Raymond Carver
Estratto da "Se hai bisogno chiama"
La sera prima di partire eravamo invitati a cena da Pete Petersen e da sua moglie Betty. Pete aveva un ristorante che dominava la statale e l’oceano Pacifico. All’inizio dell’estate avevamo affittato da lui una casetta ammobiliata un centinaio di metri dietro al suo ristorante, appena al di là del parcheggio. Certe sere, quando il vento soffiava dall’oceano, aprivamo la porta e sentivamo l’odore delle bistecche cotte alla griglia nella cucina del ristorante e vedevamo il filo di fumo grigio che si levava dal massiccio camino di mattoni. E sempre, giorno e notte, vivevamo circondati dal ronzio delle grandi ventole della cella frigorifera sul retro del ristorante, un rumore a cui ormai ci eravamo abituati.
La figlia di Pete, Leslie, una biondina smilza che non dava mai molta confidenza, abitava in una casa ancora piú piccola proprio accanto alla nostra, anch’essa di Pete. Era lei che si occupava degli affari del padre ed era già stata da noi a fare un rapido inventario degli oggetti di casa – l’avevamo affittata ammobiliata e fornita di tutto, fino alla biancheria da letto e all’apriscatole elettrico – per poi restituirci l’assegno del deposito e augurarci buona fortuna. Quella mattina, quando era venuta a casa con un portablocco a cui era attaccato l’inventario, si era dimostrata cordiale e c’eravamo scambiati parole gentili. Non le ci volle molto a fare l’inventario e l’assegno l’aveva già pronto e firmato.
– Papà sentirà la vostra mancanza, – ci disse. – È strano. Lui è un tipo tosto come una suola di scarpa, lo sapete, ma gli mancherete. L’ha detto lui stesso. Gli dispiace che ve ne andiate. E anche a Betty –. Betty era la matrigna e badava ai figli di Leslie quando lei usciva con il ragazzo o se ne andavano insieme qualche giorno a San Francisco. Insomma, Pete e Betty, Leslie e i suoi bambini, Sarah e io vivevamo dietro il ristorante, tutti a portata di vista, e infatti vedevo spesso i figli di Leslie fare avanti e indietro dalla loro casetta a quella di Pete e Betty. A volte i bambini venivano anche a casa nostra, suonavano il campanello e restavano in attesa sul gradino. Sarah li invitava a entrare e gli offriva i biscotti o una fetta di ciambellone. Si sedevano attorno al tavolo come adulti e lei gli chiedeva come avevano passato la giornata e mostrava interesse per le loro risposte.
I nostri, di figli, se n’erano andati di casa prima che ci trasferissimo in questa zona costiera della California settentrionale. Nostra figlia, Cindy, viveva con diversi altri ragazzi in una casa in mezzo a un terreno sassoso di parecchi ettari vicino a Ukiah, nella contea di Mendocino. Allevavano api, capre e polli e vendevano le uova, il latte di capra e il miele in barattoli. Le donne facevano coperte e trapunte patchwork e a volte riuscivano a venderle. Non voglio chiamarla una comune. Da quello che si dice delle comuni – posti dove tutte le donne sono proprietà di tutti gli uomini e roba del genere – se la chiamassi una comune avrei ancora piú problemi a mandarla giú. Diciamo che viveva in quella piccola fattoria insieme a vari amici e tutti si dividevano il lavoro. Per quanto ne sapevamo, comunque, non erano invischiati in organizzazioni religiose o sette di qualche tipo. Non avevamo sue notizie da circa tre mesi, a parte un barattolo di miele che un giorno ci era arrivato per posta, insieme a un pezzo di stoffa rossa pesante – un pezzo di una trapunta che stava facendo lei. Intorno al vasetto di miele c’era un biglietto che diceva:
Cari mamma e papà,
questo qui l’ho cucito io e anche il miele l’ho fatto io. Sto imparando a fare un sacco di cose, qui.
Con affetto, Cindy
Però, dopo, due lettere di Sarah non ebbero risposta e poi quell’autunno successe quella cosa a Jonestown e per un paio di giorni avemmo una paura folle che lei si potesse trovare là, per quel che ne potevamo sapere, nella Guyana britannica. Non avevamo che un numero di casella postale a Ukiah. Chiamai l’ufficio dello sceriffo locale e gli spiegai la situazione e lui andò nella fattoria a fare la conta dei presenti e a portare un nostro messaggio. Cindy ci chiamò quella sera stessa e prima ci parlò Sarah e si mise a piangere, poi ci parlai io e anch’io piansi di sollievo. Pure Cindy pianse. A quanto pare alcuni dei suoi amici erano effettivamente finiti laggiú a Jonestown. Disse che pioveva ed era un po’ depressa, ma la depressione le sarebbe passata, disse; in fondo stava dove voleva stare e faceva quello che voleva fare. Ci avrebbe scritto una lunga lettera e anche mandato una foto, presto.
Ecco perché quando i figli di Leslie venivano a farci visita, Sarah gli dava un sacco di importanza e di attenzione, li faceva sedere attorno al tavolo, gli preparava la cioccolata, gli offriva biscotti e fette di ciambellone e si interessava molto a quello che avevano da raccontare.
A ogni modo, stavamo per andarcene, avevamo deciso di separarci. Io dovevo andare in Vermont per insegnare un semestre in un piccolo college e Sarah avrebbe preso in affitto un appartamento a Eureka, una città vicina. Alla fine dei quattro mesi e mezzo, allo scadere del mio incarico al college, avremmo riesaminato la situazione e preso una decisione. Non avevamo altre storie in corso, grazie al cielo, e né io né lei toccavamo piú un goccio da poco meno di un anno, cioè per quasi tutto il tempo che eravamo vissuti insieme a casa di Pete. Insomma, avevamo abbastanza soldi perchè io mi trasferissi all’Est e per sistemare Sarah in un appartamento suo. Lei stava già facendo delle ricerche e anche un po’ di lavoro di segreteria per il dipartimento di Storia dell’università di Eureka e, se manteneva quel lavoro, la macchina, e se doveva badare solo a se stessa, poteva cavarsela alla grande. Avremmo vissuto ognuno per conto suo quel semestre, io sulla costa est, lei sulla ovest, e poi avremmo tirato un bilancio e deciso il da farsi.
Mentre pulivamo la casa – io a lavare le finestre e Sarah carponi che puliva il parquet, i battiscopa e gli angoli con una bacinella di acqua saponata e una vecchia maglietta – Betty bussò alla porta. Per noi era un punto d’onore lasciare la casa pulita, e pulita a fondo, prima di partire. Avevamo perfino preso una spazzola d’acciaio e sfregato ben bene i mattoni attorno al caminetto. In passato avevamo abbandonato troppe case in tutta fretta, lasciandole danneggiate o comunque in disordine, oppure senza pagare l’affitto e magari costretti a traslocare di nascosto, nel cuore della notte. Perciò stavolta c’eravamo fatti un punto d’onore di lasciare questa casa pulita, addirittura immacolata, magari in condizioni perfino migliori di come l’avevamo trovata; ecco perché, dopo aver stabilito la data della partenza, ci eravamo messi d’impegno a cancellare ogni traccia del nostro passaggio in quella casa. Perciò, quando Betty venne a bussarci alla porta, stavamo tutt’e due lavorando sodo in stanze diverse e all’inizio non la sentimmo. Cosí lei dovette bussare un po’ piú forte; allora io poggiai gli stracci e uscii dalla stanza da letto.
– Spero di non disturbare, – disse lei, con le guance in fiamme. Era una donnina soda e aveva addosso pantaloni azzurri e una camicetta rosa fuori dai pantaloni. Aveva capelli corti e castani ed era vicina alla cinquantina, piú giovane di Pete. Aveva lavorato come cameriera nel ristorante ed era stata amica di Pete e della sua prima moglie, Evelyn, la madre di Leslie. Poi, ci avevano raccontato, un giorno Evelyn, che aveva solo cinquantaquattro anni, stava tornando a casa da Eureka, dove aveva fatto qualche compera. Aveva appena imboccato il parcheggio dietro al ristorante ed era diretta verso il vialetto d’ingresso di casa, quando il cuore le si fermò di colpo. La macchina continuò ad andare avanti, lentamente, ma con abbastanza forza da abbattere la piccola staccionata di legno, attraversare l’aiuola di azalee che lei stessa aveva piantato e poi fermarsi contro la veranda con Evelyn accasciata sul volante, morta. Qualche mese dopo, Pete e Betty si sposarono e Betty smise di servire ai tavoli del ristorante e diventò la matrigna di Leslie e la nonna dei figli di Leslie. Anche Betty era già stata sposata e aveva figli grandi che abitavano nell’Oregon e ogni tanto venivano giú a trovarla. Erano cinque anni che Pete e Betty erano sposati e, da quello che potevamo vedere noi, erano felici e andavano d’amore e d’accordo.
– Prego, prego, accomodati, Betty, – dissi. – Stiamo solo facendo un po’ di pulizie –. Mi feci da parte e le tenni la porta aperta.
– Non posso fermarmi, – disse lei. – Devo badare ai bambini, oggi. Devo tornare subito a casa. Comunque io e Pete ci chiedevamo se vi andrebbe di venire a cena da noi, prima di traslocare –. Parlava a voce bassa, timidamente, e teneva una sigaretta tra le dita. – Magari venerdí sera? – aggiunse. – Sempre che possiate.
Sarah si rassettò i capelli e venne alla porta. – Betty, vieni dentro, togliti dal freddo, – disse. Il cielo era grigio e il vento spingeva grandi nuvole dal mare.
– No, no, grazie, ma proprio non posso. Ho lasciato i bambini di là a colorare, devo tornare. Pete e io ci domandavamo se voi due potreste venire a cena. Magari venerdí sera, la sera prima che partite? – Rimase in attesa, con la sua aria timida. Il vento le sollevò una ciocca di capelli e lei fece un tiro dalla sigaretta.
– Mi farebbe molto piacere, – disse Sarah. – Per te va bene, Phil? Non abbiamo impegni, mi pare. Va bene?
– Molto gentile da parte vostra, Betty, – dissi io. – Ci farà molto piacere venire.
– Verso le sette e mezzo, allora? – disse Betty.
– Alle sette e mezzo, – disse Sarah. – Ci fa molto piacere, Betty. Piú di quanto riesca a dirti. È un pensiero molto gentile da parte tua e di Pete.
Betty scosse la testa, imbarazzata. – Pete dice che gli dispiace che ve ne andiate. Dice che è stato come avere qui altri membri della famiglia. Dice che è stato un onore avervi come inquilini –. Cominciò a scendere i gradini a ritroso. Aveva ancora le guance rosse. – Allora, a venerdí sera, – disse.
– Grazie di cuore, Betty, sul serio, – disse Sarah. – Grazie ancora. Vuol dire tanto per noi.
Betty agitò la mano e scosse la testa. Poi ripeté: – A venerdí, allora, – e il modo in cui lo disse mi fece venire un groppo alla gola. Dopo che si fu voltata, chiusi la porta e Sarah e io ci scambiammo un’occhiata.
– Be’, – disse Sarah, – questa è una novità, ti pare? Essere invitati a cena dai padroni di casa invece di scappare e nasconderci da qualche parte.
– Pete mi piace, – dissi. – È un brav’uomo.
– Anche Betty, – disse Sarah. – È una brava donna, gentile, e sono contenta che lei e Pete si siano trovati.
– A volte le cose vanno per il verso giusto, – dissi. – A volte funzionano.
Sarah non rispose niente. Si morse il labbro per un istante. Poi tornò di là a pulire il pavimento. Io mi sedetti sul divano e mi fumai una sigaretta. Appena finito, mi alzai e tornai nell’altra stanza a riprendere il mio secchio con lo straccio.
Il giorno dopo, venerdí, finimmo di pulire la casa e di fare i bagagli. Sarah ripulí per l’ennesima volta la cucina, mise i fogli di alluminio sotto i fornelli e diede un’ultima ripassata al piano di lavoro. In un angolo del soggiorno, pronti per la partenza, c’erano le nostre valigie e alcuni scatoloni di libri. La sera avremmo cenato con i Petersen e la mattina dopo avremmo fatto colazione fuori. Poi saremmo tornati e avremmo caricato la macchina; non che ci fosse rimasto molto, dopo venti anni di traslochi e di casini. Saremmo andati in macchina fino a Eureka dove avremmo scaricato la roba nell’appartamentino che Sarah aveva preso in affitto qualche giorno avanti, e poi, poco prima delle otto di sera, lei mi avrebbe accompagnato al piccolo aeroporto dove sarebbe cominciato il mio viaggio verso la costa orientale. Avrei fatto tappa a San Francisco e preso la coincidenza per Boston che partiva a mezzanotte, mentre lei cominciava una nuova vita a Eureka. Un mese prima, quando avevamo cominciato a parlare di queste faccende, lei si era tolta la fede nuziale – non tanto per rabbia quanto per tristezza, una sera proprio mentre stavamo decidendo queste cose. Per qualche giorno non aveva portato piú nessun anello, ma poi si era comprata un anellino da poco prezzo con su una farfalla di turchese perché, come mi spiegò, si sentiva il dito nudo. Una volta, diversi anni prima di questo episodio, in un impeto di rabbia si era sfilata la fede dal dito e l’aveva tirata dall’altra parte del soggiorno. Io ero ubriaco, all’epoca, e me ne andai da casa, ma quando, pochi giorni dopo, ne discutemmo e le chiesi che fine aveva fatto la sua fede, mi disse: – Ce l’ho ancora. L’ho solo messa in un cassetto. Non crederai mica che butterei via la mia fede, vero? – Qualche giorno piú tardi se la rimise al dito e non se l’era piú tolta, anche nei periodi peggiori, fino a un mese prima. Aveva anche smesso di prendere la pillola e si era fatta mettere un diaframma.
Insomma, quel giorno lavorammo in casa e finimmo di fare i bagagli e le pulizie e poi, poco dopo le sei, ci facemmo una doccia, riasciugammo per bene il box, ci vestimmo e ci sedemmo in soggiorno, lei a gambe piegate sotto di sé sul divano, con un abito di maglina e un foulard azzurro, io nella poltrona grande vicino alla finestra. Da dove ero seduto vedevo il retro del ristorante di Pete e, oltre il ristorante, alcune miglia di oceano, i prati e le macchie d’alberi che si estendevano tra la finestra e le case. Rimanemmo lí seduti senza parlare. Avevamo già parlato anche troppo. Cosí ce ne stavamo seduti in silenzio a guardare come si faceva buio fuori e la piuma di fumo che si levava dal camino del ristorante.
– Bene, – disse a un certo punto Sarah, allungando le gambe sul divano. Si tirò un po’ giú la gonna. Si accese una sigaretta. – Che ore sono? Magari dovremmo avviarci. Hanno detto alle sette e mezzo, no? Che ore sono adesso?
– Le sette e dieci, – risposi io.
– Le sette e dieci, – ripeté lei. – Questa è l’ultima volta che possiamo star seduti in soggiorno a guardare farsi buio fuori. Non voglio dimenticarmelo. Sono contenta che abbiamo ancora qualche minuto.
Dopo un po’, mi alzai per prendere il cappotto. Andando in camera da letto mi fermai al capo del divano dov’era seduta lei, mi chinai e la baciai sulla fronte. Dopo il bacio lei alzò lo sguardo verso di me e mi fissò per un po’.
– Prendi anche il mio, di cappotto, – disse.
La aiutai a indossarlo e uscimmo di casa, attraversammo il prato e il lato posteriore del parcheggio fino a casa di Pete. Per strada Sarah teneva le mani in tasca, mentre io fumavo una sigaretta. Appena arrivammo al cancelletto della staccionata che circondava casa di Pete, buttai la cicca e presi Sarah sottobraccio.
La casa era nuova e avevano piantato un rampicante che era cresciuto su tutta la staccionata. Alla ringhiera che correva intorno alla veranda avevano inchiodato la statuetta di un taglialegna. Quando soffiava il vento, il taglialegna cominciava a segare una specie di tronco. In quel momento non stava segando, ma sentivo l’umidità nell’aria e sapevo che il vento si sarebbe alzato presto. Sulla veranda c’erano vasi di fiori e le aiuole costeggiavano il vialetto su entrambi i lati, ma chissà se erano stati piantati da Betty oppure dalla prima moglie? Sulla veranda c’erano anche dei giocattoli e un triciclo. La luce era accesa e, appena cominciammo a salire i gradini, Pete aprí la porta e ci salutò.
– Entrate, entrate, – disse, tenendo aperta la zanzariera con una mano. Strinse le mani di Sarah nelle sue e poi strinse la mia. Era un uomo alto e magro, sulla sessantina, con una gran chioma di capelli grigi ben pettinati. Le spalle davano l’impressione di una grande mole, ma in realtà non era affatto pesante. Indossava una camicia grigia, calzoni scuri e scarpe bianche. Anche Betty venne alla porta, mentre Pete ci chiese cosa volevamo da bere.
– Che vi posso offrire? – disse. – Basta che lo dite. Se non ce l’abbiamo lo mandiamo a prendere al ristorante –. Pete era un ex alcolizzato, ma teneva vino e liquori in casa per gli ospiti. Una volta mi aveva detto che quando aveva comprato il suo primo ristorante e cucinava sedici ore al giorno, beveva piú di mezzo litro di whisky nell’arco delle sedici ore e trattava male i suoi dipendenti. Adesso aveva smesso di bere, era stato anche in ospedale, avevamo sentito dire, e non toccava un goccio da sei anni, però, come molti alcolizzati, teneva ancora liquori in casa.
Sarah disse che avrebbe gradito un bicchiere di vino bianco. Io la guardai. Poi chiesi una coca. Pete mi fece l’occhiolino e disse: – Ci vuoi qualcosa nella coca, eh? Qualcosa per toglierti l’umidità dalle ossa?
– No, grazie, Pete, ma forse puoi metterci una fettina di lime, grazie, – dissi.
– Bravo, – disse. – Anche per me è l’unico sistema.
Vidi Betty girare una manopola sul forno a microonde e spingere un pulsante. Pete disse: – Betty, vuoi fare compagnia a Sarah con un bicchiere di vino, oppure che cosa vuoi, tesoro?
– Un goccetto di vino va bene, Pete, – disse Betty.
– Phil, eccoti la coca, – disse Pete. – Sarah, – disse, porgendole un bicchiere di vino. – Betty. Bene, oh, guardate che c’è tanto di tutto. Andiamo a metterci comodi.
Attraversammo la sala da pranzo. La tavola era già apparecchiata per quattro – servizio di porcellana e bicchieri di cristallo. Entrammo in soggiorno, e Sarah e io ci sedemmo insieme su uno dei divani. Pete e Betty si sedettero su quello di fronte. Su un tavolinetto basso, a portata di mano, c’erano coppette di noccioline, cime di cavolfiore, gambi di sedano e una ciotola di salsa per intingerceli.
– Siamo cosí contenti che siate potuti venire, – disse Betty. – È tutta la settimana che non vediamo l’ora.
– Ci mancherete, – disse Pete, – dico sul serio. Mi dispiace tanto vedervi andar via, ma mi rendo conto che cosí è la vita, la gente deve fare quello che deve fare. Non so dirlo bene, ma vi assicuro che è stato un onore avervi qui in casa, due professori come voi. Ho un grande rispetto per l’istruzione, sapete, anche se io non è che ne abbia molta. Qui siamo come una grande famiglia, ve ne sarete accorti, e ormai vi consideriamo parte della famiglia. Alla vostra salute. A voi e al futuro!
Alzammo i bicchieri e poi bevemmo.
– Siamo felici che la pensiate cosí, – disse Sarah. – Per noi è molto importante, questa cena; anche noi non vedevamo l’ora, veramente. Significa proprio molto per noi, piú di quanto riesca a dire.
Pete ripeté: – Ci mancherete, tutto qui –. Poi scosse la testa.
– Stare qui ci ha fatto molto, molto bene, – disse Sarah. – Non immaginate quanto.
– Appena l’ho visto, c’è stato subito qualcosa che mi è piaciuto di questo signore qui, – disse
Pete, rivolto a Sarah. – Sono contento di avergli affittato casa. Ci sono un sacco di cose che si capiscono di un uomo, appena lo si incontra. Be’, il tuo uomo, qui, mi è piaciuto subito. Tienitelo da conto.
Sarah allungò una mano per prendere un gambo di sedano. Si sentí un campanello scattare in cucina e Betty disse: – Scusate, – e uscí dal soggiorno.
– Questi li riempiamo, – disse Pete. Uscí anche lui e dopo un attimo tornò con altro vino per Sarah e un bicchiere pieno di coca per me.
Betty cominciò a portare dalla cucina cose da mettere a tavola. – Spero che vi piaccia il «mare e monti», – disse Pete. – Lombata e coda d’aragosta.
– Be’, ha un bel nome, proprio una cena da sogno, – disse Sarah.
– Mi sa che possiamo metterci a tavola adesso, – disse Betty. – Se volete accomodarvi. Pete si siede sempre qui, – disse Betty. – Questo è il posto di Pete. Phil, tu siediti lí. Sarah, tu qui, davanti a me.
– Chi sta a capotavola, paga il conto, – disse Pete, ridendo.
Fu una gran cena: insalata verde punteggiata di gamberetti freschi, zuppa di frutti di mare, coda di aragosta e lombatine. Sarah e Betty bevevano vino, Pete acqua minerale e io continuai con la coca. Parlammo un po’ di Jonestown, dopo che Pete tirò fuori l’argomento, ma mi resi conto che la conversazione stava innervosendo un po’ Sarah. Le labbra le impallidirono, e cosí riuscii a portare il discorso sulla pesca al salmone.
– Mi spiace che non abbiamo avuto un’occasione per uscire in mare insieme, – disse Pete. – Ma i pescatori sportivi non prendono ancora niente. Sono solo i tizi con le licenze commerciali che li acchiappano di questi tempi, perché vanno molto al largo. Magari tra una o due settimane i salmoni si avvicineranno alla costa. Da un giorno all’altro, a dire la verità, – disse Pete. – Ma ormai tu sarai dall’altra parte del paese.
Annuii. Sarah prese il bicchiere.
– Ho comprato settanta chili di salmone fresco da un tizio, ieri, ed è proprio quello che campeggia sul menú giú al ristorante in questo momento: salmone fresco, – disse Pete. – L’ho messo direttamente nel congelatore e l’ho surgelato fresco. Il tizio, un indiano, è arrivato con il suo furgoncino, gli ho chiesto a quanto me lo metteva e lui ha detto sette dollari al chilo. Io gli ho detto sei e cinquanta e lui: «Affare fatto». Cosí l’ho surgelato fresco e l’ho messo subito sul menú del ristorante.
– Be’, era buonissimo, – dissi. – A me piace il salmone, ma meglio di quello che abbiamo mangiato stasera non se ne trovano. Era veramente delizioso.
– Siamo tanto contenti che siate potuti venire, – disse Betty.
– È stato meraviglioso, – disse Sarah, – ma non credo di aver mai visto tanta coda di aragosta e tante lombate. Mi sa che non ce la faccio a finire tutto quello che ho nel piatto.
– Se avanza qualcosa, lo possiamo mettere in un sacchetto da portar via, – disse Betty, arrossendo. – Proprio come al ristorante. Ma lasciate un po’ di posto per il dolce.
– Il caffè prendiamolo in soggiorno, – disse Pete.
– Pete ha delle diapositive che abbiamo fatto in viaggio, – disse Betty. – Se volete vederle, pensavamo di mettere su lo schermo, dopo cena.
– C’è del brandy per chi lo vuole, – disse Pete. – So che Betty ne vuole un po’. E Sarah? Prendine un goccio. Brava. Non mi dà nessun fastidio averlo sotto il naso, se lo bevono i miei ospiti. Bere è una cosa strana, – disse Pete.
Intanto ci eravamo trasferiti in soggiorno. Mentre montava lo schermo, Pete continuava a parlare. – Io tengo sempre una scorta di tutto a portata di mano, come avete visto anche voi, ma non tocco una goccia di alcol da sei anni. E questo dopo aver bevuto piú di un litro al giorno per dieci anni, dopo che mi sono congedato dalla marina. Però ho smesso, Dio solo sa come, ma ho smesso, ho smesso e basta. Sono andato dal mio medico e gli ho detto: «Dottore, mi aiuti. Voglio smetterla con questa roba, dottore. Mi può dare una mano?» Be’, lui s’è attaccato subito al telefono. Mi ha detto che conosceva certa gente che aveva gli stessi problemi, anzi, mi ha pure detto che anni prima anche lui aveva avuto qualche problema del genere. E, detto fatto, mi sono ritrovato in un posto dalle parti di Santa Rosa. A Calistoga, in California. Ci ho passato tre settimane. Quando sono tornato a casa ero sobrio e la voglia di bere mi era passata. Evelyn, cioè la mia prima moglie, mi è venuta incontro alla porta e mi ha baciato sulle labbra per la prima volta dopo anni e anni. Lei lo detestava, l’alcol. Suo padre e suo fratello c’erano morti, per l’alcol. Può ammazzare chiunque, non ve lo dimenticate. Insomma, quella sera lei mi ha baciato sulle labbra per la prima volta e da allora non ho piú bevuto neanche un goccio, da quando sono stato in quel posto a Calistoga.
Intanto Betty e Sarah stavano sparecchiando. Io mi sedetti sul divano a fumare mentre Pete parlava. Dopo aver montato lo schermo, tirò fuori il proiettore dalla scatola e lo sistemò su un tavolinetto. Innestò la spina e spinse un interruttore. Un raggio di luce investí lo schermo, mentre nel proiettore un piccolo ventilatore cominciò a girare.
– Ne abbiamo tante, di diapositive, che potremmo starle a guardare tutta la notte e poi ancora, – disse Pete. – Abbiamo diapositive del Messico, delle Hawaii, dell’Alaska, del Medio Oriente e perfino dell’Africa. Che cosa vi piacerebbe vedere?
Sarah entrò nella stanza e si sedette all’altra estremità del divano su cui ero seduto io.
– Allora, Sarah, che cosa ti piacerebbe vedere? – chiese Pete. – Basta dirlo.
– L’Alaska, – disse Sarah. – E poi il Medio Oriente. Ci siamo stati anche noi una volta, anni fa, in Israele. E ho sempre avuto una gran voglia di andare in Alaska.
– Noi in Israele non ci siamo arrivati, – disse Betty, entrando con il vassoio del caffè. – Il nostro tour andava solo in Siria, Egitto e Libano.
– Una vera tragedia, quella del Libano, – disse Pete. – Era il paese piú bello di tutto il Medio Oriente. Ci sono stato da ragazzo, quando ero nella marina mercantile, durante la Seconda guerra mondiale. Ricordo che allora pensai, anzi, mi promisi: «Un giorno qua ci ritorno». E poi abbiamo avuto quella possibilità, io e Betty. Non è vero, Betty?
Betty sorrise e annuí.
– Guardiamo un po’ le immagini della Siria e del Libano, allora, – disse Sarah. – Sono quelle che mi piacerebbe vedere. Naturalmente vorrei vederle tutte, ma se proprio dobbiamo scegliere...
E cosí Pete cominciò a proiettare le diapositive e sia lui che Betty facevano dei commenti a mano a mano che affioravano i ricordi di quei posti.
– Questa è Betty che cerca di salire su un cammello, – disse Pete. – Ha avuto bisogno di un po’ d’aiuto da parte di quel tizio lí con il burnus.
Betty scoppiò a ridere e diventò tutta rossa. Un’altra diapositiva apparve sullo schermo e lei disse: – Questo è Pete che chiacchiera con un ufficiale egiziano.
– Quella che sta indicando, quella montagna alle nostre spalle. Aspettate, vediamo se riesco a ingrandirla, – disse Pete. – Gli Ebrei sono trincerati lí. Li vedevamo con i binocoli che ci hanno prestato. Ebrei sparsi per tutta la collina. Fitti come formiche, – disse Pete.
– Pete è convinto che se non mandavano tutti quegli aerei sul Libano, non ci sarebbero tanti problemi, laggiú, – disse Betty. – Poveri Libanesi.
– Ecco, – disse Pete. – Questo è il nostro gruppo a Petra, la città perduta. Era una città carovaniera, ma poi si è perduta, perduta e ricoperta di sabbia per centinaia di anni, e poi è stata riscoperta e ci siamo andati in macchina da Damasco, con le Land Rover. Guardate com’è rosa la pietra. Quelle sculture nella roccia hanno piú di duemila anni, dicono. Una volta ci abitavano ventimila anime, in questa città. E poi il deserto ha ricoperto tutto e se la sono dimenticata. La stessa cosa accadrà a questo paese, se non stiamo attenti.
Bevemmo altro caffè e guardammo altre diapositive di Pete e Betty nel suk di Damasco. Poi Pete spense il proiettore e Betty andò in cucina e tornò con il dessert – pere al caramello – e altro caffè. Mangiammo e bevemmo e Pete disse ancora una volta quanto gli saremmo mancati.
– Siete brave persone, – disse Pete. – Mi dispiace vedervi andar via, ma mi rendo conto che è nel vostro interesse, altrimenti non ve ne andreste. Allora, adesso vi va di vedere le foto dell’Alaska? È cosí che hai detto, vero Sarah?
– Sí, l’Alaska, – disse Sarah. – Una volta si è parlato di andare in Alaska, anni fa. Vero, Phil? Una volta eravamo praticamente pronti a partire per l’Alaska. Ma poi, all’ultimo minuto, non siamo piú partiti. Te lo ricordi, Phil?
Annuii.
– Be’, adesso ci andrete, in Alaska, – disse Pete.
Nella prima diapositiva c’era una donna alta, dai capelli rossi ben curati, in piedi sul ponte di una nave e alle sue spalle, in lontananza, si vedeva una catena di montagne ricoperte di neve. Indossava un giaccone bianco di pelliccia e guardava l’obiettivo con un gran sorriso sulle labbra.
– Quella è Evelyn, la prima moglie di Pete, – disse Betty. – Ora è morta.
Pete fece apparire un’altra immagine sullo schermo. La stessa donna con i capelli rossi, con indosso lo stesso giaccone, che stringeva la mano a un eschimese, anche lui in giacca a vento, che sorrideva. Dietro ai due c’erano dei pesci messi a essiccare sulle pertiche. C’era una distesa d’acqua e altre montagne all’orizzonte.
– Questa è sempre Evelyn, – disse Pete. – Queste sono state scattate a Point Barrow, Alaska, l’insediamento piú a nord di tutti gli Stati Uniti.
Poi ci fu un’inquadratura della via principale: edifici bassi con tetti di metallo inclinati e cartelli che dicevano King Salmon Cafè, Giochi, Liquori, Camere. Un’altra diapositiva mostrava un negozio di pollo fritto Colonnello Sanders, con fuori un cartello in cui il personaggio del colonnello indossava un giaccone imbottito e gli stivali di pelliccia. Ridemmo tutti.
– Questa è ancora Evelyn, – disse Betty, mentre un’altra immagine passava rapidamente sullo schermo.
– Queste sono state fatte prima che Evelyn morisse, – disse Pete. – Anche noi avevamo sempre detto che saremmo andati in Alaska, – disse Pete. – Sono contento che siamo riusciti ad andarci prima che lei morisse.
– Avete fatto in tempo, – disse Sarah.
– Evelyn era una mia buona amica, – disse Betty. – È stato proprio come perdere una sorella.
Vedemmo Evelyn che saliva a bordo dell’aereo che l’avrebbe riportata a Seattle e poi Pete che sorrideva e salutava con la mano, uscendo dallo stesso aereo dopo che era atterrato a Seattle.
– Si sta surriscaldando un po’, – disse Pete. – Mi tocca spegnerlo per qualche minuto e lasciare che si raffreddi. Poi che cosa vi piacerebbe vedere? Le Hawaii? Sarah, è la tua serata: dillo tu.
Sarah mi guardò.
– Mi sa che dovremmo cominciare a pensare di tornare a casa, Pete, – dissi io. – Domani sarà una giornata lunga.
– Sí, dovremmo andare, – disse Sarah. – Mi sa proprio di sí –. Però continuò a restare seduta lí con il bicchiere in mano. Lanciò un’occhiata a Betty e poi a Pete. – È stata una bellissima serata per noi, – aggiunse. – Davvero non trovo le parole per ringraziarvi. È stato molto importante per noi.
– No, siamo noi che dovremmo ringraziarvi, – disse Pete. – E dico sul serio. È stato un piacere conoscervi. Spero che la prossima volta che passate da queste parti vi fermiate a farci un salutino.
– Non è che vi dimenticherete di noi, eh? – disse Betty. – Spero di no –. Sarah scosse la testa. Poi ci alzammo e Pete andò a prenderci i cappotti. Betty disse: – Oh, non vi scordate del sacchetto con gli avanzi. Cosí domani vi fate un bello spuntino.
Pete aiutò Sarah a mettersi il cappotto e poi tenne anche il mio mentre infilavo il braccio nella manica.
Sotto la veranda ci stringemmo le mani. – Si sta alzando il vento, – disse Pete. – Non vi dimenticate di noi, mi raccomando, – aggiunse. – E buona fortuna!
– Non vi dimenticheremo, certo, – dissi. – Grazie di nuovo, grazie di tutto –. Ci stringemmo ancora la mano. Pete afferrò Sarah per le spalle e la baciò su una guancia. – Mi raccomando, abbiate cura di voi. E anche questo signore qui. Abbi cura di lui, – disse. – Siete tutti e due delle gran brave persone. Vi vogliamo bene.
– Grazie, Pete, – disse Sarah. – Grazie per averlo detto.
– L’ho detto perché è vero, altrimenti non lo direi, – disse Pete.
Betty e Sarah si abbracciarono.
– Be’, buonanotte, – disse Betty. – E che Dio vi benedica.
Ci avviammo lungo il vialetto, in mezzo ai fiori. Tenni aperto il cancelletto per Sarah e camminammo sulla ghiaia del parcheggio diretti a casa nostra. Il ristorante era al buio. Era passata mezzanotte. Il vento soffiava tra gli alberi. I lampioni del parcheggio erano ancora accesi e il generatore sul retro del ristorante ronzava e faceva girare la ventola del congelatore dentro la cella frigorifera.
Aprii la porta di casa. Sarah premette l’interruttore della luce e andò dritta in bagno. Io accesi la piantana accanto alla poltrona vicino alla finestra e mi sedetti lí a fumare una sigaretta. Dopo un po’ arrivò Sarah, ancora con il cappotto addosso, si sedette sul divano e si mise una mano sulla fronte.
– È stata una bella serata, – disse. – Non la dimenticherò. Cosí diversa da tante altre nostre partenze, – aggiunse. – Pensa un po’, essere invitati a cena dal padrone di casa prima di andarsene –. Scosse la testa. – Mi sa che abbiamo fatto parecchi progressi, se ci pensi. Ma c’è ancora tanta strada da fare. Be’, è l’ultima notte che passeremo in questa casa e quella cena cosí abbondante mi ha talmente stancato che non riesco nemmeno a tenere gli occhi aperti. Mi sa proprio che me ne andrò a letto.
– Vengo anch’io, – dissi. – Appena finisco questa.
Restammo per un po’ stesi sul letto senza toccarci. Poi Sarah si girò su un fianco e disse: – Vorrei che tu mi tenessi tra le braccia finché non mi addormento. Solo questo, tienimi un po’ stretta. Mi manca tanto Cindy stasera. Spero che stia bene. Prego che stia bene. E che Dio l’aiuti a trovare la sua strada. E che aiuti anche noi.
Dopo un po’ il suo respiro si fece lento e regolare e io mi staccai da lei. Rimasi disteso sulla schiena a fissare il soffitto buio. Rimasi cosí ad ascoltare il vento. Poi, proprio quando stavo per richiudere gli occhi, ho sentito quacosa. Anzi, qualcosa che stavo sentendo non l’ho sentito piú. Il vento continuava a soffiare e lo sentivo ancora infilarsi sotto la grondaia della casa e vibrare nei fili fuori, ma mancava qualcosa e non riuscivo a capire che cos’era. Rimasi lí disteso un altro po’ ad ascoltare e poi mi alzai e andai in salotto a guardare dalla finestra verso il ristorante; si vedeva uno spicchio di luna tra le nuvole che si spostavano veloci nel cielo.
Rimasi lí alla finestra cercando di capire che cosa c’era che non andava. Continuavo a fissare il luccichio dell’oceano all’orizzonte e poi tornavo a guardare la sagoma scura del ristorante. A un tratto mi venne in mente da che dipendeva quello strano silenzio: si era spento il generatore del ristorante. Rimasi lí impalato ancora un po’ a chiedermi che cosa dovevo fare, se dovevo avvertire Pete. Magari il guasto si sarebbe riaggiustato da solo dopo un po’ e il generatore si sarebbe riacceso, ma qualcosa mi diceva che non sarebbe andata cosí.
Comunque, doveva essersene accorto anche lui, perché all’improvviso a casa sua vidi una luce che si accendeva e poi sui gradini apparve una sagoma con una torcia elettrica. Andò sul retro del ristorante e aprí una porta, dopodiché nel ristorante cominciarono ad accendersi diverse luci. Dopo un po’, il tempo di una sigaretta, me ne tornai a letto. Mi addormentai subito.
La mattina dopo ci facemmo un caffè solubile e, appena finito, lavammo le tazze e le mettemmo via. Non parlammo granché. Dietro il ristorante c’era il furgone di una ditta di elettrodomestici e vedevo Betty e Leslie fare avanti e indietro dalla porta sul retro del ristorante con dei carichi sulle braccia. Pete non si vedeva.
Caricammo la macchina. Alla fine saremmo riusciti a portare tutto a Eureka in un solo viaggio. Andai verso il ristorante per lasciare le chiavi, ma proprio mentre stavo per raggiungere la porta dell’ufficio, questa si aprí e Pete ne uscí portando una scatola.
– Andrà tutto a male, – disse. – Il salmone si è scongelato. Stava giusto per congelarsi e invece si è scongelato. Perderò tutto quel salmone. Dovrò darlo via, sbarazzarmene stamattina stessa. Anche il filetto, i gamberi e le capesante. Tutto. Il generatore s’è bruciato, maledizione.
– Pete, mi dispiace tanto, – dissi. – Noi dobbiamo andare. Volevo restituirti le chiavi.
– Che c’è? – disse, guardandomi.
– Le chiavi di casa, – dissi. – Stiamo andando via. Siamo pronti.
– Dàlle a Leslie, laggiú, – disse lui. – È lei che si occupa degli affitti. Dàlle a lei, le chiavi.
– Farò cosí, allora. Addio, Pete. Mi dispiace per questa cosa. Comunque, grazie ancora per tutto.
– Certo, – disse. – Certo, non c’è di che. Buona fortuna. Stammi bene –. Annuí e se ne andò verso casa sua con la scatola piena di filetto. Riconsegnai le chiavi a Leslie, la salutai e tornai verso la macchina dove Sarah mi stava aspettando.
– Che è successo? – chiese Sarah. – Che c’è che non va? Pareva che Pete non avesse tempo neanche per dirti che ore sono.
– Stanotte si è bruciato il generatore del ristorante, la cella frigorifera è partita e un po’ della loro carne si è guastata.
– Ah sí? – disse lei. – Peccato. Mi dispiace. Le chiavi gliele hai ridate, no? Salutare, li abbiamo salutati. Direi che possiamo andare, allora.
– Già, – dissi io. – Direi anch’io.