dotate di un intuito addestrato a questa sorta di cose, vivendo nel quartiere del piacere. Eppure tutte e tre facevano finta di nulla.
Dopo avere offerto il posto a Ōki, Otoko fece sedere la sua allieva al posto di kotatsu di fronte a lui. Lei sedette invece tra le due geishe, così da non trovarsi di fronte a Ōki. La scelta era chiaramente intenzionale.
– Sakami, – Otoko chiamò l'allieva, – ti sei già presentata al signor Ōki? – La sua voce era leggera. Poi aggiunse: – Si chiama Keiko Sakami e abita con me. Non si direbbe dall'aspetto, ma è un po' pazza.
– Come? – ribatté la giovane allieva.
– A volte dipinge quadri astratti con un'intensità straordinaria. Mi sembra quasi di intravedervi una follia e nello stesso tempo mi incanta profondamente. Ne sono quasi invidiosa. Mi è capitato perfino di vederla tremare mentre dipingeva.
Arrivò una cameriera con il sakè e l'antipasto. Le giovani geishe si misero a versare il sakè agli ospiti.
– Non mi aspettavo di sentire le campane in un modo tanto elegante, – disse Ōki.
– Ho pensato che sarebbe stato bello sentirle in compagnia di persone giovani, – spiegò Otoko abbassando lo sguardo. – Le campane ci portano un anno di più e mi rendono molto triste. Mi chiedo tante volte come ho fatto a sopravvivere fino a oggi…
Le parole di Otoko ricondussero Ōki a due mesi dopo la morte della bambina: Otoko aveva tentato di uccidersi col sonnifero. Anche lei pensava ora a quel fatto? Avvertito dalla madre, Ōki accorse al suo capezzale. La madre aveva voluto che Otoko interrompesse la relazione con Ōki, ma era stata lei di nuovo a chiamarlo quando era accaduto l'incidente. Ōki rimase a casa loro a curare la malata. Le massaggiava le cosce indurite e gonfie per le punture. La madre andava e veniva tra la stanza della malata e la cucina, per cambiare le bende agli impacchi bollenti. Sotto il kimono da notte, Otoko era completamente nuda. A diciassette anni, le sue gambe erano ancora snelle, e il gonfiore provocato dalle punture le aveva deformate in modo grottesco. Le mani di Ōki a volte scivolavano tra le sue gambe. Una perdita le sporcava le cosce e Ōki, nell'assenza della madre, gliela pulì. Qualche lacrima le bagnò le gambe, mentre Ōki amaramente si doleva della propria colpa, per averla fatta tanto soffrire. Ad ogni costo la riporterò alla vita, non la lascerò mai più: Ōki si ripeté più volte nel cuore. Era una specie di preghiera disperata. Le labbra di Otoko erano diventate bluastre.
Si udivano i singhiozzi della madre. Ōki la trovò in cucina, accoccolata a terra di fronte al fornello.
– Morirà… Morirà… – si ripeteva la madre.
– Anche dovesse, – Ōki disse parlando a fatica, – lei le ha voluto tanto bene. Ha fatto tutto quello che ha potuto.
La madre gli strinse la mano e disse: – Anche lei, signor Ōki…
Per tre giorni, senza mai lasciarla, Ōki era rimasto accanto al suo letto. Il terzo giorno, Otoko riaprì gli occhi. Tornò in sé, ma aveva lo sguardo stravolto, si torceva e si lamentava farneticando e cercando di graffiarsi. E scorgendo Ōki disse: – No, no. Vai via. Vai via da me.
Due medici avevano fatto di tutto per salvarla, ma Ōki amava pensare d'averla salvata con la propria dedizione. La madre non aveva raccontato a
Otoko quanto Ōki avesse fatto per lei in quei giorni. Ōki se lo ricordava bene ancora oggi… Più che del suo corpo nei momenti dell'amplesso, Ōki ricordava l'immagine delle sue cosce che aveva continuato a massaggiare mentre Otoko era tra la vita e la morte. Dopo più di vent'anni, mentre aspettava le campane della fine dell'anno nel tepore del kotatsu, Ōki rivedeva quell'immagine con chiarezza.
Otoko continuava a vuotare le coppe di sakè offerte dalle geishe e da Ōki. Pareva abituata a bere. Una delle geishe disse che press'a poco si calcolava durassero un'ora i cento e otto rintocchi rituali delle campane. Entrambe le maiko vestivano un kimono da città, e non quello abituale e sontuoso da banchetti. Nemmeno i loro obi erano fasciati nel modo tipico, pur essendo di ottima qualità e a disegni giovanili. Portavano una acconciatura semplice con pettini, senza i soliti ciondoli fioriti. Entrambe sembravano conoscere bene Otoko, ma ciò nonostante Ōki si meravigliava nel vederle vestite in modo tanto informale. Con un po' di sakè nelle vene, e mentre ascoltava le geishe che parlavano del più e del meno tra loro in quel dialetto lento e antiquato di Kyoto, Ōki cominciò a sentirsi più disteso.
Aveva avuto ragione Otoko a sistemare le cose in quel modo. Certo l'aveva fatto per evitare di rimanere sola con Ōki, ma probabilmente era anche per dissipare, con la presenza di persone estranee, l'impaccio dell'incontro in quei primi istanti. E tuttavia, trovandosi nella stessa stanza con lei, Ōki sentì rifluire tra loro il sentimento di un tempo. Si udì il primo rintocco della campana del Chion'in.
Ascoltarono tutti in silenzio. La campana antica aveva un suono leggermente roco, ma il rimbombo si trascinò a lungo diffondendosi poi nell'aria. Vi fu un altro rintocco. Il campanile doveva essere molto vicino.
– Siamo troppo vicino alla campana, – disse Otoko. – Una mia amica ha saputo del mio desiderio di sentire la campana del Chion'in e subito mi ha consigliato questo posto. Ma non sarebbe stato forse meglio sentirla da una distanza maggiore? Magari dalla riva del fiume Kamo, per esempio… – Il discorso era chiaramente rivolto a Ōki e all'allieva.
Ōki andò alla finestra e scostò uno shoji. Vide che il campanile si trovava in un angolo del recinto proprio sotto la finestra.
– Siamo proprio vicino, – disse Ōki. – Si vede la persona che sta suonando.
– Sì, è troppo vicino, – ripeté Otoko.
– Non fa niente, – disse Ōki. – È bello sentire la campana da vicino, perché io l'ho sentita sempre e solo attraverso la radio.
Era vero però che la vicinanza levava al suono una certa poesia.
Ōki chiuse lo shoji e tornò al suo posto davanti al kotatsu. Quando si abituò al suono della campana, la delusione del primo momento svanì. Il suono della campana celebre e antica sembrava scaturire dalla profonda energia d'un mondo lontano.
Dopo aver sentito le campane, Ōki si recò con la compagnia al vicino tempio shintoista di Gion per la rituale preghiera del capodanno. Per strada incrociò gente che camminava scuotendo i bastoncini dai quali penzolava una cordicella dalla punta accesa. Era il fuoco sacro del tempio, col quale si accendeva il primo fuoco del fornello a casa per cuocere la zuppa della festa di capodanno. Si trattava di una vecchia usanza dei cittadini di Kyoto.
La primavera precoce
Il viola del tramonto incantò Toshio Ōki, che rimase estasiato in cima alla collina. Aveva terminato da poco una puntata del romanzo che stava scrivendo per un giornale della sera. Vi aveva lavorato tutto il pomeriggio ed era uscito per una passeggiata. La sua casa si trovava su una collina a Kita Kamakura. Il rosso del tramonto saliva alto nel cielo a occidente. Il viola della foschia sembrava quasi una striscia di nuvole tanta era l'intensità del suo colore. Raramente il tramonto prendeva quel colore. Almeno così parve a Ōki. Nella striscia orizzontale si percepiva una graduale sfumatura nel viola, come una pennellata sulla seta bagnata. La dolcezza morbida del colore indicava l'approssimarsi della primavera. In un punto solo il viola si schiariva in rosa, rivelando la presenza del sole nascosto.
Ōki ricordò il tramonto che l'aveva affascinato nel viaggio di ritorno da Kyoto. Alla luce del tramonto, i binari splendevano di una luce color rosso cupo. Così rilucenti, i binari si perdevano all'orizzonte. Da un lato della ferrovia era l'oceano. Dopo una curva alle falde di una montagna, quel rosso d'improvviso si spense. Il treno si era infilato in una vallata e a un tratto era caduta la sera. Il rosso cupo dei binari aveva ricordato a Ōki le ore passate in compagnia di Otoko. Per sentire la campana, Otoko si era fatta accompagnare dalla sua allieva, Keiko Sakami, e da giovani geishe. Certo aveva così voluto evitare di trovarsi sola con Ōki; ma a lui questo fatto era servito solo a constatare la realtà della propria presenza nel cuore di Otoko. Dopo la visita al tempio a Gion, percorsero la via del Shijō. Nella folla si trovavano anche giovanotti ubriachi, alcuni dei quali, vedendo le giovani geishe, allungarono le mani per toccare le loro acconciature. Era una cosa insolita per Kyoto. Ōki dovette camminare difendendo con le mani le due giovani geishe. Otoko e l'allieva lo seguivano a poca distanza.
Salito sul rapido per Tokyo a mezzogiorno del primo gennaio, Ōki si aspettava segretamente che Otoko lo venisse a salutare. Sapeva che era molto improbabile, ma non riusciva ad abbandonare questa speranza. Alla stazione venne invece Keiko.
– Buon anno, signor Ōki, – salutò Keiko. – La signorina si scusa di non poter venire a salutarla. Ogni anno, nel giorno di capodanno, fa le sue visite. Poi a mezzogiorno ha ospiti a casa. Così è dovuta uscire di prima mattina. Mi ha detto di salutarla da parte sua e chiederle di perdonarla.
– Oh, la ringrazio d'essere venuta… – balbettò Ōki. Non c'era molta gente sui binari il primo gennaio, ma alla bellezza di Keiko la gente che c'era si voltava a guardare.
– Spero di non averle causato troppo disturbo, signorina, – continuò Ōki. – È dovuta venire a prendermi all'albergo, l'ultimo dell'anno, e ora di nuovo è dovuta venire alla stazione. Grazie.
– Non c'è di che, – disse Keiko.
Keiko portava lo stesso kimono della sera prima. Sulla seta lucente di un pallidissimo azzurro, erano disegnati uccelli in volo fra fiocchi di neve. Gli uccelli erano colorati, ma il tono del kimono era piuttosto spento per una ragazza giovane com'era Keiko. I colori erano troppo tenui per un kimono da festa.
– È un kimono stupendo. L'ha forse disegnato la signorina Ueno? – domandò Ōki.
– No, – rispose Keiko. – L'ho disegnato io. Ma non è venuto proprio come l'avevo in mente Così dicendo, Keiko arrossì. I toni tenui del kimono tuttavia mettevano in risalto i tratti perfetti del suo volto, e rendevano più vivace la sua espressione. L'accostamento dei colori, anziché il movimento degli uccelli, accentuavano la freschezza del disegno astratto. I fiocchi di neve sparsi parevano danzare nello spazio.
Keiko gli offerse alcuni pacchetti che contenevano delle specialità di Kyoto, ovvero qualche dolcetto e verdura sotto sale. Disse che glieli mandava Otoko.
– E questo è il suo pranzo, – e Keiko gli dette un altro pacchetto.
Per qualche minuto, Keiko rimase in piedi accanto al finestrino. Ōki vedeva soltanto la parte superiore del suo corpo, e di nuovo fu affascinato dalla sua bellezza. Sta vivendo un momento di piena fioritura della sua vita, pensò. Ōki non aveva visto Otoko a quell'età. Gliel'avevano portata via quando aveva diciassette anni, e l'aveva rivista soltanto il giorno prima, a quarant'anni passati.
Benché fosse ancora presto per l'ora di cena, Ōki aprì il pacchetto del pranzo verso le quattro e mezzo. Alle solite specialità del giorno di capodanno, Otoko aveva aggiunto qualche pallina di riso. Erano palline minuscole e ben formate. Ōki vi lesse il calore di un cuore femminile. Otoko aveva preparato lei stessa quel pranzetto, si disse Ōki, per l'uomo che un tempo aveva travolto la sua adolescenza. Masticando il riso, Ōki si sentiva penetrare nel corpo il perdono di Otoko. No, non può essere perdono, pensò Ōki, è amore. L'amore continuava a vivere nel profondo del suo cuore. Ōki ignorava totalmente che specie di vita Otoko avesse condotto da quando era stata portata di forza da sua madre a Kyoto. Sapeva solo che era diventata una pittrice ed era rimasta nubile. Poteva aver amato qualcuno o essere stata amata. Ma una cosa era certa. La ragazza aveva rischiato la vita per amore di Ōki.
Anche lui aveva avuto qualche episodio con donne, dopo la sua relazione con Otoko. Ma non aveva mai amato un'altra con tanto dolore come aveva amato Otoko.
Il riso era ottimo. Chi sa da dove veniva quel riso? Il riso del Kansai… Divagando sul pranzetto, Ōki mise in bocca l'una dopo l'altra le minuscole palline di riso. Il sapore era giusto, né troppo salato né troppo dolce.
A diciassette anni, Otoko aveva già conosciuto l'amarezza di un parto prematuro, poi di un tentativo di suicidio. E due mesi dopo, l'avevano rinchiusa nella stanza di un manicomio, con le sbarre alle finestre. La notizia fu comunicata a Ōki dalla madre, la quale, tuttavia, non gli permetteva di vederla.
– Se vuole, può vederla da lontano, dal corridoio. Ma per favore, non le deve parlare… – disse. – Non voglio che la veda in queste condizioni. Se la vede, rimarrà sconvolto.
– Mi riconoscerà? – domandò Ōki.
– Senz'altro, sì… È stata causa sua se Otoko è diventata così.
Ōki non sapeva che rispondere. La madre riprese:
– Però pare che non si tratti di un vero e proprio caso di pazzia. I medici della clinica mi consolano dicendo che questo stato durerà solo qualche tempo. Otoko tiene spesso le braccia in questo modo –. E la madre fece il gesto di chi culla un bambino nel braccio. – Pensa alla sua bambina. Quanto mi fa pena.
Otoko lasciò la clinica dopo tre mesi. La madre venne a trovare Ōki.
– So che lei ha moglie e anche un bambino, – disse la madre. – Anche Otoko lo sapeva fin dall'inizio. Sono pienamente consapevole di dirle una cosa del tutto insensata. Lei penserà che sono pazza a dire una cosa simile… Signor Ōki, non potrebbe sposarla? – Mentre parlava, le tremavano le spalle. – Non potrebbe sposare Otoko? – ripeté.
Detto questo, la madre chinò il capo con gli occhi pieni di lacrime. Stringeva forte i denti.
– Ci ho pensato anch'io, – rispose Ōki angosciato. L'incidente aveva sconvolto anche la famiglia di Ōki. Sua moglie Fumiko aveva allora ventiquattro anni. – Ci ho pensato a lungo e ripetutamente.
– Come non detto, – disse la madre vedendo che la risposta di Ōki era negativa. – Può considerare quello che ho detto la proposta di una donna che ha perso il senno, proprio come sua figlia. Non glielo chiederò più. Non intendevo chiederle di sposarla subito. Fra due o tre anni, fra cinque o anche sette anni. Otoko aspetterà. So che aspetterà anche se non le dicessi niente. È ancora una studentessa di diciassette anni…
Dall'intensità delle sue parole, Ōki pensò che Otoko aveva ereditato dalla madre il suo carattere forte.
Senza attendere un anno, la madre vendette la casa di Tokyo e si stabilì a Kyoto. Otoko frequentò la scuola media in quella città, poi studiò in un istituto superiore di belle arti.
Erano passati più di vent'anni da allora. Ōki assaporava i cibi squisiti del pranzetto preparato da Otoko, ammirando in ogni boccone la lunga tradizione culinaria di Kyoto. Anche all'albergo, per colazione, avevano servito la rituale zuppa del mattino di capodanno. Ma il sapore della festa pareva trovarsi concentrato in quel pranzetto. A casa sua, a Kita Kamakura, sua moglie doveva aver preparato le specialità del capodanno, senza dubbio in uno stile un po' occidentalizzato, come si vede nelle pagine illustrate delle riviste femminili.
Otoko, che faceva la pittrice a Kyoto, città tradizionale, aveva certo dei doveri mondani, come aveva detto Keiko, nel giorno di capodanno. Pure non sarebbe stato impossibile trovare dieci o quindici minuti per venire a salutarlo alla stazione. Ma con la stessa accortezza con cui aveva evitato di rimanere sola con lui per sentire le campane, aveva mandato alla stazione l'allieva. Ma anche se non aveva potuto, la sera prima, parlarle dei tempi passati, a causa della presenza di altre persone, Ōki aveva avuto la certezza che i loro sentimenti di una volta erano rimasti intatti nell'uno e nell'altra. Quei cibi ne confermavano la verità.
Quando il treno stava per partire, Ōki cercò di salutare Keiko battendo sul vetro con la palma della mano. Si accorse subito che lei non sentiva nulla, e quindi alzò un poco il vetro e disse:
– Grazie di essere venuta fin qui in un giorno festivo. Penso che lei ritorni a Tokyo qualche volta, per rivedere i suoi. Venga pure a trovarmi a casa. Kita Kamakura non è molto grande. Chieda della mia casa quando scende dal treno, la troverà subito. Sarei contento anche di vedere le sue opere. Me ne mandi alcune di quelle astratte, che, secondo la signorina Otoko, sanno di pazzia.
– Oh, mi vergognerei, – rispose Keiko. – Chi sa perché la signorina Otoko le ha detto una cosa del genere Per un attimo, Ōki pensò di aver scorto una luce bizzarra brillare nei suoi occhi.
– Non c'è nulla da vergognarsi. Penso che la signorina l'ha detto perché non è più capace di dipingere opere simili.
La sosta del treno fu brevissima, e così fu anche la durata della loro conversazione.
Ōki aveva scritto anche romanzi di fantasia, ma non aveva mai scritto di quei romanzi che oggi vengono chiamati astratti. Le parole, i caratteri, possono essere considerati astratti o come simboli quando si staccano dalla realtà quotidiana. Ma Ōki aveva cercato quasi sempre di sopprimere in se stesso la capacità o la tendenza al cosiddetto astrattismo. Leggeva con piacere opere della scuola simbolista francese o poesie del Shin Kokin o haikai. Ma il suo metodo era piuttosto di servirsi delle parole astratte o simboliche per esprimere oggetti o fatti concreti o realistici. Era convinto che attraverso il realismo sarebbe approdato un giorno a qualche forma di simbolismo o astrattismo.
Che rapporto aveva, d'altra parte, la Otoko descritta nelle parole di Ōki e la Otoko della realtà? La verità si trovava molto probabilmente in un punto irraggiungibile a ognuno.
Tra i romanzi di Ōki, quello che aveva avuto il successo più duraturo si basava sulla storia d'amore tra lui e la giovane Otoko. Il romanzo aveva compromesso la reputazione di Otoko, e il pubblico la guardava con occhi curiosi. Era evidente che tutto questo aveva diminuito, per Otoko, la possibilità di sposarsi. Tuttavia stranamente, vent'anni dopo che il romanzo era uscito, come modello del romanzo Otoko aveva ispirato grande simpatia al pubblico.
O forse era più esatto dire che il pubblico amava Otoko come personaggio del romanzo, piuttosto che la Otoko reale da cui il romanzo era stato tratto. Il romanzo non era una confessione di Otoko, ma era Otoko nell'interpretazione di Ōki. Alla vera Otoko si erano aggiunte l'immaginazione poetica e la finzione, creazioni del romanziere Ōki. C'era senza dubbio anche l'effetto dell'arte. Ma pur sopprimendo ogni parte sovrapposta dal romanziere, sarebbe stato difficile affermare se fosse più vera una Otoko raccontata da se stessa o la Otoko ricreata da Ōki.
Con tutto ciò, comunque, la giovane protagonista del romanzo era inconfondibilmente Otoko. Senza quell'amore nato tra Ōki e Otoko, non sarebbe mai nato il romanzo. E la ragione per cui l'opera veniva letta ancora dopo vent'anni, almeno in parte era la presenza di Otoko. Senza dubbio l'incontro con Otoko aveva dato un felice inizio alla sua carriera di scrittore.
Ōki aveva intitolato il romanzo La sedicenne. Il titolo era piuttosto comune, privo di ogni arte. Vent'anni prima, la storia d'una studentessa di sedici anni che aveva una relazione con un uomo sposato, e abortiva e impazziva, se pure per un breve periodo, formava un argomento pienamente inconsueto. Ma Ōki non si era mai reso conto di questa singolarità. E naturalmente non lo aveva descritto come un fatto fuori del comune. Mai l'aveva osservato con sguardo curioso. Come dimostrava la banalità del titolo, l'atteggiamento dell'autore era rimasto schietto e quasi ingenuo in tutto il romanzo, e Otoko vi era descritta come una ragazza pura e appassionata. Ōki aveva cercato di mettere in risalto la sua purezza perfino descrivendo il suo volto, i suoi gesti e la sua figura. Vi aveva riversato tutta la forza del proprio amore giovanile. Queste erano senz'altro le ragioni essenziali che spiegavano la lunga popolarità dell'opera. Per creare la storia di un amore doloroso tra una ragazza e un uomo che aveva moglie e un bambino, Ōki aveva dato un forte risalto alla bellezza del loro rapporto, badando poco al lato moralistico.
Nel periodo in cui Ōki s'incontrava di nascosto con lei, una volta l'aveva colpito una frase di Otoko:
– Tu sei sempre preoccupato di far male a questa o a quella persona. Dovresti comportarti con più audacia.
Gli era parso che quelle parole lo toccassero nel suo punto debole.
– Sono abbastanza sfacciato, – rispose Ōki. – Non lo capisci dal modo come mi comporto ora con te?
– Non parlo dei nostri rapporti, – disse Otoko, e poiché Ōki non le rispondeva, continuò: – Dovresti vivere più per te stesso.
Sul momento, Ōki non seppe rispondere; rimase pensieroso, mentre le parole di Otoko gli si scolpivano nella memoria. Il fatto che una ragazza di sedici anni appena avesse intuito con tanta perspicacia il suo temperamento e il suo modo di vivere, gli parve straordinario. Era così perché lo amava, concluse. Da allora, anche dopo che si furono lasciati, quando Ōki sentiva di preoccuparsi troppo dei giudizi altrui, ricordava le parole di Otoko. Rammentava Otoko mentre le pronunciava.
Otoko doveva essersi accorta che alle sue parole, le mani di Ōki si erano fermate smettendo di accarezzarla. Posò la testa sul braccio di Ōki e tacque per qualche istante. Poi gli morse il gomito stringendo i denti sempre più forte. Nonostante il dolore, Ōki non mosse il braccio e rimase immobile. Le lacrime di Otoko gli bagnarono il braccio.
– Mi fai male, – disse infine Ōki e la staccò da sé afferrandole una ciocca di capelli. I denti di Otoko gli avevano lasciato dei segni sulla pelle. C'era una traccia di sangue. Leccandogli la ferita, Otoko gli domandò:
– Dài un morso anche a me?
Ōki guardò il braccio di Otoko, accarezzandola dal polso alla spalla. Era il braccio d'una bambina. La baciò sulla spalla. Otoko disse che le faceva il solletico, e si svincolò.
Se Ōki aveva scritto quel romanzo, non era stato certo soltanto per mostrarsi obbediente alle parole di Otoko, che gli aveva detto di vivere di più per se stesso. Ma quelle parole gli erano tornate spesso alla mente mentre scriveva. L'opera fu terminata due anni dopo la fine della sua relazione con Otoko, la quale viveva ormai a Kyoto con la madre. L'idea di trasferirsi a Kyoto doveva essere venuta alla madre quando aveva capito che Ōki non aveva nessuna intenzione di sposare Otoko. Forse erano diventate insopportabili per lei la tristezza e l'angoscia che provava per sé e per l'unica figlia. Che cosa avevano provato Otoko e la madre, leggendo il romanzo di Ōki a Kyoto? Che cosa avevano pensato vedendo crescere la popolarità del romanzo e del suo autore, mentre si spargeva la voce che il modello della protagonista era Otoko?
All'inizio, di chi fosse il modello del romanzo non si era preoccupato nessuno. L'autore era giovane e appena esordiente. L'identità di Otoko come modello del romanzo fu scoperta molti anni dopo, quando la fama di Ōki aveva ormai raggiunto una certa importanza e alcuni avevano cominciato a indagare le vicende della sua vita. La madre di Otoko era già morta. Il fatto che Otoko fosse una pittrice nota stimolò la curiosità della gente. Alcune riviste pubblicarono anche fotografie di Otoko, facendo notare che era stata il modello del romanzo. Da parte sua, ben inteso, Otoko mai avrebbe concesso di lasciar pubblicare la propria immagine come protagonista del romanzo. Ōki immaginò che si trattasse di un sopruso dell'editore. Otoko non aveva mai pubblicato nulla che rivelasse l'identità del modello. Neppure quando il libro era uscito, Ōki aveva ricevuto segni di vita da Otoko o dalla madre di lei.
Una complicazione, forse più che prevedibile, era sorta invece nella famiglia di Ōki. Prima di sposarsi, sua moglie Fumiko aveva lavorato in un'agenzia giornalistica come dattilografa. Ōki affidò alla giovane sposa il compito di battere a macchina il manoscritto. Era stato anche una sorta di gioco tra i giovani sposi. Ma esisteva anche un'altra ragione. Quando aveva visto i suoi primi racconti pubblicati su riviste, Ōki si era meravigliato dell'impressione diversa che faceva lo scritto a mano e lo scritto stampato. Con l'abitudine, si acquista la capacità di capire, leggendo uno scritto a penna, come sarebbe quando fosse stampato. E inconsciamente si arriva a scrivere e a leggere i propri manoscritti immaginandoli già stampati. Perfino i passaggi che appaiono insignificanti o perfino confusi nel manoscritto, possono diventare concisi e ragionevoli quando siano stampati. A questo punto, possiamo dire di aver imparato il mestiere.
Ōki consigliava spesso agli scrittori esordienti di cercare di vedere stampati i propri scritti. – Capirete la differenza tra un manoscritto e un'opera stampata, – diceva loro. Era necessario imparare questo mestiere, finché la forma stampata rimane il mezzo per pubblicare le opere letterarie. Ma Ōki aveva avuto anche delle esperienze nel senso del tutto contrario.
Aveva sempre letto la Storia di Genji nei testi critici o nel formato del libro tascabile, cioè nella forma stampata. Ma una volta gli era capitato di prendere in mano una copia settecentesca del famoso testo in xilografia della Storia di Genji, commentata da Kitamura Kigin. Ōki rimase stupito di fronte all'impressione drasticamente diversa tra i testi stampati e il manoscritto. Si chiese allora che impressione avrebbe avuto a leggere lo stesso romanzo in uno di quei manoscritti in calligrafia elegantissima del secolo XI. D'altra parte, la Storia di Genji, che ha già quasi mille anni di vita, era, al momento della creazione, un romanzo indiscutibilmente contemporaneo. Gli studi sulla Storia di Genji possono progredire di giorno in giorno, ma non potremo mai più leggerlo come un romanzo contemporaneo. Eppure, leggendolo in una copia xilografica, il fascino del libro era incomparabilmente maggiore. Lo stesso potrà dirsi delle poesie antiche, per esempio, i frammenti dei manoscritti delle poesie dell'antologia Kokinshu del X secolo, attribuita alla mano di Kino Tsurayuki. Ōki cercò di leggere nei testi xilografici le opere di Ihara Saikaku, la cui data di pubblicazione risale al XVII secolo. Non lo faceva per un gusto nostalgico, ma solo per capire più direttamente il vero spirito dell'originale. Tuttavia non si poteva applicare la stessa teoria ai manoscritti degli autori contemporanei. A meno che non lo si faccia per snobismo, le opere di oggi vanno lette stampate, e non già nell'insipida forma di uno scritto a mano, con la penna stilografica.
Nel periodo in cui Ōki si era sposato, per lui non esisteva più una grande differenza tra un manoscritto e lo stampato. Ma dato che Fumiko aveva lavorato come dattilografa, le chiese di battere a macchina i suoi manoscritti. L'impressione che dà la pagina dattilografata di un manoscritto è molto più vicina a quella stampata. Ōki sapeva anche che nei paesi occidentali i manoscritti letterari sono in genere dattilografati direttamente, o copiati a macchina almeno nell'ultima stesura. Ma le opere di Ōki, quando erano dattilografate, diventavano ancora più insipide e piatte dei suoi manoscritti a penna. La copia dattilografata aveva tuttavia un pregio: correggerla era più semplice. Quindi era diventato il compito di Fumiko ribattere a macchina i manoscritti di Ōki.
Nel momento in cui occorreva far ribattere il romanzo La sedicenne, questa abitudine rischiò di spezzarsi. Farlo copiare alla moglie significava darle dolore e umiliazione. Quando Otoko aveva sedici anni, sua moglie ne aveva ventitré ed era madre di un bambino. Aveva già intuito la relazione di suo marito con Otoko e una volta era andata via di casa di notte e aveva vagato sui binari della ferrovia, col bambino sulla schiena. Tornò un paio di ore dopo, ma non si decideva a entrare in casa e rimaneva appoggiata contro un albero di susino nel giardino. Ōki era andato fuori per cercarla, e la trovò nel giardino che singhiozzava.
– Cosa fai? Non capisci che il bambino prenderà un raffreddore, – la sgridò. Era la metà di marzo e l'aria era ancora fredda. Il bambino si prese veramente un brutto raffreddore e fu ricoverato all'ospedale. Fumiko rimase all'ospedale col bambino.
– Se dovesse morire il bambino, tu sarai felice, – soleva dire Fumiko in quei giorni – Perché sarà più facile per te, dopo, divorziare da me Ōki approfittò dell'assenza della moglie per incontrarsi con Otoko. Il bambino guarì.
La notizia della morte della bambina di Otoko fu scoperta dalla moglie per via di una lettera della madre di Otoko, spedita dalla clinica. Del fatto che una ragazza di quell'età fosse incinta non c'era da meravigliarsi. Ma per Fumiko fu un colpo terribile. Insultò il marito chiamandolo demonio, e mentre inveiva contro di lui, si era morsa la lingua. Vedendo un filo di sangue uscirle dalle labbra, Ōki cercò di aprirle a forza la bocca. Fumiko si sentì soffocare e fu colta da conati di vomito. Alla fine rimase quasi priva di sensi. Ōki si guardò le mani e vide che i denti della moglie vi avevano lasciato segni e che sanguinavano. Alla vista del sangue, la moglie si calmò un poco e gli lavò e fasciò la mano.
Fumiko venne a sapere anche che Otoko, dopo aver lasciato Ōki, si era fatta portare a Kyoto dalla madre. Il romanzo fu scritto dopo la sua partenza. Chiedere alla moglie di copiare il manoscritto sarebbe servito solo a riaprire di nuovo le vecchie ferite della gelosia e a procurare nuove sofferenze alla moglie. Nello stesso tempo, se avesse portato il manoscritto all'editore senza prima averlo dato da leggere a lei, avrebbe situato un segreto fra se stesso e la moglie. Dopo aver considerato la faccenda a lungo, Ōki si fece coraggio e diede il manoscritto alla moglie. Fumiko, prima di mettersi a copiarlo pagina a pagina, l'aveva letto per intero. Era più forte di lei.
– Sarebbe stato meglio se me ne fossi andata via io, – disse Fumiko facendosi pallida, dopo la lettura. – Chi sa perché non ci ho pensato. Tutti i lettori proveranno compassione per Otoko.
– Non volevo scrivere di te, Fumiko, – Ōki cercò di spiegarsi.
– Naturalmente. Io non sono all'altezza della tua donna ideale.
– Non volevo dir questo.
– Io semplicemente ero pazza di gelosia.
– Otoko è ormai uscita dalla mia vita, mentre io e te, Fumiko, dobbiamo vivere insieme nel resto dell'esistenza. Poi ci sono invenzioni, nella Otoko del romanzo; è diversa dalla Otoko della realtà. Per esempio, io nella realtà non so nulla di lei, riguardo al periodo che era malata di mente.
– Appunto, potevi inventare perché le vuoi bene.
– Hai ragione. Altrimenti non avrei scritto nulla, – disse Ōki con franchezza. – Pensi di poterlo ugualmente ribattere a macchina? So che questo ti costerà molto.
– Lo farò. La macchina da scrivere non sente nulla, e diventerò la sua schiava.
Com'era comprensibile, Fumiko non poteva soffocare interamente la propria sensibilità. Le accadeva di sbagliare più spesso del solito; Ōki sentiva un rumore di carta stracciata. A volte la macchina da scrivere si fermava, ed egli udiva un singhiozzo sommesso. A volte Fumiko era colta da conati di vomito. La casa era piccola, e accanto allo studio – ma poteva chiamarsi uno studio quella stanzetta angusta e squallida, larga sei tatami? – c'era una stanza di quattro tatami, che serviva di soggiorno: qui, in un angolo, lavorava Fumiko. Perciò dallo studio egli sentiva ogni movimento di Fumiko e non riusciva a concentrarsi.
Tuttavia da allora, Fumiko del romanzo non parlò più. Tesa nello sforzo di diventare un puro strumento della macchina da scrivere, evitava di parlarne. Il romanzo era lungo circa trecentocinquanta cartelle. Ma conoscendo l'abituale velocità con cui lavorava Fumiko, – era stata, prima di sposarsi, una dattilografa di professione – Ōki s'accorgeva che quel lavoro procedeva con estrema lentezza. E intanto il viso di lei si faceva ogni giorno più pallido e affilato. I suoi occhi avevano ora un'espressione dura e febbrile, ed egli a volte la sorprendeva con lo sguardo fisso nel vuoto. Stava sulla macchina da scrivere, come allucinata; infine, una sera, s'accasciò a terra vomitando un liquido giallastro. Ōki le massaggiò la schiena.
– Portami un po' d'acqua, – disse Fumiko ansimando. Gli occhi pieni di lacrime erano cerchiati di rosso.
– Perdonami. Non avrei dovuto chiederti di battere questo romanzo, – disse Ōki. – Non volevo pubblicarlo di nascosto a te… – Ōki era convinto che, se l'avesse fatto, nei loro rapporti si sarebbe creata una ferita inguaribile, o forse questo avrebbe spezzato i loro rapporti per sempre.
– Ti ringrazio per avermelo chiesto, – disse Fumiko cercando di abbozzare un debole sorriso. – Sono soltanto sfinita, perché è la prima volta che copio un testo così lungo.
– La lunghezza prolunga anche la tua sofferenza. Un brutto mestiere, davvero, essere la moglie di uno scrittore.
– Il tuo romanzo mi aiuta a conoscerti a fondo; e questa conoscenza accresce in me terribilmente l'angoscia. Ma nello stesso tempo non posso fare a meno di pensare che per te è stata una fortuna averla incontrata.
– Ricordati, – ribatté Ōki, – che la Otoko del romanzo è idealizzata.
– Lo so. Una ragazza del genere non esiste nella realtà. Avrei voluto, però, che tu nel romanzo avessi scritto di più su di me. Non importava se mi descrivevi come una moglie terribile, pazza di gelosia. Una megera, insomma.
– Non sei mai stata una moglie così, – disse Ōki, costernato.
– Perché non sai leggere nel mio cuore.
– Uhm. Soprattutto non volevo mettere in mostra le vicende private della nostra famiglia.
– Non mentire, – incalzò Fumiko. – Eri così infatuato di Otoko che volevi scrivere solo di lei. Devi aver pensato che la mia presenza nel romanzo poteva nuocere alla bellezza di Otoko. Non è così? Ma sei sicuro che i romanzi debbano mirare a tanta purezza?
Ōki aveva capito che la moglie, già pazza di gelosia, era doppiamente offesa per non essere stata scelta come protagonista del romanzo. C'era, sì, qualche riferimento alla sua gelosia. Con la franchezza, secondo Ōki, si otteneva un'efficacia maggiore. Tuttavia Fumiko sembrava offesa perché non era stata descritta con più particolari. Pensava forse che, a confronto di Otoko, appariva di poco peso? Pensava di essere stata ignorata? Erano problemi psicologici troppo complessi per Ōki. Il tema principale della Sedicenne era l'amore infecondo tra Ōki e Otoko, ed era dunque più che naturale che lo spazio dedicato alla moglie fosse molto più limitato che non quello dedicato a Otoko. Molti fatti erano inventati, ma in verità c'erano passaggi che rivelavano particolari da lui tenuti nascosti alla moglie. Ōki aveva soprattutto temuto di offendere la moglie con queste rivelazioni. E lei invece sembrava essenzialmente offesa dal fatto che non le era lasciato, nel romanzo, uno spazio maggiore.
– Non mi piaceva raccontare di Otoko attraverso la tua gelosia, – disse infine Ōki.
– Ho capito, – replicò Fumiko. – Vuoi dire che non puoi scrivere di qualcuno par cui non provi amore… e neppure odio… Mi chiedo perché non ho avuto la prontezza di spirito di lasciarti… – Stai dicendo un'altra sciocchezza.
– Parlo sul serio. Il non averti lasciato è stato il mio errore più grave. Dovrò continuare a portare questo peso tutta la vita.
– Non parlare in questo modo –. Così dicendo, Ōki le afferrò la spalla con forza, e la scosse. Colta da una nuova ondata di malessere, Fumiko riprese a vomitare quel liquido giallo. Ōki ritrasse le mani, rimanendo in silenzio. – Lasciami stare. Può darsi che io sia incinta, – disse Fumiko.
– Cosa? – Ōki fu preso da un profondo sgomento. Fumiko si coperse il viso con le due mani e scoppiò in un pianto dirotto.
– Se è così, – disse Ōki, – dovresti stare attenta. Non voglio che tu continui a battere quel romanzo.
– No. Non voglio smettere. Devo batterlo io. Mi resta poco, ormai. Si tratta soltanto d'un lavoro manuale.
Fumiko non volle ascoltare Ōki e proseguì con ostinazione. Abortì pochi giorni dopo che aveva finito. Non era stata la fatica fisica a causare l'aborto, ma la ferita che il contenuto del romanzo le aveva provocato. Fumiko rimase a letto a casa; una dottoressa veniva a curarla. Le erano caduti dei capelli, pareva; li teneva ora semplicemente legati in due trecce. Erano capelli neri, folti e lisci. Si truccava appena, col rossetto soltanto. Poiché non metteva cipria, maggior risalto aveva la pelle liscia del viso smunto. Era giovane e sana, e l'aborto non provocò alcuna complicazione.
Ōki mise in un cassetto La sedicenne e ve lo lasciò. Non lo distrusse, ma prima che lo rileggesse passò molto tempo. A causa di quel romanzo, due vite erano andate perdute: il parto prematuro di Otoko e l'aborto di Fumiko.
A Ōki parve che il romanzo portasse sfortuna. Per qualche tempo, marito e moglie evitarono ogni minimo accenno. Fumiko ne parlò per prima.
– Perché non pubblichi quel romanzo? – gli chiese un giorno. – Per non darmi un dispiacere? Ho capito qual è destino di una donna che ha sposato un romanziere. La vittima, caso mai, è Otoko.
Fumiko si era ristabilita completamente dopo l'aborto; e anzi la sua carnagione si era fatta più luminosa. Era forse un miracolo, originato dalla giovinezza? A Ōki pareva che lo cercasse ora con più desiderio. In lei si era risvegliata la donna.
Nei giorni in cui il romanzo veniva pubblicato, Fumiko era di nuovo incinta.
La sedicenne ebbe dai critici un'accoglienza calorosa. Ancor di più fu amato dai lettori. Fumiko non aveva certo dimenticato i momenti della gelosia e del dolore, ma non ne parlava più e appariva felice del successo ottenuto dal marito. Da allora, il romanzo si era venduto sempre, e ancor oggi La sedicenne era considerata una delle opere migliori del periodo giovanile di Ōki, e ai lettori seguitava a piacere. Il romanzo pagò abiti a Fumiko, le procurò dei gioielli, e perfino fu d'aiuto ai figli nelle spese scolastiche. Probabilmente Fumiko non pensava più alla realtà d'una ragazza di nome Otoko, né al fatto che il successo del romanzo era dovuto all'amore sventurato tra suo marito e quella ragazza. Pareva che i denari che le arrivavano dalle vendite del romanzo, lei li considerasse un merito del marito. O almeno Ōki aveva l'impressione che non fosse più una tragedia per Fumiko, l'amore tragico fra lui e Otoko.
Non che Ōki si ribellasse a questo pensiero, ma a volte ne era profondamente colpito. Otoko, pur avendo così gran peso nel romanzo dov'era modellata la sua figura, non ricevette mai alcun compenso. Non una parola di protesta giunse mai né da lei né dalla madre. Poiché non si trattava d'un'opera d'arte figurativa, soltanto nell'anima di Otoko il romanzo penetrava con i suoi mezzi particolari. I lineamenti del volto erano alquanto idealizzati, o ricreati con l'immaginazione e secondo i gusti personali di Ōki. E tuttavia quella donna era innegabilmente Otoko. Travolto dalla passione del suo amore giovanile, Ōki non aveva pensato al danno che avrebbe potuto causare alla vita di Otoko, ragazza ancora nubile. Ma senza dubbio quella sincerità, che per i lettori rappresentava l'attrattiva essenziale, era stata anche di ostacolo ad un suo eventuale matrimonio. A Ōki il romanzo diede fama e agiatezza. La gelosia di Fumiko pareva ormai placata e le sue ferite rimarginate.
C'era inoltre una differenza fondamentale tra il parto prematuro di Otoko e l'aborto di Fumiko. Senza alcuna complicazione, Fumiko mise al mondo una bambina. Solo il romanzo rimase così come era stato scritto allora e gli anni passarono. Ōki era contento di non aver descritto la gelosia di Fumiko in ogni particolare: ne era contento per la sua famiglia. Quello certo era il punto debole del romanzo, ma forse lo rendeva meno aspro e rendeva il personaggio di Otoko più amabile.
Dopo vent'anni, il romanzo veniva citato come l'opera più rappresentativa di Ōki. Come artista, Ōki considerava il fatto piuttosto imbarazzante. Ne era anche rattristato. Probabilmente la spontaneità d'uno stile giovanile costituiva la freschezza dell'opera. Comunque, se l'autore si fosse opposto a quei giudizi, non sarebbe mutata l'opinione della gente, sostenuta da una critica ormai consolidata. Il romanzo viveva una sua vita indipendente dall'autore.
Che cosa era accaduto di Otoko, che a quei tempi era una ragazza di sedici, diciassette anni? Di quando in quando a Ōki tornava il pensiero di lei, gettando zone d'ombra nella sua vita. Di lei sapeva soltanto che si era trasferita a Kyoto con la madre. Il pensiero di Otoko, in un certo senso, fu tenuto in vita dalla lunga popolarità del romanzo.
Soltanto di recente il nome di Otoko come pittrice aveva cominciato a farsi strada. Fin allora non c'era stato alcuno scambio di notizie tra loro due. Ōki credeva vagamente che Otoko si fosse sposata e conducesse una vita tranquilla. Era ciò che aveva desiderato per lei. Qualcosa tuttavia gli suggeriva che col suo carattere Otoko non era adatta a una vita di famiglia.
Ma cercò di respingere tale idea, che poteva essere una prova del suo amore tuttora vivo per Otoko.
La notizia che Otoko si era affermata come pittrice, quindi, era stata per lui un colpo terribile. Egli non aveva modo di sapere quali sofferenze, quanti momenti dolorosi avesse dovuto attraversare Otoko prima di farsi un nome come pittrice. Tuttavia qualcosa a quella notizia lo fece trasalire di gioia. E il suo cuore fremette quando, per la prima volta, ebbe l'occasione di vedere una sua opera in una galleria d'arte. Si trattava d'una mostra collettiva, e il suo quadro si trovava fra quadri di altri artisti. Rappresentava un fiore di peonia. Era un unico fiore rosso, visto di fronte e dipinto su seta. Il fiore, la cui dimensione era maggiore di quella reale, aveva pochissime foglie ed era accompagnato da un bocciolo bianco nella parte inferiore del quadro. In quel fiore sproporzionatamente grande, Ōki lesse la fierezza e la nobiltà d'animo di Otoko. Lo comprò subito, pur sapendo benissimo di non poterlo portare a casa. Il quadro era firmato. Lo regalò quindi al circolo degli scrittori. Sulla parete del salone del circolo, il quadro fece tutt'altra impressione. L'immenso fiore rosso di peonia appariva con un che di ammaliante e una luce solitaria sembrava emanare dal fondo del calice. In quei giorni, su una rivista femminile, uscì una fotografia di Otoko nel suo studio.
Sentire le campane dell'ultima notte dell'anno era stato per lungo tempo un sogno di Ōki. Ma l'immagine della peonia gli diede ora l'idea di sentire le campane in compagnia di Otoko.
Kita Kamakura viene chiamato anche Yama no uchi, cioè «Il posto tra i monti». Una strada unisce l'altura del nord a quella del sud, e la zona è ricca di alberi da fiore. Tra non molto, anche quest'anno, i fiori lungo la strada avrebbero annunciato il ritorno della primavera. Ōki aveva preso l'abitudine di passeggiare dal colle del nord al colle del sud. Sull'altura del sud, si fermò ad ammirare il tramonto.
Il viola del tramonto svanì presto, e il cielo prese un colore gelido, di un azzurro grigiastro. La primavera alle soglie pareva retrocedere cedendo di nuovo il posto all'inverno. Da poco era calato il sole, lasciando un punto roseo nel cielo, dietro la foschia. D'un tratto Ōki sentì freddo, e scendendo dal colle del sud, si affrettò verso la sua casa sopra il colle settentrionale.
– È stata qui una certa signorina Sakami di Kyoto, – gli annunciò la moglie. – Ti ha portato due quadri, insieme a qualche specialità di Kyoto.
– È andata via? – domandò Ōki.
– È uscita con Taichiro. Forse sono andati a cercarti.
– Oh.
– Una donna di una bellezza impressionante. Chi è? – Parlando, la moglie non staccava lo sguardo da Ōki, il quale cercò disperatamente di simulare tranquillità. Eppure capiva che la moglie aveva già intuito, con la sua perspicacia femminile, che la ragazza era in qualche modo connessa a Otoko Ueno.
– Dove hai messo i quadri? – domandò Ōki.
– Li ho portati nello studio. Non li ho guardati però, – fu la risposta secca della moglie.
Keiko Sakami gli aveva portato i suoi quadri per tener fede alla promessa fatta alla stazione di Kyoto. I due quadri erano incorniciati in modo sommario. Uno di essi rappresentava un unico fiore di susino. Stranamente il fiore aveva una dimensione paragonabile alla testa di un bambino. Non c'erano né i rami né il tronco. Non solo, ma il fiore era composto di petali rossi e bianchi, e i petali rossi erano dipinti in due toni diversi di rosso.
Nonostante la sua dimensione, il fiore in sé non aveva subito nessuna deformazione e perciò non dava, nell'insieme, un'impressione decorativa. Ōki intuì di trovarsi di fronte a una mente misteriosa, che dondolava in un movimento lieve. Il fiore dava davvero quell'impressione di movimento. Dipendeva forse dallo sfondo? si domandò Ōki. A prima vista esso appariva uno strato di ghiaccio sparso in mille frantumi. Osservandolo con più attenzione, però, poteva rappresentare una catena di montagne nevose. Poiché non si trattava di un quadro realistico, aveva poca importanza decidersi tra il ghiaccio e le montagne, ma l'idea delle montagne era più convincente, a giudicare dal senso di vastità che trasmetteva lo sfondo. Non esistevano in realtà, è vero, montagne così frastagliate o con linee che si restringevano così verso il basso, ma anche a questo non si doveva troppo far caso, trattandosi di un quadro astratto. Esso non rappresentava forse né le montagne nevose né il ghiaccio, ma semplicemente un paesaggio interiore dell'artista Keiko. Il bianco, poi, non era quello freddo della neve. Il senso di gelo e il senso di calore della neve si fondevano nel quadro come una musica. E altri colori, quasi in coro, allietavano il quadro sovrapponendosi al candore della neve. Stranamente, la varietà dei colori ammassati in un solo fiore di susino, dava il senso sia del gelo sia del calore, a seconda dello stato d'animo di chi lo guardava. Trapelava nel fiore soprattutto la freschezza della giovane età dell'artista. Era chiaro che Keiko aveva dipinto il quadro apposta per Ōki, fedele al tema tradizionale della stagione. Il fiore di susino si faceva riconoscere come tale e quindi si doveva forse parlare di un quadro astratto solo per metà.
Mentre guardava il quadro, Ōki si rammentò del vecchio susino nel suo giardino. Il giardiniere che veniva ogni tanto lo chiamava un susino bastardo, dicendo che si trattava di uno scherzo della natura. Ōki non aveva mai indagato a fondo, fidandosi più o meno della conoscenza del giardiniere in materia di botanica. Il vecchio susino del suo giardino, infatti, portava in un unico albero fiori rossi e bianchi. Pur non avendo mai subito innesti, l'albero fioriva in due colori contemporaneamente. Tuttavia ciò non accadeva in ogni ramo. Alcuni rami portavano solo fiori bianchi, e altri solo fiori rossi. Ma la maggior parte dei rami più sottili aveva insieme fiori rossi e bianchi. Per di più, non erano ogni anno gli stessi rami ad aver fiori di colore diverso. Ōki amava il vecchio susino, di cui cominciavano a schiudersi i primi boccioli in quei giorni.
Era evidente che Keiko Sakami aveva ritratto in quell'unico fiore proprio il vecchio susino. Otoko doveva aver parlato a Keiko di quell'albero. Ōki era già sposato quando frequentava la giovane Otoko, e perciò lei non era mai stata in casa sua. Ma Ōki probabilmente le aveva descritto l'albero, anche se ora non lo ricordava affatto, e Otoko non se n'era dimenticato e certo ne aveva parlato a Keiko. Le aveva forse parlato anche del suo tragico amore di una volta?
– L'ha dipinto Otoko? – Fumiko gli stava alle spalle. Tanto assorto nel quadro, Ōki non si era accorto della presenza di sua moglie. – È di Otoko, vero? – insisté la moglie.
– Non credo. Non può dipingere in un modo così giovanile. L'ha dipinto la ragazza che è stata qui poco fa. Non vedi che è firmato con il suo nome?
– Che strano quadro. – La voce di Fumiko aveva un tono duro.
Sono d'accordo, – disse Ōki cercando di esprimersi con gentilezza. – Oggigiorno perfino i pittori di scuole tradizionali dipingono queste cose.
– Sarebbe un quadro astratto?
– Non completamente, direi. Ma quasi sì…
– L'altro quadro è ancora più strano, – osservò la moglie. – Non si capisce bene se sono pesci o nuvole. Lo chiamerei «Quadro dai colori in libertà». Sembra fatto strisciando i pennelli sopra la tela –. Fumiko si era inginocchiata dietro Ōki.
– Uhm. Pesci e nuvole sono due cose molto diverse. Non si tratta forse né di pesci né di nuvole, – disse Ōki.
– Cosa sono, allora? – incalzò la moglie.
– Quello che vuoi. Pesci o nuvole, come si vuole.
Ōki girò il quadro e lesse il titolo sul dorso: Senza titolo.
Non raffigurava infatti nessun oggetto concreto, mentre i colori usati erano ancora più forti di quelli del quadro del susino. Era stata indubbiamente la presenza delle strisce orizzontali a suggerire a Fumiko l'impressione, o piuttosto l'interpretazione, benché un po' forzata, dei pesci o delle nuvole. A guardarlo così, non si notava la presenza di alcun ordine nell'uso dei colori. C'era invece una vivacità espressiva, qualità che si trovava raramente nella pittura di tipo tradizionale. Naturalmente, non si trattava di nulla di casuale. Le parole «Senza titolo» evidentemente si proponevano di consentire ogni libertà di interpretazione, o trasmettere liberamente la vera intenzione dell'artista, in apparenza nascosta. Ōki cercava nel quadro il punto centrale, intorno al quale tutto era stato costruito, quando la moglie lo interrogò bruscamente:
– Che specie di rapporto ha con Otoko, quella ragazza?
– È la sua allieva. Vive con lei.
– Ho capito. Mi permetti di stracciare e bruciare questi quadri? – disse Fumiko.
– Non dire sciocchezze, – ribatté Ōki. – Ti rendi conto di quello che stai dicendo?
Non hai capito niente, – disse Fumiko. – Entrambi i quadri rappresentano Otoko. Non posso tenerli in casa mia.
Ōki non s'aspettava simili parole. Esterrefatto di fronte all'intuizione fulminea della gelosia femminile, disse fingendo calma:
– Puoi spiegarmi perché questi quadri rappresentano Otoko?
– Non capisci davvero? – domandò Fumiko nervosamente.
– È una tua ossessione. I tuoi sospetti ti fanno vedere la coda dove il diavolo non c'è, – disse Ōki; ma sentiva accendersi in fondo al suo cuore una fiamma che lentamente s'alzava.
Ora che Fumiko l'aveva espresso in parole, fu chiaro che il quadro del susino rappresentava l'amore di Otoko per Ōki. Anche il quadro Senza titolo poteva nascondere i sentimenti profondi di Otoko per Ōki. In questo quadro Keiko aveva usato i colori minerali. In un punto in basso a sinistra, c'era uno spazio dove l'artista aveva usato una tecnica di sfumature, applicando i colori sulla tela bagnata. In mezzo a quella zona sfumata c'era un'area luminosa simile a una finestra, attraverso la quale pareva di scorgere l'anima del quadro. Poteva apparire come l'espressione dell'amore ancor sempre vivo di Otoko per Ōki.
– Ma tu ti rendi conto che questi quadri non sono stati dipinti da Otoko, ma dalla sua allieva? – disse Ōki.
Fumiko sospettava che suo marito fosse andato a Kyoto per sentire le campane in compagnia di Otoko. Lì per lì, non aveva detto nulla. Probabilmente aveva voluto evitare una discussione per scaramanzia, perché il suo ritorno coincideva col primo giorno dell'anno.
– Comunque non mi piacciono questi quadri, – disse Fumiko nervosamente. – Non posso tenerli in casa mia.
– Il problema non è se ti piacciono o non ti piacciono. Sono opere di un'artista, anche se si tratta di una ragazza giovane. Abbiamo forse il diritto di rovinargliele? E poi sei sicura che intende darcele in regalo e che non voglia invece soltanto che le guardiamo?
Fumiko non rispose.
È stato Taichiro ad andare ad aprire, – disse infine. – Deve averla accompagnata alla stazione. Però tarda molto per essere andato solo fino alla stazione.
Ōki capì che la moglie era nervosa anche per questo. La stazione era vicina e il treno partiva ogni quarto d'ora.
– Non cercherà mica adesso di sedurre Taichiro? Era una ragazza veramente stupenda, quasi ammaliante.
Ōki accomodò i due quadri l'uno sopra l'altro, e incartandoli come prima, disse:
– Non adoperare parole del genere. Sedurre è una parola grossa, e non mi piace che tu la usi in questo modo. Se la ragazza è stupenda come dici tu, perché non puoi pensare a questi quadri come una specie di suoi autoritratti? Narcisismo di ragazza e nient'altro.
– Non può essere. Questi ritraggono Otoko e nessun'altra, – fu la risposta decisa di Fumiko.
– Uhm. Se è come dici tu, può darsi che Otoko e la ragazza si amino da lesbiche.
– Lesbiche? – Fumiko parve scossa. – Sono lesbiche quelle due?
– Non lo so. Ma non mi meraviglierei se lo fossero. Sono due donne che vivono insieme in un vecchio tempio di Kyoto, e tutte e due sono dotate di un temperamento follemente passionale.
L'idea dei rapporti lesbici certamente sconvolse Fumiko, che dopo un attimo di silenzio disse:
– Ammettiamo che siano lesbiche. Ma ciò non cambia nulla nel fatto che i quadri rappresentano l'amore ancor sempre vivo di Otoko per te.
Ora Fumiko era di nuovo calma. Ōki si vergognò di aver avanzato un'idea di quella specie, anche se l'aveva avanzata soltanto per scansare l'attacco della moglie.
– Siamo tutti e due vittime di fantasie troppo vivaci. Abbiamo guardato i quadri con un mucchio di preconcetti.
– La colpa è stata di lei che ha dipinto in modo tanto ambiguo, – protestò Fumiko.
Un quadro, per quanto sia realistico, rivela sempre i sentimenti e le intenzioni segrete del pittore. Ma Ōki non voleva entrare ora in una discussione sui problemi estetici con la moglie. Capiva che sarebbe stata una vigliaccheria. Probabilmente era giusta la prima impressione della moglie. Poi quella sua idea dell'amore lesbico, benché l'avesse improvvisata lì per lì, non gli pareva del tutto infondata.
Fumiko se ne andò in cucina.
Taichiro era lettore di letteratura giapponese in una università privata. Nei giorni in cui non aveva lezioni, o andava al suo studio all'università o restava a casa a leggere. Poiché il suo primitivo desiderio di studiare letteratura moderna era stato contrastato dal padre, aveva finito con lo specializzarsi in letteratura medievale di epoca Kamakura e Muromachi. Sapeva leggere l'inglese, il francese e il tedesco, e ciò gli procurava una posizione abbastanza singolare tra gli studiosi di letteratura giapponese. Aveva molte doti ed era anche intelligente, ma di carattere piuttosto sottomesso e tendente alla malinconia. Era l'opposto della sorella Kumiko, una ragazza allegra, che riusciva a metter mano a ogni cosa. Era abile nei lavori a maglia, nel disporre i fiori e in tante altre cose, benché facesse tutto in modo piuttosto superficiale. Kumiko a volte proponeva a Taichiro di andare a sciare o a pattinare, ma il fratello non ne voleva sapere. Kumiko lo giudicava uno stravagante. Portava a casa i suoi studenti, ma alla sorella nemmeno li presentava. Fumiko si intratteneva volentieri con gli studenti di Taichiro, e a volte con tale cordialità che Kumiko ne era invidiosa, benché il suo malumore non durasse mai a lungo.
– Quando arrivano a casa i suoi amici, Taichiro al massimo chiede che la cameriera porti una tazza di tè all'inizio, e nient'altro. Kumiko invece, in occasioni del genere, viene in cucina, fruga nei frigorifero e nella credenza, ordina cibi al telefono e mette sottosopra tutta la casa… – Così la madre spesso commentava i figli. E Kumiko replicava ridendo: – Tu devi capire che gli ospiti di Taichiro sono soltanto i suoi studenti.
Kumiko si era sposata e viveva col marito a Londra. Scriveva a casa sì e no un paio di volte all'anno. Taichiro, con il suo stipendio, non poteva ancora mettere su casa e non aveva mai parlato di matrimonio.
Taichiro era andato ad accompagnare Keiko Sakami e tardava a rincasare. Anche Ōki cominciò a sentirsi preoccupato.
Guardava fuori attraverso il vetro della piccola finestra del suo studio. Sotto la collina dietro la casa, c'era una montagnola coperta di erbe alte. In mezzo alle erbe erano fioriti piccoli fiori azzurri. Le sagome minuscole delle piante erano quasi invisibili, e solo l'azzurro spiccava tra le erbe. A parte le dafni, quei fiori azzurri erano i primi fiori della stagione nel giardino di Ōki E la fioritura durava a lungo.
Ōki non sapeva il nome di quei fiori. Erano troppo modesti per esser chiamati i primi messaggeri della primavera. Erano così vicino alla finestra dello studio, che Ōki pensava spesso di scendere nel giardino e guardarli più da vicino. Benché non l'avesse mai fatto, il suo affetto per quei fiori anonimi cresceva sempre di più.
Con un po' di ritardo, fiorivano in mezzo all'erba anche i denti di leone. Anch'essi avevano una lunga fioritura. Ora, nella luce del crepuscolo, fluttuavano ancora il giallo dei denti di leone e l'azzurro dei fiorellini anonimi.
Ōki restò a contemplarli a lungo.
Taichiro non era ancora tornato.
La festa del plenilunio
Otoko Ueno aveva intenzione di andare a vedere la festa del plenilunio al monte Kurama, insieme con la sua allieva Keiko. La festa si celebrava ogni anno in maggio, ma la data veniva spostata ogni anno secondo il calendario lunare. Alla vigilia della festa, Otoko ammirava dalla veranda di casa sua la luna che sorgeva nel cielo limpido, sopra i colli Higashiyama all'est della città.
– Avremo una bella luna domani, – si disse, e chiamò Keiko. Alla festa del monte Kurama, i partecipanti sono invitati a bere dall'unica coppa di sakè, sulla cui superficie si riflette la luna piena. Perciò un cielo coperto avrebbe rovinato tutto.
Arrivò Keiko e pose una mano leggermente sulla spalla di Otoko.
– Ecco, la luna di maggio…, – le disse Otoko.
Senza badare alle sue parole, Keiko stette un attimo in silenzio, poi disse:
– Perché non andiamo domani in macchina ai colli di Higashiyama? Oppure andiamo a vedere la luna riflessa sul lago di Biwa, dalle parti di Ohtsu.
– La luna sul lago di Biwa? Troppo banale, – si oppose Otoko.
– Tu preferisci la luna sulla coppa di sakè piuttosto che la luna sul lago, vero? – ribatté Keiko sedendosi per terra accanto a Otoko, e continuò: – Guarda il colore del giardino! Non è interessante?
Otoko abbassò lo sguardo sul giardino.
– Portami un cuscino, per favore. Potresti anche spegnere la luce.
Dal punto dove le due donne erano sedute, si vedeva soltanto il piccolo giardino interno davanti allo studio. Ai confini del giardino sorgeva la sagoma del tempio. Era un giardino senza alcuna pretesa. Ma ora metà della sua superficie era illuminata dal chiaro della luna. Le pietre del giardino cambiavano colore a seconda che si trovassero nella zona illuminata dalla luce lunare o fuori di essa. In un angolo buio, pareva fluttuare nell'aria il bianco delle azalee. Le foglie appena germogliate di un acero, che avevano mantenuto il loro colore rosso fiamma per tutto il mese di maggio, cominciavano a diventar verdi; ma ora, nella poca luce della sera, si trasformavano in una macchia nerastra. Molti visitatori, scambiando per fiori i germogli rossi dell'acero, domandavano di che pianta si trattasse. La superficie del giardino era interamente coperta di muschio.
– Vuoi che ti prepari una tazza di tè nuovo? – domandò Keiko, che non riusciva a capire che cosa affascinasse Otoko in un giardino tanto comune. Era il giardino familiare di casa sua, che lei vedeva giorno e notte, nel sole e all'ombra. Otoko stava col viso rivolto verso la zona illuminata dalla luna, e appariva pensierosa.
Keiko portò nella veranda la teiera col tè del nuovo raccolto e lo versò in una tazza.
– Otoko, – disse, – ho letto in qualche parte che la donna che ha posato da modella per Il bacio di Rodin è viva tuttora e ha ottant'anni. Quando pensi a quella scultura, ti è difficile immaginarla così vecchia.
– Davvero? – replicò Otoko. – Lo dici perché ancora sei giovane. Non esiste una ragione per cui una persona debba morire giovane, soltanto perché è stata la modella di un'opera famosa in gioventù. Poi è sempre un errore andare in cerca del modello di un'opera d'arte.
Il commento di Keiko aveva forse ricordato a Otoko La sedicenne di Toshio Ōki? si domandò Keiko. Era stata un'osservazione incauta? Otoko a quarant'anni era stupenda. Keiko riprese facendo finta di niente:
– Quando ho letto l'articolo che parlava della modella del Bacio, mi è venuto in mente di chiederti di farmi il ritratto finché sono giovane.
– Chissà se sono capace di farti il ritratto. Perché invece non provi a fare il tuo autoritratto?
– Il mio autoritratto? Non saprei disegnare con precisione. Poi, tutte le bruttezze del mio spirito verrebbero alla superficie e infine avrei in odio il quadro. D'altronde, se mi ritraessi in un modo realistico, mentre le altre mie pitture sono tutte astratte, mi accuserebbero di esibizionismo.
– Intendi dire che quando si tratta di fare un autoritratto, vuoi tornare al realismo? Come sei piena di contraddizioni. Sei giovane ancora e può darsi che più tardi le tue idee cambino.
– Voglio che il mio ritratto sia fatto da te, – insisté Keiko.
– Non so se ne sono capace, – ripeté Otoko.
– O non mi vuoi più bene o hai paura di me, – disse Keiko bruscamente. – Un pittore uomo, mi accetterebbe con piacere. Mi ritrarrebbe anche nuda.
– Oh, – esclamò Otoko, senza però meravigliarsi molto. – Se insisti tanto, posso provare.
– Come sono contenta! – esultò Keiko.
– Non un nudo, però, – disse Otoko. – Non credo che riesca bene un nudo femminile dipinto da una donna. Specialmente nella pittura giapponese di tipo tradizionale come è la mia.
– Se dovessi ritrarre me stessa, metterei la tua figura accanto alla mia –. Nella voce di Keiko c'era qualcosa di sdolcinato.
– Vorrei sapere in che modo riusciresti a far entrare tutte e due nella composizione, – disse Otoko.
Keiko rise di un riso sornione e disse: – Se il mio ritratto lo fai tu, potrò restare tranquillamente nell'astratto. Perciò non preoccuparti.
– Non mi preoccupo di nulla –. Così dicendo, Otoko sorseggiò il tè profumato del nuovo raccolto.
Il tè del primo raccolto dell'anno era un regalo ricevuto da Otoko in una piantagione di Uji a sud di Kyoto, che essa aveva frequentato per qualche tempo, volendo farvi una serie di schizzi. Era la stagione del primo raccolto, benché Otoko avesse ignorato le figure delle giovani raccoglitrici di tè nei loro costumi tradizionali. Le curve ondeggianti e accavallate dei cespugli di tè occupavano l'intera superficie del foglio. Otoko c'era andata per qualche giorno di seguito, e aveva portato a termine una gran quantità di schizzi. La luce del sole sopra i cespugli di tè mutava di sfumatura secondo l'ora della giornata. Keiko aveva accompagnato Otoko ogni giorno.
– Questo è un paesaggio da pittura astratta, – le disse un giorno Keiko.
– Se lo dipingessi tu, vorrai dire, – rispose Otoko. – Il mio quadro sarà un po' diverso dal solito. Il colore dominante sarà il verde, e il disegno sarà decisamente più audace del mio disegno abituale. Vorrei riuscire a ottenere un'armonia tra le sfumature dei colori e l'ondeggiare morbido delle linee di contorno, composte del verde nuovo e di quello vecchio.
Il primo abbozzo del suo quadro, basato su una notevole quantità di schizzi, era già pronto nel suo studio.
Non erano state solo le sfumature delle onde verdi e i contorni delle sagome movimentate dei cespugli di tè ad attirare l'attenzione di Otoko, inducendola a disegnare il campo di tè nella valle di Yuya a Uji. Dopo la conclusione tragica del suo amore con Ōki, e in seguito alla decisione presa da sua madre di trasferirsi a Kyoto, Otoko aveva viaggiato più volte sulla linea tra Tokyo e l'antica capitale. Tra i paesaggi che Otoko aveva osservato dal finestrino del treno, quello che l'aveva più colpita erano state le piantagioni di tè nei pressi di Shizuoka. A volte in treno passava di pieno giorno accanto ai campi di tè. Altre volte l'ora era vicina al tramonto. Otoko era soltanto una studentessa di liceo e non si immaginava nemmeno che avrebbe scelto un giorno per sé la carriera di pittrice. Mentre guardava il paesaggio dei campi di tè, si sentiva schiantata dal dolore di allontanarsi da Ōki, dal quale era stata strappata via a forza. La linea ferroviaria tra Tokyo e Kyoto è costeggiata dai monti, dai laghi e dall'oceano. Le nuvole si tingevano di vari colori a seconda delle ore del giorno. E chi sa perché i campi di tè, che tutto sommato formavano un paesaggio piuttosto piatto, l'avevano tanto affascinata? Era stata la malinconia del verde silenzioso, o le ombre tristi delle onde disegnate dai cespugli di tè nelle ore del crepuscolo, a penetrare in fondo al cuore di Otoko? Inoltre, i campi di tè non sono un paesaggio naturale, le piante sono potate e ridotte a una dimensione minima ed estremamente artificiosa. Sono buie e dense le ombre create dai solchi. E i cespugli a mucchietti tondi somigliavano a gruppi di pecore verdi e obbedienti. Già quando era partita da Tokyo, Otoko si era sentita circondata da un'onda soffocante di tristezza, e ora nei pressi di Shizuoka, la sua tristezza era colma.
Quando vide per la prima volta i campi di tè nella valle di Yuya a Uji, Otoko sentì ridestarsi quella tristezza di una volta. Decise quindi di rivisitare il luogo per i suoi disegni. Keiko non poteva neanche intuire la tristezza che si agitava di nuovo nel cuore di Otoko. Una volta, tra le piante di tè che germogliavano vigorosamente, Otoko si era accorta di non trovarvi più l'antica malinconia che l'aveva tanto oppressa in quei giorni. Il verde fresco dei germogli spargeva nell'aria attorno una luce allegra e piena di freschezza.
Keiko aveva letto La sedicenne. Nelle conversazioni interminabili, la sera a letto, si era fatta raccontare da Otoko le vicende del suo amore con Ōki. Eppure non le sfiorava la mente l'idea che i disegni dei campi di tè potessero nascondere l'antica tristezza di quel suo amore. Keiko, che l'aveva accompagnata a Uji, era semplicemente felice di vedere le curve accavallate delle piante di tè che le suggerivano una pittura astratta. Mentre cercava di disegnare, i tratti realistici cominciavano a sbiadire. Otoko trovava divertenti gli schizzi di Keiko.
– Tu pensi di coprire di verde l'intera superficie? – domandò Keiko.
– Oh sì. Mi piacerebbe rappresentare i campi di tè nella stagione del raccolto. Così i temi principali consisteranno nelle gradazioni e nella varietà del verde.
– Io sto pensando se non è il caso di usare il rosso e il viola. Non importa se non si capisce che è un campo di tè.
L'abbozzo di Keiko era posato contro la parete dello studio.
– Il tè è delizioso, – disse Otoko. – Me ne puoi preparare un'altra tazza? Magari all'astratto E rise.
– All'astratto? – replicò Keiko. – Lo vuoi amarissimo da non poterlo mandar giù? – E ruppe in una risata fresca e vivace.
– Keiko, – disse Otoko. – Tu sei stata dal signor Ōki a Kita Kamakura l'altro giorno, nella tua ultima visita a Tokyo, vero? – La sua voce aveva un accento irritato.
– Sì, – rispose Keiko.
– A far che?
– Il signor Ōki, quando sono andata a salutarlo alla stazione, mi aveva detto che avrebbe visto con piacere i miei quadri. Perciò gliene ho portati due.
Otoko rimase in silenzio.
– Otoko, – disse Keiko. – Voglio vendicarti –. La sua voce era fredda e calma.
– Vendicarmi? – La parola suonò inattesa e Otoko trasalì. – Hai detto che vuoi vendicarmi?
– Appunto.
– Keiko, vieni qui e siediti vicino a me. Dobbiamo parlare insieme sorseggiando il tè nuovo.
Senza pronunciare parola, Keiko prese posto accanto a Otoko. E tenendo in mano la piccola tazza da tè, disse:
– Oh, è davvero amaro. Otoko, vuoi che cambi le foglie?
– Non importa, – rispose Otoko fermandola con un gesto della mano; e continuò: – Hai usato la parola vendicare. Ma dimmi che cosa vuoi dire con questo.
– Hai capito benissimo.
– Non ho mai pensato una cosa simile. Non gli porto nessun rancore.
– È perché lo ami sempre… È perché tu non sarai mai capace di smettere di amarlo, – Keiko disse con una voce soffocata. – È proprio per questo che voglio vendicarti.
– Per quale scopo?
– Perché sono gelosa.
– Cosa?
Otoko pose la mano sulla spalla di Keiko, che tremava.
– Ho ragione, non è vero, Otoko? – rincalzò Keiko. – Io ti capisco e non sopporto questa situazione.
– Sei troppo passionale, – disse Otoko con una voce piena di dolcezza. – Devi spiegarmi meglio cosa vuoi dire con quella parola «vendicare». Cosa pensi di fare?
Keiko aveva gli occhi bassi; non rispose. Il chiarore della luna sul giardino ora occupava più spazio di prima.
– Dimmi. Perché sei andata a Kamakura dal signor Ōki senza dirmi nulla? – insisté Otoko.
– Ho voluto vedere la casa dell'uomo che ti ha fatto soffrire tanto.
– E hai visto qualcuno?
– Ho visto il figlio, che si chiama Taichiro. Deve essere l'immagine stessa di suo padre quando aveva la sua età. Dopo essersi laureato, mi ha detto, continua le sue ricerche sulla letteratura di epoche Kamakura e Muromachi. È stato molto gentile con me e mi ha accompagnato ai templi Engakuji e Kenchōji. Siamo perfino andati all'isola Enoshima.
– Sei nata e cresciuta a Tokyo. Che novità ti offrivano quei luoghi?
– Hai ragione. Ma quei luoghi li conoscevo in modo molto superficiale. Ho trovato Enoshima molto cambiata. Mi ha divertito la storia del tempio dove una volta le donne si rifugiavano, per sottrarsi ai mariti crudeli.
– La tua vendetta allora consisterebbe nel sedurre quel Taichiro? O lasciarti sedurre da lui? – disse Otoko staccando la sua mano dalla spalla di Keiko. – In tal caso, chi si deve ingelosire sono io.
– Sei gelosa, allora? Oh, come sono contenta! – Nel gridare queste parole, Keiko si appoggiò a Otoko cingendole il collo con le braccia. Poi disse: – Otoko, io sono una donna capace di diventare perfida, un demonio, se vuoi. Anche se con te farò un'eccezione.
– Gli hai portato due dei tuoi quadri. Per di più erano quelli che ti piacevano.
– Sono una donna perfida, te l'ho detto. Ma nello stesso tempo vorrei apparire gentile, almeno all'inizio. Taichiro mi ha scritto dicendo che i miei quadri si trovano sulla parete del suo studio.
– Davvero? – disse Otoko con calma. – Sarebbe questa la vendetta che stai escogitando per me? O almeno l'inizio della tua vendetta?
– Sì.
– Taichiro era appena un bambino e non sa nulla di ciò che c'è stato tra me e Ōki. Non mi ha mai preoccupato la presenza di Taichiro. Piuttosto, mi sono sentita terribilmente umiliata quando ho saputo della nascita della bambina, Kumiko. A pensarci ora, capisco come sono andate le cose. Credo che sia sposata adesso, Kumiko.
– Vuoi allora che io rovini il matrimonio di Kumiko?
– Attenta a come parli, Keiko. Non devi dire tante sciocchezze neanche per scherzo. Hai troppa fiducia nella tua bellezza e nel tuo fascino. Tu sei una donna pericolosa. Non si scherza con cose di questo genere.
– Non ho paura di nulla finché sono accanto a te. Non provo mai alcuna incertezza in tutto ciò che intraprendo finché tu sei vicina a me. Se invece dovessi allontanarmi da te, chi sa se sarei ancora capace di dipingere. Quel giorno, butterò via insieme la vita e l'arte.
– Non parlare in questo modo, per favore, – disse Otoko.
– Ma se tu non sei stata capace di distruggere la sua famiglia…
– Non ero che una bambina delle scuole medie. Ero una ragazzina di ginnasio, con la mentalità di una volta. Per giunta, Ōki aveva un figlio. – Se fossi stata in te, avrei distrutto la sua famiglia.
– Una famiglia è molto più forte di quanto tu pensi.
– Più dell'arte?
– Beh, non saprei… – Un'ombra di tristezza le passò sul viso. – A quei tempi, l'arte non sapevo nemmeno che cosa fosse.
– Dimmi, Otoko, – interrogò Keiko. La voce d'improvviso si fece dura e prese un tono di accusa. Le sue mani intanto continuavano a giocherellare sui polsi di Otoko. – Perché allora mi hai mandato all'albergo? Perché mi hai mandato alla stazione?
– Perché sei giovane e bella. Perché sono orgogliosa di te.
– Vuoi nascondere la verità perfino a me? – replicò Keiko. – Io ti ho osservato tutto il tempo che stavate insieme, con occhi di gelosia.
– Davvero? – disse Otoko, fissando Keiko negli occhi, splendenti nella luce lunare. – Io non ti nascondo nulla. Avevo diciassette anni quando ci hanno separato. Ma ormai sono una donna di mezza età, con i fianchi un poco appesantiti. A dir la verità, non avevo gran voglia di rivederlo. Avevo paura di deluderlo.
– Deluderlo? Non tocca piuttosto a te sentirti delusa? Io ho tanta ammirazione per te, ma Ōki mi ha deluso. Da quando vivo con te, i ragazzi non mi attraggono. Mi aspettavo invece molto di più da Ōki. L'ho conosciuto e sono rimasta davvero delusa. Dai tuoi ricordi, avevo immaginato un personaggio pieno di fascino.
– Non puoi capire, perché l'hai incontrato solo un paio di volte.
– Sì, capisco.
– Dimmi allora che cos'hai capito.
– Non mi sarà difficile sedurre sia il figlio, sia lo stesso Ōki. Io…
Otoko impallidì e disse: – Ti rendi conto che stai facendo un discorso da strega? Non ti vergogni, con tutta la tua gioventù, con tutta la tua bellezza?
– Se dici che il mio modo di parlare è da strega, bisogna ammettere che noi donne siamo tutte streghe…
– Ho capito. Hai portato i tuoi quadri preferiti da Ōki nascondendo quelle intenzioni?
– No. Non ho bisogno di quadri per ammaliare qualcuno.
Una simile, quasi inspiegabile sicurezza di sé diede sgomento a Otoko.
– Io sono la tua allieva e perciò gli ho portato i quadri che mi sembravano i migliori, – continuò Keiko.
– Ti ringrazio del pensiero. Ma da quello che mi hai raccontato, mi pare che Ōki si fosse offerto di guardare i tuoi quadri solo per gentilezza. Non s'aspettava certo di ricevere in regalo le tue opere.
– Ma gliele avevo promesse. Poi non avrei avuto altra scusa per andare a casa sua a vedere la sua famiglia. Ero anche curiosa di sapere come avrebbe reagito Ōki, di fronte ai miei quadri. – Per fortuna non l'hai trovato.
– Sono sicura comunque che li avrà guardati dopo. Ma non credo che abbia capito.
– Come fai a saperlo?
– Ma se non è riuscito ad andare oltre La sedicenne?
– Ah, in questo ti sbagli. Tu sopravvaluti quel romanzo, perché là mi trovi idealizzata. Il romanzo piace soprattutto ai giovani. Le opere successive sono ancora difficili per te, perché sei troppo giovane. Alcune ti sembrerebbero perfino irritanti.
– Ma se Ōki dovesse morire ora, La sedicenne rimarrebbe come l'opera sua più significativa.
– Non parlare così. Mi dài fastidio Otoko alzò la voce, liberando i polsi dalle mani di Keiko. Scostò anche il ginocchio che finora aveva tenuto accostato a quello di Keiko.
– Provi ancora un attaccamento per lui? – Anche la voce di Keiko aveva preso un tono aspro. – Non mi sei grata perché mi sono offerta di vendicarti?
– Non è attaccamento quello che esiste tra me e Ōki. – Allora è amore. Lo ami ancora?
– Può darsi.
Alzandosi, Otoko passò nello studio. Keiko, rimasta sola sulla veranda, si coprì il volto con le mani.
– Otoko, – disse infine. – Non vuoi capire che la dedizione è una ragione di vita anche per me?
– Perdonami. Ma devi capire che ero giovanissima.
– Ti vendicherò.
– Con la tua vendetta, non riuscirai a estinguere il mio amore per lui.
Keiko singhiozzava sulla veranda. Piegandosi su se stessa, si rotolò per terra.
– Otoko, – disse piangendo. – Devi fare il mio ritratto. Prima che io diventi una strega come dici… Ti prego. Se vuoi ritrarmi nuda, sono disposta pure a posare nuda.
– Lo farò per te e con tutto il cuore.
– Grazie.
Dopo il parto prematuro, Otoko aveva messo da parte alcuni disegni della bambina morta. Li aveva tenuti nascosti e non li aveva fatti vedere nemmeno a Keiko. Pensava di fare un quadro basandosi su quei disegni, e intitolarlo L'Ascensione del Bambino. A questo scopo aveva studiato le immagini del Bambino Gesù e di alcuni putti nella pittura occidentale, benché i loro corpi rotondi e l'aspetto florido le apparissero estranei ai suoi ricordi dolorosi. Aveva anche studiato le immagini antiche del famoso Sacro Infante. La grazia tipicamente giapponese di queste figure era più vicina alla sua sensibilità. Ma nelle immagini tradizionali il Sacro Infante non era raffigurato come un bambino appena nato, né era raffigurato nell'atto di salire in cielo. Non che Otoko pensasse di ritrarre la sua bambina mentre ascendeva in cielo, ma desiderava rappresentarla almeno nell'atmosfera spirituale dell'ascensione. Ignorava però completamente quando le sarebbe stato possibile iniziare il lavoro.
Quando Keiko le chiese di farle il ritratto, Otoko si rammentò degli abbozzi per L'Ascensione del Bambino. Non era forse una buona idea ritrarre Keiko alla maniera del Sacro Infante? O ritrarla secondo i tratti classici della Beata Vergine? Le immagini antiche del Sacro Infante appartenevano iconograficamente al genere dell'arte religiosa, ma alcune di esse erano circondate d'un sottile erotismo.
– Keiko, ho capito come ritrarti. Mi è venuta in mente ora la struttura del quadro. Voglio farti un ritratto che si ispiri alla pittura religiosa. Perciò non ti voglio vedere così scomposta.
– Pittura religiosa? – Stupita, Keiko si affrettò a mettersi composta. – Non prendermi in giro, Otoko.
– Lasciami fare. Alcuni quadri religiosi sono dotati d'una bellezza erotica straordinaria. Voglio ritrarti alla maniera della pittura religiosa, ma intitolare il quadro Una giovane astrattista. Non ti sembra un'idea brillante?
– Mi prendi in giro?
– No. Parlo sul serio. Mi metterò a lavorare quando avrò finito il campo di tè.
Otoko gettò uno sguardo verso lo studio. Gli abbozzi del campo di tè, i suoi e quelli di Keiko, erano posati contro la parete. Sopra era appeso un ritratto della madre di Otoko, dipinto da Otoko stessa.
Osservò il ritratto.
Sua madre nel ritratto aveva un'aria giovanile, più giovane della Otoko di ora. Probabilmente vi era riflessa l'età di Otoko, qual era nel momento in cui dipingeva: essa aveva, allora, circa trentadue anni. O forse istintivamente essa aveva ritratto sua madre più giovane e bella di quanto fosse nella realtà.
Quando Keiko Sakami era venuta per la prima volta da Otoko, guardando il quadro aveva chiesto:
— È il suo autoritratto? – e subito aggiunse: – Bellissimo –. Otoko non ebbe voglia di spiegare che si trattava della propria madre.
Otoko rassomigliava alla madre. Il ritratto ne coglieva felicemente i tratti caratteristici. Era nato, infatti, dalla nostalgia di Otoko per la madre scomparsa. Quanti ritratti di sua madre aveva fatto Otoko? All'inizio, disegnava tenendo accanto a sé le fotografie. Ma nessuna di esse pareva esprimere i suoi sentimenti più profondi. Decise quindi di scartare le fotografie. Fu allora che Otoko cominciò a sentire vicino a sé la presenza della madre. Era più che un fantasma. Era una presenza viva. Otoko continuò a disegnare. Il cuore le si riempiva di sentimenti vivi mentre il pennello scorreva veloce. Di quando in quando, doveva fermarsi perché le lacrime le annebbiavano gli occhi. Via via che andava avanti col lavoro, Otoko si accorgeva che il ritratto della madre prendeva le sue stesse sembianze.
Il quadro che si trovava ora sulla parete sopra gli abbozzi del campo di tè era l'ultimo dei suoi tentativi. Otoko aveva bruciato tutto il resto. Era contenta di tenere con sé un ritratto di sua madre che pareva quasi il suo autoritratto. Ogni volta che lo guardava, una tristezza impercettibile agli occhi altrui riempiva lo sguardo di Otoko. Quanto tempo era passato prima che lei arrivasse a quel quadro?
Otoko non aveva mai tentato di far ritratti. Le sole figure umane, nella sua pittura, si trovavano nei paesaggi, appena abbozzate. Ora, alla richiesta di Keiko, inaspettatamente la prese il desiderio di fare un ritratto. L'Ascensione del Bambino, a cui pensava da molto tempo, non poteva chiamarsi propriamente un ritratto. E allora come mai le era venuta in mente l'immagine della bambina morta, al pensiero di ritrarre Keiko nello stile della Beata Vergine? Otoko non aveva abbandonato completamente il desiderio di dipingere la sua bambina mentre saliva in cielo. Se aveva già ritratto sua madre e se aveva ancora l'intenzione di dipingere la sua bambina morta, perché non poteva anche dipingere la sua allieva Keiko? Queste tre persone, benché diversissime l'una dall'altra, non rappresentavano forse i tre amori più importanti nella sua vita?
– Otoko, – disse Keiko. – Guardi il ritratto di tua madre e non sai come dipingermi, vero? Ti chiedi se sarai capace di fare il mio ritratto perché non mi ami come hai amato tua madre –. Così dicendo, Keiko si accostò a Otoko.
– Sei cattiva, – rispose Otoko. – Io sono insoddisfatta di quel ritratto. Posso aver fatto qualche progresso, da quando l'ho dipinto. Però, con tutti i difetti che può avere, certo è che io vi ho lavorato a lungo e con tutto il mio cuore. Gli sono affezionata, senza dubbio.
– Non occorre che tu metta tanto cuore nel mio ritratto. Puoi dipingerlo in piena libertà.
– Mi sarebbe impossibile, – disse Otoko distrattamente. Il ritratto della madre le aveva richiamato alla mente i ricordi. La voce di Keiko la ricondusse alla realtà. Le tornarono al pensiero varie immagini del Sacro Infante. Nonostante la parola «Infante» del termine convenzionale, molte di esse parevano ritrarre una bambina, o perfino una giovinetta stupenda. Una bambina, insomma, travestita da maschio. Le immagini, benché dotate d'un che di sublime in quanto pitture religiose, avevano anche un erotismo tutto particolare. Questi quadri erano in genere dipinti dai monaci buddisti. Le pitture perciò potevano essere interpretate come espressioni simboliche di omosessualità, del loro desiderio di un fanciullo dalla bellezza efebica. Il fatto che Otoko avesse pensato alle immagini del Sacro Infante quando aveva avuto l'idea di fare il ritratto a Keiko, si poteva interpretare come l'espressione di tale desiderio. L'Infante portava i capelli corti con la frangetta come usano oggi le bambine. L'abito raffinato in un broccato di seta stupenda era simile a quello che indossano gli attori del teatro No. Tutto ciò sarebbe stato troppo artificioso per una ragazza moderna come Keiko. Otoko pensò alla serie di Ritratti di Reiko di Ryusei Kishida. Si tratta di pitture a olio o ad acquarello in uno stile occidentale rigorosamente classico, con tecnica quasi da miniaturista, dove le influenze di Albrecht Dürer appaiono evidenti. Alcune di esse avevano l'aria dell'immagine religiosa. Nella serie dei Ritratti di Reiko, tuttavia, Otoko ne aveva visto uno piuttosto singolare. Era dipinto su carta cinese con colori molto tenui, quasi da schizzo. La bambina era ritratta a torso nudo, portava soltanto una gonna rossa dalla vita in giù e sedeva con le gambe ripiegate nel modo tipico dei giapponesi. Non si poteva forse parlare di un capolavoro, ma Otoko si chiedeva perché il pittore avesse tentato di ritrarre la propria figlia usando le tecniche più tradizionali di questo paese, mentre aveva dipinto gli altri quadri dello stesso soggetto ad olio.
Keiko si era offerta di posare nuda. L'idea non era del tutto cattiva, e in fondo non esiste nessun regolamento che proibisca alle pitture sacre di possedere il profumo del seno femminile. Ne aveva visto degli esempi. Se avesse seguito, tuttavia, il modello del Sacro Infante, come poteva risolvere il problema dei capelli? Non era, naturalmente, il caso di copiare il celebre dipinto di Kokei Kobayashi, noto per la purezza dell'espressione. Otoko si sentiva assolutamente incapace di risolvere questi problemi e di affrontare il compito.
– Keiko, è ora di andare a letto, – disse quindi.
– Così presto? Ma la luna è bellissima –. Keiko reagì dando un'occhiata all'orologio sopra il mobile dello studio, e continuò: – Otoko, non sono ancora le dieci.
– Sono un po' stanca, – disse Otoko. – Possiamo parlare a letto.
– D'accordo.
Mentre Otoko si puliva il viso davanti allo specchio, Keiko preparò i letti con mosse svelte. Quando Otoko ebbe terminato, fu Keiko a sedersi al suo posto e a togliersi il trucco. Si fissava nello specchio piegando in avanti il collo flessuoso. Poi a un tratto disse:
– Otoko, la mia non è una faccia da arte sacra.
– Tutto dipende dall'intensità dello spirito religioso di chi dipinge, – rispose Otoko.
Togliendosi le forcine dai capelli, Keiko scosse il capo.
– Ti sei sciolta i capelli?
– Sì –. E Keiko continuò a pettinarsi i lunghi capelli.
– Perché hai deciso di scioglierti i capelli stasera? – insisté Otoko dal letto.
– Sono un po' sporchi. Li avrei dovuti lavare stasera Così dicendo, Keiko prese con due dita un ciuffo di capelli portandolo al naso. – Otoko, quanti anni avevi quando è scomparso tuo padre?
– Dodici. Quante volte lo devo ripetere?
Keiko non rispose, ma chiudendo le porte scorrevoli che separavano la camera dallo studio, s'infilò nel letto accanto a Otoko. I due letti erano accostati senza spazio tra l'uno e l'altro.
Da qualche giorno dormivano senza chiudere le imposte esterne della veranda. La carta bianca dello shoji si illuminava vagamente nella luce fioca della luna.
La madre di Otoko era morta di un cancro al polmone, senza rivelare alla figlia l'esistenza di una sorellastra, più giovane, nata da una relazione del marito. Otoko ignorava l'esistenza di questa sorellastra.
Il padre di Otoko commerciava in seta grezza. Una folla di gente assisté al suo funerale. Tutto procedette regolarmente, finché i partecipanti cominciarono a sfilare verso la bara per bruciare l'incenso. D'improvviso la madre di Otoko intuì qualcosa di strano, quando una donna dall'aspetto euroasiatico si fermò davanti alla bara. Poi quando la donna chinò il capo per salutare i familiari del defunto, la madre di Otoko vide che aveva gli occhi rossi e le palpebre gonfie dal pianto. Sentì allora una fitta al cuore. Chiamò la segretaria del marito, che era accanto alla fila dei familiari.
– Prendi il nome e l'indirizzo di quella euroasiatica, – le sussurrò all'orecchio. La segretaria rintracciò l'identità della donna. La nonna di questa era una canadese e aveva sposato un giapponese. Benché di nazionalità nipponica, era stata educata in una scuola internazionale e faceva l'interprete. Viveva in una piccola casa nella zona di Azabu a Tokyo con una cameriera di mezza età.
– Non ha figli, spero.
– Sì. Una bambina. Ma è ancora piccola.
– Hai visto la bambina?
– No. Me ne hanno parlato i vicini.
La madre di Otoko si convinse che la bambina era figlia di suo marito. Avrebbe potuto cercare informazioni più precise, ma volle aspettare che la notizia venisse direttamente dalla donna, la quale tuttavia non si fece mai viva. La segretaria disse, quasi sei mesi dopo che il marito era morto, che la donna si era sposata portando via con sé la bambina. Dalle parole della segretaria, la madre di Otoko capì che la donna era stata l'amante del marito. Col passare del tempo, quando la gelosia e l'indignazione si furono placate, ebbe perfino voglia di adottare la bambina. La figlia del marito sarebbe cresciuta con un patrigno, col quale non aveva alcun legame di sangue, e tuttavia le avrebbero fatto credere che era quello suo padre. Alla madre di Otoko ciò appariva una perdita irreparabile. Non si trattava solo di dare una sorellina a Otoko, che era figlia unica. Comunque, non poteva rivelare la storia segreta del padre a una bambina di dodici anni.
La madre morì quando Otoko era già adulta. Morì senza aver avuto il coraggio di raccontare la storia alla figlia nelle sofferenze dell'agonia. Otoko perciò ignorava l'esistenza della sorellastra. Doveva ormai essere una donna di una certa età e se tutto era andato normalmente, forse si era sposata e aveva dei bambini. Questa parte della storia però non esisteva per Otoko, che tuttora credeva di esser l'unica figlia di suo padre.
Otoko fu svegliata dalla voce di Keiko che la chiamava. – Otoko, hai avuto un incubo? Ansimavi Keiko le massaggiò il petto, vedendo che Otoko respirava con affanno. Keiko si era alzata sul letto e si teneva appoggiata al gomito.
– Mi osservavi così? – domandò Otoko.
– Sì, per un attimo.
– Come sei crudele. Ho fatto un brutto sogno.
– Cos'era?
– Era una persona tutta verde –. La voce di Otoko era ancora affannosa.
– Una persona vestita di verde?
– No. Non mi pareva un vestito. Era verde il corpo, anche le braccia e le gambe.
– Quindi un mostro verde.
– Non prendermi in giro. Non è il caso di chiamarlo un mostro; non aveva un viso cattivo. Un essere tutto verde che fluttuava nell'aria e continuava a volteggiare intorno al mio letto.
– Una donna? – domandò Keiko. Otoko non rispose.
– È un sogno meraviglioso, – osservò Keiko. – Otoko, sono sicura che ti porterà fortuna –. Con un gesto leggero, Keiko chiuse gli occhi di Otoko con la palma della sua mano, e prendendo con l'altra mano un dito di Otoko, lo portò alla bocca e lo morse.
– Ahi! – esclamò Otoko guardandola attonita.
– Otoko, mi hai promesso di dipingere il mio ritratto. Hai sognato me e il campo di tè insieme.
– Pensi? Vuoi dire che stavi volando attorno a me mentre dormivo? Mi fai paura.
Keiko posò il capo sul petto di Otoko, e con una risata sommessa e un po' folle, disse: – Sei stata tu a sognare, e non io. È stata la tua anima di artista che ti ha fatto sognare una cosa così.
Il giorno dopo, nel pomeriggio salirono sul monte Kurama. Nel recinto del santuario c'era già radunata una folla di gente. La lunga giornata di maggio stava per imbrunire; la sera scendeva dalle cime dei monti e dei boschi attorno. La luna piena già era sospesa nel cielo, sopra i colli di Higashiyama, nella parte opposta della città. Furono accesi i falò ai due lati della cappella principale. Vennero fuori i monaci, e intonarono il sutra. L'officiante indossava paramenti scarlatti. «Dacci la forza nuova…» Il coro cantava accompagnato dall'armonium.
I fedeli avanzarono tenendo in mano i ceri accesi. C'era un'enorme coppa di argento piena d'acqua, sulla superficie della quale si specchiava la luna. I fedeli che avanzavano l'uno dopo l'altro, ricevevano con un inchino l'acqua della coppa nel cavo delle mani e la bevevano. Otoko e Keiko fecero come gli altri.
– Otoko, – disse Keiko. – Quando saremo a casa, troveremo sul nostro tatami le impronte verdi dei piedi del dio di Kurama! – disse Keiko con voce ilare.
La festa di montagna l'aveva inebriata.
Il cielo piovoso
Quando, scrivendo un romanzo, non riusciva a andare avanti o a trovare una soluzione a un problema, Toshio Ōki si allungava sulla sdraia nella veranda accanto allo studio. Se ciò avveniva nel pomeriggio, poteva succedergli di dormire per un paio d'ore. Erano un'abitudine recente in lui quei sonni pomeridiani. Prima, in casi simili usava uscire a far quattro passi nei dintorni. Ormai viveva da lungo tempo a Kita Kamakura, e aveva una perfetta dimestichezza con i templi. L'Engakuji, il Jōchiji, il Kenchōji e altri templi gli erano diventati familiari come i colli vicini. Ōki era mattiniero, e faceva volentieri una breve passeggiata appena alzato. Una volta sveglio, non riusciva a indugiare nel letto. La passeggiata mattutina era anche un modo di facilitare il lavoro della cameriera, che accudiva alle faccende di casa e preparava la colazione. Prima di cena, Ōki faceva un'altra passeggiata più lunga.
La veranda accanto allo studio era piuttosto larga e Ōki ci teneva una scrivania di tipo occidentale. Nello studio, invece, lavorava a un tavolo basso alla giapponese, ma gli poteva capitare a volte di usare la scrivania della veranda. Si stava bene sulla sdraia, e Ōki là riusciva a distaccare la mente dal proprio lavoro. Era una sdraia meravigliosa. Quando lavorava a un romanzo, la notte egli aveva il sonno leggero, e sovente sognava il lavoro. Ma sulla sdraia della veranda nel pomeriggio, riusciva a addormentarsi subito e il sonno cancellava tutte le preoccupazioni. Da giovane, non aveva l'abitudine di dormire di giorno. Nel pomeriggio veniva gente ed era difficile trovare il tempo per dormire. Scriveva perciò di notte. Si metteva a lavorare a mezzanotte e smetteva all'alba. Da qualche tempo però, non lavorava più di notte e così aveva preso a dormire nel pomeriggio, benché l'ora fosse del tutto irregolare. Quando non sapeva più come andar avanti col romanzo, si sdraiava e dormiva. A volte dormiva prima di mezzogiorno, o nel pomeriggio sul tardi. Lavorando di giorno, non gli succedeva più come quando lavorava di notte, che l'eccitamento provocato dalla stanchezza desse ali alla fantasia.
Quel suo rifugiarsi nel sonno nei momenti di difficoltà, sembrava a volte a Ōki un segno di vecchiaia. Ad ogni modo era perfettamente soddisfatto della sua sdraia magica.
Ogni volta che vi si sdraiava, immancabilmente riusciva a dormire. Non solo, ma si svegliava con la freschezza che segue un riposo tranquillo. Non di rado trovava perfino una soluzione per il suo lavoro. Era, davvero, una sdraia magica.
Era ormai venuta la stagione della pioggia. Ōki la odiava. Kita Kamakura è divisa dal mare da una catena di colline, ma l'umidità vi penetra ugualmente. In quei giorni, il cielo si faceva basso. Ōki sentiva un peso alla tempia destra, e gli pareva che la sua testa fosse completamente annebbiata. Gli pareva che si coprisse di muffa ogni piega del suo cervello. A volte, si allungava sulla sdraia magica due volte nel giorno, mattina e sera.
Un pomeriggio, venne la cameriera mentre lui stava ancora sulla sdraia. Annunciò che c'era «la signorina Keiko Sakami di Kyoto».
Ma vedendo che Ōki non rispondeva, disse: – Le devo dire che ancora sta riposando?
– No. Una ragazza giovane, vero?
– Sì. È stata qui già una volta.
– La faccia accomodare nel salotto.
Ōki lasciò ricadere la testa sullo schienale della sdraia e chiuse gli occhi. Il riposo gli aveva alleviato la pesantezza tipica della stagione della pioggia, e alla notizia dell'arrivo di Keiko Sakami, si sentì rinfrescato. Si alzò e si lavò la faccia con l'acqua fresca prima di andare nel salotto. Vedendo entrare Ōki, Keiko si alzò arrossendo leggermente. Era una visita del tutto inattesa per Ōki.
– Mi scusi se sono venuta senza avvertire.
– Oh, – disse Ōki. – Quando è venuta l'ultima volta, ero fuori a fare quattro passi sulla collina qui vicino. Perché non mi ha aspettato?
– Taichiro mi ha accompagnato alla stazione.
– Lo so. Spero che l'abbia portata un po' in giro per Kamakura.
– Oh, sì, – rispose Keiko.
– Ma se è nata a Tokyo, Kamakura non dovrebbe offrire novità per lei. In confronto a Nara o a Kyoto, non ci sono luoghi particolarmente interessanti.
Keiko fissava lo sguardo sul volto di Ōki e disse soltanto:
– Era molto bello il sole che calava nell'oceano.
Ōki si meravigliò che il figlio l'avesse accompagnata fino in riva al mare. Disse:
– Ci siamo visti l'ultima volta quando partivo da Kyoto la mattina del primo gennaio. Sono già passati sei mesi.
– È vero, signor Ōki. Ma, secondo lei, sono lunghi sei mesi? A lei sono parsi lunghi?
Senza riuscire sul momento a cogliere il significato della strana domanda di Keiko, Ōki rispose:
– Secondo come uno lo interpreta. Possono essere lunghi o brevi –. Keiko non sorrise nemmeno. Si mostrava quasi sprezzante per la risposta piuttosto banale di Ōki, che dovette aggiungere in fretta:
– Per esempio, sono lunghi sei mesi di lontananza da una persona cara.
Keiko continuò a ignorare le sue parole. I suoi occhi dai riflessi azzurri fissavano Ōki con un'aria quasi di sfida. Ōki si sentì alquanto irritato e disse: – In sei mesi, il feto comincia a muoversi nel ventre della madre.
Ma nemmeno questa volta riuscì a far arrossire Keiko.
– La stagione è cambiata dall'inverno all'estate. Se vogliamo chiamare estate questa orribile stagione di pioggia.
Keiko si ostinava nel silenzio, e Ōki dovette riprendere:
– Tanti hanno filosofato sulla questione del tempo e nessuno ha dato una risposta pienamente convincente. Si dice comunemente che il tempo riesce a risolvere qualsiasi problema, e la gente ci crede sul serio. Ma io ne dubito. Si dice anche che la morte ponga fine a tutto. Signorina Sakami, lei cosa ne pensa?
– Non sono ancora arrivata a tanto pessimismo, – disse Keiko.
– Non credo che si tratti di pessimismo, – ribatté Ōki. – Naturalmente i miei sei mesi non sono uguali a sei mesi di una ragazza giovane come lei. Poi, saranno ancora diversi i sei mesi di uno che è malato di cancro e che sa di avere soltanto quel tempo a disposizione. Altri muoiono inavvertitamente in un incidente d'auto. La guerra, poi… Ma può capitare di morire uccisi anche fuori della guerra.
– Mi meraviglio di sentire questo da lei che è un artista.
– Un artista che lascia dietro di sé soltanto opere insignificanti.
– Le opere insignificanti non rimangono.
– Crede? Fosse vero. Ma non è sempre così, purtroppo. Se le cose andassero come dice lei, nessuna tra le opere mie rimarrà. Preferisco forse così.
– Lo dice ma non lo pensa. Signor Ōki, lei sa benissimo che rimarrà per esempio La sedicenne, con la storia della signorina Ueno.
– Ancora La sedicenne! – disse Ōki, e si fece scuro. – Devo sentirlo perfino da lei che è sua allieva?
– Lo dico appunto perché sto con lei. Chiedo scusa.
– Non c'è di che… Cioè, credo sia inevitabile…
– Signor Ōki, – disse Keiko illuminandosi d'un tratto in viso. – Lei ha amato qualcuno anche dopo la signorina Ueno?
– Beh. Mentirei se dicessi di no. Ma non è mai stato tanto doloroso come quando ho amato lei.
– E perché allora non ha più scritto su altre donne?
– Già… – Ōki esitò un attimo. Poi disse. – Quando mi proibiscono di usarle come modelli, bisogna frenarsi. Ecco la verità.
Pareva che Keiko non avesse colto il significato delle sue parole e Ōki dovette proseguire:
– Può darsi che sia un atteggiamento negativo per un artista. D'altra parte, non ho più amato con tanta passione come amavo Otoko.
– Di me, se vuole, può scrivere qualsiasi cosa.
Ōki restò di sasso. Era soltanto la terza volta che la incontrava. La prima volta all'albergo, mandata da Otoko, poi alla stazione di Kyoto e oggi, in casa sua a Kita Kamakura. Erano tutti incontri fugaci e senza sostanza. Cosa avrebbe potuto scrivere di lei? Prendere a prestito la sua bellezza per la protagonista di un romanzo? Sarebbe già stato molto. O era accaduto qualcosa tra lei e suo figlio, durante la loro passeggiata in riva al mare?
– Voleva dire che ho davanti a me un buon modello? – Ōki cercò di scherzare e rise. Ma il suo riso fu risucchiato nella luce incantevole degli occhi di lei, lievemente umidi di lacrime. Ōki ringhiottì le parole. – Otoko mi ha promesso di farmi un ritratto, – disse Keiko.
– Sì?
– Signor Ōki, le ho portato oggi un altro quadro fatto da me. Volevo sentire il suo parere.
– Non m'intendo molto di pittura astratta. Ad ogni modo qui stiamo troppo stretti per guardare un quadro. Me lo farà vedere nella stanza di là. I suoi quadri precedenti, mio figlio li ha appesi tutti e due sulla parete della sua stanza.
– Non è in casa suo figlio?
– No. È il suo giorno di università. Mia moglie è andata al teatro, a vedere il Bunraku.
– Sono stata fortunata a trovarla solo in casa, – sussurrò Keiko a bassa voce, e andò a prendere il quadro montato in una cornice molto semplice di legno bianco. Sopra il verde dominante era sparsa una varietà audace di colori, che dava al quadro un effetto ondoso.
– Tra le mie opere, questa tende molto al concreto, – disse Keiko. – Rappresenta infatti un campo di tè a Uji.
– Un campo di tè? – rispose Ōki meravigliato, fissando lo sguardo sul dipinto. – Ora comincio a capire. Un campo di tè ondoso. Tutto emana l'energia travolgente della giovinezza. A un primo sguardo, mi era parso che rappresentasse un cuore che è sul punto d'accendersi.
– Se le piace così Keiko si era messa in ginocchio dietro a Ōki, con il mento che gli toccava quasi la spalla. Ōki sentiva il suo alito dolce e caldo sui capelli.
– Signor Ōki, – disse Keiko. – Sono così felice che lei veda in questo quadro raffigurato il mio cuore oscillante. D'altronde non è riuscito, come descrizione di un campo di tè.
– È molto giovanile.
– Sono andata veramente in un campo di tè per farvi qualche abbozzo. Ma i cespugli di tè mi apparivano tali solo nella prima mezz'ora. Il campo era molto tranquillo. D'un tratto mi è sembrato che gli strati ondosi dei cespugli tondeggianti, d'un verde freschissimo, prendessero a muoversi ritmicamente. Ecco, questo è il risultato. Perciò non si può parlare di un quadro astratto.
– Per me il campo di tè ha sempre un tono sommesso, perfino nella stagione dei germogli.
– Signor Ōki, non conosco nulla che sia di tono sommesso. Si tratti della pittura, o si tratti dei sentimenti…
– Dei sentimenti? – domandò Ōki, e volse la spalla, sfiorandole il turgore del seno. Ebbe davanti agli occhi il suo orecchio. – Se non sta attenta, finirà col tagliarsi questo orecchio stupendo.
– Non pretendo di essere un genio come Van Gogh, – rispose pronta Keiko. – A meno che qualcuno lo mangi.
Sorpreso alle sue parole, Ōki si volse di nuovo verso Keiko, che gli stava stretta accanto. Al movimento di Ōki, Keiko barcollò e cercando di tenersi in equilibrio, si aggrappò a lui.
– Io detesto ogni sentimento che sia di tono sommesso, – ripeté Keiko restando nella stessa posizione. Se Ōki avesse fatto forza col braccio, appena appena, Keiko inevitabilmente gli sarebbe caduta in grembo, pronta per un bacio.
Ma Ōki non si mosse. Keiko stava nella posizione di prima.
– Signor Ōki, – sussurrò fissandolo con uno sguardo intenso.
– Ha delle orecchie stupende, – disse Ōki. – Il suo profilo ha una bellezza quasi ammaliante.
– Grazie, – disse Keiko arrossendo nel collo sottile e flessuoso. – Terrò con me le sue parole gentili per tutta la vita. Ma quanto tempo durerà questa bellezza che lei loda? È un pensiero triste per una donna.
Ōki non sapeva che cosa rispondere.
– M'intimidisce quando mi guarda così, – continuò Keiko. – Eppure qualsiasi donna si sentirebbe orgogliosa di essere ammirata da un uomo come lei.
Il calore delle parole di Keiko gli giunse inatteso. Sarebbe stato plausibile soltanto in un colloquio d'amore. Finse quindi una certa gravità, e disse:
– Sono io ad essere orgoglioso. Lei deve nascondere in sé ancora tanta bellezza.
– Non saprei. Sono alle prime armi come pittrice, ma non sono una modella.
– Un pittore non ha bisogno di nascondere l'identità delle sue modelle, ma per uno scrittore è diverso, e a volte penso che questo sia ingiusto.
– Se vuole usarmi come modella, sono dispostissima…
– Le sono grato, ma…
– Le ho detto poco fa che lei mi può descrivere come vuole. Anche se mi renderà un po' triste non riuscire a uguagliare la bellezza che lei saprà creare con la sua fantasia e immaginazione.
– Devo ritrarla in astratto o in concreto?
– Come le piace…
– Ma si rende conto che esiste una differenza fondamentale tra la modella di un pittore e un modello letterario?
– Lo so bene, – rispose Keiko battendo le lunghe ciglia. – Anche il mio campo di tè, per quanto possa essere un'opera immatura, non lo ritrae realisticamente. Invece di ritrarre il paesaggio, ho finito col fare il mio autoritratto.
– Può capitare con tutto, sia in astratto che in concreto. Comunque, non credo si parli di modelli nell'arte figurativa, se non si tratta proprio d'un ritratto. Nei romanzi, si parla invece di modelli quando il soggetto è una persona. Stranamente, però, non si usa la parola modello quando si tratta della descrizione di un personaggio e di fiori.
– Ma io sono una persona.
– Una persona bellissima, direi –. Ōki tese la mano a Keiko per farla alzare, e continuò: – Tutto ciò che un pittore chiede alla sua modella è di posare per lui, mentre a un romanziere questo non basta… – Lo so.
– Ma si rende conto di ciò che sta dicendo?
– Sì.
Ōki si sentì sopraffatto della sfrontatezza giovanile di Keiko. Riuscì a dire finalmente:
– Potrei prendere a prestito la sua figura per la protagonista del mio romanzo.
– Non mi interessa, – ribatté la voce accattivante.
– A volte voi donne siete strane, – disse Ōki come se cercasse di svincolarsi dalla sua morsa. – Per ogni romanzo, almeno una o due di voi crede fermamente di esserne il modello. Spesso l'autore quella donna non l'ha nemmeno conosciuta, mai ha avuto nulla da fare con lei. Mi domando che illusione sia questa.
– Tante donne hanno un passato triste e si consolano facendosi delle illusioni.
– Non siete un po' pazze?
– Noi perdiamo la testa facilmente. Pretende lei di non aver mai fatto perdere la testa a qualcuno?
Ōki non seppe rispondere.
– Lei aspetta forse con freddezza, mentre le donne perdono la testa per causa sua? – incalzò Keiko.
Anche questa volta, Ōki non trovava risposta e cercò di cambiare discorso.
– Paragonata alla modella dell'arte figurativa, la modella di un romanzo è una vittima, direi, senza ricompensa.
– A me piace moltissimo diventare una vittima. La più grande gioia della mia vita sarebbe di sacrificarmi per qualcuno.
Furono parole inattese per Ōki.
– Sarà una vittima volubilissima, signorina Sakami. Sarebbe una vittima che chiede di sacrificarsi al sacrificato.
– No, si sbaglia in questo. Il sacrificio ha le sue radici nell'amore ed è fondato sul sogno.
– La signorina Ueno, quindi, sarebbe lo scopo del suo sacrificio?
Keiko non rispose.
– Dica la verità, – insisté Ōki.
– Può darsi. Ma la signorina è una donna. Un sacrificio offerto da una donna a una donna è sempre in qualche modo interessato.
– Non capisco.
– Si prova la terribile sensazione che alla fine sarà una rovina per l'una e per l'altra.
– Una rovina per l'una e per l'altra?
– Sì. Io non sopporto alcuna incertezza nei rapporti umani. Voglio dimenticare me stessa per un brevissimo spazio di tempo. Mi basterebbero cinque o sei giorni.
– Lei sta chiedendo una cosa impossibile, – disse Ōki. – Non riusciamo a dimenticare noi stessi nemmeno nel matrimonio.
– Ho avuto molte occasioni matrimoniali. Ma nello stesso tempo mi tormenta l'idea che neppure nel matrimonio è possibile vivere in uno stato di sacrificio perenne. E io detesto ogni specie di indugio nella vita. Non sopporto, come ho detto prima, alcun sentimento che sia di tono sommesso.
– In tal caso, deve incontrare una persona che le piace e poi uccidersi dopo cinque giorni.
– Oh, – esclamò Keiko. – Non ho paura di uccidermi. Ho più paura di vivere senza entusiasmo che di essere delusa. Sarei felice di vedermi strangolata da lei, signor Ōki. Ma prima devo offrirmi come modello del suo romanzo.
Ōki non poté fare a meno di pensare che la ragazza era venuta con lo scopo di sedurlo. La conosceva troppo poco per sospettare intenzioni maligne in lei, ma certamente la ragazza offriva un materiale interessante per un romanzo. Avrebbe potuto amarla, poi lasciarla. Ma Ōki temeva che lei pure, come Otoko, potesse finire nel reparto psichiatrico di un ospedale.
Quando Keiko era arrivata quel giorno all'inizio di primavera con i due quadri nell'assenza di Ōki, era stato Taichiro a riceverla. Ōki si trovava sulla collina vicino a casa a contemplare il tramonto. Suo figlio aveva accompagnato Keiko non alla stazione di Kita Kamakura, a due passi da casa, come Ōki aveva creduto, ma fino in riva al mare. Evidentemente Taichiro era stato completamente conquistato dal fascino ammaliante di Keiko.
Non deve pigliare Taichiro, si disse Ōki tra sé e sé. Sarebbe una preda troppo facile per Keiko. Lo distruggerebbe completamente. Ebbe la certezza, nello stesso tempo, che il suo pensiero non era dettato dalla gelosia.
– Le sarei infinitamente grata se lei tenesse questo quadro nel suo studio, – disse Keiko.
– Lo farò, – rispose Ōki, con poco entusiasmo.
– Voglio che lei lo guardi di notte, quasi al buio. Allora al posto del verde delle piante, vedrà galleggiare le tinte che ho messo a mio capriccio.
– Sì? Ma forse allora farò sogni strani.
– Che specie di sogni?
– Sogni giovanili, forse.
– Sarebbe bello, – esclamò Keiko, – se fosse così.
– Ma lei è giovane. Le ondulazioni verdi delle piante di tè rappresentano il mondo di Otoko, mentre i colori audaci appartengono a lei, non è così?
– Le chiedo di tenerlo con sé anche per un giorno solo. Dopo, ne disporrà come vuole. Non m'importa se rimarrà in fondo a un armadio a coprirsi di polvere. Non è un capolavoro. Verrò un giorno a distruggerlo con un coltello.
– Eh?
– Lo dico sul serio, – fece Keiko con un'espressione inaspettatamente docile. – Non è un'opera importante. Ma la prego di tenerlo solo un giorno nel suo studio.
Ōki non rispose. Keiko rimase a testa china per un attimo, prima di riprendere a parlare.
– Chi sa se un quadro tanto elementare riuscirà mai a farla sognare…
– Non dico per offenderla, ma penso che sia più facile sognare di lei che sognare del quadro, – disse Ōki.
– Per me va bene lo stesso. Non avrei nulla in contrario se dovesse sognarsi di me… – rispose Keiko, mentre le si tingevano di rosso le orecchie stupende. – Ma lei non mi conosce abbastanza per riuscire a sognarsi di me.
Keiko volse a Ōki uno sguardo intenso. D'un tratto gli occhi le si inumidirono di lacrime.
– Quando mi ha portato i suoi quadri l'ultima volta, mio figlio l'ha accompagnata fino al mare. Lasci che l'accompagni io questa volta. Accetta? Non c'è nessuno in casa e non posso invitarla a cena. Prenderemo un taxi.
L'automobile attraversò la città di Kamakura e corse lungo la spiaggia di Schichiri. Keiko rimaneva in silenzio.
Il cielo nella stagione della pioggia incombeva grigio sopra il mare, anch'esso grigio, della baia di Sagami.
Ōki disse all'autista di aspettarlo all'ingresso del Parco Marino di Enoshima. Comprò un po' di pesce per dar da mangiare ai delfini che, spiccando salti vivaci sull'acqua, presero i pesci dalla mano di Keiko. A poco a poco, Keiko si faceva coraggio e alzava più in alto la mano con l'esca. I delfini saltavano sempre più in alto per acchiappare i pesci. Keiko si divertiva come una bambina e non si accorse quando cominciò a piovere.
– Prima che si metta a diluviare, – disse Ōki, – andiamo via. Vedo che i delfini le hanno bagnato la gonna.
– Ma è stato così divertente, – disse Keiko.
Nella macchina, fu Ōki ad aprir bocca per primo.
– C'è un punto qui vicino, alle terme di Ito, dove a volte vengono banchi di delfini. Gli uomini si buttano nel mare a spingere i delfini verso la spiaggia e alla fine li acchiappano con le braccia nude. Pare che i delfini si lascino catturare facilmente se gli si fa il solletico sotto le pinne.
– Oh…
– Chi sa se la stessa cosa funzionerebbe con le ragazze.
– Non funziona affatto. Le ragazze si dibattono, graffiano.
– Sono forse più docili i delfini, suppongo.
La macchina li portò in un albergo in cima a una collina. In lontananza, si vedeva grigia l'isola di Enoshima. La penisola di Miura era offuscata dalla foschia verso sinistra. La pioggia cadeva ora a grosse gocce, e una fitta nebbia rendeva confuso l'intero paesaggio. La pineta accanto all'albergo si vedeva appena.
L'aria era intrisa di umidità e Ōki si sentiva il vestito incollato al corpo.
– Con questa nebbia, – disse Ōki, – non potremo più andar via di qui. Sarà pericoloso avventurarsi fuori.
Keiko annuì. La prontezza della sua risposta sorprese Ōki.
– Bisognerà che io mi lavi prima di cena. Ho la pelle tutta appiccicosa, – disse Ōki strofinandosi il viso con le mani. – Mi permette di farle il solletico per vedere se funziona come con i delfini? – Mi offende se mi confonde con loro… Perché deve umiliarmi tanto? Giocare ai delfini con lei… S'immagini… – Così dicendo, Keiko accostò una spalla alla finestra e disse: – Come è buio il mare.
– Chiedo scusa, – disse Ōki.
– Almeno abbia la decenza di dirmi, per esempio, voglio vederla meglio, o di prendermi in braccio senza dirmi nulla… – Non si opporrebbe?
– Chissà… Comunque mi pare orribile sentirmi paragonata a un delfino.
Non mi prenda per una sgualdrina. Non la credevo tanto volgare.
– Volgare… già… – Ōki andò a lavarsi nel bagno.
Dopo una doccia rapida, Ōki pulì la vasca e fece scorrere l'acqua calda. Venne fuori strofinandosi con un asciugamano i capelli arruffati.
– Ho finito, – disse a Keiko senza guardarla. – Ho lasciato aperta l'acqua calda. La vasca sarà quasi piena.
Keiko guardava il mare buio con un'espressione tesa sul volto; vedendo arrivare Ōki, disse:
– La pioggia ha portato una nebbia fitta. Non si vedono ormai né le isole né il promontorio.
– È triste? – domandò Ōki.
– Mi dà fastidio perfino il colore delle onde.
– Non sente il corpo appiccicoso per l'umidità? Ho preparato per lei l'acqua calda. Perché non va a lavarsi?
Keiko annuì e andò nella sala da bagno. Non si sentì nessun rumore d'acqua. Poco dopo, venne fuori col viso senza più trucco e, sedendo davanti alla specchiera, aperse la borsetta.
Ōki le si accostò da dietro e disse:
– Mi sono lavato i capelli sotto la doccia, ma non avevo nulla per ungerli, così sono rimasti secchi e arruffati. La pomata che ho trovato nel bagno aveva un odore sgradevole.
– Vuol provare questo profumo? – chiese Keiko offrendogli un flaconcino. Ōki lo annusò e disse ridendo:
– Devo prima lisciarmi i capelli con quella pomata e poi profumarli con questo?
– Appena appena, – disse Keiko. Ma rideva anche lei.
Ōki afferrò la mano di Keiko e disse: – Keiko, non metta niente.
– Ahi, mi fa male! – esclamò Keiko. – Cattivo.
– Mi piace così com'è. Mi piacciono i suoi denti bellissimi, le sue sopracciglia… – E Ōki premette le labbra sulla guancia accaldata di Keiko. Essa diede un grido soffocato.
La sedia cadde a terra e cadde anche Keiko. Le labbra di Ōki si posarono sulla sua bocca.
Fu un bacio lunghissimo.
Ōki si sentiva soffocare e staccò il viso.
– No. Di più…, – sussurrò Keiko trattenendolo a sé.
– Nemmeno una pescatrice di perle sarebbe capace di rimanere sott'acqua per tanto tempo, – disse Ōki, un po' sorpreso. – La farò svenire… – Mi faccia svenire, allora.
– A dir la verità le donne riescono a trattenere il respiro più a lungo degli uomini –. Cercando di scherzare, Ōki le diede un altro bacio lunghissimo. Gli mancò di nuovo il respiro. Prese Keiko fra le braccia e la distese sul letto. Keiko si contrasse coprendosi il petto con le mani. Tuttavia non oppose resistenza mentre lui cercava di sciogliere il groviglio delle sue membra. Fu un'impresa laboriosa. Ōki capì che la ragazza non era più vergine. La scoperta gli diede sollievo; stava per avventarsi su di lei, quando a un tratto sotto di sé la sentì gemere con voce triste:
– Otoko, Otoko!
Per un attimo, a Ōki era parso che la ragazza dicesse il suo nome; quando s'accorse che diceva il nome di Otoko, di colpo s'afflosciò:
– Cos'hai detto? Hai chiamato Otoko? – disse, con palese irritazione.
Senza rispondere, Keiko lo respinse e si staccò da lui.
Il giardino di rocce
Tra i famosi giardini di rocce nei templi di Kyoto, i più importanti rimasti fino a oggi sono quelli del Saihōji, il cosiddetto «tempio del muschio», del Ginkakuji, il Padiglione di Argento, del Ryōanji, e il giardino di Daisen'in del Daitokuji e il Taizōin del Myōshinji. Tra questi, il più celebre è il giardino di Ryōanji. Indiscutibilmente esso rappresenta il punto più alto raggiunto dall'estetica dello Zen, ed è diventato ormai quasi un mito. La sua fama non è priva di fondamento: tra i numerosi giardini di rocce, senza dubbio è il più completo. Si può parlare di un grande capolavoro.
Otoko Ueno li conosceva tutti a memoria. Ma quell'anno, finita la stagione delle piogge, aveva cominciato a frequentare assiduamente un piccolo giardino di rocce dietro il Saihōji. Sapeva che era un soggetto difficile da rappresentare pittoricamente. Per di più il materiale le sembrava più congeniale a un uomo che a una donna. Eppure desiderava accostarsi per mezzo dell'arte alla forza che pareva nascondersi nell'intimo del giardino.
Benché il Saihōji sia un tempio famoso soprattutto per il suo giardino di muschio, il suo giardino di rocce è non solo il più antico tra tutti i giardini di Kyoto, ma probabilmente è quello che dà una maggiore sensazione di forza. Tuttavia quello che attirava Otoko in quel giardino, non era soltanto l'idea di ritrarlo. La affascinava in particolare il contrasto tra il giardino di muschio sotto il pendio della collina dietro il tempio e il giardino di roccia a metà del pendio. Non fosse stato per i turisti che arrivavano continuamente dal piano, Otoko avrebbe desiderato restar là soltanto per contemplare la composizione di rocce. Teneva in mano il blocco di carta da disegno soprattutto per scansare gli sguardi curiosi dei visitatori che la squadravano mentre lei si spostava da un punto all'altro, per studiare il giardino da lati diversi.
Il Saihōji fu restaurato nel 1339 dall'abate Muso, che oltre agli edifici principali del tempio, fece sistemare il giardino scavando un laghetto artificiale con un'isola. Soleva accompagnare, si dice, i suoi ospiti a Shukuóntei, cioè al piccolo padiglione «della prospettiva», in cima alla collina, per godere il paesaggio della città. Tutti gli edifici fatti costruire dall'abate andarono distrutti per una ragione o l'altra. Anche il giardino, devastato più volte dalle acque come da altre calamità, fu ricostruito a varie riprese. Dicono che l'attuale giardino di rocce si trovasse originariamente situato lungo la fila di lampioni di pietra del vialetto che porta al padiglione panoramico. Rappresenterebbe una cascata con un corso d'acqua. Trattandosi di una composizione di rocce, il disegno probabilmente non ha subito cambiamenti essenziali.
Si racconta che nel XVII secolo, vi avesse cercato rifugio Shoan, il secondogenito di Sen Rikyū, il famoso caposcuola della cerimonia del tè. Ma Otoko non aveva nessuna voglia di accertarsi delle considerazioni o dei fatti storici. Veniva lì soltanto per contemplare il giardino di rocce. Keiko la seguiva fedelmente.
Fu Keiko a dire un giorno:
– La composizione delle rocce è un'arte astratta. Mi pare di ricordare la stessa forza in un quadro di Cézanne che rappresenta le rocce di Estaque.
– Come sei erudita, Keiko, – rispose Otoko. – Ma le rocce di Cézanne fanno parte di una vera montagna rocciosa… Non è così? È una massa rocciosa in riva al mare, se non mi sbaglio.
– Ma Otoko, questo giardino è già di per sé una pittura astratta. Non avrei coraggio di dipingere realisticamente queste rocce.
– Hai ragione. Infatti, non è quello che sto cercando di fare.
– Provo magari a buttar giù uno schizzo.
– Se vuoi. Mi è piaciuto il tuo quadro con il campo di tè. Era molto fresco e giovanile. Hai portato quello da Ōki, vero?
– Sì. Però a quest'ora la moglie l'avrà strappato o comunque distrutto. Sai, ho passato la notte in un albergo di Enoshima col signor Ōki. Voleva giocare ai delfini con me. Non mi aspettavo che potesse cadere così in basso. Ho dovuto pronunciare il tuo nome perché si fermasse. Ti ama sempre ed è pieno di rimorsi verso di te. Da rendermi gelosa.
– Ma, Keiko, – esclamò Otoko. – Cosa vuoi fare di Ōki?…
– Voglio distruggere la sua famiglia. Per vendicare il torto fatto a te.
– Vendicare?
– Sì. Sono offesa perché tu ami ancora Ōki. Nonostante tutta la brutalità con cui ti ha trattato, tu lo ami ancora. Come siamo ridicole, noi donne. È questa stupidità che mi offende.
Otoko rimase ammutolita.
– Sono gelosa, – riprese Keiko.
– Gelosa di che?
– Gelosa e basta.
– Vuoi dire che hai passato la notte nell'albergo di Enoshima con Ōki solo a causa della gelosia? Se sono ancora innamorata di Ōki, come dici tu, non dovrei essere io a provare gelosia?
– Saresti veramente gelosa di me? – disse Keiko con una sfumatura d'allegria nella voce. Ora la sua mano col pennello scorreva veloce sulla carta. – All'albergo, non sono riuscita a chiudere occhio tutta la notte. E intanto Ōki dormiva tranquillo. Sono odiosi i cinquantenni.
Turbatissima di ciò che aveva appena sentito, Otoko aveva voglia di domandare se avevano dormito in letti separati o in un letto matrimoniale. Ma non ne ebbe il coraggio.
– Posso strangolarlo in qualsiasi minuto, mi dicevo, e l'idea mi rendeva così felice…
– Oh, come sei pericolosa. Mi metti paura.
– Era solo un pensiero, si capisce. Ma ne ero rallegrata, e non sono riuscita a chiudere occhio tutta la notte.
– E sostieni di far questo per me? – Le mani di Otoko tremavano. – Io non posso credere che lo fai per me.
– Ti assicuro che lo faccio per te.
Otoko fu invasa da un profondo senso di sgomento, pensando quanto Keiko avesse una natura di seduttrice. Disse: – Keiko, ti prego di non andare più da Ōki. Ho paura che succeda qualcosa di terribile.
– Anche tu, quando ti hanno rinchiuso in ospedale, non hai forse avuto desiderio di ucciderlo?
– No di certo. Ero pazza, ma non avrei mai pensato di fare del male a qualcuno…
– La tua malattia in tal caso era causata non dal rancore verso di lui, ma dall'amore?
– C'era di mezzo la bambina…
– La bambina?… – Keiko rimase un attimo in silenzio, come cercando le parole nella sua mente; poi disse: – Otoko, posso forse anch'io avere un figlio da Ōki. – Keiko!
– Prima il bambino, poi faremo ancora in tempo a seppellire Ōki.
Come l'avessero bastonata, Otoko stette a fissare la sua allieva. Quella figura stupenda, con il collo lungo e delicatamente slanciato, con il profilo perfetto, le si stagliava davanti agli occhi in un contrasto pauroso con quelle parole malefiche.
– Certo che tu potresti avere un bambino da lui, – disse infine, con affanno, cercando di dominarsi. – Ma capisci davvero ciò che stai dicendo? A me è indifferente ormai che tu possa avere un bambino suo. Ma quando ci sarà di mezzo un bambino, non parlerai più in quel modo. Le cose cambiano moltissimo, sai.
– Non cambierò io, – disse Keiko.
Che cosa era successo in realtà fra lei e Ōki, nell'albergo di Enoshima? Otoko intuiva che la ragazza non le aveva raccontato tutto. Le nascondeva ancora qualcosa. Che cosa mai cercava di nascondere dietro le sue parole, così accese di gelosia e di vendetta?
Domandandosi se era ancora capace di provare gelosia per Ōki, Otoko chiuse gli occhi. Intanto il giardino di rocce si era ritratto in un angolo della sua mente, e vi svaniva come un'ombra.
– Otoko! – Chiamandola, Keiko cinse le sue spalle. – Cos'hai? Tutt'a un tratto sei diventata pallida La pizzicò forte sotto l'ascella.
– Mi fai male! – disse Otoko, e perdendo l'equilibrio cadde a terra su un ginocchio. Aiutandola ad alzarsi, Keiko le disse:
– Otoko, ti rendi conto che io ho solo te? Che sei tutto per me?
In silenzio, Otoko si asciugò sulla fronte il sudore freddo.
– Keiko, – disse dopo un attimo. – Se vai avanti così, ti renderai infelice. Ti costruirai una vita d'infelicità.
– Non ho paura dell'infelicità.
– Parli così perché sei ancora giovane e bella…
– Finché mi lasci stare con te, sarò sempre felice.
– Sei molto gentile. Ma io non sono che una donna.
– Odio gli uomini… – disse Keiko con accento deciso.
– Non devi dire così… Se stai dicendo la verità, sarà peggio se stiamo insieme… – La voce di Otoko suonava triste. – Per di più, abbiamo tendenze artistiche talmente diverse…
– Odierei un maestro che avesse le mie stesse tendenze.
– Odi tante cose –. Otoko aveva ripreso la calma. – Mi fai vedere i tuoi schizzi?
– Ecco.
– Che cosa rappresenta?
– Non prendermi in giro, Otoko. Sai che ho disegnato la composizione delle rocce. Guarda bene. Ho fatto l'impossibile per rappresentare un oggetto che non si può rappresentare.
Guardando il disegno, Otoko impallidì di nuovo. Era uno schizzo interamente eseguito con l'inchiostro di china, e a una prima occhiata, riusciva difficile stabilire con chiarezza che cosa rappresentasse. Ma a Otoko parve di sentirvi un'eco profonda del mistero della vita. Era una dote che finora nei disegni di Keiko non c'era stata mai.
– Ho capito, – disse Otoko tremando. – Si vede che fra te e Ōki, a Enoshima, è accaduto qualcosa di violento.
– Violento?… Lo chiami violento?
– La tua maniera di disegnare è cambiata.
– Otoko, ti dirò tutto, allora. Il signor Ōki non è capace nemmeno di baciarmi a lungo.
Otoko non sapeva che rispondere.
– Succede così a tutti gli uomini?
Anche questa volta Otoko non seppe rispondere.
– Per me è stata la prima esperienza con un uomo.
Fino a che punto si era spinta quella «prima esperienza»? si domandò Otoko, mentre continuava a guardare il disegno di Keiko. Poi disse, quasi volesse cambiare discorso:
– Vorrei diventare come una roccia di questo giardino.
La composizione dell'abate Musō, vecchia di qualche centinaia di anni, aveva acquistato una patina antica che la faceva somigliare a un paesaggio naturale. Tuttavia, appariva con chiarezza la presenza di una mente umana che aveva disposto le rocce, e il suo aspro vigore riusciva a Otoko opprimente come non mai. Lo schiacciante peso che emanava lo spirito del creatore le toglieva quasi il respiro.
– Andiamo a casa, Keiko, – disse. – Comincio ad aver paura delle rocce.
– D'accordo, – annuì Keiko.
– Andiamo, – disse ancora Otoko. – Non possiamo restar qui a meditare sulle rocce dei monaci Zen –. E si alzò barcollando un poco. – Non è roba per me, questa. Un oggetto così astratto va meglio per te che per me, avendo tu la mano più libera per penetrare dritta fino al vero significato.
– Otoko, – Keiko le prese il braccio. – Andiamo a casa e giochiamo ai delfini.
– Ai delfini? Cosa vuoi dire?…
Con un riso disarmante, Keiko andò verso un bosco di bambù, sulla sinistra del vialetto.
Era probabilmente quello il bosco splendido, immortalato nelle opere del fotografo Ken Domon.
Otoko camminò fiancheggiando il bosco di bambù. Sul suo viso, più che una semplice malinconia, si leggeva l'espressione di chi è minacciato da qualche pericolo.
Ad un tratto, Keiko colpì leggermente la spalla di Otoko e disse: – La composizione delle rocce ti ha succhiato via l'anima?
– Non direi. Ma mi piacerebbe rimanere a contemplarla per giorni e giorni, senza preoccuparmi del disegno.
– Sono soltanto rocce, sai, – disse Keiko con la solita spensieratezza. – Continuando a fissarle come fai tu, può darsi che a poco a poco si manifesti la loro energia nascosta, la loro bellezza levigata dal tempo. Ma dopo tutto, le rocce sono rocce… – Poi aggiunse: – Il poeta Seishi Yamaguchi ha scritto in qualche luogo: «Vivevo a quel tempo molto lontano dal Giardino delle Rocce, e ogni giorno vedevo soltanto il mare, così lontano dalla composizione delle rocce, che pure dovrebbero rappresentare delle isole nel mare. Ma solo quando mi trasferii a Kyoto, compresi a che cosa veramente mirasse il Giardino delle Rocce».
– Il mare e il giardino delle rocce… – disse Otoko. – Capisco. In confronto alle pareti di roccia in montagna o in riva al mare, la composizione delle rocce nel minuscolo giardino è evidentemente opera dell'uomo. Ma come mai allora questo giardino non mi permette di disegnare?
– Appunto. Ma è proprio perché è già in sé un'opera d'arte astratta. Io invece potrei giocarci, aggiungendovi colori, cambiandovi ogni forma, come mi pare, seguendo solo il mio senso dell'astratto.
Vedendo che Otoko non rispondeva, Keiko domandò: – A che periodo risalgono le composizioni delle rocce?
– Non lo so esattamente. Pare che non esistessero prima del XIV secolo.
– Usavano già a quell'epoca rocce antiche?
– Non ne ho la minima idea.
– Otoko, tu desideri creare opere che durino più a lungo di quelle rocce? – domandò Keiko.
– Non lo spero nemmeno, – disse lei, malinconica. – A ogni modo, suppongo che le piante siano cambiate con gli anni, sia in questo giardino sia in quello della Villa Imperiale di Katsura. Crescono, muoiono da sé o sono distrutte dal maltempo. Gli alberi subiscono mutamenti con gli anni; tuttavia non credo che siano cambiate le rocce.
A me piacciono le cose che cambiano e che sono destinate a scomparire. Il mio quadro del campo di tè, sono sicura, sarà stato distrutto, a quest'ora, dalla moglie di Ōki. L'avrà strappato o comunque fatto a pezzi. Perché lui ha passato la notte con me a Enoshima…
– Il quadro non mi dispiaceva… – Davvero?
– Hai deciso di portare tutti i tuoi quadri migliori a Ōki?
– Sì. Finché non ti avrò vendicato.
– Non ho bisogno della tua vendetta. Quante volte te lo devo ripetere?
– Lo so. Ma lo stesso io non voglio capire –. Keiko manteneva tuttora il suo tono allegro. – Sarà un modo femminile di serbare rancore. O lo faccio forse e semplicemente per testardaggine. O per gelosia.
– Gelosia?… – La voce tremava a Otoko, che strinse forte le dita di Keiko.
– Otoko, tu in segreto sei ancora innamorata di Ōki. E anche lui nasconde amore per te. L'ho intuito nella notte dell'ultimo dell'anno, mentre ascoltavamo le campane.
Otoko non rispose.
– Anche l'odio non è forse una manifestazione d'amore per una donna?
– Keiko, perché devi parlare di queste cose proprio ora?
– Mi pare di vedere nelle rocce e nelle pietre di questo giardino lo spirito degli uomini di una volta. L'arte astratta come veniva concepita dai giapponesi di una volta. Probabilmente perché sono troppo giovane, non riesco a capire il loro modo di interpretare. Ciò che abbiamo davanti a noi è un giardino coperto dalla patina di centinaia d'anni. Mi chiedo tuttavia come fosse quando era stato appena costruito.
– Mi deludi, Keiko, – disse Otoko. – A me non interessa affatto sapere come fosse il giardino quando era nuovo.
– Se dovessi dipingerlo io, lo cambierei secondo i miei gusti. Cambierei pure la composizione delle rocce e ci metterei colori diversi, cioè i colori del momento in cui il giardino è stato creato per la prima volta. E dopo ci metterei altri colori solo seguendo il mio capriccio.
Già. Forse tu puoi farlo.
– Otoko, il giardino ha una vita troppo lunga. Ci sopravviverà, a te e a me.
– Naturalmente, – rispose Otoko, ma un senso di gelo le traversò il corpo. – Anche se non durerà in eterno.
– A me bastano opere dalla vita breve… Finché mi fai rimanere con te, non m'importa se mi stracciano i quadri.
– Lo dici perché sei ancora giovane…
– Sarei felice infatti se la moglie di Ōki l'avesse strappato a brandelli, l'avesse distrutto completamente. Perché per farlo, bisogna essere spinti almeno da qualche pensiero violento. Non è vero?
Nemmeno questa volta, Otoko seppe rispondere.
– Altrimenti, chi guarderà sul serio i miei quadri? – disse Keiko amaramente.
– Non è detto, – la consolò Otoko.
– Non pretendo di essere un genio e non voglio lasciare nemmeno un quadro dietro di me. Io ti chiedo di tenermi con te perché ti voglio bene. Sarei stata soddisfatta anche se mi avessi tenuta solo per le faccende di casa. Accudire alle cose tue e lavare i piatti. Sei stata invece così gentile da insegnarmi a dipingere…
Le parole di Keiko sorpresero Otoko. – Keiko, – disse,
– non sapevo che tu…
– Questo è la verità del mio cuore.
– Nonostante le tue parole, – disse Otoko, – devi renderti conto del tuo talento. Il tuo estro spesso mi stupisce.
– Come con i disegni dei bambini? – domandò Keiko. – Da bambina, i miei disegni venivano esposti a scuola.
– La tua pittura è brillante: a differenza della mia, più comune. A volte ti invidio. Perciò non devi parlare così.
– D'accordo –. Keiko annuì con un'aria sottomessa. – Finché mi terrai con te, studierò con tutto il cuore –. Keiko era affascinante nella sua docilità. – Basta, Otoko. Non parliamo più della pittura.
Mi hai capito, vero?
– Sì Keiko annuì un'altra volta e disse: – Basta che mi lasci stare con te…
– Come potrei farti andar via?, – protestò Otoko, ma dopo un attimo aggiunse: – Però… – Però cosa?
– Una donna si sposa, poi nascono i figli…
– No, – disse Keiko ridendo allegramente. – A me non succederà.
– Tutto per colpa mia. Mi devi perdonare.
Otoko chinò il capo da un lato e strappò una foglia dall'albero vicino. Poi camminarono in silenzio.
– Otoko, – Keiko riprese per prima: – Non pensi che noi donne siamo da compatire? Non succede mai che un giovane s'innamori di una vecchia di sessant'anni, mentre una ragazza di nemmeno vent'anni può innamorarsi sul serio di un uomo di cinquanta, sessant'anni. Senza nessun interesse materiale, naturalmente… Cosa ne pensi tu, Otoko?
Otoko non seppe darle una risposta sul momento.
– Otoko, – riprese Keiko. – Ōki non vale ormai più nulla. Mi aveva preso per una sgualdrina… Io che non ho mai conosciuto un uomo. Otoko impallidì alle sue parole.
– Non solo, ma quando le cose si sono messe veramente male, ho gridato il tuo nome e lui non è stato più capace di far nulla.
– La mia femminilità è stata insultata per causa tua.
Il volto di Otoko era diventato di un colore cereo. Si sentiva mancare la terra sotto i piedi.
– Tutto questo all'albergo di Enoshima? – riuscì a dire infine.
– Sì.
Per Otoko Ueno, tuttavia, esisteva una ragione particolare che la rendeva incapace di qualsiasi protesta.
– Otoko, – disse Keiko, – vuoi un bambino da Ōki? Vuoi che lo abbia io per te?
Keiko all'improvviso sentì che le calava un violento schiaffo sulla guancia. Era così forte che le vennero le lacrime agli occhi.
– Splendido! – disse Keiko. – Dammene un altro! Su!
Otoko tremava.
– Dammene un altro…! – ripeté Keiko.
– Keiko, ti rendi conto che hai detto una cosa mostruosa? – Otoko balbettava.
– Non si tratta di un mio bambino. Volevo fare un bambino e darlo a te, Otoko. Volevo rubargli un bambino per te.
Arrivò un altro manrovescio sulla guancia di Keiko. Questa volta la ragazza si mise a piangere.
– Ma Otoko, – disse singhiozzando. – Con tutto il tuo amore per Ōki, non sei più capace di mettere al mondo un suo figlio. Ma io posso partorire un bambino senza esserne per nulla coinvolta. Non sarebbe allora la stessa cosa? Non sarebbe quasi un tuo bambino?
– Keiko! – Con un grido, Otoko uscì sulla veranda e diede un calcio alla gabbietta delle lucciole.
La gabbietta di bambù spiccò il volo dalla punta del piede nudo di Otoko, e volando, disegnò nell'aria uno sciame rapido di luci pallide e fosforescenti prima di ricadere sul muschio del giardino. Il cielo della lunga giornata d'estate si copriva di nuvole mentre s'avvicinava la sera, e saliva la solita foschia del crepuscolo. Tuttavia era ancora troppo chiaro perché la fosforescenza delle lucciole potesse apparire così manifesta allo sguardo. Lo sciame delle luci, quindi, era probabilmente una illusione ottica. Immobile, come colta da paralisi, Otoko guardava la gabbietta delle lucciole caduta a terra. Non batteva nemmeno le palpebre.
Keiko smise di singhiozzare. Col fiato sospeso rimase a spiare da dietro la figura di Otoko. Non aveva evitato il colpo di Otoko, e cadendo si era sorretta con la mano puntata sul tatami. Era come se fosse avvinta dall'incantesimo che prima aveva colpito Otoko. Era stato solo un attimo.
Arrivò Omiyo ad annunciare che il bagno era pronto.
– Grazie, – la parola le uscì appena dalla gola. Avvertiva una sensazione sgradevole di sudore attorno alla vita. Sentiva un sudore gelato sul petto.
– Non ha fatto molto caldo, ma è stata una brutta giornata… così umida… Chi sa quanto tempo durerà ancora la stagione delle piogge? – disse Otoko senza voltarsi verso Omiyo, e la ringraziò per il bagno.
Omiyo era una serva del tempio che aiutava anche a sbrigare le faccende in casa di Otoko. Faceva le pulizie, il bucato, lavava i piatti e qualche volta preparava i pasti. Otoko amava cucinare ed era anche veloce, ma quando era assorta nel disegno, stare in cucina la infastidiva. Pure Keiko, nonostante la sua apparenza, era una brava cuoca e riusciva a rendere bene i sapori delicati dei piatti tipici di Kyoto, ma era troppo capricciosa e non si poteva contare su di lei. Così capitava spesso che fosse Omiyo a preparare i pasti a mezzogiorno e la sera. Omiyo aveva da poco superato i cinquant'anni. Lavoratrice instancabile, prestava servizio al tempio ormai da sei anni. Alle faccende domestiche, però, provvedevano interamente la giovane moglie del prete e sua madre, e così a Omiyo rimaneva più tempo per aiutare Otoko nelle faccende di casa sua. Era una donna piccola e grassoccia, e solchi profondi le cingevano i polsi e le caviglie, come si vede spesso nei bambini piccoli.
Con un'espressione schietta sul volto, Omiyo guardò la gabbietta delle lucciole nel giardino e andò a esaminarla passando sul vialetto di pietre. Domandò: – Signorina, vuol far prendere alle lucciole la rugiada della notte? – E vedendo che la gabbietta era rovesciata, la mise a posto senza però tirarla su. Era convinta che fosse stata messa là di proposito. Omiyo si alzò e cercò con lo sguardo Otoko sulla veranda, ma la sua figura era già sparita verso il bagno. Lo sguardo di Omiyo incontrò allora quello di Keiko. Come trafitta dallo sguardo penetrante di quegli occhi umidi, Omiyo chinò il capo per un attimo. L'aveva però allarmata un segno rosso su una guancia impallidita di Keiko.
– Signorina Keiko, – chiese, – è successo qualcosa?
Senza rispondere, Keiko si alzò. I suoi occhi non lasciavano trapelare nulla. Dal bagno giunse il rumore d'uno scroscio d'acqua. Era Otoko che aggiungeva acqua fredda nella vasca e lo scroscio continuò a lungo. L'acqua doveva essere proprio bollente.
Keiko andò davanti allo specchio appeso sulla parete dello studio e aprendo la borsetta, si mise a rifarsi il trucco alla men peggio e a pettinarsi con un piccolo pettine d'argento. La specchiera a tre ante e lo specchio grande si trovavano nella stanzetta davanti alla sala da bagno, dove Otoko si era spogliata prima di andare in bagno e Keiko aveva evitato di entrarvi. Aprì quindi il primo cassetto del comò e ne trasse un kimono estivo, il primo su cui le era caduta la mano. Si cambiò anche la biancheria. Infilò le mani nelle maniche ampie del kimono, accompagnato dal sottokimono, cercando di regolarne la lunghezza. Ma le mani non le obbedivano.
– Otoko… – Inaspettatamente, sentì che pronunciava il nome di Otoko.
Il suo sguardo corse giù sui disegni del kimono, e vi scorse il volto di Otoko raddoppiato. Era stata lei a disegnarlo e a farlo tingere apposta per Keiko. I disegni rappresentavano dei convolvoli, fiori tipicamente estivi, e tra le opere di Otoko, quella era insolitamente audace e tendente all'astratto. I fiori parevano fluttuare nel vuoto come in un sogno. Anche i colori erano più audaci del solito; vi spiccava il libero uso delle sfumature. Il tutto emanava una freschezza giovanile. I colori tenui rasserenavano i nervi nell'afa estiva. Mentre Otoko lo disegnava, Keiko non si era mai staccata dal suo fianco. E sapeva che quella sua presenza costante era stata decisiva per l'esito del disegno.
– Esce, signorina? – domandò Omiyo dalla stanza accanto.
– Cosa sta guardando? – replicò Keiko. – Se proprio vuole guardarmi, venga pure qui a guardarmi bene.
Keiko si era accorta dello sguardo incuriosito di Omiyo, che la osservava mentre lei si rassestava il kimono.
– Esce? – Omiyo ripeté di nuovo.
– No. Non esco, – rispose Keiko prendendo in una mano l'orlo inferiore del kimono e portando nell'altra l'obi e gli altri accessori, e incamminandosi verso la stanzetta accanto al bagno. E disse perentoriamente:
– Omiyo, venga qui con le mie calze. Mi porti quelle nuove…
Otoko aveva sentito dal bagno i passi di Keiko e la chiamò da dentro.
– Keiko, vuoi venire? L'acqua è ben calda Era convinta che Keiko stesse per venir dentro a fare il bagno con lei. Ma Keiko stava davanti alla specchiera lottando con il kimono. Cercava ora di stringerlo alla vita con la cintura. Entrò Omiyo, posò le calze ai piedi di Keiko e se andò.
– Vieni presto, – Otoko chiamò di nuovo.
Immersa nell'acqua fino al petto, Otoko guardava le porte scorrevoli di cedro che davano sulla stanzetta. Aspettava Keiko che avrebbe aperto la porta fra poco. Ma tutto era calmo di là dalla porta; non si sentiva nemmeno il fruscio delle vesti che cadevano a terra.
Non riesce a decidersi a mostrarmi il suo corpo nudo, si disse Otoko. Improvvisamente, un sospetto atroce le trafisse il cuore. Si alzò di colpo dall'acqua e usci dalla vasca aggrappandosi all'orlo con una mano. Si sentiva quasi mancare il respiro.
Keiko esitava forse a farsi vedere nuda, dopo aver passato la notte all'albergo di Enoshima con Ōki?
Erano ormai più di due settimane che Keiko era tornata da Tokyo. Durante il suo soggiorno a Tokyo, Ōki l'aveva accompagnata a Enoshima. Da allora, avevano fatto insieme il bagno molte volte, e Keiko non si era mostrata mai troppo vergognosa nel farsi veder nuda. Tuttavia oggi, davanti al giardino delle pietre del Saihōji, Keiko le aveva confessato per la prima volta di aver passato la notte all'albergo con Ōki. E le sue parole erano state misteriose, in un certo senso perfino orribili.
Da qualche tempo, Otoko si accorgeva a poco a poco di un lato oscuro e ammaliatore nella ragazza. E anche sapeva che la propria presenza serviva a incoraggiare quel suo lato ammaliatore. Se non si poteva dire che fosse Otoko la creatrice di quell'essere oscuro, almeno era lei ad avvivare in qualche modo nella ragazza quelle fosche fiamme.
Perle di sudore le coprirono la fronte. Era un sudore freddo.
– Non vieni, Keiko? – domandò di nuovo.
– No.
– Non vuoi venire?
– No.
– Non hai bisogno di rinfrescarti?
– Non sono sudata.
Fu Otoko questa volta a restare in silenzio.
– Otoko, – disse Keiko. – Mi perdoni? Ti chiedo scusa… – La voce di Keiko suonò limpida e cristallina.
– Sono io che chiedo scusa – rispose Otoko. – Devi perdonarmi. Mi dispiace.
Keiko stava zitta.
– Cosa fai lì? – domandò Otoko. – Stai in piedi?
– Mi aggiusto l'obi.
– Cos'hai detto? Ti stai mettendo l'obi? – domandò meravigliata Otoko, asciugandosi il corpo in fretta. E aprendo la porta scorrevole, vide Keiko, stupenda nel suo kimono.
– Oh, esci? – chiese.
– Sì.
– Dove vai?
– Non lo so, – rispose Keiko, con un'ombra di malinconia negli occhi luccicanti. Come se si vergognasse improvvisamente della propria nudità, Otoko si mise sulle spalle un kimono di cotone, e disse:
– Vengo anch'io.
– Oh.
– Non devo venire?
– Sì, vieni –. Keiko voltò le spalle a Otoko. Il suo profilo era riflesso nello specchio. – Ti aspetto.
– Grazie. Faccio in fretta. Scostati un poco.
Otoko sedette davanti alla specchiera e il suo sguardo incontrò quello di Keiko nello specchio.
– Che ne diresti dell'idea di andare a Kiyamachi? Alla casa da tè da Ofusa… Vuoi telefonarle subito? Se non ha un posto sul balcone sopra il fiume, può andar bene anche una stanzetta al piano di sopra. Oh, non importa quale, basta che abbia la vista sul fiume. E se non riusciamo a prenotare la stanzetta, rinunciamo. Penseremo a qualche altro ristorante.
– Va bene, – annuì Keiko, poi disse. – Vuoi che ti porti un bicchiere di acqua fresca? Magari con un po' di ghiaccio?
– Grazie. Ho il viso accaldato?
– Sì. Sei nervosa?
– Ma stai tranquilla. Non c'è nessun pericolo che ti arrivi in faccia il flacone, – disse Otoko che stava versando delle gocce da un flacone di tonico sul palmo della mano sinistra.
L'acqua portata da Keiko sparse un'ondata di freschezza nel corpo di Otoko. Per telefonare, bisognava andare all'edificio centrale del tempio. Keiko tuttavia era già di ritorno prima che Otoko avesse finito di vestirsi.
– Il balcone è libero fino alle otto e mezzo. La signora Ofusa ci riserverà i posti fino a quell'ora.
– Fino alle otto e mezzo? – ripeté Otoko sottovoce. – Otto e mezzo. Per noi va benissimo. Se andiamo subito, potremo cenare con calma.
Otoko accostò le due ante della specchiera per guardarsi meglio.
– Sono pettinata bene? – domandò.
Annuendo, Keiko aggiustò il kimono sulle spalle di Otoko.
Il loto nelle fiamme
La lunga didascalia che accompagna l'illustrazione intitolata Una sera estiva sul fiume Kamo a Shijō dai Paesaggi famosi di Kyoto descrive bene le scene caratteristiche che si svolgono sul greto del Kamo ogni sera d'estate. Dice:
«… Case di piacere lungo le rive a est e a ovest innalzano i balconi provvisori; le panchine sono allineate sul greto, dove i lumi sembrano innumerevoli stelle; passa la gente in festa alle luci delle lanterne oscillanti sul fiume. Il viola scuro dei berretti dei giovani attori si agita nel vento del fiume; la luna accende splendore sui volti freschi dei giovinetti incantevoli, che si nascondono dietro ai leggiadri ventagli. Chi può distogliere lo sguardo da scene così stimolanti? Le cortigiane intanto rivaleggiano in bellezza, e le tinte dei loro abiti superano quelle delle rose di tutti i colori. Mentre passeggiano al sud e al nord l'aria si profuma del muschio più delicato».
Vi sono anche pagliacci e imitatori sul greto.
«Il teatro delle scimmie, la lotta dei cani, le acrobazie dei cavalli, il giuoco dei cuscinetti e saltimbanchi che attraversano la corda tesa, simili ad animali di favola. Il suono delle ciaramelle riempie l'aria, e l'acqua trabocca nella vasca del venditore di gelatina, che così cerca di vincere l'afa. Si sentono i fischi malinconici della fabbrica del vetro, un suono evocatore di freschezza. È allestita anche una fiera dove sono in mostra gli uccelli rari provenienti dal Giappone e dalla Cina, bestie feroci di alte montagne. Sul greto passeggiano insieme persone di ogni ceto…»
Anche il poeta Bashō visitò il posto nell'estate del 1690, e scrive: «"Le ore fresche sul greto a Shijō", così chiama la gente della capitale l'usanza di passare le ore di afa serale sul greto del fiume Kamo. Dal momento in cui sorge la luna fino a poco prima dell'alba, passano la notte sui balconi eretti sul fiume, bevendo, mangiando e divertendosi. Le donne portano obi dai grandi fiocchi, gli uomini giacche lunghe. Vengono a mescolarsi nella folla anche i preti e i vecchi, perfino gli apprendisti degli umili artigiani e tutti cantano a squarciagola felici e contenti. È un paesaggio unico davvero degno della capitale.
Il vento del fiume porta fino alle canne solitarie il chiasso delle "ore fresche".
Sull'intero greto si ammirano esposizioni di vari generi tra cui prodotti dell'artigianato del legno, baracche di saltimbanchi o di compagnie teatrali di infimo rango, e tutto è illuminato a giorno dai lampioncini di carta, dalle lanterne e dalle torce gigantesche». Più tardi le «ore fresche» sul greto del fiume Kamo vennero rallegrate dai caroselli e dalla teleferica, ma furono messe al bando dalla legge nei primi decenni di questo secolo, in seguito alla costruzione della ferrovia sulla riva occidentale del fiume e ai lavori di scavo. Fu così che entrarono in scena i balconi sul fiume, collegando in questo modo i quartieri di Kiya Superiore e Pontocho con quello di Kiya Inferiore.
Tra le descrizioni della scena delle «ore fresche» di una volta, Otoko ricordava in particolare questo passaggio: «Si agita nel vento del fiume il viola scuro dei berretti dei giovani; la luna accende splendore sui volti freschi dei giovinetti incantevoli, che si nascondono dietro ai leggiadri ventagli». A quei tempi, nella folla allegra sul greto del fiume illuminato dalla luna, si mescolavano anche «giovinetti incantevoli». Otoko si compiaceva a disegnarsi nella mente figure di fanciulli incantevoli.
Quando Keiko era arrivata da lei la prima volta, la sua figura aveva fatto venire in mente a Otoko l'immagine di quei fanciulli.
Anche ora, sul balcone della casa da tè Fusayaka di Ofusa, Otoko ricordava quel tempo. Keiko aveva allora un'aria da ragazzino; i «giovinetti incantevoli» di una volta dovevano essere molto più femminei e pieni di fascino erotico. Sono stata io a fare di Keiko quella che è, si disse Otoko con amarezza. Quel pensiero la lasciò di nuovo avvilita.
– Keiko, ti ricordi di quando sei venuta da me per la prima volta? – domandò Otoko.
– Oh, una storia vecchia! – disse Keiko.
– Quando ti ho avuto davanti agli occhi, mi è sembrato di vivere per un attimo in un incantesimo.
Keiko prese la mano di Otoko e se ne mise in bocca il mignolo, fissandola di traverso. Poi disse a bassa voce:
– Un giorno di primavera, verso il crepuscolo. Il giardino era immerso in una vaga foschia azzurrina. Venivo verso di te e parevo sospesa in quella foschia…
Keiko ripeteva semplicemente le parole pronunciate una volta da Otoko, la quale aveva spiegato che la foschia aveva accresciuto l'effetto dell'immagine misteriosa di Keiko. Per Keiko quelle parole erano rimaste indimenticabili.
Non era la prima volta che le due donne si descrivevano a vicenda la scena ripetendosi le stesse parole. Ogni volta che la cosa si ripeteva, Otoko finiva col rammaricarsi di averla amata così follemente e si tormentava accusandosi della propria colpa. Ma Keiko sapeva benissimo che tale sofferenza accresceva l'amore di Otoko verso di lei con un potere magico.
Il balcone della casa da tè accanto era illuminato da candele situate nei quattro angoli; una geisha e due giovani maiko facevano compagnia al cliente, un uomo obeso che annuiva alle parole delle giovani geishe con un'aria assente. Aspettava amici, o il calar della notte? Le candele accese apparivano insulse nella luce ancora abbastanza chiara di quell'ora, subito dopo il tramonto.
Il balcone accanto era lontano solo pochi centimetri da quello del Fusayaka. E tutti i balconi sovrastavano il canaletto di Misosogi che scorre parallelo al fiume Kamo. Tra un balcone e l'altro non c'era nessuna parete divisoria che ostacolasse la vista. E non si vedeva solo il balcone accanto, ma tutta la fila dei balconi allineati sopra il canale. E la vista di quei balconi così diversi accresceva l'aria festosa delle «ore fresche» in riva al fiume. I balconi, naturalmente, non erano coperti.
Incurante degli occhi curiosi dei balconi vicini, Keiko addentò il dito di Otoko. Il dolore le percorse le viscere. Tuttavia rimase in silenzio, senza ritrarre il dito dalla bocca di Keiko. Sentì poi la lingua di Keiko strisciarle sulla punta del dito. Infine, tirando fuori il dito dalla bocca, Keiko disse:
– Non ha nessun sapore. Si capisce bene che sei appena uscita dal bagno…
La vista che s'apriva sull'altra riva del fiume, attraverso la città, verso i colli di Higashiyama, calmò i nervi turbati di Otoko. Sentendosi ora serena, le pareva fosse tutta colpa sua se Keiko aveva passato la notte all'albergo di Enoshima con Toshio Ōki.
Non era stata lei, pur inconsciamente, a spingerla a comportarsi in quel modo?
Keiko aveva appena finito la scuola media superiore quando era arrivata da Otoko. Aveva visto le sue opere a Tokyo, in una mostra personale, poi le sue fotografie in un settimanale illustrato. Erano bastate queste cose, confessò più tardi, perché si innamorasse di Otoko.
Quell'anno, Otoko aveva ricevuto un premio per un quadro esposto a una mostra nella zona di Kansai e se ne era parlato molto. Era stato tra l'altro il tema del quadro a suscitare l'interesse del pubblico.
Era un dipinto tratto da una vecchia fotografia di Okayo, una geisha famosa negli anni immediatamente successivi alla Restaurazione di Meiji (1868); si vedevano due giovani maiko intente a giocare a morra. Era un fotomontaggio, e le giovani giocatrici, vestite in modo identico, erano entrambe l'immagine della stessa Okayo. Una delle maiko era ritratta di fronte, con le mani spalancate; l'altra aveva i pugni chiusi, ed era presa leggermente di sbieco. Otoko aveva trovato particolarmente interessante la composizione delle mani delle due giovani geishe, insieme alle posizioni contrastanti dei loro corpi e dei loro volti. La maiko dalle mani spalancate aveva il pollice staccato dalle altre dita, che erano inarcate. Era stato inoltre il kimono dell'epoca, a immensi disegni estesi dall'orlo alle spalle, ad attrarre l'attenzione di Otoko. Era d'altronde quasi impossibile distinguere i colori del kimono, poiché la fotografia era in bianco e nero. Tra le due figure c'era un braciere di legno, rettangolare, con un bollitore di ferro battuto, e in un angolo un paio di boccette di sakè. Otoko stimò quegli oggetti superflui e li tolse dalla sua composizione.
Naturalmente, anche nel suo disegno, con le due geishe intente a giocare a morra, Otoko aveva cercato di esprimere quella sensazione misteriosa dello sdoppiamento della persona: le due maiko che insieme formavano la realtà di una persona sola, o che la eludevano entrambe. Il fotomontaggio un po' antiquato già suggeriva qualcosa di simile. Ma Otoko ce l'aveva messa tutta perché la sua opera non rimanesse soltanto un'idea interessante. In particolare si era adoperata nel disegnare i tratti del viso delle due maiko. I disegni molto decorativi del kimono nell'originale, che davano all'abito un aspetto piuttosto pesante, furono utili a Otoko, che con ciò riuscì a dare un aspetto di freschezza sorprendente alle quattro mani delle giovani giocatrici.
Il quadro non era, naturalmente, una copia fedele della fotografia, ma a Kyoto, in molti avrebbero riconosciuto la vecchia fotografia truccata, che ritraeva la famosa geisha di una volta.
Il quadro attirò l'attenzione d'un mercante di quadri di Tokyo, il quale venne a trovare Otoko. E in seguito allestì per lei una mostra personale. In quell'occasione, Keiko vide le opere di Otoko. Era stato un puro caso, poiché il nome di Otoko non era ancora molto conosciuto.
Un settimanale aveva pubblicato le sue fotografie, probabilmente per la popolarità ottenuta dal quadro delle maiko a Kyoto e a Osaka, e anche perché l'autrice era una bella donna. Per farsi fotografare, Otoko dovette girare per Kyoto con il giornalista e il fotografo. O più precisamente, Otoko li accompagnò in giro per la città, nei suoi posti favoriti. Il settimanale pubblicò un numero speciale su Otoko, dedicandole ben tre pagine intere di fotografie. C'erano fotografie del quadro delle due maiko e della stessa Otoko. A vederle, tuttavia, si aveva l'impressione che la vera protagonista delle fotografie fosse la città di Kyoto, e che Otoko fosse là soltanto come una figura nel paesaggio. La vera intenzione della rivista poteva essere stata, rifletté Otoko, quella di fare semplicemente un numero speciale su Kyoto, e forse a loro era venuto in mente di affidare la scelta dei posti caratteristici a una pittrice residente a Kyoto per evitare i soliti paesaggi turistici scelti dai soliti giornalisti. Probabilmente, si disse Otoko, per questo le avevano lasciato tanta libertà nella scelta dei posti. Non le dava particolarmente fastidio essere stata usata in quel modo; al contrario si meravigliava di vedere la propria immagine pubblicata per ben tre pagine. Ad ogni modo, le fotografie erano decisamente riuscite diverse da quelle consuete di Kyoto.
Keiko non era ancora stata a Kyoto, e perciò le fotografie non le rivelarono il vero fascino di Kyoto, sconosciuto ai turisti. Fu semplicemente la bellezza di Otoko ad affascinarla.
Apparsa d'improvviso in quella foschia serale di un azzurro opaco, Keiko, con un tono quasi aggressivo, aveva pregato Otoko di tenersela con sé come allieva. Poi, inaspettatamente, Otoko si trovò stretta fra le braccia di Keiko. E così il ricordo di aver vissuto un attimo di incantesimo le tornava in mente ogni volta che ricordava il suo primo incontro con Keiko. Esso rassomigliava anche ad una subitanea vampa di desiderio carnale.
– Così a bruciapelo… – le disse allora Otoko. – Lo sanno i suoi genitori?
– Sono morti tutti e due – rispose Keiko. – E posso fare ciò che voglio di me.
Otoko la guardò alquanto sorpresa, e disse:
– Una zia o uno zio, almeno… Non ha fratelli?
– Per mio fratello e sua moglie, sono soltanto d'impiccio. Specie da quando hanno avuto il bambino, vogliono liberarsi di me.
– Perché dopo la nascita del bambino, vorrebbero liberarsi di lei?
– Perché, secondo loro, coccolo il bambino in modo eccessivo. A loro non piace il mio modo di fare con il piccolo.
Alcuni giorni dopo l'arrivo di Keiko in casa sua, Otoko ricevette una lettera del fratello, che la pregava d'aver pazienza con la sorella tanto capricciosa e un po' matta. Non credo che possa esserle di grande aiuto nemmeno come donna di servizio, diceva la lettera. Arrivarono in seguito bauli con indumenti e oggetti personali di Keiko. A giudicare da tutto ciò, si capiva che la ragazza apparteneva a una famiglia molto agiata.
Appena cominciarono a vivere sotto lo stesso tetto, non fu difficile a Otoko intuire perché il suo modo di trattare il bambino non piaceva ai suoi. Evidentemente, in lei c'era qualcosa di quasi anormale.
Keiko era a Kyoto da circa sette giorni. Chiese con insistenza a Otoko di aggiustarle i capelli. Nel pettinarla, Otoko a un certo punto prese una ciocca e involontariamente la tirò piuttosto forte.
– Tiri più forte… – disse Keiko. – Provi a sollevarmi per i capelli.
Otoko staccò subito la mano dalla ragazza. Keiko si voltò e premendo le labbra sul dorso della mano di Otoko, vi dette un morso. E disse subito:
– Otoko, quanti anni aveva al momento del suo primo bacio?
– Perché mi chiede una cosa simile, così all'improvviso…
– Ne avevo quattro, io, – disse Keiko. – Me lo ricordo bene. Fu con uno zio, un parente lontano di mia madre. Aveva allora quasi trent'anni, ma lo stesso ero innamorata di lui. Un giorno lo trovai mentre stava solo nel salotto di casa nostra, e gli andai vicino con i passi incerti di una bambina e gli detti un bacio. Lo zio era molto sorpreso. Mi ricordo come si asciugava le labbra con la mano…
Otoko sul balcone del fiume Kamo, ripensava alla storia di quel bacio infantile, raccontata una volta da Keiko. Le labbra con cui a quattro anni aveva dato il primo bacio a un uomo, erano ormai diventate quasi una proprietà esclusiva di Otoko, e a volte stringevano il suo mignolo.
– Mi ricordo benissimo di quando mi hai portato per la prima volta a Arashiyama, – disse Keiko. – Era un giorno di primavera e pioveva.
– Già, – fece Otoko. – Me ne ricordo anch'io.
– Abbiamo mangiato l'udon in quel ristorantino…
Un giorno, poco dopo l'arrivo di Keiko a casa sua, Otoko la portò al Kinkakuji, cioè al Padiglione d'oro, e al Ryōanji, poi si spinsero fino a Arashiyama. Mangiarono l'udon in un piccolo ristorante in riva al fiume Katsura, vicino al ponte Togetsu. La vecchia serva del ristorante disse loro nel salutarle: – Mi rincresce che piova tanto…
– A me piace qui, anche con la pioggia, – rispose Otoko. – È una buona pioggia di primavera….
– Oh, molto gentile. Grazie, – rispose la vecchietta con un cenno leggero del capo.
– Ha ringraziato mettendosi al posto del tempo? – domandò Keiko, guardando Otoko in viso.
– Eh? – Per la grande naturalezza con cui la vecchietta aveva parlato,
Otoko non aveva avvertito alcuna stranezza nelle sue parole. – Può darsi… Al posto del tempo, dici?
– È interessante. È bello che qualcuno ringrazi mettendosi al posto del tempo, – disse Keiko, e continuò. – Fanno sempre così a Kyoto?
– Non ne ho idea, – rispose Otoko.
Era davvero possibile interpretare le parole della vecchia serva come il ringraziamento di chi si metteva al posto del tempo. Secondo un'altra interpretazione probabilmente più verosimile, però, la vecchia avrebbe voluto semplicemente ringraziare Otoko e la sua giovane amica per essere venute fino a Arashiyama nonostante il brutto tempo. Otoko aveva affermato di star bene nonostante la pioggia, e non era un complimento. Il paesaggio del monte Arashiyama sotto la pioggia di primavera era sinceramente piacevole. Ma la vecchia l'aveva preso come una gentilezza e l'aveva ringraziata.
Era come se ringraziasse mettendosi al posto del tempo o del monte Arashiyama sotto la pioggia. Probabilmente era un modo di fare abbastanza normale per una lavorante d'un negozio nella prossimità della montagna; eppure per Keiko le parole erano sonate d'una freschezza singolare.
– È buono questo udon – osservò Keiko. – Mi piace questo ristorante. – A Otoko il posto era stato indicato dall'autista della macchina che lei, visto il maltempo, aveva noleggiato per quattro ore.
I ciliegi erano in fiore, ma per via del tempo, il numero dei gitanti era inaspettatamente scarso. Era questa un'altra ragione per cui Otoko aveva detto «mi piace qui anche con la pioggia». L'acquerugiola di primavera avvolgeva di un velo sottile le montagne dall'altra parte del ponte, ammorbidendo la loro sagoma sublime. Lasciato il ristorante, si incamminarono verso la macchina ammirando il panorama delle montagne. Intanto, benché la pioggia continuasse a cadere non sentivano bisogno di ombrelli. Come spesso accade in quella stagione, infatti, era più una foschia che una pioggia vera e propria. Le tracce sottilissime disegnate dalla pioggia si dileguavano nell'aria prima di cadere sull'acqua del fiume. Sul pendio delle montagne, dove i ciliegi in fiore si mescolavano tra il verde fresco di primavera, tutto era offuscato dalla pioggia.
Non soltanto le montagne di Arashiyama acquistavano fascino sotto la pioggia di primavera. Anche il Saihōji, il tempio del muschio, e il Ryōanji, il tempio del Giardino delle Rocce, erano più belli del solito. La morbida distesa dei muschi bagnati dalla pioggia e perciò d'un verde più fresco era macchiata qua e là dai minuscoli fiori bianchi di ashibi sparsi a terra, e, in mezzo a quel tappeto colorato, c'era una camelia rossa. Il fiore rosso con la sua forma intatta, si stagliava miracolosamente contro il verde dei muschi. Pure le rocce del giardino del Ryōanji erano bagnate, e ciascuna di esse rivelava il proprio colore primitivo.
– Tu sai che quando si mettono i fiori in un antico vaso di Iga, come si usa nella cerimonia del tè, bisogna bagnare prima il vaso per ottenere un contrasto di colori più vivace tra il vaso e il fiore. Vedo lo stesso effetto su quelle rocce, – spiegò Otoko, ma Keiko ignorava cosa fosse la ceramica dell'Iga antico. Neppure le sfumature dei colori delle rocce sembravano suscitare in lei un interesse particolare.
Ma, quando Otoko le fece notare le gocce di pioggia ferme sulle punte degli aghi dei pini bassi lungo il viale del giardino, l'immagine rimase incisa nella memoria di Keiko. Ciascuno degli aghi portava una goccia sulla punta, e l'effetto era come di una improvvisa fioritura di fiori di rugiada sugli aghi, paragonabili questi a esili steli che sorreggono i fiori. Un occhio disattento non li avrebbe notati, i fiori delicatissimi della pioggia di primavera. Non erano soltanto gli aghi dei pini a portare le gocce d'acqua. Anche gli aceri con le foglie appena germogliate e non ancora del tutto aperte, erano adorni di gocce luccicanti.
Non soltanto a Kyoto si vedevano le gocce ferme sulla punta degli aghi di pino, ma Keiko non vi aveva mai fatto caso prima. E perciò le era sembrato di aver scoperto qualcosa che era particolare a Kyoto. Le gocce d'acqua sugli aghi di pino, le parole della vecchietta del ristorante lungo il fiume: erano queste le prime impressioni di Kyoto per lei. Era stato al tempo della sua prima passeggiata con Otoko.
– Spero che stia ancora bene la vecchia del ristorante, – disse Keiko. – Non siamo state più a Arashiyama.
– Hai ragione, – rispose Otoko. – A me piace l'Arashiyama d'inverno, più che in primavera o in autunno… quando il fiume acquista un color più gelido e profondo. Dobbiamo tornarci un giorno.
– È necessario aspettare fino all'inverno?
– Ma l'inverno è vicino, ormai.
– Come vicino? Siamo in estate, poi c'è l'autunno…
– Possiamo andarci quando vogliamo, naturalmente, – disse Otoko ridendo. – Anche domani, se vuoi.
– Sì, andiamo domani, – rispose Keiko con impeto. – Voglio dire alla vecchietta che Arashiyama mi piace anche nel caldo. Oh, grazie tanto, dirà di nuovo, mettendosi al posto del caldo. Mi pare di vederla.
– Al posto di Arashiyama, anche, – aggiunse Otoko.
– D'inverno, – domandò Keiko ad un tratto indicando la folla che passeggiava sul greto del fiume, – non ci saranno più quelle coppiette?
Più che di un greto, si trattava di due passeggiate, sulle quali si scorgevano coppie di persone. Entrambe le strade si trovavano sugli argini, uno dei quali separava il fiume Kamo dal canaletto di Misosogi, e l'altro lo stesso fiume Kamo dal canaletto dell'Est. Erano quasi tutte coppie di giovani innamorati e raramente erano accompagnate da bambini. Camminavano insieme o si sedevano a fianco a fianco sull'orlo dell'acqua. Il numero delle coppiette aumentava via via che imbruniva il giorno.
– Come si fa a camminare in luoghi tanto esposti d'inverno? – disse Otoko.
– E poi chi sa se durano fino all'inverno.
– Come «se durano»? – domandò Otoko.
– Nell'amore… – fece Keiko. – Tante di queste coppiette non vorranno nemmeno vedersi più, prima dell'inverno. Ne sono sicura.
– Nell'osservarle, tu pensavi a questo? – esclamò Otoko.
Keiko annuì.
– Perché devi pensare così? – riprese Otoko. – Tu che sei ancora giovane.
– Perché non sono una stupida come te, che continui a voler bene a uno che ti ha trattato con tanta brutalità.
Vedendo che Otoko non rispondeva, Keiko continuò:
– Ōki ti ha sedotto e ti ha abbandonato. E tu non te ne vuoi convincere.
– Non esprimerti in questo modo volgare, – disse Otoko voltando il viso a Keiko, la quale, allungando la mano, s'aggiustò con la punta delle dita una ciocca di capelli che le era scivolata sulla nuca.
– Otoko, perché non provi ad abbandonarmi? – disse a un tratto.
– Eh? – Otoko pareva non aver afferrato il significato delle parole.
– Sono l'unico essere umano che tu possa abbandonare in questo momento. Prova!
– Cosa vuoi dire con questa parola «abbandonare»? – disse Otoko con finta leggerezza, mentre i suoi occhi si fissavano seri su quelli di Keiko. Intanto, portò una mano alla nuca di Keiko, posandola sulla ciocca di capelli che la ragazza si era messa a posto.
– Proprio come ti ha abbandonato Ōki, – disse Keiko con un'ombra di malizia nella voce. Fissando tuttora Otoko negli occhi, come se volesse spiarvi qualche sentimento nascosto, riprese: – So che ti dispiace l'idea di essere stata abbandonata. Ho l'impressione che tu voglia evitare la parola.
– Ad ogni modo la parola mi suona troppo volgare, – disse infine Otoko.
– Ma se esprime chiaramente la realtà I suoi occhi emanavano ora una luce ammaliante. – Otoko, – disse poi. – Dimmi allora cosa ti ha fatto Ōki. – Ci siamo lasciati.
– Non vi siete lasciati affatto… Ōki vive ancora nel tuo cuore e tu nel suo.
– Keiko, – fece Otoko con un tono secco. – Dove vuoi arrivare con tutto questo? Non ti capisco più.
– Oggi, mi sono convinta che stai per abbandonarmi per sempre.
– Ma non ti ho chiesto scusa poco fa a casa?
– Sono stata io a chiederti perdono.
Otoko l'aveva portata a cena nella casa da tè del quartiere di Kiyamachi proprio per fare pace. Tuttavia l'incrinatura pareva ormai irreparabile. A Keiko che quasi ogni giorno doveva inventarsi scene, opponendo resistenze spesso irragionevoli, un affetto sereno e senza increspature era qualcosa di completamente sconosciuto. Essa era stizzosa di carattere e metteva facilmente il broncio. Otoko ormai vi aveva fatto l'abitudine, ma la sua confessione di aver passato la notte con Ōki l'aveva ferita. Aveva sempre considerato Keiko un essere fondamentalmente docile e malleabile, ma oggi, per la prima volta, ebbe la sensazione d'avere da fare con un animale d'una ferocia sconosciuta. A sentire Keiko, pareva volesse vendicare su Ōki i torti fatti a Otoko, benché a lei la situazione sembrasse del tutto opposta. Temeva, infatti, che tutto nascesse da un desiderio di vendetta di Keiko contro di lei. Inoltre si sentiva nuovamente disperata e sgomenta nei confronti di Ōki, per il modo in cui s'era comportato come uomo. Come poteva divertirsi proprio con Keiko, sapendo che si trattava della allieva di lei?
– Otoko, – chiamò Keiko. – Allora non mi abbandoni?
– Se lo desideri tu, posso lasciarti. Per te sarà meglio così.
– No. Non mi piace come parli, – si oppose Keiko scuotendo il capo. – Non ho mai capito cosa sia bene per me. L'importante è rimanere vicino a te.
– Sarebbe meglio per te se andassi via da me, – ripeté Otoko sforzandosi di parlare con calma.
– Mi hai già abbandonato nel tuo pensiero?
– Non volevo dire questo.
– Sono contenta allora. Ero triste perché pensavo che mi abbandonassi.
– Non sei stata tu la prima? – domandò Otoko.
– Io? Vuoi dire che sono io che ti abbandono? No. Non ti lascerò mai, – disse Keiko con voce calda. E prendendo di nuovo la mano di Otoko le diede un morso al mignolo.
– Ahi! – gridò Otoko. – Mi fai male.
– Volevo farti male.
Furono portati i cibi a tavola sul balcone. Mentre la cameriera metteva i piatti a tavola, Keiko si era voltata di fianco, fingendo indifferenza, e si mise a osservare un insieme di luci in cima al monte Hiei. Intanto, Otoko s'intratteneva con la cameriera parlando del più e del meno, con le due mani incrociate in grembo. Temeva che le si vedessero sul dito i segni del morso di Keiko.
Quando la cameriera se ne andò, Keiko, dopo aver messo in bocca un pezzettino di pesce hamo, disse a testa china:
– Perché non provi una volta ad abbandonarmi?
– Oh, sei davvero noiosa. Vuoi proprio insistere?
– Io penso di essere un tipo che si fa abbandonare facilmente dalle persone che ama, Otoko. O mi sbaglio?
Senza rispondere, Otoko si chiese se era così. La donna, quando è legata da affetto a una donna, diventa forse più appiccicosa di quando sta con un uomo? Il pensiero la punse con la solita amarezza. Benché il morso di Keiko al mignolo non si sarebbe ormai dovuto sentire, Otoko vi avvertiva un dolore lancinante. Ma non era stata Otoko a insegnare a Keiko a morderle il dito?
Era stato poco tempo dopo il suo arrivo a casa sua. Un giorno Keiko arrivò dalla cucina dove stava friggendo.
– Mi sono schizzata la mano di olio, – disse.
– Ti brucia? – domandò Otoko.
– Mi fa male Così dicendo, Keiko mostrò la mano a Otoko. La punta del dito era arrossata. Otoko le prese la mano, e dicendo, – Non è proprio una scottatura, – mise il dito in bocca. Fu un attimo; Otoko si rese conto di ciò che faceva quando toccò con la lingua la punta del dito. Stupita, Otoko se lo tolse dalla bocca. Allora Keiko se lo mise in bocca lei e domandò:
– Faccio bene a leccarlo?
– Cos'hai fatto della frittura? – disse Otoko.
– Eh, ho dimenticato –. E Keiko scappò in cucina.
Benché non ricordasse bene qual era stata l'epoca precisa, Otoko la notte aveva preso a sfiorarle di baci le palpebre, o a stringerle l'orecchio fra le labbra. Quando le toccò l'orecchio la prima volta, Keiko si contorse dicendo che soffriva il solletico. Il suo grido eccitò Otoko.
E mentre si trastullava con Keiko, il pensiero di Otoko tornava al passato. Si rendeva conto che faceva le stesse cose che Ōki un tempo le aveva imposto. Probabilmente perché era tanto giovane, era passato molto tempo prima che Ōki le sfiorasse le labbra. Si limitava a baciarle la fronte, le palpebre e le guance.
In questo modo la giovane Otoko era stata addomesticata, e aveva a poco a poco imparato la scioltezza. Paragonata alla Otoko di allora, Keiko era di un paio d'anni più vecchia. Pur tenendo conto del fatto che i suoi rapporti si svolgevano con una donna, le sue reazioni erano molto più forti di quando Otoko si lasciava amare da Ōki. S'immergeva più veloce nel mare del desiderio.
Un profondo senso di colpa mordeva oscuramente il cuore di Otoko, consapevole di imporsi esattamente come si era imposto Ōki a lei. Nello stesso tempo, l'impeto delle esperienze vissute con Keiko la faceva trasalire.
– No, no. Basta, Otoko –. Quasi gridando, Keiko sfregò il seno contro il seno di Otoko. I suoi affanni terminarono infine in un sussurro disperato.
– Cosa vuoi, se il tuo corpo è fatto come il mio.
Alle sue parole, Otoko si ritrasse d'un tratto.
Keiko tuttavia non lasciò la presa e disse:
– Ma anch'io sono fatta come te –. Vedendo che Otoko non rispondeva, insisté: – Dimmi se sei d'accordo.
Per un attimo Otoko sospettò che la ragazza fosse già stata di un uomo. Non era ancora abituata a quel modo di Keiko che spesso irrompeva inaspettatamente dove meno ci si aspettava.
– Non siamo proprio uguali, – mormorò Otoko quando Keiko allungò la mano per cercarle il seno. I suoi modi erano schietti, eppure Otoko vi avvertiva la presenza del pudore.
– Lascia stare –. Otoko fermò la mano a Keiko.
– Ah, non è giusto. Non è giusto –. Keiko cercò di far forza con la mano.
Una ventina d'anni prima, Otoko aveva resistito con le stesse parole a Ōki, quando lui aveva cercato di toccarle il seno. Aveva sedici anni, allora. «No, no. Basta». Le parole erano riportate nel romanzo di Ōki. Otoko non avrebbe mai dimenticato quelle parole; e le pareva che, per il fatto di essere state scritte, fossero divenute immortali.
Era perciò sorpresa nel sentire Keiko pronunciare esattamente quelle stesse parole. Ripeteva, lei, le parole lette nella Sedicenne? O sono semplicemente cose che si dicono spontaneamente in un'occasione del genere?
Nel romanzo si parlava anche del seno di Otoko. Poter toccare un seno tanto grazioso è un dono celeste, una fortuna rara: erano le parole che diceva Ōki nel romanzo.
Non avendo allattato la bambina, il colore dei suoi capezzoli era rimasto scuro. E il colore non era mutato, dopo vent'anni. Il seno però, dopo i trent'anni, si era visibilmente abbassato.
Keiko doveva aver visto il suo seno un poco afflosciato, mentre faceva il bagno. Probabilmente voleva palparlo per sentirne la consistenza. Ma non disse nulla. Intanto, benché fossero entrambe pienamente consapevoli del fatto che il seno di Otoko, da quando Keiko aveva cominciato a toccarlo, si era inturgidito di nuovo, non alludevano mai a questo. Il silenzio di Keiko sull'argomento era quasi inspiegabile. Avrebbe potuto benissimo vantarsene come di una propria vittoria.
A volte Otoko sentiva dentro di sé germogliare l'erba malsana del vizio, e la opprimeva un senso di vergogna indicibile. Ma si stupiva soprattutto di fronte ai mutamenti sopravvenuti nel proprio corpo, ormai prossimo ai quarant'anni. Naturalmente, questo stupore era ben diverso da quello che aveva provato quando, a sedici anni per aver conosciuto Ōki, e a diciassette anni con la gravidanza, aveva visto il suo seno cambiare forma.
Per più di vent'anni, da quando era stata separata da Ōki, Otoko non si era mai lasciata toccare il seno da nessuno. Nel frattempo, trascorsero gli anni della sua giovinezza, poi gli anni della maturità. Infine fu la mano di Keiko a posarsi sul suo seno col suo tocco femminile.
Dopo che si era trasferita a Kyoto con la madre, Otoko aveva avuto alcune proposte di matrimonio, qualcuno si era anche innamorato di lei. Ma Otoko aveva tirato dritto, evitando d'innamorarsi. Non appena vedeva che qualcuno s'invaghiva di lei, le tornavano vividi i ricordi di Ōki. Non era nostalgia; le pareva invece di rivivere la realtà crudele di quei giorni.
Quando a diciassette anni aveva lasciato Ōki, aveva deciso di non sposarsi mai. Nella follia del dolore, non solo non riusciva a pensare a una lontana possibilità di matrimonio nel futuro, ma neppure a quella di restar viva il giorno dopo. A poco a poco, maturò in lei il pensiero di non sposarsi mai, e questa convinzione si fece più forte nel passare degli anni.
Com'era comprensibile, la madre aveva continuato a sperare che Otoko si sposasse. L'aveva portata a Kyoto per farle ritrovare la pace lontano da Ōki. Non aveva nessuna intenzione di viverci per sempre.
A Kyoto aspettò che la figlia si riprendesse. E quando Otoko ebbe compiuto vent'anni, le propose un buon partito. Era la notte della festa delle mille lanterne al Nenbutsuji di Adashino, il tempio dalle parti di Saga, all'ovest di Kyoto.
Le minuscole stele sepolcrali dedicate ai morti senza suffragio, tramandate da tempi antichissimi, si trovano in gran numero nel cimitero del Nenbutsuji, chiamato comunemente Sai no kawara, cioè «greto del fiume infernale», e ricordano ai visitatori la caducità della vita. Nel momento in cui si accesero le «mille lanterne» di suffragio davanti ad ogni stele, la madre non poté trattenere le lacrime.
Le piccole lanterne dalle fioche fiammelle oscillavano nel buio della notte, aggiungendo un che di effimero alla moltitudine dei minuscoli monumenti di pietra. Otoko si era accorta delle lacrime di sua madre, ma non disse nulla.
Il sentiero, al ritorno, era anch'esso immerso nel buio.
– Mi sento sola, – disse la madre. – E tu, Otoko? Non ti senti sola?
Aveva ripetuto la stessa parola, ma parve a Otoko che la madre mettesse in ciascuna due significati diversi. Poi la madre disse che c'era stata una buona proposta di matrimonio per Otoko, giunta per il tramite d'una conoscente di Tokyo.
– Mi dispiace per te, ma non mi posso sposare, – si scusò Otoko.
– Non c'è nessuno che non si possa sposare, – ribatté la madre.
– Sì che c'è, – rispose Otoko.
– Se non ti decidi a sposarti, rimarremo anche noi, tu e io, senza suffragio.
– Non capisco che cosa sono i morti senza suffragio.
– Sono i morti per cui non prega nessuno, dopo che son morti.
– Lo so. Ma non capisco che cosa significhi pregare per i morti.
La madre non rispose.
– Non si tratta forse del tempo in cui non ci saremo più?
– Non è solo questo. Una donna senza né marito né figli è già quasi un morto senza suffragio. Se non avessi te, Otoko, per esempio, pensa come vivrei. Tu parli in questo modo perché sei ancora giovane… – La madre si fermò, e dopo un attimo di incertezza, disse: – Ti vedo disegnare spesso la testa della bambina. Fino a quando vuoi continuare così?
Otoko non disse nulla.
La madre poi le spiegò tutto ciò che sapeva del partito proposto. Si trattava di un funzionario di banca.
– Se vuoi incontrarlo, andiamo insieme a Tokyo. È da tanto che non ci andiamo.
– A sentirti parlare così, mi ritorna in mente un'immagine. Vuoi sapere di che cosa si tratta?
– Un'immagine? Quale?
– Le sbarre di ferro. Le sbarre di ferro alle finestre, nel reparto psichiatrico dell'ospedale.
La madre inghiottì la frase che stava per pronunciare e si chiuse nel silenzio.
Due o tre volte ancora, vi furono buone offerte di matrimonio, prima che morisse la madre.
– Capisco che continui a voler bene a Ōki, – diceva la madre. – Ma devi capire che non possiedi alcun mezzo per comunicargli il tuo pensiero –. La madre non la sgridava più. Le sue raccomandazioni a Otoko perché si sposasse avevano ormai preso più che altro un tono di supplica.
– Tu ti ostini ad aspettare Ōki pur sapendo che l'attesa è completamente inutile, ed è come stare ad aspettare il passato. Sia l'acqua che il tempo non fluiscono mai all'indietro.
– Non aspetto nulla, – rispose Otoko.
– Vivi nei ricordi, allora? Non riesci a dimenticarlo?
– No. Non è così nemmeno.
– Ōki ti ha presa negli anni dell'adolescenza. Così sei stata ferita profondamente e ne porti ancora la cicatrice. A lungo ho portato rancore a Ōki, perché si era comportato così brutalmente con una bambina come eri tu.
Queste parole della madre rimasero nettamente incise nel cuore di Otoko. Appunto perché era tanto giovane, era stato possibile un amore del genere. A sedici anni, Otoko era davvero una piccola creatura indifesa. Questo fatto, probabilmente, aveva contribuito a risvegliare in lei una passione cieca e impulsiva. Le accadeva di mordere convulsamente la spalla a Ōki e non si accorgeva nemmeno di averlo fatto sanguinare.
Leggendo La sedicenne, la colpì soprattutto il fatto che Ōki, venendo all'appuntamento con lei, studiasse i modi con cui l'avrebbe presa quel giorno. Diceva di essere riuscito quasi sempre ad averla come voleva. Quel pensiero, così egli scriveva, gli dava quasi un sussulto al cuore mentre veniva da lei. Tutto questo provocò un profondo stupore in Otoko. Alla donna che si trova sempre nella parte di chi riceve, e in particolare a un'adolescente come era Otoko allora, è difficile mettersi a immaginare che il suo uomo potesse avere in mente piani e disegni sul modo come procedere nell'amore. Gli aveva lasciato fare tutto quello che le chiedeva. Poiché era tanto giovane, non aveva sospettato di nulla. Nel romanzo, tuttavia, Otoko era descritta come una ragazza straordinaria, la donna tra le donne. Ōki diceva di aver esplorato nei suoi rapporti con Otoko l'intera conoscenza dell'amore.
La lettura fece divampare in lei una fiamma di umiliazione che la annientò. Ma nello stesso tempo non riusciva a fermare le schiere d'immagini che riflettevano i suoi atteggiamenti mentre faceva l'amore con Ōki, e a suo malgrado, il suo corpo era preso da un fremito. Trascorso quell'attimo di gran turbamento, la colse una sensazione d'appagamento, come un'estasi di gioia che si spandeva lentamente in tutto il suo corpo. L'amore del passato fioriva di nuovo nel presente.
Sul sentiero buio, di ritorno dalla festa delle mille lanterne di Adashino, Otoko aveva intravisto non solo le grate alla finestra dell'ospedale, ma anche l'immagine della propria figura unita a Ōki nell'amplesso amoroso. Se non avesse letto nella rivelazione di Ōki come egli avesse esplorato nei suoi rapporti con lei l'intera conoscenza dell'amore, le immagini della propria figura nell'amplesso non sarebbero rimaste in lei per tanto tempo.
Keiko le aveva raccontato come lei avesse evitato il peggio, all'albergo di Enoshima, quando si era trovata fra le braccia di Ōki. – Ho gridato il tuo nome quasi senza accorgermene. E lui è tornato buono –. A queste parole, Otoko era impallidita di rabbia, gelosia e disperazione. Ma un pensiero la consolava: anche lui la ricordava, e probabilmente aveva chiara dentro di sé l'immagine di lei nelle sue braccia. Col passare del tempo, in lei la propria immagine tra le braccia di Ōki aveva subito un graduale processo di purificazione. L'immagine corporea si trasformava in un'immagine mentale. Sapeva di non condurre una vita irreprensibile. Nemmeno la vita di Ōki doveva essere senza macchia. Eppure, l'immagine di vent'anni prima, l'immagine dei due che s'abbracciavano stretti, si era purificata nella memoria di Otoko. Non le sembrava di vedervi se stessa nonostante la certezza del ricordo. Non le sembrava che tutto fosse accaduto veramente. L'immagine dei due, ora purificata, nel corso degli anni s'era trasformata in una visione quasi celeste.
Abbracciando Keiko come Ōki un tempo le aveva insegnato, Otoko temette di oscurare per sempre la purezza dell'immagine celeste di un tempo. Ma essa rimase intatta nella sua mente.
Da qualche tempo, Keiko aveva preso l'abitudine di mettersi una crema sulle gambe, sotto le ascelle e sulle braccia per depilarle, e la spalmava senza nasconderlo a Otoko. All'inizio, cercava di evitare lo sguardo di Otoko durante quell'operazione. All'odore sgradevole rimasto nel bagno,
Otoko le chiese più volte: – Cosa hai fatto? Che brutto odore. Cos'è? – Ma Keiko non rispondeva. Otoko, che non aveva bisogno di depilarsi, non riconosceva quell'odore. La sua pelle era estremamente liscia.
Quando vide per la prima volta Keiko spalmarsi la crema in una posizione poco elegante accovacciata per terra, Otoko corrugò la fronte e disse:
– Che odore sgradevole! Cos'è?
Alla vista dei peli che venivano via con la crema, esclamò:
– Mi fa impressione! Smettila. Per favore, smettila –. E disse coprendosi gli occhi con le mani: – Mi fai venire la pelle d'oca.
Davvero, a quella vista, sentiva un brivido di ripugnanza.
– Come fai a sopportare una cosa simile? È proprio necessario? – rincalzò.
– Oh, – rispose Keiko. – Non sai che lo fanno tutti?
Otoko non trovò commenti.
– Non voglio che ti facciano impressione i peli quando mi tocchi.
Nemmeno questa volta, Otoko trovò una risposta adeguata.
– Poiché sono donna, dopo tutto…
Keiko aveva suggerito che si depilava per Otoko. Pur sapendo di avere a che fare con una donna, Keiko voleva che la sua pelle fosse liscia e femminea. Per aver colto Keiko nell'atto sgradevole di depilarsi e per le sue parole cariche di sensualità, Otoko ebbe quasi uno sforzo di vomito. L'acre odore persisteva nell'aria, mentre Keiko era nel bagno a lavarsi dalla crema.
Tornata dal bagno e sedendosi vicino a Otoko, Keiko allungò le gambe tirando su l'orlo del kimono.
– Prova a toccarmi la pelle, Otoko, – disse. – È diventata liscia liscia.
Ma Otoko si limitò a darle uno sguardo sulla pelle e non la toccò. Keiko si mise ad accarezzarsi le gambe e domandò con un'aria un po' stupita e nello stesso tempo costernata:
– Posso chiederti perché ti sei tanto seccata? – Sembrava dire: perché tante storie, dopo tutto quello che c'è stato tra noi? Evitando il suo sguardo, Otoko disse:
– Comunque, Keiko, ti chiedo di non farlo quando ci sono io.
– Ma Otoko, – rispose Keiko. – Non voglio nasconderti nulla ormai. Non ho nulla da nasconderti.
– Non potresti almeno aver la decenza di non farmi vedere ciò che non ho voglia di vedere?
– Ti ci abituerai. Non è nulla di tanto impressionante, sai. È come tagliarsi le unghie dei piedi.
– Non credo comunque che sia buona maniera spuntarsi o pulirsi le unghie in presenza altrui. Ho notato che fai saltare per aria i pezzetti di unghia quando le spunti. Sei incredibile. Dovresti almeno avere la decenza di coprirti il piede con l'altra mano.
– D'accordo, – rispose Keiko arresa.
Tuttavia, Keiko continuò a depilarsi davanti a Otoko. Non lo faceva certo ostentatamente, ma neppure si nascondeva. Otoko non ci si era mai abituata come aveva predetto Keiko. Non c'era più quell'odore pungente: Otoko si chiedeva se Keiko avesse cambiato il prodotto o se il fatto fosse dovuto a un miglioramento nella qualità. Eppure le dava fastidio vedere come venivano via i peli. Otoko non sopportava la vista dei peli che venivano estirpati viscidi da sotto le ascelle o dalle gambe. Se ne andava dalla stanza per non vedere. Si accorgeva però che in fondo a quella repulsione si accendeva e poi si spegneva vacillante una fiammella fioca. Era una fiammella così debole e lontana, appena percepibile al suo sguardo interiore. Un che di trasparente, di quieto la circondava, rendendola quasi irriconoscibile da ogni impulso erotico. La trasparenza e la quiete appartenevano ai ricordi di Ōki e di se stessa di vent'anni addietro. Spesso, osservando Keiko mentre si depilava, l'improvviso ma profondo senso di ribrezzo la riportava di colpo alla cruda sensazione epidermica dei due corpi femminili accostati. Il pensiero era nauseante, prima ancora di prender forma d'un giudizio morale. Ma tutto incomprensibilmente svaniva ogni volta che Otoko si metteva a pensare a Ōki.
Quando faceva l'amore con Ōki, non si era mai preoccupata della presenza dei peli sul proprio corpo. Mai le era passato per la mente di cercarli neppure su quello di Ōki, né li ricordava per la sensazione della pelle. A paragone di quei tempi, c'era qualcosa di più distaccato, di quasi deliberato nei suoi modi con Keiko. Otoko vi avverti la bruttezza della mezza età. Da quando era stata separata da Ōki a diciassette anni, fino a quando non aveva conosciuto Keiko, Otoko era vissuta completamente sola. Ma il suo corpo intanto era maturato, e Otoko se ne stupiva rendendosene conto nei suoi contatti con Keiko. Il fatto che Keiko fosse una donna la rendeva più tranquilla; se avesse dovuto avvicinarsi a un uomo, Otoko temeva segretamente che la sacra immagine della propria purezza nei confronti del suo amore per Ōki si sarebbe immediatamente spezzata.
Aveva tentato di uccidersi, quando le era stato imposto di separarsi da Ōki. Il tentativo era fallito, ma Otoko continuava a pensare che, se fosse morta allora, la sua vita breve sarebbe rimasta illibata. Diceva a se stessa: se fossi morta ancora prima, cioè prima d'aver avuto la bambina, non sarei stata umiliata dalle sbarre del reparto psichiatrico dell'ospedale: tutto sarebbe finito in un modo ancora più pulito. Quel pensiero, benché segretissimo, non aveva mai cessato di fluire nel profondo del suo cuore in tutti quegli anni, lentamente purificando la ferita ricevuta da Ōki.
«Quanto mi sei preziosa. Mi sento quasi indegno di te. È un amore miracoloso. Il prezzo d'una felicità come questa può essere pagato solo con la morte…» Otoko non si era scordata della dolcezza delle parole di Ōki. Intanto le parole nel romanzo La sedicenne parevano dotate di una vita del tutto indipendente da Ōki come da Otoko. In breve, sia l'autore sia il suo modello non contavano più. L'importante per Otoko, invece, era il fatto che il loro amore fosse immortalato per sempre nell'opera letteraria. Nella tristezza di Otoko quindi era presente una consolazione, e anche un senso di nostalgia.
La madre aveva lasciato a Otoko un rasoio con cui usava radersi il viso. Otoko se ne serviva quelle rare volte che le capitava di radersi la nuca, o l'attaccatura dei capelli sulla fronte, o attorno alla bocca. Un giorno vedendo Keiko che si metteva a depilarsi come al solito, le tornò in mente il rasoio della madre e lo tirò fuori dal tiretto della specchiera.
– Lascia che ti rada i peli, – disse.
Alla vista del rasoio Keiko prese paura e scappò via dicendo: – No. Mi fai paura. Ho paura! – La sua fuga incitò Otoko, che si mise a inseguirla dicendo: – Non c'è nulla da aver paura.
Quando fu raggiunta da Otoko, Keiko non oppose più resistenza; malvolentieri acconsentì a farsi portare davanti alla specchiera. Ma Otoko, accostando il rasoio al suo braccio insaponato, vide che le punte delle sue dita tremavano nervosamente. Otoko se ne stupì.
– Non succederà nulla. Non c'è nulla di pericoloso. Stai ferma. Non tremare così.
Otoko, tuttavia, si sentiva inspiegabilmente eccitata dalla paura di Keiko. Era perfino provocante; essa sentì che le spalle le si irrigidivano.
– Non ti tocco sotto le ascelle. Può essere pericoloso. Facciamo il viso prima.
– Lasciami riprendere fiato, – disse Keiko e respirò profondamente. Con mano leggera, Otoko le passò il rasoio lungo le sopracciglia e sul mento.
Mentre lasciava che le radesse la fronte, Keiko teneva gli occhi chiusi. Con tutto il peso del capo s'appoggiava al palmo della mano di Otoko, che le sosteneva la nuca. Lo sguardo di Otoko venne attratto dal collo sottile e lungo di Keiko: così diverso dalla sua natura violenta, il suo collo era delicato, femmineo, ben formato; emanava una freschezza di gioventù che quasi abbagliava.
– Cos'hai? – Keiko aprì gli occhi sentendo che la mano di Otoko s'era fermata.
Un pensiero fugace le aveva attraversato la mente: se avesse infilato il rasoio in quel collo stupendo, Keiko sarebbe morta all'istante. Un gesto di gentilezza squisita sarebbe stato ucciderla in quel momento, colpendola nel punto più bello del suo corpo. Quel pensiero per un istante le aveva fermato la mano.
Benché il suo collo non fosse per nulla paragonabile a quello stupendo di Keiko, Otoko ricordava che Ōki una volta aveva stretto fra le mani il suo collo esile di bambina. Sentendosi soffocare, essa aveva urlato:
– Ahi, mi strangoli… – E Ōki, invece di lasciarla andare, aveva stretto più forte facendole perdere i sensi per qualche minuto. Mentre fissava il collo di Keiko, quella sensazione di soffocamento le tornò alla mente e le vennero le vertigini.
Era stata l'unica volta che Otoko aveva adoperato il rasoio su Keiko. Non si fidava più di forzare la sua resistenza. A volte scorgeva il rasoio nel tiretto della specchiera, in mezzo ai pettini e altri oggetti. Ma Otoko si rammentava che per un attimo, sia pur tanto remoto, l'aveva sfiorata l'intenzione di uccidere. Se per caso l'avesse uccisa, certo subito si sarebbe tolta la vita. La voglia di uccidere le aveva traversato la mente in un modo così fugace, che non sembrava nemmeno una vera intenzione peccaminosa; e tuttavia Otoko ravvisava in quel desiderio un'infinita dolcezza. Era stato così che Otoko aveva perso ancora una volta l'occasione di morire?
Otoko era ben consapevole che in quel fugace impulso omicida era presente il suo amore antico per Ōki. A quei tempi, Keiko non conosceva ancora Ōki. Non si era ancora messa in mezzo tra lui e Otoko.
Quando Otoko seppe da Keiko della notte passata con Ōki all'albergo di
Enoshima, l'antico amore tra lei e Ōki s'accese di nuovo. E fra quelle fiamme, parve a Otoko di veder sospeso un bianco fiore di loto. Era il bianco fiore di loto dell'estasi del suo amore per Ōki, che neppure Keiko sarebbe stata capace di sciupare.
Mentre con gli occhi del suo cuore contemplava quel fiore di loto bianco, lo sguardo le corse sulle luci che si riflettevano nell'acqua del canale Misosogi: erano le luci delle lanterne delle case da tè del quartiere di Kiyamachi. Restò a guardarle per qualche attimo, poi spostò gli occhi sulla catena buia dei colli di Higashiyama, oltre il rione di Gion. I colli si delineavano con dolci curve, e la notte che respirava in seno a quei colli prese a scorrere silenziosamente verso Otoko sommergendola nelle sue onde. Le luci del traffico sull'altra riva del fiume, gli innamorati che passeggiavano sul viale del greto, i lumi e gli avventori che rallegravano i balconi delle case da tè: tutto prese a offuscarsi negli occhi di Otoko, nei quali si spandeva lentamente il colore della notte dei colli di Higashiyama.
– Dipingerò subito L'Ascensione del Bambino, – Otoko disse a se stessa, – prima che sia troppo tardi. Altrimenti scompariranno la tristezza e l'affetto che provo ora… – Era stata forse la visione del fiore di loto nelle fiamme a suscitarle questo pensiero?
Nella purezza di quell'impeto del suo cuore, anche Keiko parve rappresentare un fiore di loto nelle fiamme. Perché un fiore di loto bianco in mezzo al fuoco? Perché il fiore di loto bianco non si sciupava nonostante le fiamme?
– Keiko, – chiamò. – Sei tornata di buon umore?
– Se tu lo sei di nuovo, lo sono anch'io e subito, – rispose Keiko con un tono esageratamente lusinghiero.
Dimmi, che cosa ti ha dato più dolore nella vita? – domandò Otoko.
– Non saprei, – rispose Keiko quasi con leggerezza. – Ho avuto tanti dolori che non so dire quale sia stato il più grande.
Cercherò di ricordarmeli a uno a uno e te li racconterò tutti un giorno. Ad ogni modo, il dolore in me dura poco.
– Poco?
– Sì.
Otoko stette a fissare Keiko in viso, poi disse cercando di dominarsi: – Ti chiedo soltanto una cosa stasera. Non voglio che tu veda più l'amico di Kamakura.
– Vuoi dire Ōki? O il figlio Taichiro?
La domanda era completamente inaspettata, e Otoko si sentì trafitta nel cuore.
– Tutti e due, – rispose appena.
– Sono andata a trovare Ōki solo perché volevo vendicarti.
– Parli ancora in quel modo? Tu, tu sei incredibile e mi fai paura.
Otoko sentiva che il volto le si era sbiancato; e chiuse gli occhi per nascondere le lacrime che le sgorgavano improvvise, inspiegabili.
– Hai paura… Hai paura…
Così dicendo, Keiko si alzò e posò le mani sulle spalle di Otoko, da dietro giocherellando con le sue orecchie. In silenzio, Otoko ascoltò il rumore dell'acqua che scorreva.
Le ciocche di capelli neri
– Oh, guarda, guarda. Abbiamo visite! – Ōki sentì la voce scherzosa della moglie che lo chiamava dalla cucina.
– Un topo enorme ha onorato con la sua presenza la nostra umile cucina. Se n'è scappato purtroppo sotto il forno.
– Ah sì? – rispose Ōki distratto.
– Pareva che fosse in compagnia d'un topino.
– Ah sì?
– Guarda un po'. Peccato che non l'hai visto. Sai… – La loquacità della moglie non finiva. – Peccato che non hai visto il topino. Ha tirato fuori per un attimo un musino così grazioso.
– Uhm.
Dalla cucina il profumo della zuppa di miso giunse nel soggiorno, dove Ōki stava sfogliando il giornale del mattino.
– Oh, – esclamò la moglie di nuovo. – Il tetto fa acqua. Proprio sopra la cucina. Lo senti?
La pioggia che già cadeva quando Ōki era uscito dal letto si mise a scrosciare all'improvviso. Si era anche alzato il vento, che, fischiando tra gli alberi e il bosco di bambù dietro la casa, s'era girato verso est e ora batteva la casa da quel lato.
– Sento solo il vento e la pioggia fuori.
– Puoi venire a dare un'occhiata?
– Uhm.
– Povere goccette d'acqua, – ricominciò la moglie, – prima scagliate contro le tegole del tetto, poi fatte filtrare attraverso le fessure strette strette per cadere infine sulle assi del soffitto. Che pene dovranno patire. Mi domando se non è per questo che le gocce di pioggia e le lacrime si rassomigliano tanto.
Come vuoi.
– Stanotte, metterò la trappola per i topi, che dev'essere sugli scaffali nello sgabuzzino. Più tardi potresti tirarla giù, per favore? Io non ci arrivo.
– È lecito, secondo lei, signora, – disse Ōki lentamente, senza però staccare lo sguardo dal giornale, – intrappolare i suoi onorevoli signori topi?
– E cosa faremo del tetto che perde?
– Perde tanto? Non è forse per il vento che batte in quel modo? Aspetta fino a domani e io andrò sul tetto a vedere.
– Se è proprio necessario, chiederò a Taichiro di andare sul tetto. Non voglio che tu, alla tua età…
– Alla mia età? Vuoi dire che son vecchio?
– Hai cinquantacinque anni. Alla tua età giornalisti e impiegati vanno in pensione.
– Grazie. Anch'io, col suo permesso, andrò in pensione.
– Come le pare, signore.
– Chissà a quale età va in pensione un romanziere?
– Non ci va finché non muore.
– Bada come parli!
– Ti chiedo scusa, – disse Fumiko, senza però mostrarsi molto convinta. – Volevo dire che potrai ancora scrivere a lungo…
– Mi pesa sapere che ci si aspetti tanto da me. Soprattutto quando questo viene dalla moglie… È come se avessi alle spalle un demonio, che di continuo mi incitasse a scrivere minacciandomi con una clava di fuoco.
– Che fantasia! Quando mai io ho cercato di forzarti a scrivere?
– Beh. Se non altro, me l'hai impedito… – Impedito?
– Anche. Con la tua gelosia, per esempio.
La gelosia è inseparabile dall'indole femminile. È un veleno che può anche servire da medicina. Da giovane io purtroppo, grazie a te, questo sono stata costretta a impararlo. È una lama affilata a doppio taglio.
– Che ferisce l'uno e l'altro…
– Ma ormai, qualunque cosa possa accadere, so che è troppo tardi per divorziare da te o per uccidermi insieme con te. Quando uno divorzia da vecchio è una cosa patetica, ma quando due coniugi anziani si uccidono insieme, è semplicemente tragico. Eppure simili notizie si leggono spesso sui giornali. Il doppio suicidio d'una giovane coppia per un amore contrastato può destare fantasie romantiche tra i giovani, ma il trauma che un articolo del genere può provocare in un vecchio è infinitamente più serio.
– So che in qualche momento pensavi seriamente di ucciderti con lei… Sono passati anni da allora, vero?
Ōki non rispose.
– Io ho però l'impressione che tu non abbia comunicato chiaramente a quella ragazza il tuo desiderio di morire con lei. A pensarci ora, è stato giusto così. Lei ha tentato di uccidersi, ma probabilmente non si sognava nemmeno che anche tu eri disposto a morire con lei. Poverina.
– Ma lei non è morta.
– Eppure voleva seriamente morire. Nelle sue intenzioni, almeno, il suicidio c'è stato.
Mentre parlava di Otoko, Fumiko faceva cuocere nella padella delle fette di maiale con la verza. Si sentiva sfrigolare l'olio nella padella.
– Non far bollire troppo la zuppa, – disse Ōki.
– Lo so. La zuppa di miso non è il mio forte… Quante volte mi avrai sgridato per la zuppa mal preparata. Tutte le volte che facevi venire una nuova qualità di miso dalla campagna… per educare la moglie secondo il tuo vecchio gusto.
Senza rispondere alle parole di Fumiko, Ōki disse d'un tratto:
– Sai con quali caratteri si scrive la parola omiotsuke, zuppa di miso?
– Uffa. Basta saperlo scrivere con l'alfabeto, no?
Le prime tre sillabe, o, mi, o, sono tutti termini onorifici, e soltanto tsuke è sostantivo.
– Allora è peggio dell'«o-mi-ashi», il modo rispettoso di dire «piede».
– Tutti quei termini onorifici vengono aggiunti per dimostrare l'importanza e la difficoltà di preparare una buona zuppa di miso.
– L'onorevole signor miso della molto onorevole zuppa dev'essere di cattivo umore stamattina a causa del nostro pessimo trattamento, – disse Fumiko prendendo in giro Ōki. C'era una ragione in quel suo modo strano di parlare. Ōki era nato nel Kansai e ancora oggi, non era riuscito a imparare il modo corretto di usare i termini onorifici. Spesso, cercando l'espressione corretta e non riuscendo più a districarsi, si rivolgeva alla moglie, cresciuta a Tokyo, per aiuto. Gli capitava però di non adottare l'espressione suggerita dalla moglie, e la discussione persisteva degenerando in un litigio interminabile, nel quale Ōki finiva con l'insultare la lingua di Tokyo chiamandola provinciale, superficiale e quindi bruttissima, ben lontana dal rappresentare degnamente il paese, se non altro perché priva d'una tradizione classica. Nel Kansai, l'uso dei termini onorifici è molto più diffuso quando si parla di una terza persona, di chiunque si tratti, mentre a Tokyo questo è brutalmente eliminato. Non è raro nel Kansai aggiungere il termine onorifico a sostantivi come pesci o verdure, monti o fiumi, case o strade e perfino a fenomeni astronomici e meteorologici. Spiegando tutto ciò, Ōki si vantava dell'alto grado di civiltà della lingua del Kansai.
– Se insisti tanto, perché non chiedi consiglio a Taichiro? Lui insegna la letteratura giapponese, – si arrendeva infine Fumiko.
– Cosa vuoi che capisca quello, – sbottava Ōki. – È vero che ha la cattedra di letteratura giapponese, ma non ha mai studiato l'uso dei termini onorifici. Non t'accorgi del modo assolutamente caotico e perfino osceno con cui parla con i suoi colleghi dell'università? I suoi saggi, sia accademici che letterari, sono scritti in un giapponese di pessima qualità.
A dir la verità, il fatto era che Ōki si rifiutava di consultarsi con il figlio, o di chiedergli suggerimenti. Era molto più divertente discutere con la moglie. A volte, però, davanti all'insistenza di Ōki, pure Fumiko diventava incerta.
– Una volta gli studiosi di letteratura giapponese erano capaci di scrivere con stile e coerenza, grazie alla buona conoscenza del cinese classico.
Lo ripeto sempre a Taichiro per fargli capire ciò che gli manca.
Tu confondi forse il linguaggio scritto con quello parlato. Il neologismo nasce ogni giorno, proprio come gli onorevoli topini. La lingua parlata non ha rispetto delle tradizioni, e con la sua vitalità rosicchia e rovina tutto senza alcun riguardo per l'antichità. Ed è soggetta a mutamenti vertiginosi.
– Perciò ha una vita breve, e se per caso riesce a sopravvivere, assume subito un aspetto antiquato… Somiglia ad alcuni dei nostri romanzi. È raro che durino più di cinque anni.
– È già tanto se un neologismo vive un giorno, mi pare –. Così dicendo, Fumiko portò sul vassoio i cibi preparati per la colazione del mattino. E prendendo posto a tavola disse senza battere ciglio: – Mi meraviglio che la mia vita sia durata tanto quando penso a quei tempi… Eri pronto a morire con quella ragazza…
– Sei condannata a vivere perché per una massaia non esiste l'età di andare in pensione. Poverina…
– Ma se esiste il divorzio? Non mi sarebbe dispiaciuto sperimentare il divorzio, almeno una volta in vita mia.
– Non è mai troppo tardi.
– Per me, sì. Si dice che non si può acchiappare per i capelli l'occasione che fugge, perché dietro è calva.
– Per quanto riguarda te, – disse Ōki, – i tuoi capelli sono foltissimi. Non ci vedo nemmeno un filo bianco.
– Invece i tuoi si diradano sempre di più sulla fronte. Non è più possibile per te prendere l'occasione di fronte.
– I miei capelli si sono sacrificati per impedirci di divorziare. Sono caduti prima di riuscire a ingelosire la moglie… – Non contare troppo sulla mia pazienza.
Parlando così del più e del meno, i coniugi di mezza età finirono la solita colazione del mattino. Fumiko pareva di buon umore. Si era ricordata di Otoko nell'epoca del romanzo La sedicenne, ma non si ostinava particolarmente a insistere su quell'argomento.
Il nubifragio pareva passato e il tempo tornava sereno anche se il sole non si faceva ancora vedere tra le nuvole.
Dorme ancora Taichiro? Sveglialo, – disse Ōki.
– Hai ragione, – disse Fumiko; ma poi aggiunse: – Non riesco mai a tirarlo fuori dal letto. Al più dirà soltanto: Lasciami dormire perché sono finalmente in vacanza.
– Non doveva partire per Kyoto oggi?
– Sì. Ma uscirà di casa soltanto dopo cena, poiché ci va in aereo. Mi chiedo cosa va a fare a Kyoto con questo caldo.
– Perché non glielo chiedi tu direttamente? A me ha detto di voler visitare la tomba di Sanjonishi Sanetaka che si trova in mezzo ai monti dietro il tempio Nison'in. Sta preparando la tesi di libera docenza su uno studio attorno alle così dette Cronache di Sanetaka. A proposito, sai chi era Sanetaka?
– Qualche nobile della corte imperiale.
– Beh, fin lì ci arriva anche un bambino. Era un nobiluomo che visse ai tempi della guerra civile dell'era Ōnin. Fu Gran Ciambellano alla corte di Ashikaga Yoshimitsu all'epoca Higashiyama, ma fu nello stesso tempo un grande amico del poeta Sogi, che è una grande figura della poesia renga. In breve, era un gentiluomo che cercò di tramandare ai posteri i valori artistici e letterari della sua epoca di tumulti sociali. La sua unica opera consiste in un diario di dimensioni sorprendenti, che si intitola appunto Cronache di Sanetaka. Pare che si tratti di una personalità piuttosto interessante. È intenzione di Taichiro fare uno studio sulla cultura dell'epoca Higashiyama basandosi su questo libro.
– Già. Dove si trova esattamente il tempio Nison'in? Non mi ricordo più.
– Ai piedi del monte Ogurayama…
– Dov'è Ogurayama? Mi pare di esserci andata con te…
– Molto tempo fa, sì. È il monte Ogurayama di Cento Poesie di Ogurayama. Nei dintorni vi sono alcuni luoghi che ricorrono nelle leggende del suo compilatore, Fujiwara no Teika.
– È a Saga, allora! Mi ricordo benissimo.
– Taichiro ha l'intenzione di raccogliere tutti gli episodi, anche i più insignificanti, sul personaggio di Sanetaka per indurmi a scrivere, così pensa, un romanzo con questi materiali. Qualsiasi episodio, anche irrilevante, dice
lui. Storie di questo genere, per la maggior parte frutto d'invenzione o di leggenda, rendono vivaci i particolari di un romanzo, dice lui. A sentirlo, pare che creda sul serio di essere un vero studioso.
Fumiko rimase in silenzio, mentre un sorriso pieno di calore le increspava il volto.
– Vai a svegliare il signor professore, – disse Ōki alzandosi. – È indegno che un figlio sia ancora a letto mentre il padre si sta mettendo a lavorare.
– D'accordo.
Quando si trovò nella solitudine del suo studio, Toshio Ōki ricordò le parole che poco prima aveva detto la moglie, «l'età di andare in pensione di uno scrittore», e gli parvero non più uno scherzo della moglie, ma una realtà quasi agghiacciante. Si mise a riflettere col gomito puntato sulla scrivania. Venne un rumore di gargarismi dal bagno, e poco dopo entrò Taichiro asciugandosi la faccia con l'asciugamano di spugna.
– Non ti vergogni di alzarti a quest'ora? – lo rimproverò Ōki.
– Ero sveglio nel letto. Fantasticavo.
– Fantasticavi?
– Sai, papà, che è stata aperta la tomba della principessa Kazunomiya?
– L'hanno profanata?
– Profanata? Beh, se vuoi… – disse Taichiro come per calmare la voce stupita di suo padre. – L'hanno scavata. Come si scavano le tombe preistoriche per scopi scientifici.
– Ma la principessa Kazunomiya non è affatto un personaggio preistorico. Qual è la data della sua morte?
– Milleottocentosettantasette.
– Milleottocentosettantasette? Allora non sono passati neanche cento anni.
– È vero. Ma l'hanno trovata completamente ischeletrita.
Ōki aggrottò la fronte.
– Erano spariti del tutto gli indumenti, perfino il cuscino su cui poggiava la testa. Non era rimasto nemmeno uno degli oggetti che l'avevano accompagnata nella sepoltura. Hanno trovato solo lo scheletro e basta.
È stato un atto brutale profanarla in quel modo…
– Aveva l'aspetto di una bambina addormentata, stanca di aver giocato troppo con i compagni. Un'aria così innocente, così bella, dicono.
– Parli dello scheletro?
– Sì. Hanno trovato un ciuffo di capelli dietro il teschio. Le ciocche di capelli erano di un nero corvino e sembravano emanare un profumo di donna morta in giovane età.
– E tu fantasticavi sullo scheletro?
– Non solo, ma vi ho trovato un fatto stupendo, alquanto misterioso e triste.
– Cioè? – domandò Ōki ancora riluttante. Lo turbava il fatto che avessero profanato la tomba di quella principessa, protagonista di tragiche vicende, che avessero esaminato le sue ossa senza alcun rispetto.
– È un fatto del tutto sorprendente, – disse Taichiro. – Posso chiamare la mamma qui? Voglio raccontarlo anche a lei.
Ōki annuì a Taichiro, che era ancora là in piedi con l'asciugamano fra le mani.
Conversando a voce alta, Taichiro portò la madre nello studio. Le ripeteva la stessa storia che aveva raccontato poco fa al padre.
Per accertare i fatti storici, Ōki era andato agli scaffali nel corridoio a prendere un volume dell'enciclopedia storica del Giappone. E aprendo la pagina alla voce sulla principessa Kazunomiya aveva appena acceso una sigaretta.
Scorgendo nella mano di Taichiro una rivista non molto voluminosa, Ōki domandò:
– È il rapporto degli scavi?
– No. È una pubblicazione di un museo. L'articolo è di un certo dottor Kamahara, un addetto al museo, e si intitola: La bellezza e l'effimero. È una specie di fantasia sulla principessa Kazunomiya. Non credo che uscirà in una rivista veramente scientifica.
Dopo un attimo di silenzio, Taichiro continuò seguendo con gli occhi le righe dell'articolo:
Ecco. Hanno trovato tra le braccia della principessa una lastrina di vetro appena più grande di un biglietto da visita. È stato questo l'unico oggetto che hanno trovato addosso allo scheletro. La sua tomba era stata aperta per una serie di accertamenti eseguiti al cimitero degli shogun dei Tokugawa, al tempio Zōjōji a Shiba. Uno dei ricercatori incaricato delle investigazioni sui materiali tessili, portò la lastrina al museo pensando si trattasse forse di uno specchietto, o di una qualsiasi lastra fotografica.
– Vuoi dire una lastra di vetro d'una volta? – domandò Fumiko.
– Precisamente. Si spalmava il vetro di qualche liquido e si fotografava, poi si sviluppava l'immagine col liquido tuttora rimasto sopra. E infatti era quella.
– Ho capito. Me lo ricordo ancora.
– Ora lo specialista dei materiali tessili ha cercato di esaminare quel vetro da ogni angolo e ha visto apparire infine la figura di un uomo… Si trattava infatti di una fotografia. E anche se l'immagine era molto sbiadita, si poteva riconoscere un giovane con abito e con acconciatura di corte.
– Era la fotografia di suo marito, lo shogun Iemochi? – chiese Ōki, preso anche lui dall'entusiasmo del figlio.
– È probabile. Anche il ricercatore aveva pensato la stessa cosa, cioè che la foto nelle braccia della principessa fosse l'immagine del marito che l'aveva preceduta nella tomba. Aveva perciò deciso di portarla all'Istituto di Storia Culturale l'indomani per trovare un modo di rendere più nitida la fotografia. – Taichiro continuò dopo aver ripreso fiato: – Il giorno dopo, tuttavia, quando guardò la foto alla luce della mattina, l'immagine era completamente sparita. In una notte, la lastra era diventata una semplice placca di vetro trasparente.
– Oh! – Fumiko guardò in faccia Taichiro.
– Per essere stata esposta all'aria e alla luce dopo tanti anni di sepoltura, immagino, – fece Ōki.
– Proprio così. C'è poi un testimone che afferma di aver visto anche lui l'immagine sulla lastra. Il ricercatore quindi non è stato vittima di una allucinazione. Mentre stava esaminando, uno dei portieri era arrivato in giro d'ispezione e guardando la lastrina aveva detto che c'era la figura di un giovane.
– Davvero? – si meravigliò Fumiko.
E l'autore del saggio scrive: «È una storia che ha un che di effimero».
Visto che i suoi genitori non rispondevano, Taichiro continuò:
– Si capisce che l'autore-ricercatore è anche poeta. Non finisce l'articolo con questa frase ma continua la storia con la sua fantasia. Si sa che il vero amore della principessa Kazunomiya era stato il principe Arisugawa. L'autore quindi fantastica che la fotografia fosse quella del principe e non di suo marito, lo shogun Iemochi. Scrive: «Non avrà forse chiesto in punto di morte a qualche dama di compagnia di farsi seppellire con l'immagine del suo vero amore? Un fatto del genere, secondo l'autore, corrisponderebbe proprio alla figura tragica della principessa».
– Uhm. Quanta immaginazione, – disse Ōki. – Ma se veramente fosse stata la fotografia del principe, la storia acquista molto più fascino con la scomparsa dell'immagine nello spazio di una notte.
– Sei d'accordo con l'autore del saggio. La fotografia, scrive lui, doveva rimanere per sempre sepolta nel segreto della terra. L'immagine è scomparsa dopo aver passato una notte sulla terra, certamente per desiderio della principessa morta.
– Sono d'accordo con lui, – osservò Ōki.
– Se venisse sfruttata da una mano d'artista, conclude l'autore, questa storia basata sull'estetica dell'effimero offrirebbe un buon materiale per un romanzo. Non vorresti scrivere qualcosa su questa storia? – domandò Taichiro.
– Non saprei, – rispose Ōki, riluttante. – Bisognerebbe iniziare la storia al momento dell'apertura della tomba; e potrebbe darsi che ne venisse fuori un bel racconto. Comunque mi sembra che la storia sia esaurita dal saggio della rivista.
– Dici? – fece Taichiro, senza l'aria di esserne molto convinto. – La lettura del saggio mi ha spinto a tante fantasticherie mentre stavo ancora a letto stamattina, e volevo parlarne a te. Perché non gli dài un'occhiata comunque, papà?
E Taichiro posò la rivista sulla scrivania del padre, e si alzò.
– D'accordo, – annui Ōki.
Mentre Taichiro stava per uscire dalla stanza, Fumiko gli domandò: – E delle ossa, cioè dei resti della principessa, cosa ne è stato? Spero bene che non li abbiano portati all'università o a qualche museo per accertamenti ulteriori o cose del genere. Sarebbe orrendo. Spero che li abbiano restituiti alla tomba.
– Il saggio non ne parla e perciò non so dirti nulla in proposito. Ma credo che siano stati restituiti alla tomba, – rispose Taichiro.
– Senza la fotografia la principessa si sentirà sola, – disse Fumiko.
– Non ci avevo pensato, – disse Taichiro. – Papà, scriveresti anche questo se tu dovessi farne un racconto?
– Sarebbe sentimentalismo e null'altro, – disse Ōki.
Taichiro se ne andò. Fumiko, mentre stava per andar via anche lei, disse: – Hai da lavorare, vero?
– Oh, – disse Ōki staccandosi dalla scrivania. – Dopo aver sentito una storia del genere, sono un po' disorientato. Devo fare quattro passi prima di mettermi al lavoro. È tornato il sereno?
– Qualche nuvola è rimasta, ma dopo l'acquazzone troverai l'aria rinfrescata –. E uscendo sulla veranda, Fumiko esaminò il cielo. – Puoi uscire dalla porta della cucina per vedere almeno da sotto dove perde il soffitto?
– Oh, oh, – fece Ōki. – Dopo i sentimentalismi sui resti della principessa, un salto al tetto che fa acqua… Va bene.
Non era cosa particolarmente insolita che Ōki uscisse dalla porta della cucina. Mentre preparava gli zoccoli del marito, Fumiko disse:
– Taichiro va a visitare una tomba dopo aver parlato d'un'altra. Lo lasci partire?
– Eh? – Ōki non capiva dove volesse arrivare esattamente Fumiko, e disse: – Perché non dovrei lasciarlo partire? Non ti capisco. Hai fatto un altro salto mortale nel discorso.
– No, nessun salto. Mentre parlava della principessa, io cercavo di capire la ragione del suo viaggio a Kyoto.
– Ma si tratta di una tomba di epoca Muromachi, di qualche centinaio di anni fa. La tomba è di Sanjonishi Sanetaka.
Macché. Non sai che Taichiro va a Kyoto per vedere quella ragazza?
Fu un'altra sorpresa per Ōki. Fumiko si era chinata per preparare gli zoccoli di Ōki, e in questa posizione si era messa a parlare del viaggio a Kyoto di Taichiro. Ma ora, drizzandosi, si trovò proprio a faccia a faccia con il marito. Ōki fissò Fumiko negli occhi.
– C'è qualcosa di ammaliante in quella ragazza bellissima. Questo non ti rende inquieto?
Ōki non aveva detto alla moglie di aver passato la notte a Enoshima insieme a Keiko, e perciò le sue parole lo colsero quasi alla sprovvista.
– Ho un brutto presentimento, – proseguì Fumiko continuando a scrutarlo negli occhi. Poi disse: – Non abbiamo ancora sentito il tuono quest'estate.
– Un'altra delle tue uscite? – fece Ōki stupito.
– Potrebbe scatenarsi di nuovo un altro temporale come quello di stamattina, e fulminare l'aereo di Taichiro.
– Non dire sciocchezze. Nessun aereo è stato abbattuto da un fulmine finora, che io sappia, non in Giappone almeno.
A rapidi passi Ōki si allontanò dalla casa come volesse fuggire dalla moglie. Il maltempo non pareva essersi completamente esaurito nel nubifragio della mattina, e le nuvole che coprivano il cielo basso erano sature d'acqua. Anche l'aria era impregnata di umidità. Ma anche se il cielo fosse stato sereno, Ōki non avrebbe avuto l'animo di contemplarlo in tutta tranquillità. L'idea che suo figlio andasse a trovare Keiko a Kyoto lo opprimeva. Non aveva sospettato nulla circa lo scopo del suo viaggio, ma l'osservazione imprevista della moglie era più che convincente.
Quando era uscito dallo studio dicendo di voler fare quattro passi nei dintorni, aveva l'intenzione di visitare uno dei numerosi templi antichi di Kita Kamakura. Ma le parole enigmatiche di Fumiko gliene avevano fatto passare la voglia. Ora gli dava fastidio la presenza delle tombe nei recinti dei templi. Ōki prese quindi ad arrampicarsi su una collina boscosa non lontano da casa sua. Passata la pioggia, le piante e la terra emanavano un fresco odore d'estate. Quando fu finalmente immerso nelle foglie verdi del pendio, gli tornò vivido il ricordo del corpo di Keiko.
La prima immagine che tornò a Ōki dello stupendo corpo di Keiko, fu quella dei suoi capezzoli, d'un rosa così pallido che pareva quasi trasparente. A volte le giapponesi hanno la pelle più delicata, più rilucente di quanto non abbia gran parte delle donne occidentali. Dalla loro pelle emana una luce di femminilità; spesso la ravviva una soavità ancor maggiore di quanto non abbia la pelle squisitamente rosea d'una giovane europea. In queste ragazze, perfino i capezzoli sono di una tonalità di rosa incomparabile. Una tonalità indefinibile e appena percepibile di rosa. La pelle di Keiko non era molto chiara, ma i capezzoli del seno leggermente abbronzato erano due boccioli appena irrorati di acqua fresca, immuni da ogni difetto. Inoltre avevano una misura giusta, né troppo grandi, né troppo piccoli.
Tuttavia non era stata la perfezione della loro forma a ricordare a Ōki i suoi capezzoli. Nell'albergo di Enoshima, Keiko gli aveva lasciato accarezzare solo il capezzolo del seno destro, e quando Ōki aveva cercato di toccarle l'altro seno, essa lo aveva coperto col palmo della mano. Ma quando Ōki aveva tentato di scostarle la mano, Keiko si era ritratta con un rapido guizzo.
– No, no, – esclamò. – Lasciami stare. Non sul lato sinistro.
– Eh? – Ōki s'irrigidì un attimo, e domandò: – Perché no? – Perché non viene fuori.
– Non viene fuori? – Ōki non capì che volesse dire Keiko.
– Non va bene. Non voglio, – mormorò Keiko affannosamente. Le sue parole non erano ancora chiare a Ōki.
Che cosa voleva dire con quel «non viene fuori?» Cosa c'era che non andava bene? Voleva forse dire che il capezzolo sinistro non reagiva alle carezze? O forse alludeva a qualche imperfezione, di cui la ragazza si vergognava come fosse stata una vera e propria malformazione? Oppure la ragazza trovava insopportabilmente umiliante che i capezzoli fossero diversi a destra e a sinistra? Gli parve allora che poco prima, quando aveva distesa sul letto la ragazza, la quale si teneva tutta ripiegata su se stessa, avesse premuto più forte il seno sinistro coprendolo con un braccio. Dopo ciò, tuttavia, Ōki aveva guardato tutte e due le mammelle. Non era stata, naturalmente, un'indagine scrupolosa, ma se vi fosse stata una vera malformazione al capezzolo sinistro, lo avrebbe senz'altro notato.
Infatti, quando Ōki staccò a forza il braccio di Keiko che copriva il petto, non vide nulla di anomalo al capezzolo sinistro. A scrutarlo più da vicino, si poteva forse dire che quello di sinistra era un poco più piccolo dell'altro. Ma era cosa del tutto comune e Ōki si meravigliò che la ragazza lo avesse nascosto.
La resistenza di lei però l'aveva incuriosito, e Ōki domandò: – Lo tieni per qualcuno il capezzolo sinistro? Hai qualcuno?
– No. Non ho nessuno, – disse Keiko scuotendo il capo. Fissava Ōki con gli occhi spalancati. Erano appena umidi, e a Ōki parve di leggervi una vaga tristezza. Non era ad ogni modo lo sguardo d'una donna che giace in un amplesso amoroso.
Ma subito dopo Keiko richiuse gli occhi e, come rassegnata, si abbandonò completamente, benché Ōki percepisse ancora in quella rassegnazione un rifiuto interiore, e con questa consapevolezza Ōki cessò di stringerle il capezzolo. Keiko, quasi soffrisse il solletico, si contorse dimenando la parte superiore del corpo.
Il seno destro di Keiko era forse vergine a metà, mentre quello sinistro era del tutto vergine? Ōki si domandò. Capì in seguito che in Keiko c'era una lieve differenza nella sensibilità dei capezzoli, a destra e a sinistra. L'aveva capito perché Keiko aveva detto che «non veniva fuori». Per una ragazza che si trovava per la prima volta tra le braccia d'un uomo, era una pretesa troppo audace, quasi sfacciata. O poteva essere l'espressione di una astuzia estrema, in una ragazza giovane e senza esperienze. Qualsiasi uomo sarebbe stato tentato di dare una sensibilità uguale ai due capezzoli, così portando la sua gioia di amare al punto più alto. La frigidezza del capezzolo poteva essere di natura organica, ma lo stesso, una anomalia del genere era più stimolante e s'incideva più profondamente nella memoria. Ōki non si ricordava di un'altra donna la cui sensibilità differisse tanto da un lato all'altro.
Ogni donna ha nel suo corpo zone che ama in particolare sentirsi accarezzare, e anche modi in cui le piace farsi amare. Ma nel caso di Keiko non era forse il caso di parlare di semplici questioni di gusto. Spesso, poi, accade che i gusti delle donne riflettano semplicemente i gusti dei loro uomini. Con tutto ciò Ōki si sentì più sollecitato dal capezzolo sinistro di Keiko. La differenza nella sensibilità tra i due capezzoli di Keiko era stata creata, così concluse Ōki, da qualcuno che non era molto esperto con le donne, qualcuno che involontariamente aveva lasciata intatta una parte del suo corpo. Quindi il capezzolo sinistro era appunto quello che lo eccitava di più. Per svegliare la sensibilità del capezzolo sinistro, ci sarebbe voluto del tempo. Avrebbero dovuto incontrarsi con più frequenza. Ma Ōki non sapeva nemmeno se si sarebbero incontrati un'altra volta.
Ōki decise perciò di non insistere troppo e stupidamente su quel capezzolo sinistro, che la ragazza rifiutava di concedergli. Giunto a questa conclusione, Ōki aveva cercato le zone del suo corpo che più le davano gioia. E le aveva trovate. Ma proprio quando egli stava per avventarsi su di lei, Keiko aveva gridato: – Otoko, signorina Otoko Quel grido sconvolse Ōki; un attimo dopo, si vide respinto. Staccandosi da lui, Keiko si aggiusto il vestito e andò alla specchiera per pettinarsi. Ōki non riusciva a volgere lo sguardo alla ragazza.
Il rumore della pioggia che aveva ripreso a scorrere più forte, sprofondò Ōki in una solitudine nuova. Com'è egoista questa solitudine, si disse Ōki. Viene e va quando le pare.
– Sei capace di dormire con me tra le braccia, ma senza far niente? – Keiko gli disse con una voce soave, scrutandolo in viso da sotto in su. Ōki si distese con un braccio attorno al collo di Keiko, senza una parola. Lo affliggeva l'immagine lontana di Otoko, non gli dava pace. Fu Keiko a venirgli vicino per prima. Ōki disse a un tratto: – Comincio a sentire il tuo odore.
– Il mio odore? – chiese Keiko.
– L'odore della donna, – disse Ōki.
– Per via dell'umidità nell'aria, forse? Ti dà fastidio?
– No. Non ha nulla a che fare con l'umidità. È il profumo della donna.
La pelle di una donna prende a emanare profumo solo quando è tra le braccia di un uomo che le piace. Una donna, anche giovanissima, sembra sia incapace di frenare questo profumo. Esso dà coraggio all'uomo, lo rasserena e gli dà pace. Con quel profumo la donna comunica silenziosamente il suo assenso. Non era il caso però di spiegare alla ragazza tutto questo.
Per convincerla che era un odore gradevole, Ōki accostò il viso al petto di Keiko. Ma dopo che l'aveva sentita chiamare Otoko, Ōki non ebbe più il coraggio di andare oltre. Avvolto nel profumo di Keiko, Ōki rimase quieto, con gli occhi chiusi.
Ora nel bosco, ricordandosi del corpo di Keiko, ciò che gli venne in mente prima di ogni altra cosa fu l'immagine del suo capezzolo. E l'immagine continuò a mandare bagliori nella sua mente. A Ōki pareva di vederlo con nitidezza.
– Non bisogna far incontrare Taichiro con Keiko, – disse a se stesso con un tono deciso. – Non bisogna, assolutamente no.
Ōki afferrò con forza il tronco di un albero vicino.
Scuotendo forte il tronco, si chiedeva cosa poteva fare. L'acqua della pioggia rimasta sulle foglie gli cadde a gocce sulla testa. I suoi zoccoli erano infangati. Ōki si guardò intorno e vedersi immerso nel verde delle foglie, gli diede improvvisamente la sensazione di soffocare.
Per impedire che Taichiro si incontrasse con Keiko a Kyoto, era necessario raccontargli le vicende accadute a Enoshima tra lui e Keiko? Volendo evitare questo mezzo, bisognava forse mandare un telegramma a Otoko, o direttamente a Keiko stessa.
Ōki affrettò il passo.
– Dov'è Taichiro? – domandò rientrando a casa.
– È andato a Tokyo, – rispose la moglie.
– A Tokyo? Di già? Non doveva partire con l'aereo della sera? Torna a casa prima di andare all'aeroporto?
– No di certo. Per andare a Haneda, non conviene tornare fin qui –. Ōki non disse nulla.
– È uscito di casa presto dicendo di volersi fermare un momento nella sua stanza all'università. Aveva bisogno di qualche documento che aveva lasciato là in quella stanza.
– E ti sei fidata delle sue parole?
– Cos'hai? Sei pallido, – disse Fumiko.
Evitando lo sguardo di Fumiko, Ōki andò nello studio. Non era stato possibile parlare con Taichiro; ormai non pensava nemmeno di telegrafare a Otoko o a Keiko.
Taichiro era partito con l'aereo delle sei per Osaka. All'aeroporto di Itami, trovò Keiko che lo aspettava.
– Oh, – esclamò Taichiro leggermente imbarazzato. – Non mi aspettavo di trovarla qui. Mi dispiace.
– Non mi dice «grazie»?
– Grazie. Mi dispiace.
Vedendo accendersi una luce negli occhi di Taichiro, Keiko abbassò lo sguardo in un gesto di ostentata femminilità.
– È venuta da Kyoto?, – chiese Taichiro ancora titubante.
– Sì, da Kyoto, – rispose Keiko con dolcezza, poi cambiando tono all'improvviso disse: – Ma se vivo a Kyoto! Di dove potrei venire se non da Kyoto?
– Già –. Taichiro accennò un sorriso, poi disse, chinando lo sguardo dal viso di lei fino all'altezza dell'obi:
– È così elegante oggi. È quasi incredibile che una persona tanto bella sia venuta apposta per me.
– Parla del mio kimono?
– Sì. Del kimono, dell'obi e di… – Di tutto, avrebbe voluto dire Taichiro: dei capelli, del viso.
– D'estate sento meno caldo se metto il kimono stringendo la cintura più forte del solito. Odio portare il kimono in modo trasandato, come usano alcuni quando fa caldo.
Taichiro osservava con meraviglia che sia il kimono sia l'obi di Keiko apparivano nuovi, quasi fossero appena usciti dalle mani del sarto.
– Mi piace vestirmi con sobrietà. Non trova per esempio che questo obi ha colori molto sobri? – disse Keiko seguendo Taichiro che andava a ritirare i bagagli. – L'ho disegnato io.
Taichiro si voltò.
– Mi dica che cosa rappresenta il disegno, – disse Keiko.
– Non saprei. È acqua? Un fiume con l'acqua che scorre?
– No. È un arcobaleno. Un arcobaleno senza i suoi colori. Così disegnato, soltanto con le sfumature dell'inchiostro di china, è difficile a chiunque indovinare. Ma ho voluto cingermi con un arcobaleno d'estate, come li vediamo sulle montagne, nelle ore del tramonto.
Così dicendo, Keiko si voltò per mostrargli i disegni sulla parte di dietro dell'obi di seta leggera; vi erano tracciati i profili delle montagne, verdi, con qualche pennellata di un rosso tenue, che rappresentava il colore del cielo al tramonto.
– Non c'è una simmetria rigorosa tra il disegno del davanti e quello del dietro. È un obi un po' pazzo, disegnato da una ragazza un po' pazza, – disse Keiko, sempre voltando le spalle a Taichiro, il quale non riusciva a staccare lo sguardo da quella sfumatura di un rosso tenue, e dall'avorio del collo sottile sotto ai capelli puntati sulla nuca.
La compagnia aerea offriva ai passeggeri un servizio di taxi fino all'ufficio, nel centro di Kyoto, sul viale Oike Dori. Quattro passeggeri si misero d'accordo per andare insieme in una macchina. Vedendo che Taichiro non si decideva a salire con loro, gli misero a disposizione un'altra macchina. Taichiro vi salì con Keiko. Quando furono fuori dell'aeroporto, disse:
– Non ci avevo pensato, ma forse lei non ha ancora cenato.
– Perché non parliamo come due amici? – propose Keiko. Poi, ignorando il silenzio di Taichiro, riprese: – A dir la verità, non avevo voglia di mangiare nemmeno a mezzogiorno. Mangeremo insieme a Kyoto –. Poi abbassando la voce, continuò: – Ho continuato a osservarti da quando sei uscito dall'aereo. Sei stato il settimo a lasciare l'apparecchio.
– Il settimo? Sono stato il settimo?
– Sì, il settimo, – ripeté Keiko con sicurezza. – Eri assorto a guardare a terra e non ti sei degnato nemmeno di dare un'occhiata verso di me. Quando si aspetta qualcuno, si dà un'occhiata attorno uscendo dall'aereo. Lo fanno tutti. Tu, invece, tenevi la testa bassa, con un'aria distratta. Mi sono vergognata tanto di essere venuta a prenderti che quasi mi volevo nascondere.
– Chi pensava di trovarti a Itami?
– Perché no? Che avevi in mente allora scrivendo l'ora del tuo arrivo nel tuo espresso?
– Per rendere più reale il mio viaggio a Kyoto.
– Una lettera così breve che sembrava quasi un telegramma. Non c'era niente altro che l'ora dell'arrivo dell'aereo. Ho avuto l'impressione che tu mi mettessi alla prova. Ho pensato che l'avevi fatto per vedere se venivo veramente fino a Itami. Così ho deciso di venirti a prendere.
– Nessuna intenzione del genere. Se volevo metterti alla prova, come dici tu, ti avrei cercato subito uscendo dall'aereo.
– Nella tua lettera, non avevi nemmeno scritto il tuo indirizzo a Kyoto. Se non venivo all'aeroporto, come potevo rintracciarti?
– Io… – disse Taichiro esitante. – Volevo che tu sapessi della mia presenza a Kyoto, e basta.
– Come? Cosa vuoi dire con questo? Sei terribile!
– Ti avrei telefonato, forse.
– Forse? E potevi anche tornare a Kita Kamakura senza nemmeno telefonarmi? Ti bastava che io sapessi della tua presenza a Kyoto? Quell'espresso allora era per prendermi in giro, per umiliarmi e basta? Perché io pensassi che venivi a Kyoto e non avevi poi gran voglia di vedermi?
– Non è affatto così. Ti ho mandato un espresso per farmi coraggio.
– Ci voleva coraggio per vedermi? – Keiko tradusse il proprio stupore in una voce dolce e sussurrante. – Devo esserne felice? O triste? Dimmi come.
Taichiro non rispose.
– Va bene, non vuoi rispondere – disse Keiko. – Meno male che sono venuta a prenderti all'aeroporto. Voglio intanto che tu sappia che io non appartengo affatto a quella categoria di donne, che per incontrarle devi farti coraggio. Sono semplicemente una ragazza che di tanto in tanto viene pazzamente afflitta dall'idea di uccidersi. Puoi calpestarmi, prendermi a calci e scaraventarmi dove vuoi…
– Non mi spaventare così, – disse Taichiro.
– Non lo dico per spaventarti. Sono fatta così. Ho bisogno di qualcuno che calpesti il mio orgoglio.
– Io cerco di solito di non ferire l'orgoglio altrui.
– Si vede. Ma ti devi sforzare di farlo. Ti autorizzo a calpestarmi a tuo piacere.
– Perché parli in questo modo?
– Perché sì, – disse Keiko, tenendosi una mano sui capelli svolazzanti al vento che entrava dal finestrino aperto della macchina. – Forse perché sono triste. Ti ho visto camminare con un'aria così malinconica venendo fuori dall'aereo e l'hai conservata fino alla sala d'attesa. Dimmi perché avevi quell'aria. Ero lì che ti aspettavo. Ma io non esistevo per te, vero?
Non era affatto così. Taichiro aveva camminato pensando a Keiko. Ma come poteva dirglielo?
– Sono cose di questo genere che mi rendono triste. Perché sono egocentrica. Cosa posso fare per convincerti che esisto in questo mondo?
– Ne sono convintissimo e sempre, – disse Taichiro con voce ferma. –
Anche adesso…
– Anche adesso cosa? – replicò Keiko. – Anche adesso… Già. Mi sembra di sognare a star sola con te. Poiché mi sembra di sognare, non dirò più niente. Tocca a te ora parlare.
La macchina passava tra le fabbriche nuove nelle zone di Ibaragi e di Takatsuki. Tra le colline nei dintorni di Yamazaki, si vedeva la fabbrica della Suntory illuminata spiccare contro il nero dei boschi.
– Spero che l'aereo non abbia ballato troppo, – disse Keiko. – A Kyoto è venuto giù un acquazzone verso sera. Ero in pensiero.
– Non si è mosso in un modo così terribile. Ma in alcuni momenti ho avuto paura che andassimo contro le montagne. Vedevo fuori le sagome nere delle montagne, e a volte pareva quasi che potessero risucchiare l'apparecchio.
Le mani di Keiko cercavano ora quelle di Taichiro.
– Dopo ho capito che non erano le montagne, ma soltanto nuvole nere.
Le sue mani erano immobili nelle mani di Keiko, immobili anch'esse. Già da un poco, la macchina era entrata in città dirigendosi a est per il viale di Gojo. Nell'aria stagnante della sera, non si muovevano neppure i rami sottili dei salici piangenti. Ma grazie all'acquazzone, l'afa era leggermente diminuita. In fondo al verde dei salici, lungo il viale, nella notte calata da poco, si scorgevano i colli di Higashiyama. A causa delle nuvole basse, la linea di demarcazione tra il cielo e i contorni dei colli quasi non si distingueva. Già all'imbocco del viale di Gojo, Taichiro sentiva di respirare l'aria di Kyoto.
Percorso il viale Horikawa, la macchina giunse all'ufficio della compagnia aerea di viale Oike. Taichiro aveva prenotato una camera al Kyoto Hotel, non molto distante.
– Devo lasciare il bagaglio all'albergo, – disse. – È vicinissimo da qui. Vuoi venire con me a piedi?
– No, – disse Keiko scuotendo il capo, e salì subito in un altro taxi che era fermo davanti all'ufficio, invitando Taichiro a salire con lei.
– Kiyamachi, per favore, – disse Keiko all'autista. – Al nord di via Sanjo.
– Può fermarsi un attimo all'Hotel Kyoto? – domandò Taichiro all'autista.
– No, – si oppose Keiko. – Non abbiamo bisogno di fermarci sulla strada. Vada direttamente a Kiyamachi.
La piccola casa da tè di Kiyamachi colpì Taichiro perché non era mai stato in un luogo del genere. Lo affascinava anche il vicoletto che conduceva fino alla porta. La stanzetta di quattro tatami e mezzo dava sul fiume Kamo.
– Che bello, – esclamò Taichiro attratto dal fiume fuori della finestra. – Come fai a conoscere un posto del genere?
– Ci viene spesso la mia maestra.
– La tua maestra? La signorina Ueno? – Taichiro si volse verso Keiko.
– Sì. La maestra Ueno –. Detto questo, Keiko si alzò e uscì dalla camera. Taichiro pensò che fosse andata a ordinare la cena. Keiko ritornò dopo pochi minuti e disse.
– Se non ti dispiace, puoi passare la notte qui? Ho disdetto la tua camera all'albergo.
Sorpreso, Taichiro emise un piccolo grido; guardò Keiko, inebetito. Ma lei teneva gli occhi abbassati, con aria indifferente. Poi disse:
– Ti chiedo scusa. Volevo che tu stessi in un posto che conosco.
Taichiro non seppe cosa rispondere.
– Ti prego, – riprese Keiko. – Sta' qui per me. Tanto ti fermerai a Kyoto soltanto un paio di giorni.
Keiko alzò lo sguardo. Le sopracciglia non erano truccate e graziosissima era la linea disegnata dai peli corti e regolari.
Erano d'un nero opaco, più sfumato in confronto a quello intenso delle ciglia, e sovrastavano i suoi occhi nerissimi con una grazia quasi infantile. Portava un rossetto piuttosto pallido sulle labbra dalla forma perfetta. Non usava cipria.
– Eh, perché mi fissi così? – chiese Keiko sbattendo le ciglia.
– Ammiravo le tue ciglia tanto nere.
– Non sono finte, sai. Puoi provare a tirarle.
– Davvero? Ne avrei voglia.
– Prego. Se ti fa piacere… – E chiudendo gli occhi, Keiko gli porse il viso. – Può darsi che sembrino più lunghe perché le tengo curve all'infuori.
Keiko prese l'aria di chi attende col viso sporto avanti, ma Taichiro non ebbe il coraggio di toccarle le ciglia.
– Puoi riaprire gli occhi, per favore? – disse. – Puoi guardare un po' in su e spalancare gli occhi?
– Cioè devo fissarti in faccia?
Arrivò una cameriera con una boccetta di sakè e con una bottiglia di birra.
– Vuoi il sakè o la birra? – domandò Keiko, con un'aria rilassata. – Io non bevo.
La finestra che dava sui balconi sopra il fiume era chiusa per metà dagli shoji, attraverso i quali arrivavano voci un po' sbronze miste a quelle di qualche geisha. Tacquero tutti un attimo quando giunse un suonatore di liuto cinese sul greto sottostante.
– Che progetti hai per domani? – domandò Keiko.
– Vado al Nison'in a visitare la tomba dietro il tempio. È la tomba della casa Sanjonishi. Una tomba molto graziosa.
– La tomba? Posso accompagnarti? Avrei voluto che mi portassi al lago Biwa, a fare un giro sul motoscafo. Ma posso aspettare Detto questo, Keiko diede un'occhiata al ventilatore elettrico.
– Sul motoscafo? – disse Taichiro con un tono malsicuro. – Non ci sono andato mai e non so pilotarlo.
– So pilotarlo io.
– Sai nuotare, Keiko?
– Se dovesse capovolgersi lo scafo, vuoi dire? – disse Keiko guardando Taichiro. – Ti chiederò aiuto. Mi salverai, vero? Mi aggrapperò a te.
– Non devi aggrapparti a me. Se fai così non ti potrò salvare.
– Cosa devo fare, allora?
– Dovrò prenderti in braccio. Da dietro, mettendoti le mani sotto alle ascelle… – Così dicendo, Taichiro volse via lo sguardo da Keiko, quasi per evitare una luce eccessiva. Prendere in braccio quella ragazza splendida nell'acqua. Provò un senso d'emozione profonda. Se non cercassi di stare a galla tenendo Keiko ferma con le braccia, potremmo rischiare la vita tutti e due, si disse.
– Non importa se la barca si capovolge, – disse Keiko.
– Non ti prometto però di poterti salvare.
– Se non mi salvi, cosa succederà?
– Cambiamo argomento. Lasciamo stare il motoscafo. Non mi sento per nulla sicuro.
– Ma non si capovolgerà. Voglio che tu mi ci porti. Ho sognato tanto una giornata così.
Poi, versando la birra nel bicchiere di Taichiro, Keiko disse: – Vuoi cambiarti e metterti in yukata per sentirti più a tuo agio?
– No, grazie.
In un angolo della stanza avevano lasciato un paio di yukata, il leggero kimono di cotone, uno da uomo, l'altro da donna. Per tutto il tempo, Taichiro aveva cercato di non guardarli. Era stata Keiko a prenotare la camera per lui, ma come mai ci avevano messo anche uno yukata da donna?
La stanzetta non aveva una camera attigua. E come poteva Taichiro spogliarsi davanti a Keiko?
La cameriera portò la cena, ma non guardava in faccia Keiko né le rivolgeva parola. Anche Keiko taceva.
Da qualche balcone poco distante dalla loro stanza, arrivava ora il suono dello shamisen. I clienti del balcone sotto la loro finestra erano ormai completamente sbronzi, e Taichiro si divertiva a sentire i loro discorsi in dialetto di Osaka. Si era a poco a poco allontanata la voce nasale d'una canzone melodrammatica, accompagnata dal liuto cinese.
– Tuo padre sa che sei venuto a Kyoto? – domandò Keiko.
– Mio padre? Sì lo sa, – rispose Taichiro. – Ma non che tu sia venuta a prendermi all'aeroporto e che ora io mi trovi con te, questo non se lo sogna nemmeno.
– Ho piacere che stiamo parlando di nascosto a tuo padre.
– Non ho fatto niente perché mio padre non lo sapesse, – Taichiro balbettò. – È andata così e basta.
– Già.
– Lo sa la tua maestra, Keiko?
– Non le ho detto niente. Ma sia il signor Ōki sia la signorina Ueno possono averlo intuito con il loro sesto senso. In tal caso, il mio piacere è anche maggiore.
– Non è possibile che l'abbiano intuito. Anzitutto, la signorina Otoko non mi conosce nemmeno. Le hai parlato di me?
– Quando sono stata a casa tua a Kamakura del Nord, le ho raccontato che mi hai accompagnato a vedere Kamakura. Le ho confidato che sono innamorata di te e la signorina è impallidita.
Taichiro non disse nulla, e Keiko continuò:
– Tu pensi che la signorina Otoko possa rimanere impassibile davanti al figlio della persona che l'aveva trascinata in una vicenda d'amore tanto dolorosa? Mi ha raccontato una volta quanto si era addolorata quando nacque la tua sorellina, poco dopo che lei era stata separata a forza da tuo padre I suoi occhi nerissimi brillavano di una luce pungente. Arrossì un poco. Taichiro non sapeva che cosa rispondere.
– La signorina Ueno sta dipingendo L'Ascensione del Bambino. È l'immagine d'un bambino seduto sopra nuvole a cinque colori. Una volta però mi ha detto che la sua bambina non avrebbe potuto ancora sedersi così, perché è nata di sette mesi ed è morta appena nata. – Keiko continuò riprendendo il fiato: – Se quella bambina fosse vissuta, sarebbe stata la tua sorellastra, più vecchia di tua sorella.
– Perché mi deve raccontare tutto questo?
– Perché ho deciso di vendicare la signorina Ueno.
– Vendicarla? Su mio padre?
– Sì. E anche su di te, Taichiro.
Taichiro lottava col pesce sul piatto. Non riusciva a spinarlo, e si sentiva le dita della mano destra completamente rigide. Keiko trasse a sé il piatto di Taichiro e togliendo le spine dal pesce con un'abilità sorprendente, disse:
– Tuo padre ti ha parlato di me?
– No. Non ho mai parlato di te con mio padre.
– Perché? Come mai? – rincalzò Keiko. Taichiro si oscurò; provava la sensazione strana di essere stato toccato sul petto con una mano bagnata.
– Non ho mai parlato di donne con mio padre, – sbottò infine Taichiro.
– Di donne? Cosa vuoi dire esattamente? – E Keiko ebbe uno splendido sorriso.
– Cosa vuoi dire tu piuttosto quando dici di voler vendicare la signorina Ueno su di me. Dimmi come lo farai, – disse Taichiro con voce secca.
– Beh, se ti spiego tutto, non ci sarà più il seguito della storia. Ma se proprio vuoi saperlo, ecco, farò così.
Taichiro ascoltò.
– Ecco, la mia vendetta forse consisterà nell'innamorarmi di te, è possibile? – Keiko terminò la frase schiudendo gli occhi come se volesse guardare nella lontananza. – Ti pare buffo tutto questo, vero?
– No. Ti stai vendicando su di me intrappolandomi col tuo amore?
Keiko annuì dolcemente. La linea delle sue spalle era ora rilassata. Disse:
– Gelosia da ragazza… – Gelosia? Gelosia di chi?
– Perché la signorina è tuttora innamorata del signor Ōki. Dopo tutto quello che lui le ha fatto, non gli porta nessun rancore.
– Ma Keiko, tu ami tanto la signorina Ueno?
– Da morire, sì.
– Non potrò mai rimediare quella colpa di mio padre, commessa tempo fa; ma secondo te, il fatto che ci troviamo a faccia a faccia ora ha a che fare con i rapporti tra la signorina Ueno e mio padre? È proprio necessario pensare in questo modo?
– Ma è la realtà, – disse Keiko, e dopo un attimo di silenzio, aggiunse:
– Oh, se io non fossi arrivata un giorno dalla signorina Ueno, tu, Taichiro, per me non saresti mai esistito. Non ti avrei nemmeno incontrato.
– Non mi piace il tuo modo di parlare. Non mi piace che una ragazza giovane come te abbia quest'aria di essere posseduta dai fantasmi del passato. A pensarci, hai un collo esile da fantasma. Esile e bello…
– Ho il collo esile perché non ho mai amato un uomo, mi dice sempre la signorina Ueno. Dice che le darebbe fastidio se un giorno mi venisse un collo robusto.
Taichiro trattenne a stento il desiderio di afferrare il collo splendido di Keiko. Disse:
– Non devi ascoltarla. Keiko, tu sei prigioniera della sua malia.
– Del suo amore, ti dico.
– La signorina Ueno non deve sapere nulla di me.
– Ma le ho raccontato, tornando da Kita Kamakura, che tu devi assomigliare moltissimo a tuo padre quando era giovane.
– Oh no, – esclamò Taichiro con veemenza. – Non somiglio affatto a mio padre.
– Sei arrabbiato? Perché non ti va di assomigliare a tuo padre?
– Da quando ci siamo visti all'aeroporto, Keiko, quante bugie mi hai raccontato? Parli in un modo tale che non posso più credere a niente di ciò che dici.
– Non ho mentito.
– Devo capire allora che questo è il tuo modo normale di parlare?
– Sei molto cattivo.
– Non mi hai detto che posso calpestarti quanto voglio?
– Pensi che non dirò mai la verità se non mi metti sotto ai tuoi piedi? Non ho mentito e non mento. Soltanto sei tu che non mi capisci. Non mi hai detto ancora cosa pensi di me veramente. Sei tu che ti nascondi. Mi rendi triste.
– Sei triste davvero?
– Sì. Sono triste. O sono felice, forse. Non capisco più.
– Non capisco nemmeno io perché mi trovo solo con te in questo posto.
– Perché ci vogliamo bene, non è così?
– Ho capito. Ma…
– Ma cosa? – domandò Keiko incalzando. Taichiro non trovò subito una risposta.
– Ma cosa? – insistette Keiko prendendo la mano di Taichiro e scuotendola tra le sue mani.
– Keiko, vedo che non hai mangiato nulla, – disse Taichiro. Keiko aveva toccato appena due o tre pezzettini di sashimi.
– La sposa non mangia alla festa di nozze, – disse.
– Sta' attenta a come parli…
– Sei stato tu, Taichiro, a cominciare a parlare di mangiare.
Dimagrire d'estate
Otoko dimagriva sempre d'estate.
Da bambina, quando abitava a Tokyo, non se n'era mai preoccupata: infatti, non si ricordava nemmeno del fatto. Fu qualche tempo dopo che si era trasferita a Kyoto, cioè quando aveva ventidue, ventitré anni, che s'accorse che d'estate calava di peso. Era stata sua madre a scoprirlo per prima.
– Anche tu, Otoko, dimagrisci d'estate, come me. Si vede che hai preso la mia costituzione, – disse sua madre. – È curioso che hai ereditato la mia debolezza. Come carattere tu sei più forte di me, ma forse mi somigli nel fisico.
– Non ho un carattere forte, – protestò Otoko.
– Sei molto impulsiva, – si corresse la madre.
– Non lo sono.
Evidentemente la madre si riferiva alla sua storia con Ōki. Ma tutto era nato da un'ostinazione di gioventù, e aveva, in fondo, poco da fare col suo carattere. Non era stata forse una follia cieca generata da un amore disperato?
La madre aveva deciso di portarla a Kyoto per farle scordare tutto e per lenire il suo dolore. Per qualche tempo, avevano perfino evitato di pronunciare il nome di Ōki. Più lo evitavano, però, e più ognuna di loro due finiva con lo spiare la presenza di Ōki nel cuore dell'altra. Nella loro vita solitaria, in una città nuova per loro, senza amici e senza nessuna specie di sfogo, era difficile non pensarci. Alla madre la figlia appariva uno specchio dalla cui superficie l'immagine di Ōki non spariva nemmeno un attimo, e così alla figlia la madre sembrava riflettere di continuo l'immagine di Ōki. Per entrambe, quindi, la vita era uno specchio nel quale si vedevano riflesse a vicenda.
Un giorno, aprendo un vocabolario, capitò che Otoko s'imbattesse nella parola «omou», cioè, «pensare». La voce diceva tra l'altro: struggersi per qualcuno; continuare a fissare la mente su qualcosa o qualcuno; addolorarsi. Mentre seguitava a leggere, a Otoko si strinse il cuore. Sono stata presa di sprovvista, si disse, e da quel giorno non toccò più quel vocabolario. Ōki si nascondeva perfino nelle voci, chi sa quante, di un vocabolario. Ogni cosa che essa vedeva, ogni cosa che udiva, rimandava subito all'immagine di Ōki, e per Otoko soffrire per Ōki era diventato un segno sicuro di vita. Vivere significava per lei, ormai, un atto di sussistenza di quel corpo che era stato amato da Ōki.
Otoko si rendeva conto bene che sua madre cercava di farglielo dimenticare. Doveva essere questo l'unico e ardente desiderio della donna, vedova e madre di una unica figlia. Ma la figlia non aveva nessuna voglia di dimenticarlo. Non solo non desiderava dimenticarlo, ma viveva aggrappata alla memoria di lui. Temeva, anzi, di svuotarsi completamente dimenticandolo, di diventare null'altro che l'involucro di se stessa.
Era riuscita a lasciarsi alle spalle la stanza sbarrata del reparto psichiatrico dell'ospedale, non perché la piaga del suo amore per Ōki si fosse rimarginata, ma perché era riuscita a ristabilire per sempre la presenza di lui dentro di sé.
– Ho paura. Muoio. Morirò di sicuro… Lasciami, lasciami stare… – Otoko si dimenava contorcendosi disperata tra le braccia di Ōki. E schiuse gli occhi quando Ōki rallentò la stretta. Le sue pupille nerissime parevano dilatate.
– Non ti vedo, bambino. Il tuo viso sembra fluttuare nell'acqua… – gridava con voce accorata. Fu inatteso per Ōki, trentenne, sentirsi chiamare bambino da una sedicenne.
– Se tu dovessi morire, – disse Otoko, – non potrei più vivere. Veramente, non saprei più vivere –. Le lacrime luccicavano negli angoli dei suoi occhi. Non che piangesse perché era triste, ma gli occhi umidi per l'eccitamento prendevano quell'aspetto lacrimoso nel momento di calma che seguiva.
– Nemmeno tu devi morire prima di me, – disse Ōki. – Altrimenti chi si ricorderà di me con tanto affetto?
– Sarebbe atroce, – replicò Otoko, – vivere nel ricordo di chi ti ha amato in vita. Non sopporterei una cosa del genere. È assolutamente impossibile! Fammi morire con te… – Otoko scuoté la testa col viso vicino alla gola di Ōki.
Per Ōki erano parole di una ragazza innamorata. Dopo un momento di silenzio disse:
– Se un giorno trovassi davanti a me una rivoltella o un coltello puntato contro di me, saresti l'unica persona al mondo che mi difenderebbe con la propria persona.
– È naturale, – fece Otoko. – Sono disposta a morire per te. Con piacere.
– Non volevo affatto dire una cosa del genere. Dicevo soltanto che se mi dovessi trovare improvvisamente in pericolo, tu mi difenderesti senza pensarci due volte, quasi d'impeto, buttandoti davanti a me… – Te lo prometto, – disse Otoko, con tono serio.
– Non ho un altro amico disposto a tanto per me. Chi è disposto a sacrificare la propria vita per salvarmi? Ecco, solo questa piccola bambina.
– Non sono piccola. Non sono affatto piccola –. Otoko ripeté due volte.
– Fammi vedere dove non sei piccola, – disse Ōki con l'aria di prenderla in giro e cercando il suo seno.
A quel momento Ōki già sapeva della gravidanza di Otoko. Se dovessi morire, pensò Ōki, cosa ne sarà del bambino? Morirà pure Otoko col piccolo? Otoko era venuta a sapere tutto questo anni dopo, leggendo il romanzo La sedicenne.
La madre, osservando che Otoko era dimagrita nell'estate, voleva forse suggerire l'idea che la figlia aveva raggiunto una piena maturità almeno in senso fisico, poiché in lei si manifestavano tratti ereditari. Ma probabilmente la madre rivelava con questo la propria convinzione che Otoko aveva superato finalmente la crisi del suo amore per Ōki, e che il suo dimagrire non aveva nulla da fare con la sua vita sentimentale.
Nonostante le spalle strette e un'ossatura minuta, Otoko non s'ammalava che di rado. Era paurosamente dimagrita dopo il parto e dopo la crisi nei suoi rapporti con Ōki, nel periodo ch'era stata internata nell'ospedale psichiatrico, in seguito al tentato suicidio. La tensione le aveva tinto gli occhi d'una luce di follia. Ma il fisico si era ripreso prima dell'anima. Otoko nel suo cuore ancora malato aveva preso a odiare la robustezza fisica della sua giovinezza. Chi non si accorgeva della malinconia del suo sguardo, non avrebbe mai pensato che la ragazza nascondesse in sé tutta una vita di dolore. A volte, perfino la malinconia del suo sguardo a un occhio estraneo appariva come l'espressione sognante di una giovane ragazza, donandole una bellezza particolare.
Che sua madre dimagrisse nell'estate, Otoko lo sapeva da quando era bambina. Otoko si offriva spesso di asciugare il sudore alla madre passandole un panno bagnato sulle spalle e sul petto, e benché si accorgesse della magrezza causata dalla stagione calda, non le diceva nulla. Per lei, in questo non c'era nulla di nuovo. Finché la madre non glielo fece notare, tuttavia, Otoko, per l'incuranza tipica della gioventù, non si era accorta di dimagrire nell'estate come la madre. Quella tendenza, probabilmente, si era manifestata già prima dei vent'anni.
Compiuti i venticinque anni, Otoko aveva preso a vestirsi sempre in kimono, perché il kimono a differenza degli abiti occidentali, nasconde la linea del corpo. Ogni estate Otoko dimagriva visibilmente sotto il vestito. E ogni volta che ci faceva caso, le tornava alla mente la madre che immancabilmente d'estate calava di peso.
La tendenza a dimagrire d'estate e quindi a stancarsi facilmente si accentuava col passare degli anni. Un giorno Otoko domandò alla madre:
– Mi chiedo se c'è qualche buon rimedio contro la debolezza estiva. Hai provato qualcuna delle medicine di cui si leggono le pubblicità sui giornali?
– Beh. Credo che siano tutte più o meno uguali, – fu la risposta poco fiduciosa della madre, che riprese poi, assumendo a un tratto un tono serio: – Ma Otoko, sappi che per una donna la miglior medicina è il matrimonio.
Otoko non seppe come rispondere a quelle parole inattese della madre.
– L'uomo è una medicina vitale per una donna. Noi abbiamo bisogno di nutrirci degli uomini.
– Anche se risultasse velenoso?
– Sì, anche se è veleno. Il veleno tu l'hai preso una volta inavvertitamente, ma sono sicura che oggi non credi che l'esperienza per te sia stata soltanto negativa. E poi per ogni veleno c'è un antidoto. Ci sono dei veleni per combattere altri veleni. La medicina può essere amara in bocca, ma dovresti chiudere gli occhi e mandarla giù d'un fiato. Come la medicina, d'accordo, ci saranno senz'altro degli uomini che ti riusciranno così ributtanti da provocarti il vomito.
La madre morì prima che Otoko imparasse il sapore di quella medicina per la donna. A lungo era stato desiderio della madre vedere sposata la figlia. Come aveva detto lei, Otoko non aveva mai pensato che Ōki fosse un veleno. Perfino dietro le sbarre del reparto psichiatrico, non aveva mai provato rancore per Ōki. Era stata una cieca pazzia d'amore. Il veleno che Otoko aveva inghiottito per morire era sparito completamente dalle fibre del suo corpo senza lasciarvi traccia. In un certo senso, sia Ōki sia la sua creatura erano ormai completamente svaniti dalla vita di Otoko, benché fosse rimasto immutato l'amore per lui.
Scorse veloce il tempo. Per un uomo, tuttavia, lo scorrere del tempo non consiste forse in un'unica corrente, ma in correnti numerose e varie. Proprio come un fiume, il tempo nell'uomo scorre veloce in un senso e in altro senso più lento; ci sono anche dei punti dove il flusso è completamente fermo. Nel cielo il tempo scorre con una velocità uguale per tutti, mentre in questo mondo esso scorre in ciascuno di noi a un ritmo diverso. Non c'è uomo che riesca a scansare il tempo, il quale tuttavia scorre diversamente per ognuno.
Otoko aveva ormai raggiunto i quarant'anni, ma l'immagine di Ōki dentro di lei non sembrava soggetta al passare del tempo. O forse come un fiore che scorre insieme al fluire dell'acqua, Otoko aveva camminato con un passo uguale a quello di Ōki in lei. Ignorava però qual sorta di tempo fluisse per Ōki. Otoko serbava di Ōki una memoria intatta, ma lo scorrere del tempo aveva forse avuto un ritmo diverso per lui. Era inevitabile che il tempo fluisse per due persone in modo diverso, indipendentemente dall'intensità del loro amore reciproco.
Appena sveglia, Otoko, dopo essersi massaggiata la fronte con la punta delle dita, si passò la mano sulla nuca e sotto le ascelle. Erano umide, come ogni altra mattina. L'umidità stillante dalla pelle aveva impregnato la camicia da notte, che Otoko cambiava ogni giorno.
Keiko amava quel sudore, che dava alla pelle morbidezza e profumo. A volte le strappava gli indumenti per sentirla meglio. A Otoko invece dava un estremo fastidio l'odore del proprio corpo.
La sera innanzi, Keiko era tornata a casa dopo mezzanotte e mezzo. Evitando lo sguardo di Otoko, sedette al suo capezzale con un'aria impacciata.
Distesa sul letto, e riparandosi con un ventaglio dalla luce del lampadario, Otoko guardava assorta le linee del volto del bambino sulla parete. – Hai fatto tardi, – disse quasi senza volgere lo sguardo a Keiko.
Non le avevano fatto vedere la bambina, nata di sette mesi. Le avevano detto soltanto che aveva capelli nerissimi. Alla sua domanda, la madre aveva risposto:
– Era molto carina. Forse ti rassomigliava –. Lo dice per consolarmi, pensò Otoko, che non aveva mai visto bambini appena nati. Quando li vedeva in fotografia, era colpita soltanto dalla loro bruttezza. Le fotografie dei bambini appena partoriti, ancora legati alla madre con il cordone ombelicale, la mettevano in imbarazzo e in un certo senso le facevano orrore.
Per questa ragione, Otoko non possedeva nessuna immagine della sua bambina, che in lei esisteva soltanto come una visione mentale. L'Ascensione del Bambino quindi non poteva essere il ritratto della bambina nata di sette mesi e morta subito. Otoko non aveva nessuna intenzione di fare un ritratto realistico. Desiderava rappresentare nell'immagine la pietà e l'affetto verso quell'esistenza ormai priva di qualsiasi forma tangibile. Aveva desiderato per lunghi anni di dipingere quel quadro, e l'immagine in lei si era impressa quasi in una visione onirica, che le tornava di quando in quando nei momenti di sconforto. Il quadro doveva descrivere anche lei stessa attraverso le vicende vissute negli anni, la bellezza e la tristezza del suo amore per Ōki.
Tuttavia nonostante gli innumerevoli tentativi, non riusciva a disegnare il volto del bambino. Gesù Bambino e gli amorini che Otoko aveva studiato nei quadri occidentali avevano tutti contorni nitidi o erano soltanto figure in miniatura del volto d'un adulto, a volte con espressioni artificiose di santità. Il bambino nell'immaginazione di Otoko invece non aveva contorni né chiari né vigorosi. Era il volto di uno spirito, di un fantasma che, circondato di un alone nella luce vaga della visione onirica, non era di questo mondo ma neppure dell'altro, e doveva recare serenità e quiete all'anima di tutti quelli che lo guardassero da vicino. Nello stesso tempo, la figura doveva esprimere un'infinita e abissale tristezza. Nonostante tutto ciò, Otoko voleva evitare completamente le eccentricità che non è raro trovare nelle pitture astratte.
Solo nel disegno del volto, le esigenze di Otoko erano grandi. Come poteva procedere poi col resto, se si basava su quel corpicino smunto della bambina nata prematura? Come risolvere lo sfondo e il contorno? Più volte Otoko studiò riproduzioni di opere di Redon e di Chagall. Nelle fantasie romantiche di Chagall, soprattutto, Otoko non trovava la mano di un genio capace di dare ali alla sua immaginazione orientale.
Le ritornarono in mente allora le immagini del Sacro Infante del Giappone antico, più che non figure di pitture occidentali. L'iconografia del Sacro Infante derivava da un episodio della biografia del santo monaco Kobo Daishi. Rappresentava la figura del santo che da bambino si sarebbe intrattenuto con Budda in un sogno. Il dialogo avvenne, secondo la tradizione, all'interno d'un fiore di loto a otto petali. Secondo l'iconografia tradizionale, la figura del santo bambino viene rappresentata seduta sul fiore di loto. Le linee della figura nei quadri antichi sono severe e sobrie, ma col passare del tempo via via si ammorbidiscono, diventando a volte difficilmente distinguibili da quelle di una bambina bellissima. In molti di questi ritratti di fanciulli bellissimi, il sesso è indefinibile.
Quando Keiko aveva chiesto a Otoko di ritrarla nella notte della festa del plenilunio a maggio, la prima idea che aveva avuto Otoko era quella d'un ritratto di Santa Vergine alla maniera del Sacro Infante. L'idea era originata probabilmente dal fatto che l'immagine dell'Ascensione del Bambino era presente sempre nel suo cuore. Più tardi, però, le venne un altro sospetto. Si era accorta che sia quando voleva ritrarre la bambina morta, sia nel suo desiderio di ritrarre Keiko, indistintamente le tornava alla mente l'immagine del Sacro Infante. Era certo il segno dell'attrazione immensa che quel quadro esercitava su di lei, ma non era forse anche, nello stesso tempo, una manifestazione del suo orgoglio, della sua adorazione di sé? Otoko non vedeva forse nell'immagine del Sacro Infante il suo desiderio di un autoritratto? Nella voglia di ritrarre sia Keiko, sia la bambina morta, non si nascondeva forse l'idea ossessiva di un autoritratto? Il bambino celestiale nelle spoglie del Sacro Infante, o l'immagine della giovane santa, o la visione della Santa Vergine, non erano forse soltanto la visione d'un quadro sacro, dov'era ritratta la stessa Otoko? Quel sospetto le trafisse il cuore. Si sentiva incapace di continuare a squarciare con le sue stesse mani la sua ferita nel petto per meglio vedere. Così estrasse la lama dalla ferita. Ma vi era rimasta la cicatrice, e di quando in quando le faceva male.
Non era nelle intenzioni di Otoko arrivare a riprodurre esattamente il genere del Sacro Infante nel fare il ritratto alla bambina morta o a Keiko, anche se quel genere costituiva il concetto fondamentale del suo piano di lavoro. Con la propria opera sperava di purificare o perfino santificare il suo amore per la bambina e per Keiko. Non avrebbe avuto il coraggio di intitolare Santa Vergine il ritratto di Keiko; era stato per prendere in giro Keiko che aveva annunciato il titolo scherzoso Una giovane astrattista. Con tutto ciò, tuttavia, Otoko non pretendeva nemmeno lontanamente che il ritratto di Keiko facesse parte del genere astratto nel senso moderno della parola. Avrebbe dipinto con amore, quasi come si trattasse di una pittura sacra, aveva detto quella sera, e in tutta sincerità.
Arrivata da poco, Keiko aveva preso il ritratto della madre di Otoko per uno splendido autoritratto di Otoko. Ogni volta che guardava il quadro appeso alla parete, Otoko si ricordava delle sue parole. Quell'osservazione di Keiko non aveva mai lasciato la mente di Otoko. Essa aveva ritratto la madre giovane e bella perché si potesse scambiare il quadro per un suo autoritratto. Era stato per affetto filiale, ma nello stesso tempo era stata forse un'espressione del suo attaccamento a se stessa. Le rassomiglianze nei lineamenti non erano le sole cause della confusione. Era possibile che Otoko, mentre ritraeva la madre, avesse inconsciamente disegnato se stessa.
Ogni quadro, si tratti d'un paesaggio o di una natura morta, è anche simbolicamente un autoritratto: è un ritratto del temperamento dell'autore, del suo stato d'animo nell'esprimere se stesso. Nel ritratto della madre di Otoko, si sentiva fluire l'intimo affetto della figlia, una sorta di tenera tristezza. Questa intima tristezza generava la sensazione che quel quadro fosse un autoritratto. L'immagine del Sacro Infante genera la medesima sensazione di tenera tristezza. Simili tendenze si possono individuare in numerose opere di pittura sacra buddista, o nei ritratti femminili dell'antichità giapponese. Indubbiamente, quindi, era la grazia della figura del bambino a stuzzicare il desiderio di Otoko. Era anche innegabile che in quel tipo di quadro fosse presente una dolcezza ineffabile, insieme al più comune senso della pietà religiosa. Otoko, che era totalmente estranea alla devozione al culto del Kobo Daishi, probabilmente aveva trasferito in quell'immagine il proprio orgoglio, l'amore narcisista per la propria persona. La dolcezza dell'immagine accoglieva dentro di sé generosamente la tristezza umana, ma di natura sentimentale.
L'affetto di Otoko per Ōki, per la bambina morta e per la madre continuava a sussistere ancora oggi. Ma la qualità dell'affetto era rimasta esattamente la stessa di quando essi avevano per Otoko un'esistenza tangibile? O non si era forse trasformata in lei, col tempo, nell'amore di sé? Otoko non ne era per nulla consapevole. Non ne aveva mai avuto il sospetto, non vi aveva mai pensato. La morte l'aveva divisa dalla bambina, la vita l'aveva divisa da Ōki e ancora la morte le aveva portato via la madre. Ora tutti e tre continuavano a vivere in Otoko.
Ma fra tutte queste persone Otoko era rimasta l'unica a vivere nella propria realtà quotidiana. Così neppure Ōki nel cuore di Otoko poteva essere completamente immune dalle conseguenze del fluire del tempo. Otoko aveva seguito lo scorrere del tempo portando Ōki dentro di sé. E il ricordo di Ōki si era venuto via via tingendo dell'amore di Otoko per se stessa, trasformandosi in tutt'altra cosa. Considerare i ricordi come esseri fantasmagorici o rinchiuderli nel mondo dell'oblio non era affatto nelle abitudini di Otoko. Da quando l'avevano divisa da Ōki a diciassette anni, fino a oggi che aveva ormai quarant'anni, Otoko era vissuta sempre sola, senza sposarsi e senza nemmeno innamorarsi. Era più che naturale, in una donna con un passato di quella specie, legarsi ed aggrapparsi disperatamente al ricordo di un amore doloroso, e che tale amore si tingesse a poco a poco di colori narcisistici.
Da qualche tempo, era immersa nell'amore per un'allieva del suo stesso sesso. Era stata Keiko ad accendere per prima quel fuoco. Ma non era forse, anche questo amore, una trasformazione del suo orgoglio, del suo amore di sé? Comunque sarebbe stato difficile trovare una giustificazione al motivo per cui aveva deciso di ritrarla come Santa Vergine, alla maniera di una pittura buddista, del Sacro Infante seduto sui petali di un fiore di loto.
Le parole esatte di Keiko erano state: «Otoko, fammi un ritratto… prima che io diventi una strega… Sono disposta anche a posare nuda». Dipingendo Keiko in quell'atteggiamento di innocenza, Otoko non aveva cercato forse di rappresentare se stessa innocente? La ragazza di sedici anni, innamorata di Ōki, aveva continuato a vivere tale e quale in Otoko, e pareva rifiutarsi di crescere.
Otoko tuttavia ignorava tutto questo. La sua mente non era avvezza a questa sorta di pensieri.
Insofferente dell'odore del proprio corpo sudato, normalmente Otoko lasciava subito il letto nelle mattine che seguivano una notte afosa. Dopo una notte di tal sorta, tipica di Kyoto, essa usava trovarsi con la camicia da notte tutta umida. Quella mattina, tuttavia, con la testa girata da un lato sul cuscino, contemplava i disegni del bambino sulla parete, come aveva fatto la sera avanti, prima di addormentarsi. La sua bambina nata di sette mesi e subito morta aveva respirato, anche se per pochissimo tempo, l'aria di questo mondo. Ritrarre invece un bambino che non ha mai visto la luce del mondo, che non ha mai respirato l'aria del mondo umano, cioè un bambino spirito, era un compito incomparabilmente più difficile. I suoi disegni stentavano a prendere forme e contorni chiari.
Keiko dormiva voltando la schiena a Otoko. Teneva sotto le braccia l'orlo della leggera trapunta di lino, abbassato giù fino all'altezza del petto. Era distesa su un lato e aveva le gambe educatamente congiunte, ma i piedi spuntavano fuori fino alle caviglie. Poiché Keiko si vestiva per lo più in kimono, e ciò implicava che non dovesse uscire con scarpe strette a tacchi alti, le dita lunghe e distese dei suoi piedi non erano sciupate da calli o da altre brutture. Otoko avvertiva nelle dita sottili dalla ossatura lunga dei piedi di Keiko una qualità totalmente eterogenea a se stessa, e cercava sempre di distoglierne lo sguardo. Quando però le stringeva in pugno senza guardarle, provava un piacere insolito, che nasceva dal contatto con una struttura fisica inesistente nel corpo delle persone della sua generazione. Le pareva a volte di tenere in mano le dita di una creatura non umana.
D'un tratto sentì l'odore di un profumo che, per i gusti di Otoko, era troppo pesante per una giovane ragazza. Otoko sapeva che Keiko lo adoperava di tanto in tanto, ma ora la colse un sospetto. Per quale motivo l'aveva usato la sera prima?
Non si era chiesta dove fosse andata, quando l'aveva vista rientrare dopo mezzanotte. Era assorta a contemplare il bambino negli abbozzi sulla parete, e quella interrogazione non le aveva nemmeno sfiorato la mente.
Keiko non si era curata di andare in bagno a lavarsi e si era addormentata subito. O era stata forse Otoko ad addormentarsi per prima?
Otoko si alzò, e andando all'altra parte del letto, nella semioscurità diede uno sguardo al viso addormentato di Keiko prima di aprire le imposte. Keiko aveva il risveglio facile; anche quando le capitava di svegliarsi dopo Otoko, si alzava subito al rumore delle imposte che venivano aperte e correva ad aiutare Otoko. Ma quella mattina, Keiko restava seduta nel letto a guardare Otoko che lavorava. Spalancate le imposte e anche gli shoji in tutta la stanza, Otoko tornò accanto al letto di Keiko.
Mi dispiace di non averti dato una mano, – si scusò Keiko. – Non m'è riuscito di prender sonno fin dopo le tre di mattina… – E alzandosi, cominciò a disfare il letto di Otoko.
– Non potevi dormire per l'afa? – domandò Otoko.
– Uhm.
– Oh, non mettere via la mia camicia da notte. Voglio lavarla –. Otoko prese la camicia da notte e andò nel bagno a lavarsi. Keiko la segui nel bagno, ma aveva tutta l'aria di aver fretta, si capiva perfino dal modo come si lavava i denti.
– Dovresti lavarti anche il corpo, – disse Otoko.
– D'accordo.
– Mentre dormivi avevi ancora addosso il profumo di ieri sera.
– Ah sì? – Fu la risposta laconica di Keiko.
– Ah sì? – ripeté Otoko, incuriosita dell'aria assente di Keiko. – Che risposta sarebbe? E poi, dove sei stata ieri?
Keiko non rispose.
– Vieni a lavarti. Non ti dà fastidio?
– No. Lo farò più tardi.
– Più tardi? – E Otoko guardò Keiko.
Uscendo dal bagno, Otoko trovò Keiko che sceglieva il kimono nel cassetto del comò.
– Ma Keiko, esci adesso? – La voce di Otoko prese un tono stridulo.
– Sì, – rispose Keiko.
– Hai qualche appuntamento fuori?
– Sì.
– Con chi?
– Con Taichiro.
Otoko sul momento non capì.
Con Taichiro del signor Ōki. – La risposta di Keiko fu chiara. Aveva omesso solo la parola «figlio». Otoko non riusciva nemmeno a formulare un commento. Si sentiva mancare la voce.
– Taichiro è arrivato ieri a Kyoto. Sono andata a prenderlo all'aeroporto di Itami e oggi gli ho promesso di accompagnarlo in giro per Kyoto. O meglio, mi accompagnerà lui. Otoko, io non ti nascondo nulla. Oggi andremo prima al tempio Nison'in perché Taichiro vorrebbe visitare una tomba in cima alla montagna.
– Una tomba? In montagna? – Otoko riusciva appena a pronunciare qualche parola, che però non giungeva al suo orecchio.
– Sì. È la tomba di qualche cortigiano di epoca Higashiyama.
– Oh.
Keiko si spogliò della camicia da notte e voltando la schiena a Otoko riprese a parlare.
– È obbligatorio, con questo caldo, mettere il sottokimono? Non sta bene portare il kimono direttamente sulla biancheria, vero?
Mentre Keiko si vestiva, Otoko la guardava in silenzio.
– Ho stretto forte l'obi… – disse Keiko tirando i due capi dell'obi.
Otoko vedeva il volto di Keiko riflesso nello specchio mentre si truccava. Evidentemente anche Keiko la vedeva nello specchio. Disse:
– Non fare quella faccia, Otoko.
Accorgendosi della sua espressione tesa, Otoko cercò di assumere un'aria meno severa.
Keiko si guardava in un'ala dello specchio a trittico aggiustandosi con la punta delle dita le ciocche di capelli sopra le orecchie. Era l'ultimo tocco che si dava Keiko per far risaltare la bella forma delle sue orecchie. Era poi sul punto di alzarsi, ma sedendo di nuovo davanti allo specchio, prese il flaconcino del profumo.
– Se non ti sei ancora lavata del profumo di ieri sera, – osservò Otoko aggrottando le ciglia.
– Non importa.
Keiko, sei tutta eccitata.
Keiko non rispose.
– Dimmi, Keiko, – proseguì Otoko. – Perché vai a vedere Taichiro?
– Mi aveva scritto lui dicendo che sarebbe arrivato a Kyoto in aereo Keiko si era alzata ora e scegliendo uno dei tre kimono che aveva tirato fuori dal cassettone, mise via gli altri due.
– Piegali meglio prima di metterli via, – disse Otoko.
– Va bene.
– Piegali ora.
– Va bene –. Ma Keiko non si curò nemmeno di voltarsi verso il comò.
– Vieni qui, Keiko –. La voce di Otoko aveva assunto un tono severo.
Keiko si sedette davanti a Otoko e la guardò dritto negli occhi. Otoko cercò quasi di evitare il suo sguardo. Era un po' sorpresa lei stessa del proprio tono di voce.
– Esci senza neanche aver fatto colazione?
– Non importa. Ho mangiato tardi ieri sera.
– Ieri sera?
– Sì.
– Senti, Keiko – disse Otoko con una voce quasi grave. – Cos'hai in mente?
– Non lo so.
– Sei tu che lo vuoi vedere?
– Sì.
– Sei tu che l'hai voluto vedere dunque –. Questo appariva chiaramente anche dall'aria eccitata di Keiko. Ma Otoko incalzò come volendo chiarire la cosa a se stessa: – E per quale ragione?
Keiko non rispose.
– Non puoi fare a meno di vederlo? – disse Otoko abbassando lo sguardo. – Non voglio che tu lo veda. Per favore, non andarci.
– Come mai? Cosa c'entri tu in questo?
Sì che c'entro.
– Ma se non lo conosci nemmeno.
– Sei andata con suo padre all'albergo di Enoshima. E hai ancora il coraggio di uscire con lui?
Otoko accusava Keiko della sfacciataggine di essere stata all'albergo con il padre e di voler poi uscire col figlio. Ma non riusciva a pronunciare con chiarezza il nome di Ōki o quello di Taichiro.
– So che il signor Ōki è stato il tuo amante una volta, ma non hai mai incontrato Taichiro, e lui non c'entra assolutamente nulla con te. Capita che sia suo figlio ed ecco tutto, – disse Keiko. – Non è figlio tuo.
Le parole di Keiko trafissero il cuore a Otoko. Subito dopo che Otoko aveva perso la creatura di Ōki nel parto prematuro, la moglie di Ōki aveva avuto una bambina.
– Keiko, stai tentando di conquistarlo, non è vero? – esclamò Otoko.
– È stato Taichiro a dirmi l'ora del suo arrivo.
– Siete ormai tanto legati da incontrarvi all'aeroporto, da andare in giro per la città come una coppietta?
– Non parlare in questo modo, Otoko, ti prego. Cosa vuoi insinuare dicendo che siamo legati?
– Se non ti piace l'espressione, posso parlare della vostra relazione. Va bene? – E Otoko si asciugò col dorso della mano il sudore freddo che le copriva la fronte. – Tu sei diabolica.
Una luce misteriosa brillò negli occhi di Keiko.
– Otoko, – disse Keiko. – Tu sai che odio gli uomini.
– Non andarci allora. Non andarci. Se insisti nel volerci andare, ti chiedo di non tornare qui mai più. Se vuoi andarci ad ogni costo, puoi farlo, ma non ritornare più.
– Otoko, – Keiko la chiamò. Aveva gli occhi umidi.
– Di', cosa vuoi fare a Taichiro? – Le mani le tremavano in grembo quando riuscì finalmente a pronunciare quel nome.
– Vado, – disse Keiko, e si diresse verso la porta.
Non andare.
– Picchiami, Otoko, come hai fatto quel giorno che siamo andate al tempio dei muschi –. Non ricevendo nessuna risposta da Otoko, Keiko uscì frettolosamente dalla stanza.
D'un tratto Otoko si accorse del sudore freddo che le copriva tutta la superficie del corpo. Immobile, guardò il giardino: le foglie dei bambù luccicavano nel sole di mattino. Andò in bagno. Il rumore scrosciante dell'acqua la fece sussultare e chiuse in fretta il rubinetto. Senza rendersene conto, l'aveva aperto troppo. Lasciando scorrere solo un filo d'acqua, si mise a lavarsi. S'era calmata un poco, ma la testa le pulsava. Con una pezza bagnata si premette la fronte e la nuca.
Quando fu nello studio, sedette di fronte al ritratto della madre, accanto agli abbozzi del bambino. Trasalì, invasa da una ripugnanza per se stessa che l'annientava. La ripugnanza proveniva dal fatto che conviveva con Keiko, ma ora tutto il suo essere pareva impregnato di quella sensazione orrenda. Più che provare dolore, Otoko si sentiva umiliata e avvilita. Per quale motivo era vissuta tutti quegli anni? Perché viveva ancora?
Ebbe voglia di chiamare la madre. D'un tratto le venne in mente il Ritratto della vecchia madre di Tsune Nakamura. Era l'ultima opera del pittore. Ciò voleva dire che il pittore aveva preceduto la madre nella morte. Otoko era stata colpita dal fatto che un pittore avesse ritratto la sua vecchia madre prima di morire. Così il quadro le era rimasto nella memoria. Conosceva il quadro solo in riproduzione, perciò alcuni punti non le erano chiari, ma lo guardava sempre attraverso la lente dei propri sentimenti.
Nelle sue opere giovanili, Nakamura aveva ritratto la sua ragazza con vigore e sensualità. Il colore dominante era il rosso, un po' alla maniera di Renoir. Il suo famoso ritratto di Eroshenko, senza dubbio il suo capolavoro, esprime la nobiltà d'animo e la malinconia quasi religiosa del poeta cieco. Eppure i colori sono caldi e piacevoli. Nel ritratto della madre, l'ultima delle sue opere, i colori sono bui e freddi, mentre le pennellate sono state estremamente semplificate. La vecchia madre dimagrita e col seno cascante è ritratta di profilo, seduta su una sedia, e sullo sfondo ha una parete nella metà inferiore rivestita in legno. In una nicchia nella parete, davanti al suo viso, è situata una brocca, e dietro la sua testa è appeso un termometro. Otoko non aveva modo di sapere se il termometro si fosse trovato realmente in quel punto o fosse stato un'invenzione del pittore. Ma quel termome-
tro, insieme al rosario pendente dalle dita della vecchia madre che le teneva sovrapposte sul ginocchio, aveva colpito l'immaginazione di Otoko. Esso pareva quasi simboleggiare la consapevolezza della fine imminente del pittore, che stava per precedere la vecchia madre nella morte. L'intero quadro, forse, simboleggiava la sua morte.
Otoko trasse fuori dall'armadio il libro con le riproduzioni delle opere di Nakamura e cercò di mettere a confronto quei due ritratti di madre: il suo e quello di Nakamura. Sua madre l'aveva preceduta, e quel ritratto non era la sua ultima opera, né lo tingeva l'ombra della morte. Benché la tecnica fosse drasticamente diversa, Otoko rimase colpita dalla superficialità del proprio dipinto a confronto della riproduzione dell'immagine della vecchia madre. Chiuse fortemente gli occhi. Si sentiva scolorire in volto.
Aveva ritratto il volto della madre per trovare consolazione. Il suo pensiero dominante era quello di ritrarla giovane e bella. Pensava di farlo come un atto di preghiera, ma la preghiera era presente anche nel ritratto della vecchia madre di Nakamura. A confronto di quella del noto pittore, la preghiera di Otoko era semplicemente superficiale. Non era stata così, forse, anche la sua vita?
Otoko non aveva ritratto la madre direttamente. L'aveva ritratta da una fotografia, dopo che era morta. L'aveva dipinta più giovane e più bella di quanto fosse nella fotografia. Mentre disegnava la madre, a volte si guardava nello specchio per studiarvi alcuni tratti in cui rassomigliava alla madre. Era abbastanza comprensibile che il quadro fosse diventato sentimentale e superficiale. Ma il suo difetto imperdonabile era l'assenza totale di un elemento che rivelasse la profondità dell'anima.
Solo allora Otoko si rese conto che la madre, dopo che si erano trasferite a Kyoto, non si era mai più fatta fotografare da sola. Quando erano venuti i giornalisti a far fotografie a Otoko per pubblicarle nella rivista, il fotografo mandato da Tokyo voleva un'immagine di lei e della madre insieme. La madre era scappata via e si era nascosta. Otoko comprese soltanto ora che quello era il suo modo di esprimere la propria tristezza. Quasi si vergognasse della propria condizione come fosse stata una fuorilegge, aveva tagliato quasi ogni legame con gli amici di Tokyo trasferendosi a Kyoto. Anche Otoko aveva provato quel senso di vergogna, ma la solitudine e l'allontanamento dalla società che la madre si era imposta avevano tutt'altro significato che nella figlia diciassettenne. Erano diverse anche perché Otoko, rimasta ferita nel suo amore per Ōki, pure non aveva cessato di amarlo.
Bisogna rifare il ritratto, si disse Otoko guardando i due ritratti, l'uno e l'altro.
Keiko era andata a incontrarsi con Taichiro Ōki, e con questo si allontanava probabilmente da Otoko. Il pensiero le provocò un forte battito al cuore.
Quella mattina, Keiko non aveva pronunciato la solita parola, vendetta. Aveva detto di odiare gli uomini, ma chi ci poteva credere? Il fatto che fosse uscita senza nemmeno toccare la colazione, con la scusa poco convincente di aver mangiato tardi la sera prima, non era forse rivelatore? Che cosa voleva fare del figlio di Ōki? Che cosa sarebbe stato dei due giovani? E che cosa sarà di me, si chiese Otoko, di me che sono vissuta questi ventiquattro anni prigioniera dell'amore per Ōki? Il pensiero era avvilente.
Otoko non era stata capace di fermare Keiko che andava a incontrarsi con Taichiro. Poteva evitare una catastrofe, se inseguiva Keiko e vedeva Taichiro di persona? Ma Otoko ignorava sia il luogo dell'appuntamento, sia dove abitasse Taichiro a Kyoto. Keiko non le aveva detto nulla.
Il lago
Quando Keiko arrivò alla casa da tè Fusayaka, Taichiro l'aspettava sul balcone sul fiume. Si era già cambiato per uscire.
– Buon giorno. Hai dormito bene? – Andando verso Taichiro, Keiko si appoggiò alla ringhiera del balcone. – Ti ho fatto aspettare?
– Mi sono svegliato presto, – disse Taichiro. – Il rumore del fiume mi ha svegliato. Ho visto sorgere il sole sopra i colli di Higashiyama.
– Tanto presto?
– Già. Le montagne sono così vicine alla città che il sorgere del sole era diverso dal solito. Ci si accorgeva dell'alba solo dal verde dei monti che a poco a poco schiariva, e dall'acqua del fiume Kamo, che si era messa a luccicare nella prima luce del mattino…
– E tu sei stato a guardare per tutto il tempo?
– Era bello osservare i quartieri sull'altra riva del fiume svegliarsi a poco a poco.
– Non sei riuscito a dormire? Non ti è piaciuto l'alloggio? E Keiko aggiunse con una voce che si udiva appena: – Magari la causa della tua insonnia fossi stata io.
Taichiro non rispose.
– Non mi dici che sono stata io? – incalzò Keiko.
– Sei stata tu a non farmi dormire, Keiko.
– Lo dici perché ti ho costretto a dirlo?
– Ma sono convinto che tu hai dormito bene, vero? – disse Taichiro fissando Keiko negli occhi.
Keiko scuoté il capo e disse: – No.
– Ma i tuoi occhi ti tradiscono. Risplendono come due lumi accesi.
È perché ho il cuore acceso. Per colpa tua, Taichiro. Posso anche non dormire per un paio di giorni, ma gli occhi continuano a sorridere lo stesso.
I suoi occhi brillanti ma appena velati di dolce tenerezza continuavano a fissare Taichiro, che le prese la mano.
– Che mani fredde, – sussurrò Keiko.
– Le tue sono calde invece Così dicendo, Taichiro le tastò le dita una a una e si meravigliò della loro flessuosità. Erano tanto snelle che non sembrava appartenessero a un essere umano; potevano sciogliersi in un attimo se Taichiro le metteva in bocca. Sarebbe stato facile reciderle con i denti. Gli venne voglia di metterle in bocca. Le dita parevano comunicare la fragilità della ragazza. Proprio davanti ai suoi occhi, Taichiro vedeva l'orecchio ben formato e il collo lungo e flessuoso di Keiko.
– Dunque tu dipingi con queste dita tanto delicate, – disse Taichiro portando le mani di lei all'altezza della bocca. Keiko si guardò le mani per un attimo. I suoi occhi erano umidi.
– Sei triste, Keiko?
– Sono felice, quasi da piangere… Basta che tu mi tocchi in un punto qualunque perché mi vengano le lacrime agli occhi.
Taichiro non rispose.
– Perché sento che qualcosa, dentro di me, è giunto alla fine.
– Che cosa?
– Non posso risponderti. Non me lo chiedere.
– Ma non c'è nulla che sia finito, anzi, tutto sta per cominciare. La fine di una cosa è sempre l'inizio di un'altra cosa, non è così?
– La cosa finita invece, è finita e basta. La cosa che sta per iniziare, poi, sta semplicemente iniziando. Sono due cose distinte. Almeno è così per una donna, che rinasce ogni volta di nuovo.
Taichiro fece per abbracciare Keiko, stringendo più leggermente le dita di lei. Keiko si appoggiò dolcemente a Taichiro, che si sorresse contro la ringhiera del balcone.
Si sentì sul greto un latrato stridulo. Era un piccolo terrier che abbaiava istericamente a un grosso cane Akita. Il terrier era tenuto a guinzaglio da una donna di mezza età, probabilmente una donna che prestava servizio in una delle case del vicinato. Il cane grosso non badava affatto al piccolo. L'Akita era tenuto al guinzaglio da un giovane che all'aspetto sembrava un cuoco di trattoria. La donna di mezza età si piegò per prendere in braccio il terrier, il quale, dibattendosi, continuò a ringhiare. Quando la donna voltò le spalle al cane grosso, il terrier prese a infierire contro Taichiro e Keiko. La donna di mezza età mandò loro un sorriso costernato, guardando in su verso il balcone.
– Oh, no, – esclamò Keiko. – Che brutto iniziare la giornata con un cane che ti abbaia contro. Odio i cani –. Con queste parole Keiko si nascose a metà dietro Taichiro, e non si mosse neppur quando il cane ebbe smesso d'abbaiare. Aveva una mano leggermente appoggiata sulla spalla di Taichiro.
– Taichiro. Sei felice di avermi conosciuto? – chiese.
– Naturalmente.
– Mi domando però se sei felice quanto me. Non credo che la tua felicità equivalga alla mia.
Quel suo parlare pieno di femminilità era alquanto inatteso per Taichiro. Insieme alle sue parole, gli giunse un alito profumato di giovane donna. Il petto di Keiko sfiorava le spalle di Taichiro. Non che premesse contro di lui, ma la sua vicinanza gli trasmetteva un calore morbido.
La certezza di possederla si sparse dolcemente nel suo cuore. Non era più una ragazza stramba, né incomprensibile.
– Non credo che tu abbia capito quanto grande sia stato il mio desiderio di conoscerti. Sapevo di non poterti mai conoscere se non andando a casa tua a Kamakura del Nord –. Poi aggiunse: – Mi pare un sogno trovarmi ora accanto a te.
– È davvero come un sogno.
– Pare un sogno soprattutto a me, che ho continuato a pensare a te senza poterti vedere. E ora che ci siamo visti, mi pare di essere vissuta sempre con te. Ecco perché ti dico che è come un sogno. Scommetto che tu non pensavi più a me. Ti sei ricordato di me per caso, quando hai deciso di venire a Kyoto.
– Mi meraviglio delle tue parole.
Davvero? Ti è mai capitato di pensare a me?
– Anche se mi è penoso qualche volta pensare a te.
– Come mai?
– Perché pensando a te, mi ricordo della tua maestra, ed essa mi ricorda le sofferenze di mia madre da giovane. Io ero troppo piccolo per capire qualcosa, ma ho letto tutto nel romanzo di mio padre. So come mia madre avesse vagato per le strade cittadine, nel buio della notte, con me, bambino, in braccio; come s'accasciò a terra lasciando cadere la tazza di riso che teneva in mano. Mia madre mi reggeva in braccio così malamente, che si potevano sentire i miei strilli, mentre ci allontanavamo da casa. A un certo punto, mia madre diventò un po' sorda, i suoi denti cominciarono a ballare.
Aveva soltanto ventitré anni… Eppure… – Taichiro si fermò un attimo per cercare la parola prima di riprendere. – Eppure ancora oggi si vende il romanzo di mio padre, che narra la sua relazione con la signorina Ueno. È un'ironia pensare che, in tutti questi anni, i diritti d'autore di quel libro hanno arrotondato le nostre entrate, mi sono stati di sostegno negli studi e hanno aiutato mia sorella a mettere su casa.
– Che c'è di male in questo?
– D'accordo. Non serve a nulla farsene degli scrupoli ora. Ma è curioso lo stesso. A me dà fastidio quel romanzo dove mia madre è descritta in maniera unilaterale, come una donna pazza di gelosia, una donna molto sgradevole. Per di più è uscito anche in edizione tascabile, e ogni volta che lo ristampano, ci mandano gli scontrini su cui bisogna mettere il timbro dell'autore. È mia madre a dover timbrare cinquemila, diecimila scontrini, per approvarne la ristampa. Perché aumenti il numero delle copie d'un romanzo che parla male di lei, la vedo mia madre, ormai una tranquilla donna di mezza età, timbrare uno scontrino dopo l'altro con aria indifferente.
Keiko taceva, e Taichiro continuò:
– Può darsi che tutto per mia madre sia ormai una tempesta passata da tanto tempo. Siamo una famiglia unita. La gente poteva benissimo disprezzare mia madre, perché era la moglie dell'autore di quel romanzo. Invece, ho l'impressione che la gente abbia stima di lei. E mi pare quasi contradittorio.
– La stimano perché è la moglie dello scrittore Ōki.
Intanto la tua maestra vive ancora oggi la vita del personaggio del romanzo. Non si è neppure sposata.
– È vero.
– Mi domando cosa rappresenti lei oggi per i miei genitori. A vederli tutti i giorni, Otoko Ueno sembra completamente scomparsa dalla loro memoria. Qualche volta non mi perdono per aver mangiato col denaro dei diritti d'autore di quel libro. A prezzo di tutta una vita d'una ragazza innocente. Capisco che tu abbia voluto vendicare la maestra Ueno, perfino su di me…
– Basta. La mia vendetta è compiuta ormai –. Keiko accostò la guancia al collo di Taichiro, e disse: – Ho la mia vita da vivere.
Taichiro, in silenzio, cinse le spalle a Keiko.
– La signorina Ueno mi ha detto che non ha più bisogno di me La sua voce si udiva appena.
– Per quale ragione?
– Perché le ho detto che venivo a vederti.
– Glielo hai detto, allora.
– Sì. Ma la signorina mi ha pregato di non venire da te. Ha detto che se venivo, non voleva che io tornassi più da lei.
Taichiro le staccò le mani dalle spalle. D'un tratto si accorse che il traffico delle automobili sull'altra riva era aumentato. I colli di Higashiyama avevano cambiato colore: ora si distinguevano meglio le sfumature del verde.
– Non dovevo dirglielo? – disse Keiko scrutando l'espressione tesa che aveva Taichiro nel volto.
– Beh, – balbettò Taichiro. – Non ti sembra che sono io a vendicare mia madre sulla signorina Ueno?
E Taichiro lasciò il balcone entrando in camera.
– Vendicare tua madre? Non ci avevo nemmeno pensato. Come parli strano, – disse Keiko correndo dietro a Taichiro.
– Vogliamo uscire? O piuttosto, forse è meglio che tu vada a casa.
Oh, come sei cattivo.
– Al posto del padre, questa volta è il figlio che viene a importunare la signorina Ueno.
– Mi dispiace di aver parlato di una vendetta ieri sera. È tutta colpa mia.
Fermando un taxi davanti alla casa da tè, Taichiro non impedì che vi salisse anche Keiko. Tuttavia rimase in silenzio a lungo, mentre la macchina percorreva le vie cittadine fino all'arrivo al tempio Nison'in nella zona di Saga.
Anche Keiko rimaneva muta. – Posso abbassare tutto il finestrino? – Fu questa l'unica domanda sua durante il tragitto. Chiusa nel silenzio, muoveva l'indice della mano posata sulle mani di Taichiro, che egli teneva sul ginocchio. La mano di Keiko non era sudata, ma leggermente umida e liscia.
Si dice che la porta principale di Nison'in fosse stata trasportata nel posto attuale nel 1613 dal castello di Momoyama a Fushimi, nel sud di Kyoto, per opera dei Suminokura che dominavano in queste parti. Possiede tutta la dignità che si addice alla porta d'un castello importante.
– Da come brilla il sole, si direbbe che farà caldo anche oggi, – disse Keiko. – È la prima volta che visito l'interno del tempio Nison'in.
– Conosco la zona perché ho fatto una ricerca sul poeta Fujiwara no Teika, – disse Taichiro salendo la scalinata che conduceva alla porta e lanciando un'occhiata ai piedi di Keiko.
Il bordo del suo kimono fluttuava accompagnando i suoi passi leggeri. – È un fatto sicuro che Teika abbia abitato nella zona sotto il monte Ogura, ma tre sono i luoghi dove si pensa fosse la sua villa, da lui chiamata il «Padiglione della pioggia d'autunno». Dei tre luoghi, uno si trova sulla collina qui dietro Nison'in, gli altri due sono rispettivamente al tempio Jojakuji che è qui accanto, e là dove è ora l'eremo Enrian.
– Sono stata all'Enrian con la signorina Ueno.
– Sì? Oggi è un convento di monache. Vi si trova un pozzo d'acqua sorgente, dal quale, secondo una leggenda, Teika avrebbe attinto l'acqua per l'inchiostro quando scriveva Una poesia, Cento poeti.
– Non me lo ricordavo.
L'acqua della sorgente è celebre per la sua qualità. La chiamano «l'acqua del salice piangente».
– Ma è vero che il poeta si è servito di quel pozzo?
– Per secoli Teika veniva considerato un dio della poesia, e perciò non è questo l'unico episodio leggendario su di lui. Nel quindicesimo secolo, in particolare, Teika era una vera divinità della poesia e della letteratura.
– La tomba di Teika quindi si trova al Nison'in?
– No. È al Shokokuji in città… Anche se c'è all'eremo Enrian un piccolo monumento chiamato l'ossario di Teika.
Keiko lo ascoltava in silenzio, e Taichiro si rendeva conto che la ragazza non sapeva quasi niente su Fujiwara no Teika.
Da quando la macchina era andata costeggiando il lago di Hirosawa, Taichiro, ammirando la stupenda vista delle montagne coperte di pini che si specchiavano nell'acqua, si era completamente immerso nei ricordi di fatti storici e letterari accaduti negli ultimi mille anni. Dalla riva del lago si vedeva il monte Ogura, basso e tondeggiante di fronte al monte Arashi.
La presenza di Keiko riempiva di una traboccante freschezza la nostalgia per il mondo antico di Taichiro, una nostalgia provocata dalla vista dei monti e della campagna. Era anche una consapevolezza acuta di trovarsi nella vecchia capitale.
Taichiro non stava forse cercando di dimenticare la violenza del carattere della ragazza, che aveva detto di aver litigato con Otoko, rifugiandosi in quel paesaggio stupendo? Il pensiero lo colpì, e Taichiro diede alla ragazza un nuovo sguardo.
– Non guardarmi con quell'aria inquisitoria, – con l'espressione di chi ha la luce negli occhi, Keiko allungò una mano verso Taichiro.
Toccando la mano distesa, Taichiro disse: – Non riesco a capire ancora per quale combinazione ho finito col passeggiare qui ora con te. Chi sa dove mi trovo.
– Chi sa dove siamo. Chi è mai questa persona? – E afferrando la mano di Taichiro, essa vi premette le unghie. – Non ti conosco.
I pini sul vialone all'interno della porta facevano cadere a terra nerissime ombre. Stupendi erano i filari dei pini rossi. Tra i pini si trovava anche qualche acero. Si distinguevano nelle ombre dei pini perfino le punte degli aghi. All'oscurità delle ombre immobili faceva contrasto il kimono bianco di Keiko e la sua carnagione chiara. Alcuni dei rami degli aceri pendevano sfiorando la testa a chi camminava là sotto.
Si sentì un piccolo scroscio di acqua dove finiva il vialone, e dove si cominciava a scorgere il muro antico al di sopra d'una scalinata di pietra. Salita la scalinata, Taichiro girò a sinistra lungo il muro. Giù per il muro scorreva una cascatella d'acqua. S'apriva nel muro una porticina, che sembrava intagliata per caso.
– Non c'è anima viva, – disse Keiko dalla cima della scalinata.
– Il tempio non è molto frequentato, benché sia conosciuto. Ma è anche raro che non ci sia proprio nessuno Taichiro si era fermato a sua volta.
S'era aperta davanti a loro la vista del monte Ogura. La cappella principale del tempio, con il tetto di rame, era avvolta nel silenzio, con un'aria quasi schiva.
– Trovo stupendo quell'albero a sinistra, – disse Taichiro avvicinandosi a un albero. – È un leccio antico. È noto come uno degli alberi più belli nei colli occidentali di Kyoto L'albero stendeva i suoi rami diventati nodosi per la vecchiaia, che uscendo da tutte le altezze del tronco dalla cima fino a pochi centimetri dalla radice, si coprivano di una chioma vigorosa. Corti ma robusti, i rami parevano sprigionare una forza straordinaria.
– Amo questo albero antico. Me lo ricordavo bene, – disse Taichiro. – Non lo vedevo da chissà quanti anni.
A parte il commento sul vecchio leccio, Taichiro evitò volutamente di parlare della storia dei due pannelli, che portavano la famosa calligrafia dell'imperatore Saga del nono secolo, e dell'origine del nome del tempio Nison'in.
Dopo una visita rapida tornarono accanto alla cappella della dea Benten. Guardando su verso la cima della lunga scalinata, Taichiro disse:
– Keiko, ce la fai a salire col kimono?
Keiko scosse il capo scoprendo tra le labbra i denti stupendi.
No. Non ce la faccio –. Visto però che Taichiro non rispondeva, aggiunse: – Devi prendermi per mano, poi ti chiederò di portarmi sulle tue spalle.
– Possiamo salire piano piano, – disse Taichiro.
– Si trova lassù la tomba?
– Sì. La tomba di Sanetaka si trova in cima a questa scalinata.
– Sei venuto a Kyoto per visitare la tomba, e non soprattutto per vedermi, vero?
– È vero. Proprio come dici tu –. E Taichiro prese la mano di Keiko, ma poi la lasciò andare. – Andrò su da solo. Tu puoi aspettarmi di sotto.
– Posso salire benissimo. La scalinata non mi fa paura. Non hai capito? Posso salire fino in cima al monte Ogura e non m'importa niente se non posso tornare indietro –. Fu Keiko questa volta a prendere la mano di Taichiro e a precederlo nella salita.
Era chiaro che il luogo non era molto frequentato dai turisti. Ai piedi di ogni gradino crescevano ciuffi d'erba e minuscole felci. C'era anche un fiore giallo. Salirono la ripida scalinata, fino a un punto dove si trovavano su un lato tre monumenti tombali schierati in fila.
– Siamo arrivati? – domandò Keiko.
– No. Bisogna salire ancora, – rispose Taichiro inoltrandosi su quel lato.
– Vedi, questi monumenti sono tutti e tre stupendi, – disse additandoli. – Sono chiamati le «Tre tombe imperiali», e sono famosi nella storia della scultura di pietra del nostro paese. Questo a forma rettangolare e quello in centro, fatto a piccola pagoda a cinque piani, sono particolarmente belli.
Keiko annuì tutta ammirata.
– Guarda come la patina degli anni dà pregio alla pietra… – disse Taichiro. – Risalgono forse al XIII secolo?
– Probabilmente sì. Il monumento di là a forma di pagoda a dieci piani pare che sia del XIV secolo, dell'epoca delle Due Dinastie. Si dice che tre piani superiori sono andati perduti.
La grazia e la schietta eleganza dei monumenti colpirono evidentemente la sensibilità artistica di Keiko. Pareva non ricordarsi più della sua mano nella mano di Taichiro.
– Molte delle tombe in questa zona appartengono a famiglie antichissime di cortigiani imperiali quali Nijō, Takatsukasa, Sanjō e così via. Vi si trovano anche le tombe di personaggi famosi come Suminokura Ryōi e Itō Jinsai. Ma nessuna di quelle è così bella come questa dei Tre Imperatori, – spiegò Taichiro.
Quando furono finalmente in cima alla scalinata, si trovarono davanti a una cappella dedicata al santo fondatore. L'edificio del santuario contiene, fatto curioso, solo una stele di pietra, sulla cui superficie è iscritta la storia delle opere compiute dal grande restauratore del tempio Nison'in, l'abate Jinku.
Taichiro non perse il tempo a sbirciare dentro la cappella, e si incamminò verso una fila di pietre tombali allineate a destra dell'edificio.
– Ecco qui. Questa è la tomba della casa Sanjonishi. Quella all'estrema destra è la tomba di Sanetaka, Grande Cancelliere.
Accanto a una stele d'una semplicità estrema, che arrivava appena all'altezza del ginocchio, si trovava una pietra con su iscritto il nome di Sanetaka. Anche la tomba accanto era accompagnata da una pietra sulla quale si leggeva: «Monsignore Kiminaga, fu ministro della destra». Su quella a sinistra l'iscrizione diceva: «Monsignore Saneeda, Grande Ministro».
– Come mai le tombe di ministri così importanti sono tanto semplici? – domandò Keiko.
– Appunto. Mi piace immensamente la loro semplicità, – rispose Taichiro.
Salvo per la presenza delle pietre con l'iscrizione dei nomi e dei titoli, le tombe non erano molto diverse dalla foresta di steli funerarie dei morti senza suffragio nel famoso cimitero Adashino del tempio Nenbutsuj. Erano pietre informi, coperte di muschio, per metà immerse nella terra e sepolte nella patina del tempo. Erano pietre silenziose. Eppure, come cercando di udire la voce remota e appena avvertibile delle pietre funerarie, Taichiro vi si accovacciò accanto. La sua mano teneva sempre stretta la mano di Keiko, la quale fu costretta ad accovacciarsi anche lei accanto a Taichiro.
È una tomba molto simpatica, – disse Taichiro con un tono pieno di gioia. – Sto studiando questo Sanetaka. È vissuto più di ottant'anni, e ha lasciato un diario, che aveva scritto per sessantadue anni, cioè da quando aveva vent'anni fino a ottantadue. È un documento prezioso per chi studia la civiltà così detta di Higashiyama, alla fine del XV secolo. Il nome di Sanetaka appare nei diari di altri cortigiani a lui imparentati, e anche nei diari di qualche maestro di poesia renga. È un periodo di rinascita e di grandi tradizioni culturali in mezzo a conflitti sanguinosi. Ecco perché mi interessa particolarmente il periodo di Sanetaka.
– Ti piace la tomba perché stai studiando il personaggio?
– Probabilmente è così.
– Sono anni che stai facendo questa ricerca?
– Quattro, o forse già cinque anni.
– La tomba è la fonte delle tue ispirazioni?
– Ispirazioni? Saranno ispirazioni? – Taichiro parve interrogarsi. D'un tratto Keiko si lasciò cadere col petto sul ginocchio di Taichiro che barcollò. Keiko circondò con le braccia il collo di Taichiro.
– Davanti alla tomba che ti è cara… – mormorò. Taichiro non seppe come reagire.
– Fa' di questa tomba un ricordo caro anche a me. Sarà per noi una tomba con ricordi preziosi. Questa tomba che ti prende il cuore non è più una tomba.
– Non è più una tomba? – Taichiro ripeteva mezzo assorto le parole di Keiko. – Dopo centinaia di anni una tomba cessa di essere una tomba.
– Cosa stai dicendo? – disse Keiko. – Non ti sento.
– C'è un tempo in cui la tomba cessa di essere viva.
– Non ti sento.
– Il tuo orecchio è troppo vicino a me –. E Taichiro avvicinò all'orecchio di lei le sue labbra.
– No. Lascia. Mi fai il solletico, – disse Keiko scuotendo il capo. – Il tuo alito mi fa il solletico. Smettila.
Keiko scrutò il volto di Taichiro sottecchi, tenendo il proprio volto sul petto di lui.
– Come fai a soffiare nell'orecchio a una donna? Sei odioso.
– Non soffiavo, – disse Taichiro ridendo, e d'un tratto s'accorse che con le mani sorreggeva la schiena di Keiko. Sentiva fra le braccia il suo corpo. Gli pesava soprattutto sul ginocchio. Era un peso morbido e dolce.
Poiché era stata Keiko a lasciarsi cadere improvvisamente sul ginocchio di Taichiro che stava accovacciato in terra, ora Taichiro si trovava in una posizione scomoda. Per non cadere all'indietro, si bilanciava ora sulla punta dei piedi, ora sui calcagni. Lo faceva senza rendersene conto.
Le braccia di Keiko attorno al collo di Taichiro erano scoperte fino al gomito. Taichiro sentiva fredda e liscia la pelle appena umida di quelle braccia, quasi aderenti al suo collo. Era tornato in sé.
– Oh, oh. Che tipo rozzo che soffia nell'orecchio di una ragazza così bella! – disse Taichiro cercando di ritrovare la calma. Probabilmente Keiko si riferiva al suo respiro affannoso.
– Mi dà fastidio l'aria nell'orecchio, – sussurrò Keiko.
L'orecchio di Keiko era stupendo. Taichiro lo prese con la punta delle dita. Keiko stava immobile con gli occhi aperti. Taichiro si mise a giocherellare con l'orecchio.
– Pare un fiore misterioso.
– Davvero?
– Senti qualcosa?
– Naturalmente, sì.
– Cosa sentì, allora?
– Chi sa che cosa. Il rumore di un'ape che si posa su un fiore. Non si tratta forse di un'ape, ma di una farfalla.
– Perché ti sto toccando appena.
– Ti piace giocare con l'orecchio di una donna?
– Eh? – Taichiro fermò il movimento delle dita.
Ti piace? – Keiko sussurrò di nuovo gentilmente.
– Non ho mai visto un paio di orecchie tanto belle –. Fu tutto ciò che Taichiro riusciva a mormorare.
– A me piace pulire le orecchie a qualcuno. È buffo, vero? – disse Keiko. – Mi piace e sono anche brava. Vuoi che te lo faccia più tardi? – Taichiro stava zitto.
– Non c'è aria, ma si sta bene.
– Non c'è aria ma il mondo è allagato di luce.
– È vero. È bellissimo trovarsi abbracciati davanti a una tomba, in una mattina splendida come questa. Me lo ricorderò sempre. Un ricordo legato a una tomba; è insolito, vero?
– Anche se le tombe si erigono per tenere in vita i ricordi.
– I ricordi saranno brevi per te, – disse Keiko. – Si squaglieranno presto.
Poi, mentre cercava di alzarsi puntando una mano sul ginocchio di Taichiro, disse:
– Mi fa male.
– Cosa ti fa pensare che i ricordi saranno brevi per me?
– No. Parlavo della mia posizione.
Visto che Keiko stava per staccarsi da lui, Taichiro la afferrò e le dette un bacio leggero sulla bocca.
– No. Non la bocca, – esclamò Keiko. La sua resistenza decisa disorientò Taichiro. Per nascondergli le labbra, Keiko premeva il volto contro il petto di Taichiro; ed egli, cercandole sotto ai capelli folti la fronte, fece per allontanare dal petto la testa di lei. Anche questa volta Keiko si ribellò.
– Mi fai male. Mi infiammi l'occhio se premi tanto –. Finalmente Keiko cedette alla forza di Taichiro.
Teneva gli occhi chiusi.
– Qual è l'occhio maltrattato? – domandò Taichiro.
– Quello destro.
– Ti fa male ancora?
Mi pare di sì. Non lacrima?
Taichiro esaminò l'occhio destro di Keiko; tuttavia non vi si scorgeva nessun segno di forza. Le sue dita non le avevano lasciato nemmeno un lieve rossore sulle palpebre. Il volto di Taichiro si chinò e le sue labbra sfiorarono l'occhio destro di Keiko.
Keiko emise un piccolo grido, ma questa volta non lo respinse.
Taichiro sentì tra le labbra le lunghe ciglia di Keiko, ma d'un tratto si staccò da lei come impaurito.
– Vanno bene gli occhi, ma non la bocca. È così? – disse.
– Oh, come sei cattivo. Non ho risposta per te. Parli in modo davvero cattivo, sai? – Con quella esclamazione, Keiko si alzò di colpo e diede a Taichiro uno spintone sul petto. La borsetta le cadde a terra. Taichiro, nel raccoglierla, osservò:
– È enorme.
– Sì. Ho dentro il costume da bagno.
– Il costume?
– Non mi hai promesso di portarmi al lago Biwa?
Taichiro non rispose.
– Non ci vedo bene con l'occhio destro. Mi si è appannata la vista.
Keiko si fece dare da Taichiro la borsetta, l'aprì, e tirandone fuori uno specchietto, si esaminò l'occhio destro.
– Non è rosso, – disse strofinandosi leggermente la palpebra destra con un dito. E accorgendosi dello sguardo fisso di Taichiro su di lei, arrossì improvvisamente e abbassò gli occhi pieni di pudore e di fascino femminile. Allungò poi una mano su un punto della camicia di Taichiro. C'era una macchia pallida del suo rossetto.
– Cosa facciamo? – disse Taichiro prendendo la mano di Keiko.
– Cosa facciamo? Non andrà via, sai.
– Se stavi parlando della macchia, non preoccuparti. Basta portare la giacca chiusa davanti. Ti chiedevo cosa vogliamo fare adesso.
Adesso? – domandò Keiko chinando il suo collo affascinante. – Non so. Non capisco più nulla.
– Puoi aspettare fino al pomeriggio per andare al lago Biwa, vero?
– Che ore sono?
– È un quarto alle dieci.
– Così presto ancora? Giudicando dalle foglie degli alberi, avrei detto che era quasi mezzogiorno Così dicendo, Keiko si guardò attorno. – Siamo molto vicini al monte Arashiyama, che è di solito affollato d'estate. Come mai qui non viene quasi nessuno?
– Arriveranno forse fino al tempio Nison'in, ma pochi vorranno arrampicarsi fin qui.
Quel discorso, normale almeno all'apparenza, acquietò l'animo di Taichiro. Col fazzoletto s'asciugò il sudore sul viso.
– Vuoi venire con me fino al «Padiglione della pioggia d'autunno»? Le tradizioni gli attribuiscono tre luoghi, ma non ho nessuna intenzione di far ricerche per determinare quale sia quello autentico. Non sono mai andato nemmeno a questo che si trova dietro Nison'in. Sono arrivato fino a questo cimitero un paio di volte, e ho intravisto un tabellone con delle spiegazioni.
Il tabellone si trovava alle falde della montagna, dietro le tombe.
– Dobbiamo salire ancora? – disse Keiko guardando in alto. – Va bene. Andrò se vuoi fino in cima. Se è difficile il cammino, posso andare scalza.
Nel sentiero che saliva tra i rami fitti, Taichiro si voltò al fruscio del kimono di Keiko contro le foglie e le dette la mano.
Poco dopo, giunsero a un piccolo bivio.
– Chi sa in quale direzione si deve andare. Mi pare a sinistra, – disse Taichiro. Ma la strada a sinistra passava su un ripido dirupo invece di andare lungo le falde della montagna. Taichiro esitò.
– È troppo pericoloso, – disse.
– Ho paura, – disse Keiko e afferrò con le mani la mano destra di Taichiro.
– Posso scivolare con questi zoccoli. Senti, perché non andiamo a destra?
A destra? Va bene. Tanto non sappiamo se il «Padiglione della pioggia d'autunno» si trovi a destra o a sinistra. Pare che il sentiero a destra ci porti verso la cima.
Il sentiero era mezzo nascosto tra i boschi. Taichiro procedeva facendosi trascinare dolcemente dal braccio di Keiko. Poco dopo, Keiko si fermò e disse:
– Mi fai camminare in un posto del genere col kimono?
Al di là dei cespugli che li nascondevano si stagliavano tre pini altissimi. Tra i pini si scorgevano i monti del nord, sotto ai quali si stendevano i sobborghi.
– Che parte di Kyoto sarà? – domandò Taichiro puntando il dito verso le montagne.
– Non so, – disse Keiko, e improvvisamente si lasciò andare addosso a Taichiro che, vacillando, si accovacciò in terra accompagnandosi al lento movimento di Keiko.
In braccio a Taichiro, Keiko s'aggiustò il kimono che si era aperto sul davanti nella caduta.
Quando Taichiro accostò le labbra agli occhi di Keiko, essa li chiuse. Non si scansò nemmeno quando Taichiro spostò le labbra dagli occhi alla bocca, pur tenendola ben chiusa.
Mentre esplorava con le labbra l'esilità del collo di lei, Taichiro stava per infilarle una mano nella scollatura del kimono.
– No, – Keiko disse con tono secco, e afferrò le mani di Taichiro. Con la mano di Keiko sopra la sua, Taichiro tastò col palmo il turgore del petto attraverso il kimono. D'un tratto Keiko staccò la mano di Taichiro spostandola dal seno destro a quello sinistro. E socchiudendo gli occhi, guardò Taichiro.
– Non voglio che tu tocchi il seno destro. Non va bene.
– Che hai detto? – Taichiro non aveva capito subito il significato delle parole di Keiko, e scostò appena la mano che premeva il seno sinistro.
– Questo di destra, – disse Keiko tuttora con gli occhi socchiusi, – mi rende triste.
Triste?
– Sì.
– Come mai?
– Chi lo sa. Probabilmente perché il cuore si trova a sinistra.
Keiko chiuse gli occhi, di nuovo arrossendo leggermente. Accostò il lato sinistro del suo corpo a Taichiro. Poi disse: – Può darsi che una donna quando è giovane, abbia sempre dei punti anomali nel suo corpo. In un senso è triste pensare che vado perdendo quei punti a mano a mano che cresco.
Naturalmente, Taichiro non poteva sapere che Keiko, a suo padre, nell'albergo di Enoshima, aveva rifiutato il capezzolo sinistro. Come poteva essere, lui, a conoscenza del fatto che ora, al contrario, Keiko lasciava solo al figlio il lato sinistro, e non quello destro? Taichiro acciuffò i capelli a Keiko quasi con violenza, e le diede un bacio. La fronte e il collo della ragazza improvvisamente si copersero di perle di sudore.
Scesero passando davanti alle tombe della famiglia Suminokura e visitarono il tempio Gioji. Di lì andarono a piedi fino a Arashiyama.
Pranzarono al ristorante Kiccho.
Quando ebbero finito di mangiare, venne una cameriera ad annunciare che la macchina era pronta.
Esterrefatto, Taichiro guardò in faccia Keiko. Poco prima, Keiko si era alzata e Taichiro aveva pensato che fosse andata in bagno. Era andata invece a pagare il conto e a noleggiare una macchina con l'autista.
Passavano davanti al castello di Nijō quando Keiko disse improvvisamente:
– Non credevo che riuscissimo a fare la gita così presto.
– La gita dove? – domandò Taichiro.
– Come sei distratto! – esclamò Keiko. – Dove se non al lago Biwa?
La macchina si dirigeva verso la torre alta del tempio Tōji, passando accanto alla stazione di Kyoto all'altezza di Shichijō. Evidentemente la macchina faceva la strada del sud per arrivare al lago. Costeggiò per un pezzo il fiume Kamo che si vedeva sotto la strada, ma il fiume in questa zona aveva un aspetto abbandonato di periferia. L'autista spiegò che la monta-
gna di fronte si chiamava monte Ushio, cioè «coda di bue». Varcarono le montagne al sud dei colli di Higashiyama, al lato sinistro del monte Ushio.
Subito dopo, videro il lago, che si stendeva a sinistra, sotto di loro.
– Ecco il lago Biwa! – disse Keiko. Taichiro si meravigliò che la sua voce fosse quasi ansimante nonostante la banalità delle parole. Keiko continuò:
– Finalmente ti ho portato qui. Finalmente!
Taichiro fu attratto dalla vista delle imbarcazioni di ogni tipo, barche a vela, motoscafi e battelli da turismo, che affollavano la superficie del lago.
La macchina scese nella parte vecchia della città di Ohtsu. Girò a sinistra dopo la piazzetta panoramica sopra il lago e, passando accanto al molo dei motoscafi da corsa, e percorso il viale di Ohtsu-Spiaggia, s'infilò infine nel viale alberato che conduce al Biwako Hotel. Numerose macchine si trovavano parcheggiate ai due lati del viale.
Keiko non disse all'autista la destinazione, né prima di salire in macchina né durante il tragitto. Taichiro rimase di stucco quando si accorse che la ragazza doveva avergli comunicato la destinazione già quando aveva telefonato dal ristorante.
Venne un servitore dell'albergo ad aprire la portiera della macchina, e a Taichiro non restò altro che entrare nell'edificio.
Senza guardare in faccia Taichiro, Keiko andò direttamente alla réception e annunciò senza esitazione:
– Abbiamo telefonato dal ristorante Kiccho di Arashiyama, per prenotare una camera a nome del signor Ōki…
– Sissignora, – disse il réceptionist. – Per una notte, se non mi sbaglio.
Keiko, senza pronunciare una parola, si tirò indietro. Taichiro capì che con questo, Keiko intendeva che fosse lui a firmare la scheda. Non ebbe nemmeno il tempo di riflettere se firmare o no con un nome falso; poi ricordò di non avere più scelta: Keiko aveva già annunciato il suo nome. Firmò quindi col suo nome vero e annotò anche il vero indirizzo di Kamakura del Nord, aggiungendo semplicemente il nome di Keiko sotto al suo. L'aver scritto il nome di Keiko accanto al nome suo, gli diede un leggero sollievo. Il giovane servitore dell'albergo li aspettava accanto all'ascensore con la chiave della camera. Non era necessario salire sull'ascensore; la loro camera era al primo piano.
– Mi piace… – disse Keiko entrando.
Era un appartamentino a due stanze. La camera da letto era in fondo, mentre il soggiorno dov'erano ora aveva le finestre ai due lati. Una di esse si apriva sul lago e dall'altra si vedevano le montagne, confinanti con la città di Kyoto. La ringhiera del balcone era dipinta di un rosso acceso, in armonia con lo stile neo-Momoyama dell'edificio. L'abbondante uso del legno sulle pareti e al telaio delle finestre dava un'aria accogliente alla stanza.
Le finestre aperte su tutta la superficie delle pareti erano splendidamente panoramiche.
Arrivò una cameriera col vassoio del tè.
Keiko andò alla finestra che dava sul lago, e afferrando con le due mani l'orlo della tenda bianca, rimase là senza voltarsi.
Taichiro, seduto sul divano, guardava la figura di Keiko controluce. Il suo obi era quello del giorno prima, col disegno dell'arcobaleno, benché portasse un kimono diverso.
Il lago si stendeva sulla sinistra: le vele delle barche erano issate tutte nella stessa direzione. Per la maggior parte le vele erano bianche, ma alcune erano rosse, blu o perfino viola. I motoscafi scorrazzavano in ogni direzione spruzzando acqua e disegnando vaste scie.
Il rombo dei motori delle piccole imbarcazioni, un vago vocio dalla piscina, il ronzio della falciatrice sul prato del giardino, erano tutti i rumori che venivano dalla finestra. All'interno della stanza ronzava il condizionatore d'aria.
– Vuoi una tazza di tè? – domandò Taichiro dopo aver aspettato Keiko per un momento, e prese la tazza.
Keiko scosse il capo e disse scrollando la tenda:
– Perché non mi dici nulla? Perché stai zitto? Sei crudele. Sei crudele.
Per un attimo, sembrò vacillare.
– Non ti sembra stupendo questo paesaggio? – aggiunse.
D'accordo. È stupendo. Ma mi piace ancor di più la tua figura, così a guardarti da dietro. La tua nuca, il tuo obi…
– Erano sul tuo ginocchio sulla collina di Nison'in. Te lo ricordi ancora?
– Come puoi chiamarlo un ricordo? È stato soltanto qualche ora fa.
– Ma devo averti offeso. Ti ho fatto restare di sasso. Ti ho scandalizzato. Lo so.
– Mi hai stupito, sì. Non lo nego, – disse Taichiro.
– Sono stupita io stessa di quello che faccio. Mi fa paura pensare di che cosa sia capace una donna quando fa qualcosa con tutto il suo cuore, – disse Keiko. – Ma anche tu hai paura di me e così te ne stai lontano da me.
Taichiro si alzò e raggiunse Keiko alla finestra. Le pose una mano sulla spalla. L'invito appena accennato di quella mano parve acquietare l'animo di Keiko; essa venne subito al divano e sedette accanto a Taichiro. Aveva lo sguardo chino e non lo guardava.
– Fammi bere, – sussurrò.
Taichiro prese la tazza e gliela avvicinò alle labbra.
– Dalla tua bocca, – disse lei.
Taichiro esitò un attimo, poi sorseggiò un poco di tè tiepido e lo fece colare lentamente nella bocca di Keiko. A occhi chiusi e viso proteso, Keiko succhiò il tè, restando completamente immobile col resto del corpo.
– Di più, – comandò senza muoversi. Taichiro prese un altro sorso e di nuovo glielo colò fra le labbra.
– Ah, com'è buono! – disse lei dopo un attimo, riaprendo gli occhi. – Potrei morire ora. Peccato che il tè non sia un veleno. Sono finita, ormai.
Sono finita. Anche tu sei finito, Taichiro. Anche tu… – Poi disse: – Voltati di là –. E girando per metà la spalla, premette il viso contro l'attaccatura del braccio di Taichiro. Con una dolcezza estrema gli cinse il corpo; ora gli cercava le mani. Taichiro prese una mano di Keiko e accarezzandone le dita dal mignolo al pollice le contemplò quasi con stupore.
– Oh, scusa. Non ci avevo pensato, – disse Keiko d'un tratto. – Vuoi fare il bagno? Vuoi che apra l'acqua?
– Non so, – disse Taichiro incerto.
O almeno vuoi fare una doccia?
– Puzzo di sudore?
– No. Mi piace il tuo odore. Non ho mai sentito un odore che mi piacesse tanto.
Taichiro non rispose.
– Sono sicura che ti piacerà sentirti rinfrescato –. Così dicendo, Keiko si alzò. Dall'altra estremità della camera da letto, arrivò lo scroscio dell'acqua che scorreva nella vasca da bagno.
Mentre Taichiro guardava il battello da turismo che arrivava al molo, Keiko, finito di preparare il bagno per lui, tornò nel soggiorno.
Taichiro si lavò insaponandosi con cura, dopo quella sudata in montagna a Saga.
Improvvisamente sentì bussare alla porta del bagno. Subito immaginò la figura di Keiko che cercava di entrare, e s'irrigidì.
– Taichiro, – disse la voce di Keiko. – C'è il telefono. È per te. Puoi venir fuori?
– Il telefono? Per me? È impossibile. Da dove? Dev'essere un errore.
– Ti vogliono al telefono, – continuò Keiko.
– È strano. Nessuno sa che io mi trovo qui.
Senza asciugarsi bene, Taichiro si coprì sommariamente con uno yukata e uscì dal bagno.
– Hai detto che mi chiamano al telefono? – Era incredulo.
Taichiro stava per andare al telefono tra i due letti, ma Keiko chiamò dall'altra stanza. – È qui.
Il ricevitore era staccato e posato sul tavolino accanto al televisore. Mentre Taichiro stava per portarlo all'orecchio, Keiko disse:
– Da casa tua, a Kamakura.
– Eh? – Taichiro impallidì. – Come mai?
C'è tua madre dall'altra parte. L'ho chiamata io, – Keiko proseguì con voce nervosa. – Le ho detto che siamo venuti io e te qui al Biwako Hotel. Le ho detto che hai promesso di sposarmi. Le ho chiesto il permesso.
Sentendosi soffocare, Taichiro fissava in viso Keiko.
Senza dubbio sua madre aveva sentito il discorso di Keiko. Per entrare in bagno, Taichiro aveva chiuso prima la porta della camera da letto, poi la porta del bagno, e in più lo scroscio dell'acqua gli aveva impedito di sentirla mentre telefonava. Keiko l'aveva mandato in bagno apposta?
– Taichiro. Taichiro. C'è Taichiro? – L'accorata voce materna lo chiamava nel ricevitore che egli aveva in pugno. Senza battere ciglio, Keiko ricambiò lo sguardo pungente di Taichiro; i suoi occhi brillarono stupendi e parvero trafiggerlo nel cuore.
– Taichiro? Non c'è Taichiro? – incalzò la voce di sua madre.
– Sono io, Taichiro, mamma, – disse finalmente Taichiro.
– Sei Taichiro? Parlo con te, Taichiro? – la madre ripeteva impacciata. Essa dominò la propria voce solo per pochi attimi, poi si mise a gridare: – Non devi farlo, Taichiro! Hai capito? Non devi!
Taichiro rimase in silenzio.
– Sai che tipo di ragazza è quella? Lo devi sapere, immagino.
Keiko lo raggiunse dalle spalle e gli circondò il petto con le braccia. E scostando con la guancia il ricevitore che Taichiro teneva in mano, gli chiuse l'orecchio con le labbra.
– Mamma, – chiamò Keiko, – mi domando se lei ha capito perché le ho telefonato.
– Taichiro, mi ascolti? Chi è al telefono? – disse la madre.
– Io, – disse Taichiro. Scostando le labbra di Keiko, premette il ricevitore all'orecchio.
– Che sfacciataggine sarebbe questa? Come ha fatto a parlare prima di te, mentre stavi lì accanto? È stata lei a farti telefonare? – la madre incalzava. – Taichiro, ti ordino di tornare subito a casa. Lascia l'albergo sul momento e ritorna a casa. Lei mi sta ascoltando, vero? Non importa. È meglio se mi sente. Taichiro, ti prego di lasciarla stare. È una persona pericolosa.
Lo sento. Sono certa di non sbagliarmi. Non fare che io soffra come una pazza. Mi farete morire, questa volta. E non lo dico semplicemente perché lei è allieva della Ueno.
Con le labbra di Keiko premute contro la nuca, Taichiro ascoltava. Keiko sussurrò dietro l'orecchio di Taichiro:
– Non ti avrei incontrato se non fossi stata allieva della signorina Ueno.
– Lo dico perché quella ragazza è velenosa. Sospetto che abbia tentato di sedurre anche tuo padre.
Un piccolo grido uscì dalle labbra di Taichiro; egli cercò di girare la testa per scrutare meglio Keiko, la quale però non staccava le labbra dalla sua nuca. Spostava il capo seguendo i movimenti di Taichiro. Sto insultando mia madre in modo imperdonabile, si disse Taichiro, telefonarle mentre mi lascio baciare da Keiko. Ma non poteva neppure interrompere la comunicazione.
– Ne parleremo bene a Kamakura, – disse infine.
– Va bene. Devi tornare subito. Spero che tu non ti sia compromesso con lei. Non dirmi che pensavi di passare la notte lì!
Taichiro non rispose.
– Taichiro, – chiamò di nuovo la madre. – Guardala bene negli occhi. Pesa bene le sue parole. È allieva di Otoko Ueno e vorrebbe sposarti. Cerca di capire cosa significhi tutto questo. Non ti pare un piano da strega? Forse non è una strega per gli altri, ma almeno per la nostra famiglia è una strega. Tua madre lo vede chiaramente. Non sto fantasticando. Avevo un brutto presentimento riguardo al tuo viaggio a Kyoto. Ne è stata lei la vera ragione e lo capisco ora. Anche il papà ha detto: «C'è qualcosa di poco convincente», ed è sbiancato in viso. Taichiro, se non torni subito, partiremo subito in aereo, io e il papà per Kyoto.
– Ho capito, – disse Taichiro.
– Capito che cosa? – ribatté la madre, e come per accertarsi disse: – Allora torni subito, vero? Torni davvero?
– Sì.
Keiko corse via nella camera in fondo chiudendosi la porta alle spalle.
Taichiro andò alla finestra e stette immobile a guardare il paesaggio del lago. Un aeroplano, probabilmente da turismo, si allontanava sfiorando la superficie dell'acqua. Alcuni dei motoscafi puntavano la prua in alto e scorrazzavano con frequenti sobbalzi. C'era anche chi faceva sci d'acqua. Per essere precisi, quasi tutte donne.
Arrivarono le voci dalla piscina. Tre donne giovani s'erano sdraiate sul prato all'inglese, sotto la finestra. Pareva che stessero lì sotto alle finestre, per dare sfoggio delle proprie membra audacemente scoperte.
– Taichiro, Taichiro –. Keiko lo chiamava dalla camera da letto. Taichiro andò ad aprire la porta e vide Keiko in un costume bianco. Esterrefatto, Taichiro cercò di guardare altrove. Il tessuto di lana bianca era quasi invisibile e la sua pelle appena abbronzata pareva emanare luce.
– Guarda com'è bello, – disse Keiko andando verso la finestra. La sua schiena era completamente nuda. – È bellissimo il cielo sopra la montagna.
Come fossero usciti appena dalla punta di un pennello, i raggi del sole disegnavano nel cielo sopra la montagna fasci di nitide strisce d'oro.
– È il monte Hiei, – disse Taichiro.
– Sì – rispose Keiko. – Ti ho chiamato perché quei raggi parevano incrociare il nostro destino. Come la telefonata di tua madre –. E voltandosi verso Taichiro, continuò: – Verrà qui tua madre, e anche tuo padre.
– Cosa?
– È vero. Sto dicendo la verità –. E Keiko si scagliò d'un tratto contro Taichiro abbracciandolo. – Vieni con me, ti prego. Voglio fare il bagno. Voglio bagnarmi nell'acqua fredda. Senti, me l'hai promesso. Mi hai promesso di andare anche su un motoscafo. Me l'hai promesso all'aeroporto di Itami, te lo ricordi? – Con queste parole, Keiko si appoggiò a Taichiro con tutto il peso del corpo. – Vuoi andare via lo stesso? Hai deciso di tornare a Kamakura perché ti ha telefonato tua madre? Ma la incrocerai per strada. Sono sicura che verranno in due. Tuo padre non vorrà venire, ma la tua mamma lo obbligherà a venire con lei.
– Keiko, – domandò Taichiro. – Hai sedotto mio padre?
– Sedotto? – Keiko scuoté la testa che teneva contro il petto di Taichiro.
– Ti ho mai sedotto, Taichiro? Ti ho mai sedotto?
– Non me, ma mio padre, ti sto chiedendo. Rispondi alla mia domanda –. Taichiro cingeva con le braccia la parte nuda del corpo di Keiko.
– Sei tu che non mi hai risposto. Dimmi se ti ho mai sedotto. Mi consideri soltanto una seduttrice e basta?
Taichiro non rispose.
– Quale uomo mai domanda a una ragazza tra le sue braccia se ha sedotto o no suo padre? – disse Keiko piangendo. – Cosa vuoi che io ti risponda, Taichiro? Voglio annegarmi nel lago.
Mentre afferrava le spalle tremanti di Keiko, la mano di Taichiro toccò le bretelline del costume e si mise a tirarle giù. Scoprì per metà un seno. Tirò giù anche l'altra. Inarcando il petto nudo, Keiko vacillò.
– Non il seno destro, – disse. – Lasciami stare il lato destro, – supplicò Keiko, mentre le sgorgavano lacrime dagli occhi chiusi.
Tutta avvolta in un asciugamano, Keiko uscì dal bagno. Taichiro l'accompagnò nel giardino passando per un angolo del lobby. C'era un fiore bianco simile alla malva su un albero alto davanti a loro. Taichiro si era tolto solo la giacca e la cravatta.
Quando furono scesi nel giardino che dava sul lago, trovarono due piscine, una nel mezzo del prato all'inglese dove schiamazzavano i bambini, l'altra su un piano rialzato ai confini del giardino.
– Non vuoi fare un bagno?
– No. Ti aspetterò –. Taichiro esitava, sentendosi alquanto impacciato nel trovarsi in compagnia di Keiko: il suo corpo attirava l'attenzione della gente. – Davvero. Faccio solo un tuffo. È la prima volta quest'anno, e voglio vedere se riesco ancora a nuotar bene.
Sul confine del prato dov'era la piscina, erano piantati a distanze regolari salici e ciliegi dai rami cadenti.
Taichiro sedette su una panchina all'ombra di un albero gigantesco, e guardò verso la piscina. Si chiedeva perché non trovasse la figura di Keiko tra la folla nell'acqua, allorché la vide salire sul trampolino per il tuffo. Non era molto alta; alle spalle di lei che si preparava al tuffo, si stendeva la superficie del lago, e oltre l'acqua le montagne in lontananza. La figura dritta di Keiko si stagliava nel paesaggio. Una foschia velava le montagne lontane. Il colore del lago prendeva ora un tono più intenso e l'acqua cominciava a riflettere una impercettibile luce rosea. Le vele delle barche parevano ora immerse nel colore della quiete serale, ormai prossima. Keiko si tuffò nell'acqua sollevando un alto spruzzo.
Uscita dall'acqua, Keiko noleggiò un motoscafo e invitò Taichiro a salire.
– Non vuoi aspettare fino a domani? Ormai è quasi sera, – disse Taichiro.
– Domani? Hai detto domani? – disse Keiko con un luccichio negli occhi. – Rimani con me fino a domani? Hai deciso? Fino a domani? Ma non so. Voglio soltanto che tu me lo prometta. Non andremo lontano dalla riva. Torneremo subito. Ho voglia di andare sull'acqua sola con te, anche per brevissimo tempo. Andiamo dritto contro le onde del destino; andiamo alla deriva tra le onde. Oggi E Keiko tirò Taichiro per mano.
– Non vedi quante barche ci sono ancora sull'acqua?
Fu circa tre ore dopo che Otoko Ueno, appresa alla radio la notizia di un incidente di motoscafo sul lago di Biwa, arrivò in macchina all'albergo. Trovò Keiko a letto.
Sapeva che Keiko era stata tratta in salvo da una barca a vela. Entrando nella stanza, Otoko domandò alla cameriera che stava accanto al letto:
– Non si è ripresa ancora? Dorme? Come sta?
– Dorme sotto l'effetto di un sedativo.
– Sedativo? Vuol dire che è salva?
– Il dottore ha detto che non c'è più nulla da temere. Pareva quasi morta quando la portarono a riva sulla barca a vela, ma si è ripresa subito quando le hanno fatto vomitare l'acqua e dopo la respirazione artificiale. Continuava a invocare il nome dell'amico e si agitava come impazzita.
– E cos'è successo dell'amico?
– Non l'hanno ancora trovato. Non vede che stanno cercando?
– Ancora no? – disse Otoko con la voce che le tremava. Dalla finestra si vedevano numerosi motoscafi che si spostavano da un punto all'altro diffondendo luci sull'acqua buia, a sinistra dell'albergo.
– Non sono soltanto i nostri scafi. Tutti i motoscafi dei dintorni sono sul lago. C'è anche la polizia. Vede che hanno acceso il fuoco sulla spiaggia? – spiegò la cameriera, – pur sapendo che non c'è più speranza per l'altro.
Otoko afferrò la tenda con le mani.
Quasi ignara dei movimenti ansiosi delle luci dei motoscafi sulla superficie del lago, qualche imbarcazione da turismo si accostava lentamente alla banchina con lanterne rosse illuminate. Si scorgevano i fuochi d'artificio sull'altra riva.
Otoko sentì che le tremavano le ginocchia, poi le spalle e perfino il petto. A un certo punto, le luci dei battelli da turismo oscillarono nei suoi occhi facendola vacillare. Puntò fermi i piedi sul pavimento per non cadere. La porta della stanza era spalancata. Vide il letto di Keiko e come non ricordasse che già vi era stata, e ne era venuta via di corsa, tornò frettolosamente al capezzale di Keiko.
Keiko dormiva tranquilla. Il respiro era calmo.
La tranquillità dell'atmosfera diede invece a Otoko un senso di incertezza.
– Possiamo lasciarla così? – domandò.
La cameriera annuì.
– Quando si sveglierà?
– Non saprei.
Otoko pose la mano sulla fronte di Keiko. La pelle fredda era impregnata di un'umidità che pareva quasi risucchiasse la mano di Otoko. Il volto era sbiancato ma un lieve rossore le era tornato sulla guance.
Sul cuscino erano sparsi i capelli arruffati, che dovevano averle asciugato brutalmente nel portarla fuori dall'acqua. Erano nerissimi quasi fossero ancora bagnati. Dalle labbra appena socchiuse si vedevano i denti splendidi. Le braccia erano distese sotto la coperta. E il volto innocente, quasi infantile di Keiko che dormiva tranquilla, commosse profondamente Otoko.
Quel volto sembrava dire addio a Otoko, alla vita.
Otoko stava per scuotere Keiko, perché si svegliasse, quando sentì qualcuno bussare alla porta della stanza accanto.
La cameriera andò a aprire. Entrò Ōki accompagnato dalla moglie. Quando il suo sguardo si scontrò con quello di Otoko, Ōki si fermò e rimase immobile.
– Ueno… La signorina Ueno, vero? – disse Fumiko. – È lei?
S'incontravano per la prima volta.
– È stata lei a uccidere Taichiro –. Tuttavia, la sua voce era quieta, come interamente priva di ogni sentimento.
Otoko volle muovere le labbra, ma non ne uscì parola. Si sorresse puntando una mano sul letto di Keiko. Vedendo Fumiko avvicinarsi, Otoko indietreggiò come per evitarla.
Scuotendo il corpo di Keiko con tutt'e due le mani, Fumiko gridò: – Svegliati. Svegliati –. I movimenti delle mani diventavano sempre più violenti, e ora la testa di Keiko dondolava paurosamente.
– Non vuoi svegliarti? – Fumiko ripeté: – Non vuoi svegliarti?
– L'hanno addormentata con una puntura… – disse Otoko. – Non si sveglia.
– Devo chiederle una cosa. È questione di vita o di morte per mio figlio –. E Fumiko seguitava a scuotere Keiko.
– La interrogheremo più tardi. Tutti stanno cercando Taichiro –. Così dicendo, Ōki lasciò la stanza e portò via la moglie, cingendole col braccio le spalle.
Ansimando, Otoko si accasciò sul letto di Keiko, e le fissava il volto. Dagli occhi chiusi di Keiko, sempre addormentata, caddero gocce di lacrime.
– Keiko! – chiamò Otoko.
Keiko aperse gli occhi. Alzò verso di lei lo sguardo luccicante di lacrime.