domenica 16 giugno 2019


   RITRATTINI
Estratto da "La solitudine del            satiro" 
Ennio Flaiano

I. Il romanziere aveva perso un po’ di vista i suoi personaggi. Se ben ricordava, nell’ultimo capitolo li aveva lasciati a letto, ora non sapeva come riprenderli. Continuare, descrivere il risveglio? Non indulgeva in scene erotiche? Pensò che, dopotutto, i suoi personaggi erano fatti così, si amavano e si odiavano, egli non poteva farci niente. Sono i personaggi che scelgono il loro romanziere, e sono i caratteri che fanno il racconto. Egli era un testimonio e doveva dire la verità, narrare. Coraggio, dunque. Andò al tavolo, mise un foglio bianco nella macchina da scrivere, rilesse le ultime righe del Capitolo x e cominciò:
« Capitolo xi - Al risveglio Roberto sentì la nausea salirgli alla gola come un vino cattivo, che aggiungesse il malessere all’ebrietà. Era stanco e per un attimo stentò a capire dove si trovava; poi, la stanza, la forma nuda distesa accanto a lui gli ridettero memoria della notte trascorsa. E ora le voci acute, cantilenanti, che venivano dal vicolo gli davano... gli davano... (che gli davano?) gli davano la certezza che niente era cambiato (bene, il sentimento della noia). Un raggio di sole (no, meglio: una lama di sole),una lama di sole entrando dalla finestra socchiusa (controllare se la sera prima l’avevano lasciata socchiusa), andò a colpire come in certi quadri d’altare dei manieristi (non è un po’ dannunziano?), andò a colpire il largo e morbido seno di Camilla che, così schiacciata e scomposta dal suo stesso sonno, sembrava (che sembrava? qui, un’immagine), sembrava gettata da un naufragio su una riva deserta. Ma quando anche lei si stiracchiò e disse con la sua voce rauca di bambina: “Che fai, vieni qui” egli provò un improvviso odio per quella carne su cui il sole stava mettendo per gioco un accento di desiderio. (Ma che volete da me?). Roberto si accostò alla donna, le schiacciò i capezzoli e al grido di lei rispose con un: “Zitta”, così cattivo che Camilla tacque spaventata, stringendo le pupille. (O le palpebre? Non mi ricordo mai come si chiamano) ».
A questo punto lo scrittore si fermò e prese a tamburellare il tavolo con le dita. E adesso? Un’altra giornata cominciava per i suoi personaggi. Poteva mandarli a spasso, farli litigare e poi rappacificare. Poteva descrivere il vicolo, oppure la lenta toletta di lei, che entra nuda nel bagno, o divagare sui sentimenti di lui, che la guarda. Contò le pagine scritte e provò un senso di conforto: duecento cartelle circa. Roberto... Camilla... che nomi da commedia. Se li avesse cambiati, subito? No, questo era un voler perdere tempo, un trastullarsi con le inezie. Doveva continuare, per non perdere lo slancio. Occorreva una piccola idea. Ecco: poteva rimettere a letto Roberto e Camilla (nomi provvisori), farli litigare e poi farli ruzzolare abbracciati sullo scendiletto. I vantaggi? Un’ossessionante variazione del tema. Gli svantaggi? Un senso di noia. Però, non si tramutava forse in un vantaggio, se riflesso su Roberto? Scrisse dunque: « Roberto si distese accanto a lei, sempre fissandola... », ma si fermò daccapo. Non aveva già fatto una scena simile in un altro suo romanzo? Bisognava controllare. Ora è proprio a furia di controllare che l’ispirazione, mortificata, devia, intoppa, si esaurisce.

II. Il cronista Mario Tavolino di Riccardo, di anni 35, nato e domiciliato a Roma, si svegliò alle ore 9.30 e subito chiese e ottenne una colazione composta di caffè, latte, burro e pane tostato. Quando ebbe guardato il cielo azzurro, disse tra sé: « Essendo oggi domenica, ci sarà l’esodo in massa della cittadinanza verso le spiagge e i colli limitrofi». Era contento. Indossò un completo di flanella grigia, camicia bianca, cravatta celeste, scarpe nere acquistate in un noto negozio del centro e uscì di casa. La sua portinaia, tale Mariangela Dadini, fu Antonio, di anni 49, nata a Terni, lo salutò e non notò in lui niente di anormale. Egli salì sulla sua macchina color grigio latte, regolarmente targata Roma, e si diresse verso via Veneto, che a quell’ora gli apparve animata dal consueto passeggio domenicale. Il cronista pensò che, data la ressa, un chicco di grano lasciato cadere dall’alto non sarebbe arrivato a terra. « Molto bene, » disse « mi mischierò alla folla primaverile che invade i marciapiedi e farò una breve ma salutare passeggiata guardando le vetrine e ammirando i prodotti esposti ». Incontrò invece un amico che non vedeva da molti anni. Era costui tale Francesco Trono, fu Arrigo, di anni 36, nato a Roma e residente nel Venezuela. Così, vennero a parlare dell’Italia, meravigliandosi entrambi della ripresa economica e del suo fervore di iniziative in tutti i campi, sia sociale che artistico. Di Roma, dissero che è una città unica al mondo per la sua storia millenaria e per le sue bellezze. Della donna italiana ammirarono l’eleganza. Passando poi a parlare delle difficoltà del traffico, furono d’accordo sulla necessità di invocare rimedi drastici dall’autorità competente. « Tutto il colloquio » pensava intanto il cronista « si sta svolgendo in un’atmosfera di viva cordialità e dura da circa venti minuti ».
Tornato a casa alle ore 13, il cronista consumò con evidente soddisfazione un pranzo all’italiana, composto di tagliatelle, vitello al forno, dolce, frutta, caffè. E, immersosi poi nella lettura dei giornali, ogni tanto guardava sua moglie, tale Diomiri Luisa, di Michele, di anni 33, nata a Treviso ma residente a Roma, nonché i due figlioli, Ada e Giulio, rispettivamente di sette e cinque anni. Vide così che la Diomiri aveva un aspetto ancora giovanile e che indossava un semplice tailleur di tweed marrone, con scarpe e forse anche con borsa e guanti dello stesso colore. Le guardò i capelli castani, tendenti al biondo, e gli occhi grigi, tendenti al verde, e smise di leggere. Sentiva uno strano malessere. « Forse, » pensò il cronista « la rapida ingestione del cibo mi sta provocando un epatema (?) che, se non curato tempestivamente, può riuscirmi fatale». E pensò ancora:
« Dovrei essere prontamente accompagnato al nosocomio dai miei familiari e lì sottoposto a energica lavanda gastrica dai sanitari di turno ». Ma non si trattava di un malessere fisico. Era qualcosa di diverso, forse un sentimento di delusione, comunque di amarezza.
« Che hai? » domandò la Diomiri Luisa a suo marito, osservandolo un po’ preoccupata.
« Niente » rispose il cronista. Ma ormai sapeva. Dagli assolati anni della giovinezza, un ricordo era venuto a turbarlo: «Dio mio, » pensò « eppure ero così bravo in italiano! ».

III. Il regista cinematografico, sdraiato sul divano del suo studio, guardava sua madre socchiudendo gli occhi. Tra sé pensava: «La faccia ci sarebbe, ma ho paura che non sappia parlare e muoversi. D’accordo che si tratta solo di due battute, potrei doppiarla, ma sarà naturale? ».
La madre, sentendosi osservata, sorrise. « Vuoi mangiare qualcosa? » disse.
Il regista si alzò, sempre guardando fissa la madre e disse: « Mammetta, ti dispiace sdraiarti un momento sul divano? ».
La buona signora lasciò il lavoro a maglia che stava facendo e sedette composta sul divano, cercando di capire.
« Mamma, » disse allora il regista « ti ho detto di sdraiarti. Se dico “sdraiarti” intendo dire “sdraiarti”, sii buona e non farmi ripetere le cose due volte ».
La madre si sdraiò sul divano e attese, mentre suo figlio la guardava pensando tra sé: « E abbastanza vera». Poi disse: «Ora, mammetta, socchiudi gli occhi e guarda verso di me, come se ti sentissi sul punto di... star male».
« Perché, figliolo, che vuoi fare? » chiese la madre apprensiva, risollevandosi a sedere.
«Giù» intimò il regista. E aggiunse: «Niente. Guardami solo come se stessi male. Al resto ci penso io. Parla, di’ quello che ti pare, ma parla piano, a fatica, capisci? ».
« Che debbo dire, non mi viene niente » disse la madre.
« Lo sguardo! » esclamò il regista già irritato. «Ti sembra che sia questo lo sguardo di una madre? Più animo». Accese una sigaretta e continuò: « Devi guardarmi con disperazione, ma contenuta, tu sai che non mi vedrai più. Forza, riproviamo. Vuoi un po’ di musica? Rachmaninov? Puccini? E va bene. Ti metto la Butterfly ».
Il regista mise un disco di quest’opera e le note di una romanza invasero lo studio. La madre si sentiva a disagio.
« E ora che debbo dire? » domandò senza staccare lo sguardo dal figlio.
« Parla, chiudi gli occhi, sospira e lascia cadere la mano lungo il fianco, sino a terra » disse il regista. Ma quando la madre ebbe eseguito il movimento e riaprì gli occhi, vide che suo figlio la fissava scontento.

[«Il Mondo», 21 maggio 1957]


Dopo una vita di lavoro che l’ha portato alla ricchezza, il professionista si diverte facendo il conoscitore d’arte e arreda la sua casa come un negozio, di mobili e oggetti rari. Un giorno invita a colazione un giovane antiquario, che ha fama di truccare i suoi pezzi e, nell’euforia di una supposta comunione di idee e d’interessi, scherza sui suoi sistemi, lo chiama «il nostro esperto». Lo scherzo, col volgere del pranzo, si fa insistente e la remissività dell’antiquario, che si limita ogni volta a sorridere, rende l’ospite più audace. Si arriva così al « nostro caro robivecchi » e l’antiquario, che aveva accettato l’invito nella speranza di futuri affari, perde la pazienza. Egli non capisce quanto amore l’ospite mette nel suo scherzo, quanto desiderio di far dimenticare la sua fortuna per la sua nuova cultura, e vuol vendicarsi. « Allora » dice alzandosi « diamo uno sguardo alla situazione». Osserva mobili, quadri, oggetti: e comincia. Il tavolo, che se fosse autentico varrebbe tre milioni, e che sarà stato pagato un milione (l’ospite annuisce), vale centomila lire. I due vasi non avrebbero praticamente prezzo, il guaio è che l’antiquario può fornirne altri due, quasi identici, arrivati di fresco dalla Cina, per una somma molto modesta, facendoci sopra il suo guadagno. Quell’Arcimboldi è stato dipinto a Napoli due anni fa e non è dei meglio riusciti. Grattando la tela ci si potrà trovare un trofeo di frutta o un falso Salvator Rosa o una testa di Garibaldi. Il lampadario veneziano è opera di un suo amico fornitore che abita in una via del rione Ponte. Se l’ospite ci fosse andato a nome dell’antiquario lo avrebbe pagato il suo giusto prezzo. Eccetera. Resterebbero ora le sedie. L’antiquario le osserva una per una e conclude: « Di queste otto l’unica originale è quella dov’ero seduto io. Le altre vengono da via Vittoria ». E conclude: « Me la venda. La sua presenza qui tra qualche giorno le riuscirà insopportabile. Come del resto, immagino, le è diventata la mia ».
Ciò detto, l’antiquario capisce il male che ha fatto e scoppia a ridere.
L’ospite si rasserena: « Lei ha scherzato » dice.
« Sì, ho tentato di scherzare, chiedo scusa, non lo farò più ».
Passano tutti in un salotto per il caffè. «E qui, » chiede l’ospite « che cosa trova di falso? ».
« Niente ».
« Lei sbaglia, guardi questo piccolo Degas. È una copia. So che è una copia ma la tengo perché mi piace ».
« Copia? » esclama l’antiquario ormai completamente pentito. « A me sembra autentico. Vendendoglielo come copia l’hanno ingannata». E dopo un po’, nel silenzio, aggiunge: «A meno che, grattando la tela, non venga fuori un Watteau».

Domenica, sono le prime ore del pomeriggio, il centro della città è vuoto, le strade ritornano libere, placate, il disegno dei palazzi riappare. Rivedo angoli, tagli di case, cariatidi, portoni che durante la settimana il traffico aveva sommerso con la sua furia. Come dopo un canagliesco banchetto, restano i cartelli indicatori, il disordine dei fili, a matasse, che tagliano il cielo, i segni di biacca sul selciato, una fuliggine grigia che sporca i basamenti e rileva e incupisce le modanature. C’è il disordine di una casa dopo il passaggio dei ladri. La nostra città è stata fatta per andarci a spasso e oggi dà la tristezza di un suo forzato adattamento ai tempi, un camuffamento penoso che denuncia la sua vecchiaia, non di anni, ma di abbandono. Però, almeno respira.

La madre dell’attrice è una categoria ormai assodata anzi una figura retorica, un donnone di solito grosso e autoritario, spietato difensore dei diritti della figlia, angelo custode della sua virtù, eccetera. Vien fatto di pensare che la verità sia diversa, invece è proprio così. E non metterebbe conto di parlarne se in questo paese le attrici non nascessero come i funghi e non avessero tutte una madre. Mi racconta L. che una di queste madri, vantando la purezza e l’innocenza di sua figlia, che non perde un’occasione per farsi fotografare di sopra e di sotto, gli ha confidato: « Mia figlia arriverà al matrimonio intatta, come ci sono arrivata io, che quando mi sono sposata, mi creda, non sapevo nemmeno com’era fatto il... ». E poi: « Mia figlia piace molto. Bello sforzo, ha sentito com’è soda? Non ci sono trucchi, tutto vero. Bene, il marchese Tale, ricchissimo, le aveva messo gli occhi sopra. Ma io che sono di famiglia nobile e non mi faccio incantare dalla nobiltà di nessuno, toh, che gliel’ho fatta toccare ».

Allo scopo di sfruttare convenientemente le bellezze naturali e artistiche del nostro Paese, lui e lei si incontrarono per la prima volta a Venezia. Lasciandosi sullo sfondo della laguna, giurarono di rivedersi e infatti li ritrovammo a Portofino, ad Assisi e a Roma, sulla via Appia Antica. Un equivoco, com’è noto, li divise. Si rinfacciarono i loro torti a Pisa, sul Campo dei miracoli. A Cortina d’Ampezzo non fecero la pace. E nemmeno a Taormina. Trascorse un anno. E mentre egli raggiungeva Capri, ella preferì la costiera amalfitana. A Napoli si evitarono. Riuniti dal caso a Firenze e tuttora innamorati, si recarono a Siena, onde assistere alle feste del Palio. Le ultime scene, per mancanza di fondi, furono girate in casa.

Le somme destinate ai premi artistici e letterari, leggermente superiori alle somme stanziate per combattere l’analfabetismo. Ecco un punto che dovrebbe far riflettere gli analfabeti.

I problemi del Sud. La madre alla finestra, che vede suo figlio discutere in istrada con un povero diavolo: « Antonio, non ti compromettere, ricordati che sei laureato! ».

Ritorno a casa dopo aver visto un film del selvaggio west il cui finale è una partita a pugni. Colpi esatti che sfonderebbero un muro. Ammirata dal pubblico la tecnica del pugilato, la correttezza dei litiganti, per cui lo scontro diventa un duello con regole d’onore, e senza astio alla fine, risolto anzi con una stretta di mano. È lo sport, il piacere di battersi lealmente, passato dalla vita di tutti i giorni nei film americani, dove la scazzottata tra eroi ha l’effetto rinfrescante di un acquazzone dopo una giornata afosa.
Sulla via Nomentana deserta dobbiamo fermarci per due macchine che ingombrano la strada. Una ha urtato l’altra e un paraurti s’è ammaccato. Accesa discussione dei due automobilisti. Dita puntate sotto i nasi e agitate, parole grosse, la lite diventa inevitabile. Così, i due automobilisti cominciano a spingersi. Spinte maldestre, che accompagnano con un: « Aoh! » in cui la sorpresa di ricevere il colpo si mischia alla testardaggine di volerlo restituire. Nessuno dei due vuol essere il primo a smettere e bisogna passare al corpo a corpo. Subito il più debole si afferra ai capelli del rivale, come a una corda di salvataggio gettatagli nel crepaccio. Tira con tutte le sue forze. « E lasciame li capelli» urla l’offeso; ma l’altro, spaventato della sua stessa audacia e del sopravvento che ha preso e che dispera di poter mantenere, si abbarbica sempre più alla testa odiata, incurante dei colpi che riceve. « E lasciame li capelli, brutto vijacco », ma sono parole al vento. La moglie del prigioniero va a battere coi suoi pugni chiusi sulle spalle del tenace e scorretto lottatore. « Lasci subito i capelli, mascalzone » urla, dandogli però del « lei ». Dopo un minuto i contendenti si lasciano, tutti e due pallidi di paura e ansanti, accomodandosi cravatta, giacca, pantaloni e pettinatura. Di colpo l’offeso, in un nuovo impeto di rabbia, si lancia sull’altro e tenta di allungargli un calcio al ventre. Non ci riesce. Il piede è afferrato a volo, segue una breve danza. « E lasciame la gamba, che t’ammazzo». Saltellando fino al marciapiede, cascano infine in un’aiuola, uno sbatte la testa contro un albero, l’altro ha preso un paletto nella schiena. Si insultano e si picchiano come possono, restando sdraiati. « Oh Dio mio, divideteli! » grida la donna, drammatica e piangente. Qualcuno si muove, e comincia la parte legale della lite: le responsabilità vengono discusse e ritorte, si chiede un esperto, testimoni, guardie. Ogni tanto la lite, a una parola più grossa, sembra riaccendersi, ma il piacere di discutere e di rimproverarsi, di stabilire come sono andate le cose è certo più forte. Ora tutta la strada è ingombra di macchine ferme e di gente che arriva di corsa « per vedere il morto ».
Torniamo a casa molto contenti: il duello è stato divertente e in più c’è parso che la fantasia abbia trionfato della tecnica. E che, insomma, anche per noi c’è speranza.

Confidenze di B.: « Se c’è qualcosa che mi trattiene dal morire è lo spettacolo dei funerali che trotterellano nel traffico, intralciandolo, correndo agli incroci, prendendo infine al galoppo l’ultimo tratto libero, parallelamente a un tram sul quale i passeggeri non sanno se alzarsi, star seduti, segnarsi o continuare a leggere il giornale ».

[«Il Mondo», 18 giugno 1957]


Carlo Laurenzi non è a Roma da poco, come si potrebbe pensare dal titolo del suo libro: Due anni a Romapubblicato in questi giorni da Neri Pozza, nella sua Biblioteca di Cultura. Credo che ci sia dal ’38, dapprima buon allievo di P.P. Trompeo, passato con la guerra dall’Università al servizio militare e, con la pace, al giornalismo; e quindi già da allora osservatore del costume di una città che lo indignava nella stessa misura che lo interessava. Perché ora Laurenzi abbia scelto per le stampe due anni del suo diario romano, e non quattro, o sei, è spiegato nella prefazione al libro: il ’54 e il ’55 furono gli « anni facili », anzi « anni poveri di travaglio, quindi davvero poveri». In quel « pingue e opaco biennio » la paura e la guerra « sembrarono d’improvviso ragionevolmente lontane » e « categorie umane quali quelle del cineasta, o del prete salottiero, o dell’intellettuale comunisteggiante, parvero non solo votate al successo, ma esemplari ed eterne». Vuol forse intendere Laurenzi che col ’56 le cose sono completamente cambiate? Che le bende sono cadute dagli occhi e gli anni si sono fatti più ricchi? Non lo crediamo; anzi il suo diario fa pensare a un calendario perpetuo tanto è evidente che i tipi descritti e gli avvenimenti possono riprodursi e ripetersi all’infinito. Così da questo suo biennio escono parallelamente due ritratti: uno della città, l’altro dell’autore del libro e non sappiamo quale dei due sia più interessante. Roma è quella che è: una città unica dove, secondo Mommsen, « non si resta senza un’idea universale», ma dove tutti vivono perfezionando il loro «particolare», presi dalla curiosa euforia di una vita che non ha principio né fine, una vita allo scoperto, piena di equivoci e di facili diversivi. L’autore è forse l’uomo meno adatto a vivere in questa città e ad amarla, ma non il più inadatto a capirne certi aspetti falsi, sacrileghi, offensivi, pagani e sguaiati; e a soffrirne nei limiti di una vocazione letteraria.
Laurenzi in questo ci ricorda quell’Adriano Florensz poi Adriano VI, vissuto sempre lontano da Roma nella pura adorazione della città dei martiri e che, capitato in Vaticano, tra quegli umanisti che l’avevano eletto papa per governare meglio i loro affari, si offese alla vista delle statue greche e romane di cui erano pieni i palazzi apostolici e sdegnato ne pretendeva la distruzione. « Sunt idola antiquorum » diceva. Nessuno gli dette retta e gli idoli anzi aumentarono. Adriano ne dovette sopportare la vista per due anni, dopo di che morì, probabilmente di crepacuore, e senza lasciarci nemmeno un diario di quel biennio. Ora Laurenzi, nutrito di studi solidi, alfiere di una sua intransigenza morale e politica, resa più acuta dall’inganno del fascismo e poi, nel dopoguerra, dal gonfiarsi di una Roma papale e trafficona, capita in questo carnevale e riconosce i Saturnali, riconosce la società di Marziale e di Giovenale, che ha soltanto cambiato padroni ma resta ottusa, inutilizzabile, di una frivolezza scoperta, anche se non priva di una sua sgangherata vivacità e grandezza. Senza una buona penna, senza il conforto di poterla descrivere, Laurenzi sarebbe ora un « azionista » amareggiato con poche speranze di sopravvivere. Dappertutto lo stesso spettacolo: plebe, borghesia, preti, baroni, clienti, che in niente ricordano i Romani se non nella loro strafottenza, nella pratica dei loro piaceri, nella sicurezza di un’assoluzione, già ottenuta in anticipo. Invece Laurenzi comincia a scrivere e da dieci anni le sue note settimanali vanno ad aumentare uno schedario, una specie di anagrafe di caratteri o catasto degli avvenimenti incredibili.
Possiamo fare un solo appunto: che Laurenzi vede in chiave protestante una città che va vista in chiave cattolica. È il limite e il fascino del suo diario. Ma la brutalità descrittiva è sempre la stessa del primo giorno, una forza che arriva ad una controllata indignazione. Col tempo, vi ha guadagnato un che di rassegnata ironia, che non è ancora tolleranza e che non sarà mai cinismo, ma che già addolcisce la sua pagina e svela le qualità dello scrittore, principalmente uno stile asciutto, una grazia da « pince-sans-rire», che, in chi conosce Laurenzi, rima col suo parlare quasi esitante, da osservatore che riferisce fedelmente i fatti e dà il suo giudizio con i silenzi staccati delle pause. Citiamo (p. 139): « Vale la pena di meditare su ciò che il marchese U. riferiva l’altra sera in privato. Raccontava d’essersi imbattuto, lungo un sentiero della sua fattoria, in due carabinieri in perlustrazione. Pioveva: cortesissimo, il marchese li riparò col suo ombrello e li corroborò col suo vino. Rievocando l’episodio, un dubbio lo coglieva: “Non vorrei proprio che il più giovane abbia interpretato un mio gesto come un’avance”. “Di che gesto si tratta?” ha chiesto qualcuno, e il marchese: “Nulla, salutandolo, l’ho baciato sulla bocca”». È un piccolo epigramma ma che ci aiuta a capire il narratore, per l'umorismo trattenuto (quei due carabinieri sotto l’ombrello) e per la battuta finale, che scopre tutti i bersagli in una volta.
Ora, nelle duecento pagine del libro gli incontri felici, i caratteri, le osservazioni acute nella loro apparente sbadataggine, sono molto frequenti. E più che nella descrizione di certi ambienti, circoli, tabarins, salotti, dove la penna stenta a sopraffare la naturale forza di certi reportages fotografici, Laurenzi mi piace nella minuta osservazione di quei tipi che, come comparse di un melodramma, passeggiano sul fondo della scena o vengono avanti per dire una frase. Ecco le spose in viaggio di nozze che « portano il cappello, qualunque cosa accada, in qualunque ora del giorno, qualunque toilette vestano»; ecco l’attore italiano a Parigi che cambia la camicia tre volte al giorno, ecco il figlio di papà fiero della sua amicizia con un gangster, ecco la perfetta incisione del gentiluomo toscano (p. 181); o quella del poeta meridionale, che parla sempre della sua terra e rimprovera l’uomo di città: « Che puoi capire tu di quello che significa per noi, nella nostra civiltà contadina, le fattucchiere o, per esempio, i cinghiali? Vive da noi tutto un mondo arcano, che necessariamente sfugge ai topi di città, agli snob, ai liberali. I miei confini esistono da quando esiste il tempo, la morte, la malaria, il cielo...». Oppure questa breve lettera da Lavinio, del giugno 1955: «Gli edifici si moltiplicano, bassi e meschini; il Corpus Domini è stato solennizzato, in tutta la zona, con una serie di feste da ballo... Sono sorte centinaia di osterie... la privacy non regge un’ora. Nei discorsi si ostenta spregiudicatezza: sembra che una signora nottetempo abbia fatto il bagno nuda. È in costruzione un buon numero di chiese, dallo stile intonato all’ambiente». Cambiate la data, potrebbe firmarla Plinio il Giovane, che da quelle parti aveva una villa, se avesse assistito anche lui agli eccessi della decadenza.
Niente dunque è mutato: e quest’immobilità, questa perseveranza nell’impudicizia morale, nella meschinità dei suoi personaggi provoca in Laurenzi reazioni sempre precise, che l’abitudine non ottunde ma raffina. E siccome egli non teme che possano venirgli a mancare i modelli e le occasioni, anzi questa infernale perpetuità del quadro è alla fine scoraggiante, così Laurenzi vuol limitare la sua indagine ad una parte della società, la « più facile e opaca », come il naturalista che nell’immensità zoologica di un nuovo continente decide, per non impazzire, di studiare soltanto una specie di coleotteri. Le grandi figure mancano quasi del tutto nel suo diario, egli cattura di preferenza le più facilmente conservabili: dive del cinema, contesse da salotto, cineasti, aristocratici con cane, poeti, preti, simpatizzanti di sinistra, figli di industriali, americani in visita, fascisti, studenti. Facile raccolta? Non direi, perché queste figurine esprimono bene il loro ambiente e lasciano intravedere le grandi figure, forse fatte della stessa pasta e soltanto di più fortunata carriera.
Quel che di Laurenzi si accetta è infine la risolutezza dello stile e quel che convince è il fondo morale, scientifico della sua ricerca che altrimenti parrebbe un crudele divertimento.
Nel suo imbronciato catalogo ecco apparire di tanto in tanto fatti e persone trattati con affetto, un viale Tiburtino visto di sera, pieno di ragazzi, il funerale di un amico, il bambino della borgata Gordiani, un’altra bambina che scrive versi e muore, un ricordo del disegnatore Rubino: e sono questi i personaggi che avremmo voluto più numerosi, quelli che - come appunto dice Laurenzi — « debbono essere pudicamente amati», se non altro perché completano il ritratto dell’autore, che in questo giuoco di riflessi ci mostra l’altra faccia del moralista.

[«Il Mondo», 25 giugno 1957]


Girando attorno a Roma si capisce meglio la lingua di questo popolo e la nessuna cura che mette nel piacere agli altri. Il paesaggio sembra duro, grezzo, troppo forte per essere amato e la toponomastica sorprende per la sua crudeltà. Eppure col tempo il paesaggio scopre nella sua apparente indolenza una severa bellezza, la stessa dei ruderi, degli alberi, delle rocce, dei fossi e del continuo ondulamento del terreno che rende profonde le distanze, improvvisi i colli, sospetti i campi, deserti i poggi, inaccostabili i casali. Si pensa che i nomi messi a certi luoghi siano già una difesa, un modo di allontanare il viaggiatore, il non iniziato. Si tratta quasi sempre di nomi rudi, peggiorativi ironici, nati più che dal suolo stesso e dagli avvenimenti, dalla ribalda ispirazione degli abitanti, che scherzano sulla loro pelle. Si può restarne sorpresi e urtati, ma non si proverà mai il fastidio della leziosità, del compiacimento locale. Alla fine questi nomi piacciono. E quando, tornando verso la città, si leggono i primi nomi messi a strade e a piazze dai burocrati del comune, la lezione è completa. Qui soltanto piattezza commemorativa, là una vita di migliaia d’anni, passata attraverso la fantasia plebea, con risultati atroci, ma sempre vivi e affascinanti.
Sulla strada Ostiense c’è un Fosso di Malafede, una Via di Malafede e un Cancello di Malafede. C’è anche un Ponte di Ladrone. A due passi, un Infernetto I e un Infernetto II. Un Infernaccio è sulla strada della Magliana. Sulla strada di Castel Fusano c’è un Casale Contumacia. Sulla Laurentina, una Chiesaccia. Nei pressi di Bracciano c’è un Uomo Morto, un Casalaccio, un Castellaccio, una Ferraccia, una Casaccia. Le osterie, quando non sono del Malpasso, o della Puttanella, o del Pisciacavallo, sono Osteriaccie. Sull’Ardeatina c’è un Casale Abbruciato; sull’Aurelia, una Bottaccia, un Quarto di Vipera, una Casetta delle Pulci e una Masseria delle Pulcette. Un Casale della Pidocchiosa è sulla via Labicana. Una Sorgente del Fellone è alle falde dell’Artemisio. Sulla Braccianese c’è un Monte Mariolo. Verso Maccarese, un Castello Malnome, un Casale Malnome e un Ponte Malnome. Malborghetto è sulla Flaminia. Malvicino presso Boccea. Malagrotta sull’Aurelia. Verso Tivoli c’è un Canale Coccia di Morto e una Chiavichetta. Sulla strada di Poli, un Fosso dell’Acqua Puzza e un
Fosso dell’Ammazzato. Di Femmine Morte ce ne sono tre. Altre tre località si chiamano Pisciarello, una Smerdarolo. Le torri sono dappertutto Spaccate, Rotte, Violate, Abbruciate, o Torraccie. Nessun nome grazioso, nessuna bellavista o belvedere, nessun prato fiorito o valle fiorita o ombrosa, nessuna concessione al forestiero o al viandante. Tutto parla di misfatti, di fughe, di cattivi incontri, di calamità, di vendetta. È invece il sacro Lazio, una campagna dove sarà ancora possibile, per qualche anno, conoscere la bellezza e la solitudine; e che i suoi nomi forse vogliono soltanto difendere dall’impertinente turista.

La brunetta ha un piacevole accento siciliano, caldo e nasale. Ha una collana di grappoli di vetro verde e altri grappoli dello stesso vetro alle orecchie. La sua compagna è bionda, collanine d’oro, accento romano, stanco e grave. Sono tutte e due piccole, ben fatte, certamente allieve di una scuola di danze, e forse già attricette del cinema. Dopo aver provato assieme il movimento delle braccia nella « morte del cigno», scoppiano a ridere. Sono graziose e la loro giovinezza ravviva lo scompartimento di un’allegria che dapprincipio diverte, poi infastidisce, infine sorprende, dettata com’è da una sincerità disarmante. Gli uomini che le accompagnano sono due americani del Nord. Alla partenza da Venezia le due ragazze esclamano assieme (anzi la loro forza è in questa contemporaneità, che sembrerebbe concordata, di azione): «Addio Venezia». Poi la brunetta osserva: « Venezia senza sole perché ce ne andiamo noi». La bionda aggiunge: «Venezia piange, noi ridiamo ».
Cominciano a cantare il tema musicale del film Tempo d’estate, di argomento veneziano, e così si arriva a Mestre. Quando passa il cameriere del buffet dicono assieme: « Io panini e prosciutto». Mangiano i panini parlando di teatro. La bionda vorrebbe « fare » la Figlia dei Sei personaggi in cerca d’autore. « Sì, » dice « è un personaggio decadente ». La brunetta dice: « Io preferisco la commedia leggera». Ci pensa un attimo, la fronte aggrottata e aggiunge: « Anche la rivista, però ».
Segue una lezione di italiano ai due americani. Toccano vari oggetti e ne dicono il nome. Poi passano ai numeri. Esse dicono insieme i numeri, cantilenando, e i due americani ripetono: «... Quattordici, quindici, sedici, diciassette ».
« Dicissetti » dicono gli americani.
« No, diciassette ».
« Diciessetti ».
Le due ragazze ridono quasi da restare soffocate. La lezione s’insabbia. C’è un silenzio e di colpo la brunetta canta: Marcellino, pane e vino. Quando ha finito, la biondina, tenendo lo stesso tono, canta: Chella là. Poi riprendono la lezione, stavolta d’inglese, che le due ragazze vogliono «perfezionare». Si impegnano a far domande in inglese. La brunetta pensa a lungo, chiedendo soccorso al paesaggio, a noi, al soffitto e infine domanda: « Du iu laiche bagni di mare? ». L’americano a cui la domanda è rivolta, e che si chiama Richard, aggrotta le sopracciglia, non capisce; e i tentativi di spiegazione delle due ragazze riescono soltanto a renderlo più cupo, finché addolorato scuote la testa. Le due ragazze mimano allora i « bagni di mare » : ecco l’acqua, ecco il nuoto, ecco il tuffo, ecco la sabbia, nell’atto di farla scorrere tra le dita: « Sand! Sand! ». Niente. Si passa all’anatomia, ritornando all’italiano. Orecchio. Uricchia. No, orecchio. Oricchio. Può andare. E petto? Come si dice petto? Lo indicano. « Bosom » dice Richard tossicchiando subito dopo.
« Io, » dice la brunetta « io ho novantaquattro di petto». Si volge alla sua compagna: «E tu?.». « Novantotto », dice la bionda con un sorriso modesto.
« Esagerata » grida l’amica, chiamando tutti a testimoni.
« Se hai un metro, ti faccio vedere », risponde fredda l’altra. Ma viene servito il pranzo. Davanti al piatto dei formaggi, Richard vuol rifarsi e indicando dice: «Formaccio». Le ragazze gridano: « Bravo », poi la brunetta, indecisa, confessa: « Che prendo? Io non mi ricordo mai il nome dei formaggi».
Dopo il caffè, canta. Que sera, sera. E con improvvisa civetteria, fissando il suo americano: «Perché Richard sempre zitto?». E insiste: « Zitto. Silenzioso. Non parla mai. Non speak. È innamorato di me? ».
« Yes », dice l’americano e ridono assieme. Poi le ragazze cominciano a darsi la cipria, battendosi i piumini sul viso e cantando. Ormai tutto lo scompartimento tace, soggiogato, in attesa. Infine la brunetta si volge alla compagna. « Ho finito il rossetto, prestami il tuo, grazie». Ma quando fa per metterselo ci ripensa: « No, » dice « è troppo scuro. Mi involgarisce ». All’arrivo a Roma, esclamano assieme: « Ecco, Roma col sole perché siamo arrivate noi».
E forse era vero.

Il calabrone entra nella stanza illuminata, va a battere velocemente contro la lampada, le pareti, i mobili. Rumore secco delle sue zuccate. Dopo un po’ si acquatta per riprendere forze. Ricomincia contro la lampada, le pareti, i vetri e daccapo la lampada. Infine cade sul tavolo, zampe all’aria, la mattina dopo è secco, leggero, morto. Non ha capito niente, ma non si può dire che non abbia tentato.

Nella pagina dei piccoli, una storia a fumetti: due americani, sbarcati in un remoto pianeta, dove vive un’umanità dal viso equino, si adoperano per diffondere il sentimento della libertà e della democrazia. Infatti, i musi equini sono stati ridotti in schiavitù da un particolare popolo, dal muso ancora più equino, che domina quel pianeta. Riusciranno i due eroi nella loro impresa? Non lo sapremo mai. Il cinema e la narrativa di fantascienza sono prodotti americani nati non dal desiderio collettivo di evasione dalla Terra, ma dal bisogno di una nuova mitologia, suggerita da un romantico terrore del comunismo e forse più ancora dalla assoluta ignoranza del comunismo. Sempre nei film e nei racconti di questo genere, tutti allegorici e morali, si assiste alla lotta dei semidei (forze dell’ordine) contro un nemico di cui non si conosce la forza e la natura (Minotauro), entrambe misteriose, raccapriccianti, quasi indistruttibili. Ragni, formiconi, «cose», mostri, che è perfino inutile odiare, poiché è doveroso distruggerli, vista perduta ogni speranza di redimerli.

[« Il Mondo », 9 luglio 1957]


Montaigne giovinetto era svegliato, ogni mattina, per ordine del padre, da alcuni musici che suonavano un concerto. Si voleva evitargli un brusco trapasso dal sogno alla realtà. Noi siamo svegliati dal silenzio, che non promette niente di buono, perché è un silenzio che ci sembra far parte del sogno, mentre è una breve pausa della realtà. Per evitarci un brusco trapasso i nostri musici dovrebbero bastonarci.

Una delle ragioni che ci impediscono di avere un grande teatro è che la vita pubblica, illustrata dalla stampa, è già un sufficiente palcoscenico dove le commedie si sviluppano e si intrecciano, ognuna portando avanti i suoi personaggi. Ne segue un’insofferente generale stanchezza, perché nella cronaca c’è una pervicacia, una mancanza di pudore, un gergo e una facilità di soluzioni che è appunto il contrario di ciò che si propone ogni arte teatrale. Si aggiunga che la cronaca, nella sua imparzialità, esalta i bricconi e umilia gli onesti, necessariamente. Puttane, avventurieri e geni mancati salgono l’Olimpo, servono da modelli per gli scontenti, che sono la maggioranza. Si finisce per doverli imitare. Chi proprio non ci riesce, tace, soddisfatto di sé; ma resta col sospetto di essere inadatto per questo mondo e - coi tempi che corrono - anche per l’altro mondo.

Il successo alla moda si ottiene con la pubblicità e si paga con la prostituzione alla folla. Invertendo l’ordine dei fattori il successo non cambia, diventa forse più duraturo. Il successo ottenuto col merito e pagato con l’indifferenza annoia il grosso pubblico.

Grande villa al mare, costruita come una pasticceria, tutta a vetrine. L’interno appare illuminato nella notte, una casa per bambole, con i proprietari e gli invitati messi lì a dimostrarne il perfetto e grazioso funzionamento. Non è una casa, ma un progetto forse avventato. C’è gente nel salone. Conversano. Di che? Dei vizi di moda che non osano ancora assumere benché tutto, la noia e la ricchezza, ve li autorizzi? No, imitano i giochi della televisione. Di continuo scoppiano applausi e proteste, e ogni volta i cani nel giardino abbaiano. Poi si levano altissime le note di una canzone, una delle solite che si sentono nelle macchine a gettoni. Il cantante piange e si lamenta in americano. « Stronzi! » grida infine qualcuno nella notte. Sulla terrazza si affaccia un’ombra. « Sarai stronzo te» urla al buio. Una rapida pernacchia è la risposta. Ecco l’atmosfera già guastala. Non saremo mai dei bravi, autentici, normali americani.
Fregene. Tommaso si sveglia e guarda il cielo coperto. Tira un vento caldissimo e carico di sabbia. Sfoglia i giornali, che parlano del Ferragosto, e nella pagina della cronaca legge la notizia che Fregene è in fiamme. Subito Tommaso si arrampica sul tetto ma, fin dove arriva con lo sguardo, non vede pennacchi di fumo. La solita pineta, il solito mare, oggi più burrascoso e deserto. Torna giù e riprende i giornali. Non si è ingannato. Il primo dice: «La famosa pineta di Fregene in fiamme ». (E in questo caso - pensa Tommaso - io sono già bruciato). Il secondo, più catastale, precisa: «Decine di ettari di pineta divorati dal fuoco». Quante decine di ettari? - pensa Tommaso. Mettiamo cinque, sei: insomma, mezzo chilometro quadrato. È sempre un bell’incendio. Decide di andarci. Potrà anche rendersi utile, forse salvare masserizie, o addirittura persone. E se l’incendio fosse già spento? Lo spera, per i colpiti, che hanno dovuto abbandonare le loro case, ma egli deve credere ai giornali freschi d’inchiostro. Strada facendo, ne compra un altro. Questo dice: «Mille metri di pineta in fiamme ». Mille metri? - pensa Tommaso - Che significa? Un chilometro, o mille metri quadrati? Se si tratta di un chilometro, il fuoco ha tutto distrutto, meglio fuggire. Se invece sono mille metri quadrati... suvvia in questo caso avrebbero dato la notizia in tre righe. No, si tratta di un chilometro e probabilmente quadrato, atroce conferma ai grossi titoli dei due primi giornali. Non gli resta che mettersi a correre, per arrivare prima.
Strada facendo incontra Edoardo, e quando lo informa che va a vedere l’incendio: « Ah, » dice Edoardo « è stato ieri, vicino a casa mia ». Il suo tono è talmente calmo che Tommaso insiste. « Sciocchezze, » afferma Edoardo « si tratta di un centinaio di metri di boscaglia, lungo la strada ». Tommaso gli punta un dito sul petto: « Un momento. Cento metri lungo la strada... Ma quanti, in profondità?». «Pochi». «Sii preciso ». « Una cinquantina, anche meno ». « Non ci credo » dice Tommaso e riprende a correre. Poi si ferma, torna indietro e così parla a Edoardo:
« Caro Edoardo, » gli dice « tu stai contraddicendo la stampa. Ecco qui tre fra i maggiori quotidiani di Roma. Il primo scrive che la famosa pineta di Fregene è in fiamme, quindi che ancora brucia. Il secondo parla di decine di ettari di pineta in preda alle fiamme e tu riduci tutto a mezzo ettaro. Il terzo parla di mille metri, un chilometro di fuoco, e tu, come al mercato di Porta Portese, dove le contrattazioni hanno questo carattere infantile, rispondi cento metri. Io non posso credere a te, preferisco credere alla stampa. Ci credo perché in un paese libero come il nostro la stampa ha il meraviglioso privilegio di informare il pubblico senza dovergli nascondere la verità. E perché dovrebbe nascondergli la verità, o alterarla, se ogni controllo è possibile? Perché un cronista dovrebbe inventarsi un disastro simile, che non fa il giuoco di nessuno, se può essere smentito? E passi per un cronista. Ma qui sono Ire, e non ho letto gli altri giornali. Vedi, ho un sospetto. Che tu, ridicolizzando l’incendio, vuoi distrarmi dal mio dovere che è di rendermi conto dei vari problemi nazionali e di misurarne la gravità. Se io dovessi credere a ciò che tu mi dici di questo deplorevole incendio, dovrei anche fare una revisione critica (!) non soltanto degli spaventosi incendi che favoriti dal caldo “dilagano” dappertutto (come afferma questo giornale con impagabile immagine tratta dalle precedenti alluvioni), ma anche delle frane, dei paesi che crollano, delle tempeste, degli allagamenti e tornados che tutto vanno distruggendo in questa nostra terra. Io dovrei dunque pensare che esiste una verità assoluta e una verità giornalistica. Ma come è possibile, se la verità è una sola e la stampa ne è la gelosa custode? So quello che vuoi dirmi: che il lettore dei quotidiani è come quei poveri intossicati che, per sentirsi bene, debbono iniettarsi o fiutare dosi enormi del loro nepente; e che i giornali, medici pietosi, lo secondano nella sua triste follia. Ma non posso crederci. Ossia, lo crederei se i giornali che portano la notizia non fossero di diverso colore politico. Posso anche pensare che il foglio d’opposizione sia tentato, per una sua indulgenza verso le disgrazie nazionali, ad amplificare anche questa. Ma il secondo foglio che ti mostro è governativo, il terzo è indipendente-governativo. E allora? Pensa tu quello che ti pare, io seguito a credere che Fregene è in fiamme e vado a vedere ».
Detto questo, Tommaso andò a vedere l’incendio. Era spento e purtroppo Edoardo aveva ragione, anzi aveva esagerato anche lui nelle dimensioni. Turbato dal dubbio, Tommaso corre all’ufficio postale, vorrebbe chiedere ai direttori dei tre giornali una conferma che lo quetasse. L’impiegata sta combattendo con un enorme pacco di telegrammi. E gli dice che continuano ad arrivarne da tutta Italia: « Sono i telegrammi dell’incendio ». Gente che telegrafa per sapere notizie dei loro cari, se sono potuti sfuggire alle fiamme, se le loro case sono ancora in piedi, se l’incendio, favorito dal vento, non stia già attaccando Roma. E se la stampa — pensa infine Tommaso - sulla torre più alta, non stia già accordando la sua cetra per cantarne la bellezza.

Fregene. Un bambino sui sei anni che gioca ostinatamente ai bigliardini portandosi da casa uno sgabello, perché altrimenti non ci arriva. Un altro che compra la pistola ad acqua e la prova a lungo, senza ridere, e infine non ne sembra soddisfatto. Un ragazzetto benestante in vacanza, sui dodici anni, che gira sempre solo, lo sguardo serio e assorto. Ha già la sua motocicletta e non si muove che in motocicletta. Ciò lo ha reso indifferente a tutto il resto, vive nei suoi trentanni. Certe volte è lì incantato a guardare il mare, ma non gli piace. Non ha compagni e nemmeno compagne. Dal giornalaio ieri è sceso dalla motocicletta. Fumava aspirando forte e sbuffando con eleganza dal naso. Ha chiesto: «È arrivato “Topolino”?». «No » gli ha risposto il giornalaio. « Allora mi dia “Monello” ». Si è guardato attorno con palpebre pesanti e ha aggiunto: « “Monello” numero 35, il 34 ce l’ho».

[«Il Mondo», 10 settembre 1957]


Faust è nel suo studio, sta rivedendo le bozze del primo volume della sua Opera Omnia. Preso dal disgusto per la sua stessa vana scienza, rieccolo alle ben note nostalgie: l’amore, la giovinezza. Invoca il principe degli abissi, che appare; e gli propone il mercato che sappiamo. Mefistofele, che ha tutta l’aria di essersi precipitato a controllare i suoi sospetti, sorride gentilmente e si scusa. Volentieri ridarebbe a Faust, in cambio della sua anima, gli anni perduti, che il ricordo tinge di rosa. Ma oggi tutti vogliono dannarsi per molto meno, senza pegni, c’è chi si danna per curiosità, o per noia; respinge quindi moltissime offerte, per quella legge che avvilisce le cose di cui c’è abbondanza. Se accettasse tutte le anime! Faust, ironico e irritato: «Dovrò allora salvarmi a ogni costo? ». Risponde Mefistofele, con l’implacabilità del banchiere: « No, eccellenza, lei si perderà per niente, ecco tutto ». Faust si fa lamentoso e implora: « E i miei anni, l’amore, la vita? ». Mefistofele, abbastanza gelido: «Attimi fuggenti, eccellenza». Poi inchinandosi e rientrando nel buco del pavimento, aggiunge severo: « Torni piuttosto alle sue bozze e corregga bene; che non c’è niente di peggio di un libro con errori di stampa».

Sulla spiaggia, oggi, bella signora che, passando con una sua amica, dice: « Stanotte ho fatto un sogno veramente atroce. Pensa, ho sognato gli Aztechi ». L’amica, molto sorpresa (ma tutta la loro conversazione deve basarsi sulla continua sorpresa, poiché la gente ormai imita senza volerlo i comici del varietà e ogni battuta deve essere sottolineata dalla meraviglia dell’ascoltatore), l’amica domanda: « E come mai, cara? ». La bella signora, alzando le spalle e rinunciando a spiegarsi il mistero: « Non so che dirti. Li ho sognati ». Insiste l’amica: « Ma proprio gli Aztechi? Forse ti sarai sbagliata». La bella signora, un po’ offesa: « Vuoi che non riconosca gli Aztechi? ».

L’epidemia d’influenza è diventato il tema più divertente dell’anno. Sull’argomento, come in un gioco di società, tutti debbono avere la risposta pronta.
La più estrosa la trovo stamane sul giornale attribuita a un deputato del PSI (Bettoli): « Per quanto riguarda le misure di prevenzione, » ha detto Bettoli in Parlamento, dove appunto si discuteva dell’epidemia « penso che la popolazione dovrebbe consumare notevoli quantitativi di frutta e agrumi oltreché peperoni».
In altro giornale, la risposta di un medico, che è la più saggia: « La migliore prevenzione contro l’epidemia è di mantenersi perfettamente in salute ».

Il giovane turista americano che mi chiede un passaggio di pochi chilometri è uno studente di Harvard. Conosce il francese e l’italiano, non dev’essere insomma l’ultimo della classe. Si interessa anche di letteratura. Di libri italiani ha letto, tradotti, il Decameron e la Vita di Benvenuto Cellini, che sono gli unici testi italiani, assieme al Dante’s Inferno, inclusi nelle collezioni universali anglosassoni. Ha letto anche testi francesi, nella lingua originale, ma ora ha smesso. Me ne dà la seguente giustificazione: « Col mio quoziente d’intelligenza io riesco a leggere circa settanta pagine l’ora in inglese. Perciò non posso perdere tempo con una lingua come il francese, che mi permette al massimo trenta pagine l’ora». Lo guardo pieno di ammirazione: «E, mio Dio, perché legge?». Risposta: «Per rilassarmi». Dopo un lungo silenzio, mi domanda: « Lei non ha realmente paura di essere aggredito da me? ». Gli rispondo che da un tipo come lui ormai posso aspettarmi tutto, fuorché un’aggressione. Sembra deluso: «Perché?». «Perché» dico «lei ha un alto quoziente d’intelligenza e non aggredisce portandosi appresso un sacco da montagna, una macchina fotografica e uno scatolone ». Lo studente ride e si congratula del mio senso poliziesco: « Sì, » dice « quando uno fa veramente un colpo bisogna avanti di tutto avere le mani libere e poi non lasciare tracce». È diventato pensoso e infine scatta, trionfante: « Però nello scatolone potrei avere un fucile! ». Poiché lo guardo, ride sgangheratamente: « No, io scherzo, niente fucile, solo bellissimi souvenirs italiani per la mia famiglia». E apre lo scatolone: è pieno di borse, borsellini, portacarte, portacipria in cuoio lavorato, a ghirigori, con enormi gigli fiorentini e vedute di monumenti, insomma paccottiglia.

Longanesi. I giornali di stamane (28 sett.) danno la notizia della morte di Leo Longanesi. I giornali ormai non ci danno che cattive notizie, un giorno finiremo per leggerci anche la notizia della nostra morte; ma questa di stamane era più che una notizia cattiva: mi è parsa insidiosa e scoraggiante. Longanesi morto è più di un amico perduto, è la fine di un incontro e di uno spettacolo. Ho pensato a lui durante il giorno e ho capito che gli volevo bene e che lui me ne voleva: ma era il bene « di una volta», quello che non si dice e porta a continui reciproci perdoni. Ho ricordato come l’avevo conosciuto, vent’anni fa, in una birreria dove, dopo quattro chiacchiere, mi disse: « Si inetta a scrivere e non perda tempo». Me lo ordinò addirittura, senza spiegarmene le ragioni, che io non vedevo chiare. Era il suo mollo di convincere i pigri e i delusi della mia specie, in quella gioventù che il fascismo aveva se non bruciata certamente affumicata. Sei anni dopo lavorammo insieme a un film e l’8 settembre lo sorprese mentre lo stava dirigendo. Era il suo primo film, mai finito, la storia di un vecchio anarchico che mette una bomba sotto un palazzo e poi va ad avvisare tutti gli inquilini che hanno ancora dieci minuti di vita. (Era certo lui, Longanesi, il vecchio anarchico, ma la bomba alla fine si trovava scarica. Longanesi non avrebbe fatto male a una mosca).
Poi, ci perdemmo di vista. Dovevo rivederlo a Milano, nel duro inverno del ’46. Passeggiavamo cortesemente, una sera di dicembre, quando si fermò e mi disse: « Mi scrive un romanzo per i primi di marzo?». Io scoppiai a ridere, ma lui diceva sul serio. I suoi occhi vivi e lucidi, sempre pieni di simpatia e di indignazione, mi fissavano con sorpresa. Quando ebbi detto (per dire qualcosa) come vedevo un romanzo, una storia assolutamente fantastica, tanto fantastica che non la immaginavo in Italia, ma in Africa, nell’Africa di Erodoto e di Solino, Longanesi disse: « Se comincia subito le do un anticipo ». E così la parola di Longanesi, quel suo fare sbrigativo con cui sapeva mettere l’arte sul piano degli affari e viceversa, mi aveva ormai impegnato a un duro lavoro di esemplificazione delle mie idee, che probabilmente non sapevo fare. Ma pensare di deludere Longanesi mi era abbastanza insopportabile, perché la sua fiducia serviva a scoprire le nostre qualità e a metterle in moto, una fiducia che non bisognava deludere. Così cominciai a scrivere e i primi di marzo gli mandai un manoscritto, che stampò. Dopo, ancora una volta ci perdemmo di vista. Ci rivedemmo negli ultimi anni a Roma, ma la nostra amicizia, così com’era nata, era fatta di riserbo e di rispetto, evitavamo di parlare a fondo, forse nella speranza di poterlo fare un giorno. Di lui mi resta ora il ricordo di un uomo che aveva le migliori qualità e i migliori difetti e che mi aveva sempre parlato direttamente, senza mai volermi piacere o sorprendere, pronto a litigare e a stendere per primo la mano. E anche il ricordo di un uomo che aveva il genio di farci prendere sul serio da noi stessi, che è tutto. Non so quanta ironia mettesse nei suoi atteggiamenti polemici. Lo faceva a sue spese ed erano anche il fumo con cui nascondeva il suo impegno di artista e di scrittore. Ci sono capitoli dei suoi libri e pagine del suo Taccuino, che ricordo sempre per la loro giusta malinconia, lietamente truccata, per pudore, quel suo viaggio attraverso l’Italia, i giorni di Napoli, il ritorno a Roma.
Aveva quel che lui chiamava «l’occhio», per guardarsi attorno: e non gli è sfuggito mai niente. Di Longanesi ammiravo poi la sua fede nell’opera, nel lavoro, nell’applicazione manuale. Credeva nelle forze che troviamo in noi stessi e tutto il resto non contava. Un giorno gli dissi che egli teneva la sua attività in continua riparazione, come certi monumenti mai finiti. Sorrise. Più prudente - pensano i prudenti -avrebbe potuto limitarsi a «scavare», una parola che detestava. Ma la prudenza non era il suo forte, era anzi la prodigalità dell’ingegno, l’attenzione a tutto. Lo ricordo insomma come un artista e un uomo sincero, mai « personale » nei suoi odi così allegri e impetuosi, un critico innamorato e implacabile, un ammiratore dell’intelligenza altrui, non uno dei tanti che vorrebbero ammorbarci con la loro protezione e il loro consenso. Posso compiangere chi non l’ha visto né conosciuto così, perché non ha conosciuto un uomo di grande cuore.

[« Il Mondo », 8 ottobre 1957]