domenica 10 giugno 2018


CADE LA NOTTE
Nightfall
di Isaac Asimov
Astounding Science Fiction, settembre 1941
 (Bene, eccola qui. Nightfall (Cade la notte) fu la mia sedicesima storia a venire pubblicata, ma è la trentaduesima che avevo scritto. La scrissi nel marzo del 1941, quando avevo ventun anni e un quarto ed è la mia prima storia per cui Campbell mi pagò un sovrappremio. E fu anche la mia prima storia che ser¬vì da principale romanzo breve a un numero di «Astounding». Inoltre fu la mia prima storia che si meritò una copertina su «Astounding».
È chiaro che per me fu una pietra miliare.
Solo che a quel tempo non mi resi conto esattamente del fatto che lo fosse.
A quel tempo, Nightfall fu solo un'altra storia che avevo scritto e non fece molto fracasso, ma col passare dei mesi e degli anni, mi sembrò sempre crescere in retrospettiva finché adesso non solo è opinione unanime che essa sia il miglior racconto che io abbia mai scritto, ma sembra sia anche opinione unanime che essa sia il miglior racconto di fantascienza mai scritto. O almeno si è piazzata al primo posto in diverse votazioni, compresa quella fatta dall'Unione degli Scrit¬tori Americani di Fantascienza.
Io mi affretto a dire che non sono d'accordo. Secondo me sono ben tre i rac¬conti che ho scritto e che giudico migliori e provvederò a che vengano inclusi in questa serie quando arriveremo all'anno corrispondente. In effetti, penso che Nightfall abbia dei gravi difetti e una certa rozzezza di scrittura. Tuttavia, dopo la sua pubblicazione, non ho mai più scritto un solo racconto di fantascienza che non sia stato pubblicato e molto pochi che non siano stati accettati dal pri¬mo direttore cui li ho sottoposti... perciò direi che Nightfall, scritta neanche tre anni dopo da che avevo iniziato a sottoporre dei racconti per la pubblicazione, segnò allora la fine del mio apprendistato. - I.A.)

Il rettore dell'Università di Saro, Aton 77, fulminò il giovane giornalista con uno sguardo di fuoco, sporgendo il labbro inferio¬re con aria di sfida.
Ma Theremon 762 non si scompose. Quando, agli albori della carriera, la sua rubrica, ora oggetto di discussioni alquanto aspre, era solo un'idea nel suo cervello di giornalista dilettante, si era specializzato in interviste impossibili. Anche se ne aveva rica¬vato lividi, occhi blu e ossa rotte, ci aveva anche guadagnato un gran sangue freddo e un'immensa sicurezza di.se stesso.
Attese con calma che il rettore calmasse la tempesta dentro di sé, ritirando la mano che era stata ignorata. Del resto gli astro¬nomi erano degli originali e Aton ne deteneva la palma, se il suo comportamento degli ultimi due mesi poteva significare qualcosa.
Fremendo di emozione compressa a stento, Aton 77 ritrovò la voce ma non seppe resistere alla sua consueta fraseologia pruden¬te e noiosa.
«Devo ammettere», disse, «che non le manca una faccia tosta notevole nel venire a dire a me certe cose».
Lo interruppe Beenay 25, il telefotografo dell'Osservatorio, che si umettava nervosamente le labbra aride.
«Ma signore, veramente...»
Il rettore si voltò a guardarlo, con l'unico movimento di solle¬vare il sopracciglio.
«Beenay, ho chiesto la sua opinione? Ammetto che lei lo abbia fatto in buona fede, ma non tollero insubordinazioni!»
Per Theremon era il momento di farsi sentire.
«Senta, signor rettore, mi lasci finire quello che ho comincia¬to...»
Aton lo bloccò subito. «Non credo che lei abbia da dirmi cose più sensate delle idiozie che scrive sulla sua rubrica da due mesi. Lei ci ha scatenato addosso una campagna giornalistica, a me e ai miei colleghi che cerchiamo di organizzare il mondo contro la minaccia che ormai non si può più evitare. Non ha certo esitato a coprire di ridicolo tutti quelli che lavorano all'Osservatorio, con le sue frecciate personali...»
Il rettore prese dal tavolo la copia della Cronaca di Città di Saro sventolandola furiosamente verso Theremon.
«Anche un impudente come lei dovrebbe esitare prima di ve¬nire a farmi una richiesta che potrebbe fornirle i titoli di prima pagina del suo giornale. Proprio lei...»
Lasciò cadere il giornale e avanzò verso la finestra con le mani intrecciate dietro la schiena.
«Adesso può andarsene», sbottò, con gli occhi puntati in cielo, dove Gamma il più splendente dei sei soli del pianeta, tramonta¬va. Aton sapeva che non avrebbe più visto il sole che sbiadiva tra le nebbie dell'orizzonte, almeno in perfetta coscienza intellettiva.
Scattò, girandosi.
«Un momento, venga qui», disse, accompagnando le parole con un gesto d'imposizione, «va bene, le dirò quello che vuole sa¬pere».
Theremon che non aveva affatto intenzione di andarsene, si avvicinò. Aton gli indicò il cielo.
«Avevamo sei soli, ce n'è rimasto solo uno adesso, Beta. Ve¬de?»
Non ebbe risposta. Beta era quasi allo zenith. La sua luce rossa tingeva il paesaggio con una sfumatura aranciata, mentre i raggi di Gamma morivano. Ora all'apogeo, Beta era molto più piccolo di quanto Theremon lo avesse mai visto. Per ora era il so¬lo signore del cielo di Lagash.
Il vero sole di Lagash, Alpha, l'unico attorno cui il pianeta ef¬fettivamente ruotava, era agli antipodi, come pure le coppie di soli gemelli. Beta, la nana rossa compagna di Alpha, era tragica¬mente sola.
La luce solare dava al volto di Aton un colorito vermiglio.
«Fra nemmeno quattro ore la nostra civiltà morirà. E questo perché Beta è rimasto l'unico sole del nostro cielo», sorrise senza allegria, «lo stampi, lo pubblichi pure, tanto non potrà leggerlo nessuno!»
«Ma e... non è possibile che passino quattro ore e ancora altre senza che succeda niente?» suggerì Theremon.
«Ah, vedrà, vedrà che succederà anche troppo!»
«Va bene, ma se invece non succedesse niente?»
Beenay 25 si intromise di nuovo.
«Signore, dovrebbe ascoltarlo».
«Mettiamolo ai voti, rettore», disse Theremon.
Un brivido sembrò animare gli altri cinque operatori dell'Os¬servatorio che fino ad allora si erano chiusi in un atteggiamento neutrale.
La voce di Aton era incolore: «Non ce n'è bisogno». E si tirò fuori dalla tasca l'orologio. «Le concedo cinque minuti, visto che Beenay insiste. Avanti».

«Perché allora non mi lascia accertare con assoluta certezza quanto succederà? Tanto se accade non potrò certo scrivere l'ar¬ticolo e se invece non accade si aspetti solo ridicolo o peggio. In questo caso, per lei è meglio che il ridicolo tocchi a un amico».
«E questo amico chi sarebbe?» sbuffò Aton. «Lei per caso?»
«Sicuro». Theremon si mise a sedere. «D'accordo i miei artico¬li sono stati un po' irriverenti, d'accordo, ma le ho sempre con¬cesso il beneficio del dubbio, no? Questo secolo non è il più adat¬to per predicare a Lagash una apocalisse. La gente non crede più al "libro delle Rivelazioni". Non è certo incoraggiante che gli scienziati comincino a convertirsi alle tesi dei Cultisti...»
«Giovanotto, può essere che alcuni dei nostri dati provengano dal Culto, ma i risultati ottenuti non hanno niente a che vedere col misticismo del Culto. La "mitologia" del Culto si basa su al¬cuni fatti incontestabili, e noi li abbiamo liberati dal loro involu¬cro di mistero. Anzi, le dirò, i Cultisti ci odiano più di lei!»
«Io non la odio, rettore Aton; io voglio farle capire che l'opi¬nione pubblica non è favorevole a lei, anzi...»
Il rettore stortò sprezzante la bocca.
«E chi se ne frega!»
«Già, ma... e domani?»
«Domani... non ci sarà nessun domani!»
«Mettiamo che ci sia invece... ammettiamolo, così, tanto per fare una ipotesi. Il malcontento generale può peggiorare, lei sa benissimo che l'andamento degli affari è crollato ultimamente. Loro, gli uomini d'affari non credono alla fine del mondo e si tengono stretti i loro quattrini e aspettano che passi la crisi. Neanche l'uomo della strada ci crede, ma vuole vedere prima cosa succederà. Lo sa? Quando la crisi sarà passata il desiderio più violento sarà quello della vendetta, vendetta contro di lei! Di-ranno che se un qualsiasi pazzo può sconvolgere il paese quando gli salta in testa, è interesse del pianeta liberarsene... vedrà che succederà!»
Il rettore lo squadrò severo.
«E lei vorrebbe aiutarmi? E come?»
«Intendo occuparmi della pubblicità», sogghignò Theremon, «posso mettere in risalto solo il lato ridicolo. Non dico che sarà facile, certo, dovrete passare per un branco di imbecilli, ma se l'opinione pubblica riderà, lascerà perdere l'odio. Però il mio edi¬tore vuole in cambio l'esclusiva delle sue dichiarazioni!»
Beenay annuì, poi proruppe: «Ha ragione, lo pensiamo tutti. Non abbiamo mai pensato che nella nostra teoria e nei nostri cal¬coli ci potesse essere un errore, la cui probabilità è una su un mi¬lione, ma dovremmo farlo».
Dal tavolo dove erano raggruppati gli altri giunse un mormo¬rio di consenso. Aton abbozzò una smorfia, come se non riuscisse a liberarsi del fiele che si sentiva in bocca.
«E va bene, se ci tiene, resti. Ma per favore non ci intralci. Non dimentichi che io sono il responsabile di quanto succede qua dentro e io voglio assoluta collaborazione e rispetto...»
Le sue mani erano sempre intrecciate sulla schiena e il volto teso in avanti. E aveva tutta l'aria di restare così per sempre, se non ci fosse stata una interruzione.

«Salve!» il nuovo venuto era dotato di voce tenorile e di un sorriso compiaciuto. «Beh, cos'è quest'aria da funerale? Non sta¬rete perdendo la testa?!?»
Aton era costernato.
«Sheerin, che ci fa lei qui?» sbottò, «non doveva essere sepolto nel Rifugio?»
Sheerin si abbatté su una sedia ridendo.
«Che vada al diavolo il Rifugio! Non mi piace. Invece mi piac¬ciono le situazioni scottanti e poi sono anche curioso. Voglio ve¬dere queste stelle dei Cultisti!» Poi aggiunse in tono più serio: «È freddo fuori! Si attaccano i ghiaccioli al naso! Beta è così lontano che non emana alcun calore!»
Il rettore esasperato digrignò i denti.
«Sheerin, cosa crede di fare a venire qui? Perché si è messo a fare follie? Pensi al suo lavoro!»
«Follie?» rassegnato Sheerin allargò le mani. «Nel Rifugio uno psicologo è perfettamente inutile. Ci vogliono uomini forti e don¬ne sane per allevare bambini. Io sono troppo grasso per fare l'uo¬mo d'azione e non sono particolarmente portato ai bambini. Per cui ho preferito levarmi di mezzo. Qui sto meglio».
Theremon era incuriosito: «Cos'è questo Rifugio?»
Sheerin lo guardò con sguardo incuriosito. Accigliato, gonfiò le guance.
«E lei chi sarebbe?»
Aton mormorò a labbra strette.
«È Theremon, il giornalista. Deve averlo già sentito nomina¬re».
Il giornalista tese la mano.
«Naturalmente lei è Sheerin 501, Università di Saro. La cono¬sco per sentito dire», e ripeté, «ma cos'è questo Rifugio?»
«Beh, abbiamo convinto un po' di gente della nostra profezia sulla fine del mondo. Sono state prese le precauzioni necessarie. In genere sono i parenti del personale dell'Osservatorio, inse¬gnanti e alcuni estranei. Trecento persone in tutto, di cui la mag¬gior parte sono donne e bambini».
«Ah, si sono rintanati dove l'oscurità e le stelle non li trove¬ranno mai. Ma tutti gli altri morranno».
«Non è così semplice, dopo la distruzione delle città e la follia collettiva, sarà dura per chi sopravviverà. Ma avranno almeno protezione, riserve d'acqua e di cibo, armi...»
«Non solo questo», intervenne Aton, «hanno tutte le registra¬zioni eccezion fatta per quelle di oggi. Queste registrazioni spie¬gheranno la verità alle generazioni future, devono sopravvivere, il resto non ha alcuna importanza».
Theremon modulò un lungo fischio e meditò in silenzio. Gli uomini al tavolo avevano preso una scacchiera multipla e stavano giocando in sei, con mosse rapide, mute e con gli occhi fissi sulla scacchiera. Theremon dopo un istante si alzò e si avvicinò ad Aton che parlava piano con Sheerin.
«Senta, andiamo da qualche parte dove possiamo parlare in pace. Ho delle domande da farle».
L'astronomo lo guardò malamente e Sheerin intervenne.
«Ma sì, sarà bene parlare un po'. Aton mi ha detto delle rea¬zioni dell'opinione pubblica in caso le previsioni non si avverasse¬ro. E la penso come lei, io la leggo sempre e non sono del tutto in disaccordo con lei».
Aton grugnì: «Sheerin, la prego!»
«Cosa? Ah, sì, giusto. Andiamo di là. Staremo più comodi».

Nell'altra stanza c'erano poltrone più comode e pesanti tende rosse alle finestre. Il pavimento era ricoperto da un tappeto mar¬rone. Con la luce rossastra di Beta la stanza sembrava insangui¬nata.
Theremon non poté trattenere un brivido.
«Non so che darei per avere almeno un secondo solo di luce bianca. Se in cielo ci fossero Gamma o Delta...!»
Aton lo interpellò: «Che domande vuol farmi? Si ricordi che abbiamo pochissimo tempo. Un'ora e un quarto per l'esattezza, poi di sopra non potremo più parlare».
«Bene, ascolti», Theremon si appoggiò all'indietro a braccia incrociate sul petto, «siete tutti così convinti che comincio a cre¬derci anch'io. Mi vuol spiegare?»
Aton esplose: «Cosa? Lei ci bersaglia con le sue domande e non ha ancora capito di che si tratta?»
Il giornalista abbozzò un timido sorriso.
«Non esageriamo. Ho afferrato il concetto. Sta per verificarsi un evento che produrrà Oscurità su tutto il pianeta in poche ore e l'umanità impazzirà. Ma io voglio le giustificazioni scientifiche».
Sheerin lo interruppe: «Non ci siamo, se lei pone ad Aton una domanda del genere, ammesso che voglia risponderle, lui le scio¬rinerà pagine e pagine stampate e montagne di grafici. E lei non ci si raccapezzerebbe più. Ma io posso spiegarle il tutto in parole semplici».
«Va bene, allora me lo dica lei».
«Prima vorrei bere qualcosa». Sheerin sbirciò Aton fregandosi le mani.
«Acqua?» grugnì Aton.
«Non faccia lo spiritoso!»
«Non faccia lei lo spiritoso. Oggi niente alcool. Non voglio in¬durre in tentazione i miei uomini».
Lo psicologo borbottò qualcosa comprensibile solo a lui. In¬chiodò Theremon con lo sguardo e cominciò.
«Lei saprà, immagino, che la storia della civiltà di Lagash ha carattere ciclico. Un vero carattere ciclico».
Theremon rispose con prudenza: «Certo, è la teoria archeolo¬gica comune, ma è stata verificata?»
«Questo è il punto. Nell'ultimo secolo ci si è trovati d'accordo su ciò. Il carattere ciclico è, anzi era, uno dei grandi misteri co¬smici. Sono stati trovati i resti di nove diverse civiltà e molte altre non identificate con sicurezza, tutte avevano raggiunto un altissi¬mo livello, simile al nostro, tutte sono state distrutte da incendi colossali al loro apogeo. Non si spiega il motivo. È sempre stato il fuoco a distruggere queste civiltà, ma non si spiegano le cause».
Theremon non perdeva una parola.
«Non c'è una Età della Pietra?»
«Probabilmente, ma non ne sono rimaste tracce, si sa solo che gli uomini di quell'era erano scimmie evolute. Non ha importanza questo».
«Già, prosegua!»
«Ci sono state moltissime spiegazioni di queste catastrofi ri¬correnti, ma tutte sono fantasiose. Chi dice che periodicamente c'è un diluvio di fuoco, chi che Lagash attraversa uno dei soli, chi peggio ancora. Ma i secoli ci hanno tramandata un'altra teoria, molto diversa».
«Lei allude al mito delle Stelle, citato dai Cultisti nel "Libro delle Rivelazioni"».
«Già», Sheerin era soddisfatto. «I Cultisti dicono che ogni centocinquant'anni, Lagash entra in una caverna e i suoi soli spari¬scono, da qui la Oscurità che copre il mondo.. Allora arrivano le Stelle che rubano agli uomini la loro anima e li fanno diventare dei pazzi incoscienti che distruggono la loro stessa civiltà. Ci sono frammischiate molte nozioni mistico-religiose, ma il succo è que¬sto».
Sheerin respirò a fondo.
«Ora ci avviciniamo alla Teoria della Gravitazione Universa¬le», disse sottolineando le maiuscole. Aton sbuffò e uscì.

Quando fu uscito Theremon disse:
«Qualcosa che non va?»
«Direi di no», ribatté Sheerin, «i due che dovevano prendere servizio qualche ora fa non si son fatti vivi. Tutti gli uomini, tranne quelli indispensabili, sono scesi al Rifugio».
«Non è possibile che abbiano disertato?»
«Faro e Yimot? No, impossibile. Se non arriveranno tra un'o¬ra, avremo guai». Scattò in piedi: «Ma visto che Aton se n'è an¬dato...»
Andò alla finestra e da uno scaffale sotto il davanzale estrasse una bottiglia piena di liquido rosso che gorgogliò allettante.
«Aton non dovrebbe saperlo», disse tornando al tavolo, «c'è un bicchiere solo, ed è suo, visto che è l'ospite. Io mi servo dalla bottiglia». E gli riempi il bicchiere attentamente.
Theremon cercò di protestare, ma Sheerin lo fulminò.
«Giovanotto, rispetti gli anziani!»
Il giornalista si risedette con un'espressione di sofferenza.
«Va bene, avanti!»
Lo psicologo sollevò la bottiglia e se la incollò alla bocca e soddisfatto riattaccò.
«Che ne sa della gravitazione?»
«So solo che è una teoria sviluppata recentemente e non del tutto chiara. Dev'essere così complicata che solo dodici uomini su tutto Lagash la capiscono».
«Idiozie! Il concetto si riassume in una frase. Secondo la Leg¬ge della Gravitazione Universale tra tutti i corpi dell'universo c'è una forza di attrazione e tale attrazione reciproca tra due corpi è proporzionale alla somma delle loro masse diviso per la distanza al quadrato».
«Ah, semplicissimo!»
«Beh, ci son voluti quattrocento anni per definirlo!»
«Così tanto? Come mai? È semplice così come lo ha enunciato lei!»
«Non basta un lampo di genio per indovinare le leggi fisiche. Ci si arriva dopo secoli e secoli di lavoro di scienziati di un mon¬do intero. Quattrocento anni fa Genovi 41 ha scoperto che era Lagash a ruotare attorno al sole Alfa e non il contrario e si è la¬vorato su questi presupposti da allora. Le nozioni sui sei soli sono state analizzate, dibattute. Teorie su teorie, controllate, modifica¬te, trasformate».
Theremon annuì e allungò il bicchiere. Sheerin gli concesse alcune gocce rubino dalla bottiglia.
«Vent'anni fa», disse dopo essersi inumidito la gola, «sì, venti anni fa, c'è stata la dimostrazione che la Teoria Gravitazionale spiega perfettamente il moto orbitale dei sei soli. Un grande trionfo scientifico!»
Sheerin si avvicinò alla finestra senza abbandonare la botti¬glia.
«Eccoci al punto centrale. Nell'ultimo decennio il moto di La¬gash attorno ad Alfa è stato calcolato secondo la legge gravitazio¬nale; ma l'orbita reale non coincide con l'orbita teorica. Nemme¬no se si calcolano le perturbazioni da attrazione degli altri soli. No, o la legge non è valida o c'è un altro fattore, ancora ignoto».

Theremon raggiunse Sheerin e spinse lo sguardo dalla finestra dove le guglie della Città di Saro, accese di rosso, scintillavano in distanza. Con un irrefrenabile senso di incertezza guardò Beta che splendeva rosso e maligno, allo zenith.
«E poi?» disse sottovoce.
«Be', gli astronomi ci hanno pensato su per anni, ognuno con una teoria più fantastica... poi Aton decise di rivolgersi al Culto. Sor 5, il loro capo, gli fornì dei dati che semplificarono la que¬stione. Si cambiò completamente indirizzo. E se ci fosse stato un altro pianeta non luminoso come Lagash? Capisce bene che in questo caso dovrebbe risplendere di luce riflessa, ma se come La¬gash fosse composto di roccia azzurrina, sarebbe invisibile, can¬cellato completamente dai soli».
Theremon fischiò.
«È assurdo!»
«Non direi! Faccia conto che questo pianeta ruoti attorno a Lagash a una determinata distanza e a una determinata orbita e abbia una massa tale da spiegare la deviazione di Lagash dall'or¬bita teorica... sa cosa significa?»
Il giornalista fece un cenno di diniego.
«Beh, prima o poi questo pianeta passerà tra Lagash e uno dei soli». Sheerin scolò il resto della bottiglia con un sorso solo.
«Già, penso proprio che succederebbe questo!» La voce di Theremon era incolore.
«Ma solo un sole si trova sullo stesso piano di rivoluzione», disse Sheerin indicando il sole alto nel cielo. «Beta! E l'eclissi può verificarsi solo quando Beta si troverà in questo emisfero, alla massima distanza da Lagash, mentre l'altro pianeta sarebbe alla distanza minima. Poiché questo corpo ha un diametro apparente che è sette volte quello di Lagash, l'eclisse coprirebbe Lagash per mezza giornata, e ciò si verifica ogni duemilaquarantanove anni».
Theremon era impassibile.
«E io dovrei pubblicare queste cose?»
Sheerin annuì.
«È tutto. Prima l'eclisse che comincerà tra tre quarti d'ora, poi l'Oscurità completa, e le Stelle, poi la follia generale e la fine del cielo», rifletté. «Non abbiamo potuto convincere Lagash del pericolo solo in due mesi, non sarebbero bastati due secoli. Tutte le registrazioni sono al Rifugio e oggi fotograferemo l'eclisse. Il prossimo ciclo conoscerà la verità e alla prossima eclisse l'uma¬nità sarà preparata. Questa è una delle notizie che le interessa¬no».
Theremon aprì la finestra e un lieve soffio di vento animò le tende e gli attraversò i capelli. La sua mano era rossa per il ri¬flesso del sole. Improvvisamente si ribellò.
«Come può l'Oscurità fare impazzire?»
Sheerin sorrideva tra sé, girando e rigirandosi in mano la bot¬tiglia.
«L'ha mai provata, giovanotto?»
Il giornalista rifletteva addossato al muro.
«No, no di certo, ma so cos'è...», un po' incerto agitò le dita, poi sbottò: «ma sì, è mancanza di luce! Come nelle grotte!»
«Ma lei è mai stato in una grotta?»
«Cosa, io? No certo!»
«Già, io ci ho provato tanto per provare, sono scappato subi¬to. Mi sono spinto dentro la caverna fin quando vedevo solo un puntino di luce, tutto intorno c'era il buio. Non avrei mai pensato di filarmela così alla svelta».
Theremon storse la bocca.
«Be', non credo che al suo posto mi sarei messo a correre».
Lo psicologo lo guardò con disprezzo.
«Non può dirlo. Tiri le tende».
Theremon fu colto di sorpresa.
«Perché? Quando ci sono quattro o cinque soli va bene, con¬tro il riverbero troppo forte, ma ora è già abbastanza buio».
«Proprio questo voglio farle vedere. Chiuda e venga qui a se¬dersi».
«Va bene». Theremon andò a tirare la tenda rossa che chiuse la finestra, mentre gli anelli dorati correvano sulla riioga un'om¬bra rosso cupo si allargò nella stanza.
Theremon tornò verso la tavola, i suoi passi suonavano stra¬namente nel silenzio.
«Non la vedo», soffiò.
Sheerin ordinò nervosamente: «Avanzi a tentoni».
«Ma non la vedo», il giornalista annaspava, «non vedo niente».
«E che si credeva?» risuonò la voce di Sheerin, «venga qui».
Si udirono di nuovo i passi incerti, lenti del giornalista. Poi un rumore, qualcuno che inciampa.
Theremon parlò con voce esile.
«Sono qui, be', devo... tutto bene!»
«Le piace?»
«No, no... È impressionante. Le pareti pare che...» tacque un istante, «pare che mi crollino addosso. Desidero spingerle lonta¬no. Ma non sto impazzendo. Non è così terribile come diceva».
«Bene. Vada ad aprire le tende».
I passi si allontanarono cautamente nel buio, poi il corpo del giornalista urtò la tenda e si sentì il fruscio della tenda. La luce rossa investì la stanza e Theremon guardò il sole con un sospiro di sollievo.
Sheerin si deterse la fronte sudata e disse tremante:
«Pensi che era solo una stanza buia!»
Theremon affermò: «È sopportabile!»
«Già, in una stanza sì. È stato all'Esposizione del Centenario a Jonglor un paio di anni fa?»
«No, una visita all'Esposizione non vale seimila miglia!»
«Be', io sì. Ha sentito parlare del Tunnel del Mistero, al parco dei divertimenti? Ha battuto il record degli incassi solo nel primo mese».
«Ah, sì, ma ci sono stati dei guai, mi sembra».
«Oh, stupidaggini, messe subito a tacere. Era un tunnel di un miglio, completamente buio. Si saliva su un carrello e si veniva trascinati per un quarto d'ora nel buio. Ebbe successo... finché durò».
«Ah sì?»
«Certo, la paura è una emozione affascinante, se si scherza. Le paure fondamentali sono tre, la paura dei rumori, la paura di cadere e la paura del buio. È divertente saltare addosso a qualcu¬no all'improvviso e gridargli per spaventarlo. È divertente salire su un ottovolante, già, così il Tunnel ebbe un grosso successo di pubblico. Uscivano impauriti, tremanti ma eccitati e compravano il biglietto per un altro giro».
«Sì, sì, ricordo adesso. C'è scappato il morto vero? Ne hanno parlato molto dopo la chiusura del Tunnel».
Sheerin sbuffò.
«Due o tre. Ma la cosa si chiuse con l'indennizzo delle fami¬glie e il Consiglio di Jonglor affossò il tutto. Se dei cardiopatici vogliono rischiare, fatti loro. Per evitare che si ripetesse chi voleva entrare nel Tunnel doveva essere visitato da un medico. E la ven¬dita dei biglietti aumentò».
«Poi?»
«Be', non è tutto qui, la gente usciva dal Tunnel in perfette condizioni fisiche, ma cominciava a soffrire di claustrofobia. Non voleva più entrare negli edifici, di qualsiasi genere fossero. Palaz¬zi, case, capanne, appartamenti, uffici, tende, capannoni».
Theremon accusò il colpo.
«Cioè rifiutavano di entrare in luoghi chiusi? Dove dormiva¬no?»
«All'aperto».
«Be', dovevano costringerli».
«Infatti, ma una volta al chiuso furono colti da crisi isteriche, sbattevano la testa contro i muri, si potevano tenere dentro solo con iniezioni calmanti e camicie di forza».
«Erano pazzi».
«Già, una persona su dieci di quelle entrate nel Tunnel erano impazzite. L'unica cosa da farsi fu di chiudere il Tunnel».
«Ma cosa gli era successo?» chiese Theremon.
«Be', più o meno quello che è successo a lei quando ha pensa¬to che le pareti le crollassero addosso. È proprio quella che si de¬finisce "claustrofobia", la paura del buio, unita a luoghi chiusi. Chiaro?»
«E quella gente impazzita?»
«Be', quella gente non fu in grado di superare la crisi di clau¬strofobia. Quindici minuti senza luce è molto. Quella gente sof¬friva di "fissazione claustrofobica". Il terrore del buio e del chiu¬so latente in loro si manifestava in modo permanente. Ecco le conseguenze di quindici minuti d'Oscurità».

Theremon corrugò lentamente la fronte.
«Non mi sembra così terribile».
«Lei rifiuta di crederlo», scattò Sheerin, «ha paura. Guardi dalla finestra!»
Theremon eseguì mentre Sheerin continuava.
«Pensi all'Oscurità dappertutto. Niente luce, da nessuna par¬te. Case, alberi, terra, cielo... nero, tutto nero. E in quel nero le Stelle, qualsiasi cosa siano. Riesce a immaginarlo?»
«Sì», Theremon lo affermò sicuro di sé.
Sheerin irritato sparò un pugno sul tavolo.
«No, non è vero. Il suo cervello non può concepire il concetto di Oscurità, né quello di infinito né di eternità. Ne può parlare sì, ma basta. La sua mente è sconvolta da ogni minima parte di ve¬rità, e quando dovrà affrontare la realtà tutta la realtà, lei im¬pazzirà. Sì, impazzirà, definitivamente» e aggiunse tristemente, «altri due millenni di lotte e conquiste inutili; domani su tutta Lagash non resterà una sola città».
Theremon sembrò rientrare in sé.
«Non capisco perché devo impazzire, solo perché il cielo di¬venterà buio. Ma anche se fosse, e tutti impazzissero, come po¬trebbero essere distrutte le città? Vuol dire che le distruggerem¬mo noi?»
Sheerin era esasperato.
«Se lei si trovasse al buio cosa vorrebbe? Cosa esigerebbe di-speratamente? La luce, la luce!»
«Be'?»
«Come potrebbe avere la luce?»
«Che ne so?», Theremon esalò sottovoce.
«Qual è il solo modo per avere luce se non c'è il sole?»
«Che ne so?»
Si trovarono faccia a faccia.
Sheerin gli soffiò: «Lei brucerebbe qualcosa, ha mai visto una foresta in fiamme? Mai andato in campeggio? La legna che bru¬cia non produce solo calore ma anche luce. Così si ottiene la luce quando scende l'Oscurità».
«Bruciando legna?»
«Bruciando tutto quello che hanno. Vogliono solo luce. Devo¬no far fuoco, se non hanno legna, bruciano tutto, città, villag¬gio...»
Si affrontarono come due nemici, misurando le proprie volon¬tà. Poi Theremon senza parole indietreggiò, ansante, non si ac¬corse del tramestio che veniva dalla stanza accanto.
Sheerin trovò a fatica le parole.
«È la voce di Yimot. Lui e Faro sono tornati. Andiamo a ve¬dere».
«Sì», Theremon mormorando respirò a fondo, e la tensione si incrinò.

Gli uomini dell'Osservatorio si erano raggruppati attorno ai due giovani che si stavano sbarazzando dell'equipaggiamento, mentre cercavano contemporaneamente di rispondere alle doman¬de. La confusione era notevole.
Aton avanzò per affrontare i due irosamente.
«Sapete che manca solo quasi mezz'ora? Lo sapete? Dove vi siete cacciati?»
Faro 24 sedette fregandosi le mani. Aveva le guance rosse.
«Io e Yimot abbiamo fatto un esperimento a titolo personale. Abbiamo costruito un ambiente che simulasse l'Oscurità e le Stelle, per immaginare come sono».
Gli ascoltatori mormorarono. Aton dimostrò un certo interes¬se.
«Ma perché non l'avete detto? Che avete fatto?»
«Be'», disse Faro, «è un'idea che abbiamo avuto molto tempo fa. Yimot aveva visto una casa a un piano col tetto a cupola, un ex museo credo. L'abbiamo comprata...»
«Con quale denaro?» sbottò Aton.
«Ci siamo fatti fare un prestito dalla banca», ribatté Yimot 70. «Duemila crediti. E che importa? Domani duemila crediti sa¬ranno carta straccia!»
Faro confermò: «Sì, l'abbiamo tappezzata di nero, per ripro¬durre la Oscurità; abbiamo fatto dei buchi nel soffitto e ci abbia¬mo messo dei coperchietti metallici semoventi tramite un interrut¬tore. Be', questo non l'abbiamo fatto noi veramente. Abbiamo assunto degli esperti. Noi volevamo che la luce passasse da quei buchi per ottenere la luce delle Stelle».
Ci fu una breve pausa di silenzio.
Poi ruppe il silenzio Aton, seccato.
«Non avevate il diritto di farlo...»
Faro accusò il rimprovero.
«Sì, signore... ma Yimot ed io pensavamo che fosse pericolo¬so. Potevamo impazzire sul serio. E secondo Sheerin dovrebbe es¬sere probabile. Il rischio era solo nostro. Be', se fossimo riusciti a superare la crisi di claustrofobia, avremmo dimostrato di poter superare anche l'avvenimento reale, ma non è riuscito...»
«Perché?»
Toccò a Yimot rispondere.
«Ci siamo chiusi dentro e abbiamo adattato gli occhi al buio completo. È terribile, l'Oscurità fa pensare che tetto e mura crol¬lino addosso. Abbiamo superato comunque questa fase ma poi abbiamo girato l'interruttore. I tappi si sono abbassati e il soffitto ha cominciato a brillare...»
«Poi?»
«Niente. Assurdo, niente! C'era un tetto con quei buchi e sembrava solo quello che era. Abbiamo provato più volte ma niente, non ci ha fatto alcun effetto».
Il silenzio cadde. Tutti guardarono Sheerin, seduto, immobile.
Theremon parlò per primo.
«Sa cosa significa per la sua teoria, Sheerin?» sogghignò.
Sheerin lo bloccò con la mano.
«Un momento. Devo pensare». Schioccò le dita e rialzò la te¬sta con uno sguardo sicuro. «Certo...»
Fu interrotto da un fragore improvviso. Beenay saltò su e si precipitò alle scale: «Che diavolo...»
Tutti quanti lo seguirono.

Sulla cupola Beenay guardò con orrore le lastre fotografiche sparpagliate e l'uomo in piedi. Balzò sull'intruso e gli strinse la gola. In breve questi fu sopraffatto e schiacciato da una dozzina di uomini inferociti, dopo una violenta colluttazione.
Aton arrivò per ultimo, affaticato.
«In piedi!»
L'uomo, con gli abiti strappati e pieno di lividi fu rimesso in piedi. Aveva una barbetta arricciata secondo la moda dei Cultisti.
Beenay lo teneva per il colletto e lo scrollava con violenza.
«Lurido porco, cos'hai in mente? Le lastre...»
Il Cultista rispose gelido: «Non volevo distruggerle, è stato un incidente».
Beenay ringhiò.
«Già, volevi distruggere le macchine fotografiche. Sei stato fortunato, sai, se avessi toccato la macchina, ti avremmo fatto a pezzi».
Aton intercettò il braccio di Beenay diretto contro l'uomo.
«Fermo! Lo lasci!»
Il tecnico esitò e abbassò il braccio malvolentieri. Aton andò dal Cultista.
«Lei è Latimer, vero?»
Il Cultista si inchinò rigidamente indicando il distintivo.
«Latimer 25, aiutante di Terza Classe di Sua Serenità Sor 5».
«Non ha accompagnato Sua Serenità la settimana scorsa quando è venuto a trovarmi?»
Latimer si inchinò ancora.
«Cosa vuole?»
«Niente che lei possa darmi spontaneamente».
«È stato inviato da Sor 5 vero?»
«Non intendo rispondere».
«Intende venirci a visitare ancora?»
«Non intendo rispondere».
Aton guardò l'orologio con disappunto.
«Be', cosa vuole da me il suo padrone? Io ho mantenuto fede ai patti».
Latimer sorrise ambiguamente.
Aton proseguì indignato: «Gli avevo chiesto dei dati che solo il Culto aveva. In cambio ho promesso di dimostrare la verità dei dogmi cultisti».
«Non c'è bisogno di dimostrazioni. Lo dimostra il "Libro delle Rivelazioni"». Il tono di Latimer non celava l'orgoglio.
«Per chi aderisce al Culto. Io avevo offerto prove scientifiche e ho mantenuto la promessa».
Latimer strinse gli occhi.
«Sì, certo, ma la sua spiegazione si basava sulle nostre fedi e perciò ne comprometteva la necessità. L'Oscurità e le Stelle sono diventati fenomeni naturali e questa è bestemmia».
«Allora la colpa non è mia, i fatti sono fatti e io non posso che constatarli».
«I suoi fatti sono frodi».
Aton batté un piede a terra.
«Come può dirlo?»
La risposta denunciava la fede cieca e assoluta.
«Io lo so».
Beenay sussurrò qualcosa al rettore che era arrossito. Aton lo zittì.
«Cosa dovremmo fare allora? Sor 5 crederà certo che noi met¬tiamo in pericolo le anime. Be', se può fargli piacere, non siamo riusciti a convincere nessuno».
«Anche il solo tentativo ha provocato danni e i suoi strumenti diabolici per ricavare dati sono sacrileghi! Noi obbediamo alle Stelle, mi spiace solo di non essere riuscito a distruggere i suoi strumenti diabolici».
«Be', non ci avrebbe ricavato molto», disse Aton, «abbiamo già messo al sicuro tutti i dati tranne le prove dirette che voglia¬mo tra poco. Ma comunque lei ha tentato un crimine».
E rivolto agli uomini: «Chiamate la polizia della Città di Sa¬ro».

Sheerin gemette, disgustato.
«Accidenti Aton ma cos'ha? Non abbiamo tempo!» avanzò. «Ci penso io!»
Aton guardò Sheerin.
«Lasci perdere i suoi giochetti idioti Sheerin. Mi sbrigo io come voglio! Lei qui è solo un estraneo!»
Sheerin torse la bocca in una smorfia.
«Perché dobbiamo chiamare la polizia? L'eclisse Beta inizierà tra qualche minuto. E poi questo ragazzo rimarrà tranquillo e non ci darà fastidio».
«Nemmeno per sogno», avvertì il Cultista, «potete fare quello che volete ma siate avvertiti che appena potrò farò quello che mi sono prefissato! Anzi... forse è meglio che chiami la polizia!»
Sheerin sorrise con simpatia.
«Tipo deciso eh? Be', le dirò, quell'uomo vicino alla finestra è un tipo robusto, sa menar le mani ed è un estraneo qui dentro. Appena inizia l'eclisse non la perderà di vista un attimo. E poi anch'io, forse sono troppo in carne per fare a pugni, ma posso aiutarlo».
«E allora?» il tono di Latimer si era raggelato.
«Ascolti», replicò Sheerin, «quando l'eclisse inizierà la portere¬mo in una stanza senza finestre e chiusa ermeticamente. Dove re¬sterà per tutta la durata dell'eclisse».
«Va bene, ma non mi porterà fuori nessuno no?» mormorò Latimer. «Quando appariranno le Stelle tutti impazziranno, certo nessuno penserà più a me. Morirò soffocato o di fame! Dovevo aspettarmelo da gente come voi. Comunque non voglio discutere oltre!»
Gli occhi slavati di Aton guizzarono turbati.
«Sheerin, lei non vorrà sul serio...»
Lo psicologo gli fece brutalmente cenno di tacere. «Non credo che si debba arrivare a ciò; Latimer ha tentato di barare ma io non mi lascio gabbare!» sogghignò al Cultista. «Non posso credere che lei sia convinto che io la lascerò morire di fame! Se la chiu¬dessi nella stanza lei non vedrebbe né l'Oscurità né le Stelle. E lei da buon Cultista sa che la sua immortalità animistica è legata al¬la visione delle Stelle. Io la giudico un uomo d'onore, se mi ga¬rantisce che non cercherà di rovinarci le apparecchiature, accet¬terò la sua parola».
Una vena pulsò più forte sulla tempia di Latimer. Dopo un attimo di riflessione proruppe: «Ha la mia parola, ma sarete dan¬nati tutti quanti per quello che fate». E si girò verso lo sgabello vicino alla porta.
Sheerin ammiccò al giornalista.
«Theremon, gli stia vicino!! Theremon!»
Ma Theremon era immobilizzato, le labbra esangui.
«Là!»
Puntava un dito tremolante verso il cielo e la sua voce era in¬crinata.

Tutti gli occhi si puntarono al cielo e si raggelarono col respi¬ro mozzato.
Beta era leggermente intaccato sul bordo.
La parte buia era infinitesimale ma per gli astanti significava il Destino.
Dopo un istante di silenzio assoluto, ci furono grida, confu¬sione e panico, poi iniziò la febbre. Ognuno corse al proprio po¬sto. Assolutamente privi di emozioni, erano solo degli scienziati al lavoro.
Sheerin proclamò: «Quindici minuti, è iniziata da quindici minuti. Un po' presto, ma l'approssimazione è ancora soddisfa¬cente, vista l'incertezza dei dati». Si avvicinò a Theremon fissato ancora alla finestra e lo tirò dolcemente indietro.
«Aton è irato, gli stia alla larga! Si è perso il primo contatto per quel Latimer, stia attento!»
Theremon annuendo si sedette.
Sheerin lo guardava: «Ma... cosa fa? Trema!»
Theremon abbozzò un sorriso: «Il fatto è... che non mi sento bene, non mi sento bene».
Sheerin lo guardò con severità.
«È sicuro di resistere?»
«Sì», Theremon esplose indignato, «certo che sì, le dirò, fino ad ora non ci credevo, non ci credevo. Devo abituarmi all'idea, sì, devo abituarmici».
«Va bene», gli concesse Sheerin, «ha famiglia?»
Theremon fece cenno di no.
«Il Rifugio? Non ci pensi, ho una sorella a duemila miglia... non conosco l'indirizzo...»
«Lei ha tempo di scendere al Rifugio e c'è posto, io me ne so¬no venuto via. Sa potrebbe essere utile...»
Theremon lo guardò con aria stanca e esausta.
«Io non ho paura, sa? Anzi, io sono un giornalista e devo pre¬parare un servizio, un servizio da prima pagina. E lo farò».
Lo psicologo si abbandonò a un sorriso luminoso.
«Già, orgoglio professionale!»
«Be', in un certo senso. E adesso darei un occhio della testa per un'altra bottiglia, anche solo la metà di quella che lei ha finito di vuotare poco fa. Se c'è uno che ha bisogno di bere, quello sono io».
Sheerin gli rifilò una gomitata.
«Sente? Lo sente?»
Il Cultista assolutamente estraneo a quanto lo circondava e succedeva nella stanza, cantilenava tra sé, guardando fuori dalla finestra con aria di selvaggio esaltazione.
«Che dice?» sussurrò il giornalista.
Sheerin rispose: «Cita il "Libro delle Rivelazioni", capitolo quinto, ascolti!»
La voce del Cultista cresceva man mano che aumentava in lui l'estasi.

«E in quei giorni il sole Beta rimase da solo in cielo, sempre più a lungo, e le rivoluzioni trascorrevano. Poi alla fine, restò per un tempo pari a mezza rivoluzione a scintillare piccolo e gelido su Lagash.
«E allora la gente si riunì nelle piazze e nelle strade, parlando di quel fatto e stupiti di quanto vedevano, prigionieri di una indi¬cibile angoscia. Avevano la mente sconvolta e dalle loro bocche uscivano discorsi confusi. Le loro anime aspettavano la venuta delle Stelle.
«E nella città di Trigon, a mezzogiorno, Vendret 2 uscì fuori e si mostrò alla folla dicendo: "Ascoltate, peccatori! Voi avete di¬sprezzato la rettitudine, adesso è l'ora del giudizio. Ora la Caver¬na si sta avvicinando per inghiottire Lagash e tutto ciò che esso contiene".
«E mentre Vendret 2 parlava, la bocca della Caverna della Oscurità superò il margine di Beta così che fu nascosto a tutti gli occhi degli abitanti di Lagash. Allora si levarono alte grida men¬tre Beta spariva e grande fu la paura che li colse.
«E così fu che l'Oscurità della Caverna si abbatté su Lagash e sulla sua superficie ogni luce scomparve. Gli uomini divennero come ciechi e nessuno poteva più vedere il suo vicino e neanche sentiva in volto il suo respiro.
«E nell'Oscurità allora si mostrarono le Stelle, tanto numerose da non potersi contare e la loro bellezza era musica ineffabile, anche le foglie degli alberi divennero parole che esprimevano la loro meraviglia.
«E fu in quel momento che le anime abbandonarono gli uomi¬ni, e i corpi così reietti divennero selvaggi come animali e come primitivi. E si lanciavano per le strade buie di Lagash con grida selvagge.
«E dalle Stelle scese il fuoco Celeste e dove si posava, le città di Lagash fiammeggiavano e ardevano fino a venirne completa¬mente distrutte, fino a che dell'uomo e delle sue opere non rima¬se più nulla.
«E allora...»

A questo punto, impercettibilmente, Latimer cambiò tono. I due lo guardavano. Senza una pausa alzò il tono. Le sillabe di¬vennero più liquide.
Theremon, sorpreso, spalancò tanto d'occhi. Le parole gli sembravano familiari, ma la voce si attenuò fino a una sfumatura che rese le parole di Latimer assolutamente incomprensibili, dopo un leggero cambiamento nella pronuncia delle vocali.
Sheerin sorrise.
«È la lingua di un antico ciclo, forse il secondo. È appunto in questa lingua che è stato originariamente scritto il "Libro delle Rivelazioni"».
«Basta, ne so abbastanza, ora mi sento meglio». Theremon spinse indietro la sedia e si infilò nei capelli le mani non più tre¬molanti.
«Sì?» Sheerin non nascose la sorpresa.
«Sì, ho avuto una crisi. Anzi ero quasi andato fuori di senno a sentire lei che parlava di gravitazione e a vedere l'inizio dell'eclis¬si. Ma...» indicò con disprezzo il Cultista, «... queste sono favole. Roba che mi raccontava la balia. Ho sempre riso di esse. Non mi faranno paura proprio adesso!» Respirò a fondo e continuò alle¬gramente: «Ma è meglio che mi allontani dalla finestra se non vo¬glio dare i numeri».
«Ssst», mormorò Sheerin. «Aton ha sollevato la testa dalla scatola in cui l'ha ficcata e l'ha fulminata con un'occhiata omici¬da».
Theremon fece una smorfia.
«Me l'ero dimenticato», spostò la sedia con grande cura, lan¬ciò dietro di sé uno sguardo disgustato e poi proseguì: «Ma ci de¬ve essere un antidoto a questa follia stellare».
Sheerin tacque per qualche secondo. Beta aveva oltrepassato lo zenith e il rettangolo rosso sangue ritagliato dalla finestra si era sollevato fino al petto di Sheerin che fissò quella macchia colo¬rata pensieroso per poi piegarsi a guardare il sole.
La tacca nera era diventata una macchia che inghiottiva più di un terzo del disco di Beta. Sheerin rabbrividì e quando si ri¬prese le sue guance erano esangui.
Con un timido sorriso di scusa tirò indietro la sedia.
«A Saro ci saranno almeno due milioni di persone che in pre¬da a una crisi di coscienza cercheranno di convertirsi al Culto». Poi in tono ironico aggiunse: «I Cultisti saranno molto orgogliosi di questa insperata pubblicità. Lei che ne dice?»
«Io mi chiedo solo come hanno fatto i Cultisti a salvare il "Li¬bro delle Rivelazioni" in tutti i vari cicli e come e quando è stato scritto. Loro devono avere una certa immunità, altrimenti, visto che tutti impazziscono, come avrebbero potuto scrivere il "Li¬bro"?»
Sheerin lo fissò con una espressione carica di dolore e di pietà.
«Senta, non ci sono testimoni oculari, ma abbiamo dei dati. Ci sono tre tipi di persone parzialmente immuni: i ciechi che non possono vedere l'eclisse e quelli che si ubriacano per tutta la du¬rata del fenomeno. Ma questi non sono certo testimoni attendibi¬li. Poi i bambini sotto i sei anni, che con la loro curiosità natura¬le non hanno paura delle Stelle né della Oscurità. Giusto?»
L'altro annuì: «Direi di sì!»
«Poi ci sono coloro che hanno menti così primitive da non po¬ter venire sconvolte in modo completo. Essendo poco sensibili, potrebbero risentirne solo in modo limitato, come i nostri vecchi contadini, abbrutiti dalle fatiche. Be', i bambini non ne conserve¬rebbero che un ricordo vago, e insieme alle chiacchiere imprecise e incoerenti di questi ultimi, costituirebbero il fondamento del "Libro delle Rivelazioni". Certo il Libro prima di tutto si basa sulla testimonianza dei bambini e di uomini di intelligenza infe¬riore. Probabilmente il Libro è stato più volte rielaborato attra¬verso i cicli».
«Crede che abbiano conservato il Libro come noi abbiamo tra¬mandato il segreto della gravitazione?»
Sheerin scrollò le spalle.
«Forse, ma non ha molta importanza. Il Libro è solo una rac¬colta di teorie sbagliate, fantasiose, anche se basate su un fatto reale. Ricorda l'esperimento fallito di Faro e Yimot...?»
«Certo!»
«Vuol sapere perché è...» Aton si stava avvicinando con la co¬sternazione sul volto. «Cos'è successo?»
Le dita del vecchio artigliarono il braccio di Sheerin.
«Piano!» sibilò Aton. «Ho appena avuto un messaggio dal Ri¬fugio».
«Guai?» chiese Sheerin.
«Be', non lì», sottolineò Aton, «la città! È un macello! Non può immaginare...» parlava a stento.
«Be'?» scattò Sheerin, «lo sa che peggiorerà! Perché trema?» Poi incalzò: «Sta bene?»
Aton sprizzò scintille di rabbia, poi si spense di nuovo e as¬sunse un'espressione ansiosa.
«I Cultisti stanno aizzando la gente per distruggere l'Osserva¬torio. Il premio è l'ingresso nella Grazia, la salvezza eterna. Che si fa?»
Sheerin fissò per terra riflettendo e poi con un gesto di nervo¬sismo rialzò gli occhi.
«Che si fa? Niente, ecco che si fa!? Lo sanno?»
«Certo che no!»
«Meglio, quanto manca alla eclisse totale?»
«Meno di un'ora».
«Dobbiamo rischiare! I Cultisti non faranno in tempo a racco¬gliere una folla tanto numerosa né a trascinarsela quassù! Siamo a cinque miglia dalla città».
Guardò dalla finestra il confine tra i campi coltivati e le case bianche della periferia. La città era una macchia indistinta, una nebbia luminosa e evanescente.
«Speriamo che l'Oscurità venga presto!! Non faranno a tempo! Continui a lavorare».
Beta era diviso in due parti di cui la parte concava riluceva. Una palpebra gigantesca che si chiudeva pigramente sul mondo.
Nella stanza non si sentì più rumore, ma solo il silenzio pal¬pabile dei campi. Anche gli insetti tacevano per la paura. Tutto diventava più buio e indistinto. Una voce ruppe l'incanto.
Theremon chiese: «Che succede?»
«Si sieda, ci siamo quasi!» tornarono tutti ai loro posti. Lo psicologo si allargò il colletto ma non riuscì a trovare sollievo.
«Difficoltà a respirare?»
Il giornalista aprì gli occhi respirando a fondo.
«No, no».
«Ho guardato troppo dalla finestra. La penombra mi ha con¬dizionato, la difficoltà respiratoria è uno dei primi sintomi della claustrofobia».
Theremon respirò di nuovo.
«Be', per ora non ne sono ancora affetto! Ah, arriva un altro!»
Beenay interruppe la luce che illuminava i due uomini e Sheerin lo guardò ansioso.
«Salve!»
L'astronomo tentò un abbozzo di sorriso, bilanciandosi sui due piedi.
«Posso sedermi qui con voi? Non ho altro da fare fino all'e¬clisse completa», s'interruppe sbirciando il Cultista che si era estratto dalla manica un libriccino in pelle nella cui lettura si era sprofondato. «Quel verme ha dato altre noie?»
Sheerin fece cenno di no e nello sforzo di respirare regolar¬mente si accigliò.
«Beenay, ha difficoltà respiratorie?»
Beenay fiutò l'aria.
«Be', non lo trovo così soffocante».
Sheerin si scusò: «Io invece sento i sintomi di claustrofobia!»
«Io li sento diversamente, mi si infossano gli occhi. Vedo con¬fusamente e ho freddo».
«Ma fa freddo, non è illusione», ribatté Theremon, «sono con¬gelato come un quarto di bue nel congelatore».
«Dobbiamo fare qualcosa per distrarci», disse Sheerin. «The¬remon le stavo dicendo del fallimento dell'esperimento di Faro».
Theremon si sentì in dovere di precisare: «Stava comincian¬do». E appoggiò il mento alle ginocchia in attesa.
«Faro e Yimot hanno fatto un errore, hanno preso alla lettera le affermazioni del Libro. Non si può attribuire alle Stelle una di¬mensione fisica, forse di fronte all'Oscurità totale ci sentiamo di dover creare luce e questa illusione sarebbero le Stelle».
«Se ho capito bene», interruppe Theremon, «lei pensa che le Stelle siano un effetto della follia e non la causa. Ma e... le foto¬grafie?»
«Dimostreranno che è pura illusione o il contrario e allora...»
Beenay, in preda a improvviso entusiasmo, avvicinò la sedia.
«Bene, era ora che affrontaste l'argomento, ho pensato a lun¬go a queste Stelle. Ho elaborato una teoria, è abbastanza vaga ma la trovo interessante. Posso esporvela?»
Nonostante sembrasse riluttante, Sheerin si appoggiò alla se¬dia e lo incoraggiò:
«Su, io la ascolto!»
«Bene, mettiamo che ci siano altri soli nell'universo», e lo disse con una specie di pudore, «soli tanto lontani da essere pratica¬mente invisibili. È un'idea fantasiosa, lo so!»
«Non direi. Comunque secondo la legge della Gravitazione do¬vrebbe rivelarsi per via dell'attrazione no?»
«No, se fossero abbastanza lontani», corresse Beenay, «magari quattro-cinque o più anni luce. In questo caso non rileveremmo alcuna perturbazione perché infinitesimali. Allora presupponiamo che esistano tantissimi soli lontani una o due dozzine, addirittu¬ra».
Theremon era eccitato.
«Uhm, magnifico suggerimento per il mio giornale. Tantissimi soli in un universo di otto anni luce di diametro! Significherebbe che noi ne conosciamo solo una parte insignificante. I miei lettori impazzirebbero!»
Beenay sogghignò: «È solo un'idea, ma durante l'eclisse questi soli diventerebbero visibili, ed essendo molto lontani sembrereb¬bero sfere piccolissime. Il Culto parla di milioni di Stelle ma que¬sta è una esagerazione. Nell'universo non c'è posto per tanti so¬li... a meno che non si trovino uno ridosso all'altro».
L'interesse di Sheerin era in aumento visibile.
«Certo Beenay, è questo il punto. È l'esagerazione l'elemento determinante; la nostra mente, lo sa, non può concepire diretta¬mente un numero superiore al cinque. Oltre al cinque ci sono so¬lo i "molti". Facile capire che una dozzina di soli può essere di¬ventata un milione. È molto plausibile!»
«Ho un'altra teoria, pensi se esistesse un solo pianeta con un unico sole, come sarebbe tutto più semplice. Il pianeta si muove¬rebbe secondo un'ellissi perfetta rendendo così indiscutibile il concetto di forza gravitazionale da farne un assioma. Il problema della gravitazione sarebbe così semplice che gli astronomi l'avreb¬bero risolto prima ancora di inventare il telescopio. Sarebbe l'os¬servazione a occhio nudo».
Sheerin resisteva coi suoi dubbi.
«Ma sarebbe stabile un sistema simile?»
«Certo. È un problema puramente matematico, ma le impli¬cazioni filosofiche sono importantissime».
«Be', mi piace questa idea», ammise Sheerin, «è una astrazio¬ne... come il gas perfetto o lo zero assoluto».
«Certo, non ci sarebbe vita su un simile pianeta, non avrebbe sufficiente luce e calore, per metà giornata ci sarebbe l'Oscurità totale e la vita che dipende soprattutto dalla luce non potrebbe svilupparsi in queste condizioni. Inoltre...»
Sheerin lo interruppe con un balzo dalla sedia.
«Aton arriva con delle torce».
«Eh?» Beenay sostituì la sorpresa con il sollievo.
Aton stringeva tra le mani una dozzina di bacchette e abbrac¬ciò con lo sguardo gli uomini riuniti nella cupola.
«Prego, continuate, Sheerin venga ad aiutarmi».
Insieme sistemarono le bacchette ai sostegni metallici alle pa¬reti.
Con aria ispirata Sheerin accese un fiammifero e Aton lo avvi¬cinò alle bacchette.
Dopo una breve esitazione un bagliore giallastro illuminò il volto di Aton. Quando questi ritrasse il fiammifero un applauso fece rintronare i vetri.
Ora in cima alle bacchette brillava una fiamma alta quindici centimetri. Una dopo l'altra vennero accese tutte e sei le bacchet¬te e un bagliore giallo si diffuse nella stanza.
La luce era fievole, più debole anche della luce ormai quasi impercettibile del sole. Le fiammelle si agitarono guizzando come vive in un gioco di ombre ubriache. Dalle torce emanava un acre odore che prendeva la gola, ma la luce gialla continuava a diffon¬dersi.
Dopo quattro ore di luce velata emanata da Beta agonizzante, ora quella luce era qualcosa di strano. Anche Latimer alzò gli oc¬chi dal libro con aria meravigliata.
Sheerin allungò le mani alla torcia vicino a lui, ignorando la caligine che danzava attorno alla fiamma e mormorò estatica¬mente:
«Meraviglioso! Non mi era mai sembrato bello il giallo, fino ad ora!»
Theremon invece guardava le torce con sospetto.
«Cos'è?» chiese con naso che accusava l'odore rancido delle torce.
Sheerin sentenziò: «Legno!»
«Oh, no non è legno. Non bruciano. La punta è carbonizzata e la fiamma sembra venire dal nulla».
«Già, è un'invenzione funzionale in effetti. Ne abbiamo fatte duecento di queste bacchette, ma per lo più sono al Rifugio». Si voltò mentre si puliva le mani con il fazzoletto. «È semplice; si tratta del midollo fibroso delle canne palustri, lo si fa seccare e lo si immerge in grasso animale. Quando gli si dà fuoco, il grasso si consuma lentamente. Bruceranno per quasi mezz'ora, non è inge¬gnoso? È un'idea di uno dei nostri ragazzi dell'Università di Sa¬ro».

Dopo la meraviglia, nella cupola era tornata la tranquillità. Latimer si era trascinato con la sedia sotto una torcia per conti¬nuare la lettura del libro, recitando monotonamente le invocazio¬ni del Libro.
Beenay era tornato alle macchine fotografiche e Theremon co¬minciava a completare i suoi appunti per l'articolo che intendeva scrivere per il giornale. Anche se si rendeva perfettamente conto dell'inutilità del suo lavoro, nelle ultime due ore si era comporta¬to così, con metodicità e lucidità.
Leggeva negli occhi divertiti di Sheerin che quel lavoro così preciso gli occupava la mente distogliendolo dalla visione del cielo ormai di un orribile e incolmabile color porpora. Infatti raggiun¬geva così lo scopo.
L'aria sembrava diventata più densa, l'oscurità del crepuscolo aveva invaso la stanza come una presenza concreta e le luci gialle delle torce si stagliavano contro il grigiore di sottofondo che au¬mentava man mano. Nella stanza erano vivi l'odore del fumo, gli scoppiettìi delle torce, dei passi silenziosi degli uomini attorno al tavolo da lavoro, dei respiri profondi di chi cercava di controllare i propri nervi mentre l'ombra lo inghiottiva.
Theremon fu il primo a captare il rumore dall'esterno. Non era propriamente un suono, ma solo un'impressione di esso, im¬materiale e sbiadita, che sarebbe passata inosservata se non fosse stato per il silenzio mortale nella stanza.
Il giornalista si raddrizzò e ripose il taccuino. Trattenendo il respiro ascoltò e poi si avvicinò alla finestra, facendosi strada tra l'elioscopio e una macchina fotografica.
Il suo grido improvviso incrinò il silenzio.
«Sheerin!»
Tutti si fermarono. Lo psicologo volò al suo fianco e anche Aton si avvicinò. Anche Yimot 70, ritto sul sedile accanto all'ocu¬lare dell'elioscopio, guardò giù.
Beta era diventato una scaglia che appariva e spariva, con uno sguardo disperato su Lagash. L'orizzonte verso la città era or¬mai inghiottito dall'Oscurità e la strada per l'Osservatorio era so¬lo un confine porpora orlato da boschi di alberi ormai resi indefi¬niti dall'ombra che li circondava.
Sulla strada si allargava una massa confusa, ma densa di mi¬naccia.
Aton gridò con voce rotta: «Quei pazzi della città! Stanno ve¬nendo qui!»
Sheerin si informò: «Quanto manca all'eclisse totale?»
«Quindici minuti, ma quelli arriveranno prima!»
«Pazienza. Dica agli uomini di continuare col lavoro. Chiude¬remo fuori quei folli, questo Osservatorio è una fortezza. Aton, tenga d'occhio il Cultista. Theremon venga con me».

Theremon si affrettò dietro Sheerin che era già fuori. Le scale si schiudevano in una spirale attorno al pilastro centrale, affon¬date in un grigiore desolato.
Lo slancio iniziale li portò quindici metri in basso, senza più il conforto del chiarore fluttuante filtrato dalla porta. Tutt'attorno, sopra e sotto solo buio infinito e deprimente.
Sheerin si bloccò premendosi il petto con la mano. Sentiva gli occhi schizzargli dalle orbite e colpi di tosse gli spezzavano la vo¬ce.
«Non respiro... scenda... da solo. Chiuda tutte le porte...»
Theremon dopo aver sceso qualche scalino ancora si voltò.
«Aspetti! Resista ancora un minuto!» Anche lui ansimava espellendo e inghiottendo l'aria che sembrava diventata densa co¬me melassa. Nella sua mente il germe del terrore si affacciava al¬la prospettiva di farsi strada da solo nell'Oscurità.
Theremon aveva paura del buio!
«Resti qui! Torno subito», disse.
Con il cuore in gola non solo per lo sforzo, risalì due gradini per volta verso la cupola e strappò una torcia. Il fumo lo acceca¬va e l'odore gli mozzava il respiro, ma abbrancò la torcia con im¬peto. La fiamma si allungò dietro Theremon che ridiscendeva le scale.
Si piegò su Sheerin che aprì gli occhi gemendo.
«Su, si faccia forza», lo scrollò Theremon con forza, «adesso abbiamo luce!»
Alzando la torcia prese lo psicologo per un braccio e riprese a scendere protetto dalla luce.
Gli ultimi bagliori di Beta illuminavano a stento gli uffici al pianterreno e Theremon si risentì afferrare dall'orrore.
Bruscamente passò la torcia a Sheerin: «Ecco, adesso si sento¬no bene».
Erano grida mozze e rauche.
Ma come aveva detto Sheerin l'Osservatorio era una fortezza. Era del secolo precedente, all'apice dello stile neo-gavotiano ed era stato costruito per obbedire a criteri di solidità piuttosto che a canoni estetici.
Inferriate d'acciaio spesse un pollice e incassate nel muro pro¬teggevano le finestre. I muri erano così solidi che nemmeno un terremoto avrebbe potuto incrinarli. La porta principale era un immenso battente in quercia rinforzato da strisce di ferro. Theremon fece scivolare i catenacci nei loro anelli.
Sheerin dall'altra estremità del corridoio imprecò contro la serratura che era stata resa inutilizzabile.
«Dev'essere stato Latimer, quando è venuto!»
Theremon spazientito lo incitò: «Non se ne stia lì, mi aiuti a barricare l'ingresso. E mi tenga lontano quella torcia. Quel fumo mi uccide».
Un tavolo fu spinto contro la porta e poco dopo aveva eretto una barricata massiccia.
Da fuori, come ovattato, giunse il rumore dei pugni che si ab¬battevano sulla porta. E le urla sembravano quasi irreali e remo¬te.
I folli della Città di Saro volevano solo due cose: la salvezza eterna promessa dai Cultisti a prezzo della distruzione dell'Osser¬vatorio e smaltire il terrore folle che li aveva sconvolti. Non po¬tendo disporre di carri o armi o una specie di organizzazione, si erano avviati all'Osservatorio a piedi, armati solo delle loro mani nude.
Ora davanti all'Osservatorio l'ultima luce di Beta, l'ultimo bagliore sanguigno, balenava sopra una massa di uomini total¬mente in preda a un ancestrale e universale terrore.
Theremon gemette: «Alla cupola!»

Nella cupola solo Yimot, sempre all'elioscopio, era al suo po¬sto. Gli altri si erano adunati attorno alle macchine fotografiche. Beenay dava istruzioni con voce tesa.
«Mi raccomando, fate tutto come si deve. Io scatterò un'im¬magine di Beta immediatamente prima dell'eclisse totale e poi cambierò lastra. Ognuno di voi badi alla propria macchina. Sa¬pete tutto...»
Gli rispose un lieve mormorio di consenso.
Beenay si passò una mano sugli occhi.
«Le torce bruciano? Le vedo, le vedo». Si rilassò contro la spalliera di una sedia. «Ricordate: non preoccupatevi di fare foto¬grafie sensazionali. Non cercate di inquadrare le stelle due per volta. Ne basta una e... se vi sentite male... allontanatevi!»
Sheerin ordinò a Theremon: «Mi porti da Aton, non lo vedo».
Il giornalista tacque. Gli astronomi erano ombre indistinte che ondeggiavano nelle torce ormai ridotte a macchie di luce che brillavano sulle loro teste.
«È buio!»
Sheerin gli tese la mano.
«Aton!» e inciampò avanzando. «Aton!»
Theremon gli andò dietro prendendolo per il braccio.
«Aspetti, la guido io». Riuscì ad attraversare la stanza con gli occhi chiusi per non dover vedere l'Oscurità, e scacciando dalla propria mente l'idea del caos connesso al buio totale.
Nessuno gli prestò attenzione. Sheerin urtò il muro.
«Aton!»
Due mani tremanti e incerte toccarono lo psicologo poi si ri¬trassero e una voce mormorò: «Sheerin, è lei?»
«Aton!» cercò di controllare il respiro. «Non si preoccupi, sa l'Osservatorio è una fortezza!»

Latimer, il Cultista, si alzò col viso contorto in una smorfia disperata. Aveva dato la sua parola e non avrebbe potuto infran¬gerla a meno di esporre la sua anima a pericolo mortale. Nono¬stante la parola gli fosse stata estorta, ma presto sarebbero arri¬vate le Stelle e lui non poteva restare immobile e lasciare... ma aveva dato la parola.
Latimer vide Beenay chino sulla macchina fotografica, il volto dipinto di un rosso cupo. Si decise, conficcandosi le unghie nei palmi.
Barcollò e iniziò a correre, verso l'ombra che gli si apriva da¬vanti. Anche il pavimento non era che ombra, immateriale, qual¬cuno gli balzò addosso e gli strinse la gola con dita contratte.
Latimer rialzò le ginocchia colpendo l'avversario invisibile.
Rantolò al buio: «Mollami o ti ammazzo!»
Theremon urlò.
«Lurida bestia schifosa!» mugolò dalla nebbia di dolore che lo accecava.
Nello stesso istante il giornalista realizzava perfettamente ciò che succedeva attorno.
Udì il grido di Beenay:
«Ho fatto la fotografia! Tutti alle vostre macchine!» Poi tutti si accorsero che l'ultimo spicchio di luce solare si era ulteriormente assottigliato ed era sparito.
Contemporaneamente udì il rantolo di Beenay, il gemito stri¬dulo di Sheerin, una risatina isterica che si spezzò e poi il silen¬zio, improvviso e strano e mortale che si stendeva sulla folla fuo¬ri. Latimer si era afflosciato sotto la stretta che ora si allentava. Theremon guardò gli occhi del Cultista, aperti e vuoti verso l'alto riflettenti il barlume giallo delle torce. All'angolo della bocca ave¬va una bolla di saliva e dalla gola gli uscì un rantolo animale.
Affascinato si alzò puntandosi su un braccio e guardò l'orrore nero oltre le finestre.
E vide le Stelle.
Non erano le tremilaseicento stelle lontane, visibili dalla Terra a occhio nudo. Lagash era al centro di un enorme ammasso stel¬lare. Trentamila soli brillavano in un fulgore agghiacciante e ineffabile, più spaventoso proprio per la sua totale indifferenza, del vento che rabbrividiva sulla terra fredda e buia.
Theremon si rialzò barcollando, col respiro mozzato da una stretta alla gola, i muscoli contorti nella tensione di un terrore che superava qualsiasi soglia di sopportazione.
Stava impazzendo e lo sapeva, e dalla sua mente un ultimo barlume di lucidità lottava contro il terrore irrefrenabile e dispe¬rato. Era orribile impazzire e saperlo, per qualche istante avrebbe conservata la coscienza e poi la sua identità sarebbe stata travolta e uccisa dalla follia. Questa era l'Oscurità, il Gelo e il Destino. Le mura dell'universo si erano schiacciate e le macerie nere crol¬lavano per distruggerlo e seppellirlo.
Urtò qualcuno che strisciava verso di lui. ma continuò, con le mani strette alla gola, barcollando verso le torce che riempivano la sua visuale.
«Luce», gridò.
Aton piangeva, lamentandosi come un bambino agonizzante di paura.
«Le Stelle... tutte le Stelle. E non le conoscevamo, non ne sa¬pevamo nulla, credevamo esistessero solo sei soli e invece ci sono le Stelle e l'Oscurità per sempre... le mura si spezzano e non sa¬pevamo e non potevamo sapere...»
Qualcuno brandì una torcia che cadde e morì. Allora il gelido splendore delle Stelle indifferenti si avvicinò di colpo.
Al di là della finestra, all'orizzonte, verso la Città di Saro, si alzò un bagliore porpora che aumentava di intensità e di volume, ma non era un sole che si levava.
Era discesa di nuovo la lunga notte.