giovedì 7 giugno 2018


SE HAI BISOGNO CHIAMA

Raymond Carver

Estratto da "Se hai bisogno chiama"

Quella primavera tutt’e due avevamo avuto delle storie con altre persone, ma quando arrivò giugno e finí la scuola decidemmo di mettere in affitto la casa per tutta l’estate e trasferirci da Palo Alto in una località sulla costa settentrionale della California. Nostro figlio Richard sarebbe andato a casa della madre di Nancy a Pasco, su nello stato di Washington, dove avrebbe passato l’estate lavorando e mettendo cosí da parte un po’ di soldi per andare all’università in autunno. La nonna era al corrente della situazione a casa nostra, perciò aveva cominciato a darsi da fare perché il nipote andasse su da lei e gli aveva perfino trovato un lavoro prima ancora che partisse. Aveva parlato con un suo amico che aveva una fattoria ed era riuscita a strappargli la promessa di un lavoro per Richard: imballare fieno e costruire recinti. Lavori duri, ma Richard non vedeva l’ora di cominciare. Prese il pullman la mattina dopo la cerimonia della consegna del diploma. Lo portai alla stazione, parcheggiai, lo accompagnai dentro e rimasi con lui fino a quando annunciarono la partenza del pullman. Sua madre l’aveva già abbracciato stretto e baciato, aveva pianto e gli aveva dato una lunga lettera da consegnare alla nonna appena arrivato. Ora era rimasta a fare gli ultimi preparativi prima della nostra partenza e ad aspettare la coppia che avrebbe abitato a casa nostra. Acquistai il biglietto per Richard, glielo diedi e ci sedemmo ad aspettare su una delle panchine della stazione dei pullman. Per strada avevamo discusso un po’ della situazione.

– Tu e mamma divorziate? – aveva chiesto. Era sabato mattina e non c’era molto traffico in giro.
– No, se possiamo evitarlo, – gli ho detto. – Non vogliamo divorziare. È per questo che ce ne andiamo da qui e abbiamo intenzione di non vedere nessuno, quest’estate. È per questo che abbiamo affittato casa qui e preso quella su a Eureka. Ed è per questo che stai andando via tu, direi. Anche per questo, perlomeno. Senza contare che tornerai a casa pieno di soldi. No, non vogliamo divorziare. Vogliamo starcene soli tutta l’estate e vedere se è possibile aggiustare le cose.
– Ma tu le vuoi ancora bene, alla mamma? – disse. – A me lei ha detto che ti vuole bene.
– Ma certo che le voglio bene, – risposi. – Ormai dovresti saperlo, solo che abbiamo avuto la nostra parte di casini e di responsabilità pesanti, come tutti del resto, e ora ci serve un po’ di tempo per stare da soli e sistemare le cose. Non ti preoccupare per noi. Va’ su dalla nonna, cerca di passare una bella estate, lavora sodo e metti da parte i soldi. Però prendila pure come una vacanza. Approfittane per andare a pesca piú che puoi. Da quelle parti si pesca bene.
– E si fa sci d’acqua, – disse. – Voglio imparare a fare sci d’acqua.
– Non ci ho mai provato, io, – dissi. – Fanne un po’ anche per me, eh?
Rimanemmo seduti lí nella stazione dei pullman. Lui si mise a sfogliare l’annuario della scuola, mentre io tenevo in grembo il giornale. Poi fu annunciato il suo pullman e ci alzammo in piedi. Lo abbracciai e gli dissi: – Non ti preoccupare, capito? Dove ce l’hai il biglietto?
Lui si tastò la tasca della giacca e poi prese la valigia. Lo accompagnai fino alla fila dei passeggeri sulla banchina, lo abbracciai di nuovo, gli diedi un bacio su una guancia e lo salutai.
– Arrivederci, papà, – disse, poi si voltò per non farmi vedere le lacrime.
Tornai a casa, dove le valigie e gli scatoloni erano già allineati in soggiorno. Nancy era in cucina a bere caffè con la giovane coppia che aveva trovato per stare in casa nostra durante l’estate. Io li avevo già conosciuti qualche giorno prima, Jerry e Liz, due dottorandi in matematica, ma ci stringemmo la mano di nuovo. Poi presi anch’io il caffè che Nancy mi versò. Restammo seduti al tavolo a bere caffè, mentre Nancy finiva di stilare l’elenco delle cose cui fare attenzione o da fare a un certo punto del mese, il primo o l’ultimo giorno di ogni mese, dove avrebbero dovuto inoltrarci la posta, eccetera. Aveva la faccia tesa. Il sole attraversava le tende e inondava il tavolo a mano a mano che la mattinata procedeva.
Alla fine sembrò che ogni dettaglio fosse sistemato. Li lasciai in cucina e cominciai a caricare le nostre cose in macchina. La casa dove andavamo era ammobiliata: c’era tutto, comprese le stoviglie e gli utensili di cucina, perciò non avevamo bisogno di portarci dietro molta roba, solo l’essenziale.
Ero già stato a Eureka, sulla costa settentrionale della California, cinque o seicento chilometri a nord di Palo Alto, tre settimane prima, e avevo preso in affitto la casa. Ci ero andato insieme a Susan, la donna con cui avevo una relazione allora. C’eravamo fermati tre notti in un motel di periferia, mentre scorrevo i giornali e facevo il giro delle agenzie immobiliari. Lei era presente quando firmai l’assegno per i tre mesi di affitto. Piú tardi, nel motel, sdraiata a letto, con una mano sulla fronte, Susan mi disse: – Sai, invidio tua moglie. Sí, invidio Nancy. Si sente sempre parlare dell’«altra donna» e di come la moglie in carica ha tutti i privilegi e il coltello dalla parte del manico, ma non ho mai fatto molto caso a questi discorsi prima, né li capivo. Adesso capisco. E la invidio. Invidio la vita che farà con te in quella casa quest’estate. Vorrei tanto esserci io al suo posto. Vorrei tanto che si trattasse di noi due. Oh, quanto vorrei che si trattasse di noi due. Mi sento uno schifo, – cosí ha detto. Io le ho accarezzato i capelli.
Nancy era una donna alta, dalle gambe lunghe, con i capelli e gli occhi castani e uno spirito generoso. Solo che negli ultimi tempi scarseggiavamo entrambi sia in spirito che in generosità. L’uomo con cui si vedeva era un mio collega, divorziato, un damerino sempre in giacca e cravatta, un tizio dai capelli brizzolati che beveva troppo, tanto che, a detta di alcuni dei miei studenti, a volte in classe gli tremavano le mani. Lui e Nancy si erano imbarcati in quella storia a una festa durante le vacanze, non molto tempo dopo che Nancy aveva scoperto la mia, di storia. A distanza di tempo sembra tutto cosí volgare e prevedibile – forse perché lo era, volgare e prevedibile – ma quella primavera era quello che era e basta, e ci stava consumando tutte le energie e la concentrazione, a scapito del resto. Verso la fine di aprile cominciammo a pensare di affittare la casa e di andarcene da qualche parte per l’estate, noi due soli, per vedere di riaggiustare le cose, se era possibile. Di comune accordo stabilimmo che in quel periodo non avremmo né telefonato né scritto né ci saremmo tenuti in contatto in altro modo con i rispettivi amanti. Cosí organizzammo le cose per Richard, Nancy trovò la coppia che si sarebbe presa cura della casa e io consultai una mappa e andai a nord di San Francisco, dove trovai Eureka e un’agenzia immobiliare disposta ad affittare per l’estate una casa ammobiliata a una rispettabile coppia sposata di mezza età. Credo addirittura di aver usato l’espressione «seconda luna di miele» – che Dio mi perdoni – parlando con l’agente immobiliare, mentre, fuori in macchina, Susan stava fumando una sigaretta e leggiucchiava opuscoli turistici.
Finii di caricare borse, valigie e scatoloni nel bagagliaio e sul sedile posteriore, mentre Nancy scambiava un ultimo saluto con la coppia sotto la veranda. Strinse le mani ai due, si voltò e venne verso la macchina. Io li salutai con la mano e loro ricambiarono. Nancy salí e chiuse la portiera. – Andiamo, – mi disse. Innestai la marcia e ci dirigemmo verso la superstrada. A un semaforo, poco prima della superstrada, vedemmo una macchina che veniva giú dalla rampa trascinandosi dietro la marmitta, con le scintille che sprizzavano dappertutto. – Guarda che roba, – disse Nancy. – Potrebbe pure prendere fuoco –. Restammo lí a guardare finché la macchina non accostò e si fermò al bordo della strada.
Facemmo una sosta in una tavola calda lungo la statale, dalle parti di Sebastopol. «Mangia e fai il pieno», diceva il cartello. Ci mettemmo a ridere. Mi fermai davanti al locale, entrammo e prendemmo un tavolo sul fondo, vicino alla finestra. Dopo aver ordinato caffè e panini, Nancy si mise a seguire con l’indice le venature del legno del tavolo. Io accesi una sigaretta e guardai fuori. Notai un movimento veloce e poi mi resi conto che era un colibrí in mezzo al cespuglio sotto la finestra. Muoveva le ali cosí rapidamente che sembravano fuori fuoco e continuava ad affondare il becco in un fiore del cespuglio.
– Guarda, Nancy! – esclamai. – C’è un colibrí.
Ma proprio in quell’istante il colibrí volò via e cosí quando Nancy si voltò a guardare disse: – Dov’è? Non lo vedo.
– Era lí, un attimo fa, – dissi. – Guarda, eccolo. Mi sa che è un altro, però. È un colibrí diverso.
Rimanemmo a osservare il colibrí fino a quando la cameriera non ci portò l’ordinazione e l’uccellino vedendola arrivare volò via e sparí dietro l’edificio.
– Be’, mi pare un buon segno, – dissi. – I colibrí. Si dice portino fortuna, i colibrí.
– L’ho sentito dire anch’io, – disse Nancy. – Non mi ricordo dove, ma l’ho sentito dire. Be’, – disse, – di fortuna ne abbiamo proprio bisogno. Non ti pare?
– Sono un buon segno, – dissi. – Sono contento che ci siamo fermati qui.
Lei annuí. Rimase un attimo a pensare, poi diede un morso al suo panino.

Arrivammo a Eureka poco prima che facesse buio. Passammo accanto al motel sulla statale dove io e Susan ci eravamo fermati per quelle tre notti due settimane prima, poi uscimmo e prendemmo una strada secondaria su per una collina che dominava la città. Avevo le chiavi della casa in tasca. Proseguimmo per un paio di chilometri al di là della collina finché arrivammo a un piccolo incrocio con una pompa di benzina e un alimentari. Oltre la valle davanti a noi c’erano montagne boscose e pascoli tutt’intorno. In un campo dietro la pompa di benzina del bestiame brucava l’erba. – Bella la campagna, qui, – osservò Nancy. – Sono impaziente di vedere la casa.
– Ci siamo quasi, – risposi. – È in fondo a questa strada, – dissi, – alla fine della salita. Eccoci, – dissi poco dopo e imboccai un lungo viale bordato da siepi. – Siamo arrivati. Che te ne pare? – Avevo fatto la stessa domanda a Susan, quando io e lei c’eravamo fermati in mezzo al viale.
– Carina, – disse Nancy. – Proprio carina, sul serio. Scendiamo.
Ci fermammo qualche minuto sul prato davanti a guardarci attorno. Poi salimmo sulla veranda, aprii la porta d’ingresso e accesi le luci. Facemmo il giro della casa. C’erano due piccole camere da letto, un bagno, un soggiorno ammobiliato un po’ all’antica con il caminetto e una grande cucina con vista sulla valle.
– Be’, ti piace? – le chiesi.
– Devo dire che è un posto meraviglioso, – disse Nancy, con un gran sorriso. – Sono contenta che l’hai trovato. Sono contenta che siamo qui –. Aprí il frigo e passò un dito sul piano della cucina. – Grazie a Dio, sembra abbastanza pulito. Non dovrò mettermi a pulire.
– Ci sono perfino le lenzuola pulite nei letti, – dissi. – Ho controllato io stesso. Tanto per essere sicuro. Qui sono abituati ad affittarla cosí. Ci sono perfino i cuscini. Con federe e tutto.
– Dovremo comprare della legna da ardere, – disse. Eravamo in piedi in mezzo al soggiorno. – Ci verrà voglia di accendere il fuoco, in serate come questa.
– Alla legna ci penso io domani, – dissi. – Poi possiamo andare a fare la spesa e dare un’occhiata alla città.
Lei mi guardò e disse: – Sono contenta che siamo qui.
– Anch’io, – dissi. Allargai le braccia e lei mi si avvicinò. La strinsi. La sentivo fremere. Le sollevai il viso e la baciai su tutt’e due le guance. – Nancy, – le dissi.
– Sono contenta che siamo qui, – ripeté.

Passammo i giorni seguenti a sistemarci, girammo per Eureka guardando le vetrine dei negozi, facemmo passeggiate nei pascoli dietro casa fino ad arrivare ai boschi. Andammo a fare provviste e trovai un annuncio sul giornale che offriva legna da ardere in vendita e cosí chiamai; uno o due giorni dopo due giovanotti con i capelli lunghi ci portarono un furgone di legna d’ontano e ne fecero una catasta sotto la tettoia per le macchine. Quella sera, dopo cena, ci sedemmo davanti al caminetto a bere caffè, discutendo dell’eventualità di prenderci un cane.
– Però non voglio un cucciolo, – disse Nancy. – Di quelli che bisogna stargli dietro a pulire o che si rosicchiano le cose. Che ce ne faremmo? Però, sí, un cane mi piacerebbe tenerlo. È tanto tempo che non abbiamo un cane. Mi sa che in un posto cosí lo riusciremmo a tenere, un cane.
– E quando torniamo, alla fine dell’estate? – dissi. Poi riformulai la frase: – Che ne pensi di tenere un cane in città? –
Vedremo. Nel frattempo, cerchiamoci un cane. Uno adatto. Come faccio a sapere cosa voglio finché non lo vedo. Possiamo leggere gli annunci e andare giú al canile, se necessario –. Ma anche se continuammo a parlare di cani per diversi giorni e quando passavamo in macchina indicavamo quelli che vedevamo nei giardini delle case e che, dicevamo, ci sarebbero piaciuti, alla fine non se ne fece niente e non prendemmo nessun cane.
Nancy chiamò sua madre e le diede il nostro indirizzo e il numero di telefono. Richard lavorava e sembrava contento, disse la madre. Anche lei stava bene. Sentii Nancy che diceva: – Anche noi stiamo bene. Questo posto è un’ottima medicina.
Un giorno, verso la metà di luglio, mentre percorrevamo in macchina la statale costiera, da un’altura scorgemmo alcune lagune separate dal mare da banchi di sabbia. C’era gente che pescava a riva e due barchette in mezzo all’acqua.
Accostai al bordo della strada e mi fermai. – Andiamo a vedere cosa stanno pescando, – dissi. – Magari ci potremmo procurare un po’ di attrezzatura e pescare anche noi.
– Sono anni che non peschiamo, – disse Nancy. – Da quando Richard era ancora piccolo e siamo andati in campeggio vicino al monte Shasta. Te lo ricordi?
– Certo che me lo ricordo, – dissi. – E mi sono anche appena ricordato che mi manca tanto, andare a pesca. Andiamo laggiú a vedere che cosa stanno pescando.
– Trote, – rispose un tizio, quando glielo chiesi. – Trote tagliagola e trote iridate. Ci sono anche un po’ di trote brune e qualche salmone. Arrivano qui d’inverno, quando il banco di sabbia si apre, e quando a primavera si richiude rimangono intrappolate. Questa è la stagione adatta per pescarle. Oggi non ne ho presa ancora nessuna, ma domenica scorsa ne ho prese quattro, di una quarantina di centimetri. Il pesce piú buono al mondo, e lottano a morte prima di arrendersi. Quei tizi in barca ne hanno prese diverse oggi, mentre io, finora, niente.
– E per esca, cosa usa? – gli chiese Nancy.
– Di tutto, – rispose il tizio. – Vermi, uova di salmone, chicchi di granturco. Basta gettarli lí e lasciarli posare sul fondo. Dargli un po’ di filo e tenere d’occhio la lenza.
Rimanemmo lí un altro po’ a guardare l’uomo che pescava e a guardare lo sciabordio delle barchette che andavano avanti e indietro nella laguna.
– Grazie, – dissi al tizio.– Buona fortuna.
– Buona fortuna anche a voi, – rispose lui.– Buona fortuna a tutti e due.
Sulla strada del ritorno in città ci fermammo in un negozio di articoli sportivi e comprammo licenze da pesca, canne economiche, mulinelli, filo di nylon, ami, galleggianti, piombini e un cestino di vimini. Decidemmo di andare a pescare la mattina dopo.
Ma quella sera, dopo che avevamo cenato e lavato i piatti e io avevo preparato il fuoco nel caminetto, Nancy scosse la testa e disse che non avrebbe funzionato.
– Perché dici cosí? – le chiesi. – Cos’è che vuoi dire?
– Voglio dire che non può funzionare. Guardiamo in faccia la realtà –. Scosse di nuovo la testa. – E non mi va neanche di andare a pescare domani mattina e non voglio nemmeno un cane. No, niente cani. Mi sa che ho voglia di andare su a trovare mia madre e Richard. Da sola. Voglio star sola. E mi manca Richard, – disse, scoppiando a piangere. – Richard è mio figlio, il mio bambino, – aggiunse, – che ormai è grande e se ne andrà presto. Mi manca tanto.
– E Del? Ti manca tanto anche Del Shraeder? – dissi. – Il tuo amichetto. Ti manca, eh?
– Stasera mi mancano tutti, – disse. – Mi manchi perfino tu. È un pezzo ormai che mi manchi. Mi sei mancato tanto che ormai è come se ti fossi perso, non so come spiegarlo. Ti ho perso. Non sei piú mio.
– Nancy, – dissi io.
– No, no, – disse. Scrollò ancora una volta la testa. Sedeva sul divano davanti al fuoco e continuava a scuotere la testa. – Voglio prendere un aereo per andare a trovare mia madre e Richard, domani stesso. Quando me ne sarò andata potrai chiamare la tua amichetta.
– Neanche per sogno, – dissi. – Non ho alcuna intenzione di farlo.
– La chiamerai, – disse lei.
– E tu chiamerai Del, – dissi io. Ma nel dirlo mi sentii un pezzo di merda.
– Puoi fare quello che ti pare, – disse lei, asciugandosi gli occhi con la manica. – Dico sul serio. Non voglio sembrarti isterica. Ma domani stesso vado su nello stato di Washington. E adesso me ne vado subito a letto. Sono esausta. Mi dispiace. Mi dispiace per tutti e due, Dan. Non ce la facciamo. Quel pescatore, oggi. Ci ha augurato buona fortuna –. Scosse la testa. – Anch’io ce l’auguro. Ne avremo bisogno, di fortuna.
Andò in bagno e sentii l’acqua scorrere nella vasca. Uscii e mi sedetti sui gradini della veranda a fumare una sigaretta. Fuori c’era buio e silenzio. Guardai in direzione della città e vidi un vago chiarore in cielo e banchi di nebbia salire nella valle dal mare. Cominciai a pensare a Susan. Poco dopo, Nancy uscí dal bagno e sentii la porta della camera da letto richiudersi. Rientrai, misi un altro pezzo di legna sul fuoco e aspettai finché le fiamme non cominciarono a salire su per la corteccia. Poi andai nell’altra camera da letto e tirai giú le coperte. Rimasi a fissare i fiori stampati sulle lenzuola. Poi mi feci una doccia, mi infilai il pigiama e andai di nuovo a sedermi accanto al caminetto. Quando rialzai gli occhi verso la finestra, notai qualcosa muoversi nella nebbia e vidi un cavallo che pascolava nel giardino davanti.
Andai subito alla finestra. Il cavallo alzò la testa e mi guardò per un attimo, poi tornò a brucare l’erba del prato. Un altro cavallo sbucò dalla nebbia, passando accanto alla macchina, e si mise a brucare anche lui. Accesi la luce della veranda e mi appostai alla finestra per guardarli. Erano grandi cavalli bianchi dalla lunga criniera. Dovevano essere usciti da uno dei recinti o da un cancello lascia to aperto in una delle fattorie vicine. In qualche modo erano finiti nel nostro giardino. Si stavano divertendo un mondo, godendosi la loro scappatella. Però erano anche nervosi; in piedi dietro la finestra, riuscivo a vederne il bianco degli occhi. Abbassavano e rizzavano le orecchie mentre strappavano grossi ciuffi d’erba. Ne arrivò un terzo e poi un quarto. Era un branco di cavalli bianchi e stavano pascolando nel giardino di casa nostra.
Andai in camera da letto e svegliai Nancy. Aveva gli occhi rossi e gonfi. Aveva i bigodini nei capelli e sul pavimento ai piedi del letto c’era una valigia aperta.
– Nancy, – le dissi. – Tesoro, vieni a vedere cosa c’è in giardino. Vieni a vedere. È una cosa che devi assolutamente vedere. Non crederai ai tuoi occhi. Dài, sbrigati.
– Che c’è? – disse lei.
– Non farmi male. Che c’è? – Tesoro, devi vedere che spettacolo. Non voglio farti male. Mi dispiace se ti ho spaventato. Ma devi uscire qua fuori a vedere una cosa.
Tornai nell’altra stanza e mi misi alla finestra; dopo pochi minuti Nancy arrivò, allacciandosi la vestaglia. Guardò fuori dalla finestra e disse: – Dio mio, ma sono bellissimi! Da dove sono saltati fuori, Dan? Sono stupendi.
– Devono essere scappati da qualche parte qui intorno, – dissi io. – Una di queste fattorie. Tra poco chiamo l’ufficio dello sceriffo e gli dico di trovare i proprietari. Però, prima volevo che li vedessi anche tu.
– Dici che mordono? – fece lei. – Mi piacerebbe accarezzare quello lí, quello che ci ha appena guardato. Mi piacerebbe fargli una carezza sulla spalla. Però non vorrei che mi mordesse. Io esco fuori.
– Secondo me non mordono, – dissi. – Non mi sembra il tipo di cavallo che morde. Però mettiti una giacca se esci; fa freddo.
Mi infilai anch’io una giacca sopra il pigiama e aspettai Nancy. Poi aprii la porta e uscimmo nel giardino invaso dai cavalli. Alzarono tutti la testa e ci guardarono. Poi due di loro tornarono a brucare l’erba. Un altro sbuffò e arretrò di qualche passo, ma poi anche lui si rimise a brucare e a masticare, con la testa bassa. Accarezzai la fronte di un cavallo e gli diedi qualche pacca sulla spalla. Continuò a masticare. Nancy allungò la mano e cominciò ad accarezzare la criniera a un altro cavallo. – Da dove vieni, Cavallino? – disse. – Dove abiti e perché sei uscito stasera, Cavallino? – disse, e continuò a lisciargli la criniera. Il cavallo la guardò, poi soffiò aria dalle labbra e riabbassò la testa. Lei gli diede qualche pacca sulla spalla.
– Mi sa che è meglio che chiamo lo sceriffo, – dissi.
– No, aspetta, – disse lei. – Aspetta ancora un po’. Non ci capiterà piú di vedere una cosa del genere. Mai, mai piú avremo il giardino pieno di cavalli. Aspetta ancora un po’, Dan.
Passò del tempo e Nancy era ancora lí che andava da un cavallo all’altro, dandogli colpetti sulle spalle o accarezzandogli le criniere, quando uno di loro si mosse dal giardino ed entrò nel vialetto, girò intorno alla macchina e si diresse verso la strada. A quel punto mi resi conto che era ora di telefonare.
Dopo un po’, arrivarono due macchine dello sceriffo con le luci rosse che lampeggiavano nella nebbia e qualche minuto piú tardi un tizio con una giacca di montone alla guida di un furgoncino con attaccato un rimorchio per cavalli. A quel punto i cavalli cominciarono a imbizzarrirsi e cercarono di scappare, e il tizio con il rimorchio tirò una bestemmia e cercò di accalappiare il collo di un cavallo con una corda.
– Non gli faccia del male! – gridò Nancy.
Tornammo dentro casa e rimanemmo a guardare dalla finestra, mentre gli uomini dello sceriffo e l’allevatore si davano da fare per radunare tutti i cavalli.
– Vado a fare il caffè, – dissi. – Ne vuoi un po’, Nancy?
– Te lo dico io che cosa voglio, – disse lei. – Mi sento su di giri, Dan. È come fossi un po’ brilla. Mi va di... non so cosa mi va di fare, ma è una bella sensazione. Metti su il caffè e intanto io cerco un po’ di musica che ci piace alla radio e poi puoi riattizzare il fuoco. Mi sento troppo eccitata per dormire.
E cosí ci sedemmo davanti al caminetto, sorseggiando caffè e ascoltando un programma notturno di musica da una stazione di Eureka. Parlammo di cavalli e poi di Richard e della madre di Nancy. Ballammo, anche. Non parlammo per niente della nostra situazione. La nebbia continuava a incombere fuori dalla finestra, mentre noi parlavamo ed eravamo premurosi l’uno con l’altra. Quando stava per sorgere l’alba spensi la radio, andammo a letto e facemmo l’amore.
Il pomeriggio seguente, dopo che ebbe organizzato il viaggio e fatto le valigie, l’accompagnai in macchina al piccolo aeroporto dove avrebbe preso un volo per Portland e poi la coincidenza con un’altra linea che l’avrebbe fatta arrivare a Pasco a notte tarda.
– Porta i miei saluti a tua madre. Abbraccia Richard per me e digli che mi manca, – le dissi. – Digli che gli voglio bene.
– Anche lui te ne vuole, – disse lei. – Lo sai. A ogni modo,sono sicura che lo rivedrai presto, in autunno.
Annuii.
– Addio, – disse e mi venne incontro. Ci abbracciammo e restammo cosí.– Sono contenta per stanotte, – disse. – Quei cavalli. La nostra chiacchierata. Tutto. Ci ha fatto bene. Non ce ne scorderemo, – disse. Poi si mise a piangere.
– Scrivimi, eh? – le dissi. – Non credevo ci sarebbe successo questo, – dissi. – Dopo tutti questi anni. Non l’avrei mai pensato, neanche di sfuggita. Che sarebbe capitato proprio a noi.
– Ti scriverò, – disse lei. – Lettere lunghissime. Le piú lunghe che avrai mai visto da quando ti scrivevo ai tempi del liceo.
– Le aspetterò, – dissi.
Poi mi guardò di nuovo e mi accarezzò la guancia. Quindi si voltò e si avviò sulla pista verso l’aereo.
«Va’, mia cara, e che Dio t’accompagni».
Salí a bordo e io rimasi lí finché non si accesero i motori. Dopo un attimo, il jet cominciò a rullare lungo la pista e decollò sopra la baia di Humboldt, diventando ben presto un puntino all’orizzonte.
Tornai a casa e parcheggiai la macchina sul vialetto. Guardai le impronte che gli zoccoli dei cavalli avevano lasciato la notte prima sull’erba. Il prato era pieno di orme profonde, e squarci, e mucchi di escrementi. Entrai in casa e, senza neanche togliermi la giacca, andai al telefono e feci il numero di Susan.