sabato 2 giugno 2018


CAVALLI SELVAGGI
Cormac McCarthy

(All the Pretty Horses - 1992)
PARTE PRIMA
La fiamma della candela e la sua immagine riflessa nello specchio si contorsero e si raddrizzarono quando entrò nell'ingresso e di nuovo quando chiuse la porta. Si tolse il cappello, avanzò lentamente facendo scricchiolare  il pavimento di legno sotto gli stivali e rimase in piedi, vestito di nero, davanti allo specchio scuro nel quale i pallidi gigli si protendevano dall'esile vaso di cristallo. Nel freddo corridoio alle sue spalle, alle pareti rivestite di legno erano appesi i ritratti, incorniciati sotto
vetro e fiocamente illuminati, di alcuni avi che conosceva solo vagamente. Abbassò lo sguardo sul mozzicone di una candela gocciolante, lasciò l'impronta del pollice nella cera tiepida colata sul ripiano di quercia e guardò quel viso smunto affondato fra le pieghe del raso funebre, i baffi
ingialliti e le palpebre sottili come carta. No, non era sonno. Non era affatto sonno.
Fuori faceva buio e freddo e non tirava un alito di vento. In lontananza un vitello muggì lamentosamente. Lui rimase in piedi col cappello in
mano. Da vivo non ti pettinavi mai così, mormorò.
Il silenzio in cui era immersa la casa era rotto soltanto dal ticchettio dell'orologio che si trovava sulla mensola del camino in salotto. Uscì e chiuse la porta.
Buio, freddo, non un filo di vento e un sottile chiarore che cominciava a spuntare lungo il confine orientale del mondo. Fece qualche passo verso la
prateria, s'arrestò tenendo in mano il cappello, quasi a supplicare l'oscurità in cui era immersa ogni cosa, e restò immobile a lungo.
Quando si voltò per tornare sentì il treno. Si fermò ad aspettarlo. Lo avvertiva sotto i piedi. Fischiando e sbuffando in lontananza, il treno sbucò da est come un irriverente satellite del sole che stava per nascere. Il lungo fascio dell'unico faro esplorava l'intrico dei cespugli di mesquite, faceva emergere nella notte lo steccato diritto e senza fine che costeggiava i binari e di nuovo risucchiava nel buio miglia e miglia di fili e paletti lasciandosi dietro il frastuono insistente e il fumo della caldaia a vapore che si sfrangiava lento nell'incerto chiarore del nuovo giorno. Lui, immobile col cappello in mano, sentì la terra tremare e seguì il treno con lo sguardo finché non lo vide svanire. Poi si voltò e tornò verso casa.
Al suo ingresso lei alzò gli occhi dalla cucina e lo squadrò da capo a piedi osservando il vestito. 
Buenos días, guapo, disse. 
Lui appese il cappello all'attaccapanni accanto alla porta ingombro d'impermeabili, mantelline e finimenti vari, e raggiunse la cucina per prendere un po' di caffè e portarselo al tavolo. Lei aprì il forno, tirò fuori
una teglia di panini appena fatti, ne mise uno su un piatto, glielo portò insieme al coltello per il burro e tornò alla cucina sfiorandogli la nuca con
la mano. 
Ti ringrazio d'aver acceso il cero, disse lui.
Cómo?
La candela. La vela.
No fui yo, disse lei.
La señora?
Claro.
Ya se levantó?
Antes que yo.
Lui bevve il caffè. Fuori cominciava ad albeggiare e Arturo stava venendo verso casa. 
Al funerale vide suo padre. Era in piedi, da solo, oltre il vialetto di ghiaia vicino al recinto. A un certo punto il padre si recò all'auto parcheggiata in strada, poi ritornò. A metà mattina s'era messo a soffiare un forte vento da nord che sollevava turbini di polvere frammista a qualche fiocco di neve e le donne sedute si tenevano il cappello con le
mani. Sulla tomba avevano steso un telone che non serviva a niente perché il vento tirava da tutte le parti. Il telone sbatteva furiosamente e le parole del predicatore si perdevano nell'aria. Al termine della cerimonia i presenti si alzarono e le seggiole di tela su cui erano seduti, travolte dalle raffiche, volarono fra le lapidi.
Al tramonto sellò il cavallo e si diresse a occidente. Il vento s'era piuttosto calmato, faceva molto freddo e di fronte a lui il sole rosso ed ellittico posato sull'orizzonte insanguinava una lunga frangia di nuvole.
Spinse il cavallo nella direzione che prendeva sempre, là dove la
diramazione occidentale dell'antico sentiero Comanche, uscendo dal territorio dei Kiowa a nord, attraversava l'estremità occidentale del ranch e proseguiva verso sud, a stento visibile nella bassa prateria racchiusa fra il ramo settentrionale e quello mediano del Concho River. Era l'ora che
preferiva da sempre, l'ora delle ombre lunghe, quando nella luce rosata e obliqua l'antica strada prendeva forma davanti ai suoi occhi come un sogno del passato nel quale i cavalli dipinti e i cavalieri di quel popolo perduto, con le facce istoriate, i lunghi capelli a treccia e le armi per combattere la guerra della loro vita, scendevano da nord insieme alle donne, ai bambini e alle mamme coi piccoli al seno; un popolo vincolato da un patto di sangue che si poteva riscattare solo nel sangue. Quando soffiava il vento da nord si sentivano gli indiani, i cavalli, il fiato dei cavalli, gli zoccoli foderati di cuoio, il tintinnio delle lance e il perpetuo frusciare dei travois trascinati sulla sabbia come enormi serpenti, i ragazzi
nudi che montavano i cavalli bradi con la spavalderia dei cavallerizzi da circo spingendo altri cavalli bradi davanti a loro, i cani che trottavano accanto con la lingua fuori e gli schiavi seminudi che marciavano a piedi
oppressi da pesanti fardelli e soprattutto la lenta litania dei canti che i cavalieri cantavano in viaggio; un popolo e il suo spirito che attraversavano in coro sommesso il deserto pietroso verso un'oscurità perduta alla storia e a ogni ricordo come un graal contenente la somma
delle loro vite violente ed effìmere. Cavalcò con la faccia ramata dal sole nel vento rosso che soffiava da ovest. Svoltò a sud lungo l'antico sentiero di guerra, raggiunse la cresta di
una collinetta, smontò da cavallo, lasciò cadere le redini, fece qualche passo e si fermò come fosse arrivato alla line di qualcosa.
Fra gli arbusti c'era un vecchio teschio di cavallo. Si accovacciò, lo prese e lo rigirò fra le mani. Fragile, sottile. Sbiancato come carta. Rimase acquattato nella luce radente col teschio in mano, guardando i denti da fumetto che ballavano negli alveoli. Le suture del cranio che sembravano saldature sbavate di piastre ossee. Lo scorrere silenzioso della sabbia nella
scatola cranica ogni volta che lui la rivoltava.
Ciò che amava nei cavalli era la stessa cosa che amava negli uomini, il sangue e il calore del sangue che li animava. Tutta la sua stima, la sua simpatia, le sue propensioni andavano ai cuori ardenti. Così era e sempre 
sarebbe stato. Tornò che era buio. Il cavallo affrettò il passo. L'ultima luce del giorno inondò la pianura alle spalle del cavaliere e si ritirò nuovamente lungo i
confini del mondo nella fresca ombra azzurrina del crepuscolo sempre più freddo, fra gli ultimi cinguettii degli uccelli rintanati nell'oscuro groviglio dei rovi. Riattraversò l'antico sentiero e spinse il cavallo verso la pianura e la casa. I guerrieri, invece, fra rumori di asce e lance da età della pietra prive ormai d'ogni efficacia, avrebbero proseguito nell'oscurità destinata a inghiottirli, cantando sommessamente alla maniera degli avi e spingendosi 
speranzosi a sud nelle pianure che portavano al Messico.
In quella casa, costruita nel 1872, settantasette anni dopo suo nonno fu il primo a morire. Gli altri che erano stati esposti nella camera ardente
dell'ingresso ci erano arrivati in barella o avvolti nel telone di un carro o infilati in una rozza bara di pino, trasportati da un carrettiere che si fermava all'ingresso con un ordine di consegna. Quelli che c'erano
arrivati. Ma spesso era arrivata solo la notizia della loro morte. [...]