domenica 10 giugno 2018




DISADATTATO
Misfit
di Robert A. Heinlein
Astounding Science Fiction, novembre 1939


Il secondo racconto di Heinlein fin questo volume, ma anche il secondo dei suoi racconti in ordine di pubbli-cazione), Disadattato, contiene tutta una serie di elementi che ne determi-nano a prima vista l'importanza storica: cura dei dettagli, scorrevolezza narrativa, un protago-nista giovane, e un'inte-ressante estrapolazione sociale.



(Nessuno ha mai dominato il campo della fantascienza come lo fece Bob nei primi anni della sua carriera. 
Si trattò di un fenomeno assolutamente originale, che probabilmente non verrà mai ripetuto. Oggi, il settore ha assunto dimensioni troppo vaste, la sua natura si è troppo modificata, i suoi autori sono troppo numerosi perché una singola persona possa affermarsi a quei livelli. I.A.)




«...allo scopo di conservare e di accrescere le nostre risorse interplanetarie, e di fornire alla gioventù di questo pianeta occupazioni utili e salutari».

(Tratto dall'atto di costituzione, H.R. 7118, dei Corpi di Costruzione Cosmica)



«Attenzione! Adunata!». L'ordine di parata del Primo Sergente dei Marines dello Spazio fendette la nebbia e la pioggerellina di quel deprimente mattino del New Jersey. «Quando sentite chiamare i vostri nomi, rispondete "Presente", fate un passo avanti con i vostri bagagli, e imbarcatevi. Atkins!».

«Presente!».
«Austin!».
«Presente!».
«Ayres!».
«Presente!».
Uno alla volta, vennero fuori dalla fila, si caricarono in spalla le centotrenta libbre di effetti personali consentite a ognuno, e si avviarono verso la passerella. Erano tutti giovani — non più di ventidue anni — e in certi casi il carico superava il peso del proprietario.
«Kaplan!».
«Presente!».
«Keith!».
«Presente!».
«Libby!».
«Presente!». Un giovanotto biondo, esile e un po' impacciato si era staccato dal gruppo, si soffiò frettolosamente il naso, e impugnò i suoi bagagli. Si gettò sulle spalle uno zaino, lo assestò bene, e con la mano libera afferrò un'altra sacca, avanzando con i compagni ad un malfermo passo di trotto. Nell'attimo di salire sulla passerella la sacca a mano gli sbatté contro le ginocchia. Il ragazzo barcollò contro una sagoma tarchiatella e muscolosa abbigliata nella divisa blu della Marina Spaziale. Delle dita robuste gli afferrarono un braccio e gli impedirono così di cadere.
«Animo, ragazzo. Niente di male». Un'altra mano lo aiutò a sistemare meglio lo zaino sulle spalle.
«Oh, mi scusi, uh» — il ragazzotto imbarazzato contò automaticamente i quattro nastrini d'argento sotto la stella cadente — «Capitano. Non volevo...».
«Reggiti con una mano e sali a bordo, ragazzo».
«Sissignore».
Il passaggio nei budelli dell'astronave era piuttosto angusto. Quando gli occhi del giovane Libby riuscirono finalmente a mettere a fuoco, vide un commilitone che indossava sul braccio la fascia del Commissario di bordo e che gli faceva cenno con il pollice a uncino verso l'apertura di una porta a tenuta stagna.
«Da quella parte. Trova il tuo armadietto e aspetta lì». Libby si affrettò a obbedire. Dentro, trovò una confusione di bagagli e di gente affollata in un compartimento dai soffitti bassi. Una fila di luci al neon scorreva lungo le giunture tra il soffitto e le para¬
tie; il tenue ronzio delle prese d'aria creava un sottofondo alle vo¬ci composte dei militari. Libby si fece strada in mezzo a cumuli di zaini e oggetti vari, e individuò il suo armadietto, il numero sette-dieci, all'estremità di una parete esterna. Ruppe il sigillo della serratura a combinazione, diede un'occhiata alla combinazione stessa, e l'aprì. L'armadietto era davvero piccolo, quello centrale di una fila di tre. Considerò cosa avrebbe potuto infilarci dentro. Un altoparlante s'impose sulle voci circostanti e sollecitò la sua attenzione:
«Attenzione! Ordini per tutti gli uomini della missione; prima sezione. La nave decolla fra dodici minuti. Chiudere le porte a tenuta stagna. Spegnere i ventilatori quando mancano due minuti alla partenza. Ordini speciali per i passeggeri; collocare tutti gli equipaggiamenti sul ponte e sdraiarsi a terra al segnale rosso. Ri¬
manere a terra finché non verrà segnalato il riposo. I Commissari di bordo si occupino di controllare l'esecuzione degli ordini».
Il Commissario di bordo infilò dentro la testa, si diede un'oc¬chiata intorno e immediatamente cominciò a ispezionare la siste¬mazione dei bagagli. Gli oggetti pesanti vennero fissati al suolo. Gli sportelli degli armadietti vennero chiusi. Intanto, ognuno dei ragazzi aveva trovato posto sul ponte, il Commissario segnalò che tutto era in ordine nella squadra al suo comando, le luci al neon divennero rossastre e l'altoparlante prese a ululare.
«A tutti gli uomini... Partenza! Pronti per l'accelerazione». Il Commissario di bordo si accovacciò contro due sacche fissate al suolo, e ispezionò ulteriormente la stanza con una rapida occhia¬ta. I ventilatori singhiozzarono un po' fino a fermarsi del tutto. Poi seguirono due minuti di silenzio terrificante. Libby cominciò a sentire un certo peso al cuore. I due minuti si stiracchiarono interminabilmente. Poi il ponte cominciò a tremargli sotto e un boato, una corrente di vapore ad alta pressione, investì violente¬mente i suoi timpani. All'improvviso, si sentì pesantissimo e un senso di oppressione gli schiacciò il torace e il cuore. Trascorse così un tempo indefinito, dopodiché i neon tornarono a diffonde¬re la loro luce biancastra, e l'annunciatore ordinò:
«Controllo di esecuzione degli ordini; tutto regolare, prima se¬zione». Si accesero di nuovo i ventilatori. Il Commissario di bordo si tirò in piedi, si spazzolò le natiche con le mani e si sciolse le braccia, dicendo:
«Okay, ragazzi». Avanzò verso la porta a tenuta stagna e s'in¬filò per un corridoio. Libby si rimise in piedi e picchiò la testa contro una paratia, quasi cadendo. Braccia e gambe era come se gli si fossero addormentate, senza dire che si sentiva leggero in maniera preoccupante, come se avesse perduto almeno metà del suo già poco considerevole peso.
Per le due ore seguenti fu troppo occupato per avere di che pensare, o per provare qualche tipo di nostalgia. Casse, bagagli, zaini, tutto dovette essere trasferito giù nella stiva e agganciato bene per via della accelerazione angolare. Individuò ed apprese come usare un w.c. senz'acqua. Trovò la cuccetta assegnatagli e seppe che sarebbe stata sua soltanto otto ore su ventiquattro; due altri compagni la dividevano con lui a turno. Le tre squadre in cui era diviso l'equipaggio mangiavano in tre turni, nove turni in tutto... ventiquattro ragazzi e un Commissario di bordo ad una stessa tavola sistemata alla bene e meglio in un angusto compar¬timento adiacente alla cambusa.
Dopo colazione, Libby tornò a sistemare il suo armadietto. Era appunto all'opera, con in mano una fotografia che aveva in¬tenzione di incollare all'interno dello sportello, quando un comando richiamò l'attenzione del compartimento:
«Attenti!».
In piedi accanto alla porta c'era il Capitano, affiancato dal Commissario di bordo. Il Capitano prese la parola. «Riposo, ra¬gazzi. Seduti. McCoy, avvisa al controllo di inserire il filtro da fumo in questo compartimento». McCoy si precipitò al citofono e trasmise una comunicazione a bassa voce. Subito dopo, il sibilo dei ventilatori salì di una mezza-ottava di tono. «Adesso potete fumare, se vi fa piacere. Ho qualcosa da dirvi.
«Dunque, innanzitutto vorrei che vi ricordaste che state per compiere la più grande impresa della vostra vita. Da ora in avan¬ti siete degli uomini, e vi aspetta uno dei compiti più duri che l'uomo abbia mai affrontato. Ciò che dobbiamo fare fa parte di un progetto ben più vasto. Voi, e centinaia di migliaia di ragazzi come voi, vi state trasformando in pionieri al servizio di un'opera di organizzazione del sistema solare, affinché gli esseri umani possano farne il miglior uso possibile.
«Ma, cosa non meno importante, va anche detto che sta per esservi fornita la possibilità di fare di voi stessi dei cittadini utili e felici della Federazione. Per una ragione o per l'altra, voi non go¬devate di una condizione del tutto felice laggiù sulla Terra. Alcu¬ni di voi hanno visto i lavori per cui eravate stati addestrati sop¬piantati ora da nuove scoperte. Alcuni di voi hanno avuto proble¬mi a trovare un equilibrio esistenziale nel contesto moderno. In un modo o nell'altro siete tutti dei disadattati. Magari passavate per dei cattivi ragazzi, con pesanti note di demerito a vostro cari-co.
«Ma ognuno di voi, a partire da oggi, riparte come da zero. L'unica registrazione che esiste sul vostro conto in questa nave è il vostro nome in cima a schede assolutamente bianche. Sta a voi decidere cosa dovrà esserci scritto sopra.
«Ed ora veniamo al vostro lavoro... La nostra non è una di quelle facili missioni di ordinaria manutenzione sulla Luna, con i week-end a Luna City, e tutti i conforti domestici. Né si può dire che ci sia toccato uno di quei pianeti ad alta gravitazione dove l'uomo può mangiare un intero pasto con la speranza che gli si assesti bene. Al contrario, siamo stati incaricati di raggiungere l'Asteroide HS-5388 e di trasformarlo nella stazione spaziale E-M3. Lassù non esiste atmosfera di sorta, e la gravitazione è pari soltanto al due per cento di quella esistente sulla superficie della Terra. Avremo un bel divertirci con il volo umano per almeno sei mesi, senza ragazze da corteggiare, senza televisione, senza svaghi al di là di quelli che potrete inventarvi da voi stessi, e un du¬ro lavoro giorno dopo giorno. Vi verrà sicuramente il mal di spa¬zio, proverete nostaglie esasperanti, e patirete l'agorafobia. Se non farete attenzione, rischierete anche bruciature da raggi. Il vostro stomaco si ribellerà, e maledirete il giorno in cui vi siete arruolati.
«Ma se manterrete il controllo di voi stessi, e darete retta ai consigli dei vecchi uomini dello spazio, verrete fuori da quest'e¬sperienza forti e temprati, con una discreta sommetta in banca, e un bagaglio di nozioni e di professionalità per le quali non vi sa¬rebbero bastati quarant'anni sulla Terra. Sarete degli uomini ve¬ri, insomma... ve ne accorgerete.
«Un'ultima raccomandazione. Non sarà facile per coloro che non vi ci sono abituati. Cercate dunque di prestare una certa considerazione al vostro compagno bisognoso, e tutto andrà per il meglio. Se avete lamentele o non disponete di altri modi per otte¬nere soddisfazione, venite da me. Altrimenti, questo è quanto. Ci sono domande?».
Uno dei ragazzi si alzò in piedi dopo aver chiesto la parola. «Capitano?», domandò timidamente.
«Parla, ragazzo, e dicci il tuo nome».
«Rogers, signore. Pensa che potremo ricevere lettere da casa?».
«Sì, ma non con molta frequenza. Forse una volta al mese, o giù di lì. Il cappellano porterà la posta, e qualche nave di ispe¬zione o di rifornimento».
A quel punto, un richiamo dagli altoparlanti. «A tutti gli uo¬mini! Volo libero fra dieci minuti. Pronti a perdere peso». Il Commissario di bordo controllò le strutture dei passamano. Tutti gli equipaggiamenti sparsi vennero assicurati in qualche modo, e dei sacchetti di plastica vennero consegnati ad ogni membro dell'e¬quipaggio.
Giusto il tempo di perfezionare queste ultime operazioni, e Libby sentì improvvisamente sollevarsi di peso dai piedi... una sensazio¬ne non dissimile da quella provata quando un veloce ascensore si ferma di colpo durante la marcia in alto, tranne che in questo caso la sensazione continuò e divenne persino più intensa. Sulle prime, la novità non fu del tutto sgradevole, poi rapidamente di¬venne estenuante. Il sangue cominciò a pulsargli contro le orec¬chie, i piedi gli si rattrappirono, mezzi congelati. Prese a secerne¬re saliva a ritmi fuori del normale. Cercò di inghiottire, si ingoz¬zò, e tossì. Poi lo stomaco cominciò ad agitarsi e a contrarsi con spasmi violenti e convulsivi, finché un senso di nausea totale so¬praffece il povero ragazzo. Fu in quel momento che udì la voce urlante di McCoy.
«Ehi! Usate il sacchetto antivomito che vi ho dato. Non vorre¬te insudiciare mezzo mondo!». Confusamente Libby realizzò che l'ammonizione si riferiva anche a lui. Frugò alla ricerca del suo sacchetto di plastica proprio quando venne colpito da un secondo attacco di nausea, ma riuscì a infilare la bocca nel sacchetto pri¬ma che scoppiasse la seconda eruzione. Terminata la crisi, si rese conto che stava galleggiando per aria contro il soffitto e vicino al¬la porta. Il Commissario di bordo scivolò dentro dalla porta, aggrap¬pato come poteva ai passamano, e parlò a McCoy.
«Come sta andando?».
«Abbastanza bene. Qualcuno dei ragazzi non ha usato i sac¬chetti».
«Okay. Ripulite tutto. Potete usare il servizio di tribordo». E nuotò fuori.
McCoy prese Libby per un braccio. «Ehi, amico, finiscila di acchiappare farfalle». Gli porse una manciata di cotone, poi ne prese una manciata per sé e cominciò a spazzar via quella por¬cheria sfilacciata che galleggiava per tutto il compartimento. «As¬sicurati che il tuo sacchetto antivomito sia sempre a portata di mano. Se ti senti male, non hai che da fermarti e aspettare che passi». Libby lo imitò meglio che poté. In pochi minuti la stanza era ripulita del grosso delle tracce di vomito. McCoy si diede una guardata intorno, e disse:
«Adesso togliti di dosso quegli stracci sporchi, e trovati un nuovo sacchetto. Tre o quattro di voi si incarichino di portar via ogni cosa al servizio di tribordo».
Nel servizio di tribordo, vennero buttati via per primi i sac¬chetti, poi venne chiusa la porta interna e aperta quella esterna. Quando si aprì di nuovo la porta interna i sacchetti erano spari¬ti... risucchiati nello spazio. Libby si rivolse a McCoy.
«Dobbiamo gettar via anche gli indumenti sporchi?».
«Hmmm, no. Gli daremo soltanto una dose di vuoto. Portali nel servizio e agganciali bene alla paratia. Legali forte, mi racco¬mando».
Questa volta la porta del servizio venne lasciata chiusa per circa cinque minuti. Alla fine, gli indumenti risultarono comple¬tamente asciutti... tutta la sporcizia era stata aspirata dal vuoto dello spazio. Tutto ciò che rimase delle sgradevoli tracce di vomito fu qualche residuo polveroso e sterilizzato. McCoy ispezionò gli abiti con approvazione. «Va bene. Riportali pure in camerata. Poi spazzolali... forte... davanti ai ventilatori di scarico».
I giorni seguenti furono un'eternità di desolazione. La nostal¬gia di casa venne dimenticata a vantaggio di un mal di spazio che non dava tregua. Il Capitano garantì una quindicina di minuti di accelerazione moderata durante i nove intervalli per i pasti, ma la tregua non faceva che accentuare, dopo, l'agonia. Libby si recava a mangiare sempre più indebolito e selvaggiamente affamato. Il cibo stava giù finché non veniva ripreso il volo libero, poi la nau¬sea riprendeva il sopravvento.
Il quarto giorno, se ne stava tranquillamente seduto, goden¬dosi il lusso di pochi residui minuti di peso mentre stavano man¬giando quelli dell'ultimo turno, quando entrò dentro McCoy e gli si sedette accanto. Il graduato si bardò la faccia con uno speciale filtro da fumo e si accese una sigaretta. Inalò profondamente e iniziò a chiacchierare.
«Come te la passi, ragazzo?».
«Tutto bene, mi pare. Questa terribile nausea... Dimmi, McCoy, pensi che ci si possa fare l'abitudine?».
«A suo tempo, ti passerà. Il tuo corpo deve acquisire nuovi ri¬flessi, così mi hanno insegnato. Una volta che impari a inghiotti¬re senza ingozzarti, andrà meglio. Al punto che ne proverai addi¬rittura un certo piacere. Un senso di riposo e di rilassamento. Quattro ore di sonno ti varranno quanto dieci».
Libby scosse la testa sconsolatamente. «Non credo che riuscirò mai ad abituarmici».
«Certo che sì. Non hai altra scelta. Il nostro asteroide non avrà alcuna gravitazione alla superficie, neppure il due per cento rispetto alla Terra, come dice il Comandante. Capirai che non è abbastanza per curare il mal di spazio. Senza dire che, una volta lassù, non avremo neppure la consolazione delle pause di accele¬razione durante i pasti».
Libby ebbe un fremito lungo tutto il corpo e si prese la testa fra le mani.
Localizzare un asteroide in mezzo a un paio di migliaia non è facile come trovare Trafalgar Square in piena Londra... special¬mente in quella selva di stelle che è la galassia. Si parte dalla Terra con una velocità orbitale di circa diciannove miglia al se¬condo. Si cerca d'inserirsi in una curva conoide composta che non solo intersechi l'orbita del minuscolo e velocissimo corpo in questione, ma che riesca altresì a combinare un preciso rendez-vous. L'Asteroide HS-5388 si trova a circa due e due-decimi di unità astronomiche dal sole, qualcosa di più che duecento milioni di miglia; quando l'astronave decolla si trova al di là del sole di più di trecento milioni di miglia. Il Capitano Doyle istruì l'Uffi¬ciale di rotta a programmare l'ellissoide di base per entrare in vo¬lo libero attorno al sole una volta superata la distanza di trecento quaranta milioni di miglia. Il principio in questione è lo stesso usato dal cacciatore per atterrare un'anatra in volo. Ma supponia¬mo di trovarci direttamente con la faccia contro il sole nel mo¬mento di sparare; supponiamo che sia impossibile scorgere l'uc¬cello dal punto in cui ci si trova, e che non esista nulla a cui far riferimento all'infuori del ricordo di come volava l'ultima volta che si è avvistato un volatile del genere.
Il nono giorno di viaggio il Capitano Doyle si recò personal¬mente nella sala nautica e cominciò a manovrare dei tasti sull'im¬menso elaboratore integrale. Poi ordinò al suo attendente di por¬gere i propri complimenti all'Ufficiale di rotta e di chiedergli di presentarsi nella sala nautica. Pochi minuti dopo, un personaggio robusto e ben piazzato varcò la soglia galleggiando per aria, si aggrappò a un passamano, recuperò un certo equilibrio e porse i suoi omaggi al capitano.
«Buongiorno, Comandante».
«Salve, Blackie». Il vecchio ufficiale sollevò gli occhi, restando seduto e ben staffato sullo sgabello annesso all'elaboratore. «Mi sono permesso di controllare le sue correzioni per le accelerazioni durante le pause dei pasti».
«È una disgrazia quella di avere a bordo una masnada di lombrichi affamati, signore».
«Sì, capisco, ma dobbiamo pur dare a quei ragazzi la possibi¬lità di mangiare, altrimenti quando arriveremo lassù nessuno avrà più energie per lavorare. Adesso vorrei decelerare iniziando all'incirca alle dieci, ora di bordo. Quali sono le nostre coordinate e la velocità alle otto?».
L'ufficiale di rotta si sfilò di tasca un quaderno di appunti. «Trecentocinquantotto miglia al secondo; la rotta è in piena ascensione quindici ore, otto minuti, ventisette secondi, inclinazio¬ne meno sette gradi, tre minuti; distanza solare centonovantadue milioni quattrocentottantamila miglia. La nostra posizione radiale è di dodici gradi sopra la rotta, e quasi nulla per la rotta in R.A. Vuole anche le coordinate del Sole?».
«No, non ora». Il Capitano si piegò sul calcolatore, aggrottò le ciglia e si masticò la punta della lingua azionando i controlli. «Voglio che neutralizzi l'accelerazione a un milione di miglia all'incirca nell'orbita dell'Ottantotto. Detesto gli sprechi di carbu¬rante, ma la cintura tutt'intorno è piena di robaccia e questa dannata meteora è talmente piccola che probabilmente dovremo impiegare una curva d'avvicinamento. Usi venti ore di decelera-zione e cominci a cambiare la rotta per girare a babordo dopo otto ore. Usi il normale avvicinamento assintotico. Faccia in mo¬do che ci si trovi in una traiettoria circolare di fronte all'Asteroi¬de, e paralleli rispetto alla sua orbita, alle sei di domattina. Vo¬glio essere chiamato alle tre».
«D'accordo, signore».
«Mi faccia vedere i suoi rilevamenti quando li avrà pronti. Più tardi le farò avere ordini più precisi».
L'astronave accelerò secondo la tabella di marcia. Subito dopo le tre, il Capitano entrò nella sala di controllo e sbatté gli occhi per il gran buio. Il sole era ancora nascosto dalla chiglia dell'a¬stronave e l'oscurità di mezzanotte era spezzata soltanto dalla soffusa luce bluastra dei quadri di controllo, e da una fessura di luce da sotto la calotta che rischiarava le carte nautiche. L'Ufficiale di rotta si voltò udendo quel passo familiare.
«Buongiorno, Capitano».
«Buongiorno, Blackie. Siamo già in vista?».
«Non ancora. Abbiamo incrociato una mezza dozzina di pietre sparse, nient'altro».
«Molto vicine?».
«Non pericolosamente. Di tanto in tanto ci siamo anche im¬battuti in nuvole di sabbietta».
«Ma questo non ci spaventa. Non può recarci alcun danno... non con una corazza come la nostra. Se soltanto i piloti realizzas¬sero che gli asteroidi si muovono in direzioni fisse e a velocità re¬gistrabili nessuno se ne accorgerebbe». S'interruppe per accender¬si una sigaretta. «La gente dice che lo spazio è pericoloso. Certo, lo era; ma negli ultimi vent'anni gli unici casi di pericolo di cui sono venuto a conoscenza sono da imputarsi unicamente all'av¬ventatezza di qualche sconsiderato».
«Credo che abbia ragione, signore. Ad ogni modo, c'è del caf¬fè sotto la calotta, vicino alle carte».
«Grazie, l'ho già bevuto da basso». Si avvicinò alle spie degli stereoscopi e ai radar e diede un'occhiata fuori verso quell'oscurità punteggiata di stelle. Tre sigarette dopo, una delle spie che aveva vicino richiamò la sua attenzione.
«Segnale!».
«Quanto distante?».
L'addetto lesse il diagramma esterno dello stereoscopio. «Più punto due, a poppavia uno virgola tre, leggera deriva all'indietro». Si spostò al radar e aggiunse. «Distanza sette nove zero quattro tre».
«Corrisponde?».
«Potrebbe essere, Capitano. Qual è il disco dell'Ottantotto?», giunse la voce soffocata dell'Ufficiale di rotta da sotto la calotta. La prima spia indicò l'inserimento automatico di alcune manopo¬le sullo strumento dell'ufficiale, ma il Capitano pregò l'addetto di scostarsi.
«Lascia fare a me, ragazzo». Appoggiò la faccia ai doppi visori e intravvide una piccola sfera d'argento, una luna in miniatura. Accortamente, spostò in alto le due coordinate luminose finché non combaciarono esattamente con i lembi superiore e inferiore dell'oggetto avvistato. «Segni!».
Il rilevamento venne annotato e trasmesso all'Ufficiale di rot¬ta, che intanto era sgusciato fuori dalla calotta.
«Ecco la nostra creaturina, Comandante».
«Bene».
«Posso fare una triangolazione visuale?».
«L'affidi all'ufficiale competente. E lei vada giù a riposarsi. Provvedere io al rallentamento finché l'avremo abbastanza vicino da usare i rilevatori ottici di distanza».
«Grazie, ai suoi ordini».



Di lì a pochi minuti, per tutta l'astronave si era sparsa la voce che l'Ottantotto era stato avvistato. Libby si precipitò sul ponte di tribordo con il resto della ciurma eccitata, nel tentativo di scorgere da un oblò quella che avrebbe dovuto essere la loro futu¬ra residenza. Ma McCoy venne a gettar acqua fredda sul loro en¬tusiasmo.

«Prima che quella pietra si mostri abbastanza grande perché la si possa scorgere a occhio nudo saremo già in prossimità della nostra postazione d'atterraggio. Come sapete, le sue dimensioni non superano le cento miglia di spessore».
E così fu. Diverse ore più tardi, l'altoparlante annunciò:
«A tutti gli uomini! Pronti per l'atterraggio. Chiudere tutte le porte a tenuta stagna. Pronti al segnale di spegnere i ventilatori».
McCoy ordinò agli uomini di sdraiarsi a terra per tutte le due ore seguenti. Brevi sobbalzi causati dall'esplosione dei razzi si al¬ternarono a nauseanti momenti di perdita di peso. Poi i ventilato¬ri vennero fermati e le valvole di controllo scattarono al loro po¬sto. L'astronave cadde in volo libero per qualche momento — un rapido sobbalzo finale — cinque secondi di caduta e un breve, leggero e stridente tonfo. Una nota di tromba provenne dall'alto¬parlante, e le prese d'aria ripresero a funzionare con il loro sìbilo.
McCoy, svolazzando, si riportò in equilibrio e, barcollante, puntò bene i piedi. «Tutti fuori, ragazzi... eccoci al capolinea».
Il primo a imitarlo fu un ragazzotto tarchiatello, decisamente tra i più giovani del gruppo, che raggiunse vagolando la porta al grido di «Forza, amici! Andiamo fuori a esplorare!».
Ma venne zittito dal Commissario di bordo. «Non così in fret¬ta, fanciullo. A parte il fatto che là fuori non c'è aria, prova ad andare avanti... Ti congeleresti fino a morire, o ti bruceresti fino a morire, ed esploderesti come un pomodoro maturo. Caposqua¬dra, ordina a sei uomini di tirar fuori le tute spaziali. Gli altri ri¬mangano qui, pronti».
Il gruppetto dei sei tornò di lì a poco; i ragazzi strisciavano quasi a terra sotto il peso di una dozzina di voluminosi involucri. Libby lasciò cadere i quattro che aveva in spalla lui e li osservò galleggiare gentilmente sul ponte. McCoy estrasse una tuta da uno dei pacchi, ne aprì la cerniera-lampo e iniziò a dare istruzioni in merito, leggendo un apposito foglietto.
«Si tratta di un modello standard, per usi generali, Mark IV, Versione 2». Afferrò la tuta per le spalle in modo da farla penzo¬lare dall'alto, avendo cura che il casco incorporato ricadesse all'indietro. «È autosufficiente per otto ore, il periodo di durata della sua riserva d'ossigeno. Ha anche un deposito di nitrogeno e una cartuccia-filtro a vapore di biossido di carbonio».
Continuò a leggere, ripetendo praticamente parola per parola la descrizione e le istruzioni fornite sul foglietto esplicativo. McCoy conosceva quelle tute come la sua lingua poteva conoscere il suo palato; in più di un'occasione quella conoscenza gli aveva salvato la vita.
«La tuta è tessuta di fibra di vetro laminata con "asbestocellutite non volatile". Si tratta di un materiale flessibile, di lunga durata, capace di respingere tutti i raggi comuni nello spazio so¬lare al di fuori dell'orbita di Mercurio. Va indossata sulla divisa d'ordinanza, ma fate attenzione agli speciali manicotti rinforzati a fisarmonica in corrispondenza delle principali giunture. Il loro scopo è quello di mantenere costante il volume interno della tuta quando le braccia o le gambe si piegano. Altrimenti la pressione dei gas all'interno tenderebbe a gonfiare la tuta in una posizione eretta, rendendo molto difficili e faticosi i movimenti.
«Il casco speciale è fatto di un silicone trasparente, piombato e polarizzato contro le eccessive penetrazioni di raggi. Può essere equipaggiato con dei visori esterni, del tipo richiesto dall'uso. Gli ordini, nel nostro caso, dicono di non indossare meno di un'am¬bra numero-due. Inoltre, una piastra di piombo ricopre il cranio e si estende giù lungo il dorso della tuta, coprendo completamen¬te la colonna vertebrale.
«La tuta è dotata di rice-trasmittente telefonico. Se la radio vi pianta in asso, come peraltro capita spesso, potete parlare met¬tendo in contatto i vostri caschi. Ci sono domande?».
«Come si fa a mangiare e a bere durante le otto ore?».
«Non vi capiterà mai di stare otto ore dentro a questi arnesi. Comunque, vi porterete appresso zollette di zucchero in un appo¬sito contenitore dentro al casco, ma sarà meglio che mangiate sempre alla base. Quanto all'acqua, c'è un recipiente nel casco all'altezza della bocca: lo potete raggiungere con il semplice mo¬vimento del capo verso sinistra. È come avere una borraccia fissa ricavata nell'interno del casco. Ma fate attenzione a non bere più del necessario quando indossate la tuta, visto che non è dotata di alcun sistema di scarico...».
Ad ognuno dei ragazzi venne consegnata una tuta, e McCoy passò a illustrare come indossarla. Un campione venne steso al suolo, con la cerniera-lampo frontale che scorreva dal collo all'in¬guine abbassata e aperta, in maniera che uno ci si potesse se¬dere dentro e infilarci le gambe con un movimento simile a quello delle donne quando indossano le calze di seta. Poi, una torsione per ogni braccio per sistemare bene la parte superiore del corpo e i guantoni sulle mani, avendo cura di adattare le dita al loro po¬sto facendo pressione su quel materiale flessibile. Alla fine, biso-gnava stirare all'indietro il collo con le spalle leggermente ricurve in modo tale da consentire al casco di avvolgere bene la testa.
Libby seguì i movimenti di MacCoy e si tirò in piedi una volta infilata la tuta. Esaminò la cerniera-lampo che regolava l'unica apertura della tuta. All'interno, era foderata con due guarnizioni morbide che andavano pressate insieme e sigillate rispetto alla pressione interna. All'interno del casco, invece, uno speciale boccaglio era collegato al filtro per permettere l'esalazione.
McCoy si aggirò fra i ragazzi, ispezionando che tutto fosse in ordine, stringendo una cintura qua e là, impartendo le ultime istruzioni. Soddisfatto, riferì alla sala di comando che la sua se¬zione aveva ricevuto le istruzioni di base ed era pronta a sbarca¬re. Quindi venne il permesso di condurre i ragazzi fuori per tren¬ta minuti di acclimatazione.
Sei alla volta, McCoy li scortò attraverso la camera di decom¬pressione, e successivamente fuori, sulla superficie dell'asteroide. Libby non poté trattenersi dallo sbattere gli occhi al contatto con la luce abbagliante del sole sulle rocce. Per quanto il sole si tro¬vasse a più di duecento miliardi di miglia lontano e immergesse il piccolo pianeta dentro una radiazione pari a un quinto di quella che dissipava sulla Madre Terra, cionondimeno la mancanza di atmosfera provocava una rifrazione davvero accecante. Libby fu contento di avere la protezione dei suoi visori d'ambra. In alto, il sole, ridotto alle dimensioni di una monetina, brillava giù da un cielo nero e spettrale, in mezzo a una selva di stelle impassibili che si affollavano l'una sull'altra e a ridosso dello stesso sole.
La voce di un compagno risuonò nella cuffia di Libby. «Caspi¬ta! Quell'orizzonte sembra davvero vicino. Scommetto che non dista più di un miglio». Libby scrutò la nuda pianura davanti a lui e inconsciamente considerò la questione. «È sicuramente me¬no», commentò poi, «non più di un terzo di miglio».
«Cosa diavolo ne sai tu, marmocchio? E poi... chi te l'ha chiesto?».
Libby replicò sulle difensive. «Come credi, comunque per me sono milleseicentosettanta piedi, tenendo conto che i miei occhi sono a cinque piedi e tre pollici dal livello del terreno».
«Tutte storie, marmocchio. Vedo che ti piace molto far mostra di ciò che credi di sapere».
«Perché mai dovrei», protestò Libby. «Se questo asteroide ha uno spessore di un centinaio di miglia e se, come sembra, è ro¬tondo, non c'è dubbio: l'orizzonte deve essere alla distanza che t'ho detto, naturalmente».
«Ma chi lo dice?».
Intervenne McCoy.
«Fai silenzio tu! Libby è molto più vicino di te alla verità».
«Anzi», sopraggiunse un'altra strana voce, «ha perfettamente ragione. Ho dovuto fare io i rilevamenti per l'Ufficiale di rotta prima di lasciare l'astronave».
«É così allora?» — di nuovo la voce di McCoy — «Se il Com¬missario di bordo in capo dice che hai ragione, Libby, vuol dire che hai ragione. Come fai a saperlo?».
Libby arrossì penosamente. «Io... ma, veramente... Non vedo come potrebbe essere diversamente».
I due ufficiali gli gettarono una strana occhiata ma lasciarono cadere il discorso.
Prima della fine della «giornata» (orario di bordo, visto che la giornata sull'Ottantotto aveva una durata di otto ore e tredici minuti), il lavoro era soddisfacentemente avviato. L'astronave si era adagiata al suolo in prossimità di una fila di colline basse. Il Capitano aveva scelto una depressione a forma di conca fra due colline, lunga un migliaio di piedi e larga cinquecento, all'interno della quale stabilire un accampamento permanente, che andava soffittato, sigillato e provvisto di atmosfera.
Nella collina tra l'astronave e la vallata dovevano essere scava¬ti i vari settori: dormitori, mensa, quartieri degli ufficiali, infer¬meria, sala di ricreazione, magazzini, uffici, e così via. Un tunnel doveva passare attraverso la collina, congiungendo tutti i singoli compartimenti, e andava collegato con un tubo di metallo a tenu¬ta stagna di dieci piedi alla camera di decompressione di babordo dell'astronave. Sia il tubo che il tunnel dovevano essere attrezzati con un nastro trasportatore a ruota continua sia per i passeggeri che per le merci.
Libby risultò assegnato al lavoro di intelaiatura del soffitto. Doveva aiutare un fabbroferraio su per la collina con un saldato¬re atomico portatile, difficile da maneggiare per via della sua massa di ottocento libbre, anche se lì ne pesava soltanto sedici. Tutte le strutture metalliche erano prefabbricate e andavano tra¬sportate a mano; su di esse doveva essere montata l'enorme tenda trasparente che sarebbe stata il «cielo» di quella valletta.
Il fabbro individuò un punto di riferimento sul pendìo interno della valle, piazzò il suo saldatore, e cominciò a scavare nella roccia un profondo scalino orizzontale, sempre sullo stesso livello, seguendo una traccia a gesso marcata precedentemente lungo la parete rocciosa. Libby chiese come avesse fatto a istruire il lavoro tanto in fretta.
«Facile», rispose l'altro. «Due dei commissari di bordo sono anda¬ti avanti con un telescopio, lo hanno livellato a una cinquantina di piedi rispetto al livello più basso della valle e vi hanno collegato un ri¬flettore. Poi uno dei due si è messo a correre come un pazzo lungo il raggio di luce del riflettore, tracciando dei segnali a gesso all'altezza ricavata».
«Vuol dire che il tetto dovrà essere collocato a cinquanta piedi d'altezza?».
«No, di fatto risulterà a un'altezza media di cento piedi, con¬siderando che gonfierà al centro per la pressione dell'aria».
«Una pressione normale, come sulla Terra?».
«Metà di quella normale».
Libby si concentrò per un istante, poi guardò con aria enigmatica. «Ma senti... Questa valle è lunga mille piedi e larga più di cinquecento. A metà di quindici libbre per pollice quadra¬to, e tenuto conto dell'arco del tetto, risulta un carico di uno e un'ottavo di miliardi di libbre. Qual'è la struttura che può regge¬re un carico simile?».
«Una struttura a ragnatela».
«A ragnatela?».
«Sì, a ragnatela. La più resistente del mondo, più forte del mi¬gliore degli acciai. Un ragno di seta sintetica. La stanza che stiamo usando per il tetto possiede una forza di tensione di quat¬tromila libbre al pollice».
Libby esitò un secondo, poi replicò. «Capisco. Con un bordo di centottantamila pollici attorno, la spinta massima nel punto di convergenza sarà di circa seicentoventicinque libbre al pollice. Un margine di sicurezza decisamente ampio».
Il fabbroferraio si appoggiò al suo strumento e annuì. «Qual¬cosa del genere. Sei piuttosto svelto in aritmetica, ragazzo, non è vero?».
Libby lo guardò alquanto sorpreso. «Diciamo che mi piacciono le cose con una certa precisione».
Lavorarono velocemente attorno al pendio, tagliando un netto e liscio scalino al quale andava ancorata e sigillata la «ragnatela».
I detriti di lava color cenere schizzavano fuori dallo scappamento della macchina e si ammassavano lentamente giù per la collina. Un vapore scuro bolliva fuori dalla superficie della pietra fusa, si sollevava di qualche piede e si sublimava nel vuoto contempora¬neamente alla polvere di lava prima che questa ricadesse al suolo.
Il tecnico richiamò l'attenzione di Libby su quel particolare.
«Quella robaccia ci farà venire la silicosi se la lasciamo lì... e poi la respiriamo».
«Che possiamo fare?».
«Soffiarla via con i bocchettoni dell'impianto di aria condizio¬nata».
Libby approfittò dell'occasione per rivolgere un'altra doman¬da. «Signor...?».
«Johnson è il mio nome. Ma lascia perdere il signore».
«Bene, Johnson, dove prenderemo l'aria per tutta questa valle, senza parlare dei tunnel? M'immagino che avremo bisogno di venti¬cinque milioni di piedi cubici, se non di più. Dobbiamo crearla da noi?».
«No, sarebbe un'impresa pazzesca. Ce la siamo portata ap¬presso».
«Sull'astronave?».
«Esatto, a cinquanta atmosfere».
Libby ci pensò sopra. «Capisco... in questo modo ci starebbe in uno spazio di diciotto piedi di lato».
«A dire il vero, è contenuta in tre speciali recipienti... delle gigantesche bottiglie d'aria. Quest'astronave ha già trasportato aria a Ganimede. C'ero anch'io allora... come recluta, ma sempre co¬me membro della squadra d'aria».
In tre settimane il campo permanente fu pronto per essere oc¬cupato e l'astronave venne liberata dal suo carico. I magazzini si riempirono di attrezzature varie e suppellettili. Il Capitano Doyle trasferì i suoi uffici amministrativi sotto terra, passò il comando dell'astronave al suo primo ufficiale, il quale ebbe l'ordine di pre¬pararsi a rientrare sulla Terra con un equipaggio ridotto.
Libby assistette al decollo da un vantaggioso punto di osserva¬zione sul pendio della collina. Un opprimente sentimento di no¬stalgia s'impossessò di lui in quel momento. Sarebbe mai tornato a casa? Onestamente, allora credeva che avrebbe volentieri rinun¬ciato a tutto il resto della propria vita in cambio di una mezzo¬retta con sua madre, e di un'altra con Betty.
S'incamminò giù per la collina verso l'imboccatura del tunnel. Per lo meno, l'astronave avrebbe portato ai suoi cari delle lettere, e con un po' di fortuna presto il cappellano sarebbe rientrato con delle lettere dalla Terra. Ma l'indomani e i giorni immediatamen¬te seguenti non si preannunciavano molto divertenti. Non gli era dispiaciuto far parte della squadra d'aria, ma il giorno dopo si sarebbe reintegrato al suo gruppo originario. L'idea non gli anda¬va del tutto a genio... i ragazzi del suo gruppo erano tutti brava gente, pensò, ma lui non ci si trovava perfettamente a suo agio.
In quegli stessi giorni, la compagnia dei C.C.C. doveva af¬frontare l'impresa più ardua di tutta la missione; si trattava di butterare, letteralmente, l'Asteroide 88 di razzi in maniera che il Capitano Doyle potesse spingere la sua massa pietrosa fuori dalla sua orbita e agganciarla a una nuova orbita tra Terra e Marte, e ricavarne una stazione spaziale... un rifugio per veicoli in diffi¬coltà, un porto per navi di salvataggio, un deposito di carburanti, un avamposto astronavale.
Libby venne assegnato a un saldatore nel pozzo H-16. Il suo compito era quello di scavare scrupolosamente delle nicchie cal¬colate nelle quali, poi, la squadra dei guastatori avrebbe collocato delle minuscole cariche di esplosivi che dovevano ultimare il gros¬so del lavoro di scavamento. Due erano le squadre assegnate all'H-16, sotto la supervisione generale di un anziano sottufficiale dei marines. Il sergente sedeva sul bordo del pozzo, maneggiando carte su carte, e occasionalmente impostando complicate opera¬zioni su di un regolo calcolatore circolare, che gli pendeva da un cordone agganciato al collo.
Libby aveva appena terminato di scavare una di quelle male¬dette nicchie, e stava aspettando i guastatori, quando la sua cuf¬fia captò le istruzioni del sergente relative all'entità della carica di esplosivo. Il ragazzo premette immediatamente sul bottone della sua trasmittente.
«Signor Larsen! Temo che abbia fatto un errore!».
«Chi è che sta parlando?».
«Sono Libby. Ha commesso un errore a proposito della carica. Se fosse come lei dice salterebbe per aria il pozzo e noi con il pozzo».
Larsen si concentrò su talune operazioni con il suo strumento prima di rispondere. «Mi sembra che ti allarmi per niente, ragaz¬zo. La carica è esatta».
«Mi permetto d'insistere, signore. È sbagliata», disse Libby. «Lei deve aver moltiplicato invece di dividere».
«Hai dell'esperienza in questo tipo di lavoro?».
«No, signore».
Larsen rivolse l'osservazione successiva ai guastatori. «Piazzate la carica».
Gli uomini si misero all'opera. Libby mandò giù della saliva, e si bagnò le labbra con la punta della lingua. Sapeva cosa dove¬va fare, ma aveva paura. Con un paio di salti rigidi e goffi si por¬tò accanto ai guastatori, s'infilò fra di loro e strappò gli elettrodi dal detonatore. Un'ombra gli passò di sopra in quel momento: era Larsen, che nuotò giù verso di lui e l'afferrò per un braccio.
«Non avresti dovuto farlo. È una grave disobbedienza ai miei ordini. Devo metterti a rapporto». E si diede da fare per ricolle¬gare il detonatore».
Le orecchie di Libby bruciarono per l'imbarazzo, il che però non gl'impedì di rispondere con il coraggio della timidezza. «Non avevo altra scelta, signore. Continuo a credere che lei sia in erro¬re».
Larsen si fermò e fece correre gli occhi su quella faccia osti¬nata. «D'accordo... sarà una perdita di tempo, ma non mi piace che tu debba assistere a un'esplosione di cui hai paura. Ripetia¬mo i calcoli insieme».
Il Capitano Doyle sedeva tranquillamente nel suo ufficio, con le gambe sulla scrivania, e lo sguardo immobile su un bicchiere semivuoto.
«Buona questa birra, Blackie. Pensa che potremo farne anco¬ra quando sarà finita?».
«Non so, Capitano. Ci siamo portati appresso del lievito?».
«Veda di provvedere, le spiace?». Poi si rivolse al terzo uomo, un tipo robusto che occupava l'altra sedia. «Allora, Larsen, meno male che non è successo il peggio».
«Quello che mi colpisce, Capitano, è come abbia potuto fare un errore del genere. Ho ripetuto quei calcoli due volte. Se si fos¬se trattato di nitro-esplosivo mi sarei accorto subito che c'era qualcosa che non andava. E se quel ragazzo non avesse avuto l'i¬spirazione, avrei piazzato la carica senza alcun dubbio».
Il Capitano Doyle batté bonariamente sulla spalla dell'anziano sottufficiale. «Non ci pensi più, Larsen. Non avrebbe fatto del male a nessuno. Ecco perché ordino sempre l'evacuazione totale dei pozzi, anche in caso di cariche molto modeste. Questi esplosi¬vi isotopi sono piuttosto bizzarri. Pensi a cosa è successo nel poz¬zo A-9. Dieci giorni di lavoro mandati in fumo con una carica... una carica approvata dall'ufficiale responsabile in persona. Ma voglio vedere quel ragazzo. Quale ha detto che è il suo nome?».
«Libby, A.J.».
Doyle premette un bottone sulla scrivania. Subito dopo bussa¬rono alla porta. All'invito di «Avanti!» entrò un giovanotto con un bracciale che ne indicava l'appartenenza al corpo di guardia del quartier generale.
«Vorrei la recluta Libby a rapporto».
«Sissignore».
Pochi minuti dopo, Libby venne introdotto nella cabina del Capitano. Il ragazzo si guardò nervosamente attorno, e notò la presenza di Larsen, cosa che di certo non contribuì a tranquilliz¬zarlo. Si qualificò con un filo di voce appena percettibile. «Sono la recluta Libby, signore».
Il Capitano lo squadrò per bene. «Dunque, Libby, ho sentito che tu e il signor Larsen avete avuto una certa diversità di opinio¬ni questa mattina. Me ne vuoi parlare?».
«Io... io non volevo far nulla di male, signore».
«Certo che no. Anzi, ci hai reso un bel servizio stamattina. Dimmi, come hai fatto a sapere che il calcolo era errato? Hai speciali esperienze in fatto di esplosioni?».
«No, signore. Solo che mi sono accorto che c'era qualcosa che non funzionava».
«Sì, ma come?».
Libby cercò goffamente l'equilibrio spostando il peso da un piede all'altro. «Beh, signore, mi è sembrato sbagliato... non mi quadrava».
«Aspetti un attimo, Capitano. Posso fare io un paio di do¬mande a questo giovanotto?». Era l'ufficiale «Blackie» Rhodes che parlava.
«Certamente. Faccia pure».
«Tu sei la recluta che chiamano "marmocchio"?».
Libby arrossì. «Sì, signore».
«Ho già sentito delle strane voci sul conto di questo ragazzo». Rhodes estrasse la sua pesante struttura fuori dalla sedia, si avvi¬cinò a uno scaffale, e scelse un volume. Lo sfogliò per un attimo, poi con il libro aperto sotto gli occhi, iniziò a interrogare Libby.
«Qual'è la radice quadrata di novantacinque?».
«Nove e settecento quarantasette millesimi».
«E la radice cubica?».
«Quattro e cinquecento sessantatré millesimi».
«E il logaritmo?».
«Prego, signore?».
«Santo cielo, come fa un ragazzo a venire fuori dalla scuola oggi senza sapere di queste cose?».
Lo sconforto del ragazzo si fece ancora più intenso. «Non sono stato molto a scuola, signore. La mia gente non aveva accettato la Convenzione tra presbiteriani e governo in materia d'istruzione finché fu in vita papà, ma poi fummo costretti».
«Capisco. Comunque, il logaritmo è la potenza alla quale si deve alzare un dato numero, chiamato base, per ottenere il numero di cui quella è il logaritmo. È chiaro?».
Libby ci pensò sopra un attimo intensamente. «Temo di no, signore».
«Allora ti spiego di nuovo. Se tu alzi dieci alla seconda poten¬za — al quadrato, quindi — ti dà cento. Perciò il logaritmo di cento con base dieci è due. Allo stesso modo, il logaritmo di mille con base dieci è tre. Allora, qual è il logaritmo di novantacin¬que?».
Libby sembrò confuso. «Non posso calcolarlo... cioè, è una frazione».
«Infatti».
«Allora è uno e novecento settantotto millesimi... o giù di lì».
Rhodes si rivolse al Capitano. «Credo che ne abbiamo abbastan¬za, signore».
Doyle annuì con fare pensoso. «Certo, il ragazzo sembra pos¬sedere una conoscenza intuitiva dei calcoli aritmetici. Ma vedia¬mo cos'altro sa fare».
«Temo che dovremmo rispedirlo sulla Terra per scoprirlo ade-guatamente».
Libby colse una minaccia in quelle ultime parole. «Per favore, signore, non vorrà mandarmi a casa, vero? Mia madre non me lo perdonerebbe».
«No, no, niente di tutto questo. Quando verrà il momento, ti farò esaminare nei laboratori psicoattitudinali. Nel frattempo, sei molto più utile qui. Rinuncerei alla paga di un mese o... a fuma¬re, pur di non lasciarti andar via, a questo punto. Vediamo un po' cosa puoi fare».
Durante tutta l'ora che seguì il Capitano e l'Ufficiale di rotta stettero a sentire Libby che dava esempi del suo straordinario po¬tere matematico. Tra le altre cose: dedusse il teorema di Pitago¬ra; ricavò le leggi di Newton sul movimento dei pianeti e le leggi della meccanica di Keplero partendo dalla dichiarazione delle condizioni nelle quali erano state ottenute; valutò lunghezza, area e volume a occhio senza errori di sorta. Era balzato sull'idea del¬la relatività e del continuo spazio temporale non rettilineo, e sta¬va esponendo concetti più complessi di quanto poi non riuscisse a spiegare, quando Doyle sollevò una mano.
«Basta così, ragazzo. Altrimenti, ti verrà la febbre. Vai di fi¬lato a letto, ora, e torna da me domattina. Ho deciso di cambiar¬ti lavoro».
«Sissignore».
«A proposito, qual è il tuo nome per intero?».
«Andrew Jackson Libby, signore».
«No, la tua gente non avrebbe dovuto firmare la Convenzione. Buonanotte».
«Buonanotte, signore».
Quando Libby fu uscito, i due ufficiali non poterono non com¬mentare la loro scoperta.
«Che gliene pare, Capitano?».
«Beh, è un genio, naturalmente... uno di quei talenti selvaggi che nascono una volta ogni tremila anni. Gli darò libero accesso ai miei libri e vedremo cosa ne verrà fuori. Non mi meraviglierei se fosse uno di quelli che apprendono le cose a prima vista».
«È sorprendente il tipo di cose che ci capitano con questi ra¬gazzi... se si pensa che sulla Terra nessuno darebbe loro due cen¬tesimi».
Doyle annuì. «È questo il guaio con questi ragazzi. Non hanno l'opportunità di sentirsi utili».
L'Asteroide 88 era sospeso a diversi milioni di miglia di di¬stanza attorno al sole. Le profonde escavazioni sulla sua superfi¬cie vennero ultimate e ricoperte di durite, quello strano materia¬le «da imballaggio» prodotto in laboratorio che (solitamente) è in grado di proteggere persino dai rischi di disintegrazione atomica. Poi l'Ottantotto ricevette una serie di delicati colpetti, sempre nella direzione della sua rotta naturale. Nel giro di poche setti¬mane, le esplosioni dei razzi produssero il loro effetto e l'Asteroi¬de s'immerse in un'orbita verso il sole.
Una volta raggiunta la posizione uno e tre-decimi di distanza dal sole rispetto all'orbita della Terra, doveva essere indotto da un'altra serie di colpetti a entrare in un'orbita circolare. Da quel momento sarebbe stato conosciuto come E-M3, Stazione Spaziale Terra-Marte Numero Tre.
Centinaia di milioni di miglia lontano, altri due C.C.C. stava¬no convincendo altri due planetoidi ad abbandonare il loro ultra¬millenario corso e a scivolare tra Terra e Marte per entrare nella stessa orbita dell'88. Il primo planetoide si sarebbe piazzato a centoventi gradi davanti all'88 e il secondo a centoventi gradi all'indietro. Una volta che E-M1, E-M2 e E-M3 fossero diventate altrettante stazioni, anche il viaggiatore spaziale più avventato nell'area compresa tra Terra e Marte avrebbe avuto la certezza di poter contare su di un rifugio sicuro.
Durante il mese in cui l'Asteroide 88 cadde libero verso il sole, il Capitano Doyle ridusse i ritmi di lavoro della ciurma, alla quale venne assegnato il compito, relativamente leggero, di co¬struire un hotel e di trasformare la valletta coperta in un giardi¬no. La pietra venne sgretolata e ridotta a terreno coltivabile, ven¬nero applicati fertilizzanti e piantate colture di germi anaerobici. Poi, delle piante speciali, condizionate da trenta e più generazioni di bassa gravitazione in quel di Luna City, vennero installate e teneramente curate. Tranne che per la bassa gravitazione, appunto, sull'Asteroide 88 si cominciava a sentirsi come a casa.
Ma quando l'88 si avvicinò tangenzialmente all'ipotetica futu¬ra orbita dell'E-M3, gli uomini tornarono al loro lavoro di routine e di manutenzione, controlli su controlli, con il Capitano che vi¬veva sempre di caffè nero e che al massimo si concedeva qualche pennichella nella sala di comando.
Libby venne assegnato al calcolatore balistico, tre tonnellate di metallo pesante che dominava la sala di comando. Il ragazzo adorava quella macchina. Il Primo Ufficiale di Tiro lasciava che se ne occupasse come di una sua creatura. E Libby, di fatto, nel suo subconscio, doveva pensare alla macchina come a una perso¬na... un tipo di persona come lui.
Nell'ultimo giorno dell'avvicinamento, le scosse artificiali pro¬dotte coi razzi furono più frequenti. Libby, seduto sullo sgabello di destra annesso al calcolatore, ronzava fuori calcoli e previsioni relativi alla salve successiva, e non smetteva di compiacersi per l'accuratezza con cui lavorava la macchina. Il Capitano Doyle s'aggirava intorno nervosamente, fermandosi occasionalmente per scrutare dall'alto della spalla dell'Ufficiale di rotta. Ovviamente i calcoli erano tutti esatti, ma che ne sarebbe stato se qualcosa non funzionava? Nessuno mai prima aveva tentato di spostare una massa del genere. Supponiamo che avesse continuato a sprofon¬dare e sprofondare. Sciocchezze! Non poteva succedere. Eppure, si sarebbe sentito meglio una volta passata la velocità critica.
Un attendente gli toccò il gomito. «Un elio dalla Nave Ammi¬raglia, signore».
«Leggilo».
«Ammiraglia a Ottantotto; messaggio personale per il Capita¬no Doyle; rimango affacciato per godermi il vostro ingresso in or¬bita... Kearney».
Doyle sorrise. Carino da parte del vecchio eccentrico ammira¬glio. Una volta raggiunta la postazione, l'avrebbe invitato a venir giù a cena e per una visita al giardino.
Venne fatta esplodere un'altra salve, più forte delle preceden¬ti. La stanza tremò violentemente. Immediatamente dopo, i rap¬porti degli osservatori di superficie cominciarono ad arrivare nella sala comando. «Razzo numero nove, fuoco!», «Razzo numero die¬ci, fuoco!».
Ma Libby, improvvisamente, smise di riferire dati.
Il Capitano Doyle si rivolse a lui. «Che succede, Libby? Dor¬mi. Individua le stazioni polari. Ho bisogno di una parallasse».
«Capitano...». La voce del ragazzo era tenue e piuttosto scos¬sa.
«Su, parla ragazzo!».
«Capitano... la macchina non sta funzionando».
«Spiers!». La testa brizzolata del Primo Ufficiale di Tiro spun¬tò da sotto il calcolatore.
«Sono già all'opera, signore. Un attimo e le dirò di cosa si tratta».
S'immerse di nuovo. Dopo un paio di interminabili minuti, riapparve. «È soltanto il giroscopio. Almeno dodici ore di lavoro per ricalibrarlo».
Il Capitano non disse nulla, si allontano camminando verso l'altra estremità della stanza. L'Ufficiale di rotta lo seguì con gli occhi. Poi Doyle tornò, diede un'occhiata al cronometro, e parlò all'Ufficiale di rotta.
«Mi stia a sentire, Blackie... Se non dispongo dei dati di tiro entro sette minuti, siamo spacciati. Ha delle proposte?».
Rhodes scosse la testa senza parlare.
Timidamente, Libby alzò la voce. «Capitano...».
Doyle scattò all'indietro. «Sì?».
«I dati di tiro sono: per il razzo numero tredici, sette virgola sei tre; per il razzo dodici; sei virgola nove zero; per il quattordi¬ci, sei virgola otto nove».
Doyle studiò il volto del ragazzo. «Ne sei proprio sicuro, Lib¬by?».
«Deve essere così, Capitano».
Doyle era in piedi, perfettamente immobile. Questa volta non guardò Rhodes. Si accese invece una sigaretta, aspirò profonda¬mente, stette per un secondo a osservare la cenere, e disse con voce sicura:
«Applicate i dati di Libby. E... fuoco!».
Quattro ore più tardi, Libby stava ancora sputando fuori dati, grigio in volto, gli occhi semichiusi. Una volta era anche svenuto, ma quando lo rianimarono riprese immediatamente a biascicare calcoli e numeri. Di tanto in tanto il Capitano e Rhodes si dava¬no il cambio, ma per Libby non ci fu tregua.
Le salve furono sempre più ravvicinate tra loro, ma le scosse furono più leggere.
Seguendo una di quelle salve, Libby gettò gli occhi al cielo, sul soffitto, e disse.
«Abbiamo finito, Capitano».
«Chiama le stazioni polari!».
I rapporti giunsero prontamente. «Parallasse costante, costan¬te anche il rapporto siderale-solare».
Il Capitano si lasciò andare su una sedia. «Beh, Blackie, ce l'abbiamo fatta... grazie a Libby!». Poi avvertì un'espressione preoccupata e pensierosa sul volto di Libby. «Che ti succede, ra¬gazzo? Siamo scivolati troppo in alto?».
«Capitano, l'altro giorno lei ha detto che le piacerebbe avere una gravitazione normale per il giardino?».
«Sì, e allora?».
«Se il libro sulla gravitazione che lei mi ha prestato non s'in¬ganna, forse avrei trovato una soluzione».
Il Capitano lo ispezionò da vicino come se lo stesse vedendo per la prima volta. «Libby, hai finito di stupirmi. Ti spiacerebbe interrompere i tuoi calcoli giusto per il tempo di stare a cena con l'Ammiraglio?».
«Santo cielo, Capitano! Questo è troppo...».
L'audiocircuito scattò a parlare proprio in quell'istante.
«Elio da Nave Ammiraglia: "Complimenti, ben fatto, Asteroi¬de 88"».
Doyle lanciò un sorriso a tutti i presenti. «Questa sì che è una piacevole conferma...».
Ma l'audio si interruppe di nuovo.
«Elio da Nave Ammiraglia: "Cancellare ultimo segnale, pronti per correzione"».
Uno sguardo d'ansia e di stupore si stampò sul volto di Doyle... poi l'audio riprese:
«Elio da Nave Ammiraglia: "Complimenti, ben fatto, E-M3"».



FINE