LA TRAPPOLA
Friedrich Dürrenmatt
È questa, come altre di questa raccolta, una storia di un vero e proprio viaggio in una realtà allucinata, con situazioni palesemente kafkiane e al limite dell’assurdo. L’incubo descritto nel racconto La trappola, è quello del protagonista che si ritrova a scendere, insieme a molte altre persone, una lunga scala che sprofonda negli abissi, ma quando si rende conto che la stessa termina in un mare di fuoco cerca disperatamente, in ogni modo e con tutte le sue forze, di risalire verso l’alto. La descrizione è talmente angosciante da provocare quasi una reazione claustrofobica in chi legge..
LA TRAPPOLA
Fu per strada che colsi la prima volta, in mezzo alla folla, il suo sguardo. Mi fermai: però quando mi girai, non notai nessuno intento a osservarmi. Mi passavano accanto solo le persone che si riversano nei tardi pomeriggi per le strade delle città: uomini d'a3ffari che si disperdevano nei locali pubblici, innamorati davanti alle vetrine, donne con bambini, studenti, prostitute al loro primo, ancora esitante giro in attesa del sopraggiungere della sera, e scolari che uscivano a frotte dalle scuole; tuttavia, da quel momento, la certezza di essere seguito da lui non mi lasciò più. Spesso trasalivo nell'uscire di casa, perché sapevo che ora anche lui lasciava l'androne in cui si nascondeva, oppure il lampione al quale si appoggiava, piegava il giornale che stava in apparenza leggendo, deciso a riprendere l'inseguimento, a volte girandomi attorno, per poi cercare un nuovo nascondiglio quando mi fermavo inopinatamente. Spesso sono anche rimasto fermo per delle ore nello stesso posto, immobile, oppure ho percorso a ritroso una strada per incontrarlo. Poi, sia pur settimane dopo, abituato alla vaga paura che m'incuteva, cominciai a tendere delle trappole, e a questo punto la selvaggina si fece essa stessa cacciatore. Però era più abile di me e continuò a sfuggire ai miei tranelli, finché una notte il caso mi offrì la possibilità di bloccarlo. Ero sceso in fretta dall'antico centro della città. Erano accese solo poche luci. Le stelle brillavano con una intensità paurosa benché l'alba non fosse lontana. Ero uscito dai portici e avevo attraversato un incrocio quando mi bloccai, disorientato dalla nebbia che si levava proprio dinnanzi a me, un'indefinita, fitta parete di vetro in cui le stelle affondavano guizzanti. In quell'attimo di sosta udii per la prima volta alle mie spalle i suoi passi. Erano come i miei, resi simili con un'abilità tale che non avrei saputo distinguerli dall'eco dei miei. Erano così vicini che dentro di me vidi la sua figura uscire dall'arco dei portici sulla strada meglio illuminata. A questo punto però quello sconosciuto arretrò spaventato. Scorse la mia silhouette stagliarsi nella nebbia. Rimase interdetto di fronte a me, nell'arco dei portici, invisibile nell'ombra. Quando mi mossi lentamente verso di lui, si girò di scatto e io avanzai allora rapido verso l'arcata. Speravo di vedere lo sconosciuto quando fosse uscito dal buio alla luce del lampione che ardeva in alto. Lui arretrò però in un vicoletto che si esauriva a ridosso d'una porta, e fu la sua stessa fuga a farlo cadere in mio potere. Lo udii sbattere contro la porta e scuotere la maniglia mentre io mi fermavo allo sbocco del vicolo. Aveva il respiro pesante e affrettato. «Chi è lei?» domandai. Non rispose.
«Perché mi segue?» domandai ancora. Rimase zitto. Stavamo fermi e fuori di lì l'alba stava già spuntando nel diradarsi della nebbia. Un po' per volta scorsi nel buio del vicolo una figura scura, le braccia come in croce sulla porta. Tuttavia mi fu impossibile entrare nel vicolo. Fra me e quell'uomo che alla vista dell'incerto mattino si era addossato con le spalle alla porta c'era un abisso che non osai varcare, perché non avremmo potuto incontrarci come fratelli, ma come l'assassino incontra la sua vittima. Lo lasciai perdere quindi, e me ne andai senza curarmi oltre di lui.
Nel cercare di riferire ora l'evento decisivo della sua vita, posso solo rifarmi al suo racconto, anche se allora mi sono sforzato di leggere dall'intonazione delle sue parole e dai movimenti delle sue mani molto di ciò che non mi disse quella notte d'estate in cui mi si rivelò la sua sorte. Si avvicinò al mio tavolo sotto gli alberi folti, lì dove le luci della città e del grande ponte penetravano fra i tronchi, e quando vidi la sua faccia seppi di fissare gli occhi dell'uomo che mi seguiva.
«Le sono debitore d'una spiegazione, signore,» cominciò, sedendosi, «tanto più che non le ho risposto quando mi ha rivolto la parola.»
Ordinò un Pernod e lo vuotò d'un fiato: «Io l'ho seguita,» proseguì, «e ho fatto anche di più: mi sono occupato d'ogni ora della sua vita, ho studiato le sue tracce.»
«Le mie tracce?» risposi, disorientato.
«Ognuno lascia tracce. Noi siamo selvaggina cui si dà la caccia e che un giorno sarà abbattuta. Non ho studiato solo lei, dove abita, quel che mangia, cosa legge, come esercita la sua professione, ho osservato anche i suoi amici.»
«Cosa vuole?» chiesi.
«Voglio raccontarle la mia vita,» rispose.
«Per questo mi ha seguito?»
«Naturalmente,» sorrise. «Io devo potermi fidare di colui al quale racconto la mia vita. Devo conoscerlo come me stesso. Venga!» Ci alzammo, e lui continuò a parlare. Il suo modo di discorrere aveva un suono strano. Parlava come uno che avesse buttato via se stesso, indifferente, ridendo anche a volte, eppure la grandiosità della sua disperazione era sconvolgente. Stemmo insieme solo per breve tempo, ma si calò in me al punto che oggi ancora turba i miei sogni. Rivedo allora il suo volto mutare stranamente mentre camminavamo per le strade della nostra città, nel senso che pareva infrangersi, come aprirsi dall'interno.
Non mi raccontò chi lo aveva messo al mondo, né chi fosse suo padre, tacque anche sulla professione che esercitava, e non ho neanche mai saputo il suo nome; tuttavia doveva essere un alto funzionario. Mi spiegò com'era stato traviato, non dall'oro o da una donna, ma solo da se stesso. Era la morte che lo avvinceva, la morte che gli apparteneva come un braccio appartiene al corpo o un occhio al volto, e lui però era convinto di possedere come possediamo una carta giocata nella convinzione che abbia un valore decisivo. Ma quella carta era falsa, perché in realtà era la paura di morire ad agitarlo, una paura che seppelliva così a fondo in se stesso da ritenere d'amare ciò che temeva, ed era disperato perché non riusciva a superarla. Ho visto la sua fronte e le sue mani, e so che non si è mai rallegrato all'idea di morire. Era deciso, fin da giovane, a suicidarsi. Studiava la morte, comperava armi, confezionava i veleni più singolari, s'era costruito una ghigliottina. Giocò con la morte finché perse al gioco se stesso e la sua vita divenne menzogna, però sperava di liberarsi mediante un omicidio e di sfuggire così alla paura che una mattina lo aveva indotto a lasciare il suo ufficio, a incamminarsi in cerca del luogo della sua morte.
Quel pomeriggio, risoluto a uccidersi, lasciò così tardi il tiepido vagone che l'aveva avvolto coi finestrini ghiacciati, da non riuscire quasi più a gettare un'occhiata alle basse colline attorno, perché la notte era scesa presto e rapidamente. Nei pressi della stazione, nella penombra, c'erano alcune case simili ad animali addormentati, e neve sulla strada e la gialla luce d'un lampione, gli sembrava di muoversi in sogno. Cominciò così il periodo che trascorse in un piccolo villaggio di frontiera, fra le colline e lungo il fiume, perso nei bianchi giorni invernali, avvolto da un silenzio sinistro in cui affondò la sua esistenza. Risalì le colline e seguì sulle ondulate creste dei monti gli altipiani che si estendevano, coi loro boschi d'abeti innevati e i loro villaggi sperduti, sullo sfondo di lontane montagne. Camminò per ore e ore nel buio misterioso, e di notte il vento lo colpiva con rapidi dardi. Il piede calcava la neve vetrosa su cui si posava, grande e blu, la sua ombra. Gli alberi si levavano neri dinnanzi al cielo bianco, e di tanto in tanto gli si faceva incontro una persona, avvolta stretta nella folta pelliccia, gli occhi socchiusi nel volto arrossato. Talvolta sostava anche sul ponte sospeso sul fiume che scorreva torbido sotto di lui, trascinando ghiaccio e pezzi di legno marcito. Poi risaliva la strada invernale diretta a settentrione, dove uccelli neri gli svolazzavano attorno sfiorandolo con le loro ali. Più di rado si soffermava nel villaggio e osservava la gente. Se ne stava infreddolito fra le case rade lungo la strada, un villaggio senza chiesa e senza cimitero, senza centro e senza forma. Vide uomini seduti chini e diffidenti in luride spelonche. Il villaggio era pieno di stranieri di cui nessuno sapeva origini e destinazione, quali intenzioni avevano e che strana lingua parlavano fra di loro. Avvolti nei mantelli a grandi scacchi, stavano a gambe larghe, ostentatamente, in mezzo alla strada, e portavano anelli d'oro con diamanti scintillanti alle dita. Spesso cercavano d'aggirare la postazione di confine corrompendo i guardiani accovacciati ai loro posti o intenti a bere in fondo al buio delle taverne, uomini che si vedevano nel villaggio solo quando barcollavano ubriachi sulle strade per raggiungere donne coricate in piccole camere sotto i tetti, avide e bianche, leccate dalla luna che strisciava sui loro corpi. Poi, improvvise, sopraggiunsero le notti piene di sangue. Riecheggiavano di brevi, secchi colpi di fucile, e udì grida spegnersi lentamente nei boschi, eppure assistette a tutto questo solo da lontano e senza partecipazione. Pensava alla sua morte, godendola sempre più a fondo, e si lasciò trascinare dagli eventi. Penetrò nel bosco attraversato dal confine. Gli abeti avevano tronchi ritti, e sotto la neve si celava muschio bianco. Fra i tronchi traspariva una roccia su cui salì. Ai suoi piedi si estendeva una radura, avvolta nella solitudine del bosco invernale. Qualche volta dei caprioli varcavano leggeri e attenti alla superfice, oppure un rapace si librava verso gli alti abeti, e l'ombra scivolava rapida sulla neve mentre il vento soffiava fin lì dal bosco il grido di un animale. Una volta tuttavia, poco prima del tramonto, un uomo irruppe fuori dai rami e corse oltre la radura che lo circondava di bianco chiarore. Uno sparo tagliò il silenzio. L'uomo allargò le braccia e cadde nella neve come preso da un vortice. Giacque poi come una scura e informe massa in mezzo al campo, le mani affondate nella neve, e qualcosa sgorgò da lui, nero inizialmente nel dilagare sulla superfice candida, infine però d'un rosso brillante, ed egli seppe ora che lì dove giaceva quell'infelice, proprio in mezzo al suo corpo, correva il confine, fattosi visibile mediante il cerchio di sangue che circondava il morto.
La notte seguente credette poi d'essere prossimo all'ora della sua morte. Si avviò, ma era giorno ormai quando arrivò alla radura. Pendeva ghiaccio dai rami e quando si fece largo fra gli ultimi cespugli, vide da lontano il morto che vi era disteso. La neve gli si chiuse attorno ai piedi quando s'inoltrò nel campo. Al di là degli abeti, a lui invisibile, era sorto il sole, perché il cielo scintillava d'una luce abbagliante. Il freddo gli penetrava il mantello e gli abiti, gli bruciava la pelle. L'uomo giaceva nella neve con la faccia all'ingiù. Il sangue non si vedeva più e sulla figura immobile si era anche formato un sottile strato vetroso. Si fermò a capo chino davanti al morto e aspettò che la pallottola arrivasse dai tronchi bui. Stette tutto il giorno davanti al cadavere. L'umidità lo penetrò. A tratti il sole si mostrava grande e rosso sulla radura, poi però affondava di nuovo dietro gli abeti, per irromperne ancora fuori, sprofondare di nuovo, continuamente. Stette ore e ore nella luce mutevole, immobile, aspettando con ansia la morte, come si aspetta un'amica. Poi gli parve che nella neve gli si avvicinassero dei passi. Quando alzò gli occhi, al di là del confine c'era una donna, di fronte a lui, dall'altra parte del morto.
«Chi sei?» le chiese.
«Sono la sua donna,» rispose quella, sorrise e toccò il morto col piede. Rimasero in silenzio.
«Non sei triste?» chiese infine lui.
«No,» rispose quella. Poi si chinò e tolse un anello dalla mano contratta del morto, aprendola a fatica. «Non ne ha più bisogno,» disse nel farlo.
«Da dove vieni?» le chiese dopo un po'.
«Dal villaggio,» rispose, e indicò alle sue spalle, nella direzione dove lui sapeva fosse, oltre il confine, un villaggio. «E tu cosa fai qui?» Lui disse:
«Voglio uccidermi.»
«A che scopo?» chiese.
«Perché amo la morte.»
«Sei un boia?» rise lei.
«Hai ragione,» rispose, «sono un boia.» Si guardarono l'un l'altro, due volti bianchi fra le ombre che s'infittivano.
«Il sole tramonta,» disse lei, «vuoi venire con me?»
«Vengo con te,» rispose, e scavalcò il morto. Lei lo precedeva di pochi passi. Al di là del confine il bosco era più rado, i tronchi però ancor più imponenti e più numerosa la selvaggina. Una volta un colpo di fucile cadde vicinissimo davanti a lui, però lei non cambiò la sua tranquilla andatura e solo più tardi s'accorse che la fronte di lei sanguinava. Quand'ebbero lasciato il bosco, emersero sotto di loro le luci e i contorni d'un villaggio; stavano camminando fra il giorno e la notte. Il paese si estendeva ondulato ai loro piedi e due corvi li accompagnarono nel tramonto coi loro becchi d'osso. «Sempre questi uccelli,» pensò lui, «mi svolazzano sempre attorno gli amici dell'animo mio, gli uccelli dei morti.»
Alcuni cani abbaiarono e un cavallo nitrì. Raggiunsero il villaggio straniero. Le case erano addossate attorno a una chiesa, e sulla piazza, nella notte incipiente, risaltava una fontana, vecchia e cadente. Era coperta di ghiaccio tanto che la superfice sembrava uno specchio, però non vide la sua faccia quando si chinò sulla superfice lucida.
«Non c'è nessuno qui?» chiese e si guardò attorno.
«Sono nei boschi,» disse la donna e camminò sulla neve verso una casa. Salirono una scala addossata al lato più lungo dell'edificio; dalla grondaia pendevano ghiaccioli lunghi alcuni metri, e la porta si aprì solo a fatica. «Dammi la mano» gli intimò la donna quando lui non riuscì più a scorgerla nel buio della porta. Lo guidò all'interno della casa, attraverso corridoi e lungo altre scale. Procedettero nel buio assoluto, non vide nemmeno contorni di finestre e gli parve d'essere penetrato nel cuore di tutte le cose.
La casa doveva essere vecchia, perché il legno su cui camminava cedeva a volte sotto il piede. Una porta gli si chiuse alle spalle. La donna gli abbandonò la mano e lui rimase solo. Ne udì i passi. Poi si fermò anche lei. Il bagliore d'un fiammifero, e lei accese una candela. Si trovavano in un piccolo ambiente. Le finestre erano sbarrate da spesse assi. In mezzo alla stanza c'era un grande tavolo grezzo su cui poggiava la candela. Davanti al tavolo c'era una sedia, e a ridosso della parete un letto, e non c'era altro in quella stanza, non uno specchio, un quadro, un armadio, solo legno antico, ovunque guardasse, nudo e grezzo, con fibre che scorrevano come vene sulle superfici, confondendosi coll'ombra sua e con quella di lei.
«Questa è la stanza della mia morte,» pensò, «proprio come me l'aspettavo,» e guardò verso la donna.
«Voglio morire insieme a lei,» pensò ancora, «non ha senso andarsene da soli.» Poi rise.
«Perché ridi?» chiese la donna.
«Rido perché è tutto così semplice,» rispose, e tacque. Ora sapeva cosa aveva fatto per tutta la vita, perché era venuto nel solitario villaggio sul confine, in quel paese pieno di neve e di boschi, abbandonando tutto quello che aveva, la posizione, la stima di cui godeva, il denaro, e anche perché aveva continuato a rinviare la sua morte: cercava la persona con cui morire.
Quando poi il respiro di lei si fece più calmo e il corpo, sfinito, si sciolse dal suo, sprofondò come lei in un sonno improvviso e fece un sogno. Si trovava su una scala che scendeva nella notte. La scala era larga, senza una ringhiera né altro a delimitarla, pareva una superfice inclinata, estesa su ogni lato all'infinito. Gli scalini erano di granito bagnato. Sui pianerottoli che interrompevano la scalinata s'erano raccolte delle pozzanghere. La notte posava senza chiarore sulle pietre, e dava la sensazione di muoversi in una profonda oscurità. Riusciva tuttavia a penetrare il buio per cinquanta gradini circa verso l'alto e verso il basso, come se avesse occhi capaci di vedere senza luci, fatto che l'inquietò. C'era gente accalcata, sotto di lui, alla sua altezza e sopra di lui, in numero immenso. Era stretto nel mezzo, come in una corrente, onda fra onde, e seppe che dall'inizio dei tempi faceva parte di quella corrente e il suo tragitto doveva essere una continua discesa nella profondità che aveva dinnanzi. Scese, lungo scalini e piccoli slarghi, sempre più giù, passando accanto a lampioni che svettavano senza luce, obliqui nel vuoto. Con lui scendevano donne consunte dal tormento dei parti, i capelli sparsi a larghe ciocche sui corpi magri. Bambini emettevano grida violente e strane. Accanto a lui degli uomini pronunciavano parole incomprensibili e compivano sempre gli stessi movimenti circolari con le braccia simili a pale di mulini a vento. Passò accanto a gente rannicchiata a mani giunte sui gradini, rivolta verso il fondo, e che si levava poi di scatto con grida acute. Scese senza paura, come si percorre tranquilli una strada nota, però col passare del tempo un cambiamento della profondità lo rese insicuro. Notò, nello smarrirsi sconfinato dell'abisso verso cui scendeva la scala, un riverbero lontano che aumentava d'intensità con la discesa, però la folla non ne era consapevole; gli andava incontro imperterrita. A ondate. Solo di tanto in tanto vedeva su alcune facce balenare la paura. Scese così verso il chiarore crescente, come attraverso i secoli, fissando affascinato quello che l'abisso lentamente gli svelava. Coli intensificarsi della luce che irrompeva dal basso come una nuvola rossa, il quadro mutò lentamente. Se fino a quel momento s'era prospettata ai suoi occhi soltanto una massa indistinta che sprofondava nell'oscurità, e solo i più vicini erano stati chiaramente visibili, ora le silhouette delle persone spiccavano con nitidezza estrema sullo sfondo. Anche altri dovevano aver visto la luce, perché constatò che a tratti qualcuno non seguiva il movimento della folla, ma tornava a salire senza esserne impedito. Si delineò con sempre maggiore evidenza un immenso mare di fuoco in cui la massa si riversava. Vide sfere di gas ardente levarsi dal fondo e protuberanze emergere come fiori di fuoco dalla schiuma della lava fiammeggiante. Grida e lamenti provenivano di laggiù, e vide mani serrate convulsamente levarsi maledicenti al cielo che gravava immobile sul tutto, senza sole o luna, nero manto sacerdotale a coprire una ferita bruciante. Eppure la folla non si bloccò, anche se aumentava il numero di coloro che risalivano. La gente che gli era accanto e sopra accelerava il passo a occhi chiusi, trascinava con sé quelli che erano più giù e si tuffava incontro alle grida crescenti di coloro che erano già lambiti dalle fiamme. Quand'ecco, notò con orrore una figura risalire veloce, fendendo con braccia poderose la corrente della massa che gli urgeva incontro. E quando l'uomo gli passò accanto rapido, muto, diretto verso l'alto, credette di scorgere abiti carbonizzati e mani e piedi coperti d'ustioni. L'emergere e lo scomparire di quell'uomo lo scosse. Si vide in una situazione disperata e capì di dover agire, se voleva salvarsi. Si fermò e poi si girò, con improvvisa determinazione. Sul momento credette di essere schiacciato dall'enorme massa di gente che gli si ammucchiava dinnanzi, contro l'infinità del cielo, piramide di teste, corpi e membra, poi però risalì, un gradino, un secondo, altri ancora. Dall'alto gli si facevano incontro le facce della gente su cui il riverbero del fuoco si rispecchiava come sangue, e alcune volte fu in procinto di desistere, tanto tremenda era quella visione, però continuò a salire, sempre più in su. Ogni tanto scorgeva qualcuno sussultare nel vederlo, girarsi e risalire di corsa la scala accanto a lui, ansante, per poi cominciare a voltarsi con un grido lacerante e optare di nuovo per la strada che conduceva verso il basso. Da sopra gli si facevano incontro schiere sempre più fitte, e dovette spesso fendere la folla con ambo le braccia, eppure gli pareva che il riverbero del fuoco sulle facce non fosse più così intenso. Salì più lentamente, e col tempo la massa di gente che si precipitava giù si diradò. Notò anche che non erano più vestiti come lui, avevano abiti di foggia più antica dei suoi, ed eccone già alcuni con indumenti che s'indossavano nel medioevo. Man mano che progrediva verso l'alto, era come se risalisse nel tempo.
Quando più tardi si voltò, del mare di fuoco si scorgeva ancora solo un debole lume a una indistinguibile profondità. La gente si fece meno numerosa. Quella che gli fluiva incontro ora non era più una corrente compatta. Gli sembrò anche di veder scendere di nuovo taluni di quelli che aveva già visto salire, perché indossavano abiti come i suoi. Apparvero le prime vesti dell'antichità, toghe romane e manti greci. Si delinearono chiaramente dei gruppi, sempre più distanziati. Se prima gli intervalli erano stati come brecce casuali in una massa ininterrotta, ora scorgeva gruppi compatti che non superavano le venti persone. S'accorse che gli individui d'ogni gruppo avevano affinità fra di loro. Gli indumenti divennero strani. Ne vide spesso di un tipo che non aveva mai immaginato. S'immergevano nell'abisso come monili colorati. Cominciò a notare singoli individui, e anche l'aspetto della scala era cambiato. Il lontano riverbero aveva ceduto al buio della notte, che si infittiva verso l'alto. Continuò a salire. Della scala si scorgevano ormai solo i dieci scalini d'uno spazio fiocamente illuminato dove la gente entrava e usciva silenziosa, come sorta dal nulla e sospinta nel nulla. I lamenti erano svaniti da tempo e il suo orecchio percepiva solo l'eco monotona dei passi che s'affrettavano verso il basso. I gruppi si dissolsero e gli si fecero incontro ora individui che scendevano da soli, coperti di pelli e di pellicce. Gli passò così accanto l'umanità, diretta verso il fondo. Vennero gli ultimi. Orde scure, nude e ammassate come animali. Accadeva spesso che fosse a lungo solo, senza vedere nessuno. Se però restava immobile e tendeva l'orecchio nella notte, udiva altri passi ancora avvicinarsi dall'alto. Gli passarono accanto anche molti che non poté vedere, perché la scala era sconfinata anche in larghezza, ora se ne accorgeva, e immaginava, da qualche parte nell'infinità dello spazio, alla sua stessa altezza, un uomo in procinto di salire, il suo sosia, con lo sguardo fisso come il suo sui gradini della scala. La notte lo avvolgeva come un cerchio, tanto che scorgeva solo quando gli erano a ridosso quelli che ancora scendevano, con teste enormi in cui gli occhi erano infissi come bianche pietre e le cui basse fronti sporgevano come pugni, creature simili ad animali, confusamente sparse nel buio dei tempi primordiali. Poi scomparvero anche loro. Saliva senza più incontrare nessuno che gli venisse incontro dall'alto, e quando si fermava, come ora avveniva sempre più spesso, non sentiva più passi avvicinarsi. Dal basso soltanto giungeva l'eco lontana di quelli che gli erano passati accanto, ma dopo qualche tempo tutto sprofondò nell'indicibile lontananza dell'abisso. Era circondato dal vuoto. Barcollò. Ma in quell'attimo udì passi avvicinarsi dall'alto a velocità crescente, come d'un sasso in caduta. Interruppe la salita e guardò in alto, dove la notte s'infittiva in un muro impenetrabile e muto da cui gli precipitavano ora incontro quei passi. Ed ecco emergere davanti a lui quell'uomo, scagliato come una freccia dalle fauci dell'oscurità. Le mani carbonizzate levate al cielo in un gesto di orrore infinito. Lui rimase immobile. Lo sconosciuto forsennato, parve sul punto di scontrarsi con lui. Invece, attirato dalla profondità, andò a sbattere la faccia sul granito, si girò, per scomparire poi giù in fondo sotto di lui nella notte, scivolando rapidissimo lungo le scale incontro all'abisso, steso sulla schiena, la testa all'ingiù. Adesso era solo. Continuò a salire, faticosamente, perché il vuoto lo disorientava. Avrebbe preferito muoversi nell'oscurità completa, perché la singolare trasparenza della notte gli paralizzava i movimenti. Non c'era altro, all'infuori di se stesso, ad ostacolarlo nella salita. Gli parve d'essere all'interno di un immenso meccanismo a pedale, fatto di pietra. Si sforzò di concentrare i pensieri su qualcosa. Tentò di osservarsi il corpo e di attenersi così a qualcosa d'oggettivo. Notò come il piede, salendo, diventava visibile sotto il ginocchio proteso, rimaneva brevemente nel campo visivo e spariva poi di nuovo sotto il corpo. Si sentì estraneo a se stesso e strano come un insetto, i suoi movimenti gli parevano quelli d'una macchina irreale. Alzò di nuovo lo sguardo verso la notte. Saliva senza fine nello spazio vuoto e nel tempo vuoto. Aveva pensieri angosciosi. Pensò che la scala potesse cessare inopinatamente, tanto da dover scorgere verticalmente sotto di sé le nuvole rosse raccolte in fondo all'abisso. Questa supposizione gli divenne un tormento insopportabile, benché nulla stesse a indicare che fosse possibile. Era abbandonato a se stesso. Lo deprimeva anche il pensiero di non poter sperare nulla di preciso da quella sua salita. Credeva bensì di veder finire la scala e di giunger lì da dove venivano tutti gli uomini, però i suoi pensieri si confondevano perché non capiva cosa avesse costretto gli uomini a intraprendere quella spaventosa discesa. La monotonia della scala gli distrusse la presenza di spirito, e il lattiginoso chiarore del buio disteso sui gradini, il granito bagnato e l'eco sempre uguale dei suoi passi gli attanagliarono l'animo. Sparirono i pianerottoli che avevano di tanto in tanto interrotto la salita e offerto un diversivo perché non erano disposti regolarmente e veniva voglia di contare gli scalini fra l'uno e l'altro: la scala saliva ora uniformemente. Più volte percorse orizzontalmente uno stesso gradino a destra e a manca, spesso per delle ore, senza trovarne la fine. Una volta gli parve d'udire dei passi lontani, ma erano così distanti che l'eco svanì. Disperato, salì di corsa la scala, di traverso, gridando a gran voce per trattenere quello che stava forse scendendo da qualche parte. Voleva chiedergli perché lo faceva, e pregarlo di salire con lui, per salvarsi entrambi, però si bloccò, coperto di sudore e col fiato corto. Avvertì il freddo dei massi squadrati sotto i piedi e il gelo dell'infinito sulla fronte. Ricominciò a salire. Guardava col collo teso innanzi a sé e teneva il tronco molto piegato in avanti. Le braccia gli si muovevano a casaccio e i piedi incespicavano. Saliva irregolarmente e durante la salita la paura cresceva lentamente rafforzandosi a ogni passo. Cadde e si rialzò, a fatica, sanguinante, poi cadde ancora. Rimase disteso a lungo, il volto premuto sul granito bagnato che gli inzuppava gli abiti. Più tardi strisciò attorno come un animale, poi salì ancora qualche gradino incontro all'orrore crescente. La solitudine era come una pietra, era come certe stelle morte, immense e senza luce nella loro spietata densità fatta d'atomi compressi. Il vuoto gli si appiccicava addosso, era risucchiato dalle esangui fauci del nulla. Si fermò. Ogni ulteriore passo non aveva più senso, era come star fermo. Non rimaneva che una sola scelta sensata: scendere di nuovo fra gli uomini, vertiginosamente, un corpo che cade, due mani protese, due occhi morti, una bocca urlante, per fondersi col destino dell'umanità che affondava nell'inferno, avvolto dallo sfavillare dei vapori sulfurei del mare di fiamme. Era impossibile star solo, confrontarsi solo con se stesso, occhio nell'occhio con se stesso, senza distanza, senza mondo, senza possibilità di parlare, di pregare, di bestemmiare, di gridare, perché qualunque cosa facesse, lo spazio l'inghiottiva in silenzio, e il tempo vuoto lo dissolveva nel nulla. C'era una forza di gravità dentro di lui che lo costringeva a scendere nell'abisso. Le si oppose ancora. Per un'ultima volta. Poi gli si aprì davanti la voragine del mondo. Si coprì gli occhi con ambo le mani e si precipitò verso l'abisso che spalancava le braccia, tremendo nella sua maestosità, incoronato d'enormi fuochi sacrificali, rintronante come campana di bronzo della disperazione degli uomini, e mentre sprofondava nel suo corpo, si dissolse senza risposta su quel volto il suo grido: pietà, dov'è la pietà.
«Stai gridando,» disse lei e lo scosse. Svegliandosi, vide il viso di lei chino sul suo. I suoi occhi erano indifferenti. «Lei sa cosa ho in animo di fare,» pensò, e ora soltanto s'accorse che pendeva sopra di lui una croce, solitaria e nera, piantata nella parete con un chiodo nel mezzo. Si alzò e si vestì, si avvolse nel mantello. Aveva freddo. Anche la donna si alzò. Lui si appoggiò alla parete. La candela ardeva ancora.
«Aspetterò che si spenga,» pensò e strinse l'arma.
«I tuoi occhi sono sempre così vuoti?» chiese lei.
«Sì,» rispose, «sempre.»
Poi tacquero di nuovo. Insieme alla donna, guardava la fiamma che ardeva tranquilla. Le mani di lei posavano come distaccate sul tavolo. Teneva le palme rivolte all'ingiù, inespressive e immobili, come se avesse dimenticato quelle mani sul tavolo, ridotte a oggetti privi di senso, alla sinistra e alla destra della candela lungo la quale colava il sego. Sul tutto era sospeso il volto di lei che impietriva, fondendosi col silenzio dell'ambiente. Poi vide la candela ardere più bassa. La fiamma oscillò. Si fece più piccola e più grande e con essa l'ambiente acquistò vita come un essere che respira. Il riverbero danzava sulla donna. La fiamma s'accese ancora una volta fra le sue mani in una chiara saetta, per poi afflosciarsi su se stessa, morendo nell'oscurità. La notte della morte era diventata perfetta. Ancora stordito dalla visione che aveva avuto, si destò a questo punto a una chiara e certa consapevolezza, quale mai aveva conosciuto in vita sua. C'era una gioia ardente in lui. L'ottusità del suo animo svanì, pur cieco nel buio di quella stanza, vide chiaro e distinto. Bevve il silenzio di quell'ora come acqua offerta a uno che sia sul punto di morire di sete, pronto a spalancare i battenti che lo separavano dal nulla, dalla sconfinata solitudine dello spazio, dai deserti fluttuanti fra le costellazioni sbiadite, deciso a varcare quella soglia insieme alla donna che respirava da qualche parte nella stanza, capro espiatorio che aspetta muto il colpo del sacerdote.
Rimase fermo a lungo nel buio dopo aver sparato, una volta, poi altre volte, senza mirare; però sapeva d'aver colpito. Poi avanzò verso il centro della stanza senza riuscire a uccidersi.
«Voglio vivere,» disse ad alta voce, nel cercarla a tastoni, «voglio vivere,» e poi ancora: «vivere!» Tastò il tavolo la cui superfice gli apparve infinita nel buio, con crepe che seguì come le linee d'una mano. Toccò con le dita qualcosa di duro che solo dopo parecchio riconobbe come la testa della donna. Per la prima volta tremò. Passò la mano sul corpo di lei e fra i suoi capelli, sentì anche la mano insanguinarsi su quel corpo. Poi si ritrovò in mezzo al villaggio che sembrava vuoto d'esseri umani. La piazza del villaggio scintillava. Si chinò sulla fontana e ruppe il ghiaccio coll'arma. Quando tuffò la mano nell'acqua, il sangue si staccò, per diffondersi quindi come una nuvola scura davanti al disco della luna che giaceva giallo nella fontana, come un piatto grezzo a portata di mano. Camminò sul selciato, davanti a finestre vuote. Rasentò case dai tetti spioventi, e la sua ombra lo precedeva nitida sul terreno. Più tardi raggiunse il viale. Alberi enormi stavano sui due lati, stagliandosi nettamente contro il ciclo. Erompevano dalla terra e s'artigliavano nelle nuvole come mani che affondino nel fango. Camminò fra di loro a passi regolari, e la sua ombra camminava con lui. Di tanto in tanto un colpo di vento, urlava di lontano e correva fra gli alberi, inseguiva la luna fra i campi deserti che quella srotolava sulle colline, grande quanto una casa, come una scialba testa piena di ulcere e di buchi dai quali uscivano strisciando mosche giganti e insetti verdi. Eppure l'oscurità non s'accentuò al tramonto della luna, tutto giaceva senz'ombra dinnanzi a lui, spietato e irreale. Continuò a camminare, senza poter fare altro. La sua faccia si trasformò. Divenne impenetrabile e scialba come la luna che si era spenta tra gli abeti. La strada era infinita lungo il viale e infinito il cielo su di lui, striato dallo stormo vacillante degli uccelli, i suoi accompagnatori, il cui grido giungeva al suo orecchio da lontano, nel cui volo c'era tutto quello che lo circondava: alberi e cielo, la luce e la strada che percorreva, e anche la sua vita senza senso, con la menzogna e il delitto, il corpo morto della donna sul tavolo dalle crepe profonde e il sangue nella fontana. Poi d'improvviso rintronarono le campane del villaggio e udì distanti le grida d'allarme. Sopraggiunsero da lontano motociclette veloci come frecce dall'orizzonte, e lo avvolsero fischiando le nuvole degli spari. Si gettò a terra, strisciò in un fosso, corse sui campi, catturato e poi di nuovo perso da coni di luce. Il bosco lo accolse, ma quasi contemporaneamente penetrarono nell'intrico dei rami gli inseguitori. Tronchi scheggiati dalle loro pallottole. Vedeva già il bianco dei loro occhi, le facce stravolte, i coltelli che estraevano ora dai loro manti, ma poi venne la neve, coperta smisurata che si calò senza rumore, mano fredda e lieve che rese ciechi tutti. Raggiunse così al riparo la radura e scavalcò indenne il morto, le orme si coprirono in silenzio alle sue spalle, lontani e vani si dissolsero gli ultimi colpi degli inseguitori. Camminò attraverso il bosco, avvolto nel lacerò mantello, indifferente all'alba che si profilava da qualche parte dietro le masse della nevicata. Nel turbinio della neve emersero le prime case del villaggio, e sparirono di nuovo. Uomini stavano immersi fino al petto nella neve, con grandi badili, maledivano il loro lavoro insensato perché la nevicata si faceva sempre più fitta. Raggiunse la locanda, pagò, nessuno si curò di lui. Salì sul primo treno diretto alla capitale, senza pensieri, senza tristezza, senza volontà, mentre le poche case, lo scorrere del fiume e le basse colline affondavano dietro il finestrino la cui superfice, come il treno si mosse, era già ostruita dal ghiaccio che si addensava rapidamente.
Quel che fece da quel momento in poi è indifferente perché, qualunque cosa fosse, fu priva di senso. Divenne uno dei tanti, un uomo con un lavoro, che si sposò, ebbe dei figli, una casa, un'automobile, un'amante, tutte cose ridicole però, perché racchiudevano un segreto, il vano tentativo d'irrompere nel nulla con la bandiera spiegata della morte, il cuore pieno di nostalgia per il grande freddo. Qualunque cosa facesse, mirava all'inganno, anche se ingannava solo se stesso, e un inganno fu anche il nostro colloquio, senza che egli lo sapesse. Avevamo attraversato i sobborghi, eravamo poi scesi verso il fiume, lungo la banchina, passando sotto le alte arcate dei ponti. Il suo comportamento cambiò col progredire del racconto. Non fu più lui a farsi trascinare, fu lui ora, senza esserne cosciente, a guidare il nostro incedere nella notte estiva, finché penetrammo in una fabbrica abbandonata, un agglomerato di edifici bianchi con ciminiere in mezzo e altiforni diroccati, tutto semisommerso fra le erbacce che crescevano incolte; solo la piazza in cui eravamo sembrava immacolata, le grandi lastre di pietra perfettamente accostate luna all'altra. Ci congedammo in mezzo al cortile, era meglio, sostenne, pieno d'una incerta paura, che ci separassimo già prima dell'alba, io però mi voltai ancora una volta: e lui stava lì di fronte a me coll'arma levata. Compresi d'essere finito in una trappola terribile. Mi aveva raccontato il suo delitto ma solo per uccidere in me colui che conosceva il segreto della sua disperazione, e così s'era una seconda volta convinto a commettere un omicidio, perché se non gli riusciva d'essere uomo, voleva essere almeno sciacallo che vaga di notte sulle pianure, animale assetato di sangue. Poi però scostò l'arma da me, mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime, e quando sparò si afflosciò come per fondersi con la superfice di pietra su cui cadde, e le cui scanalature si riempirono del suo sangue.
(1946)