lunedì 11 giugno 2018




VERRANNO LE DOLCI PIOGGE

There will come soft rains
di Ray Bradbury
Collier's, maggio 1950


Il 1950 fu un anno davvero strepitoso per il trentenne Ray Bradbury. Vide la pubblicazione di The Martian Chronicles, per le quali Bradbury è ancora oggi famoso. Le diverse storie che vi sono comprese furono scritte in parte nella seconda metà degli anni Quaranta, mentre le altre comparvero in quel volume per la prima volta. Malgrado la sua impossibile astronomia, The Martian Chronicles rimane una pietra miliare nella storia della fantascienza moderna. Influenzato in modo ovvio dalla storia americana e dal continuo spostarsi della nuova frontiera verso ovest, oltre che dalla stessa infanzia di Bradbury, trascorsa nel Midwest, il libro stabilì la sua reputazione come una delle maggiori figure della letteratura americana.

«Verranno le dolci piogge» contiene una delle scene più ossessive dell'intera fantascienza, immagini che mi sono rimaste impresse per trent'anni e più. Questo lavoro fu pubblicato in Collier's, una rivista per famiglie sul tipo del Saturday Evening Post, di beneamata memoria. Ray Bradbury, insieme a Robert Heinlein, portò la fantascienza nelle sue pagine patinate. - M.H.G.


(Una delle chiavi di volta della moderna fantascienza prese forma verso la fine del 1949. La Doubleday and Co. la più grande casa editrice, decise di lanciare un'autentica collana di fantascienza in edi¬zione rilegata. Questa era una cosa che non si era mai sentita prima. Per ventitré anni la fantascienza americana era esistita quasi intera¬mente sulle riviste. C'erano stati libri rilegati pubblicati dai fan, ma si trattava più che altro di curiosità. Erano stati pubblicati anche un paio di paperback, e una o due antologie, ma queste erano state cose assolutamente eccezionali. La Doubleday progettava adesso di pubblicare libri di fantascienza con regolarità, e di usare tutta la propria competenza e le attrezzature per reclamizzarli e venderli.

Oh, perbacco!
Il primo libro che pubblicarono fu The Big Eye di Max Ehrlich (morto di recente). Il secondo (il primo d'uno scrittore di fantascienza ufficialmente riconosciuto come tale) fu "The Pebble in the Sky" di Isaac Asimov (il mio primo libro rilegato!). Ma ciò che veramente affermò la collana della Doubleday, facendone una istituzione permanente (esiste ancora oggi dopo un terzo di secolo) fu il terzo libro pubblicato, The Martian Chronicles di Ray Bradbury. Divenne subito un classico.
E io... fui geloso. Naturalmente. - I.A.)


Nel soggiorno la voce dell'orologio a muro cantava, Tictac, sono le sette, è ora di alzarsi, ora di alzarsi, sono le sette! Come se temesse che nessuno volesse alzarsi. Ma la casa, lì, di primo mattino, restava vuota. L'orologio continuò a ticchettare, ripetendo intermina-bilmente i suoi suoni, in quel vuoto: Le sette e nove, ora di colazione, le sette e nove!

In cucina, il forno della colazione cacciò un sibilo ed espulse dalle sue calde interiora otto fette di pane tostato alla perfezione, otto uova con il tuorlo all'insù, sedici fette di bacon, due caffè e due bicchieri di latte.
«Oggi è il 4 agosto 2026» intonò una seconda voce dal soffitto della cucina, «nella città di Allendale, California». Ripeté la data tre volte perché non venisse dimenticata. «Oggi è il compleanno del signor Featherstone. Oggi è l'anniversario delle nozze di Tilita. C'è da pagare l'assicurazione, oltre alla bolletta dell'acqua, del gas e della luce».
In qualche punto dentro i muri, altri interruttori scattarono, nuovi nastri memorizzati scivolarono via sotto occhi elettronici.
Le otto e un minuto, tic-tac, sono le otto e un minuto, presto, a scuola, al lavoro, presto, presto. Le otto e un minuto! Ma nessuna porta sbatté, nessun tappeto raccolse il passo leggero di tacchi di gomma. Fuori, pioveva. La scatoletta del clima in¬serita nella porta principale cantava sommessa: «Pioggia, pioggia, vàttene via, oggi soprascarpe di gomma, impermeabile...» E la pioggia batteva sulla casa vuota, ridestandone gli echi.
All'esterno, il garage produsse i suoi sonori rintocchi e sollevò la porta rivelando le macchine in attesa. Passarono parecchi minuti, poi la porta tornò ad abbassarsi.
Alle otto e trenta le uova erano vizze e fredde e i toast duri come pietre. Un raschietto di alluminio li grattò via facendoli cadere nel lavello, dove l'acqua bollente li afferrò in un mulinello trascinandoli giù in una gola metallica, risciacquandoli via fino al mare lontano. I piatti sporchi vennero fatti cadere in un lavastoviglie ben caldo da dove riemersero tintinnanti e asciutti.
Le nove e quindici cantò l'orologio. L'ora delle pulizie.
Fuori dalle loro tane nelle pareti, schizzarono minuscoli sorci robotizzati. I minuscoli animali pulitori, tutti gomma e metallo, sciamarono in ogni stanza. Sbattevano contro le sedie, ruotando i loro pattini muniti di vibrisse, impastando il pelo dei tappeti, risucchiando con delicatezza la polvere nascosta. Poi, come misteriosi invasori, tornarono a schizzare nei loro cunicoli. I loro occhi elettrici color rosa si spensero. La casa era pulita.
Sono le dieci! Il sole fece capolino da dietro la pioggia. La casa si ergeva, sola, in una città di macerie e di ceneri. Quella era l'unica casa ancora in piedi. Durante la notte la città irra¬diava un bagliore radioattivo che era visibile per molte miglia all'intorno.
Le dieci e quindici. Gli annaffiatoi automatici del giardino fecero schizzare in aria le loro fontane dorate e turbinanti, riempiendo la languida atmosfera del mattino di vividi spruzzi. L'acqua martellò i vetri delle finestre, scorrendo giù lungo il lato ovest, carbonizzato, là dove la casa era stata uni¬formemente bruciata, perdendo la sua pittura bianca. Tutta la facciata ovest della casa era nera, salvo in cinque punti. Là, dove si stagliava la sagoma d'un uomo che stava fal¬ciando il prato. Qui dove, come in una fotografia, una donna era china a raccoglier fiori. Ancora più in là - le immagini erano riarse nel legno in un solo titanico istante - un ragaz-zino, le braccia sollevate in aria; più sopra, l'immagine d'una palla appena scagliata, e sul lato opposto della palla, una ra¬gazza, anche lei con le braccia sollevate, pronta ad afferrare una palla che non era mai arrivata giù.
Restavano queste cinque chiazze di vernice: l'uomo, la donna, i bambini e la palla. Il resto era ridotto a uno strato sottile carbonizzato.
Gli spruzzi degli innaffiatoi riempivano il giardino d'una tiepida e luminosa cascata.
Come aveva mantenuto bene la sua pace, la casa, fino a quel giorno! Con quanta attenzione aveva chiesto: «Chi va là? Qual è la parola d'ordine?» E non ricevendo nessuna ri¬sposta dalle volpi solitarie e dai gatti miagolanti, aveva chiuso le finestre e abbassato le tapparelle, spinta da un'ansia da vecchia donna di casa, per autoproteggersi... qualcosa che sconfinava nella paranoia meccanica.
Fremeva a ogni più piccolo rumore, la casa. Se un passero sfiorava la finestra, la tapparella si chiudeva di scatto. L'uc¬cellino, spaventato, volava via. No, neppure un uccello po¬teva toccare la casa!
La casa era un altare con diecimila inservienti, grandi e piccoli, che facevano il loro servizio, davano la loro assi¬stenza, in coro. Ma gli dèi se n'erano andati, e quel religioso rituale continuava insensato, inutile.
Mezzogiorno.
Un cane se ne uscì in un tremulo guaito, sulla veranda an¬teriore.
La porta principale lo riconobbe, e si aprì. Il cane, un tempo enorme e in carne, ma adesso ridotto a pelle e ossa e coperto di piaghe, entrò e attraversò la casa, lasciando dietro di sé una scia di fango. Alle sue spalle, un ronzio rabbioso di sorcetti meccanici, infuriati perché dovevano raccogliere il fango, infuriati per quel fastidio.
Non un solo filo d'erba poteva venir soffiato dentro da sotto la fessura della porta d'ingresso, senza che i pannelli alle pareti si aprissero e i sorci di rame incaricati di racco¬gliere le briciole si precipitassero fuori. La polvere, i peli o la carta che recavano tanto oltraggio venivano afferrati da quelle piccole ma robuste mascelle d'acciaio e portati fulmi¬neamente nelle tane. Qui venivano infilati dentro tubi che scendevano fino in cantina e cadevano nell'orifizio sospi¬rante d'un inceneritore che sedeva come un malvagio Baal in un angolo oscuro.
Il cane corse di sopra, uggiolando isterico ad ogni porta, rendendosi alla fine conto, come se n'era resa conto la casa, che lì c'era soltanto il silenzio. Annusò l'aria e grattò alla porta della cucina. Dietro la porta, il forno stava cuocendo delle frittelle d'acero che riempivano la casa d'un ricco odore di buone cose frammisto al profumo dello sciroppo.
Il cane, con la bocca schiumante per la fame, si stese infine sul pavimento, annusando l'aria, gli occhi brucianti. Poi si rialzò e prese a correre in cerchio, impazzito, mordendosi la coda, girando su se stesso in preda al delirio, e morì.
Giacque per ore nel salotto.
Le due del pomeriggio cantò una voce.
I sorcetti, dai nasi sensibili al lieve sentore di corruzione che cominciava ad aleggiare nell'aria, uscirono a torme, con un lieve trepestio simile a quello di foglie secche, spinti da impulsi elettrici.
Le due e un quarto.
Il cane non c'era più.
In cantina l'inceneritore avvampò in una fiammata im¬provvisa e un turbinio di scintille schizzò su per il camino.


Le due e trentacinque.

Dei tavolini da bridge emersero dalle pareti del patio; le carte da gioco scesero svolazzando sui tappetini verdi in mezzo a una cascata di gettoni. Dei Martini si materializza¬rono su una panca di quercia insieme a tramezzini d'uova e insalata. L'aria fu avvolta da una musica deliziosa.
Ma i tavoli rimasero silenziosi e le carte intatte.
Alle quattro i tavolini si ripiegarono come grandi farfalle, scomparendo dentro i pannelli dei muri.


Le quattro e trenta.

Le pareti della camera dei bambini s'illuminarono.
Degli animali presero forma: giraffe gialle, leoni azzurri, an¬tilopi rosa, pantere color lilla, che correvano e saltavano qua e là, nel cuore del cristallo. Le pareti erano di vetro. Si affaccia¬vano su un mondo di colori e di fantasia. Dei film abilmente dissimulati scorrevano in perfetta sincronia su rocchetti bene oliati e le pareti si animavano. Il pavimento della camera dei bambini era intrecciato in modo da assomigliare a un campo di cereali. E sopra il pavimento correvano scarabei di alluminio e grilli di ferro e nell'aria calda e immobile farfalle dalla trama delicata svolazzavano nell'acuto aroma delle piste degli ani¬mali. Si udiva un intenso ronzio come quello d'una grande ar¬nia giallo-opaco brulicante di api all'interno d'un mantice scuro, il pigro ronfare d'un leone. E c'era lo scalpiccio delle zampe di un okapi, e il mormorio d'una fresca pioggia col tre¬pestio di altri zoccoli sulle distese d'erba inamidate dalla sta¬gione estiva. Adesso, le pareti si dissolsero diventando una re¬mota distesa di erbacce inaridite, per miglia e miglia, e uno sconfinato cielo afoso. Gli animali si ritrassero nelle macchie spinose e nelle pozze d'acqua.
Era l'ora dei bambini.


Le cinque. Il bagno si riempì d'acqua limpida, gorgo¬gliante.

Sei, sette, otto. I piatti della cena comparvero come per ma¬gia, nello studio si udì un clic. Dalla mensola davanti al cami¬netto, dove adesso ardeva caldo un allegro fuoco, balzò fuori un sigaro, con un centimetro di morbida cenere grigia a un'e¬stremità. Fumava e aspettava.
Le nove. I letti scaldarono i loro circuiti nascosti, poiché, lì, le notti erano fredde.
Le nove e cinque. Una voce parlò dal soffitto dello studio: «Signora McClellan, che poesia preferisce stasera?» La casa rimase silenziosa.
Alla fine la voce riprese: «Dal momento che non esprime nessuna preferenza, sceglierò una poesia a caso». Una musica tranquilla cominciò a irradiarsi per fare da sottofondo alla voce. «Sara Teasdale. A quanto ricordo, la sua favorita...»


«Verranno le dolci piogge e il profumo del suolo

e le rondini voleranno in cerchio con le loro strida argentine;


e le rane negli stagni canteranno nella notte,

e prugni selvatici biancheggeranno tremuli;


i pettirossi indosseranno le loro penne fiammeggianti,

fischiettando i loro capricci sul basso filo d'un recinto;


e nessuno saprà della guerra, nessuno

se ne curerà quando sarà finalmente finita.


A nessuno importerà, né agli uccellini sugli alberi,

se l'umanità sarà perita del tutto;


e la stessa Primavera, quando si sveglierà all'alba,

neppure si accorgerà che ce ne siamo andati».


Il fuoco ardeva nel caminetto di pietra e il sigaro si sbri¬ciolò tranquillamente in un mucchietto di cenere sul suo piattino. Le sedie si fronteggiavano vuote tra le pareti silen¬ziose, e la musica continuava a riempire l'aria.



Alle dieci la casa cominciò a morire.

Il vento soffiava. Il ramo di un albero si staccò abbatten¬dosi sulla finestra della cucina, fracassandola. Una bottiglia di solvente per le pulizie si ruppe spandendosi sopra il fondo. La stanza andò in fiamme in un istante.
«Fuoco!» urlò una voce. Le luci della casa si accesero, le pompe spararono getti d'acqua dal soffitto. Ma il solvente si sparse sul linoleum, dilagando, passando sotto la porta della cucina, spandendosi sempre più all'esterno, mentre le voci gridavano in coro: «Fuoco, fuoco, fuoco!»
La casa cercò di salvare se stessa. Le porte si chiusero er¬meticamente, ma le finestre scoppiarono per il calore, il vento vi s'ingolfò e alimentò il fuoco.
La casa perdette terreno quando il fuoco, con dieci mi¬liardi di faville rabbiose, balzò con fiammeggiante facilità da una stanza all'altra, per poi risalire le scale. Mentre torme di sorci meccanici carichi d'acqua correvano fuori dalle pareti, squittendo e sparando i loro getti, precipitandosi poi a pren¬dere altra acqua. E gli spruzzatori nelle pareti facevano pio¬vere meccanicamente altra acqua ancora.
Ma troppo tardi. Da qualche parte, una pompa ebbe un so¬spiro, un rumore raschiante, e si fermò. La pioggia dentro le stanze cessò. La riserva d'acqua che aveva riempito i bagni e pulito i piatti per molti silenziosi giorni, era finita.
Al piano di sopra il fuoco crepitò con rinnovato vigore. In¬goiava quadri di Picasso e di Matisse lassù, come ghiottone¬rie, arrostendo i colori ad olio, annerendo amorevolmente le tele, fino a ridurle a trucioli neri e croccanti.
Adesso il fuoco si distese sui letti, s'inerpicò sulle fine¬stre... stava cambiando il colore alle tende!
Poi giunsero i rinforzi.
Dalle botole del solaio, ciechi volti di robot sbirciarono giù e dalle loro bocche, come rubinetti, schizzarono verdi so¬stanze chimiche.
Il fuoco regredì, come perfino un elefante avrebbe fatto alla vista d'un serpente morto. Adesso c'erano venti serpenti che sferzavano il pavimento, uccidendo il fuoco con lo schiumeggiante veleno verde, limpido e freddo.
Ma il fuoco era astuto. Aveva mandato le fiamme fuori della casa, attraverso l'attico, fino alle pompe che si trova¬vano lassù. Un'esplosione, e il piccolo, efficiente cervello che dirigeva le pompe venne ridotto a schegge di bronzo che si conficcarono nelle travi.
Il fuoco si precipitò dentro ogni armadio e palpeggiò gli in¬dumenti che vi stavano appesi.
La casa rabbrividì tutta, nelle sue ossa di quercia, il suo scheletro nudo, terrorizzato davanti al calore, i suoi fili me¬tallici, i suoi nervi scoperti, come se un chirurgo le avesse strappato la pelle per lasciare che le rosse vene e i capillari fremessero al contatto con l'aria surriscaldata. Aiuto, aiuto! Fuoco! Correte. Correte! Il calore infrangeva gli specchi come il primo, friabile ghiaccio invernale. E le voci geme¬vano: Fuoco, fuoco, correte, correte, come una tragica fila¬strocca, una dozzina di voci, alte e basse, come bambini che morivano in una foresta, soli, soli. E le voci si spegnevano man mano, i fili metallici facevano crepitare i loro rivesti¬menti come castagne sul fuoco. Una, due, tre, quattro, cin¬que voci morirono.
Nella camera dei bambini la giungla bruciava. I leoni az¬zurri ruggivano, le giraffe purpuree saltavano via impazzite. Le pantere correvano in cerchio, cambiando colore, e dieci milioni di animali, fuggendo davanti al fuoco, scomparvero in lontananza verso un lontano fiume fumante...
Altre dieci voci morirono. Nell'ultimo istante, sotto la va¬langa di fuoco, si poterono udire altri cori, dimentichi, che annunciavano l'ora, suonavano la musica, tagliavano l'erba del prato con la falciatrice comandata a distanza, oppure aprivano freneticamente un ombrello, e nell'aprirsi e nel ri¬chiudersi sbattendo della porta d'ingresso mille cose accade¬vano, come in un negozio d'orologi, quando ogni singolo orologio scandisce l'ora insensatamente prima o dopo degli altri, una scena di pazzesca confusione, eppure unitaria: canti, urla, qualche sorcio pulitore che ancora si precipitava fuori, coraggiosamente, per portar via quelle orrende ceneri. E una singola voce, con sublime indifferenza per la situa¬zione, scandisce sonora una poesia nello studio in fiamme, fin quando tutte le bobine non sono arse, fino a quando tutti i cavi elettrici non si sono raggrinziti e tutti i circuiti esplosi.
Il fuoco fece esplodere la casa, la quale crollò su se stessa, sbuffando fuori torrenti di scintille e di fumo.
In cucina, un istante prima della pioggia di fuoco e di travi, si era intravisto il forno che eruttava la prima colazione al ritmo d'uno psicopatico, dieci dozzine di uova, fette su fette su fette di pane per i toast, venti dozzine di fette di ba¬con: il tutto, subito divorato dalle fiamme, aveva indotto il forno a mettersi di nuovo al lavoro, in preda a sibili isterici!
Lo schianto! Il solaio si abbatté sulla cucina e sul sog¬giorno, il soggiorno sulla cantina, la cantina sull'interrato. Congelatore, poltrone, pellicole, circuiti, letti, tutti come scheletri buttati in un mucchio confuso nel sottosuolo.
Fumo e silenzio. Una grande quantità di fumo.
L'alba spuntò pallida a oriente. Fra le rovine, una parete solitaria si ergeva ancora. Dentro alla parete, un'ultima voce diceva ininterrottamente, sempre scandendo le identiche sillabe, anche quando il sole si alzò dall'orizzonte e rifulse sul mucchio di macerie e di vapori:
«Oggi è il 5 agosto 2026, oggi è il 5 agosto 2026, oggi è...»