venerdì 1 giugno 2018

IL RITRATTO DI SISIFO

Friedrich Dürrenmatt 
Il caso mi aveva portato quell'inverno in un villaggio della Svizzera francese, e il periodo solitario che vi trascorsi mi è rimasto nella memoria come una specie di sogno. Rivedo bensì chiaramente le estese colline bianche e ondulate, però le poche casupole si sono fuse, spettrali, in un groviglio di scale, corridoi e stanze inospitali per le quali m'aggiro agitato. Un'esperienza soltanto di quelle settimane perdute mi si è fissata nella mente, come, per esempio, ci balla ancora a lungo davanti agli occhi una vivida macchia dopo aver fissato inavvertitamente il sole. Quella volta, da una scala tortuosa che si perdeva da qualche parte nel buio, ho guardato attraverso una finestra semicoperta di ghiaccio in una stanza vivamente illuminata, dove tutto si svolgeva nitidamente, ma in totale silenzio. Ogni particolare mi si fissò così nella mente, e sarei in grado di menzionare il colore d'ogni indumento indossato dai bambini in quella circostanza, specialmente la giacca rosso fuoco e ricamata d'oro d'una bambina bionda. I piccoli costruivano sul tavolo tondo un grande castello di carte, ed era singolare seguirne i movimenti d'una estrema cautela. Poi però, quando l'edificio fu compiuto, cominciarono a distruggerlo. Non lo demolirono tuttavia, come mi aspettavo, con un movimento brusco, bensì togliendo con cura una carta dopo l'altra, finché, con grande fatica, esattamente pari al lavoro con cui era stato costruito, il castello di carte non esistette più. Il singolare avvenimento mi rammentò la fine di un uomo vissuto tanto tempo prima. Infatti, mentre guardavo i bambini di nascosto, fu come se al di là del quadro tranquillo che la stanza mi offriva ne emergesse un secondo, più oscuro e strano del primo, eppure affine ad esso, confuso inizialmente, poi sempre più chiaro e, suscitato dal gioco dei bambini come lo spettro d'un defunto evocato mediante una misteriosa procedura, mi si affacciò alla mente quell'infelice cui per tanto tempo non avevo osato pensare, non spaventoso tuttavia, ma attenuato dall'ambiguità del ricordo, eppure dai contorni netti, perché d'un tratto ebbi della sua essenza un'immagine palese. Come lo spuntare del giorno ci svela talvolta prima le linee dell'orizzonte e poi via via le singole cose, così affiorarono in me i vari tratti di quell'uomo.
Tornarono vive anche le oscure supposizioni che s'erano fatte attorno alla sua persona. Ricordo che le carte che erano sul tavolo in quell'occasione mi rammentarono la diceria che gli attribuiva una segreta passione per il gioco. A lungo l'avevo considerata una leggenda come un'altra, intessuta attorno a quell'uomo inconsueto, senza presagirne la spaventosa ironia. Ero stato ingannato, allora, dall'ambiente che lo circondava, eppure le sue parole avrebbero dovuto mettermi sull'avviso, amava dire spesso che s'intendeva d'arte più di tutti noi perché si abbandonava alla suggestione del momento e poteva quindi osservarla con la tranquillità con cui noi guardavamo le stelle. Oggi mi sembra essenziale inoltre che mi sia uscito di mente perfino il suo nome, credo tuttavia di ricordare che gli studenti lo chiamassero «mantello rosso». Non so più come questo nome gli si sia intessuto addosso, ammesso che l'abbia mai avuto, può però darsi che in parte fosse dovuto alla sua predilezione per il colore rosso.
Come si dà spesso il caso d'uomini che dispongono di un grande potere sul prossimo, anche alla base del suo c'era un recondito misfatto, che gli aveva procurato l'enorme patrimonio di cui sentivamo favoleggiare. Misfatti simili sono di rado commessi per malvagità innata, sono per tali individui lo strumento necessario per penetrare nella società altrimenti loro preclusa.
Il misfatto del «mantello rosso» fu strano tuttavia, come tutto quello che intraprendeva, e strano anche il modo in cui lo mandò in rovina, però non posso sottacere a questo punto che mi riesce difficile ricostruire a memoria, senza lacune, gli eventi esteriori che portarono al suo declino. Può darsi che questo dipenda dalla natura del ricordo, che ci prospetta dall'esterno e fuori dal tempo cose vissute nel tempo, tanto che ci coglie un senso d'insicurezza nel percepire un intimo contrasto fra quello che ricordiamo e quello che è realmente accaduto. Inoltre non ci rammentiamo mai di tutti gli episodi di un evento con la stessa chiarezza, alcuni si celano in un'oscurità impenetrabile, altri risplendono d'una limpidezza estrema, così che spesso ci capita di sbagliare nella successione dei singoli momenti, in quanto li ordiniamo secondo gradi di evidenza, discostandoci quindi inconsapevolmente dalla realtà. Così mi appare in una luce spettrale anche quella notte in cui avvertii per la prima volta la violenza della corrente che doveva trascinare il «mantello rosso» nell'abisso.
Ci riunivamo allora, sul finire dell'autunno, in casa d'uno degli uomini più ricchi e infelici della nostra città, morto poverissimo appena pochi anni fa. Mi vedo chiaramente, assieme al medico che allora mi curava durante la mia lunga malattia, entrare in una piccola stanza appartata, dalle singolari arcate, le cui pareti attutivano il chiasso della festa, riducendolo a una musica misteriosa. Ho anche l'impressione che fossimo impegnati allora in una conversazione assai intricata, tipica del carattere del mio interlocutore, durante la quale io mi sforzavo di controbattere un'obiezione continuamente riproposta, che consisteva in un'asserzione curiosa che mi è sfuggita. Fu una discussione estenuante, di quelle che si muovono in circolo, senza vie d'uscita. Tacemmo solo nello scorgere appeso alla parete un quadro, in una pesante cornice con una piccola targhetta dove lessi il nome del fiammingo Hieronymus Bosch. Osservammo con grande meraviglia il piccolo quadro, che era dipinto su legno e raffigurava l'inferno nei suoi più orribili e riposti tormenti, reso inquietante da una insolita distribuzione del colore rosso. Mi parve di guardare un mare di fuoco ardente, le cui fiamme plasmavano sempre nuove, innumerevoli forme, e ravvisai solo dopo qualche tempo le leggi che potevano essere alla base del dipinto. Mi spaventò soprattutto il fatto che il mio sguardo, pilotato dalla composizione dell'enigmatico pittore, tornasse in continuazione a un personaggio nudo che, quasi nascosto dall'innumerevole folla dei tormentati, rotolava un enorme macigno su per una collina che si levava svettante e minacciosa, proprio sullo sfondo, da un mare di sangue color rosso cupo. Non poteva che raffigurare Sisifo il quale, secondo la tradizione, sarebbe stato il più astuto degli uomini. Mi resi conto che lì si celava il fulcro del dipinto, attorno a cui tutto ruotava come attorno a un sole. Ma contemporaneamente affiorò in me la sensazione che il quadro dell'antico maestro rispecchiasse la sorte del «mantello rosso», resa in scrittura pittorica per così dire, senza che io riuscissi però allora a decifrarla. E' possibile che le masse di rosso del dipinto suscitassero questa supposizione, che s'accentuò fino a diventare certezza assoluta quando il «mantello rosso» entrò nella stanza col padrone di casa, un banchiere. Entrarono senza parlare, non in maschera come quasi tutti gli altri, ma in abiti da sera, col perfetto distacco di due uomini di mondo, però i loro occhi avevano lo sguardo fisso. Compresi che fra i due era avvenuto qualcosa di terribile, che doveva renderli nemici mortali e che per una qualche ragione a me ignota era collegato al quadro.
Fu comunque una questione di attimi. Il banchiere tornò nella sala col medico, e il «mantello rosso» mi coinvolse in una singolare e oscura conversazione su Sisifo che dischiudeva ambiti sempre più angosciosi, nei quali lo spirito usa perdersi solo malvolentieri; sembrava anche che sotto le sue parole ardesse quel fanatismo che riscontriamo nelle persone decise a sacrificare il mondo alle loro idee. Benché mi si siano fissati nella memoria solo frammenti di quella nostra conversazione, ricordo tuttavia d'essermi convinto allora, in base alle sue parole, che un amore violento e stravagante lo legasse a quel dipinto, dal quale non scostò mai lo sguardo durante l'intero colloquio. Rammento solo vagamente ancora alcuni accenni a misteriosi paralleli che si dovevano supporre fra il supplizio di Sisifo e l'essenza dell'inferno. Poi parlò con dileggio dell'ironia insita nelle pene dell'inferno, un contrappasso destinato a raddoppiarne orribilmente la pena.
Il resto del colloquio è svanito come un incubo, e non so nemmeno più come ci lasciammo; della festa, che si protrasse fino al mattino inoltrato, mi sono rimaste nella memoria solo alcune maschere faunesche, nere e d'un giallo vivo, indossate in quella circostanza da ballerine.
Con il medico poi mi diressi alla volta della mia abitazione, molto prima della fine della festa, indotto a una sollecita partenza dalla mia malattia, camminando in una fitta nebbia che a tratti s'accendeva di bianco e alterava le relazioni spaziali, ci muovevamo come in una cantina nella quale fossimo penetrati di nascosto. La sensazione d'un pericolo incombente era accentuata dallo scorgere di continuo davanti a noi la silhouette d'un uomo che cercavamo con ostinazione di raggiungere poiché ritenevamo che fosse il «mantello rosso», per il quale il medico mostrava da tempo un interesse crescente. Il nostro intento falliva però regolarmente perché quella figura si comportava diversamente da quanto ogni momento ci aspettavamo, tanto da esserne continuamente ingannati in un modo inquietante. Mentre proseguivamo così, spiando con apprensione colui che ci precedeva, e pareva ora quasi sfuggirci e poi essere d'improvviso ancora a portata di mano, il medico cominciò a raccontare del «mantello rosso» a voce molto bassa, come timoroso di essere sentito. I punti essenziali della sua esposizione muovevano dalla circostanza che, come il medico aveva appreso, il «mantello rosso» aveva ripetute volte cercato di entrare in possesso del dipinto, fallendo però sempre di fronte al banchiere che aveva respinto anche le più alte offerte. Il medico vi aggiunse una supposizione che sul momento non motivò più esplicitamente, sostenendo cioè che il «mantello rosso», pur di acquisire il ritratto di Sisifo, sarebbe ricorso a ogni mezzo, e non sarebbe indietreggiato nemmeno di fronte a un delitto. Cercai di tranquillizzarlo e ricordo d'aver provato una certa irritazione per il tono di vaghezza che prendeva ogni conversazione col medico, visto che non si riferiva mai a fatti reali, e si perdeva invece, come per tragitti contorti, in supposizioni e presentimenti oscuri. Quel medico, cui pure ripenso con estrema gratitudine, possedeva la virtuosa capacità di scoprire l'equivocità d'ogni fenomeno, amava mostrare le cose solo quando si muovevano sull'orlo dell'abisso. Mi disarmò soprattutto coll'argomento che il «mantello rosso» sarebbe già stato, anni prima, in possesso del dipinto, e che l'avrebbe venduto per una somma enorme dopo averlo acquistato per pochi soldi da un rigattiere, e che vi erano anche ragioni per supporre che fosse stato, in precedenza, molto povero. Prima di rientrare in casa, il medico, dopo avermi accompagnato fino alla porta, mi disse, con una risata che oggi mi appare sempre più beffarda, di non trascurare una diceria mirante a gettare un po' di luce sull'oscuro passato del «mantello rosso». Si sosteneva cioè che questi fosse stato, in gioventù, un pittore di non trascurabile talento, e non si poteva escludere che il guadagno tratto da quel dipinto antico fosse stato la causa per cui aveva abbandonato l'arte, anzi c'erano indizi certi a sostegno d'una simile supposizione.
Quel colloquio si concluse così con foschi presentimenti, tanto più che l'aggravarsi della malattia mi relegò per parecchio tempo nella mia stanza. Attribuisco quindi al mio completo isolamento, il fatto di esser tanto a lungo all'oscuro del conflitto crudele per il possesso del quadro che cominciò a svolgersi fra il «mantello rosso» - allora nel sessantesimo anno di vita - e il banchiere. Anche il medico tacque a lungo, coll'intento di non agitarmi.
Fu un conflitto fra avversari che prediligono agire di nascosto, lì dove vige ogni arbitrio. Fu una lotta lunga e accorta, fantastica solo perché verteva sul possesso d'un quadro, combattuta con le armi più raffinate e perfide, dove ogni attacco e ogni ritirata dovevano compiersi con infinita circospezione, e ogni passo poteva portare alla rovina, un conflitto che tendeva a svolgersi in luoghi immersi in una luce eternamente equivoca, nelle anticamere degli assessorati e in uffici mal riscaldati, in ambienti in cui si osa appena bisbigliare, lì dove avvengono quelle cose di cui ci giungono solo di tanto in tanto notizie incerte, come di tutti gli avvenimenti che si risolvono a livello appartato e alterano appena i tratti del volto di coloro che vi sono più mortalmente coinvolti. Erano anche avversari d'uguale statura se ci limitiamo a considerare la risolutezza esteriore che costituisce la premessa d'una simile forma di lotta, tuttavia il «mantello rosso» ebbe il vantaggio della prima mossa, che in tali circostanze risulta spesso decisiva. In questo spettrale duello gli toccò anche il ruolo dell'attaccante, mentre il banchiere si vide sempre ridotto alla difensiva, svantaggiato anche dal fatto che la molla del suo comportamento era nella vanità che gli vietava di rinunciare al quadro e di salvarsi in tal modo, mentre la smania demoniaca del «mantello rosso» per il dipinto scaturiva da una potenza oscura che aveva le radici nel male in sé, e fu quindi capace di agire con indomita determinazione. Il duello fra un grande industriale e un grande banchiere, che aizzarono l'un contro l'altro sempre nuovi potentati economici, comportando infine una catastrofe, si protrasse così per molti anni, simile a una malattia strisciante che doveva necessariamente, alla lunga, portare alla morte, e per molto tempo la vittoria rimase incerta. Lentamente però l'enorme capitale del banchiere si sgretolò, perché il «mantello rosso» procedette come quei giocatori di scacchi che non rifuggono dalle maggiori perdite se sono così messi nella condizione di acquisire un minimo vantaggio, e sacrificando tutto il suo patrimonio gli riuscì di distruggere quello del banchiere e di mettere le mani sul dipinto.
Non oso supporre a questo punto quali motivi egli abbia avuto per rivolgersi a me, eppure non posso dire che il suo invito mi giungesse inaspettato, l'accolsi piuttosto come un qualcosa di ineluttabile.
Fu una delle ultime volte che attraversai la nostra città, poco prima di doverla lasciare (in circostanze che racconterò in seguito). Avevo percorso le lunghe strade di periferia, i quartieri operai che si presentavano come paesaggi primitivi stranamente frastagliati, con profondi crepacci e ombre geometriche spiccanti con contorni nettamente delineati sulle superfici asfaltate. Era notte fonda, soltanto alcuni ubriachi barcollavano ancora in giro sbraitando canzoni sconce, e da qualche parte c'era una rissa con la polizia. Raggiunsi quindi casa sua, giù sul fiume, circondata da cespugli, orti e blocchi di case in affitto disposti a vasto anfiteatro; era un edificio esteso, con diversi tetti, originariamente formato da quattro case adiacenti, di disuguale altezza, le cui pareti divisorie erano state abbattute e le cui finestre scintillavano alla luce della luna. Il portone principale era spalancato, fatto che m'inquietò, tanto più che dovetti scavalcare mucchi di vasi di piante rovesciati per raggiungerlo, però all'interno non trovai, sul momento, il disordine che m'ero aspettato. Mi mossi per ambienti enormi rischiarati soltanto dalla luna che penetrava incerta dai vetri, intravvidi sulle pareti quadri d'incalcolabile valore e sentii il profumo di fiori rari, però scorsi ovunque, nella penombra argentea, incollati su tutti gli oggetti, gli atti di pignoramento degli ufficiali giudiziari.
Nell'avanzare a tastoni - l'energia elettrica era staccata, perché tentai invano, ripetutamente, di far luce azionando gli interruttori - compresi anche quale sia la natura del labirinto, che nasconde nelle sue viscere l'attimo del massimo orrore provocato mediante una graduale, uniforme accentuazione della paura, pronta ad esplodere poi, quando, subito dopo la repentina svolta d'un corridoio, ci troviamo di fronte a un velloso minotauro. Presto tuttavia divenne più difficile procedere oltre. Ero giunto in parti dell'edificio munite solo di piccole finestre a inferriate, situate molto in alto; inoltre qui i tappeti erano arrotolati e i mobili spostati. Ben presto quindi, nel disordine crescente, non seppi più dov'ero. Mi parve di tornare più volte nella stessa stanza. Cominciai a richiamare gridando l'attenzione sulla mia presenza, però nessuno rispose, solo una volta ebbi l'impressione di sentire in lontananza una risata. Trovai finalmente la strada giusta dopo essere salito lungo una scala a chiocciola. Entrai infatti in una specie di soffitta, un vasto granaio mi pare di ricordare, con un intrico di travi a sorreggere il tetto, con svariati pavimenti che, essendo su livelli diversi, erano collegati fra di loro da scale fisse di metallo. Anche qui il padrone di casa aveva fatto arredare tutto con lusso, e reso l'ambiente abitabile mediante abili accorgimenti, anche se non si coglieva il senso d'un simile solaio. Dallo sfondo, a ridosso d'un muro tagliafuoco, mi guizzò a questo punto incontro un riverbero rosso. Salii faticosamente diverse scale, altre ne scesi. Non si scorgevano finestre, da nessuna parte, e non c'era altra luce oltre al fuoco del camino; questo però si comportava irregolarmente, a tratti si levava a guizzi così intensi da far risaltare chiaramente tutti gli oggetti del solaio, puntelli, travi, mobili, mentre sulle pareti e sul tetto di cui si vedeva la parte interna danzavano ombre bizzarre; poi a tratti si spegneva quasi, bloccandomi da qualche parte, immerso nell'oscurità profonda, sui pavimenti o sulle scale dell'imprevedibile ambiente. Mi avvicinavo sempre di più al riverbero del fuoco. Raggiunsi il camino dopo aver scavalcato un mucchio confuso di scaffali rovesciati con pesanti volumi. Accanto al fuoco sedeva un vecchio smagrito, con abiti sporchi e laceri che gli ballavano addosso, non rasato; pareva un clochard, il cranio calvo illuminato dalla luce delle fiamme, un'apparizione paurosa in cui riconobbi solo gradualmente il «mantello rosso». Reggeva sulle ginocchia, fissandolo immobile, il quadro del fiammingo, sulla cui cornice era a sua volta affisso un foglietto. Salutai, ma solo dopo parecchio tempo levò lo sguardo. Sul momento non parve riconoscermi, e io non avrei saputo dire se per caso non era ubriaco, perché sul pavimento attorno erano sparse alcune bottiglie. Finalmente cominciò a parlare, con voce stridula, però mi è sfuggito quello che disse inizialmente. Può darsi che fossero parole di sarcasmo quelle che balbettò per annunciarmi la sua rovina, la perdita dei beni, delle fabbriche e dei potentati economici, oppure la necessità in cui si trovava di dover lasciare la casa e la città. E quello che disse dopo l'ho compreso bene solo nel vedere quei bambini che costruivano nella stanza il loro castello di carte per poi distruggerlo di nuovo con uguale minuzioso impegno. Picchiò impaziente la magra e vecchia mano sulla coscia destra. «Eccomi qui seduto, con addosso il vestito sporco della mia gioventù,» gridò d'un tratto infuriato, «il vestito della mia povertà. Odio questo vestito e questa povertà, odio la sporcizia, ne ero uscito e ora sono di nuovo sprofondato in questo viscido pantano,» e mi scaraventò contro una bottiglia che, scostandomi io, s'infranse da qualche parte alle mie spalle. Si fece più calmo e mi fissò con strani occhi pungenti. «Si può cavare qualcosa dal nulla?» domandò scrutandomi, al che io scossi il capo, perplesso. Lui annuì, triste. «Hai ragione, giovanotto,» disse, «hai ragione,» strappò il dipinto dalla cornice e lo gettò nel fuoco. «Ma cosa fa,» esclamai inorridito e mi avvicinai di scatto per sottrarre il dipinto alle fiamme, «lei sta bruciando il Bosch.» Lui però mi respinse con un vigore di cui non avrei ritenuto capace quel vecchio. «Il dipinto non è autentico,» disse ridendo. «Dovresti saperlo, il medico lo sa da tempo, quello sa sempre tutto da tempo.» Nel camino il fuoco divampò pericolosamente e ci sommerse di guizzanti riflessi d'un rosso cupo. «Lei lo ha falsificato,» dissi piano, «e per questo ha voluto riaverlo.» Mi guardò minaccioso. «Per cavare qualcosa dal nulla,» disse. «Ho costruito il mio patrimonio col denaro che ebbi con questo dipinto, ed era un bel patrimonio, un favoloso patrimonio, e quando fossi rientrato in possesso di questo dipinto, avrei creato qualcosa dal nulla.- Oh, è stato un calcolo preciso in questo mondo miserabile.» Poi fissò di nuovo il fuoco, seduto lì nel suo vestito lacero, sporco, povero come un tempo, senza senso, un grigio mendicante immobile e spento. «Qualcosa dal nulla,» continuò a bisbigliare, piano, e le sue labbra si muovevano appena, ininterrottamente, come il ticchettio d'uno spettrale orologio: «Qualcosa dal nulla.» Mi allontanai con tristezza, ripercorsi a tastoni il tragitto attraverso la casa pignorata e non feci caso, quando giunsi di nuovo in strada, alla gente che improvvisamente accorreva da ogni dove verso la casa che avevo lasciato, con gli occhi sbarrati pieni di spavento, occhi che ho creduto di fissare solo quando, anni dopo, il gelo si rinserrò sul vetro attraverso il quale avevo guardato i bambini, le loro carte e le loro mani sul tavolo tondo, finché si librò dinnanzi a me, nella penombra, solo l'intelaiatura della finestra che racchiudeva immobile la superfice vuota.

(1945)