sabato 30 giugno 2018



A me, vecchio sinistro, non piace la subalternità di Calenda alla paura

Alessandro Dal Lago
IL FOGLIO
29 GIUGNO, 2018

Al direttore - Ho letto ovviamente con interesse il manifesto politico di Carlo Calenda. Non entro nel merito delle proposte economiche, su cui non posso vantare alcuna competenza. Tuttavia, come vecchio sinistro o sinistrato (per dirla con i fascisti da tastiera) e soprattutto non pentito, ho apprezzato, oltre al realismo visionario, le parti sul sostegno agli “sconfitti” (una parola, però, che non mi piace) e sul ruolo della cultura e dell’educazione tecnico-scientifica per lo sviluppo del paese, di cui nel famoso contratto di governo grillo-legista non c’è traccia. Ma ho una forte perplessità sull’idea che un’alternativa seria al populismo nazional-digitale possa ripartire dal rafforzamento dello spirito nazionale o patriottico: il descamisado Salvini è abilmente riuscito, grazie al suo attivismo e più di qualsiasi compassato esponente del centrosinistra, a monopolizzare questa retorica e a trasformarla in voti. Mettersi sulla sua scia non sarebbe che un atto subalterno, un inutile inchino allo Zeitgeist.
Ciò che invece trovo inaccettabile nel documento è l’insistenza, al limite dell’ossessione, sulla paura. Una ragione del naufragio dei progressisti sarebbe “…l’esclusione del diritto alla paura dei cittadini e l’abbandono di ogni rappresentanza di chi quella paura la prova”. Più sotto: “Occorre affermare con forza che la paura ha diritto di cittadinanza. E rifondare su questo principio l’idea che compito della politica è rappresentare, anche e soprattutto, le attuali insicurezze dei cittadini”. Anche qui, la proposta è subalterna alla cultura – se vogliamo chiamarla così – in campo poliziesco e penale, dei Travaglio, Grillo, Salvini, Bonafede ecc. Inevitabilmente, il discorso sulla sicurezza è imbevuto di retorica giudiziaria e carceraria e ci fa regredire da Beccaria a Dracone. Ma è, soprattutto, un ritornello che si sente più o meno da 25 anni e che ha ben poco a che fare con la realtà. Un ritornello che non è servito a Minniti (“la percezione della paura è la paura”) a dare ossigeno al suo agonizzante partito.
Parlare di diritto alla “cittadinanza” della paura è una regressione a Behemot e ha qualcosa di inconsapevolmente totalitario. Thomas Hobbes ricorda nella sua autobiografia di essere nato insieme alla paura: “And hereupon it was my mother dear / Did bring forth twins at once, both me and fear”. Ma, perbacco, era la paura dell’Armada Invencible, che si apprestava ad invadere l’Inghilterra – non di centinaia di migliaia di esseri umani, poveri, fuggitivi o avventurosi alla ricerca, loro sì, di sicurezza. Certo, Calenda parla di paura come backlash delle “narrazioni” trionfalistiche della globalizzazione. Ma che futuro può avere un movimento politico o leader di centrosinistra che accetta le paure dei cittadini come risorsa energetica, in sostanza come serbatoio di consenso, invece di discuterle, decostruirle, prevenirle, dire la verità sul loro conto? Come il suo giornale ha già scritto, non c’è nessuna invasione di immigrati e rifugiati, né c’è mai stata in realtà. Si tratta di una sorta di grande bolla o balla annebbiante – che tuttavia nel nostro mondo di social è più reale del reale. Mi sarebbe piaciuto leggere qualcosa in proposito nel manifesto di Carlo Calenda.
Il centrosinistra ha giocato con l’insicurezza, percepita o no, e con la paura, da sempre – senza mai decidersi tra il piano poliziesco, come gli sgomberi dei rom da parte di Rutelli e di tanti altri sindaci Pd o il Daspo Minniti, o sul “sociale”. Se non altro, il centrodestra è sempre stato più esplicito e in un certo senso più onesto, anche se alla fine le pratiche erano le stesse. Ebbene, quello che manca davvero nel progetto di Calenda è un’idea di partito, di movimento o qualsiasi altra cosa che tra i suoi obiettivi ponga anche la corretta informazione del “popolo”, oggi in balia di influencer, hater, truffatori, demagoghi mediali e agitatori da strapazzo. Insomma un po’ della vecchia educazione politica, come ai tempi di Togliatti, anche se adeguata, naturalmente, alla nostra epoca digitale.

venerdì 29 giugno 2018

Il futuro del PD, la Politica e il cammello
27 Giugno 2018
Scritto da Bianca La Rocca
Pubblicato in Politica
https://manrico.social/

Se il futuro del PD deve essere un ridicolo congresso, che parte dai circoli e dai territori, rianimati artificialmente per produrre pochi segnali di vita, preferisco seguire il caro amico Dario, mi trovo un’oasi nel deserto e aspetto il tramonto tra le dune, disquisendo di gnoseologia con il cammello. 

Carlo Calenda ha lanciato, dalle pagine de Il Foglio, ilManifesto politico che potremmo definire, con parole un po’ desuete, ma che hanno il merito di essere semplici e mantengono l’efficacia di poter distinguerci dagli altri, della “Nuova sinistra”.

Nel Manifesto di Calenda, ex ottimo ministro dei governi Renzi e Gentiloni, ed una delle poche mente lucide rimaste nel panorama della storia del pensiero socialista e liberale occidentale, troviamo, oltre ad una breve disamina degli errori commessi negli ultimi decenni dal fronte progressista, anche una serie di proposte di largo respiro, che non si limitano ad immaginare una vittoria di breve periodo, per piazzare un sindaco o un presidente di regione, ma guardano ad un orizzonte più ampio, ai prossimi trenta anni e forse più.
Si spazia dalla messa in sicurezza finanziaria ed economica del Paese ad un diverso sistema di welfare inclusivo delle nuove povertà, investimenti materiali ed immateriali, progetti culturali per combattere l’analfabetismo funzionale che, ormai, colpisce la stragrande maggioranza dei nostri concittadini (fonte accreditate parlano del 70% della popolazione), una diversa funzione della UE, non più somma di egoismi nazionali, ma terreno di confronto proficuo per condividerne valori e prospettive.

Proposte che meritano di essere lette ed approfondite, su cui si può concordare in tutto o in parte, ma che sarebbe un grave errore non prendere in considerazione, per inseguire quella parte di sinistra, ormai definitivamente sconfitta dalla storia, che si ostina in maniera ottusa,inconcludente e controproducente a pensare che un partito ed un sindacato debbano limitarsi alla difesa corporativa del parassitismo e della mediocrità, per assicurarsi il voto di masse sempre più povere, sempre più escluse, sempre più de-alfabetizzate.

Senza accorgersi che quelle stesse masse, private di tutti gli strumenti di conoscenza delle odierne complessità,sono il terreno più fertile per far crescere nuove forme di fascismo e populismo, come già avviene in molte paesi europei, compresa l’Italia.

Non è questo il futuro delle democrazie occidentali. Questa è laregressione ad un pensiero primordiale che riporta alla memoria tempi ben più bui, quando una crisi mondiale epocale, portò al trionfo di feroci dittature, ampiamente sostenute, non dimentichiamolo mai, dalle masse popolari, oltre che dalle élite borghesi.

La sfida che abbiamo di fronte non è solo istituzionale e governativa, ma è, prima di ogni cosa, culturale e conseguentemente politica. Le classi sociali, che un tempo distinguevano le parti in conflitto, si sono liquefatte di fronte all’avanzare prepotente ed irrefrenabile della globalizzazione. È un processo in atto da decenni, non possiamo fermarlo, ma possiamo e dobbiamo governarlo.

Continuare a definire le “classi sociali” come etichette di una minorità genetica, crea solo ulteriori consensi verso i nuovi conservatorismi.Pensare di rappresentare le più disagiate, in termini puramente solidaristici, nella speranza di ricavarne un consenso elettorale, è pura illusione. Un velleitarismo che spinge quelle stesse classi verso nuove forme protezionistiche, viste come le uniche strade per un riscatto nazionale e personale.

Il risultato sarà l’affermarsi di chiusure mentali e territoriali, l’avanzare della sfiducia verso ogni forma di governo ed istituzione politica e culturale. La chiusura in gabbie sempre più strette dell’autosufficienza, in un mondo insicuro, inadeguato, privo di sbocchi.

Si afferma che stiamopagando il prezzo di una crisi economica che ha lasciato ai margini milioni di persone a combattere, da soli, la lotta per la sopravvivenza. Mors tua vita mea.

È vero, ma da questo stato non se ne esce con interventi economici e protezionistici, che produrrebbero solo nuove povertà. Del resto, in Italia, ma possiamo dire in tutta Europa, non sono mancati economisti o politiche economiche che hanno affrontato la crisi e, in parte risolta, anche se può sempre riaffacciarsi e in termini più drammatici, sono mancati e continuano a mancare i filosofi. E manca il potere.

Potere inteso come forza del pensiero, in grado di nascere all’interno di un circuito politico-intellettuale, per disegnare un progetto di vasto respiro che si affermi tra le forze produttive e sociali, grazie anche ad una leadership forte e riconosciuta.

Già un leader, parola simile alla bestemmia per una parte della vecchia sinistra, che non si rende conto, o finge di non capire, che le idee forti hanno bisogno di personalità forti per imporsi, non possono, con la scusa della dialettica e della (finta) democrazia, frantumarsi in mille distinguo e puntualizzazioni, dichiarazioni da giudizio universale buone sole per la piazza del mercato rionale, in bocca ad un qualche collettore di tessere (sempre meno e sempre più finte), dalla faccia e dal linguaggio mediocre, che pensa di guidare il popolo e, sempre più spesso, ha difficoltà ad affermarsi pure nel quartiere dove è nato.

O il “potere” torna nelle mani della politica, quella vera, quella che progetta, che si proietta nel tempo,che intravede il futuro ed è in grado di dominarlo, oppure, come in parte già è accaduto, il “potere” passerà in mano ad altri, anche in forza della violenza che esprime, sia fisicamente, sia verbalmente.

Anche per questo motivo, la proposta di Nicola Zingaretti lascia il tempo che trova. Da bravo amministratore, ma mediocre politico, quale è sempre stato, rilancial’idea, tutt’altro che innovativa, di un partito che riparta dai sindaci e dalle amministrazioni locali, che insieme ai circoli e ai territori, verranno ricordati come il tormentone dell’estate 2018, insieme alle quattro note in croce di Alvaro Soler.

Peccato che il “bravo amministratore”, evidentemente evoluzione politica del “bravo presentatore” dell’amato Nino Frassica, può fare accordi, trovare una qualche convergenza con le forze produttive locali su interessi parziali o su questioni puramente territoriali. Poteva, un tempo, favorire alcuni bacini elettorali, finanziando progetti culturali ridicoli o il restauro di una qualche piazzetta, facendo lavorare piccole associazioni e/o cooperative del territorio.Poteva, ho scritto, perché ora non riesce a fare più nemmeno quello, visto che manca la materia prima. I soldi.

Ma ridotto a questo, un partito fin dove può arrivare? Vince le prossime elezioni amministrative. Forse, perché le incertezze sono molte, come gli umori dell’elettorato. E poi? Con quale classe politica e quale idea culturale pensa di affrontare i grandi temi della delocalizzazione delle aziende, come affronta la convivenza tra industrializzazione, sviluppo e salvaguardia del territorio, con quali strumenti governa i processi migratori in entrata e, purtroppo per noi, anche in uscita, come rinnova il linguaggio e le prassi politiche, visto che le vecchie parole d’ordine sono ormai superate?

Se la prospettiva che ci attende è questa, ma anche no, grazie. Personalmente declino l’invito. Concimare i gerani mi darebbe maggiore soddisfazione e risultati, sono certa, sarebbero più duraturi.

Il futuro del PD, se questo partito ha ancora un senso, non può declinarsi alla vittoria della prossima battaglia elettorale, per perdere poi tutte le guerre epocali. Un ciclo storico si è chiuso, definitivamente, e non con Renzi, che anzi, pur tra diversi errori e non pochi ostacoli, ha tentato il possibile per ridargli un futuro. Si è chiuso, venti anni fa, con Veltroni e D’Alema. Non possiamo continuare a celebrarne il funerale. È anche ora di dire basta e voltare pagina.

“I prossimi 15 anni saranno probabilmente tra i più difficili che ci troveremo ad affrontare da un secolo a questa parte, in particolare per i paesi occidentali”, scrive Calenda. Nel mio piccolo, lo penso anche io, già da diverso tempo e, oggi, staremmo già un po’ più avanti, se ne avessimo preso atto al tempo dovuto.

La traversata del deserto sarà lunga e faticosa, ma da semplice militante o mi si offre una prospettiva di lungo periodo, per cui vale la pena intraprendere il cammino, o non muovo nemmeno il primo passo. Ormai, ho una certa età, trent’anni ed oltre di militanza mi hanno sfiancato, se il futuro del PD deve essere un ridicolo congresso, che parte dai circoli e dai territori, rianimati artificialmente per produrre pochi segnali di vita e qualche decina di voti per approvare una mozione, preferisco seguire il caro amico Dario, mi trovo un’oasi e aspetto il tramonto tra le dune, disquisendo di gnoseologia con il cammello

giovedì 28 giugno 2018


LA RAGAZZA DAL CUORE D'ACCIAIO
(Leather Maiden, 2007)
Joe R. Landsdale

La vita è un colabrodo. Il segreto sta nel cercare di vive-re tra un buco e l'altro.
Jerzy Fitzgerald

Gli antefatti

1

Quando cresci in un posto, soprattutto se la tua è una bella infanzia, non ti accorgi di un sacco di brutte cose che si trascinano sotto la superficie e che si contorcono come vermi su un pezzo di carne marcia. Però ci sono. A volte, devi scavare in profondità per scoprirle, oppure devi girare la testa dalla parte giusta per vederle. Ma ci sono, puoi starne certo, e ti sfilano accanto, strisciando. E quello che striscia può includere ricatti, mutilazioni e omicidi. E posso garantirvi che è vero.
Ma il giorno in cui feci ritorno in paese, non notai alcuna traccia di niente che si agitasse sotto la superficie o di qualunque altra cosa che, a eccezione della mia testa, desse la sensazione di essere fortemente agitata. Ero reduce da una sbornia terribile ed era come se qualcuno avesse preso la mia testa in prestito per giocarci a bowling. Mentre attraversavo Camp Rapture, dopo aver superato i binari della ferrovia e la fabbrica di cibo per cani, mi dissi che non avrei mai più toccato una goccia di alcol. Mi ripetevo la stessa cosa ogni volta che mangiavo troppo e mi faceva male lo stomaco. Mai più.
Era una bellissima giornata. La luce del sole si riversava sul marciapiede e sui giardini come un tuorlo d'uovo rotto, soffocando l'erba con il suo tripudio di calore: tutto era caldo e rigoglioso, persino le case dei quartieri più poveri del paese, dalle quali si stavano scrostando i vetusti rivestimenti di vernice bianca come cute ustionata dal sole.
Procedetti strabuzzando gli occhi per proteggermi parzialmente dalla luce estiva, e oltrepassai lentamente l'ambulatorio veterinario di Gabby, cercando di non voltarmi troppo a guardare. Finalmente giunsi di fronte al Camp Rapture Report, scesi, mi fermai accanto alla mia vecchia macchina e diedi un'occhiata intorno, nella speranza che magari stavolta le cose potessero migliorare. Ero uno di quei tipi sempre pieni di speranze.
La sera prima mi ero messo in viaggio in macchina da Houston, dopo aver lasciato Hootie Hoot, Oklahoma, e il mio amico pazzo della guerra in Iraq, Booger, ma ero approdato solo a un bar e, di lì, a un motel di periferia, dove bevvi fino al torpore davanti alla televisione, guardando non so bene cosa. Per quel che me ne fregava, si sarebbe potuto tranquillamente trattare di un programma sul modo di riparare un trattore o su come farsi una lobotomia.
A ogni buon conto, l'indomani mattina, giovedì, mi svegliai con la sensazione che mi fosse morto qualcosa in bocca e qualcos'altro mi si fosse arrampicato su per il culo. Mi feci una doccia e mi lavai i denti per liberarmi di quella sensazione e mi avviai verso l'ultimo colloquio di lavoro in programma, in vista di una possibile assunzione al Camp Rapture Report.
Fermo accanto alla macchina, dopo essermi infilato la giacca sportiva, tutto sudato, a causa della calura estiva, come uno scimmione con un maglione di lana, inspirai una bella boccata d'aria. Era satura della fragranza dei pini situati sull'altra parte della strada statale, e dell'aroma degli hamburger del McDonald's adiacente. Verificai che la cerniera dei pantaloni fosse chiusa, dopodiché controllai le suole, nel caso avessi pestato qualche cacca di cane, poi mi avviai lungo il marciapiede e procedetti oltre le aiuole fiorite, infestate dalle api: il forte odore mi irritò lo stomaco. Entrai.
La sede del Report era sostanzialmente uno stanzone pieno di scrivanie, in buona parte vuote. Solo tre erano occupate. Su un lato, si aprivano porte a vetro che immettevano in alcune stanze dalle grandi vetrate, attraverso le quali si vedevano le persone al lavoro, poi c'erano diverse cataste di casse, e dio solo sa cosa potessero contenere.
Il Report era alquanto demodé. Sembrava uno di quei posti in cui i giornalisti devono indossare dei cappelli di feltro e le giornaliste masticare chewing-gum e chiacchierare vivacemente, muovendo le labbra su cui si sono date del rossetto vermiglio.
All'accettazione, venni accolto da una giovane signora bionda che sarebbe apparsa bella se solo avesse aggiornato l'acconciatura al ventesimo secolo, anche se sarebbe stato sufficiente persino la prima metà del secolo. Mi diede un'occhiata e mi sorrise, mostrandomi un bell'apparecchio. Doveva avere intorno ai venticinque anni, magari qualcuno in più, avvicinandosi forse alla mia età, ma l'apparecchio e i capelli, troppo corti e dal taglio scalato, oltre a una bella quantità di lentiggini sulle gote arrossate, le davano un'aria da studentessa sexy degli anni Cinquanta.
«Signor Statler» disse. «Come sta?»
«Si ricorda di me?»
«Andavamo a scuola insieme.»
«Davvero?»
«Io ero un anno indietro. Però mi ricordo di lei. Faceva parte del club di giornalismo e scriveva per il periodico delle scuole superiori. Se non sbaglio, si occupava di scacchi.»
«A dir la verità, ho scritto solo un articolo.»
«Allora deve essere stato quello che ho letto io... Lei non si ricorda di me, vero?»
«Già, non mi ricordo. Ma, se è per quello, non ricordo un sacco di gente...»
«In effetti, mi ha vista anche quando è venuto a sostenere il primo colloquio.»
«Ora sì che mi sento un idiota.»
«Non si preoccupi, lavoravo nel retro. Ero un fattorino. Lei mi ha visto solo di sfuggita. L'ho salutata con la mano perché mi sono ricordata di lei. I miei capelli avevano sfumature rosse.»
«Capisco. Spero di aver risposto al saluto.»
«Lo ha fatto. Ora non lavoro più nel retro. Ma questo l'aveva intuito, vero?»
«Già, quello lo avevo capito.»
«Ho ottenuto una promozione all'accettazione. Non è come fare la giornalista, ma è sempre meglio di preparare caffè, svuotare pattumiere e stasare cessi. Una volta ho dato la caccia a un bacherozzo che si era infilato nell'ufficio pubblicità. È stato un giorno memorabile. Credo di aver avuto realmente paura.»
«Se non ho capito male, vuole fare la reporter...»
«Esatto. Se ci fosse più giustizia al mondo, già dovrei esserlo. L'hanno assunta per tenere una rubrica, giusto?»
«Non mi hanno ancora assunto.»
«Be', mi sento di essere ottimista in proposito. La signora Timpson la sta aspettando» disse.
«Sono leggermente in anticipo.»
«Non c'è certo la coda per andare da lei, signor Statler.»
«Chiamami Cason.»
«E io sono Belinda. Belinda Hickman.»
Mi tese la mano e gliela strinsi. In effetti era proprio una bella ragazza, con uno stile tutto suo.
«Da che parte?» chiesi.
Mi indicò delle cataste di casse e mi diresse da quella parte, dicendomi che avrebbe avvertito la signora Timpson del mio arrivo.
«Consigli?» domandai.
«Tieni mani e piedi dalla parte della scrivania riservata agli ospiti, non fare movimenti bruschi e non cercare di stabilire un contatto oculare diretto.»

2

Girai intorno a una catasta di scatoloni e a un paio di sedie e mi infilai nella zona buia dell'accettazione, illuminata da una luce posta dietro il vetro smerigliato di una porta che esibiva l'intestazione SIGNORA TIMPSON, DIRETTORE, stampigliata a caratteri neri.
Bussai delicatamente, e una voce praticamente simile a un urlo mi disse di entrare.
La signora Timpson era seduta alla scrivania, dalla quale si era allontanata senza alzarsi dalla poltrona, e mi stava studiando attentamente. Il suo sguardo mi fece capire che i suoi occhi avrebbero potuto fulminarmi come dei raggi laser. I capelli erano eccessivamente rossi sui lati ed eccessivamente rosa nei punti in cui erano radi; le labbra sembravano bietole secche e la faccia era solcata da profonde rughe incrostate di una cipria dozzinale, un po' come la sabbia sul volto della Sfinge. I seni le poggiavano comodamente sulle gambe: era come se fossero passati a miglior vita di recente e lei non avesse avuto il tempo di dar loro sepoltura. Sembrava avere un'età compresa tra gli ottanta anni e qualcosa di vicino all'epoca della scoperta del fuoco.
«Si sieda» mi intimò, con un bel movimento di denti finti, come se stessero cercando di trovare una via di fuga.
Presi l'unica sedia disponibile e mi ci sedetti composto, sobbarcandomi tutta la trafila del buon portamento, poi sorrisi e cercai di sembrare il più intelligente possibile, cercando scrollarmi di dosso i postumi di una sbronza a base di Jim Beam e di un quantitativo decisamente eccessivo di birre ghiacciate.
«Si direbbe che lei abbia bevuto» osservò.
«Ieri sera. A una festa.»
«Mi hanno detto che lei ha problemi di alcol.»
«E chi le avrebbe detto una cosa del genere?»
«Il padrone del Fat Billy's Saloon. È mio marito. Sa, quella stamberga ai margini del paese...»
«Ah! Già... Voglio dire... no, non è un problema. Ho bevuto, però non sono un ubriacone.»
«Mi era parso di capire che fosse una festa.»
«Già, una festa per una sola persona. Non si tratta di un'abitudine, mi sono solo sbronzato un po'.»
«Direi più di un po'.»
«Lei ha un bar e dunque sa bene come vanno le cose. Di quando in quando, si finisce per bere più del dovuto.»
«Il bar è di mio marito» replicò, bloccando i denti con il labbro superiore, visto che si erano spostati un po' troppo avanti. «Siamo separati da vent'anni. Semplicemente, non ci siamo mai decisi a divorziare. Andiamo molto d'accordo, fintanto che non viviamo insieme o ci vediamo troppo spesso o comunichiamo in qualche modo. Però, mi ha telefonato e mi ha parlato di lei. Naturalmente, la conosceva e sapeva del suo interesse per un lavoro al giornale. Mi ha detto che, tra un bicchiere e l'altro, lei glielo aveva lasciato intendere diverse volte.»
«Forse ero un po' nervoso.»
«E mi ha riferito che un tempo lei giocava a football.»
«Sì, signora, ero il quarter back dei Bull Dogs.»
«Ho dato una controllata: ha perso buona parte delle partite, giusto?»
«È vero. Ma ho fatto anche qualche bel lancio. Credo di detenere il record della scuola.»
«No. Il figlio dei Johnson lo ha battuto due anni fa. Com'è che si chiama? Cazzo. Non mi viene in mente. Però l'ha battuto. E per giunta è un ragazzo di colore.»
Pensai tra me: Di colore? Un'espressione che non usavo da un bel po' di tempo.
«Glielo assicuro, non sono un ubriacone.»
«Uno che beve fino a sbronzarsi è un ubriacone. Uno che viene al lavoro con i postumi di una sbronza è un ubriacone.»
Annuii. «Non si ripeterà.»
Ruotò sulla poltrona e mi scrutò da un'altra angolatura. «Il primo colloquio l'ha sostenuto con Sofia, la mia assistente, ed è andato bene.»
«Grazie.»
«Tanto perché lo sappia, l'ho licenziata la settimana scorsa. Si prendeva troppe pause per occuparsi del figlio. A me i bambini non piacciono e non mi piacciono le pause in eccesso. Le ho detto che, se non le stava bene, poteva farmi causa. Non deve starsene sempre seduto dietro una scrivania, signor Statler, però mi piace pensare che stia lavorando e che il suo tempo sia il mio tempo e che il mio tempo sia solo mio. Lo sa che questo lavoro non è molto remunerativo?»
«È un inizio. Posso puntare in alto.»
«Dannazione, ragazzo mio, è già quasi sul tetto. Purtroppo lei viene da un posto altissimo, un grattacielo. Aveva un lavoro a Houston e ha ricevuto una nomination per il Pulitzer. Cosa riguardava? Un omicidio?»
«Esatto. Quella nomination è stata una bella fortuna.»
«Era quello che stavo pensando anch'io. Tuttavia, lei a Houston non è durato. Qualche problema, immagino.»
«Sono tornato qui per un po', e dopo mi sono arruolato.»
«Già, ma è il motivo per cui lei è tornato che mi interessa.»
«Qui ci abitano i miei genitori.»
«E allora? Che mi dice della ragazza con cui usciva qui. Una certa Gabby... E non faccia il sorpreso. Tengo il naso attaccato al terreno e gli occhi bene aperti - il che, potrei aggiungere, funziona solo a una certa distanza - e le orecchie dritte. In questo paesino non succede granché a mia insaputa.»
«Se per lei è così importante, non ho nessun problema a tirare nuovamente in ballo certe cose.»
«Non lo è. Sono curiosa, ecco tutto. Dunque, è andato a Houston, ha lavorato per un quotidiano importante, si è guadagnato una nomination al Pulitzer e, d'un tratto, ha mollato tutto, è venuto qui per viversi una bella storia d'amore con una ragazza, poi l'ha piantata e se n'è andato in Afghanistan. Che cosa può averla spinta a mollare improvvisamente quel lavoro a Houston? Che problema ha avuto?»
«Non andavo d'accordo con il mio capo.»
«Perché lei beveva?»
«No, signora.»
«Sa bene che posso telefonargli e chiederglielo.»
«Sì, signora, ma si tratta di una faccenda strettamente personale. Lo chiami pure. Non credo che abbia molto da dire sul bere, però, qualunque cosa dica, dubito che pronunci una sola parola buona, nonostante siano passati diversi anni. Non gli sto simpatico. Non ci sono dubbi in proposito. Di nuovo... si tratta di una faccenda personale.»
«Personale quanto?»
«Strettamente personale.»
«Con me può parlare chiaro.»
«Davvero?»
«Ci può scommettere. Niente che lei possa dire mi imbarazzerà o turberà.»
«D'accordo. Mi scopavo sua moglie.»
«E pure la sua figliastra.» Espirò e arricciò le labbra color bietola. «Non sono sicura di quanto sia personale. Immagino che per la moglie fosse molto personale.»
«Era così che lei la vedeva. Quanto alla figlia, be'... aveva trent'anni. La moglie quarantotto.»
«Niente adolescenti coinvolte?»
«No, signora.»
«E immagino che i suoi distinguo non valgano per il cane di casa...»
«No, signora. Bisogna stabilire un confine...»
«Non me ne può fregare di meno dove infila il pisellino fintanto che fa il suo lavoro. E non le venga in mente di abbassarsi la cerniera lampo e di calarsi le brache in pubblico. Quanto al bere, quello non lo tollererò. Neanche i fumatori mi piacciono. Il fumo, il bisogno costante di una sigaretta, condiziona il lavoro.»
«Non fumo.»
«Bene.» Serrò i denti finti, mi studiò come se stesse decidendo se lasciarmi in vita oppure farmi scomparire da una botola nel pavimento. In effetti, a pensarci bene, mi fece venire in mente uno dei cattivi della serie di James Bond.
«Vorrei inoltre aggiungere che mi sento più saggio, adesso» proclamai. «E che ho bisogno di questo lavoro.»
Una cosa idiota da dire, ma mi venne fuori senza accorgermene.
«Niente suppliche. Sono un segno di debolezza. Ne ha bisogno o lo vuole?»
«Prego?»
«Il lavoro. Ne ha bisogno o lo vuole?»
«Entrambe le cose.»
«Quelle due donne, quella di trenta e quella di quarantotto... Lei che età aveva allora?»
«Ero giovane. Poco più che ventenne.»
«E ora ha grosso modo trent'anni, giusto?»
«Sì, signora.»
«E pensa di essere un gran playboy, vero, ragazzo mio?»
«Lo pensavo allora. Adesso mi sento un idiota.»
Rimasi seduto dov'ero e feci il possibile per sembrare un uomo che avesse appreso la lezione, in attesa solo della sua grande occasione. E, in effetti, le cose stavano sostanzialmente così.
La signora Timpson arricciò nuovamente le labbra color bietola. Sembrava un vulcano furente pronto a eruttare. «Mi chiamo Margot Timpson.»
«Lo so, signora.»
«Lo so che lo sa. Stia zitto e mi ascolti. Lei mi chiamerà signora Timpson. Vada lì fuori da Beverly, la ragazza dell'accettazione, e si faccia...»
«Ci siamo conosciuti. Credo si chiami Belinda.»
«Si faccia indicare la sua scrivania. Lavorare in un giornale è un po' come andare in bicicletta o fare sesso, immagino. Fatto una volta, non dovrebbe avere problemi a rifarlo. Ma le può sempre capitare di cadere da una dannatissima bicicletta e di non riuscire a venire fuori in tempo, sul più bello. Pertanto, l'esperienza non è tutto. Usi anche un po' di buonsenso.»
«Lo farò.»
«Lo spero. Qui di roba per assicurarsi il Pulitzer non ce n'è molta da scrivere. L'ultima cosa che abbiamo avuto sul giornale il mese scorso, a parte le notizie internazionali, l'ultima cosa che fosse anche vagamente stimolante è stata la storia di un procione con la rabbia trovato la scorsa settimana al centro di giardinaggio del Wal-Mart. Si è messo a correre dietro a un magazziniere e l'hanno dovuto abbattere.»
«Il magazziniere o il procione?»
«Il solito senso dell'umorismo, vero?»
«Proprio così, signora. Le prometto che non avrà seguito.»
«Felice di sentirglielo dire.» Strinse gli occhi e restò immobile per un po'. Per un istante pensai che fosse passata a miglior vita. Poi i suoi occhi furono percorsi da un lampo. «Le affido la responsabilità di una rubrica. Era quello che voleva, giusto?»
«Sì, signora.»
«Forse era una puzzola...»
«Prego?»
«L'animale del Wal-Mart. Ora che ci penso, era una puzzola, non un procione.»
«Capisco.»
«Si pettina sempre in quel modo oppure le è morto il barbiere?»
Caspita, questa non l'avevo mai sentita.
«Da quando non sono più militare, li lascio crescere. Credo che me li taglierò.»
«Bene. Ci rifletta. Sulla sua rubrica. Una rubrica che va sull'edizione domenicale. Sarà quasi sempre in giro, però avrà una scrivania. Tuttavia, si presenterà a rapporto da me regolarmente. Come le ho detto, mi va di pensare che lei stia lavorando anche quando non è così. Intesi?»
«Sì, signora.»
Restammo seduti per un po' a studiarci. Io con il mio sguardo appannato da ubriaco e lei con i suoi occhi umidi e grigi. Tuttavia, lei era l'aquila e io il topolino, e avvertii il desiderio di cercare un buco in cui rintanarmi immediatamente.
«Bene,» disse «sa qual è la nostra paga, sa anche battere a macchina e sa come funziona un giornale, anche se questo magari funziona in maniera leggermente diversa, dato che è vecchio come me. L'ho fondato io, sa?»
«Non lo sapevo.»
«Ora lo sa. Prenda contatto con l'ambiente, oggi. Vada a casa quando le pare. Domattina, alle nove in punto, la getteremo nel fuoco.»
Mi alzai, sorrisi e protesi la mia mano per stringere la sua. Lei mi salutò con un cenno di scarsa considerazione.
Mi avviai verso la porta.
«Varnell Johnson» disse.
Mi girai. «Prego?»
«Si chiamava così quel ragazzo di colore.»
«Non capisco...»
«Quello che ha battuto il suo record. Lanciava come una catapulta e correva come un dannato cerbiatto.»

3

Quando uscii dall'ufficio della Timpson, uno dei giornalisti seduto a una delle poche scrivanie occupate, un nero sulla ventina che indossava una camicia giallo canarino con le maniche rimboccate, mi fece cenno di avvicinarmi. Un po' come il presidente che convoca un lacchè; mi avviai comunque verso di lui, avvicinandomi alla sua scrivania mentre lui si alzava in piedi e spostava la sedia. Era piccolo e largo di spalle, i capelli corti con una riga netta nel mezzo. Gli tesi la mano e lui me la strinse. Aveva, una di quelle strette di mano risolute, non tanto intense, ma forti, come se fosse più una competizione che un saluto. Mi mostrò un po' di denti.
«Cason Statler» dissi.
«Lo so. Io sono Oswald, come il tizio che ha sparato a Kennedy.»
«Nessuna parentela?»
«Non che io sappia, a meno che qualcuno abbia saltato la staccionata razziale.»
«È un nome o un cognome?»
«Tutti e due.»
«Conosco un tipo che ha un nome solo. Lo chiamano tutti Booger.»
«Booger, come caccola. Perché? Se le mangia?»
«No. Piuttosto, come Wooly Booger, la tipica larva usata come esca. Sai, roba che fa paura...»
«Ah!»
«È così che ti firmi? Solo Oswald?»
«Niente Solo. Oswald e basta.»
«Felice di conoscerti, Oswald.»
«Scopriremo più tardi quanto sia felice il nostro incontro.»
Non ero tanto sicuro di cosa volesse dire, così decisi che non c'era nulla nel nostro storico incontro da richiedere altre parole, e dunque lasciai perdere.
«Com'è andata là dentro?» chiese.
«Faccio parte della squadra.»
«Oh, ma qui non ci sono giocatori di squadra. In buona sostanza, ciascuno pensa a sé stesso. Prendimi sulla parola. Chinati in avanti e percepirai subito un corpo estraneo. Stammi a sentire, so che la Timpson sembra vecchia e scontrosa e fuori dal mondo, ma voglio che tu lo sappia, quella non è solo l'immagine che trasmette - lei è proprio fatta così.»
«Abbiamo avuto una conversazione particolarmente succosa a proposito della gente di colore.»
Mi sorrise e stavolta parve sincero. «Benvenuto nel 1959.»
«A dir la verità, io sono di queste parti e questo posto lo collocherei piuttosto intorno alla fine degli anni Settanta. Pertanto, smettila di infangarlo.»
Oswald si produsse in un risolino. Eccomi qua. Il signor Cordialone. Avrei potuto ammorbidire praticamente chiunque. Con Booger non c'ero riuscito, però almeno non mi aveva ammazzato.
«Ti prenderò in parola» disse Oswald. «Mi sono trasferito qui solo un anno fa.»
«Perché?»
«Me lo domando tutti i giorni. Ma la gente non fa altro che dirmi quant'era bello ai vecchi tempi. Probabilmente non tanto bello per i neri, però.»
«Non saprei. Non ti piacerebbe tornartene a casa in una baracca sul retro della piantagione di un uomo bianco e cantare spiritual dopo una dura giornata trascorsa a raccogliere cotone? Rilassarti, facendoti passare il dolore per le frustate prese?»
Quest'ultima frase gli strappò un sorrisino. «L'unica cosa che abbia mai raccolto sono le caccole del mio naso. Mi hanno detto che sei stato nell'esercito...»
«È passato un bel po' di tempo. Ho avuto un incidente e mi hanno dovuto congedare.»
«Mi sembri a posto, adesso.»
«Sono guarito del tutto.»
«Mi hanno detto che ti sei guadagnato delle medaglie.»
«Sai un bel po' di cose sul mio conto.»
«Abbiamo letto tutti il tuo curriculum.»
«Non dovrebbe essere privato?»
«È quello che pensi tu. Ma qualche medaglia te l'hanno data, giusto?»
«Quel giorno le regalavano a tutti.»
Mi mostrò qualche dente. «Laggiù c'ero anch'io. In Iraq. Però mi hanno rimandato a casa e non mi hanno richiamato. Pensavo che prima o poi sarebbe successo, e invece così non è stato. Ho ancora paura di ricevere la chiamata. Adesso prendono chiunque, purché respiri. A ogni buon conto, di medaglie non me ne hanno date.»
«Non è quella gran cosa...»
«Proprio come la penso io.»
«Ci si vede, Oswald.»
«Ci si vede» disse.
Osservai Belinda mettere giù il telefono, e nel preciso istante in cui mi allontanai dalla scrivania, si alzò dalla sua e mi intercettò.
«Era la signora Timpson. Mi ha detto di farti vedere la tua scrivania.»
«Grazie.»
Mi fece strada e io fui sufficientemente sfacciato da osservare il suo incedere e decidere che era davvero una gran bella donna, un po' fuori moda per acconciatura e trucco, ma ben vestita. E comunque, mi piaceva come portava la camicetta: attillata al punto da far sembrare il mondo un posto felice, quanto meno per qualche istante.
«Eccoci» disse.
«Be', è decisamente una scrivania.»
«Esatto.»
Somigliava alla scrivania di chiunque altro. C'era sopra un computer e una serie di cassetti. Li aprii. Quelli sui lati erano vuoti. In quello centrale c'erano matite e penne e graffette e un pacchetto aperto di chewing-gum. Presi un confetto, lo scartai e me lo infilai in bocca. Fu come cercare di masticare un cerotto.
Belinda mi mostrò l'apparecchio per i denti. «Buono, eh?»
Tirai fuori il chewing-gum dalla bocca, lo avvolsi nell'incarto e lo lasciai cadere nel cestino. «Non tanto.»
«È lì dal giorno in cui sono state inventate le gomme da masticare.»
«Non ho dubbi.»
«Allora, come ti pare la nostra intrepida direttrice?» chiese Belinda.
«Molto pittoresca.»
Belinda mi rivolse il suo smagliante sorriso metallico. «Non la definiscono in questo modo quelli che lavorano qui.»
«Davvero?»
«Già.» Si guardò alle spalle, in direzione di Oswald, già seduto sulla poltrona dietro la scrivania. «Che mi dici dell'assassino di John F. Kennedy?»
«Non riesco a stabilire se è solo stizzoso oppure se è uno stronzo.»
Sorrise. «A dir la verità, Cason, è uno stronzo stizzoso.»

Mi feci un giro e conobbi qualcuno dei giornalisti e i tizi dell'ufficio pubblicità; venni a sapere che molti altri erano fuori per lavoro e che li avrei incontrati più tardi. Promisi ad alcuni che sarei uscito a pranzo con loro, poi andai alla mia scrivania e mi ci sedetti per un po' a rigirarmi la penna tra le dita.
Non era bella come quella che mi avevano dato a Houston. Se per quello, nemmeno il giornale era all'altezza di quello di Houston. Per giunta, la penna era di qualità scadente. Ma ero lì. Ero stato io a mandare tutto a puttane e ridurmi in quello stato. Persino dopo essermene andato da Houston avevo avuto la mia grande occasione. Ero tornato a casa e avevo incontrato Gabby. Ma anche in quel caso avevo rovinato tutto e mi ero fatto spedire in Iraq. Avevo perso il lavoro. La mia candidatura al Pulitzer era ormai acqua passata e la mia ragazza faceva la veterinaria, cosa che aveva sempre desiderato.
Quanto a me, ero un ubriacone, e in quello ci sapevo fare, se mi ci mettevo di impegno.
Me l'ero andata a cercare.
Ero pronto a organizzare una bella festicciola privata di autocommiserazione, quando Oswald, lo stronzo stizzoso, venne da me. E dire che avevo sperato di non dover più avere a che fare con lui per quel giorno. Non ero stato tanto fortunato.
«Mi ha appena chiamato la Timpson» disse. «Vuole che ti aiuti ad ambientarti.»
«Sono tutto tuo.»
«Bene. Francine, la precedente editorialista, aveva alcune idee nel cassetto e la Timpson ha pensato che forse ti andrebbe di darci un'occhiata, magari scovandoci uno spunto per metterti subito al lavoro, fintanto che non ti venga in mente qualcosa di tuo. Non sei tenuto a utilizzarle, ma lei ha detto di vedere se per caso c'era qualcosa in grado di destare la tua attenzione... E dire che speravo di ottenerlo io quel lavoro.»
«Iniziavo a sospettarlo.»
«E invece no! La signora Timpson voleva qualcun altro. Qualcuno esterno alla redazione, come se io fossi nato sotto la scrivania di questo ufficio e non stessi in una stalla a spalare merda da quasi un anno con il badile del mio padrone.»
«Caspita!» esclamai. «Un vero poeta...»
«E invece no, lei voleva qualcuno con un valore aggiunto. Qualcuno che in passato, un passato molto lontano, avesse ricevuto una candidatura al Pulitzer...»
«Che poi sarei io...»
«Che poi saresti tu. Secondo lei, sarebbe stato carino avere un candidato al Pulitzer.»
«Se può essere una consolazione, una candidatura è una bella seccatura.»
«No. Non è una consolazione. Sono abituato a prenderlo nel culo.»
«Non devi pensare che questa faccenda sia collegata a questioni razziali, perché, se la pensi così, voglio che tu sappia, e te lo dico in maniera cortese e dal profondo dell'anima, che sei un grandissimo stronzo.»
Oswald si mise a sedere sul bordo della mia scrivania. «Non lo penso. Sono solo una di quelle persone nate per prenderlo nel culo e per esserne risentiti. Naturalmente, con un timido e simpatico senso dell'umorismo.»
«Non ci credi sul serio, vero?»
«Che sono risentito oppure che ho un simpatico senso dell'umorismo?»
«Mi riferivo al fatto di essere nato per prenderlo nel culo.»
Oswald annuì. «Non si può fare niente per cambiare il mio destino. C'è chi nasce con un bersaglio appiccicato al culo. Nel mezzo del bersaglio, disegnata proprio nel centro, c'è una fessura con la scritta: inserire uccello.»
«Quando attraversi la strada, controlli da tutte e due le parti?»
«Cosa vorresti dire?»
«Hai detto che credi nel destino.»
«Eccolo che arriva...» disse Oswald.
«Lo puoi dire se guardi da entrambe le parti... Sì o no?»
«Certo.»
«Allora credi anche che il tuo destino dipenda, almeno in parte, da te, altrimenti non avresti paura di finire appiccicato al cofano di una macchina, a farle da ornamento. Vorrebbe dire che tutto è stabilito in principio. Pertanto, ti consiglio di staccarti il bersaglio che hai appiccicato al culo.»
Dargli quel consiglio mi parve un paradosso visto che, come Oswald, anch'io avevo la sensazione di portarmi appresso uno di quei bersagli. Era quello il mio guaio. Ero in grado di ragionare quando si parlava del prossimo, ma quando veniva il mio turno, non occupavo una posizione particolarmente alta nella scala della saggezza.
«Hai ragione» disse Oswald. «Sono un grandissimo stronzo.»
«Stavolta non l'ho detto.»
«Però l'hai pensato. Ho visto quell'idea balenarti nei tuoi azzurri occhi ariani.»
«Ho anche una parte di sangue cherokee.»
«Non è quella la parte che sto scrutando.»
«Cambiamo argomento. Cos'è successo a Francine?»
«È stata licenziata, oppure è morta. Non ricordo esattamente. Voglio dire, è morta, ma non sono sicuro se prima è stata licenziata oppure se è stata licenziata perché è morta. La Timpson è molto severa. Non tollera praticamente nulla. Vedi di mandare tutto a puttane e io mi getterò sul tuo lavoro come le mosche sulla merda. Attenderò nell'ombra, pronto a scattare al momento opportuno, puoi esserne certo.»
Nonostante tutto, ero convinto che Oswald si sentisse più che ambizioso quasi predestinato. Pensava di essere più furbo e più capace di chiunque altro e, in quanto tale, di meritarsi il posto. Sotto sotto, l'aspirazione più grande era istruire il suo cane a leccargli le palle.
Tuttavia, non gli regalai quella perla di saggezza. Al contrario. «E dove li trovo questi spunti di Francine?»
Oswald diede un colpetto al mio computer. «In questa vecchia macchina del cazzo.»
«Santo Cielo! Non sapevo che avessi fatto studi classici...»
«Questo era latino.»
«Sono davvero impressionato.»
«Aspetta di sentirmi recitare Little Brown Jug. Roba da far venire giù il tetto.»
«Non avevo dubbi.»
«I codici e le informazioni sono su un taccuino nel cassetto della scrivania. Bene. Ho assolto il mio compito, ora mi rimetto al lavoro.»
Lo stronzo stizzoso se ne tornò alla sua scrivania.
Controllai nel cassetto e trovai il taccuino con le informazioni che mi servivano, poi mi misi all'opera. Buona parte della roba trovata negli appunti del computer di Francine era entusiasmante come contarsi i peli delle ascelle. C'erano forbite indagini sugli ingredienti della torta a base di barrette Snicker. Ingredienti principali: le barrette Snicker e burro a volontà. Fu una bella sorpresa scoprire che la ricetta non includesse un defibrillatore e i preparativi per un bel funerale. C'era qualcosa riguardo a decorazioni floreali e a smacchiatori in grado di eliminare sostanzialmente ogni cosa, persino da biancheria intima e fazzoletti di carta pieni di moccio. Nulla che mi rapisse realmente. Però perseverai.
Non avevo altro da fare in quel momento, e comunque volevo dare la sensazione di essere dannatamente grato per il lavoro ottenuto, non ero semplicemente pronto ad andarmene a casa e a cominciare a lavorare l'indomani.
Ovviamente, sarebbe stato difficile capire se la Timpson si sarebbe accorta del mio impegno, visto che il suo ufficio era dietro quelle casse e tutto il resto. Tuttavia, ebbi la sensazione che mi stesse osservando, magari attraverso qualche sistema di monitoraggio. Con ogni probabilità, quel sistema si chiamava Oswald.
E fu proprio in quel momento che mi capitò per le mani.
Mi investì immediatamente. Fu come se una mano appiccicaticcia mi avesse stretto la base del collo. Era il vecchio istinto da reporter che saltava fuori come un coniglio.
Un giallo vecchio di sei mesi.
Caroline Allison. Studentessa universitaria. Specializzanda in storia. Ventitré anni. Sparita dopo essere stata fino a tarda notte in un fast food della catena Taco Bell. Una settimana più tardi, la sua macchina era stata ritrovata ai margini del paese, nei pressi della vecchia stazione ferroviaria, non molto lontano dalla casa delle Siegel, sul fianco della collina. Un posto sinistro in cui scomparire.
La casa delle Siegel era stata un luogo leggendario per anni. Era appartenuta a due sorelle. Si narrava che negli anni Venti avessero fatto parte dell'alta società. Al tempo erano adolescenti. Poi era arrivata la Grande Depressione e la loro famiglia, alla caduta del mercato azionario, aveva perso tutti i soldi. Quando le due ragazze avevano raggiunto la cinquantina, i genitori erano morti e le due donne si erano ritrovate a corto di idee su cosa fare per sopravvivere. Ben presto, la gente iniziò a vederle frugare nei bidoni della spazzatura, e siccome non avrebbero accettato la carità, qualcuno prese a buttare cibo nei bidoni, in maniera che loro potessero trovarlo. Alla fine, le due donne vendettero la proprietà di famiglia e si trasferirono in un'altra casa, dove occuparono il piano superiore. Quando la casa prese fuoco e i pompieri accostarono una scala alla finestra, le due donne, ormai sulla sessantina, erano in vestaglia e non ne vollero sapere di uscire dalla finestra vestite in quel modo. Una vera signora non si comportava in quel modo. Una vera signora bruciava come uno stoppino di cotone. Morte per ustioni e pudicizia.
La vecchia casa, quella in cui erano vissute originariamente le due sorelle, era stata acquistata, ma nessuno vi aveva apportato modifiche. Rimase abbandonata a sé stessa, sulla sommità di una collina punteggiata di alberi, il cortile diventato un ammasso di erbacce probabilmente alte un metro. La casa era stata quasi del tutto inghiottita dai rampicanti, e nel complesso sembrava una macchia folta di vegetazione con un paio di occhi rettangolari di vetro. Mi ricordavo che durante il giorno, per come la casa era sistemata sulla sommità della collina, quelle finestre accoglievano i raggi del sole e riflettevano un gioco di luce su tutta la collina, come se fossero dei laser. Con mio fratello Jimmy ci andavamo a giocare da bambini e ci parcheggiavamo la macchina quando avevamo delle ragazze, molti anni prima. Girava voce che quel posto fosse infestato dagli spiriti. Di fantasmi lassù non ne vidi mai, però una volta, mentre cercavo di sfilare le mutandine di Mary Jane William, vidi tra le sue gambe, attraverso il finestrino della mia macchina, un topo di campagna, grosso più o meno come un opossum, sfrecciare tra la vegetazione intorno alla casa e sparire.
Caroline era stata lì, nei pressi di quella vecchia casa, insieme a qualcuno?
Ci era andata in camporella?
Le cose le erano sfuggite di mano?
Era stato qualcun altro a portare la macchina e a lasciarcela, per poi allontanarsi a piedi? Quel qualcuno aveva un complice? Il mio naso di reporter si agitò come un ratto che avesse fiutato del formaggio.
Feci scorrere le note di Francine sullo schermo del computer. Quello che Caroline aveva ordinato al fast food era stato ritrovato all'interno dell'automobile. Non era stato nemmeno toccato. Anche le scarpe erano state trovate lì. Avevano svolto delle ricerche nella vecchia stazione ferroviaria e nella vecchia casa. Avevano tagliato i rampicanti per verificare che il corpo non fosse stato nascosto lì sotto. Nulla di fatto.
Feci scorrere altri appunti.
C'erano delle informazioni su Caroline, sul suo passato. Era stata data in affidamento alla sua famiglia adottiva. Secondo le informazioni raccolte da Francine, aveva un'intelligenza vivida come un'esplosione di luce nucleare. In effetti, Francine aveva raccolto molte informazioni meticolose. Chissà che non avesse finito anche lei per annoiarsi a forza di torte a base di barrette Snicker e vasi di fiori, chissà che non si fosse accorta di avere per le mani qualcosa di interessante.
Nessuno era riuscito a farsi venire in mente un solo motivo per cui qualcuno potesse volerle fare del male. L'unica schermaglia con la legge l'aveva avuta quando si era rifiutata di pagare una multa della biblioteca, per via di un ritardo. Il libro in questione era E la luce riflessa dalle zanne dell'orso è scintillante di Jersey Fitzgerald.
Francine aveva scovato una ragazza che la conosceva bene, una certa Ronnie Fisher. Riferì che Caroline restituiva con un certo ritardo i film ai punti vendita Hastings e Blockbuster, e doveva ancora pagare un paio di multe alla polizia dell'università. Ronnie dichiarò di aver conosciuto Caroline al loro paese natale: erano state date in affidamento allo stesso genitore adottivo e si erano trasferite a Camp Rapture più o meno nello stesso periodo.
Mi misi comodo sulla poltrona e aspettai di capire se il reporter che era in me mi avrebbe detto di lasciar perdere, tanto non sarei approdato da nessuna parte.
Il reporter che era in me non si fece sentire e non mi disse di lasciar perdere. Non mollò la presa. Ero ancora convinto di avere una storia per le mani. Una studentessa universitaria scomparsa da sei mesi senza lasciare traccia. Un passato senza famiglia. O, quanto meno, un passato in una famiglia adottiva. Era andata all'università per avere una vita migliore, e poi era sparita senza lasciare una sola traccia.
C'era qualcosa di sinistro in quella vicenda, roba buona per un giornale. Forse ottima. E magari non solo per quel giornale scalcinato. E se avessi scritto una serie intera di articoli per il giornale sulla scomparsa, sull'illusione della sicurezza di una cittadina, per poi realizzare un articolo più ambizioso su quanto scritto nella mia rubrica, mettendoci dentro delle cose lasciate volutamente fuori dal giornale locale? Avrei potuto fare delle interviste interessanti a persone che la conoscevano, avrei potuto trovare qualche foto della macchina e del sacchetto della Taco Bell negli archivi, una fotografia della ragazza, e poi avrei potuto mandare il pezzo a qualche testata, come il Texas Monthly. Lì avevo dei contatti. La candidatura al Pulitzer continuava ad avere un certo peso. Come uno che avesse partecipato a un Super Bowl e non avesse agganciato la palla giusta, ma comunque aveva preso parte alla partita; allo stesso modo, continuavo a vantare qualche credito.
Se avessi lavorato bene, se avessi fatto in modo da farlo vedere alle persone giuste, forse sarebbe stato proprio quello che mi avrebbe consentito di fare il salto di qualità, proiettandomi in alto. C'ero già riuscito una volta, prima di lasciare che fosse il glande a ragionare al posto della testa. Avrei potuto farlo di nuovo, giusto?
Mi era stata offerta una nuova opportunità. Decisi di approfittarne.
Un'opportunità che per poco non mi uccise.

Quando uscii, le api erano ancora al lavoro, i fiori emanavano un aroma forte e la mia macchina continuava a essere vecchia e gli hamburger che friggevano al McDonald's mi misero lo stomaco in subbuglio. Ma ora avevo un lavoro, ed ero sicurissimo che le mie scarpe non fossero sporche di merda di cane e che la storia di Caroline Allison potesse essere uno scoop.
Pensai a Caroline Allison, poi tirai fuori il cellulare, chiamai mamma e papà, gli dissi che avevo ottenuto il lavoro, cosa di cui parvero doverosamente entusiasti. Avrei voluto chiamare qualcun altro, ma in realtà non conoscevo nessuno. Mio fratello e sua moglie, forse, però Jimmy era al lavoro, non lo vedevo da un po' e mi stavo preparando psicologicamente per quel momento.
E poi c'era Booger. Non so bene perché, ma pensai a lui. Stavo cercando di togliermelo di torno, di sbarazzarmi di tutte le vecchie amicizie della guerra. Ma sapevo che gli avrebbe fatto piacere sentire come era andata, anche se pensava che scrivere per un giornale fosse un tipo di lavoro strano per un adulto. Booger era convinto che l'uomo fosse stato piazzato sulla terra per stabilire se era un dominatore oppure uno schiavo e per mangiare carne, specialmente pollo fritto. Gli piacevano anche le donne, ma le donne venivano al terzo posto nel suo progetto commerciale e, comunque, in quello non c'era assolutamente niente di romantico. Una mera questione di servizi.
Non c'era nulla di paragonabile alla guerra per il suo potere di confonderti, di farti domandare da che parte stavi realmente e quanto eri umano. Ma per Booger la guerra era come scavare un fosso, solo che era decisamente più divertente. Tutti gli orrori che le giornate avevano in serbo per noi che ci trovavamo laggiù, non erano niente per Booger. Dormiva ogni notte come se il mondo non esistesse nemmeno, con le mani infilate tra le gambe a stringersi le palle. Aveva la coscienza di un bambolotto marziale in plastica. In un certo senso mi mancava, eppure era trascorso poco tempo dall'ultima volta in cui l'avevo visto e mi ero accomiatato da luì con l'intenzione di non rivederlo e di non parlarci mai più. Stavo iniziando a pensare che lui rappresentasse l'ennesima mia cattiva abitudine. Qualcosa di cui avrei dovuto sbarazzarmi, anche se non riuscivo a farne a meno.
In realtà, però, era Gabby che volevo chiamare. E non per parlare del mio lavoro. Volevo soltanto sentire la sua voce. Passai con l'auto accanto al suo ambulatorio. La sua macchina c'era, la stessa che aveva quando me n'ero andato in Afghanistan. Era tenuta bene, come tutte le sue cose. C'erano altre due macchine e un pick-up. Un bastandone nero era sistemato in una gabbia piazzata sul retro del pick-up e una donna, che dall'aspetto si sarebbe tranquillamente potuta guadagnare da vivere lottando con gli alligatori e insegnandogli a trainare un carro mentre recitava sonetti di Shakespeare, stava mettendo il guinzaglio al cane per farlo scendere.
Senza fermarmi, guardai attraverso lo specchietto laterale. La porta dell'ambulatorio si aprì e la lottatrice e il cane entrarono. Pensai di aver colto una vaga immagine di Gabby, ma la visione fu così fugace che non potei essere certo. Poteva trattarsi di un orso danzante oppure di un uomo nudo con un trombone in mano. Poteva trattarsi di chiunque.

mercoledì 27 giugno 2018



PAURA DEGLI IMMIGRATI

Irène Némirovsky. "Il signore delle anime". 
Il 18 maggio 1939 «Gringoire», «settimanale politico e letterario parigino», pubblica la prima puntata delle Échelles du Levant (titolo nella edizione italiana "Il signore delle anime") ultimo romanzo di Irène Némirovsky.  Gli «scali del Levante» sono le città e i porti commerciali del Medio Oriente, che da sempre fungono da cerniera tra l'Europa e l'Asia, crocevia di spezie, di seta, di miseria e di pogrom. Nel periodo tra le due guerre, quando l'immigrazione in Francia è più forte che mai per l'afflusso di profughi provenienti da tutta l'Europa orientale e dalla Spagna, gli «scali» diventano il simbolo di una infiltrazione demografica che scatena nuove forme di xenofobia, inoculando nel vecchio antisemitismo cristiano un più generale rifiuto del métèque, dell'immigrato. Questo termine si era affermato nella sua accezione spregiativa alla fine dell'Ottocento, sull'onda dello scandalo di Panama e dell'affare Dreyfus, e viene usato come sinonimo di straniero, apolide, ebreo. Il protagonista del Signore delle anime ne è un tipico esempio.
IL SIGNORE DELLE ANIME CAPITOLO 1.
«Ho bisogno di soldi!». «Le ho detto di no». Dario tentava invano di mantenere la calma. Quando si alterava, la voce gli diventava stridula.Gesticolava. Aveva la tipica fisionomia levantina: l'aria smaniosa e affamata dei lupi, quei lineamenti che non sono della gente di qui e che sembrano plasmati in fretta con mano febbrile.
«Lei presta soldi, lo so!» esclamò con rabbia. Tutti gli dicevano di no quando li pregava umilmente. Serviva un altro tono. Pazienza! Avrebbe saputo ricorrere di volta in volta all'astuzia e alle minacce. Non sarebbe indietreggiato di fronte a niente. Avrebbe mendicato o strappato con la forza i soldi alla vecchia usuraia. Sua moglie e il bambino appena nato avevano solo lui al mondo, Dario, che potesse sfamarli. La donna scrollò le spalle robuste. «Certo, faccio prestiti su pegno! Lei ha qualcosa da darmi in cambio?». Ah, così andava meglio! Aveva fatto bene a non perdere le speranze. A volte chi viene pregato risponde «no», ma il suo sguardo dice «sì». Insisti. Offrimi un servigio, un favore, una complicità. Non mi supplicare, è inutile. Compra. Ma che cosa poteva darle, lui? Non possedeva niente. Quella donna era la sua padrona di casa; da quattro mesi Dario aveva preso in affitto un alloggio libero al primo piano del villino che la vecchia aveva trasformato in una pensione familiare per esuli. «Chi non ha bisogno di soldi? Sono tempi duri» disse lei agitando il ventaglio. Indossava un vestito di tela rosa. Il suo viso largo e rubizzo era impassibile. «Che creatura orrenda!» pensò Dario. La donna fece per alzarsi. Lui si affrettò a fermarla. «No, aspetti! Non se ne vada!». Che cos'altro poteva dirle? Supplicarla? Inutile! Prometterle qualcosa? Inutile! Mercanteggiare? E come? Non ne era più capace. Alla scuola dell'Europa, lui, Dario Asfar, misero levantino cresciuto nei porti e nelle bettole, si era illuso di aver acquisito il senso del decoro e dell'onore. E adesso doveva dimenticare i quindici anni trascorsi in Francia, la cultura francese, il titolo di medico strappato con tanta fatica all'Occidente, non come un dono ricevuto dalla propria madre, ma come un pezzo di pane rubato a un'estranea. Inutili smancerie europee, che non gli avevano dato da mangiare! Lì a Nizza, nel 1920, a trentacinque anni, faceva la fame, e aveva le tasche vuote e le suole bucate come quando era ragazzo. Si disse con amarezza che quelle nuove armi - la dignità, l'orgoglio - lui non sapeva maneggiarle, e che doveva ricorrere alle preghiere e al baratto, alle vecchie e sperimentate abitudini. «Gli altri avanzano in branco, protetti, guidati» pensò. «Io sono solo. Vado a caccia da solo, per mia moglie e per mio figlio!». «Come faccio a campare, secondo lei?» esclamò. «Non mi conosce nessuno in questa città. Sono quattro mesi che vivo a Nizza. Ho affrontato sacrifici di ogni genere per stabilirmi qui.
A Parigi il successo era dietro la porta. Bastava aspettare». Mentiva. Voleva convincerla a tutti i costi. «A Nizza, invece, curo soltanto russi. Conosco soltanto esuli morti di fame. I francesi non mi chiamano.
Non si fidano. Colpa della mia faccia, del mio accento, che ne so...» disse, passandosi la mano sui capelli corvini, sulle guance brune e scarne, sulle palpebre orlate di lunghe ciglia femminili dietro le quali si intravedeva uno sguardo duro e inquieto. «La fiducia non può essere imposta, Marta Aleksandrovna. Lei è russa, lo sa che cosa significa vivere da emarginati. Io mi sono laureato in medicina in una università francese, conosco gli usi francesi e ho ottenuto la cittadinanza francese, eppure vengo trattato da straniero, e mi sento straniero.
Bisogna aspettare. Glielo ripeto: la fiducia non può essere imposta, occorre ispirarla, conquistarsela a poco a poco. Ma, nel frattempo, bisogna pur vivere. E' nel suo interesse aiutarmi, Marta Aleksandrovna.
Io sono suo inquilino. Le devo già degli arretrati. Mi caccerà via. E io sarò nei guai. Ma lei che cosa ci avrà guadagnato?». «Anche noi» sospirò la donna «siamo poveri esuli. I tempi sono duri, dottore... Che cosa posso fare io per lei? Niente». «Quando mia moglie tornerà a casa, lunedì, ancora debole, con un neonato, come farò a sfamarli, Marta Aleksandrovna? Dio li protegga! Che ne sarà di loro? Mi presti quattromila franchi, Marta Aleksandrovna, e mi chieda in cambio qualunque cosa». «Ma che garanzie può darmi, povero lei? Ha titoli di borsa?».
«No». «Gioielli?». «Niente. Non ho niente». «Tutti mi lasciano in pegno almeno un gioiello, dell'argenteria, una pelliccia. Lei non è un bambino, dottore, capirà che non posso distribuire denaro senza nessuna garanzia. Sono spiacente, mi creda. Non ero nata per questo mestiere, per prestare soldi a interesse. Sono la moglie del generale Mouravine, io, ma che c'è da fare quando le necessità della vita ti prendono qui?» disse portandosi le mani alla gola con un gesto che ai tempi della sua giovinezza, quando faceva l'attrice in provincia, aveva riscosso gli applausi del pubblico, il vecchio generale, in effetti, l'aveva sposata soltanto in esilio, dopo aver riconosciuto il figlio avuto da lei. La donna parve stringersi un invisibile monile intorno al collo bianco e grassoccio. «Eh, caro il mio dottore, siamo tutti quanti strozzati dalla miseria! Se lei sapesse che cos'è la mia vita!» disse, ricorrendo alla consueta tattica di chi, sollecitato a concedere un prestito, si piange addosso per meglio rifiutare. «Sgobbo come una serva. E mi tocca mantenere il generale, mio figlio e mia nuora. Vengono tutti a chiedere aiuto a me, ma io non posso contare sull'aiuto di nessuno». Prese il fazzoletto di cotone rosa infilato nella cintura e si asciugò gli angoli degli occhi. La sua faccia rossa dai tratti grossolani, sciupata dall'età, ma che nel disegno del naso sottile e aquilino e nel taglio delle palpebre conservava le vestigia di un'antica bellezza ormai in rovina, si coprì di lacrime. «Io non ho un cuore di pietra, dottore».
«Piange, ma mi caccerà di casa lo stesso» si disse Dario, disperato. Ogni suo pensiero dava la stura a un flusso di ricordi. Quando rimuginava: «Ci caccerà di qui. Dovremo andarcene. Non avremo più un tetto. Non sapremo dove rifugiarci», le scene che gli venivano in mente non erano frutto solo della sua immaginazione, ma generate dalla sua carne che aveva patito il freddo, dai suoi occhi arrossati per la stanchezza dopo una lunga notte trascorsa a vagabondare.
Più di una volta, non sapendo dove dormire, aveva errato senza meta per le strade, messo alla porta dagli albergatori. E sebbene tutto ciò gli fosse parso normale durante l'infanzia, l'adolescenza e i primi duri anni di studio, ora avrebbe preferito morire piuttosto che sottoporsi a una simile umiliazione. L'Europa l'aveva viziato, eccome! Guardò l'appartamento, i mobili.
Tre misere stanzette al primo piano della pensione familiare, il pavimento di piastrelle rosse coperto a malapena da logori tappeti; nel salotto due poltrone di velluto giallo, sbiadito dal sole, e nella camera matrimoniale un bel letto francese dove si dormiva così bene. Come gli piaceva tutto questo! Pensò che avrebbero piazzato la carrozzina del figlio sul balconcino: la brezza del mare, oltrepassando i tetti della rue de France, sarebbe arrivata fino a lui, e la mattina il piccolo avrebbe sentito le grida provenienti dal vicino mercato: «Sardine, belle sardine...». I suoi polmoni avrebbero respirato l'aria frizzante, e in seguito il bimbo avrebbe potuto giocare al sole. Bisognava restare là e ottenere un prestito da quella donna. Con un misto di angoscia, di rabbia e di speranza, Dario guardava ora le pareti, ora i mobili, ora il viso della moglie del generale. Stringeva le labbra convinto di assumere un'aria impassibile, ma il suo sguardo ansioso, eloquente e disperato lo tradiva. «Non mi rovini, Marta Aleksandrovna. Quattromila franchi... Li troverà quattromila franchi per me, vero? E per i tre mesi di pigione arretrata aspetterà. Non mi caccerà via. Pazienti un anno. In un anno posso fare grandi cose. Con quattromila franchi mi comprerò dei vestiti decenti.
Come faccio, conciato così, a varcare la soglia di un grande albergo? Chi mi lascerebbe entrare? Trasudo miseria... Parecchi concierge di Nizza, di Cannes, di Cimiez hanno promesso di mandarmi a chiamare se dovesse servire un medico. Ma guardi queste scarpe che imbarcano acqua, guardi questa giacca» disse mostrando la stoffa lisa che riluceva al sole. «Parlo nel suo interesse, Marta Aleksandrovna. Lei è una donna, sa riconoscere un carattere ardito, pieno di zelo e di buona volontà.
Quattromila franchi, Marta Aleksandrovna... Tremila! In nome di Dio!».
Lei scosse la testa. «No». Poi, a voce più bassa, ripeté: «No». Ma Dario non badava tanto a quel che diceva, bensì a come lo diceva: le parole non significavano niente, solo il tono contava... La vecchia aveva forse mormorato «no» con impa-zienza? L'aveva esclamato con rabbia? Se davvero il rifiuto fosse stato senza remissione, senza appello, si sarebbe messa a gridare e l'avrebbe cacciato via su due piedi. Quel «no», quell'inflessione più dolce, quelle lacrime, e al contempo lo sguardo duro dei suoi occhi glauchi, che diventava ancora più duro, ostinato e penetrante... Tutto ciò voleva dire che bisognava contrattare, e nessuna contrattazione doveva spaventarlo. Finché si trattava di mercanteggiare, discutere, com-prare o vendere, niente era perduto. «Marta Aleksandrovna,» disse Dario «c'è qualcosa che posso fare per lei? Sa quanto sono discreto e fidato. Ci pensi su. Mi sembra preoccupata, Marta Aleksandrovna, abbia fiducia in me...». «Dottore...» cominciò lei.
Tacque. Attraverso l'assito sottile giungevano fino a loro i rumori della pensione familiare; lì vivevano, litigavano, piange-vano e ridevano esuli che davano fondo ai loro ultimi , che si odiavano o si amavano. Echeggiarono voci, passi rapidi e spediti di ragazze, lo scalpiccio stanco e senza scopo di vecchi chiusi fra quattro mura tristi. Quanti intrighi fra quella gente!
Quanti drammi! La moglie del generale doveva essere al corrente di tutto... Aveva bisogno di lui. E lui non si sarebbe tirato indietro di fronte a niente. Provava quel panico interiore che dilaga nell'animo come un fiotto selvaggio.
Innanzitutto, vivere! Al diavolo gli scrupoli, le paure vigliacche! Innanzitutto, continuare a respirare, a nutrirsi, salvarsi la pelle, proteggere la moglie e l'amato figliolo! La donna emise un profondo sospiro. «Venga qui, dottore... Dottore, lei conosce mia nuora, Elinor, quell'ame-ricana che mio figlio ha voluto sposare? Dottore, le parlo da madre disperata... Sono ragazzi, hanno commesso una stupidaggine, una follia...». Gualcì il fazzoletto tra le mani e si asciugò la fronte e le labbra. Il sole, prima di tramontare, baluginò per un istante sui tetti e irruppe nella stanza. Era una delle prime belle giornate di una primavera burrascosa. La moglie del generale aveva molto caldo, ansimava un po' e sembrava più umana, piena di rabbia e di paura. «Mio figlio è un bambinone, dottore... Mia nuora, invece, mi dà l'idea di essere molto più navigata. Ma il fattaccio è successo. Finora non mi avevano detto niente... Dottore, noi non possiamo permetterci un'altra bocca da sfamare... Non ce la faccio più a reggere il peso di tutti quelli che si aggrappano a me aspettando il pane dalle mie mani. Un altro bambino...Impossibile, dottore».
CAPITOLO 2.
La moglie di Dario, Clara, era a letto, con accanto la culla del figlio, in una linda cameretta dell'ospedale Sainte-Marie. La finestra era socchiusa e una calda coperta le avvolgeva le gambe. Ogni volta che la suora le chiedeva come stava Clara si girava con gratitudine verso di lei, guardava sorridendo la cornetta bianca e rispondeva con timido orgoglio: «Come potrei star meglio? Non ho forse tutto quel che mi occorre?». Era sera. Stavano chiudendo le porte. Clara non vedeva Dario dal giorno prima, ma sperava ancora nel suo arrivo; le suore sapevano che era un medico e lo lasciavano entrare anche oltre l'orario di visita. A Clara spiaceva che Dario non avesse voluto farla stare in corsia. Lei non aveva mai avuto amiche. Non aveva mai legato con un'altra donna. Era schiva, guardinga... Tutto la riempiva di stupore, in quelle città straniere. Aveva imparato a fatica il francese. Adesso lo parlava, benché con un pessimo accento, ma continuava a vivere isolata. Quando era con Dario non aveva bisogno di nessuno; lì, in ospedale, il bambino avrebbe dovuto bastarle, eppure a volte le capitava di desiderare una presenza femminile al fianco. Sentiva le risate delle donne ricoverate in corsia... Che bello doveva essere far confronti tra il proprio figlio e quello delle altre mamme! Nessun bambino poteva essere più bello del suo, di suo figlio, del suo Daniel, né poppare così in fretta e con tanto vigore, né avere un corpicino così ben fatto, gambette così agili, manine così perfette. Ma Dario voleva per lei una camera singola, comoda, tranquilla, lussuosa. Caro Dario, come la viziava! Credeva forse di dargliela a bere? Lei sapeva quante difficoltà doveva affrontare. E intuiva la stanchezza che si celava nei suoi movimenti convulsi, nella sua voce, nel rapido gesticolare delle sue mani tremanti. Ma la nascita del bambino le colmava il cuore di pace. Non sapeva perché, eppure non si preoccupava più. Era troppo riconoscente a Dio per essere ancora preoccupata. A volte si sporgeva un po' dal letto e attirava a sé - più vicino, sempre più vicino - la culla, trattenendola con la mano. Non vedeva il bambino, ma lo sentiva respirare. Allora, dolorante com'era, si girava con precauzione su un fianco. Lasciava andare la culla e incrociava le braccia sul petto gonfio di latte, che a quell'ora montava come una marea, martellandola di pulsazioni simili a quelle della febbre. Era così minuta che i fianchi, il seno e le ginocchia magre sollevavano appena il lenzuolo. Il viso sembrava al contempo troppo giovane e troppo vecchio per la sua età: Clara aveva superato la trentina. Alcuni tratti - la fronte piccola e bombata, senza rughe, le palpebre intatte, il sorriso dai denti bianchi, regolari, magnifici, suo unico vero dono - le davano le sembianze di una bella ragazza, quasi di un'adolescente, ma qua e là fra i capelli crespi e trascurati cominciava a spuntare qualche ciocca grigia; i suoi occhi scuri erano tristi, avevano pianto, vegliato, scrutato la morte sul volto di persone care, atteso con speranza, guardato con coraggio; la bocca, nei momenti di riposo, tradiva spossatezza, ingenuità, sconforto. Usciti gli ultimi visitatori, cominciò l'andirivieni dei carrelli che si fermavano davanti a tutte le porte distribuendo pasti leggeri. Le puerpere che allattavano i figlioletti si preparavano alla poppata serale. I piccoli, appena svegliati, strillavano. La suora entrò nella camera di Clara, l'aiutò a sedersi sul letto e le porse il bambino. Era una donna robusta, dal viso ordinario, roseo e paffuto. Per qualche istante rimasero entrambe a osservare in silenzio il neonato che girava da una parte all'altra la testolina morbida e calda, piagnucolando alla ricerca del seno, ma il piccolo si acquietò presto, e le due donne sentirono il ciangottio confuso dei poppanti sazi, soddisfatti, che succhiano il latte e a poco a poco cadono nel sonno. Allora presero a chiacchierare sottovoce: «Suo marito non è venuto oggi?» chiese la suora. Aveva l'accento melodioso di Nizza. «No» rispose Clara un po' rattristata. Sapeva che Dario non si era dimenticato di lei. Chissà, forse non aveva i soldi per il tram... L'ospedale era piuttosto lontano dal centro della città. «E' un buon marito» disse la suora chinandosi sul bambino addormentato. Fece per prenderlo e posarlo sulla bilancia, ma il piccolo aprì subito gli occhi e agitò le manine. Clara lo strinse a sé. «Aspetti. Me lo lasci. Ha ancora fame». «Un buon marito e un buon padre» aggiunse la suora. «"Hanno tutto quel che occorre? C'è bisogno di qualcosa?" mi chiede tutti i giorni. Oh, la ama davvero... Ma basta adesso!» disse alzandosi e prendendo il bambino dalle braccia di Clara. Clara glielo lasciò portare via, ma solo dopo un movimento istintivo per tenerselo ancora stretto che fece sorridere la suora. «Gli dà troppo latte. Lo farà ammalare, questo bambino!». «Oh, no, signora!» disse Clara - non si era mai abituata a chiamare «sorella» la religiosa che la accudiva. «Ma sono felice di farlo mangiare a sazietà; il mio primo figlio è morto perché non avevo abbastanza latte per sfamarlo né soldi per comprarne». La suora scosse leggermente la testa, con un'espressione cordiale, compassionevole e sprezzante, che significava: «Non sei l'unica, sai, povera cara! Ne ho vista tanta, io, di miseria...». E a quel cenno del capo, a quello sguardo lanciato da sotto la cornetta, Clara si sentì come liberata dall'amarezza e da quella specie di vergogna che fa tutt'uno con la disgrazia. Non aveva mai parlato con nessuno del primo figlio. Allora, con voce rapida e sommessa, disse: «Prima della guerra, mio marito mi aveva lasciata sola a Parigi. Era andato nelle colonie francesi, sperando di trovare lavoro laggiù. I viaggi e le separazioni non ci fanno paura: siamo stranieri, noi. Mi aveva detto: "Parto, Clara. Qui moriamo di fame. Non ho i soldi per il tuo biglietto. Mi raggiungerai tra qualche tempo". La nave aveva appena preso il largo che io ho cominciato ad avvertire i primi malesseri e ho capito di essere incinta. Ero priva di mezzi. Persi anche il modesto impiego che mi consentiva di sopravvivere. In seguito mi hanno detto: "Doveva rivolgersi a questo e a quello...". Ma io non ne sapevo niente. Non conoscevo nessuno. Il bambino è morto, forse di fame» concluse abbassando gli occhi. Tormentava con gesti febbrili le frange di lana che bordavano il suo scialle. «Su, su, questo vivrà» disse la suora. «E' un bel bambino, vero?». «Certo». La suora infilò la mano sotto la coperta di Clara. «Ha i piedi gelati, ragazza mia. Le preparo una borsa d'acqua calda. Si copra bene. Dimentichi i giorni tristi. Suo marito è tornato e si prenderà cura di lei». «Oh!» esclamò Clara con un debole sorriso. «Ma io non sono più un'ochetta, sono vecchia ormai. E vivo in Francia da quindici anni. Ho smesso di avere paura. All'epoca mi sentivo sperduta, qui. Ero...». Tacque di colpo. A che scopo parlarne? Chi l'avrebbe capita? Con ogni probabilità la suora aveva assistito tante povere ragazze che avevano lasciato i loro paesini di provincia per fare la fame nelle strade di Nizza, ma Clara non poteva impedirsi di pensare che per lei era stato peggio; veniva da così lontano, e ogni pietra sembrava respingerla, ogni porta, ogni casa sembravano dirle: «Vattene! Torna fra i tuoi simili! Noi abbiamo già i nostri poveri da soccorrere, straniera!». La suora le piazzò la borsa dell'acqua calda sotto i piedi, le sorrise e si avviò alla porta. «Vado a prenderle la cena» disse già sulla soglia. «Ecco suo marito, cara!». Clara tese le braccia. «Dario! Finalmente!». Gli afferrò la mano e se la portò alla guancia, alle labbra. «Non speravo più di vederti stasera. Ma perché sei venuto? E' così tardi, e tu sei così stanco!» esclamò. Benché Dario non avesse detto niente, lei sapeva che era sfinito. Gli cinse la vita, lo abbracciò con tutte le sue forze e, quando lui si sedette sul letto, gli appoggiò la testa sulla spalla. «Stai bene? E il bambino sta bene? E' successo qualcosa? Qualcosa di brutto?». «No, niente, perché?». Parlavano un po' in francese, un po' in greco e un po' in russo, mescolando le tre lingue. Clara gli accarezzò le dita. «Perché, tesoro?». Dario non rispose. «Ti tremano le mani» disse lei. Ma non insistette. Continuò a tenergli le mani strette fra le sue, e a poco a poco il tremito si placò. «Stai bene?» ripeté Dario in tono ansioso. «Sto bene. Mi sembra di essere una regina. Ho tutto quel che posso desiderare, ma...». «Ma?». «Vorrei essere già a casa, vorrei tornare accanto a te al più presto». Guardò il viso affaticato, stravolto del marito, la sua camicia gualcita, la cravatta annodata male, la giacca che non era stata spazzolata e a cui mancava qualche bottone. «Dario, è vero quel che mi hai detto? Che avevi molti pazienti e che non ti serviva niente?». «E' vero». La suora tornò con il vassoio. «Mangia» disse Dario. «Guarda che buona minestra. Su, mangiala subito, prima che si raffreddi». «Non ho fame». «Devi mangiare, se vuoi che il tuo latte sia nutriente». Clara, costretta dal marito che la imboccava ridendo, mandò giù qualche cucchiaiata; e, una volta stuzzicato l'appetito, vuotò il piatto. «E tu? Hai cenato?» chiese. «Sì». «Prima di venire qui?». «Sì». «Ah, è per questo che sei arrivato così tardi?». «Sì. Sei più tranquilla ora?». Lei sorrise. Dario prese dal vassoio un pezzo di pane che la moglie aveva lasciato, e lo nascose nel pugno. Per non affaticare la puerpera, avevano schermato la lampada con un foglio di carta azzurra. La camera era in penombra, ma Clara notò la mossa furtiva del marito e l'avidità con cui divorava il pezzo di pane. «Hai ancora fame?». «No, no...». «Dario, tu non hai mangiato!». «Ma che cosa vai a pensare?» disse lui con voce carezzevole. «Sta' calma, Clara. Non devi preoccuparti. Non fa bene al bambino». Si chinò sulla culla, trattenendo il respiro. «Avrà i capelli biondi, Clara...». «No, è impossibile. Siamo tutti e due così bruni... Ma i nostri genitori com'erano?». Fecero uno sforzo di memoria. Lui, Dario, era rimasto orfano molto presto. Clara era fuggita dalla casa paterna a quindici anni per seguire il vagabondo di cui si era innamorata. Dalle profondità del passato, come quando al calar della sera scorgiamo in lontananza delle sagome pressoché indistinte, emersero alcune pallide figure quasi cancellate: una donna, invecchiata anzitempo, con il capo coperto da un ampio scialle nero calato fino alle sopracciglia; un'altra donna, sempre ubriaca, la bocca aperta a rovesciare imprecazioni e insulti sulla testa di un povero bambino terrorizzato; il padre di Clara con la fronte solcata di rughe e una lunga barba grigia che gli ricadeva sul petto; il padre di Dario, il greco, il miserabile venditore ambulante. Di quest'ultimo Dario si ricordava meglio, anche perché ne era il ritratto vivente. «I nostri genitori erano bruni come noi». «E i nostri nonni?». «Ah, quelli...». Non li avevano conosciuti. I vecchi erano rimasti nei rispettivi paesi d'origine - la Grecia, l'Italia, l'Asia Minore -, quando i figli erano partiti sciamando lontano. Per i loro discendenti era come se non fossero mai esistiti. Forse, tra quei levantini dimenticati, ce n'era qualcuno che, nella culla, aveva avuto i capelli biondi, la carnagione chiara. Chissà... «Clara, ma come ti salta in mente che potremmo conoscere i nostri nonni? Credi forse di essere una borghese nata in Francia?». Sorrisero. Si capivano al volo. Erano uniti, corpo e anima, dall'amore, ma non solo: essendo nati nel medesimo porto della Crimea, parlando la medesima lingua, si sentivano anche fratelli; avevano bevuto alla stessa fonte, diviso lo stesso pane amaro. «Dopo la nascita del bambino è venuta a trovarmi la madre superiora. Mi ha chiesto se le nostre famiglie erano contente. E dalle camere vicine, durante l'orario delle visite, mi giungono le voci di nonni e zie che esclamano: «Somiglia al nonno, al cugino Jean, a quel tuo zio morto nel ' 14». Non avevo mai sentito nulla del genere. Arrivano carichi di pacchetti infiocchettati. La suora mi ha detto che dentro ci sono bavaglini, vestitini, giocattoli, pellicciotti. E sai, Dario, usano le vecchie lenzuola per farne camiciole...» disse sottovoce. Era stanca. Parlava lentamente, si fermava, respirava a fatica. Non riusciva a trovare le parole per esprimere il suo stupore, la sua meraviglia, quando immaginava quelle famiglie chine intorno a una culla, quelle lenzuola consumate dallo sfregamento dei corpi, notte dopo notte, per una vita intera, quelle lenzuola da cui poi ricavavano camiciole e pannolini da neonato. «Alla suora che mi assiste dico: "Noi non abbiamo parenti. Nessuno si cura di noi. Nessuno gioirà per la nascita di questo bambino. Nessuno ha pianto per la morte dell'altro bambino". Lei sta a sentirmi. Ma non capisce». «Come vuoi che capisca?» disse Dario scuotendo la testa. Si preoccupava vedendo Clara così stanca e turbata. Voleva dirle di tacere. Ma lei, parlando, si era addormentata con la testa sul braccio del marito. Entrò la suora e chiuse senza rumore le persiane e la finestra; all'ospedale Sainte-Marie temevano l'aria della notte. Clara aprì gli occhi di colpo e balbettò con voce angosciata: «Sei qui, Dario? Sei tu? Sei proprio tu? Il bambino vivrà? Crescerà bene? Non gli mancherà niente? Vivrà?». Ripeté ancora una volta: «Vivrà?» e si svegliò del tutto. Sorrise. «Dario, tesoro, perdonami, stavo sognando. Va', adesso. E' tardi. A domani. Ti amo». Lui si chinò e le diede un bacio. La suora, rimproverandolo amichevolmente, lo spinse verso la porta: erano le otto passate. Nei corridoi avevano spento le luci, sostituendole con le lampadine azzurre da notte, e qua e là, sotto i numeri delle camere in cui dormivano le pazienti appena operate e le malate gravi, una suora appendeva in bellavista i cartelli con la scritta: «Silenzio». Fuori lo accolse una tiepida serata di primavera, e Dario respirò l'odore che gli era familiare sin dall'infanzia, un odore che si ritrova dalla Crimea al Mediterraneo: di gelsomino, di pepe, di vento salmastro