mercoledì 27 giugno 2018



PAURA DEGLI IMMIGRATI

Irène Némirovsky. "Il signore delle anime". 
Il 18 maggio 1939 «Gringoire», «settimanale politico e letterario parigino», pubblica la prima puntata delle Échelles du Levant (titolo nella edizione italiana "Il signore delle anime") ultimo romanzo di Irène Némirovsky.  Gli «scali del Levante» sono le città e i porti commerciali del Medio Oriente, che da sempre fungono da cerniera tra l'Europa e l'Asia, crocevia di spezie, di seta, di miseria e di pogrom. Nel periodo tra le due guerre, quando l'immigrazione in Francia è più forte che mai per l'afflusso di profughi provenienti da tutta l'Europa orientale e dalla Spagna, gli «scali» diventano il simbolo di una infiltrazione demografica che scatena nuove forme di xenofobia, inoculando nel vecchio antisemitismo cristiano un più generale rifiuto del métèque, dell'immigrato. Questo termine si era affermato nella sua accezione spregiativa alla fine dell'Ottocento, sull'onda dello scandalo di Panama e dell'affare Dreyfus, e viene usato come sinonimo di straniero, apolide, ebreo. Il protagonista del Signore delle anime ne è un tipico esempio.
IL SIGNORE DELLE ANIME CAPITOLO 1.
«Ho bisogno di soldi!». «Le ho detto di no». Dario tentava invano di mantenere la calma. Quando si alterava, la voce gli diventava stridula.Gesticolava. Aveva la tipica fisionomia levantina: l'aria smaniosa e affamata dei lupi, quei lineamenti che non sono della gente di qui e che sembrano plasmati in fretta con mano febbrile.
«Lei presta soldi, lo so!» esclamò con rabbia. Tutti gli dicevano di no quando li pregava umilmente. Serviva un altro tono. Pazienza! Avrebbe saputo ricorrere di volta in volta all'astuzia e alle minacce. Non sarebbe indietreggiato di fronte a niente. Avrebbe mendicato o strappato con la forza i soldi alla vecchia usuraia. Sua moglie e il bambino appena nato avevano solo lui al mondo, Dario, che potesse sfamarli. La donna scrollò le spalle robuste. «Certo, faccio prestiti su pegno! Lei ha qualcosa da darmi in cambio?». Ah, così andava meglio! Aveva fatto bene a non perdere le speranze. A volte chi viene pregato risponde «no», ma il suo sguardo dice «sì». Insisti. Offrimi un servigio, un favore, una complicità. Non mi supplicare, è inutile. Compra. Ma che cosa poteva darle, lui? Non possedeva niente. Quella donna era la sua padrona di casa; da quattro mesi Dario aveva preso in affitto un alloggio libero al primo piano del villino che la vecchia aveva trasformato in una pensione familiare per esuli. «Chi non ha bisogno di soldi? Sono tempi duri» disse lei agitando il ventaglio. Indossava un vestito di tela rosa. Il suo viso largo e rubizzo era impassibile. «Che creatura orrenda!» pensò Dario. La donna fece per alzarsi. Lui si affrettò a fermarla. «No, aspetti! Non se ne vada!». Che cos'altro poteva dirle? Supplicarla? Inutile! Prometterle qualcosa? Inutile! Mercanteggiare? E come? Non ne era più capace. Alla scuola dell'Europa, lui, Dario Asfar, misero levantino cresciuto nei porti e nelle bettole, si era illuso di aver acquisito il senso del decoro e dell'onore. E adesso doveva dimenticare i quindici anni trascorsi in Francia, la cultura francese, il titolo di medico strappato con tanta fatica all'Occidente, non come un dono ricevuto dalla propria madre, ma come un pezzo di pane rubato a un'estranea. Inutili smancerie europee, che non gli avevano dato da mangiare! Lì a Nizza, nel 1920, a trentacinque anni, faceva la fame, e aveva le tasche vuote e le suole bucate come quando era ragazzo. Si disse con amarezza che quelle nuove armi - la dignità, l'orgoglio - lui non sapeva maneggiarle, e che doveva ricorrere alle preghiere e al baratto, alle vecchie e sperimentate abitudini. «Gli altri avanzano in branco, protetti, guidati» pensò. «Io sono solo. Vado a caccia da solo, per mia moglie e per mio figlio!». «Come faccio a campare, secondo lei?» esclamò. «Non mi conosce nessuno in questa città. Sono quattro mesi che vivo a Nizza. Ho affrontato sacrifici di ogni genere per stabilirmi qui.
A Parigi il successo era dietro la porta. Bastava aspettare». Mentiva. Voleva convincerla a tutti i costi. «A Nizza, invece, curo soltanto russi. Conosco soltanto esuli morti di fame. I francesi non mi chiamano.
Non si fidano. Colpa della mia faccia, del mio accento, che ne so...» disse, passandosi la mano sui capelli corvini, sulle guance brune e scarne, sulle palpebre orlate di lunghe ciglia femminili dietro le quali si intravedeva uno sguardo duro e inquieto. «La fiducia non può essere imposta, Marta Aleksandrovna. Lei è russa, lo sa che cosa significa vivere da emarginati. Io mi sono laureato in medicina in una università francese, conosco gli usi francesi e ho ottenuto la cittadinanza francese, eppure vengo trattato da straniero, e mi sento straniero.
Bisogna aspettare. Glielo ripeto: la fiducia non può essere imposta, occorre ispirarla, conquistarsela a poco a poco. Ma, nel frattempo, bisogna pur vivere. E' nel suo interesse aiutarmi, Marta Aleksandrovna.
Io sono suo inquilino. Le devo già degli arretrati. Mi caccerà via. E io sarò nei guai. Ma lei che cosa ci avrà guadagnato?». «Anche noi» sospirò la donna «siamo poveri esuli. I tempi sono duri, dottore... Che cosa posso fare io per lei? Niente». «Quando mia moglie tornerà a casa, lunedì, ancora debole, con un neonato, come farò a sfamarli, Marta Aleksandrovna? Dio li protegga! Che ne sarà di loro? Mi presti quattromila franchi, Marta Aleksandrovna, e mi chieda in cambio qualunque cosa». «Ma che garanzie può darmi, povero lei? Ha titoli di borsa?».
«No». «Gioielli?». «Niente. Non ho niente». «Tutti mi lasciano in pegno almeno un gioiello, dell'argenteria, una pelliccia. Lei non è un bambino, dottore, capirà che non posso distribuire denaro senza nessuna garanzia. Sono spiacente, mi creda. Non ero nata per questo mestiere, per prestare soldi a interesse. Sono la moglie del generale Mouravine, io, ma che c'è da fare quando le necessità della vita ti prendono qui?» disse portandosi le mani alla gola con un gesto che ai tempi della sua giovinezza, quando faceva l'attrice in provincia, aveva riscosso gli applausi del pubblico, il vecchio generale, in effetti, l'aveva sposata soltanto in esilio, dopo aver riconosciuto il figlio avuto da lei. La donna parve stringersi un invisibile monile intorno al collo bianco e grassoccio. «Eh, caro il mio dottore, siamo tutti quanti strozzati dalla miseria! Se lei sapesse che cos'è la mia vita!» disse, ricorrendo alla consueta tattica di chi, sollecitato a concedere un prestito, si piange addosso per meglio rifiutare. «Sgobbo come una serva. E mi tocca mantenere il generale, mio figlio e mia nuora. Vengono tutti a chiedere aiuto a me, ma io non posso contare sull'aiuto di nessuno». Prese il fazzoletto di cotone rosa infilato nella cintura e si asciugò gli angoli degli occhi. La sua faccia rossa dai tratti grossolani, sciupata dall'età, ma che nel disegno del naso sottile e aquilino e nel taglio delle palpebre conservava le vestigia di un'antica bellezza ormai in rovina, si coprì di lacrime. «Io non ho un cuore di pietra, dottore».
«Piange, ma mi caccerà di casa lo stesso» si disse Dario, disperato. Ogni suo pensiero dava la stura a un flusso di ricordi. Quando rimuginava: «Ci caccerà di qui. Dovremo andarcene. Non avremo più un tetto. Non sapremo dove rifugiarci», le scene che gli venivano in mente non erano frutto solo della sua immaginazione, ma generate dalla sua carne che aveva patito il freddo, dai suoi occhi arrossati per la stanchezza dopo una lunga notte trascorsa a vagabondare.
Più di una volta, non sapendo dove dormire, aveva errato senza meta per le strade, messo alla porta dagli albergatori. E sebbene tutto ciò gli fosse parso normale durante l'infanzia, l'adolescenza e i primi duri anni di studio, ora avrebbe preferito morire piuttosto che sottoporsi a una simile umiliazione. L'Europa l'aveva viziato, eccome! Guardò l'appartamento, i mobili.
Tre misere stanzette al primo piano della pensione familiare, il pavimento di piastrelle rosse coperto a malapena da logori tappeti; nel salotto due poltrone di velluto giallo, sbiadito dal sole, e nella camera matrimoniale un bel letto francese dove si dormiva così bene. Come gli piaceva tutto questo! Pensò che avrebbero piazzato la carrozzina del figlio sul balconcino: la brezza del mare, oltrepassando i tetti della rue de France, sarebbe arrivata fino a lui, e la mattina il piccolo avrebbe sentito le grida provenienti dal vicino mercato: «Sardine, belle sardine...». I suoi polmoni avrebbero respirato l'aria frizzante, e in seguito il bimbo avrebbe potuto giocare al sole. Bisognava restare là e ottenere un prestito da quella donna. Con un misto di angoscia, di rabbia e di speranza, Dario guardava ora le pareti, ora i mobili, ora il viso della moglie del generale. Stringeva le labbra convinto di assumere un'aria impassibile, ma il suo sguardo ansioso, eloquente e disperato lo tradiva. «Non mi rovini, Marta Aleksandrovna. Quattromila franchi... Li troverà quattromila franchi per me, vero? E per i tre mesi di pigione arretrata aspetterà. Non mi caccerà via. Pazienti un anno. In un anno posso fare grandi cose. Con quattromila franchi mi comprerò dei vestiti decenti.
Come faccio, conciato così, a varcare la soglia di un grande albergo? Chi mi lascerebbe entrare? Trasudo miseria... Parecchi concierge di Nizza, di Cannes, di Cimiez hanno promesso di mandarmi a chiamare se dovesse servire un medico. Ma guardi queste scarpe che imbarcano acqua, guardi questa giacca» disse mostrando la stoffa lisa che riluceva al sole. «Parlo nel suo interesse, Marta Aleksandrovna. Lei è una donna, sa riconoscere un carattere ardito, pieno di zelo e di buona volontà.
Quattromila franchi, Marta Aleksandrovna... Tremila! In nome di Dio!».
Lei scosse la testa. «No». Poi, a voce più bassa, ripeté: «No». Ma Dario non badava tanto a quel che diceva, bensì a come lo diceva: le parole non significavano niente, solo il tono contava... La vecchia aveva forse mormorato «no» con impa-zienza? L'aveva esclamato con rabbia? Se davvero il rifiuto fosse stato senza remissione, senza appello, si sarebbe messa a gridare e l'avrebbe cacciato via su due piedi. Quel «no», quell'inflessione più dolce, quelle lacrime, e al contempo lo sguardo duro dei suoi occhi glauchi, che diventava ancora più duro, ostinato e penetrante... Tutto ciò voleva dire che bisognava contrattare, e nessuna contrattazione doveva spaventarlo. Finché si trattava di mercanteggiare, discutere, com-prare o vendere, niente era perduto. «Marta Aleksandrovna,» disse Dario «c'è qualcosa che posso fare per lei? Sa quanto sono discreto e fidato. Ci pensi su. Mi sembra preoccupata, Marta Aleksandrovna, abbia fiducia in me...». «Dottore...» cominciò lei.
Tacque. Attraverso l'assito sottile giungevano fino a loro i rumori della pensione familiare; lì vivevano, litigavano, piange-vano e ridevano esuli che davano fondo ai loro ultimi , che si odiavano o si amavano. Echeggiarono voci, passi rapidi e spediti di ragazze, lo scalpiccio stanco e senza scopo di vecchi chiusi fra quattro mura tristi. Quanti intrighi fra quella gente!
Quanti drammi! La moglie del generale doveva essere al corrente di tutto... Aveva bisogno di lui. E lui non si sarebbe tirato indietro di fronte a niente. Provava quel panico interiore che dilaga nell'animo come un fiotto selvaggio.
Innanzitutto, vivere! Al diavolo gli scrupoli, le paure vigliacche! Innanzitutto, continuare a respirare, a nutrirsi, salvarsi la pelle, proteggere la moglie e l'amato figliolo! La donna emise un profondo sospiro. «Venga qui, dottore... Dottore, lei conosce mia nuora, Elinor, quell'ame-ricana che mio figlio ha voluto sposare? Dottore, le parlo da madre disperata... Sono ragazzi, hanno commesso una stupidaggine, una follia...». Gualcì il fazzoletto tra le mani e si asciugò la fronte e le labbra. Il sole, prima di tramontare, baluginò per un istante sui tetti e irruppe nella stanza. Era una delle prime belle giornate di una primavera burrascosa. La moglie del generale aveva molto caldo, ansimava un po' e sembrava più umana, piena di rabbia e di paura. «Mio figlio è un bambinone, dottore... Mia nuora, invece, mi dà l'idea di essere molto più navigata. Ma il fattaccio è successo. Finora non mi avevano detto niente... Dottore, noi non possiamo permetterci un'altra bocca da sfamare... Non ce la faccio più a reggere il peso di tutti quelli che si aggrappano a me aspettando il pane dalle mie mani. Un altro bambino...Impossibile, dottore».
CAPITOLO 2.
La moglie di Dario, Clara, era a letto, con accanto la culla del figlio, in una linda cameretta dell'ospedale Sainte-Marie. La finestra era socchiusa e una calda coperta le avvolgeva le gambe. Ogni volta che la suora le chiedeva come stava Clara si girava con gratitudine verso di lei, guardava sorridendo la cornetta bianca e rispondeva con timido orgoglio: «Come potrei star meglio? Non ho forse tutto quel che mi occorre?». Era sera. Stavano chiudendo le porte. Clara non vedeva Dario dal giorno prima, ma sperava ancora nel suo arrivo; le suore sapevano che era un medico e lo lasciavano entrare anche oltre l'orario di visita. A Clara spiaceva che Dario non avesse voluto farla stare in corsia. Lei non aveva mai avuto amiche. Non aveva mai legato con un'altra donna. Era schiva, guardinga... Tutto la riempiva di stupore, in quelle città straniere. Aveva imparato a fatica il francese. Adesso lo parlava, benché con un pessimo accento, ma continuava a vivere isolata. Quando era con Dario non aveva bisogno di nessuno; lì, in ospedale, il bambino avrebbe dovuto bastarle, eppure a volte le capitava di desiderare una presenza femminile al fianco. Sentiva le risate delle donne ricoverate in corsia... Che bello doveva essere far confronti tra il proprio figlio e quello delle altre mamme! Nessun bambino poteva essere più bello del suo, di suo figlio, del suo Daniel, né poppare così in fretta e con tanto vigore, né avere un corpicino così ben fatto, gambette così agili, manine così perfette. Ma Dario voleva per lei una camera singola, comoda, tranquilla, lussuosa. Caro Dario, come la viziava! Credeva forse di dargliela a bere? Lei sapeva quante difficoltà doveva affrontare. E intuiva la stanchezza che si celava nei suoi movimenti convulsi, nella sua voce, nel rapido gesticolare delle sue mani tremanti. Ma la nascita del bambino le colmava il cuore di pace. Non sapeva perché, eppure non si preoccupava più. Era troppo riconoscente a Dio per essere ancora preoccupata. A volte si sporgeva un po' dal letto e attirava a sé - più vicino, sempre più vicino - la culla, trattenendola con la mano. Non vedeva il bambino, ma lo sentiva respirare. Allora, dolorante com'era, si girava con precauzione su un fianco. Lasciava andare la culla e incrociava le braccia sul petto gonfio di latte, che a quell'ora montava come una marea, martellandola di pulsazioni simili a quelle della febbre. Era così minuta che i fianchi, il seno e le ginocchia magre sollevavano appena il lenzuolo. Il viso sembrava al contempo troppo giovane e troppo vecchio per la sua età: Clara aveva superato la trentina. Alcuni tratti - la fronte piccola e bombata, senza rughe, le palpebre intatte, il sorriso dai denti bianchi, regolari, magnifici, suo unico vero dono - le davano le sembianze di una bella ragazza, quasi di un'adolescente, ma qua e là fra i capelli crespi e trascurati cominciava a spuntare qualche ciocca grigia; i suoi occhi scuri erano tristi, avevano pianto, vegliato, scrutato la morte sul volto di persone care, atteso con speranza, guardato con coraggio; la bocca, nei momenti di riposo, tradiva spossatezza, ingenuità, sconforto. Usciti gli ultimi visitatori, cominciò l'andirivieni dei carrelli che si fermavano davanti a tutte le porte distribuendo pasti leggeri. Le puerpere che allattavano i figlioletti si preparavano alla poppata serale. I piccoli, appena svegliati, strillavano. La suora entrò nella camera di Clara, l'aiutò a sedersi sul letto e le porse il bambino. Era una donna robusta, dal viso ordinario, roseo e paffuto. Per qualche istante rimasero entrambe a osservare in silenzio il neonato che girava da una parte all'altra la testolina morbida e calda, piagnucolando alla ricerca del seno, ma il piccolo si acquietò presto, e le due donne sentirono il ciangottio confuso dei poppanti sazi, soddisfatti, che succhiano il latte e a poco a poco cadono nel sonno. Allora presero a chiacchierare sottovoce: «Suo marito non è venuto oggi?» chiese la suora. Aveva l'accento melodioso di Nizza. «No» rispose Clara un po' rattristata. Sapeva che Dario non si era dimenticato di lei. Chissà, forse non aveva i soldi per il tram... L'ospedale era piuttosto lontano dal centro della città. «E' un buon marito» disse la suora chinandosi sul bambino addormentato. Fece per prenderlo e posarlo sulla bilancia, ma il piccolo aprì subito gli occhi e agitò le manine. Clara lo strinse a sé. «Aspetti. Me lo lasci. Ha ancora fame». «Un buon marito e un buon padre» aggiunse la suora. «"Hanno tutto quel che occorre? C'è bisogno di qualcosa?" mi chiede tutti i giorni. Oh, la ama davvero... Ma basta adesso!» disse alzandosi e prendendo il bambino dalle braccia di Clara. Clara glielo lasciò portare via, ma solo dopo un movimento istintivo per tenerselo ancora stretto che fece sorridere la suora. «Gli dà troppo latte. Lo farà ammalare, questo bambino!». «Oh, no, signora!» disse Clara - non si era mai abituata a chiamare «sorella» la religiosa che la accudiva. «Ma sono felice di farlo mangiare a sazietà; il mio primo figlio è morto perché non avevo abbastanza latte per sfamarlo né soldi per comprarne». La suora scosse leggermente la testa, con un'espressione cordiale, compassionevole e sprezzante, che significava: «Non sei l'unica, sai, povera cara! Ne ho vista tanta, io, di miseria...». E a quel cenno del capo, a quello sguardo lanciato da sotto la cornetta, Clara si sentì come liberata dall'amarezza e da quella specie di vergogna che fa tutt'uno con la disgrazia. Non aveva mai parlato con nessuno del primo figlio. Allora, con voce rapida e sommessa, disse: «Prima della guerra, mio marito mi aveva lasciata sola a Parigi. Era andato nelle colonie francesi, sperando di trovare lavoro laggiù. I viaggi e le separazioni non ci fanno paura: siamo stranieri, noi. Mi aveva detto: "Parto, Clara. Qui moriamo di fame. Non ho i soldi per il tuo biglietto. Mi raggiungerai tra qualche tempo". La nave aveva appena preso il largo che io ho cominciato ad avvertire i primi malesseri e ho capito di essere incinta. Ero priva di mezzi. Persi anche il modesto impiego che mi consentiva di sopravvivere. In seguito mi hanno detto: "Doveva rivolgersi a questo e a quello...". Ma io non ne sapevo niente. Non conoscevo nessuno. Il bambino è morto, forse di fame» concluse abbassando gli occhi. Tormentava con gesti febbrili le frange di lana che bordavano il suo scialle. «Su, su, questo vivrà» disse la suora. «E' un bel bambino, vero?». «Certo». La suora infilò la mano sotto la coperta di Clara. «Ha i piedi gelati, ragazza mia. Le preparo una borsa d'acqua calda. Si copra bene. Dimentichi i giorni tristi. Suo marito è tornato e si prenderà cura di lei». «Oh!» esclamò Clara con un debole sorriso. «Ma io non sono più un'ochetta, sono vecchia ormai. E vivo in Francia da quindici anni. Ho smesso di avere paura. All'epoca mi sentivo sperduta, qui. Ero...». Tacque di colpo. A che scopo parlarne? Chi l'avrebbe capita? Con ogni probabilità la suora aveva assistito tante povere ragazze che avevano lasciato i loro paesini di provincia per fare la fame nelle strade di Nizza, ma Clara non poteva impedirsi di pensare che per lei era stato peggio; veniva da così lontano, e ogni pietra sembrava respingerla, ogni porta, ogni casa sembravano dirle: «Vattene! Torna fra i tuoi simili! Noi abbiamo già i nostri poveri da soccorrere, straniera!». La suora le piazzò la borsa dell'acqua calda sotto i piedi, le sorrise e si avviò alla porta. «Vado a prenderle la cena» disse già sulla soglia. «Ecco suo marito, cara!». Clara tese le braccia. «Dario! Finalmente!». Gli afferrò la mano e se la portò alla guancia, alle labbra. «Non speravo più di vederti stasera. Ma perché sei venuto? E' così tardi, e tu sei così stanco!» esclamò. Benché Dario non avesse detto niente, lei sapeva che era sfinito. Gli cinse la vita, lo abbracciò con tutte le sue forze e, quando lui si sedette sul letto, gli appoggiò la testa sulla spalla. «Stai bene? E il bambino sta bene? E' successo qualcosa? Qualcosa di brutto?». «No, niente, perché?». Parlavano un po' in francese, un po' in greco e un po' in russo, mescolando le tre lingue. Clara gli accarezzò le dita. «Perché, tesoro?». Dario non rispose. «Ti tremano le mani» disse lei. Ma non insistette. Continuò a tenergli le mani strette fra le sue, e a poco a poco il tremito si placò. «Stai bene?» ripeté Dario in tono ansioso. «Sto bene. Mi sembra di essere una regina. Ho tutto quel che posso desiderare, ma...». «Ma?». «Vorrei essere già a casa, vorrei tornare accanto a te al più presto». Guardò il viso affaticato, stravolto del marito, la sua camicia gualcita, la cravatta annodata male, la giacca che non era stata spazzolata e a cui mancava qualche bottone. «Dario, è vero quel che mi hai detto? Che avevi molti pazienti e che non ti serviva niente?». «E' vero». La suora tornò con il vassoio. «Mangia» disse Dario. «Guarda che buona minestra. Su, mangiala subito, prima che si raffreddi». «Non ho fame». «Devi mangiare, se vuoi che il tuo latte sia nutriente». Clara, costretta dal marito che la imboccava ridendo, mandò giù qualche cucchiaiata; e, una volta stuzzicato l'appetito, vuotò il piatto. «E tu? Hai cenato?» chiese. «Sì». «Prima di venire qui?». «Sì». «Ah, è per questo che sei arrivato così tardi?». «Sì. Sei più tranquilla ora?». Lei sorrise. Dario prese dal vassoio un pezzo di pane che la moglie aveva lasciato, e lo nascose nel pugno. Per non affaticare la puerpera, avevano schermato la lampada con un foglio di carta azzurra. La camera era in penombra, ma Clara notò la mossa furtiva del marito e l'avidità con cui divorava il pezzo di pane. «Hai ancora fame?». «No, no...». «Dario, tu non hai mangiato!». «Ma che cosa vai a pensare?» disse lui con voce carezzevole. «Sta' calma, Clara. Non devi preoccuparti. Non fa bene al bambino». Si chinò sulla culla, trattenendo il respiro. «Avrà i capelli biondi, Clara...». «No, è impossibile. Siamo tutti e due così bruni... Ma i nostri genitori com'erano?». Fecero uno sforzo di memoria. Lui, Dario, era rimasto orfano molto presto. Clara era fuggita dalla casa paterna a quindici anni per seguire il vagabondo di cui si era innamorata. Dalle profondità del passato, come quando al calar della sera scorgiamo in lontananza delle sagome pressoché indistinte, emersero alcune pallide figure quasi cancellate: una donna, invecchiata anzitempo, con il capo coperto da un ampio scialle nero calato fino alle sopracciglia; un'altra donna, sempre ubriaca, la bocca aperta a rovesciare imprecazioni e insulti sulla testa di un povero bambino terrorizzato; il padre di Clara con la fronte solcata di rughe e una lunga barba grigia che gli ricadeva sul petto; il padre di Dario, il greco, il miserabile venditore ambulante. Di quest'ultimo Dario si ricordava meglio, anche perché ne era il ritratto vivente. «I nostri genitori erano bruni come noi». «E i nostri nonni?». «Ah, quelli...». Non li avevano conosciuti. I vecchi erano rimasti nei rispettivi paesi d'origine - la Grecia, l'Italia, l'Asia Minore -, quando i figli erano partiti sciamando lontano. Per i loro discendenti era come se non fossero mai esistiti. Forse, tra quei levantini dimenticati, ce n'era qualcuno che, nella culla, aveva avuto i capelli biondi, la carnagione chiara. Chissà... «Clara, ma come ti salta in mente che potremmo conoscere i nostri nonni? Credi forse di essere una borghese nata in Francia?». Sorrisero. Si capivano al volo. Erano uniti, corpo e anima, dall'amore, ma non solo: essendo nati nel medesimo porto della Crimea, parlando la medesima lingua, si sentivano anche fratelli; avevano bevuto alla stessa fonte, diviso lo stesso pane amaro. «Dopo la nascita del bambino è venuta a trovarmi la madre superiora. Mi ha chiesto se le nostre famiglie erano contente. E dalle camere vicine, durante l'orario delle visite, mi giungono le voci di nonni e zie che esclamano: «Somiglia al nonno, al cugino Jean, a quel tuo zio morto nel ' 14». Non avevo mai sentito nulla del genere. Arrivano carichi di pacchetti infiocchettati. La suora mi ha detto che dentro ci sono bavaglini, vestitini, giocattoli, pellicciotti. E sai, Dario, usano le vecchie lenzuola per farne camiciole...» disse sottovoce. Era stanca. Parlava lentamente, si fermava, respirava a fatica. Non riusciva a trovare le parole per esprimere il suo stupore, la sua meraviglia, quando immaginava quelle famiglie chine intorno a una culla, quelle lenzuola consumate dallo sfregamento dei corpi, notte dopo notte, per una vita intera, quelle lenzuola da cui poi ricavavano camiciole e pannolini da neonato. «Alla suora che mi assiste dico: "Noi non abbiamo parenti. Nessuno si cura di noi. Nessuno gioirà per la nascita di questo bambino. Nessuno ha pianto per la morte dell'altro bambino". Lei sta a sentirmi. Ma non capisce». «Come vuoi che capisca?» disse Dario scuotendo la testa. Si preoccupava vedendo Clara così stanca e turbata. Voleva dirle di tacere. Ma lei, parlando, si era addormentata con la testa sul braccio del marito. Entrò la suora e chiuse senza rumore le persiane e la finestra; all'ospedale Sainte-Marie temevano l'aria della notte. Clara aprì gli occhi di colpo e balbettò con voce angosciata: «Sei qui, Dario? Sei tu? Sei proprio tu? Il bambino vivrà? Crescerà bene? Non gli mancherà niente? Vivrà?». Ripeté ancora una volta: «Vivrà?» e si svegliò del tutto. Sorrise. «Dario, tesoro, perdonami, stavo sognando. Va', adesso. E' tardi. A domani. Ti amo». Lui si chinò e le diede un bacio. La suora, rimproverandolo amichevolmente, lo spinse verso la porta: erano le otto passate. Nei corridoi avevano spento le luci, sostituendole con le lampadine azzurre da notte, e qua e là, sotto i numeri delle camere in cui dormivano le pazienti appena operate e le malate gravi, una suora appendeva in bellavista i cartelli con la scritta: «Silenzio». Fuori lo accolse una tiepida serata di primavera, e Dario respirò l'odore che gli era familiare sin dall'infanzia, un odore che si ritrova dalla Crimea al Mediterraneo: di gelsomino, di pepe, di vento salmastro