domenica 17 giugno 2018


L'APOSTOLO PAOLO
Varlam Šalamov
I racconti di Kolyma
Einaudi

Quando mi slogai il piede cadendo nello scavo dall’alto della scivolosa scaletta di pertiche, i capi si resero subito conto che avrei zoppicato per un bel po’ e, siccome non si poteva restare con le mani in mano, decisero che avrei aiutato il nostro falegname Adam Frisorger, cosa della quale fummo sia io che lui molto contenti.
Nella sua vita di prima, la sua «prima vita», Frisorger era stato pastore protestante in un certo villaggio tedesco1 vicino a Marxstadt sul Volga. Ci eravamo incontrati in uno dei grandi centri di transito durante la quarantena per il tifo e insieme eravamo arrivati qui, alla prospezione carbonifera. Come me, Frisorger era già stato nella tajga, era già finito tra i dochodjagi e, ormai in uno stato di semifollia, era arrivato dal suo giacimento nella foresta al lager di transito. Ci avevano destinati a una squadra di prospezione carbonifera come invalidi addetti ai «servizi», i lavori leggeri; i quadri veri e propri della squadra venivano integrati soltanto con salariati liberi. A dire il vero, in realtà si trattava di persone che fino al giorno prima erano dei detenuti come noi, le quali avevano appena finito di scontare il loro «termine», ovvero periodo di pena, e che in lager venivano chiamati con il termine quasi spregiativo di vol'njaški.
Durante il nostro trasferimento, quando si era trattato di comperare della machorka, una quarantina di questi «liberi» avevano fatto fatica a mettere insieme due rubli, comunque ormai non erano più dei nostri. Tutti si rendevano conto che di lì a due o tre mesi quelli si sarebbero vestiti come si deve, avrebbero potuto pagarsi da bere, ricevere un documento di identità e addirittura, nel giro di un anno, rientrare a casa. A rinfocolare le speranze c’erano anche i discorsi di Paramonov, il capo della prospezione, il quale prometteva loro grandi guadagni e razioni da spedizione artica. «Ve ne tornerete a casa con un bel cilindro in testa» ripeteva loro continuamente. Con noi detenuti ovviamente non faceva parola né di cilindri né di razioni artiche.
Comunque non ci trattava male. Di detenuti, per il lavoro di prospezione, non gliene avevano assegnati e i cinque addetti ai servizi erano tutto ciò che era riuscito ad ottenere dai suoi superiori.
Quando ci avevano chiamati fuori dalle baracche in base a un elenco (Frisorger e io ancora non ci conoscevamo) e ci avevano portati al cospetto di Paramonov, che ci scrutava con i suoi occhi chiari e penetranti, questi era rimasto molto contento del suo interrogatorio. Uno di noi era fumista, Izgibin, un buontempone con i baffi grigi, di Jaroslavl', il quale neppure nel lager aveva perduto la sua innata allegria. Il mestiere gli era in una certa misura di aiuto e non era così malridotto come gli altri. Il secondo era un gigante guercio di Kamenec-Podol'sk, un «fuochista di locomotiva», come si presentò a Paramonov.
-    Quindi con i lavoretti in ferro un po’ ti arrangi, - disse Paramonov.
-    Mi arrangio, sì, - aveva confermato di buon grado il fuochista. Aveva capito da tempo tutti i vantaggi che si potevano trarre da un lavoro in una prospezione di salariati liberi.
Il terzo era l’agronomo Rjazanov. La sua professione non mancò di entusiasmare Paramonov, il quale naturalmente non prestò la minima attenzione agli stracci che l’agronomo portava addosso. Nel lager non si giudicano le persone in base ai loro abiti e Paramonov i lager li conosceva abbastanza.
Il quarto ero io. Non ero né fumista, né fabbro, né agronomo. Ma la mia alta statura ebbe evidentemente il potere di rassicurare Paramonov, e poi non valeva la pena di andare a far correggere l’elenco per una sola persona. Aveva dunque annuito con il capo.
Il quinto di noi, tuttavia, si comportava in modo davvero strano. Mormorava le parole di una preghiera e si copriva il viso con le mani, senza stare a sentire ciò che diceva Paramonov. Ma neanche questa era una novità per il capo. Paramonov si era voltato verso il narjadcik, l’addetto alla ripartizione della manodopera, che gli stava accanto e teneva nelle mani una pila di cartellette gialle a fogli mobili, i cosiddetti «fascicoli personali».
-    E un falegname, - disse l’addetto, prevenendo la domanda di Paramonov. Il colloquio di assunzione era finito e ci portarono alla prospezione.
Più tardi Frisorger mi raccontò che quando l’avevano convocato aveva pensato che volessero fucilarlo, a tal punto l’aveva spaventato l’inquirente quand’era ancora alla miniera. Eravamo vissuti nella stessa baracca per un anno intero e tra noi non c’era mai stato un solo litigio. Tra i detenuti, sia in prigione che nel lager, è una cosa più unica che rara. I litigi sorgono per i più futili motivi, lo scambio di insulti raggiunge istantaneamente un tale livello da far sembrare che il gradino successivo possa essere solo il coltello o, nel caso migliore, un attizzatoio. Ma avevo presto imparato a non annettere grande importanza a quelle elaborate sfilze di insulti. L’impeto si raffreddava rapidamente e se i due litiganti continuavano fiaccamente a scambiarsi contumelie, lo facevano più che altro per la forma, per «salvare la faccia».
Ma con Frisorger non avevo mai litigato neanche una volta. Penso che il merito fosse di Frisorger, perché non esisteva una persona più mite di lui. Non offendeva mai nessuno, parlava poco. Aveva una voce da vecchio, tremante, ma era un tremolio che sembrava innaturale, studiato. È la voce con la quale a teatro parlano i giovani attori quando interpretano dei vecchi. Nel lager molti si sforzano (e non senza successo) di apparire più vecchi e meno forti di quanto non siano in realtà. Dietro a tutto questo non c’è sempre un calcolo cosciente, ma lo si fa in qualche modo obbedendo a un istinto. E l’ironia della vita consiste qui nel fatto che una buona metà di quelli che si aggiungono degli anni, o fanno credere di avere meno forze, si trovano già in uno stato ben peggiore di quello che cercano di simulare.
Ma nella voce di Frisorger non c’era nessuna simulazione.
Tutte le mattine e tutte le sere, Frisorger pregava in silenzio: si isolava da tutti in un angolo, voltando la schiena e guardando per terra; se pure partecipava alla conversazione comune, era unicamente quando si parlava di religione, vale a dire molto raramente, perché i detenuti non amano i temi religiosi. Quel vecchio buontempone di Izgibin aveva provato a prendersi gioco di Frisorger, ma questi aveva contraccambiato le sue sparate con un sorrisino così mite da neutralizzarle nel disinteresse generale. Tutta la squadra di prospezione voleva bene a Frisorger, perfino Paramonov, al quale il falegname aveva fabbricato una splendida scrivania, lavorandoci, se non sbaglio, per sei mesi buoni.
I nostri giacigli erano contigui, spesso scambiavamo quattro chiacchiere e Frisorger non finiva di stupirsi, agitando le piccole mani come un bambino quando gli capitava di constatare che conoscevo qualche popolare episodio dei Vangeli - materia che nel suo candore riteneva patrimonio esclusivo della ristretta cerchia dei credenti. Quando davo prova di tali conoscenze prorompeva in risatine e non nascondeva la sua contentezza. Tutto infervorato, cominciava a raccontarmi certi passaggi del Vangelo che io ricordavo male o non conoscevo affatto. Queste nostre conversazioni gli piacevano molto.
Ma una volta, elencando i nomi dei dodici apostoli, Frisorger incorse in un errore. Nominò l’apostolo Paolo. Io, con tutta la mia presunzione dovuta all’ignoranza, avevo sempre considerato l’apostolo Paolo come il vero fondatore della religione cristiana e il suo principale capo teorico, ne conoscevo un poco la biografia e dunque non tralasciai l’occasione di correggere Frisorger.
-    Ma no, ma no, - disse Frisorger ridendo, - non sa, ecco tutto -. E cominciò a enumerare, piegando le dita: - Pietro, Paolo, Marco...
Gli raccontai tutto quello che sapevo dell’apostolo Paolo. Egli mi ascoltò attentamente e in silenzio. Era già tardi, bisognava dormire. Di notte mi svegliai e alla luce vacillante e fumosa del piccolo lume vidi che Frisorger aveva gli occhi aperti e lo sentii sussurrare: - Signore, aiutami! Pietro, Paolo, Marco... - Non chiuse occhio fino al mattino. L’indomani andò al lavoro molto presto e la sera rientrò tardi, quando mi ero già addormentato. Fui risvegliato dal pianto soffocato del vecchio. Frisorger era inginocchiato e pregava.
-    Che cos’ha? - gli chiesi quando finì la preghiera.
Frisorger trovò la mia mano e la strinse.
-    Ha ragione lei, - disse. - Paolo non era uno dei dodici apostoli. Mi ero dimenticato di Bartolomeo.
Tacevo.
-    La meravigliano le mie lacrime ? - disse lui. - Sono lacrime di vergogna. Non potevo, non dovevo dimenticare cose del genere. È un peccato, un grande peccato. Io, Adam Frisorger, che mi faccio correggere da un altro un imperdonabile errore. No, no, lei non ne ha nessuna colpa, sono io, è mio il peccato. Ma è un bene che mi abbia corretto. Andrà tutto a posto.
Feci fatica a calmarlo, e da quella volta (non molto tempo prima che mi slogassi il piede) diventammo ancora più amici.
Un giorno che non c’era nessun altro nella falegnameria, Frisorger prese dalla tasca un sudicio portafogli di stoffa e mi fece cenno di avvicinarmi alla finestra.
-    Ecco, - disse, porgendomi una minuscola fotografia tutta spiegazzata, un’istantanea. Era la fotografia di una giovane donna, con un’espressione del viso un po’ casuale, tipica delle istantanee. La fotografia, ingiallita e screpolata, era stata accuratamente montata su un foglietto colorato.
-    È mia figlia, - disse solennemente Frisorger. - La mia unica figlia. Mia moglie è morta da molto tempo. Non mi scrive, ma è sicuramente perché non sa l’indirizzo, ne sono certo. Le scrivo spesso e sto scrivendole anche adesso. Solo a lei. Questa fotografia non l’ho mai fatta vedere a nessuno. L’ho presa con me da casa. Sei anni fa, era sul comò.
Paramonov entrò nel laboratorio senza far rumore.
-    Tua figlia? - disse, dopo aver dato una rapida occhiata alla fotografia.
-    Mia figlia, cittadino capo, - disse Frisorger sorridendo.
-    Ti scrive ?
-No.
-    Com’è che s’è dimenticata del suo vecchio ? Fammi avere una richiesta scritta, che la facciamo cercare, penserò io a inoltrarla. Come va la tua gamba?
-    Zoppico, compagno capo.
-    Beh, zoppica che ti fa bene -. Paramonov uscì.
Da quella volta, senza più nascondersi da me, Frisorger, conclusa la preghiera serale e coricatosi sul suo giaciglio, prendeva la fotografia della figlia e ne accarezzava il bordo colorato.
Vivemmo così, tranquilli, per quasi sei mesi, finché un giorno non portarono la posta. Paramonov era in trasferta e la posta veniva ritirata dal suo segretario, il detenuto Rjazanov, che in definitiva era risultato non essere affatto un agronomo come diceva, ma qualcosa come un esperantista, il che comunque non gli impediva di saper scorticare con perizia i cavalli morti, di piegare grossi tubi di ferro riempiendoli di sabbia e arroventandoli sul fuoco, nonché di gestire tutti gli impegni amministrativi del capo.
-    Guarda un po’, - mi disse, - che razza di dichiarazione hanno mandato riguardo a Frisorger.
Il plico conteneva una comunicazione formale con la richiesta di portare a conoscenza del detenuto Frisorger (articolo, durata della pena) la dichiarazione, allegata in copia, della figlia. Nella dichiarazione essa scriveva in modo chiaro e conciso che, essendosi convinta del fatto che il padre fosse un nemico del popolo, lo ripudiava e chiedeva che il loro vincolo di parentela fosse considerato inesistente.
Rjazanov si rigirò il foglietto tra le mani.
-    Che schifo, - disse. - A cosa le potrà servire una cosa del genere ? Che voglia entrare nel partito ?
Io pensavo a un’altra cosa: a quale scopo spedire a un padre detenuto una dichiarazione del genere? Era un’altra forma di quel particolare sadismo, normalmente praticato, per cui si annunciava ai parenti la falsa notizia del decesso di un detenuto, o era semplicemente il desiderio di conformarsi sempre e comunque alla legge ? O ancora qualcosa di diverso ?
-    Senti, Vanjuška, - dissi a Rjazanov. - L’hai registrata la posta?
-    E come facevo ? È appena arrivata.
-    Questo plico dallo a me E gli esposi la mia idea.
-    E se arriva una lettera? - fece lui indeciso. - Lo scriverà probabilmente anche a lui.
-    E tu tratterrai anche la lettera.
-    Vabbè, tieni.
Appallottolai il plico e lo gettai nello sportello aperto della stufa accesa.
Un mese dopo arrivò anche la lettera, altrettanto concisa che la dichiarazione, e finì a sua volta nella stufa.
Di lì a poco mi trasferirono in un altro posto, invece Frisorger restò, e come sia stata poi la sua vita, non saprei dire. Mi capitava spesso di ricordarlo, finché ebbi la forza di ricordare.
Sentivo il suo bisbiglio tremante, sconsolato: «Pietro, Paolo, Marco...»

[1954]. Apostol Pavel, in «Junost'», 1988, n. 10.


1 I primi insediamenti di coloni tedeschi in Russia risalgono al xviii secolo; nel 1918 i discendenti dei Tedeschi del Volga vennero riuniti in regione autonoma, e nel 1924 in Repubblica autonoma con capitale Engels; dopo l’attacco della Germania (agosto 1941) la Repubblica venne soppressa e gli abitanti deportati come filonazisti.