I MIGLIORI ANNI
Mattia Feltri
LA STAMPA
22/06/2018
Noi che stiamo attorno ai cinquant’anni abbiamo avuto il battesimo della politica nella primavera del 1978, sequestro e assassinio di Aldo Moro. A casa i nostri genitori parlavano con inquietudine di insurrezione armata, perché in fondo la dittatura comunista era appena al di là del Muro di Gorizia, Nova Gorica, la Jugoslavia di Tito. Per noi la vita era irrimediabilmente divisa in due, Gorizia ovest e Gorizia est, Berlino ovest e Berlino est, Usa e Urss, di qua la democrazia e la libertà, di là il dispotismo e l’oppressione, ed era così per lo stesso motivo per cui avevamo due gambe e due braccia. L’Europa era di conseguenza un reticolato di frontiere, eserciti, lingue diverse, monete diverse. Le nostre tavole erano imbandite a chilometro zero, e non era un’alternativa chic: l’alternativa non c’era. Si viveva d’autarchia, le scarpe Tepa, le biciclette da cross Atala, le vacanze a Rimini. Il nostro orizzonte di scolari era racchiuso dentro il territorio nazionale: lì saremmo cresciuti e invecchiati, e chi volava all’estero per lavoro o ci mandava i figli a studiare era qualche raro riccastro, o qualche raro eccentrico. Dieci anni dopo cambiò tutto. Nel 1989 si tirò giù il Muro di Berlino, e noi non eravamo più bambini ma ragazzi, romantici come lo sono i ventenni, e fu struggente vedere i nostri coetanei venire di qua dall’Est, a braccia aperte, e intanto che l’Ovest andava di là: l’Europa intera diventava occidente sulle note di una Gavotta di J. S. Bach, suonata sotto il Muro da Mstislav Rostropovich in requiem alla Guerra fredda.
L’uomo aveva rimediato all’irrimediabile, la Storia era progredita nel senso opposto e davanti a noi si squadernava il mondo. Progressivamente entrò in funzione Schengen, andavamo in Baviera partendo in auto all’alba o a Parigi col Tgv (Train à Grande Vitesse), c’era sicuramente l’euforia della giovinezza, ma ci sembrava tutto così travolgente, così improvviso, l’inizio di una stagione di irrimediabile (di nuovo) emancipazione e amicizia. Le merci circolavano liberamente a completare l’Unione doganale del 1968, i supermercati si riempirono di prelibatezze prima costosissime, salmone e gamberetti per dire, oggi roba da due soldi. E poi formaggi e vini francesi, birre tedesche, quelli appena più piccoli di noi partivano per l’Erasmus, qualcuno non tornava più: si sentiva a casa anche lontano da casa. Il successivo appuntamento con la storia, le Torri Gemelle del 2001, fu scioccante perché scoprimmo di avere ancora un nemico, ma ormai trentenni ci affidammo al razionalismo: la democrazia avrebbe comunque vinto, tanto che si pensò di esportarla (e con le bombe, per di più), trascurando che la democrazia è una disposizione mentale prima che una faccenda di istituzioni e, se non hai nel passato l’Atene di Pericle (copyright di Oliviero Diliberto), viene difficile amarla. Arrivò anche l’euro e la speranza che l’Unione evolvesse in soggetto strettamente politico, in avvio di una comunità europea fondata sulla pace e lo stato di diritto. Tutto quello che abbiamo amato e in cui abbiamo confidato, ora che siamo canuti e genitori, è detestato e messo in discussione. Rispuntano confini e bandiere, Schengen e l’euro sono nemici della nostra identità e della nostra ricchezza, si reintroducono dazi, si fa guerra ai prodotti stranieri (stranieri?), andare a lavorare all’estero (estero?) non è più una scelta ma una sconfitta, e lo stato di diritto è un fronzolo da fighetti, un ditale d’acqua sul fuoco dell’emergenza. Sembra di ripiombare nel mondo chiuso e spaventato di decenni fa, irrimediabilmente. Ma per fortuna noi non siamo mai al culmine del tempo, ci siamo dentro, abbiamo un passato e un futuro e il futuro non è mai irrimediabile: sarà bello darci dentro per trovare rimedio.