martedì 19 giugno 2018

ERODIADE Gustave Flaubert


ERODIADE
Gustave Flaubert

  I.
  La roccaforte di Macherus si ergeva a oriente del mar Morto, su un picco di basalto a forma di cono. Quattro valli profonde la circondavano, due sui fianchi, una di fronte, la quarta al di là. Le case erano ammassate alla sua base, in una cinta muraria che ondeggiava assecondando le irregolarità del terreno, e, tramite un sinuoso cammina-mento scavato nella roccia, la città era collegata alla fortezza, le cui mura erano alte centoventi cubiti, con un gran numero di angoli, merli e, qua e là, torri che facevano quasi da fioroni a quella corona di pietre sospesa sopra l'abisso.
All'interno c'era un palazzo ornato di portici, e coperto da una terrazza chiusa da una balaustra di legno di sicomoro, con una serie di pali disposti per tendere un velario.
Un mattino, prima che facesse giorno, il Tetrarca Erode Antipa venne ad affacciarvisi, e contemplò quella vista.
Le montagne, immediatamente sotto di lui, cominciavano a svelare le loro creste, mentre la loro massa, fin nel profondo degli abissi, era ancora nell'ombra. La nebbia che fluttuava si squarciò, e apparvero allora i contorni del mar Morto. L'alba, che si alzava dietro Macherus, diffondeva un rosso chiarore. Presto illuminò le sabbie dell'approdo, le colline, il deserto e, più lontano, tutti i monti della Giudea, inclinando le loro superfici scabre e grigie. Engaddi, al centro, tracciava una striscia nera; Ebron, nella depressione, si arrotondava a forma di cupola; Escoi aveva melograni, Sorek vigne, Carmelo campi di sesamo; e la torre Antonia, col suo cubo mostruo-so, dominava Gerusalemme. Il Tetrarca distolse lo sguardo per contemplare, a destra, i palmizi di Gerico; e pensò alle altre città della sua Galilea: Cafarnao, Endor, Nazareth, Tiberiade dove forse non sarebbe mai più tornato. Intanto il Giordano scorreva nell'arida pianura. Interamente bianca, abbagliava come una coltre nevosa. Il lago, ora, sembrava di lapislazzuli; e alla sua estremità meridionale, dalla parte dello Yemen, Antipa riconobbe ciò che temeva di vedere. Tende scure vi erano disseminate; uomini armati di lance circolavano tra i cavalli, e fuochi, spegnendosi, brillavano come scintille che rasentavano il suolo.
Erano le truppe del re degli Arabi, del quale Antipa aveva ripudiato la figlia per prendere Erodiade, moglie di un suo fratello che viveva in Italia, senza pretese di potere.
Antipa attendeva gli aiuti dei Romani; e poiché Vitellio, governatore della Siria, tardava a farsi vivo, era roso dall'inquietudine.
Forse Agrippa l'aveva fatto cadere in disgrazia presso l'Imperatore? Filippo, il suo terzo fratello, sovrano della Betania, si armava clandestinamente. I Giudei non volevano più saperne dei suoi costumi idolatri, e tutti gli altri della sua dominazione; e così esitava tra due progetti: rabbonire gli Arabi o concludere un'alleanza con i Parti; e, sotto il pretesto di festeggiare il suo compleanno, per quello stesso giorno aveva invitato a un gran banchetto i capi del suo esercito, gli intendenti delle sue terre, e i notabili di Galilea.
 Con uno sguardo acuto frugò tutte le strade. Erano deserte. Le aquile volavano sopra la sua testa; i soldati, lungo i bastioni, dormivano addossati ai muri; niente si muoveva nel castello.
D'improvviso, una voce lontana, come sprigionatasi dalle profondità della terra, fece impallidire il Tetrarca. Si chinò per ascoltare: era svanita. Ma poi riprese; e Antipa, battendo le mani, gridò: «Mannaei! Mannaei!».
Si presentò un uomo, nudo fino alla cintola, come i massaggiatori delle terme. Era enorme, vecchio, scarno, e alla coscia portava un coltellaccio in una guaina di bronzo. La sua capigliatura, sollevata da un pettine, esagerava l'ampiezza della sua fronte. Una sonnolenza sbiadiva i suoi occhi, ma i suoi denti brillavano, e i piedi nudi aderivano lievemente sul selciato: tutto il suo corpo aveva la flessuosità di una scimmia, e il suo volto l'impassibilità di una mummia.
  «Dov'è?», domandò il Tetrarca.
  Mannaei rispose, indicando con il pollice un oggetto alle loro spalle:
  «Laggiù! come sempre!».
  «Mi era parso di udirlo!»
E Antipa, dopo aver fatto un profondo respiro, si informò su Iaokanan, quello stesso che i Latini chiamavano san Giovanni Battista. Si erano rifatti vivi quei due uomini, ammessi per indulgenza, il mese scorso, nella sua cella, si era saputo da allora che cosa fossero venuti a fare?
  Mannaei replicò:
  «Hanno scambiato con lui parole misteriose, come i briganti, la sera, ai crocicchi delle strade. In seguito sono partiti per l'Alta Galilea, annunciando che avrebbero portato una grande novella».
Antipa abbassò la testa, poi, con aria spaventata:
  «Sorveglialo! sorveglialo! E non lasciar entrare nessuno! Spranga la porta! Copri la fossa! Non devono nemmeno sospettare che sia ancora vivo!».
Senza aver ricevuto quegli ordini, Mannaei li aveva già eseguiti; infatti Iaokanan era ebreo, e lui odiava gli Ebrei come tutti i Samaritani.
Il loro tempio di Garizim, designato da Mosè per essere il centro di Israele, non esisteva più dal tempo del re Ircano; quello di Gerusalemme suscitava in loro il furore di un oltraggio e di un'ingiustizia permanente. Mannaei vi si era introdotto con l'intento di profanare l'altare con ossa di morti. I suoi compagni, meno rapidi di lui, erano stati decapitati.
Lo intravide nell'intervallo tra due colline. Il sole faceva risplendere le sue mura di marmo bianco e le lamine d'oro del tetto. Era come una montagna luminosa, qualcosa di sovrumano che schiacciava tutto con la sua opulenza e con il suo orgoglio.
Allora stese le braccia in direzione di Sion; e, impettito, il volto all'indietro, i pugni chiusi, gli lanciò un anatema, convinto che le parole avessero un potere effettivo.
Antipa ascoltava, apparente-mente senza scandalizzarsi.
  Il Samaritano disse ancora:
  «Talvolta si agita, vorrebbe fuggire, spera in una liberazione. Altre volte ha l'aria tranquilla di un animale malato; oppure lo vedo camminare nelle tenebre e ripetere: "Che importa? Perché Lui cresca, bisogna che io diminuisca!"».
 Antipa e Mannaei si guardarono. Ma il Tetrarca era stanco di riflettere.Tutti quei monti attorno a lui, come strati di grandi onde pietrificate, le nere voragini sul fianco delle scogliere, l'immensità azzurra del cielo, la luce violenta del giorno, la profondità degli abissi lo turbavano; e si sentiva invaso dalla desolazione alla vista del deserto, il quale, nello sconvolgimento delle sue terre, simulava anfiteatri e palazzi abbattuti. Il vento caldo, con l'odore dello zolfo, portava una sorta di esalazione di città maledette, sepolte più in profondità delle spiagge, sotto acque pesanti. Quei segni di una collera immortale terrorizzavano il suo pensiero; restava con i gomiti sulla balaustra, gli occhi fissi e le tempie nelle mani. Qualcuno lo aveva toccato. Si girò. Erodiade era davanti a lui.
  Una zimarra di porpora leggera la avvolgeva fino ai sandali. Uscita in fretta e furia dalla sua camera, non aveva né collane né orecchini. Una treccia dei suoi neri capelli ricadeva su un braccio, e la sua estremità si insinuava tra i seni. Le narici, troppo rialzate, palpitavano; la gioia di un trionfo le illuminava il volto; con voce forte, scuotendo il Tetrarca:
  «Cesare ci ama! Agrippa è in prigione!».
  «Chi te lo ha detto?»
  «Lo so!»
Aggiunse:
  «E per aver augurato l'impero a Caio!».
Pur vivendo delle loro elemosine, aveva brigato per il titolo di re, cui essi ambivano come lui. Ma in avvenire niente più paure! «Le prigioni di Tiberio difficilmente si aprono, e talvolta non vi è sicura neppure l'esistenza!»
Antipa la comprese; benché fosse sorella di Agrippa, la sua intenzione atroce gli sembrò giustificata. Quel genere di delitti erano una conseguenza delle cose, una fatalità nelle case reali. In quella di Erode non si contavano più.
Quindi Erodiade illustrò la sua impresa: i clienti comprati, le lettere scoperte, le spie a ogni porta, e infine come era riuscita a sedurre Eutiche, il delatore. «Non mi è costato nulla! Per te non ho forse fatto di più?... Ho abbandonato mia figlia!»
Dopo il suo divorzio, aveva lasciato a Roma la fanciulla, contando di avere altri figli dal Tetrarca. Non ne parlava mai. Antipa si domandò il perché di quell'accesso di tenerezza.
Avevano disteso il velario e portato per loro grandi cuscini. Erodiade vi si accasciò, e pianse, voltando le spalle. Poi si passò la mano sulle palpebre, disse che non voleva più pensarci, che era felice; gli ricordò le loro chiacchierate laggiù, nell'atrio, gli incontri alle terme, le passeggiate lungo la via Sacra, e le sere nelle grandi ville al mormorio dei getti d'acqua, sotto archi fioriti, davanti alla campagna romana. Lo guardava come un tempo, strofinandosi sul suo petto con gesti carezzevoli. Lui la respinse. L'amore che tentava di rianimare era così lontano, ormai! E tutte le sue sciagure ne erano la conseguenza; la guerra, infatti, si protraeva da quasi dodici anni! Aveva invecchiato il Tetrarca. Le sue spalle si incurvavano sotto la toga scura, dagli orli violetti; i capelli bianchi si confondevano con la barba, e il sole, attraversando il velo, inondava di luce la sua fronte corrucciata. Anche quella di Erodiade aveva delle rughe; l'uno di fronte all'altra, si consideravano con aria efferata. I sentieri delle montagne cominciarono a popolarsi. Pastori pungolavano buoi, bambini tiravano asini, palafrenieri conducevano cavalli. Chi scendeva dalle alture al di là di Macherus spariva dietro il castello; altri risalivano dalla forra sottostante e, raggiunta la città, scaricavano le proprie masserizie nei cortili. Erano fornitori del Tetrarca, o servitori che precedevano gli invitati. Ma in fondo alla terrazza, a sinistra, apparve un Esseno, in tunica bianca, a piedi nudi, con un aspetto stoico. Mannaei, dalla parte opposta, si stava precipitando brandendo il suo coltellaccio.
Erodiade gli gridò: «Uccidilo!».
  «Fermo!», disse il Tetrarca.
 Divenne immobile. L'altro anche.
Poi si ritirarono, ciascuno da una scala diversa, a ritroso, senza perdersi di vista.
  «Lo conosco!», disse Erodiade, «si chiama Fanuele, e cerca di vedere Iaokanan, dal momento che sei stato così cieco da tenerlo in vita.»
Antipa obiettò che un giorno sarebbe potuto essere utile. Le sue invettive contro Gerusa-lemme accattivavano loro le simpatie degli altri Ebrei.
«No!», replicò la donna, «accettano qualunque padrone, non sono capaci di costituire una patria.» Quanto a colui che agitava il popolo con speranze preservatesi dal tempo di Neemia, la politica migliore era di sopprimerlo.
Non c'era nessuna fretta, secondo il Tetrarca. Iaokanan pericoloso? Suvvia! E dava a vedere di riderne.
  «Taci!», esclamò Erodiade, e raccontò di nuovo della sua umiliazione, quel giorno che andava verso Galaad per la raccolta del balsamo. «C'era gente, in riva al fiume, che ammonticchiava i suoi indumenti da una parte, mentre accanto a loro un uomo parlava. Aveva una pelle di cammello avvolta attorno alla vita, e la sua testa sembrava quella di un leone. Non appena mi vide, mi sputò addosso tutte le maledizioni dei profeti. Le sue pupille avvampavano; la sua voce ruggiva; levava le braccia al cielo come per strapparne il tuono. Impossibile fuggire! Le ruote del mio carro erano insabbiate fino agli assi; così mi allontanai lentamente, riparandomi sotto il mantello, raggelata da quegli insulti che cadevano come una pioggia tempestosa.»
Iaokanan le impediva di vivere. Quando lo catturarono e lo legarono con le corde, i soldati avevano l'ordine di pugnalarlo se avesse opposto resistenza; lui si era mostrato mansueto. Avevano introdotto dei serpenti nella sua cella; erano morti.
L'inutilità di quegli agguati esasperava Erodiade. D'altronde, perché quella guerra contro di lei? Quale interesse lo spingeva? I suoi discorsi gridati alle folle si erano diffusi, circolavano; Erodiade li udiva ovunque, riempivano l'aria. Alle legioni avrebbe potuto contrapporre il suo coraggio. Ma quella forza, più perniciosa delle spade, che non si riusciva ad afferrare, era stupefacente; la donna percorreva la terrazza, resa livida dalla collera, incapace di esprimere con le parole ciò che la soffocava.
Temeva anche che il Tetrarca, cedendo all'opinione pubblica, decidesse di ripudiarla. Allora tutto sarebbe stato perduto! Dalla sua infanzia Erodiade nutriva il sogno di un grande impero. Per coronarlo era giunta al punto di lasciare il suo primo sposo e di unirsi all'attuale, che a suo giudizio l'aveva ingannata.
  «Bel sostegno ho ricevuto, entrando nella tua famiglia!»
  «Vale quanto la tua!», disse semplicemente il Tetrarca.
  Erodiade si sentì ribollire nelle vene il sangue dei sacerdoti e dei re suoi antenati.
  «Ma se tuo nonno spazzava il tempio di Ascalona! Gli altri erano pecorai, banditi, capicarovana, un'orda tributaria di Giuda dai tempi di David! Tutti i miei avi hanno sconfitto i tuoi! Il primo dei Maccabei vi ha cacciato da Ebron, Ircano vi ha costretti a circoncidervi!» E, sprizzando tutto il disprezzo della patrizia per il plebeo, l'odio di Giacobbe contro Edom, Erodiade gli rimproverò la sua indifferenza alle offese, la sua debolezza verso i Farisei che lo tradivano, la sua pavidità nei confronti del popolo che la detestava. «Sei come lui, ammettilo! rimpiangi la fanciulla araba che danza attorno alle pietre! Riprendila! Va a vivere con lei, nella sua tenda! divora il suo pane cotto sotto la cenere! ingoia il latte cagliato delle sue pecore! bacia le sue guance azzurre! e dimenticami!»
Il Tetrarca non ascoltava più. Osservava la terrazza di una casa, dove c'erano una ragazza e una vecchia che aveva un parasole con un manico di giunco lungo come la canna di un pescatore. In mezzo a un tappeto giaceva una gran cesta da viaggio aperta, dalla quale traboccavano confusamente cinture, veli, orecchini d'oro. A tratti la ragazza si chinava su quelle cose e le agitava in aria. Era vestita alla maniera delle romane, con una tunica arricciata e un peplo a ghiande di smeraldo; fasce azzurre racchiu-devano la sua capigliatura, di certo troppo pesante, perché, di tanto in tanto, vi portava la mano. L'ombra del parasole vagava sopra di lei, nascondendola per metà. Antipa vide due o tre volte il suo collo delicato, la punta dell'occhio, l'angolo di una piccola bocca. Ma, dai fianchi alla nuca, vedeva tutta la sua figura ergersi flessuosamente. Spiava quella cadenza, e la sua respirazione diventava più forte; nei suoi occhi avvampavano fiamme. Erodiade lo osservava.
 Antipa chiese: «Chi è?».
 Lei rispose che non lo sapeva, e se ne andò, improvvisamente placata.
Il Tetrarca era atteso sotto i portici da alcuni Galilei, il capo scriba, quello dei pascoli, l'amministratore delle saline e un ebreo di Babilonia al comando dei suoi cavalieri. Tutti lo salutarono con un'acclamazione. Dopodiché scomparve nelle stanze interne.
All'angolo di un corridoio sbucò Fanuele.
  «Ah! ancora tu? vieni certo per Iaokanan!»
  «E per te! devo darti una notizia importante.»
E, senza lasciare Antipa, si introdusse dietro di lui in un buio appartamento. La luce penetrava da una grata che occupava l'intero cornicione della finestra. Le pareti erano dipinte di un colore granata, quasi nero. In fondo si profilava un letto d'ebano, con cinghie in pelle di bue. Al di sopra uno scudo riluceva come un sole. Antipa attraversò tutta la sala e si distese sul letto. Fanuele restò in piedi. Alzò il braccio e, in un atteggiamento ispirato:
 «L'Altissimo invia ogni tanto sulla terra uno dei suoi figli. Iaokanan è uno di questi. Se lo opprimi, sarai punito».
 «È lui che mi perseguita!», esclamò Antipa. 
 «Ha preteso da me un'azione impossibile. Da allora mi tormenta. E pensare che all'inizio non ero così duro con lui! È arrivato al punto di sguinzagliare da Macherus uomini che sconvolgono le mie province! Sia maledetto! Dal momento che mi attacca, io mi difendo!»
 «Le sue collere sono troppo violente», replicò Fanuele, «ma non importa! Devi liberarlo.» «Non si mettono in libertà le bestie furiose!», disse il Tetrarca.
L'Esseno rispose:
 «Non preoccuparti! Andrà presso gli Arabi, i Galli, gli Sciti. La sua opera deve estendersi fino in capo al mondo!».
  Antipa sembrava assorto in una visione.
 «La sua potenza è straordinaria... Malgrado tutto, lo amo!»
   «Allora, perché non lo liberi?»
Il Tetrarca scrollò il capo. Temeva Erodiade, Mannaei e l'ignoto. Fanuele tentò di persuaderlo, adducendo, a garanzia dei suoi progetti, la promessa di sottomissione degli Esseni al re. La gente rispettava quegli uomini poveri, irriducibili ai supplizi, vestiti di lino, e che leggevano il futuro nelle stelle.
Antipa rammentò una parola detta poco prima da Fanuele.
 «Qual è questa cosa che mi annunciavi così importante?»
Arrivò un negro. Il suo corpo era bianco di polvere. Rantolava e non potè dire altro che:
   «Vitellio!».
   «Come! Sta arrivando?»
  «L'ho visto! Fra meno di tre ore sarà qui!»
Le porte dei corridoi furono agitate come da un colpo di vento. Un frastuono riempì il castello: chiasso di gente che correva, di mobili trascinati, di argenterie che crollavano; e, dall'alto delle torri, le buccine squillavano per avvertire gli schiavi dispersi.

II.
  I bastioni erano pieni di gente quando Vitellio entrò nella corte. Si appoggiava al braccio del suo interprete, seguito da una grande lettiga rossa ornata di pennacchi e di specchi; aveva indosso la toga, il laticlavio, i calzari di un console e la sua persona era circondata di littori.
Questi ultimi piantarono sulla porta i loro dodici fasci, bacchette legate da una cinghia con un'ascia nel mezzo. Tutti allora tremarono dinanzi alla maestà del popolo romano.
La lettiga, manovrata da otto uomini, si fermò. Ne uscì un adolescente con il ventre prominente, il viso butterato e le dita piene di perle. Gli offrirono una coppa piena di vino aromatico. La bevve, ne reclamò una seconda. II Tetrarca era caduto alle ginocchia del Proconsole, desolato, diceva, di non essersi potuto preparare in anticipo al favore della sua presenza. In caso contrario, avrebbe predisposto sulle strade tutto ciò che si addiceva al rango dei Vitelli. Essi discendevano dalla dea Vitellia. Una strada che dal Gianicolo conduceva al mare portava ancora il loro nome. Questure e consolati non si contavano nella famiglia; quanto a Lucio, ora suo ospite, bisognava essergli riconoscente in quanto vincitore dei Cliti e padre di quel giovane Aulo che sembrava essere tornato nel suo dominio, poiché l'Oriente è la patria degli Dei. Queste iperboli furono espresse in latino. Vitellio le accolse impassibilmente. 
Rispose che il grande Erode era sufficiente per la gloria di una nazione. Gli ateniesi gli avevano affidato la soprintendenza dei giochi Olimpici. Aveva edificato templi in onore di Augusto, era stato paziente, ingegnoso, terribile, e sempre fedele ai Cesari.
Tra le colonne dai capitelli bronzei si intravide Erodiade, che incedeva con l'aria di un'imperatrice, in mezzo alle ancelle e agli eunuchi che recavano vassoi d'argento dorato carichi di bruciaprofumi.
Il Proconsole fece tre passi verso di lei; e, dopo che la ebbe salutata chinando la testa:
 «Che felicità!», esclamò Erodiade, «che ormai Agrippa, il nemico di Tiberio, sia nell'impossibilità di nuocere!».
Il Proconsole ignorava l'evento, e trovò quella donna pericolosa; poiché Antipa giurava che avrebbe fatto qualunque cosa per l'Imperatore, Vitellio aggiun-se: «Anche se fosse a detrimento degli altri?».
Aveva preso ostaggi al re dei Parti, e l'Imperatore non ne era stato messo al corrente; Antipa, presente alla conferenza, per farsi valere ne aveva subito dato notizia. Donde quel profondo odio, e il ritardo nel far pervenire i rinforzi. Il Tetrarca balbettò qualcosa, ma Aulo disse ridendo:
 «Calmati, ci sono qua io a proteggerti!».
Il Proconsole finse di non aver sentito. La fortuna del padre dipendeva dalle macchie del figlio, e quel fiore dei fanghi di Capri gli procurava benefici talmente considerevoli da indurlo a circondarlo di riguardi, pur diffidando di lui, perché era velenoso.
Un tumulto si levò sotto la porta. Si introdusse una fila di muli bianchi, montati da individui vestiti da sacerdoti. Erano Sadducei e Farisei, spinti a Macherus dalla medesima ambizione: i primi volevano ottenere il diritto di sacrificare, i secondi volevano conservarlo. I loro volti erano cupi, soprattutto quelli dei Farisei, nemici di Roma e del Tetrarca. I lembi delle loro tuniche creavano loro impaccio nella calca; le tiare vacillavano sulle loro fronti, sopra strisce di pergamena dove erano tracciate iscrizioni.
Quasi contemporaneamente arrivarono i soldati dell'avan-guardia. Avevano insaccato i loro scudi, come precauzione contro la polvere; dietro di loro c'era Marcello, luogotenente del Proconsole, con i pubblicani che reggevano sotto le ascelle le loro tavolette di legno.
Antipa nominò i suoi principali collaboratori: Tolmai, Kanthera, Sehon, Ammonio d'Alessandria, che gli comprava l'asfalto, Naamann, capitano dei suoi veliti, Iasim il Babilonese.
Vitellio aveva notato Mannaei.
  «Chi è costui?»
Il Tetrarca, con un gesto, fece intendere che era il boia.
Quindi presentò i Sadducei.
Gionata, un ometto disinvolto e che parlava greco, supplicò il sovrano di onorarli di una visita a Gerusalemme. Probabilmente ci sarebbe andato.
Eleazar, dal naso aquilino e dalla lunga barba, reclamò per i Farisei il mantello del gran sacerdote trattenuto nella torre Antonia dall'autorità civile.
In seguito i Galilei denunciarono Ponzio Pilato. Col pretesto di un folle che cercava i vasi d'oro di David in una caverna, in Samaria, aveva fatto uccidere parecchi abitanti; parlavano tutti assieme, Mannaei più violentemente degli altri. Vitellio assicurò che i colpevoli sarebbero stati puniti.
Vi fu un improvviso vociferare di fronte a un portico dove i soldati avevano deposto i loro scudi. Le fodere erano state tolte, e sugli umboni spiccava la figura di Cesare. Per i Giudei era un'idolatria. Antipa li arringò, mentre Vitellio, nel colonnato, su un alto seggio, era stupito del loro furore. Aveva fatto bene Tiberio a esiliarne quattrocento in Sardegna. Ma in casa loro erano forti: ordinò di ritirare gli scudi. Allora circondarono il Proconsole, implorando ripara-zione alle ingiustizie, privilegi, elargizioni. I loro vestiti erano laceri; si schiacciavano l'un l'altro; per fare largo, schiavi armati di bastoni picchiavano a destra e a manca. I più vicini alla porta furono spinti verso il sentiero, mentre gli altri che lo salivano rifluirono; due correnti si incrociavano in quella massa umana che oscillava, compressa dalla cinta muraria.
Vitellio chiese il perché di tanta folla. Antipa ne rivelò la causa: il banchetto in onore del suo compleanno; e mostrò parecchi dei suoi che, sporgendosi dalle merlature, issavano immense ceste piene di carne, frutta, legumi, antilopi e cicogne, enormi pesci azzurri, grappoli d'uva, cocomeri, piramidi di melagrane. Aulo non si trattenne più; si precipitò verso le cucine, incitato da una golosità destinata a sorprendere l'universo intero. Passando nei pressi di una cantina, intravide grosse pentole simili a corazze. Anche Vitellio scese a guardarle; pretese che gli fossero aperte le camere sotterranee della fortezza.
Erano scavate nella roccia, con alte volte intervallate da pilastri. La prima conteneva vecchie armature; ma la seconda traboccava di picche che protendevano le loro punte aguzze, affioranti da ciuffi di piume. La terza sembrava tappezzata di stuoie di canne, tante erano le sottili frecce distese perpendicolarmente le une accanto alle altre. Lame di scimitarra ricoprivano le pareti della quarta. In mezzo alla quinta lunghe file di elmi formavano, con le loro creste, come un battaglione di serpenti rossi. Nella sesta non si vedevano altro che faretre; nella settima soltanto schinieri; nell'ottava bracciali; nelle seguenti, forche, ramponi, scale, cordami, fino ai pali per le catapulte e ai sonagli per il pettorale dei dromedari! e siccome la montagna si andava sempre più allargando alla sua base, cava come un'arnia d'api, al di sotto di quelle camere ve n'erano altre ancor più numerose e profonde. Vitellio, il suo interprete Fineo e Sisenna, il capo dei pubblicani, le percorrevano alla luce delle torce, portate da tre eunuchi.
Nella penombra si distinguevano arnesi orrendi inventati dai barbari: clave irte di chiodi, giavellotti che avvelenavano le ferite procurate, tenaglie simili a mascelle di coccodrillo; insom-ma, a Macherus il Tetrarca teneva in serbo munizioni da guerra per quarantamila uomini.
Le aveva accumulate in previsione di un'alleanza tra i suoi nemici. Ma il Proconsole poteva credere o riferire che lo avesse fatto per combattere i Romani, e chiedeva spiegazioni.
Non erano sue; molte servivano per difendersi dai briganti; del resto erano necessarie anche contro gli Arabi; oppure, tutto ciò era appartenuto a suo padre. E, invece di camminare dietro il Proconsole, lo precedeva, a passi rapidi. Poi si schierò contro una parete, masche-randola con la toga, con i gomiti sui fianchi; ma l'architrave della porta superava la sua testa. Vitellio la notò, e volle sapere che cosa vi fosse nascosto.
Soltanto il Babilonese poteva aprirla.
   «Chiama il Babilonese!»
Lo aspettarono. Suo padre era giunto dalle rive dell'Eufrate a offrire i suoi servigi al grande Erode, con cinque cavalieri, per difendere le sue frontiere orientali. Dopo la divisione del regno, Iasim era rimasto con Filippo, e ora era al servizio di Antipa. Si presentò con un arco sulla spalla e una frusta in mano. Cordoni variopinti serravano strettamente le sue gambe. Le sue grosse braccia sbucavano da una tunica senza maniche, e un berretto di pelliccia metteva in ombra la sua faccia, la cui barba era arricciata ad anelli.
Sulle prime diede l'impressione di non capire l'interprete. Ma Vitellio lanciò un'occhiata ad Antipa, che ripetè subito l'ordine. Iasim manipolò con entrambe le mani la porta, che scivolò dentro la parete. Dalle tenebre esalò un soffio d'aria calda. C'era un camminamento che scendeva sinuoso; vi si introdussero e arrivarono alle soglie di una grotta, più estesa degli altri sotterranei. In fondo un'arcata si apriva sul precipizio che da quel lato difendeva la roccaforte. Un caprifoglio, arrampicandosi sulla volta, lasciava ricadere i suoi fiori in piena luce. Rasente il suolo gorgogliava un filo d'acqua. C'erano molti cavalli bianchi, forse un centinaio, che mangiavano orzo su un asse posto al livello della loro bocca. Avevano tutti la criniera dipinta d'azzurro, gli zoccoli in mezziguanti di sparteria, e i peli delle orecchie che svolazzavano sulla fronte, come una parrucca. Con le loro lunghissime code si frustavano indolentemente i garretti. Il Proconsole restò muto per l'ammirazione.
Erano animali meravigliosi, fles-suosi come serpenti, leggeri come uccelli. Scattavano con la freccia del cavaliere, rovesciavano i nemici morden-doli al ventre, uscivano indenni dal groviglio delle rocce, saltavano sopra gli abissi, e il loro galoppo frenetico nelle pianure durava un'intera giornata; bastava una parola per fermarli. Non appena Iasim entrò, gli si avvicinarono come pecore quando appare il pastore; e, protendendo il lungo collo, lo guardavano inquieti con i loro occhi da bambini. Come era suo solito, Iasim lanciò dal fondo del petto un grido rauco che li mise in allegria; si impennavano, affamati di spazio, non chiedendo che di correre.
Antipa, nel timore che Vitellio potesse portarglieli via, li teneva chiusi in quello speciale rifugio per animali, nell'evenienza di dover essere assediato.
  «Questa scuderia è malsana», disse il Proconsole; «così rischi di perderli! Sisenna, fanne l'inventario.»
Il pubblicano estrasse una tavoletta dalla cintura, contò i cavalli e li registrò. Gli agenti delle compagnie fiscali corrom-pevano i governatori per spremere le province. Questo fiutava dappertutto, col suo muso da faina e le sue strizzatine d'occhio.
Alla fine risalirono nella corte. Qua e là, rosoni di bronzo in mezzo al selciato coprivano le cisterne. Ne osservò uno, più grande di tutti, e che sotto i talloni non aveva la stessa sonorità degli altri. Li percosse tutti alternativamente, poi urlò, pestando i piedi:
   «Ci sono! ci sono! qui sotto c'è il tesoro di Erode!».
La ricerca dei suoi tesori era una smania fissa dei Romani. Il Tetrarca giurò che non esistevano. E allora, che cosa c'era là sotto?
 «Niente! Un uomo, un prigioniero.»
     «Mostracelo!», disse Vitellio.
Il Tetrarca non obbedì; i Giudei avrebbero scoperto il suo segreto. La sua riluttanza a rimuovere il rosone faceva spazientire Vitellio.
  «Sfondatelo!», gridò ai littori.
Mannaei aveva intuito che cosa avevano in mente. Vedendo un'ascia, pensò che avrebbero decapitato Iaokanan. Bloccò il littore al primo colpo sulla piastra metallica, insinuò tra essa e il selciato una sorta di grimaldello, poi, irrigidendo le sue lunghe e magre braccia, la sollevò dolcemente fino a capovolgerla; tutti ammirarono la forza di quel vecchio. Sotto il coperchio, che aveva un secondo strato di legno, c'era una botola delle stesse dimensioni. Con un pugno si piegò in due pannelli; si vide allora un foro, e un'enorme fossa circondata da una scala senza rampa; e coloro i quali si sporsero sul ciglio intravidero nel fondo qualcosa di vago e di spaventoso.
Un essere umano era disteso per terra, con lunghissimi capelli che si confondevano con il pelo quasi animale che ricopriva la sua schiena. Si alzò. La sua fronte raggiungeva una grata sigillata orizzontalmente; di tanto in tanto spariva nelle profondità del suo antro.
Il sole faceva luccicare la punta delle tiare, il pomo dei gladi, riscaldava oltremodo i selciati; le colombe, spiccando il volo dai fregi, volteggiavano attorno al cortile. Era l'ora in cui di solito Mannaei gettava loro dei semi. Se ne stava accovacciato davanti al Tetrarca, che era in piedi accanto a Vitellio. I Galilei, i sacerdoti, i soldati formavano un cerchio più arretrato; tutti tacevano, nell'angoscia di ciò che sarebbe accaduto.
Dapprima si udì un gran sospiro, emesso da una voce cavernosa.
Erodiade lo sentì all'altro capo del palazzo. Vinta da una sorta di malia, attraversò la folla; ora ascoltava, con una mano sulla spalla di Mannaei e il corpo chino.
  La voce si innalzò:
 «Siate maledetti, Farisei e Sadducei, razza di vipere, otri gonfiati, sonagli chiassosi!».
Avevano riconosciuto Iaokanan. Il suo nome circolava. Accorse altra gente.
  «Sii maledetto, o popolo! siano maledetti i traditori di Giuda, gli ubriachi di Efraim, e gli abitanti della grassa valle, che barcollano sotto i vapori del vino! Che si disperdano come l'acqua che scorre, come una lumaca che striscia, come l'aborto di una donna che non vede la luce. Sarai costretto, o Moab, a rifugiarti nei cipressi come i passeri, nelle caverne come gerboe. Le porte delle fortezze saranno frantumate più rapidamente che gusci di noce, le mura crolleranno, le città bruceranno; e il flagello dell'Eterno non si fermerà. Agiterà le vostre membra nel vostro sangue, come lana nella tinozza di un tintore. Vi dilanierà come un erpice fiammante e spargerà sulle montagne i brandelli della vostra carne!»
Di quale conquistatore parlava? di Vitellio? Soltanto i Romani potevano produrre un simile sterminio. Non fu trattenuto qualche lamento: 
   «Basta! basta! fatelo finire!».
Iaokanan continuò ancora più forte:
   «Accanto al cadavere delle loro madri, i bambini si trascineranno sulle ceneri. Di notte bisognerà cercarsi il pane tra le macerie, a rischio delle spade. Gli sciacalli si contenderanno le ossa sulle pubbliche piazze, dove la sera discutevano gli anziani. Le tue vergini, inghiottendo le proprie lacrime, suoneranno la cetra nei banchetti degli stranieri, e i tuoi figli più coraggiosi chineranno la schiena, scorticata da fardelli troppo pesanti!».
Il popolo rivedeva i giorni del suo esilio, tutte le catastrofi della sua storia. Erano le parole degli antichi profeti. Iaokanan le scagliava, come colpi poderosi, una dopo l'altra. 
Ma poi la voce si fece dolce, armoniosa, soave. Annunciava una liberazione, splendori celesti, il neonato con un braccio nella caverna del drago, l'oro al posto dell'argilla e il deserto che sboccia come una rosa: «Ciò che ora vale sessanta kiccar non costerà un obolo. Fontane di latte sgorgheranno dalle rocce; ci si addormenterà nei frantoi col ventre pieno. Quando verrai, o te che aspetto? Nella tua attesa tutti i popoli si inginocchiano, e il tuo regno sarà eterno, Figlio di David!».
Il Tetrarca si gettò all'indietro: l'esistenza di un Figlio di David lo oltraggiava come una minaccia.
Iaokanan lanciò un'invettiva contro la sua regalità: «Non c'è altro re al di fuori dell'Eterno!». Inveì anche contro i suoi giardini, le sue statue, i suoi mobili d'avorio, come l'empio Achab!
Antipa spezzò la cordicella del sigillo appesa al suo petto, e lo lanciò nella fossa, ordinandogli di tacere.
La voce rispose:
  «Griderò come un orso, come un asino selvatico, come una donna che partorisce! Il castigo è già nel tuo incesto. Dio ti affligge con la sterilità del mulo!».
Si levò una risata, simile allo sciabordio delle onde.
Vitellio si ostinava a restare. L'interprete, impassibile, ripeteva nella lingua dei Romani tutte le ingiurie che Iaokanan pronun-ciava nella sua. Il Tetrarca ed Erodiade erano costretti a subirle due volte. Lui ansimava, mentre lei osservava attonita il fondo del pozzo.
L'uomo terribile rovesciò il capo e, impugnando le sbarre, vi incollò il viso, che sembrava un rovo dove scintillavano due tizzoni ardenti:
  «Ah! sei tu, Gezabele? Hai conquistato il suo cuore con lo scricchiolio dei tuoi calzari. Nitrivi come una giumenta. Hai eretto la tua alcova sui monti per compiervi i tuoi sacrifici! Il Signore ti strapperà gli orecchini, le vesti di porpora, i veli di lino, gli anelli alle braccia e alle caviglie, e i piccoli corni d'oro che tremano sulla tua fronte, i tuoi specchi d'argento, i tuoi ventagli di piume di struzzo, le suole di madreperla che elevano la tua statura, l'orgoglio dei tuoi diamanti, gli effluvi dei tuoi capelli, lo smalto delle tue unghie, tutti gli artifici della tua mollezza; e mancheranno le pietre per lapidare l'adultera!».
Erodiade cercò con lo sguardo una difesa attorno a sé. I Farisei abbassavano gli occhi ipocrita-mente. I Sadducei giravano la testa, temendo di offendere il Proconsole. Antipa sembrava morire.
La voce si ingrossava, viaggiava, rotolava con strazi di tuono e, grazie all'eco che la moltiplicava nella montagna, folgorava Macherus di innumerevoli lampi.
  «Razzola nella polvere, figlia di Babilonia! Fa macinare la farina! Togliti la cintura, privati.delle tue scarpe, rimboccati le maniche, guada i fiumi! la tua vergogna sarà scoperta, il tuo obbrobrio sarà palese! i tuoi singhiozzi ti spezzeranno i denti! L'Eterno esecra il lezzo dei tuoi crimini! maledetta! maledetta! Crepa come una cagna!»
La botola si richiuse, il coperchio fu di nuovo calato. Mannaei voleva strangolare Iaokanan.
Erodiade scomparve. I Farisei erano scandalizzati. Antipa, in mezzo a loro, si giustificava.
  «È vero che si può sposare la moglie di un fratello, ma Erodiade non era vedova, e perdipiù aveva una figlia, e in ciò sta l'abominio.» 
  «Errore! errore!», obiettò il sadduceo Gionata. «La Legge condanna questi matrimoni, senza però proscriverli assolu-tamente.»
  «Non importa! Con me si è troppo ingiusti», diceva Antipa, «dato che, in fondo, Assalonne si è giaciuto con le mogli di suo padre, Giuda con la nuora, Amnone con la sorella, Lot con le sue figlie.»
Aulo, che aveva dormito un poco, riapparve in quel preciso istante. Quando fu informato della questione, approvò il Tetrarca. Non bisognava prendersi troppo disturbo per simili sciocchezze; se la rideva della riprovazione dei sacerdoti come del furore di Iaokanan. Erodiade, in mezzo alla scalinata, si rivolse a lui:
  «Sbagli, mio signore! Egli incita il popolo a non pagare i tributi!».
  «È vero?», chiese subito il pubblicano.
Le risposte furono unanime-mente affermative. Il Tetrarca le rafforzava. Vitellio pensò che il prigioniero poteva fuggire; e siccome la condotta di Antipa gli sembrava sospetta, stabilì sentinelle alle porte, lungo le mura e nella corte del palazzo.
Dopodiché si diresse verso il suo appartamento. Le deputazioni dei sacerdoti lo seguiro-no. Senza affrontare la questione della sacrificatura, ciascuno presentava le sue rimostranze.
Era assediato da tutti. Li congedò. Gionata lo stava lasciando quando, tra le merlature, intravide Antipa che parlava con un uomo dai capelli lunghi e dalla veste bianca, un esseno; rimpianse di averlo sostenuto. Una riflessione aveva consolato il Tetrarca. Iaokanan non dipendeva più da lui; se ne incaricavano i Romani. Che sollievo! Nel frattempo Fanuele andava su e giù nel camminamento di ronda.
Lo chiamò e, indicando i soldati:
  «Sono loro i più forti! Non posso liberarlo! Non è colpa mia!».
Il cortile era deserto. Gli schiavi riposavano. Sotto il rossore del cielo, che infuocava l'orizzonte, il minimo oggetto perpendicolare si stagliava in nero. Antipa distinse le saline sulla sponda opposta del mar Morto; non vedeva più le tende degli Arabi. Erano forse partiti? Sorgeva la luna; una sorta di pace scendeva nel suo cuore.
  Fanuele, mortificato, restava là, col mento chino sul petto. Infine rivelò ciò che aveva da dire. Dall'inizio del mese studiava il cielo prima dell'alba, quando la costellazione di Perseo si trova allo zenit. Agalah si mostrava appena, Algol era meno brillante, Mira Ceti era scomparsa; da questi elementi divinava la morte di un uomo considerevole, quella stessa notte, in Macherus. Chi? Vitellio era troppo ben protetto. Iaokanan non sarebbe stato giustiziato.
  «Dunque sono io!», pensò il Tetrarca.
Forse sarebbero tornati gli Arabi? Il Proconsole avrebbe scoperto i suoi rapporti con i Parti! Sicari di Gerusalemme scortavano i sacerdoti; sotto le tuniche nascondevano pugnali; e il Tetrarca non nutriva dubbi sulla sapienza di Fanuele.
 Gli venne in mente di ricorrere a Erodiade, malgrado la odiasse. Lei però gli avrebbe infuso un po' di coraggio; non tutti i legami del sortilegio un tempo subito si erano spezzati. Quando entrò nella sua camera, il cinnamomo fumava in una vasca di porfido; ciprie, unguenti, drappeggi simili a nuvole, ricami più delicati di piume erano sparsi qua e là.
Non rivelò la predizione di Fanuele, né la sua paura degli Ebrei e degli Arabi; lei lo avrebbe accusato di essere vile. Parlò soltanto dei Romani; Vitellio non gli aveva confidato nulla dei suoi piani militari. Antipa lo supponeva amico di Caio, il quale a sua volta frequentava Agrippa; lo avrebbero mandato in esilio, o magari scannato.
Erodiade, con una sprezzante indulgenza, tentò di rassicurarlo. Infine trasse da un piccolo astuccio una bizzarra medaglia ornata dal profilo di Tiberio. Bastava quella a far impallidire i littori e a confutare qualunque accusa. Antipa, commosso per la riconoscenza, le chiese come l'avesse avuta.
  «Me l'hanno regalata», rispose.
Da dietro una tenda di fronte sbucò un braccio nudo, un braccio giovane, incantevole, che sembrava essere stato cesellato nell'avorio da Policleto. In modo un po' goffo seppur grazioso, vagava a tentoni per afferrare una tunica dimenticata su uno sgabello accostato alla parete.
Una vecchia la porse dolcemente, scostando la tenda.
  «È tua questa schiava?»
 «Che cosa te ne importa?», rispose Erodiade

III.

I convitati riempivano la sala del banchetto. Aveva tre navate, come una basilica, separate da colonne di legno di algumim, con capitelli di bronzo ricoperti di sculture. Due gallerie a giorno la sovrastavano, mentre una terza fatta di filigrana d'oro si incurvava nel fondo, di fronte a un'enorme centina che si delineava dalla parte opposta.
Candelabri accesi, sulle tavole allineate per l'intera lunghezza della sala, formavano cespugli di fuoco tra le coppe di terracotta dipinta e i piatti di rame, i cubi di neve e i cumuli d'uva; ma quei chiarori rossastri si disper-devano rapidamente a causa dell'altezza dei soffitti, e punti luminosi brillavano, come stelle nella notte, attraverso i rameggi. Attraverso la grande vetrata si scorgevano le torce sulle terrazze delle case, giacché Antipa festeggiava i suoi amici, il suo popolo e tutti coloro che si presentavano. Schiavi vigili come cani, con le dita dei piedi nei sandali di feltro, circolavano trasportando vassoi.
La tavola proconsolare occupava, sotto la tribuna dorata, un palco di assi di sicomoro. Tappeti di Babilonia la racchiudevano in una specie di padiglione.
  Tre triclini d'avorio, uno di fronte e due disposti ai lati, ospitavano Vitellio, suo figlio e Antipa; il Proconsole era vicino alla porta, a sinistra, Aulo a destra, il Tetrarca al centro.
Aveva un pesante mantello nero, la cui trama spariva sotto applicazioni di colore, un po' di belletto sugli zigomi, la barba tagliata a ventaglio, cipria azzurra nei capelli, stretti da un diadema di pietre preziose. Vitellio serbava indosso il suo budriere di porpora che cadeva diagonalmente su una toga di lino. Aulo si era fatto annodare sulla schiena le maniche della sua veste di seta violetta intessuta d'argento. Le trecce della sua acconciatura formavano come dei ripiani, e una collana di zaffiri scintillava sul suo petto, grasso e bianco come quello di una donna. Accanto a lui, accovacciato a gambe incrociate su una stuoia, c'era un fanciullo bellissimo, che sorrideva sempre. L'aveva visto nelle cucine e non riusciva più a separarsene; poiché faticava a rammentare il suo nome caldeo, lo chiamava semplicemente: «l'Asiatico». Di tanto in tanto si stendeva sul triclinio. Allora i suoi piedi nudi dominavano l'assemblea.
Da quella parte c'erano i sacerdoti e gli ufficiali di Antipa, abitanti di Gerusalemme, i notabili delle città greche; sotto il Proconsole, Marcello con i pubblicani, alcuni amici del Tetrarca, persone eminenti di Cana, Tolemaide, Gerico; poi, alla rinfusa, montanari del Libano e vecchi soldati di Erode: dodici traci, un gallo, due germani, cacciatori di gazzelle, pastori dell'Idumea, il sultano di Palmira, marinai di Eziongaber. Ciascuno aveva davanti a sé una focaccia di pasta molle per asciugarsi le dita; le braccia, protendendosi come colli d'avvoltoio, afferravano olive, pistacchi, mandorle. Tutti i volti erano allegri, sotto corone di fiori.
I Farisei le avevano rifiutate in quanto simbolo dell'indecenza romana. Ebbero un tremito quando furono aspersi di galbano e d'incenso, mistura riservata ai riti nel Tempio.
Aulo la usò per strofinarsi le ascelle; Antipa gliene promise un carico intero, insieme a tre ceste di quell'autentico balsamo che aveva indotto Cleopatra a vagheggiare la Palestina.
Un capitano della sua guarnigione di Tiberiade, sopraggiunto un istante prima, si era sistemato alle sue spalle per informarlo di qualche evento straordinario. Ma la sua attenzione si divideva tra il Proconsole e quel che dicevano alle tavole vicine.
Vi si parlava di Iaokanan e della gente della sua razza; Simon di Gitto lavava i peccati col fuoco. Un certo Gesù...
  «Il peggiore di tutti», esclamò Eleazar. «Che spregevole ciarlatano!»
Dietro il Tetrarca si alzò un uomo, pallido come l'orlo della sua clamide. Scese dal palco e, interpellando i Farisei:
  «Menzogna! Gesù fa miracoli!».
Antipa era ansioso di vederne uno:
 «Avresti dovuto portarcelo! Racconta!».
Allora raccontò che lui, Giacobbe, avendo una figlia malata, si era recato a Cafarnao per supplicare il Maestro di volerla guarire. Il Maestro aveva risposto: «Ritorna a casa, tua figlia è guarita!». Difatti l'aveva trovata sulla soglia, essendosi alzata dal letto quando la meridiana del palazzo segnava la terza ora, lo stesso istante in cui egli aveva avvicinato Gesù.
Dovevano certamente esistere, obiettavano i Farisei, pratiche ed erbe possenti! Perfino qui a Macherus si trovava talvolta il baaras che rende invulnerabili; ma guarire senza vedere né toccare era una cosa impossibile, a meno che Gesù non impiegasse il demonio.
E gli amici di Antipa, notabili di Galilea, proseguirono scuotendo la testa:
  «Il demonio, è evidente».
Giacobbe, in piedi fra la loro tavola e quella dei sacerdoti, taceva con un'aria a un tempo altera e mite.
Gli altri lo incitavano a parlare:        «Giustifica il suo potere!».
Allora curvò le spalle e, sottovoce, lentamente, come spaventato di se stesso:
  «Dunque non sapete che è il Messia?».
Tutti i sacerdoti si guardarono; Vitellio chiese il significato della parola. Il suo interprete impiegò un minuto per rispondere.
Chiamavano così un liberatore che avrebbe arrecato loro il godimento di tutti i beni e il dominio di tutti i popoli. Alcuni sostenevano che bisognava aspettarne due. Il primo sarebbe stato vinto da Gog e Magog, demoni del Nord; ma il secondo avrebbe sterminato il Principe del Male e, da secoli, lo attendevano da un momento all'altro. I sacerdoti si erano consultati, ed Eleazar prese la parola. Innanzitutto il Messia doveva essere figlio di David e non di un falegname; avrebbe convalidato la Legge, mentre quel Nazareno la attaccava; e, argomento determinante, doveva essere preceduto dall'avvento di Elia.
Giacobbe replicò:
  «Ma Elia è venuto!».
 «Elia! Elia!», ripetè la folla fino all'estremità opposta della sala.
Tutti, con l'immaginazione, vedevano un vegliardo sotto un volo di corvi, la folgore che incendiava un altare, pontefici idolatri gettati nei torrenti; le donne, nelle tribune, pensavano alla vedova di Sarepta.
Giacobbe si sfiancava nel ripetere che lo conosceva! lo aveva visto! e anche il popolo lo aveva visto!
  «Il suo nome?»
Allora gridò con tutte le sue forze:
  «Iaokanan!».
Antipa si rovesciò come colpito in pieno petto. I Sadducei si erano avventati su Giacobbe. Eleazar perorava per farsi ascoltare.
Quando tornò il silenzio, si aggiustò il mantello e, come un giudice, cominciò a porre domande.
  «Poiché il profeta è morto...»
Un mormorio lo interruppe. Tutti credevano che Elia fosse soltanto scomparso. Eleazar inveì contro la folla e, continuando il suo interro-gatorio:
    «Pensi che sia risuscitato?».
    «Perché no?», disse Giacobbe.
  I Sadducei scrollarono le spalle; Gionata, sgranando i suoi piccoli occhi, si sforzava di ridere come un buffone. Niente di più sciocco che la pretesa del corpo alla vita eterna; e declamò, per il Proconsole, questo verso di un poeta contemporaneo:
  Nec crescit, nec post mortem durare videtur1
Ma Aulo era chino sul bordo del triclinio, con la fronte sudata, il viso verdastro e i pugni sullo stomaco. I Sadducei finsero una grande emozione; il giorno seguente furono reintegrati nell'onore della sacrificatura; Antipa sembrava disperato; Vitellio restava impassibile. Tuttavia le sue angosce erano violente; con suo figlio perdeva la sua fortuna.
Aulo non aveva finito di vomitare l'anima che volle mangiare di nuovo.
 «Datemi limatura di marmo, schisto di Naxos, acqua di mare, qualunque cosa! E se facessi un bagno?»
Sgranocchiò della neve, poi, dopo aver tentennato tra una terrina di Commagena e dei merli rosa, si decise per le zucche al miele. L'Asiatico lo contemplava: quell'enorme faco-ltà di ingurgitare denotava ai suoi occhi un essere prodigioso e di una razza superiore.
  Servirono rognoni di toro, ghiri, usignoli, polpette in foglie di vite; intanto i sacerdoti discutevano di resurrezione. Ammonio, allievo di Filone il Platonico, li giudicava stupidi, e lo diceva a dei greci che si burlavano degli oracoli. Marcello e Giacobbe avevano fatto lega. Il primo narrava al secondo la felicità provata sotto il battesimo di Mitra, e Giacobbe lo esortava a seguire Gesù. I vini di palma e di tamerice, quelli di Safet e di Byblos, scorrevano dalle anfore nei crateri, dai crateri nelle coppe, dalle coppe nelle gole; si chiacchierava, i cuori si aprivano. Iasim, benché ebreo, non nascondeva più la sua adorazione per i pianeti. Un mercante di Afaka sbalordiva certi nomadi, descrivendo i particolari del tempio di Ierapoli; costoro chiedevano quanto sarebbe costato il pellegrinaggio. Altri restavano fedeli alla religione nativa. Un germano quasi cieco cantava un inno che celebrava quel promontorio della Scandinavia dove gli dèi appaiono con i volti raggianti; la gente di Sichem non mangiò tortore, per deferenza verso la colomba sacra Azima.
Parecchi parlavano in piedi, in mezzo alla sala; il vapore degli aliti e il fumo dei candelabri formavano nell'aria una specie di nebbia. Fanuele strisciò lungo il muro. Aveva nuovamente studiato il firmamento, ma non si avviava verso il Tetrarca, temendo le macchie d'olio che, per gli Esseni, erano segno di grave contaminazione.
Risuonarono dei colpi contro la porta del castello. Ora si sapeva che Iaokanan vi si trovava detenuto. Uomini muniti di torce si arrampicavano lungo il sentiero; una massa nera formicolava nella scarpata; di tanto in tanto urlavano:         «Iaokanan! Iaokanan!».
 «Sta rovinando tutto!», disse Gionata.
  «Non ci sarà più denaro per noi, se continua», aggiunsero i Farisei.
 Si levarono recriminazioni:
  «Proteggici!».
  «Basta!»
  «Tu abbandoni la religione!»
  «Empio come ogni altro Erode!»
 «Meno di voi!», replicò Antipa.       «È stato mio padre a edificare il vostro tempio!»
Allora i Farisei, figli dei proscritti, partigiani di Mattatia, rinfaccia-rono al Tetrarca i crimini della sua famiglia.
Avevano crani aguzzi, barbe ispide, mani deboli e malvagie, o la faccia camusa, grandi occhi tondi, un aspetto da mastini. Una dozzina, scribi e servi di sacerdoti, nutriti con lo scarto degli olocausti, si scagliarono ai piedi del palco; con i loro coltelli minacciavano Antipa, che li arringava, mentre i Sadducei lo difendevano blandamente. Intravide Mannaei, e gli fece segno di andarsene, poiché il contegno di Vitellio indicava eloquentemente che non erano cose che lo riguardavano.
I Farisei, rimasti sui loro triclini, furono colti da un furore diabolico. Spezzarono i piatti che avevano davanti: era stato loro servito lo stufato prediletto di Mecenate, e dell'asina selvatica, una carne immonda.
Aulo li prese in giro a proposito della testa d'asino, che si diceva essi onorassero, e pronunciò altri sarcasmi sulla loro antipatia per il porco. Doveva certo essere perché quel bestione aveva ucciso il loro Bacco; e loro amavano troppo il vino, dal momento che era stata scoperta nel Tempio una vigna d'oro.
 I sacerdoti non comprendevano le sue parole. Fineo, galileo per nascita, si rifiutò di tradurle. Allora la collera di Aulo fu smisurata, tanto più in quanto l'Asiatico, impaurito, era scomparso; il banchetto non gli piaceva, le portate erano volgari, non abbastanza artefatte! Si calmò alla vista di code di pecora siriaca, che sono fagottini di grasso.
II carattere degli Ebrei sembrava orribile a Vitellio. Il loro Dio poteva essere benissimo Moloeh, nei cui altari si era imbattuto strada facendo; e gli tornarono in mente i sacrifici di fanciulli, con la storia dell'uomo che essi ingrassavano misteriosamente. Il suo cuore di latino era disgustato dalla loro intolleranza, dalla loro rabbia iconoclasta, dai loro ciechi impedimenti. Il Proconsole voleva andarsene. Aulo si rifiutò.
Con la veste abbassata fin sui fianchi, giaceva dietro un mucchio di pietanze, troppo satollo per mangiarne ancora, e ostinandosi tuttavia a non perderle di vista.
L'esaltazione del popolo cresceva. Si lasciarono andare a progetti di indipendenza. Si rammentava la gloria di Israele. Tutti i conquistatori erano stati puniti: Antigone, Crasso, Varo...
 «Miserabili!», disse il Proconsole; egli infatti comprendeva il siriaco; il suo interprete serviva unicamente a dargli il tempo di pensare alle risposte.
Antipa, più svelto che potè, trasse la medaglia dell'Imperatore e, osservandola con timore, la presentò dal lato dell'effigie.
I pannelli della tribuna d'oro si spalancarono d'improvviso e, allo splendore dei ceri, tra le sue schiave e festoni di anemoni, apparve Erodiade, coperta di una mitra assira tenuta salda sulla fronte da un soggolo; i suoi capelli a spirali erano sparsi su un peplo scarlatto, con uno spacco lungo tutte le maniche. In mezzo ai due mostri di pietra, simili a quelli del tesoro degli Atridi, che si ergevano accanto alla porta, sembrava Cibele circondata dai suoi leoni; e dall'alto della balaustra che dominava Antipa, con una patera in mano, gridò:
  «Lunga vita a Cesare!».
L'omaggio fu ripetuto da Vitellio, da Antipa e dai sacerdoti.
Ma dal fondo della sala arrivò un mormorio di sorpresa e di ammirazione. Era appena entrata una giovinetta. Sotto un velo bluastro che nascondeva il seno e la testa, si distinguevano le arcate degli occhi, i calcedoni delle orecchie, il candore della pelle. Un fazzoletto di seta cangiante le copriva le spalle ed era fermato da una cintura di metallo prezioso. I suoi calzoni neri erano disseminati di mandragore, e con fare indolente faceva schioccare le piccole pantofole di piume di colibrì.
  Salita in cima al palco, si tolse il velo. Era Erodiade, come era un tempo, in gioventù. Subito dopo cominciò a danzare.

I suoi piedi passavano l'uno davanti all'altro, al ritmo del flauto e di una coppia di crotali. Le sue braccia tonde sembravano richiamare qualcuno che fuggiva continuamente. Lei lo inseguiva, più leggera di una farfalla; come una Psiche curiosa, come un'anima vagabonda, sembrava pronta a spiccare il volo. I suoni funebri del flauto fenicio sostituirono i crotali. Alla speranza era seguito l'abbatti-mento. I suoi atteggiamenti esprimevano sospiri, e tutta la sua persona un tale languore che non si riusciva a capire se piangesse un dio oppure morisse delle sue carezze. Con le palpebre socchiuse, si torceva, dimenava il ventre con le ondulazioni di una mareggiata, faceva tremare i due seni, ma il viso restava immobile, mentre i piedi non avevano un attimo di sosta.
Vitellio la paragonò a Mnester, il pantomimo. Aulo continuava a vomitare. Il Tetrarca si perdeva in un sogno, e non pensava più a Erodiade. Credette di vederla accanto ai Sadducei. La visione si allontanò.
Non era una visione. Erodiade aveva fatto istruire, lontano da Macherus, Salomè, sua figlia, pensando che il Tetrarca se ne sarebbe innamorato. L'idea era buona, ora Erodiade ne era certa!
Poi fu il turno dell'impeto amoroso che vuol essere appagato. Salomè danzò come le sacerdotesse delle Indie, come le Nubiane delle cateratte, come le baccanti di Lidia. Si rovesciava da tutte le parti, simile a un fiore agitato dalla tempesta. I brillanti dei suoi orecchi saltellavano, la seta sulle sue spalle assumeva mille colori; dalle braccia, dai piedi, dalla veste scaturivano invisibili scintille che facevano ardere gli uomini. Un'arpa cantò; la moltitudine rispose con acclamazioni. Senza flettere le ginocchia mentre divaricava le gambe, si curvò al punto che il mento sfiorava il pavimento; e i nomadi abituati all'astinenza, i soldati romani esperti in dissolutezze, gli avari pubblicani, i vecchi sacerdoti inaciditi dalle dispute, tutti, dilatando le narici, palpitavano di bramosia.
Quindi Salomè cominciò a girare attorno alla tavola di Antipa, freneticamente, come in un rito di streghe. Con una voce interrotta da singhiozzi di voluttà, lui le diceva: «Vieni! vieni!». Lei continuava a girare; i timpani tuonavano così forte da scoppiare, la folla urlava. Ma il Tetrarca gridava più forte: «Vieni! vieni! Ti darò Cafarnao! la piana di Tiberiade! le mie fortezze! la metà del mio regno!».
Salomè si chinò sulle mani, con talloni rivolti in aria, e percorse così il palco come un grande scarabeo; poi, bruscamente, si fermò. La sua nuca e le sue vertebre formavano un angolo retto. Le guaine variopinte che le avvolgevano le gambe, passandole sopra le spalle, come arcobaleni, accompagna-vano la sua figura a un cubito dal suolo. Le sue labbra erano dipinte, le sopracciglia nerissime, gli occhi quasi terribili, e le goccioline che le imperlavano la fronte sembravano vapore su un marmo bianco.
Salomè non parlava. I due si guardarono. Nella tribuna si sentì uno schioccare di dita. Lei vi salì, riapparve; e, con una pronuncia un po' blesa, con un'aria infantile disse queste parole:
«Voglio che tu mi dia in un piatto la testa...». Aveva dimenticato quel nome, ma proseguì sorridendo: «La testa di Iaokanan!». Il Tetrarca si accasciò su se stesso, distrutto. Era vincolato dalla sua parola, e il popolo attendeva. Ma la morte che gli era stata predetta, applicandosi a un altro, avrebbe forse evitato la sua? Se Iaokanan era davvero Elia avrebbe potuto sottrarvisi; se non lo era, l'omicidio non aveva più importanza.
Mannaei era al suo fianco, e capì le sue intenzioni. Vitellio lo chiamò per confidargli la parola d'ordine delle sentinelle messe a guardia della fossa. Fu un sollievo. Di lì a un minuto tutto sarebbe finito! Tuttavia Mannaei non era affatto preparato a quel compito.
Tornò, sconvolto.Da quarant'anni esercitava la funzione di carnefice. Era stato lui ad affogare Aristobulo, a bruciare vivo Mattatia, a decapitare Zosima, Pappo, Giuseppe e Antipatro; eppure non osava uccidere Iaokanan! I suoi denti battevano, tutto il suo corpo tremava. Davanti alla fossa aveva intravisto il Grande Angelo dei Samaritani, tutto coperto d'occhi e nell'atto di brandire un'immensa spada, arroventata, dentellata come una fiamma. Due soldati ne erano stati testimoni ed erano stati condotti per confermarlo. Non avevano visto niente, salvo un capitano ebreo, che si era precipitato su di loro e che ora non c'era più. Il furore di Erodiade trovò sfogo in un torrente di ingiurie volgari e sanguinose. Si spezzò le unghie sulla grata della tribuna, i due leoni scolpiti sembravano mordere le sue spalle e ruggire come lei. Antipa la imitò, i sacerdoti, i soldati, i Farisei, tutti reclamavano vendetta, mentre gli altri erano indignati che si rinviasse il loro piacere. Mannaei uscì nascondendosi il volto. I convitati trovarono quella seconda attesa ancor più lunga della prima. Si annoiavano. D'un tratto, un rumore di passi echeggiò nei corridoi. Il disagio diveniva intollerabile. La testa entrò; e Mannaei la teneva per i capelli, all'estremità del braccio, fiero degli applausi.
Dopo che l'ebbe messa su un piatto, la offrì a Salomè.
Lei salì rapidamente sulla tribuna; dopo parecchi minuti, la testa fu riportata dalla stessa vecchia che il Tetrarca aveva notato quel mattino sul terrazzo di una casa, e poco prima nella camera di Erodiade.
Indietreggiava per non guardarla. Vitellio vi gettò uno sguardo indifferente. Mannaei scese dal palco, e la esibì ai capitani romani, quindi a tutti coloro che mangiavano da quella parte.
  Tutti la esaminarono.
La lama aguzza, scivolando dall'alto in basso, aveva troncato la mascella. Una convulsione contraeva l'angolo della bocca. Tracce di sangue già rappreso erano disseminate sulla barba. Le palpebre chiuse erano livide come conchiglie; attorno, i candelabri erano raggianti.
La testa arrivò alla tavola dei sacerdoti. Un fariseo la voltò curiosamente; e Mannaei, dopo averla raddrizzata, la pose davanti ad Aulo, che ne fu come ridestato. Attraverso l'apertura delle ciglia, le pupille morte e le pupille spente sembravano dirsi qualcosa.
In seguito Mannaei la presentò ad Antipa. Le lacrime colarono sulle guance del Tetrarca.
Le fiaccole si spensero. Gli invitati si congedarono; nella sala restò soltanto Antipa, con le mani sulle tempie, lo sguardo sempre fisso sulla testa tagliata, mentre Fanuele, in piedi in mezzo alla navata principale, mormorava preghiere con le braccia tese.
Nell'istante in cui sorgeva il sole arrivarono due uomini, inviati tempo prima da Iaokanan, con la risposta così a lungo attesa.
La confidarono a Fanuele, che ne fu enormemente rallegrato.
Poi mostrò loro il lugubre oggetto, sul vassoio, tra gli avanzi del banchetto. Uno degli uomini disse:
  «Consolati! È sceso tra i morti ad annunciare il Cristo!».
L'Esseno ora capiva quelle parole:
  «Perché lui cresca, bisogna che io diminuisca».
E tutti e tre, presa la testa di Iaokanan, se ne andarono verso la Galilea. Poiché era estrema-mente pesante, la portarono a turno.
  1 "Non cresce, né sembra durare dopo la morte"