GLI AFICIONADOS
Estratto da:"Se hai bisogno chiama"
Raymond Carver
Sono seduti all’ombra di un patio attorno a un piccolo tavolo di ferro battuto e bevono vino da pesanti boccali di metallo.
– E adesso perché mai devi sentirti cosí? – le chiede lui.
– Non lo so, – dice lei. – Sono sempre triste quando arriva questo momento. Questo poi è stato un anno cosí breve, senza contare che non conosco nessuno degli altri –. Si sporge e fa per prendergli una mano, ma lui è troppo veloce per lei. – Sembrano cosí... cosí poco professionali –. Raccoglie il tovagliolo che ha in grembo e si pulisce le labbra in una maniera che nell’ultimo mese lui è arrivato a detestare. – Non ne parliamo piú, – dice lei. – Abbiamo ancora tre ore. Vediamo di non pensarci.
Lui alza le spalle e punta lo sguardo dietro di lei, verso le finestre aperte che riflettono quadrati di cielo bianco simili a trapunte, guarda la strada, assimila ogni cosa. Gli edifici bassi e friabili sono coperti di polvere che riempie l’intera strada.
– Cosa ti metterai? – chiede lui, senza voltarsi.
– Ma come fai a parlarne cosí? – Lei si abbandona sulla sedia, intreccia le dita, si tormenta l’anello di piombo che porta all’indice.
Non ci sono altri clienti sotto il patio e in strada non si muove nulla.
– Probabilmente mi vestirò di bianco, come al solito. Ma forse no. Anzi, no, di sicuro!
Lui sorride, svuota il boccale, sentendo sul fondo il sapore quasi amaro dei pezzetti di foglia che gli solleticano le labbra. – Vogliamo andare?
Paga il vino e aggiunge cinquemila pesos per la proprietaria. – Questi sono per lei.
La vecchia esita un po’, guarda la donna piú giovane e poi con un movimento da uccello spaventato rastrella le banconote e se le ficca in una tasca frontale del grembiule sgualcendole tutte. – Gracias –. S’inchina rigida e si tocca la fronte in segno di rispetto.
Il patio è in penombra e puzza di legno marcio. Ci so no bassi archi neri tutt’intorno, uno dei quali si apre sulla strada. È mezzogiorno. Il chiarore pallido e smorto gli dà per un attimo le vertigini. Ondate di calore salgono tremolanti dalle pareti di adobe che stringono la stradina dai due lati. Gli lacrimano gli occhi e l’aria secca e calda gli investe il volto.
– Tutto bene? – Lei lo prende per un braccio.
– Sí. Aspetta un attimo –. Da una strada molto vicina arriva il suono di una banda. La musica si riversa sopra gli edifici senza tetto, sciogliendosi nel calore che lo sovrasta. – Questo dovremmo vederlo.
Lei aggrotta le sopracciglia. È lo stesso cipiglio che mette su quando qualcuno le dice che ormai sono pochi i giovani ancora interessati all’Arena. – Se proprio vuoi, caro.
– Certo. Dài, non vuoi concedermi un capriccio nel mio ultimo pomeriggio?
Lei gli stringe ancora di piú il braccio e scendono lentamente lungo la strada all’ombra di un muro basso, con la musica che si fa piú forte a mano a mano che si avvicinano all’incrocio. Quando era piccolo la banda suonava varie volte all’anno, poi per molto tempo solo due volte e ora suonano marciando solo una volta all’anno. D’un tratto la polvere soffice e vaporosa davanti ai suoi piedi si gonfia e con un calcio lui fa emergere un ragno bruno che si attacca alla punta del suo huarache, prima che lui lo getti lontano.
– Vogliamo fare finta? – chiede.
Lei ha seguito il ragno con lo sguardo, ma ora volge verso di lui gli occhi inespressivi e ricoperti da un velo grigio, immobili sotto la fronte sudata. Arriccia le labbra. – Fare finta?
D’impulso la bacia. Le labbra di lei sono secche e screpolate e lui la bacia con trasporto e la spinge contro il muro di mattoni rovente. La banda, stridula e metallica, passa in fondo alla strada, si ferma un attimo e continua. Poi il suono s’affievolisce a mano a mano che la banda prosegue la marcia e svolta in un’altra strada.
– Fare finta che sia ancora come quando ci siamo conosciuti e io ero ancora un giovane discepolo che lottava per emergere. Te lo ricordi? – Lui se lo ricorda, a ogni mo do. Lunghi pomeriggi accaldati passati all’Arena; ad allenarsi, allenarsi, allenarsi per perfezionare ogni mossa, ogni pensiero, ogni abbellimento. Il brivido del sangue e la vampata di eccitazione ogni qualvolta i suoi compadres finivano, uno alla volta. Lui era uno degli allievi piú fortunati ed entusiasti. Poi era finalmente salito tra i pochi eleggibili e addirittura piú in alto.
– Me lo ricordo, – dice lei.
Può darsi che ricordi questo ultimo anno di matrimonio e forse ricorderà questo pomeriggio. Per un attimo anche lui si concede di pensare al pomeriggio.
– È stato bello. È stato... – dice lei. Ha gli occhi freddi e rannuvolati, appiattiti sul volto come quelli di una serpe che una volta lui aveva ucciso sui monti nella stagione della caccia.
Arrivano alla fine della strada e si fermano. C’è silenzio e l’unico suono che giunge fino a loro sono colpi di tosse secchi, soffocanti che provengono da qualche parte della strada nella direzione presa dalla banda. Prima di girare l’angolo, lui la guarda e lei alza le spalle. Passano accanto a dei vecchi seduti sulla soglia delle case, davanti alle porte sbarrate da assi di legno, con gli ampi sombreros pieni di polvere calcati sulla faccia, le gambe piegate strette contro il petto oppure distese sulla strada. I colpi di tosse riprendono, secchi e densi come se venissero da sottoterra, da una gola intasata di terriccio. Lui ascolta i vecchi e li guarda con attenzione.
Lei gli indica un ometto grigio e a capo scoperto in un vicolo stretto tra due edifici. L’uomo apre la bocca e... tossisce.
Lui la gira verso di sé. – Con quanti di noi hai vissuto?
– Be’... cinque o sei. Devo pensarci un po’. Ma perché me lo chiedi?
Lui scuote la testa. – Luis, te lo ricordi?
Lei sfila il braccio da sotto il suo e il suo pesante bracciale tintinna sordo. – È stato il primo. Lo amavo.
– È stato lui a insegnarmi quasi tutto... Dovevo sapere –. Si morde il labbro, mentre il sole gli pesa sul collo come una pietra piatta e rovente. – E Jorge, te lo ricordi?
– Sí –. Hanno ripreso a camminare e lei si è rimessa sottobraccio a lui. – Un brav’uomo. Un po’ come te, ma lui non l’amavo. Per favore, non ne parliamo piú.
– Va bene. Mi sa che mi va di fare un giro giú alla plaza.
Uomini e donne dallo sguardo vacuo li guardano passare. Stanno appoggiati alle porte o accovacciati in nicchie scure, mentre altri li fissano ottusamente dai davanzali di finestre basse. Continuano a camminare, allontanandosi dalla città verso la pianura. Tutt’intorno a loro ci sono blocchi di muratura, pezzi di vecchio cemento bianco e calcinato, frammenti sgretolati e granulosi che si infrangono sotto i loro passi. Su tutto si stende un denso strato di polvere. Il sole laminato brilla bianco e abbacinante sopra le loro teste, appiccicando gli abiti roventi alle loro schiene sudate.
– Dovremmo tornare, – dice lei, stringendogli leggermente il braccio.
– Fra poco –. Le indica gli esili fiori gialli slavati che crescono nella crepa scura di una lastra spezzata di cemento della pavimentazione stradale. Sono in piedi in mezzo allo Zócalo, la Grande Piazza, davanti ai ruderi della cattedrale metropolitana. Tutt’intorno alla piazza c’è una fila di tumuli bruni e polverosi con un solo buco ciascuno sul fianco rivolto verso di loro. Dietro i tumuli, file brune di casette in adobe che si spargono verso le colline finché soltanto le cime degli edifici piú alti sono visibili. Poi c’è una lunga linea ondulata di colline gobbe e grigie che si estende giú per la valle fin dove arriva lo sguardo. Quelle colline gli hanno sempre fatto pensare a delle donne sdraiate dai grossi seni, ma adesso gli sembra tutto strano e un po’ sporco.
– Per favore, amore, – dice lei, – adesso torniamo indietro e andiamo a bere un po’ di vino finché c’è tempo.
Dall’Arena si sente la banda che ha ricominciato a suonare, alcuni accordi riescono a superare la distanza e ad arrivare fino a loro sulla spianata. Lui li ascolta. – Sí. Non dobbiamo far tardi –. Abbassa gli occhi a terra e smuove la polvere con il tacco. – Va bene, sí, andiamo a bere un po’ di vino –. Si china e raccoglie un mazzolino di fiori gialli per lei.
Vanno da Manuel che, appena li vede sedersi a uno dei suoi tavoli, prima li saluta e poi scende in cantina e porta fuori l’ultima bottiglia di vino rosso.
– Ci sarai all’Arena oggi pomeriggio, Manuel?
Manuel fissa una crepa che attraversa tutta la parete dietro al tavolo. – Sí, señor.
– Non la prendere cosí, amico mio. Non è poi una tragedia. Guarda –. Inclina la tazza e lascia che il vino tiepido gli scorra giú nella gola. – Sono contento, io? Che senso avrebbe se non fossi contento? Perché il momento sia perfetto ci devono essere gioia e consenso in tutti quelli coinvolti –. Gli sorride, senza alcun rancore. – È sempre stato cosí, perciò, capisci... devo essere contento. E anche tu, amico mio. Siamo tutti nella stessa barca –. Ne scola un’altra tazza e si asciuga le mani sudate sui pantaloni. Poi si alza e stringe la mano di Manuel. – Dobbiamo andare. Addio, Manuel.
All’ingresso delle loro stanze lei gli si avvinghia addosso e gli carezza il collo, sussurrando: – Ti amo davvero! Amo solo te –. Lo attira a sé, affondandogli le dita nelle spalle, stringendogli il volto al suo. Poi si volta e corre verso l’interno.
Lui le grida dietro: – Dovrai sbrigarti per vestirti!
Ora lui cammina sotto le ombre verdi del tardo pomeriggio e attraversa una piazza deserta, affondando i piedi infilati nei sandali nel terreno ardente e friabile. Per un attimo il sole si è nascosto dietro uno stormo di nuvole bianche e quando imbocca la strada che porta all’Arena c’è un chiarore pallido e le ombre sono scomparse. In silenzio, piccoli gruppi di persone avanzano lentamente lungo la strada ma guardano altrove e non danno segno di riconoscerlo al passaggio. Davanti all’Arena c’è già una piccola folla di uomini e donne polverosi, in attesa. Fissano il terreno o il cielo striato di bianco e alcuni di loro stanno lí a bocca aperta con la nuca incassata nelle spalle, oscillando qua e là come malconci steli di frumento a mano a mano che seguono il movimento delle nuvole. Lui entra attraverso un ingresso secondario e si dirige subito verso il suo camerino.
Se ne sta disteso su un tavolo, la faccia rivolta verso il cero bianco che cola, e osserva le donne. I loro lenti movimenti si riflettono distorti e tremolanti sulla parete mentre lo spogliano, gli massaggiano il corpo con unguenti profumati prima di rivestirlo dell’abito bianco di tela grezza. Le pareti di fango opprimono lo stanzino: c’è appena lo spazio sufficiente per il tavolo e le sei donne che si chinano su di lui. Un volto bruno, rugoso e bisunto, lo scruta da vicino, respirandogli addosso un fiato umido che sa di cibo stantio e che le raschia la gola. Le labbra si separano piano fino ad aprirsi, si aprono e si chiudono attorno a rauche e antichissime sillabe. Le altre le riprendono mentre lo aiutano ad alzarsi dal tavolo e lo accompagnano nell’Arena.
Si distende subito sulla piccola piattaforma, chiude gli occhi e ascolta la nenia delle donne. Il sole gli brilla forte in faccia e allora lui gira la testa. La banda riprende a suonare ancora piú forte, piú vicina, da qualche parte all’interno dell’Arena, e per un attimo si concentra su quel suono. La nenia s’affievolisce di colpo in un mormorio e poi cessa del tutto. Lui apre gli occhi e gira la testa prima da una parte e poi dall’altra. Tutti i volti sono fissi su di lui, tutti i colli si allungano nella sua direzione. A questa vi sente il sordo tintinnio dista, chiude gli occhi. Poi sente il sordo tintinnio di un pefsante bracciale molto vicino al suo orecchio e riapre gli occhi. Lei è in piedi accanto a lui con indosso una tunica bianca e in mano il lungo, scintillante coltello d’ossidiana.
Si china su di lui, con il mazzolino di fiori intrecciato nei capelli – si china ancor piú vicino al suo viso, benedice il suo amore e la sua devozione e gli chiede perdono.
– Perdonami.
– A che serve? – bisbiglia lui. Poi, appena la punta del coltello gli tocca il petto urla: – Ti perdono!
La gente lo sente e si risistema sui sedili, esausta, mentre lei gli estrae il cuore dal petto e lo offre in alto al sole lucente.