mercoledì 13 giugno 2018


L'AEREO DELLA BELLA ADDORMENTATA
agosto 1981. 

Estratto da "12 racconti raminghi"
Di Gabriel G. Marquez

Era bella, elastica, con una pelle morbida color del pane e gli occhi di mandorle verdi, e aveva i capelli lisci e neri e lunghi fin sulla schiena, e un'aura di antichità che poteva essere dell'Indonesia come delle Ande. Era vestita con un gusto sottile: giacca di lince, camicetta di seta naturale a fiori molto tenui, pantaloni di lino grezzo, e scarpe lineari color delle buganvillee. "Questa è la donna più bella che abbia mai visto in vita mia" pensai quando la vidi passare col suo silenzioso incedere da leonessa, mentre io facevo la coda per imbarcarmi sull'aereo per New York all'aeroporto Charles de Gaulle di Parigi. Fu un'apparizione sovrannaturale che esistette solo un istante e scomparve tra la folla dell'atrio. 
Erano le nove del mattino. Stava nevicando fin dalla notte prima, e il traffico era più fitto del solito per le vie della città, e più lento ancora sull'autostrada, e c'erano camion da carico allineati sul margine, e automobili fumanti nella neve. Nell'atrio dell'aeroporto, invece, la vita era sempre in primavera. 
Io facevo la fila per il check-in dietro una vecchia olandese che rimase quasi un'ora a discutere sul peso delle sue undici valigie. 
Cominciavo ad annoiarmi quando vidi l'apparizione istantanea che mi aveva lasciato senza respiro, sicché non seppi come finì la disputa, finché l'impiegata non mi riportò sulla terra con un rimprovero per la mia distrazione. A titolo di scusa le domandai se credeva negli amori a prima vista. «Certamente» mi disse. «Quelli impossibili sono gli altri.» Se ne rimase con lo sguardo fisso sullo schermo del computer, e mi domandò che posto preferivo: per fumatori o per non fumatori. 
«E' lo stesso» le dissi con intenzione, «purché non sia accanto alle undici valigie.»
Lei mi ringraziò con un sorriso commerciale ma senza scostare lo sguardo dallo schermo fosforescente. 
«Scelga un numero» mi disse: «tre, quattro o sette». 
«Quattro.»
Il suo sorriso ebbe allora un bagliore trionfale. 
«In quindici anni che lavoro qui» disse «è il primo a non scegliere il sette.»
Segnò sulla carta di imbarco il numero del posto e me la consegnò col resto dei miei documenti, guardandomi per la prima volta con certi occhi color uva che mi servirono da consolazione finché non avessi rivisto la bella. Solo allora mi avvertì che l'aeroporto era stato appena chiuso e che tutti i voli erano rinviati. 
«Fin quando?»
«Lo sa Dio» disse col suo sorriso. «Questa mattina la radio ha annunciato che sarà la nevicata più intensa di tutto l'anno.»
Si sbagliò: fu la più intensa di tutto il secolo. Ma nella sala di prima classe la primavera era così reale che c'erano rose fresche nei vasi e persino la musica in scatola sembrava sublime e sedativa come asserivano i suoi creatori. D'improvviso mi venne da pensare che quello era un rifugio adatto alla bella, e la cercai nelle altre sale, rabbrividendo per la mia audacia. Ma perlopiù erano uomini della vita reale che leggevano giornali in inglese mentre le mogli pensavano ad altri, contemplando gli aerei morti nella neve attraverso le vetrate panoramiche, contemplando le fabbriche glaciali, i vasti vivai di Roissy devastati dai leoni. Dopo il mezzogiorno non c'era più uno spazio disponibile, e il caldo era diventato così insopportabile che scappai via per respirare. 
Fuori trovai uno spettacolo incredibile. Gente di ogni risma aveva invaso le sale d'attesa, ed era accampata nei corridoi soffocanti, e anche nelle scale, coricata a terra con gli animali e i bambini, e i bagagli. Anche le comunicazioni con la città erano interrotte, e il palazzo di plastica trasparente sembrava un'immensa capsula spaziale arenata nella bufera. Non riuscii a evitare l'idea per cui anche la bella doveva essere in qualche posto in mezzo a quelle orde mansuete, e tale fantasia mi infuse nuovo coraggio per aspettare. 
All'ora di pranzo avevamo assunto la nostra consapevolezza di naufraghi. Le code si fecero interminabili davanti ai sette ristoranti, alle tavole calde, ai bar stracolmi, e in meno di tre ore dovettero chiuderli perché non c'era più nulla da mangiare né da bere. 
I bambini, che per un momento sembravano essere tutti quelli del mondo, si misero a piangere al contempo, e dalla folla prese a levarsi un odor di gregge. Era il momento degli istinti. L'unica cosa che riuscii a mangiare in mezzo al ruffaraffa furono le ultime due coppette di gelato alla crema in un negozio per bambini. Li inghiottii lentamente al banco, mentre i camerieri sistemavano le seggiole sui tavoli a mano a mano che si liberavano, e guardandomi nello specchio in fondo, con l'ultima coppetta di cartone e l'ultimo cucchiaino di cartone, e pensando alla bella. 
Il volo per New York, previsto per le undici del mattino, partì alle otto di sera. Quando riuscii infine a imbarcarmi, i passeggeri di prima classe erano già al loro posto, e una hostess mi guidò fino al mio. Rimasi senza fiato. Nel sedile accanto, vicino al finestrino, la bella stava prendendo possesso del suo spazio col dominio dei viaggiatori esperti. "Se un giorno dovessi scrivere tutto questo, nessuno mi crederebbe", pensai. E tentai appena con la lingua legata un saluto indeciso che lei non colse. 
Si installò come per vivere molti anni, disponendo ogni cosa al suo posto e nel suo ordine, finché lo spazio rimase ben sistemato come la casa ideale dove tutto era a portata di mano. Mentre lo faceva, lo steward ci portò lo champagne di benvenuto. Presi una coppa per offrirla a lei, ma me ne pentii in tempo. Accettò solo un bicchier d'acqua, e chiese allo steward, dapprima in un francese inaccessibile e poi in un inglese solo un po' più sciolto, che non la svegliasse per alcun motivo durante il volo. La sua voce grave e tiepida strascicava una tristezza orientale. 
Quando le ebbero portato l'acqua, si aprì sulle ginocchia un cofanetto da toilette con gli angoli di rame, come i bauli delle nonne, e prese due pillole dorate da un astuccio in cui ce n'erano altre di colori diversi. Faceva ogni cosa in maniera metodica e parsimoniosa, come se non ci fosse nulla che non fosse previsto per lei fin dalla sua nascita. Infine abbassò la tendina del finestrino, reclinò il sedile al massimo, si avvolse nella coperta fino alla vita senza togliersi le scarpe, si mise una mascherina per dormire, si sistemò su un fianco, girandomi la schiena, e si addormentò senza una sola pausa, senza un sospiro, senza un minimo cambiamento di posizione, durante le otto ore eterne e i dodici minuti in più che durò il volo per New York. 
Fu un viaggio intenso. Ho sempre creduto che non ci sia nulla di più bello al mondo di una donna attraente, sicché mi fu impossibile sottrarmi sia pure per un istante alla malia di quella creatura da favola che mi dormiva accanto. Lo steward era scomparso subito dopo il decollo, e fu sostituito da una hostess cartesiana che cercò di svegliarla per consegnarle la confezione da toilette e gli auricolari per la musica. Le ripetei l'avvertenza che aveva fatto allo steward, ma la hostess insistette per sentirsi dire da lei che non voleva neppure cenare. Dovette confermarglielo lo steward, e anche così mi sgridò perché la bella non si era appesa al collo il cartellino con l'ordine di non svegliarla. 
Feci una cena solitaria, dicendomi in silenzio tutto quel che avrei detto a lei se fosse stata sveglia. Il suo sonno era così stabile, che a un certo punto ebbi l'inquietudine che le pillole che aveva preso non fossero per dormire ma per morire. Prima di ogni sorso, alzavo il bicchiere e brindavo:
«Alla tua salute, bella.»
Finita la cena spensero le luci, proiettarono il film per nessuno, e noi due rimanemmo soli nella penombra del mondo. La bufera più intensa del secolo era passata, la notte dell'Atlantico era immensa e limpida, e l'aereo sembrava immobile fra le stelle. Allora la contemplai palmo a palmo per diverse ore, e l'unico segno di vita che riuscii a cogliere furono le ombre dei sogni che le passavano sulla fronte come le nuvole sull'acqua. Aveva al collo una catenella così sottile che era quasi invisibile sulla sua pelle d'oro, e le orecchie perfette senza fori per gli orecchini, le unghie rosee di buona salute, e un anello liscio alla mano sinistra. Siccome non sembrava avere più di vent'anni, mi consolai all'idea che non fosse un anello di nozze ma di un fidanzamento effimero. "Saper che dormi tu, quieta, sicura, alveo fedele di abbandono, linea pura, così vicina alle mie braccia strettamente avvinte", pensai, ripetendo sulla cresta di spume di champagne il sonetto magistrale di Gerardo Diego. Poi reclinai il sedile all'altezza del suo, e rimanemmo distesi più vicini che in un letto matrimoniale. Il ritmo del respiro era identico a quello della voce, e la pelle esalava un alito tenue che poteva essere solo l'odore della sua bellezza. Mi sembrava incredibile: la primavera precedente avevo letto un bel romanzo di Yasunari Kawabata sui vecchi borghesi di Kyoto che pagavano somme enormi per passare la notte contemplando le ragazze più belle della città, nude e narcotizzate, mentre loro agonizzavano d'amore nello stesso letto. Non potevano svegliarle, né toccarle, e neppure ci provavano, perché l'essenza del piacere consisteva nel guardarle dormire. Quella notte, vegliando il sonno della bella, non solo capii quella raffinatezza senile, ma la vissi pienamente. 
«Chi ci avrebbe creduto» mi dissi, con l'amor proprio esacerbato dallo champagne. «Io, che faccio il vecchio giapponese a questa altezza.»
Credo di avere dormito diverse ore, sopraffatto dallo champagne e dalle vampate mute del film, e mi svegliai con la testa frastornata. 
Andai alla toilette. Due posti dietro il mio giaceva la vecchia delle undici valigie malamente abbandonata sul sedile. Sembrava un morto dimenticato sul campo di battaglia. A terra, in mezzo al corridoio, c'erano i suoi occhiali per leggere col filo di perline colorate, e per un istante godetti della gioia meschina di non raccoglierli. 
Dopo essermi ripreso dagli eccessi dello champagne mi sorpresi nello specchio, indecoroso e brutto, e mi stupii che fossero così terribili gli scempi dell'amore. D'improvviso, l'aereo cascò giù a picco, si raddrizzò alla meglio, e continuò a volare al galoppo. L'ordine di tornare al proprio posto si accese. Uscii di fretta, con l'illusione che le turbolenze di Dio svegliassero la bella, e che dovesse rifugiarsi fra le mie braccia in preda al terrore. Nell'urgenza per poco non calpestai gli occhiali dell'olandese, e me ne sarei rallegrato. Ma tornai sui miei passi, li raccolsi, e glieli posai in grembo, d'improvviso riconoscente che non avesse scelto prima di me il posto numero quattro. 
Il sonno della bella era invincibile. Quando l'aereo si fu stabilizzato, dovetti resistere alla tentazione di scuoterla con un pretesto qualsiasi, perché l'unica cosa che desideravo in quell'ultima ora di volo era vederla sveglia, sia pure infuriata, per poter recuperare la mia libertà, e forse la mia giovinezza. Ma non ne fui capace. «Cazzo» mi dissi, con grande spregio. «Perché non sono nato nel Toro!» Si svegliò senza aiuto nel momento in cui si accesero i segnali dell'atterraggio, ed era bella e riposata come se avesse dormito in un roseto. Solo allora mi accorsi che i vicini di posto sugli aerei, al pari dei vecchi coniugi, non si dicono buongiorno al risveglio. Neppure lei. Si tolse la mascherina, aprì gli occhi radiosi, raddrizzò il sedile, scostò la coperta, si scosse i capelli che si pettinavano da soli col loro peso, si rimise il cofanetto sulle ginocchia, e si fece un trucco rapido e superfluo, che le fu sufficiente per non guardarmi finché la porta non si aprì. Allora si infilò la giacca di lince, mi passò quasi addosso chiedendomi convenzionalmente scusa in uno spagnolo puro delle Americhe, e se ne ando senza neanche salutare, senza nemmeno ringraziarmi per tutto quello che avevo fatto per la nostra notte felice, e scomparve fino al sole di oggi nell'amazzonia di New York.