sabato 9 giugno 2018



Alexander Lernet-Holenia

Due Sicilie
Traduzione di Cesare De Marchi
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ENGELSHAUSEN

1

Il colonnello del reggimento «Due Sicilie», affacciato alla finestra, osservava i colombi che volavano avanti e indietro. A tratti, dallo spiazzo dove becchettavano e sui cui egli posava lo sguardo, i colombi si levavano a stormo riempiendo l’aria di frulli d’ali.
Erano colombi d’ogni sorta, marroni, verdi-iridescenti e bianchi con le zampette porporine.
Il colonnello abitava nei pressi della vecchia università, dov’erano ancora in gran numero chiese e palazzi barocchi, magnifici edifici che non sfiguravano a confronto dei sogni, sorti dalle acque, di un Palladio o di un Sansovino, e sui davanzali e capitelli dei quali i colombi s’erano fatti i nidi.
Lungo i loro margini, cimase e davanzali erano circondati da chiodi o punte di ferro come da piccole ringhiere: col fine evidente di impedire che gli escrementi dei colombi cascassero di sotto. I quali invece cascavano, lordando le facciate.
Del resto – considerava il colonnello – i colombi sono animali sudici. Si dice che siano zeppi di pidocchi, e che per giunta siano portatori di brutte malattie contagiose.
Nondimeno sono simbolo di pace.
Ormai da sette anni c’era la pace. Correva l’anno 1925. Una pace profonda, anche se al colonnello pareva che non fosse pace. Pur sembrando impossibile che essa di nuovo si mutasse in guerra, era in definitiva meno pace che mai. Tutti i cuori erano rimasti inquieti, e chi parlava di pace non si riferiva mai al presente in cui stava vivendo, bensì all’anteguerra. E se mai fosse tornata la guerra, non si sarebbe trattato di una nuova guerra, ma ancora di quella d’un tempo.
Il colonnello si chiamava Rochonville. Il reggimento «Due Sicilie» non esisteva più da un pezzo, era stato sciolto, i suoi appartenenti si erano sparsi nei diversi paesi in cui si era frammentato l’Impero, e nessuno più sapeva dove fossero. Quanto a lui, Rochonville, aveva ancora un qualche rapporto con alcuni dei suoi, ma più per caso che per volontà, e in fin dei conti soltanto perché vivevano nella sua stessa città: con cinque ufficiali e un caporale. Era tutto, di altri non si avevano notizie. Fra questi sette e i rimanenti si era già insinuato l’oblio. E anche fra i sette si stava già insinuando l’oblio.
Nondimeno, quando ormai il reggimento non c’era più da un pezzo, sarebbero avvenuti alcuni fatti destinati a indurre il colonnello, i suoi cinque ufficiali e il sottufficiale a operare come se il reggimento ancora esistesse, e in conseguenza di tali fatti essi non avrebbero esitato a sacrificarsi l’uno per l’altro, e finanche a morire, come se avessero ancora dietro di sé le schiere di innumerevoli armati che un tempo ubbidivano ai loro ordini.
Scendeva la sera, e i colombi tornavano ai loro davanzali per dormire. La campana di una chiesa prese a suonare, sommovendo l’aria attraverso ondate quasi bronzee. Il colonnello restò ancora un poco a guardare la piazza che si andava riempiendo di ombre diafane, quindi chiuse la finestra, rientrò in camera e aprì un armadio per prendervi un vestito da sera e cambiarsi.
Certo era ancora troppo presto, non erano forse nemmeno le sei; ma il colonnello si era ormai abituato a dedicare alle sue faccende molto più del necessario. In ciò, tuttavia, poteva avere anche ragione. Giacché il nostro modo di valutare quanto occorra destinare a una determinata cosa è forse assai superficiale. Forse occuparsi davvero delle cose richiede incomparabilmente più di quanto noi crediamo.
Rochonville si vestì con cura, non già perché tenesse in particolare al proprio aspetto; bensì perché, divagando i suoi pensieri, si rallentavano i suoi atti. Il frac che indossò era fuori moda. È pur vero che i risvolti della giacca e il panciotto erano d’un materiale pregiato che da un pezzo non veniva più prodotto. Ma i pantaloni, per esempio, erano troppo stretti. Sarebbe stato quindi preferibile ordinare un nuovo frac. Per una spesa di quella entità, al colonnello mancavano però i mezzi.
Il panciotto era giallino. Il colonnello lo chiuse con quattro bottoni di granato tempestati di brillanti; poi calzò un paio di scarpe di vitello, che lui stesso aveva lucidato sino a renderle lustre come se fossero state di vernice.
Nell’esercito il coppale era rigorosamente al bando.
Una volta infilato il cappotto e messo il cappello, il colonnello aprì una scatola che conteneva innumerevoli guanti di camoscio bianco. Giacché nell’esercito neanche la pelle glacé era permessa.
Il colonnello scelse un paio di guanti, quindi ripose la scatola nel comò da cui l’aveva tolta e richiuse il cassetto. Rimase ancora alcuni minuti nella stanza. Finalmente si accostò all’interruttore, spense la luce e uscì.
Erano le sette e mezzo quando bussò alla porta della figlia.
Non ottenne risposta, ma entrò ugualmente, non senza essersi cavato il cappello. Era il modo di fare di sua figlia, non dare risposte che considerava ovvie. Solo se avesse voluto ch’egli non entrasse, avrebbe detto qualcosa.
Gabrielle Rochonville era già vestita pure lei. Aveva i capelli rossi e le attrattive ma altresì i difetti delle rosse, per esempio mani troppo ruvide, e i denti, benché regolari, parevano senza smalto. Nella luce incerta che rischiarava la stanza il suo viso baluginava perlaceo come attraverso un’ombra.
Aveva già spento le luci del tavolino da toilette. Le sue cose erano sparse per la camera.
Pur essendo di bel personale, vestiva con una certa indifferenza, se non trascuraggine. Il colore dei suoi capelli era spento, d’un rosso un po’ troppo opaco perché ci si accorgesse subito di lei, e i pregi della sua figura non s’indovinavano facilmente sotto gli abiti. In generale doveva passare qualche tempo perché ella risaltasse nella sua bellezza, bellezza che aveva un alito di animalità, ma suscitava poi una sorta di sgomento in chi la osservava, un po’ come i giudici della rossa Frine si erano spauriti allorché il suo avvocato era ricorso al magnifico argomento di scoprirle il seno in tribunale per provare la sua innocenza – tanto che era stata assolta; e come la pelle singolarmente screpolata di quella greca, che le aveva procurato il soprannome di Frine (che vuol dire «rospo»), contrastava con la magnificenza della sua persona, così pure nella figlia del colonnello il contrasto fra l’indifferenza con cui vestiva e i pregi della sua persona ne costituiva il fascino quanto mai particolare.
Padre e figlia, pur avendo un buon rapporto, si erano abituati a intendersi senza parole superflue. Il colonnello, che era rimasto un attimo lì in piedi, la aiutò a infilare il cappotto. Quindi lei prese la borsetta, e i due uscirono insieme dall’appartamento, chiusero a chiave e scesero le scale.
La notte primaverile, in alto sopra la piazza, era di una bellezza tale che il fioco lume dei lampioni non poteva turbarla. La luna crescente riversava cascate d’argento, poi si nascose dietro una nube nelle cui anse vellutate palpitava un luccichio di stelle.
I due, Gabrielle e il colonnello, si arrestarono un istante prima di mettersi in cammino.
Giunti al Ring presero il tram.
I passeggeri, intenti a chiacchierare prima che i due salissero, ammutolirono osservando la coppia vestita da sera: l’uomo anziano che tra i risvolti del cappotto ave-
va al collo, ben visibile, una onorificenza, e la rossa che guardava nel vuoto.
I due erano invitati a casa di un loro parente, tale Flesse von Seilbig, già governatore di Trieste. I Flesse passavano ancora per gente facoltosa e davano spesso ricevimenti.
Abitavano in una delle viuzze tra la Wiedener Hauptstrasse e la Favoritenstrasse, sul lato interno di un palazzo piuttosto vecchio. Le finestre davano su un giardino. Nell’appartamento ampio, dalle stanze spaziose, i soffitti erano bassi, e poiché quella sera la signora von Flesse aveva ritenuto opportuno illuminare solo con le candele, vi faceva un caldo esagerato. Ovunque, per di più, mandavano un gran fumo i camini con i quali – in modo piuttosto inopportuno – la signora von Flesse aveva sostituito le stufe nell’intera casa. I domestici non erano in grado di governare quei focolari con cui avevano scarsa dimestichezza.
Nel complesso, tuttavia, la serata trascorse passabilmente. A tavola sedevano dieci persone, in seguito se ne presentarono due volte tante, tra cui uno degli ex ufficiali di Rochonville, Kaminek von Engelshausen, un giovanotto che faceva la corte a Gabrielle.
Fu ormai a tarda sera che Rochonville si vide trascinato in una lunga conversazione da un signore che non conosceva e di cui gli era sfuggito il nome. Lo sconosciuto poteva avere un’età fra i trentacinque e i quarant’anni. Era alto e snello, quasi magro. In un primo momento non aveva badato a Rochonville. Era in un gruppo di uomini, ai quali il colonnello si avvicinò, e stava discorrendo della Russia. Parlava con un leggero accento, non immediatamente definibile, come le persone che hanno molto viaggiato.
A quanto pareva, era stato in un campo di prigionia, ma era riuscito a fuggirne. Stava appunto descrivendo il lungo tempo trascorso sul Volga presso un colono che evidentemente lo aveva tenuto nascosto.
«Quell’uomo» raccontò «aveva un figlio suppergiù della mia età, che in origine non era stato ritenuto abile al servizio militare, ma che ora sarebbe stato arruolato. Io mi offrii subito di prendere il suo posto sotto le armi. Non dubitavo infatti che, una volta spedito al fronte, avrei trovato occasione di disertare e far così ritorno dai nostri.
«Ma a motivo della mia statura non mi assegnarono a un qualche reggimento governativo, finii invece fra le reclute della Guardia. Sono sempre stato dell’opinione che oltrepassare il giusto mezzo comporti solo svantaggi. Un uomo alto dà sempre nell’occhio, non sta su nessun cavallo, non entra in nessuna carrozza, in nessun letto; se si fa uno strappo nei pantaloni non trova da comprarne un paio confezionato; e se poi ha anche un briciolo di cervello più dei suoi simili, non riesce più a capirsi con loro.
«Così anche nel mio caso potevo solo attendermi svantaggi dall’essere assegnato alle reclute della Guardia. Se mi avessero messo in un reggimento di fanteria di linea, dopo un addestramento di non più di sei od otto settimane mi avrebbero probabilmente mandato a combattere, e io avrei potuto realizzare la mia fuga. Viceversa nella Guardia l’addestramento era assai più lungo, e nella cavalleria della Guardia – soprattutto a motivo degli inutili esercizi con la lancia – e nell’artiglieria era certo di durata imprevedibile.
«Per di più, noi reclute della Guardia ci lasciarono inoperose per parecchie settimane al fine di serbarci a un evento che si ripeteva ogni anno suscitando una particolare sensazione. Il granduca Nikolaj, infatti, amava assegnare di persona le reclute ai singoli reggimenti della Guardia; gli ufficiali vi presenziavano con le loro signore, e il tutto porgeva occasione a una sorta di festa militare. Anche quell’anno, nonostante la guerra, il granduca era venuto nella capitale ed eseguì in prima persona l’assegnazione delle reclute.
«L’evento aveva luogo nel cosiddetto maneggio Michajlovskij, una scuola di equitazione talmente grande che, si diceva, due batterie avrebbero potuto farvi simultaneamente le esercitazioni. Il bel mondo riempiva i palchi, venivano serviti rinfreschi e champagne, due bande militari suonavano a turno, e pertanto senza interruzione, mentre al centro del maneggio il granduca assegnava le reclute ai reggimenti.
«Queste ultime provenivano da ogni parte dell’immenso impero: erano pastori degli Urali e cacciatori della tundra siberiana, contadini bielorussi e nomadi delle coste del Mar Giallo. Dovevano essere alti di statura e avere un bell’aspetto. Altro non era richiesto. Ma trattandosi di gente semplice, frastornata dal rumore, dalla musica e dallo sfolgorio delle uniformi e delle medaglie, erano state impartite disposizioni onde evitare che costoro turbassero con qualche balordaggine lo svolgimento dell’intera faccenda. Così dal centro del maneggio, dove si trovava Nikolaj Nikolaevič, fino ai muri si allargavano trentuno file, corrispondenti ai trentun reggimenti della Guardia (senza contare la divisione dei cosacchi della Guardia), di sottufficiali dei singoli reggimenti. Il tutto somigliava ai raggi di una stella. Quando una recluta stava dinanzi al granduca, questi la squadrava e la destinava a uno dei reggimenti. L’aiutante di campo scriveva col gesso sul dorso della recluta il nome o il numero del reggimento e poi la spingeva verso la fila corrispondente dei sottufficiali. Il primo sottufficiale la prendeva in consegna e la spingeva fra le braccia del secondo, questi in quelle del terzo, finché l’uomo arrivava al muro dove stavano i suoi camerati. Nel frattempo era già il turno delle reclute successive.
L’assegnazione ai singoli reggimenti avveniva secondo princìpi ben precisi. C’era ad esempio il reggimento Pavlovskij, i cui appartenenti dovevano tutti essere biondi, butterati e col naso rincagnato: questo a ricordo della fisionomia dello zar Paolo I, caduto per mano assassina nel 1801. In un altro reggimento dovevano tutti avere gli occhi azzurri e la barba nera. E ogni volta che il granduca assegnava una recluta, gli ufficiali e le signore del reggimento relativo applaudivano.
Giacché le reclute da destinare erano centinaia, anzi migliaia, si procedeva con relativa speditezza. Nikolaj Nikolaevič, nella sua uniforme di ussaro e fumando di continuo sigarette con il bocchino lungo, che non si toglieva dalle labbra nemmeno per parlare, esaminava gli uomini e procedeva con grande sicurezza in rapida successione: “Corazzieri gialli, Izmajlovskij! Ussari, corazzieri azzurri! Preobraženskij, Cavalleggeri, ulani di Sua Maestà!”. Col che intendeva il reggimento di ulani della guardia del corpo dello zar. C’erano però anche ulani della guardia del corpo della zarina, detti “ulani di Sua Maestà la zarina”. L’aiutante di campo seguitava a scrivere col gesso, e le reclute si dileguavano ai quattro venti.
«Considerando questa scena mi ero subito detto, naturalmente, che la procedura della mia assegnazione a un reggimento sarebbe durata appena un istante. Una volta spinto davanti al generalissimo, questi mi avrebbe sfiorato con un’occhiata destinandomi, per la mia relativa gracilità, ai dragoni, agli ussari o all’artiglieria, e non ai corazzieri – ciò che comunque non avrebbe fatto differenza, quanto alla durata dell’addestramento –, ma in nessun caso alla fanteria, composta di tipi ben inquartati.
«Ma doveva andare assai diversamente da come mi ero immaginato. Quando il destino si mette davvero a governare, tutto va sempre in maniera assai diversa da come si credeva. Mi ero stillato il cervello cercando il modo di cavarmi da quell’impiccio, ma non mi era venuto in mente proprio nulla. Ero lì in fila con le altre reclute ed ero trascinato passo dopo passo verso il granduca, come da un moto ineluttabile che spegneva finanche il mio pensiero. A sconcertarmi era poi il fatto che Nikolaj Nikolaevič mi ricordava mio padre; e più mi avvicinavo a lui, più questa somiglianza mi soggiogava. Portava la barba come mio padre e aveva pure le stesse borse sotto gli occhi. Perfino le sue mani, non calzate nei guanti, mi parevano perfettamente simili alle mani di mio padre. Pur se grandi e forti, erano di bella forma, un poco rossicce, con le dita affusolate e le unghie leggermente curve.
«Gli ero stato spinto ormai così vicino che potei osservare tutto ciò con precisione. Nikolaj Nikolaevič sfiorò anche me con il suo sguardo; e adesso, pensai, nominerà un qualche reggimento di cavalleria o di artiglieria dal lunghissimo addestramento. E invece i suoi occhi, che strizzava lievemente – proprio come mio padre –, si dilatarono, dopodiché si tolse addirittura – in certo senso con la mano di mio padre – la sigaretta di bocca, e proruppe infine in una sonora risata.
«“Ma guarda un po’, Konstantin Il’ič!» esclamò. “Pensavi davvero che non t’avrei riconosciuto?”.
«A quel tempo avevo vissuto già abbastanza in Russia da capirne a sufficienza la lingua, per quanto la parlassi appena. Nondimeno non riuscii a comprendere che cosa intendesse.
«“Ti sei fatto perfino crescere la barba” continuò. “Un’idea di barba, quantomeno. Un’autentica idea di barba!”. Dicendo questo mi si era avvicinato e – sempre con le mani di mio padre – stava tirando adesso la barbetta che mi era cresciuta. Ebbi la stessa sensazione che provavo quando mio padre mi tirava per un orecchio. “Ma il portamento, Konstantinuška, figlio mio!” rise. “Il portamento! Non ti dicevo forse che anche se recitassi la parte del contadino, del cocchiere o dell’impiegato delle poste, il portamento ti tradirebbe? Dal proprio portamento non si esce, figliolo, così come non si esce dalla propria pelle. Non si può. Uno resta quello che è”.
«Considerai il più rapidamente possibile quali conseguenze avrebbe comportato questo palese scambio di persona. Era chiaro che dovevo rispondere qualcosa. Quel Konstantin Il’ič, che io ignoravo chi fosse, ma con il quale mi aveva confuso, ora doveva pur dire qualcosa, se non voleva che Nikolaj Nikolaevič prendesse in mala parte il travestimento di Konstantin Il’ič.
«Non potevo certo rispondere nel mio miserabile russo. Rispondere in tedesco mi pareva inutile e rischioso. Scelsi dunque il francese, benché anche questo mi sembrasse piuttosto azzardato.
“Eccellenza Imperiale,” dissi “non sono Konstantin Il’ič. Sono il figlio di un colono del governatorato di Saratov e chiedo che mi si inquadri nel reggimento di fanteria”.
«“Ah sì?” rise lui aggiungendo, con mio stupore, in buon tedesco: “Saresti un colono, un volgarissimo contadino, e parli il francese come chissà chi?”.
«“Ho fatto la scuola ad Astrakhan” replicai, a mia volta in tedesco.
«Ora fu lui a stupirsi.
«“Che tu parlassi anche il tedesco, non lo sapevo proprio” disse. “Me l’avevi tenuto nascosto, piccolo mio”. E qui si rivolse al suo aiutante di campo: “Lei che ne dice: Konstantin Il’ič parla tutte le lingue e pretende di essere un contadino!”.
«Anche l’aiutante si sentì in dovere di ridere. Non sembrò tuttavia nutrire dubbi sul fatto che io fossi Konstantin Il’ič. L’incidente cominciava a destare attenzione. I sottufficiali e le reclute lì attorno non sapevano bene che cosa pensare, ma nei palchi la gente si era accorta che non si procedeva secondo le regole, e le teste si sporgevano a guardare.
«“E perché proprio in fanteria, figliolo?” domandò il granduca. “Sempre a piedi, sempre con il bagaglio in spalla! Cosa ti frulla per la testa? Non ti pare più bello andare a cavallo? A Dio piacendo, sai cavalcare come si deve. O sei troppo pigro per accudire il tuo cavallo? Non dovrai mica farlo di persona, si troverà ben qualcuno che lo faccia per te”.
«Io non ero minimamente preparato a tutte quelle domande. E poi mi rendevo conto del pericolo in cui incorre chi vuole impersonare qualcun altro. Sembrava più che possibile passare anche per una terza o una quarta persona. A un tratto, uno non sapeva più chi fosse in realtà. Mi prese come una vertigine.
«“Eccellenza Imperiale,” dissi “se venissi assegnato alla cavalleria dovrei temere di non arrivare in tempo sul campo”.
«“Ma tu sei sul campo” rise lui. “Arrivi giusto dal campo. Sei venuto apposta dal campo per recitare questa burletta. E per giunta fai tanto il patriota, quando non sei che uno scettico e un cavilloso! Non è forse così? Io lo so, non simulare, lo so benissimo. Dunque, per davvero, a che cosa mai non arriveresti più in tempo?”.
«“Alla guerra”.
«“Quella durerà quanto basta. O credi forse che la vinceremo tanto alla svelta?”.
«“No”.
«“E allora? Che altro?”.
«“Perderla forse?”.
«Dio solo sa chi mi aveva ispirato quella risposta. Probabilmente pensai di dover parlare così perché Konstantin Il’ič era “uno scettico e un cavilloso”; e si sa che i grandi, finché sono di buon umore, amano le battute degli scettici. Gli scettici fanno le parti dei giullari di corte, diciamo. Invece fu subito chiaro che la mia risposta era stata la più malaccorta che potessi dare. Io stesso devo essere rimasto sconcertato che mi fosse uscita di bocca, e anche l’espressione del granduca si alterò istantaneamente.
«“È questo che pensi?” gridò.
«Non ero più in condizione di rispondere. Mi provai a balbettare che io, colono tedesco, avevo in verità voluto dire che gli imperi centrali avrebbero perso la guerra. Ma non riuscii a proferir parola. La mia frase, però, pareva aver fatto anche su di lui una profonda impressione. Forse già lui stesso nutriva dubbi sull’esito felice della causa russa. Forse non si era trovato ancora nessuno che osasse riferirgli quell’opinione, ormai di dominio universale. Comunque appressò la sua alla mia faccia e mi investì:
«“Lo credi veramente? Lo credete forse già tutti nel vostro maledetto reggimento? Be’, e quanto dite che durerà ancora?”.
«“Un anno forse” risposi.
«Non mi restava altro che dire qualcosa di simile, perché ormai non potevo più tirarmi indietro.
«Lui si drizzò sulla persona. Quell’apparente confidenza gli parve aver passato la misura.
«“E allora” gridò in russo “non hai proprio tempo da perdere, figliolo! E non te lo lascerai scappare! Via! Torna al tuo reggimento! E per prima cosa avrai due settimane di consegna!”.
«Così dicendo mi colpì sul petto. L’aiutante di campo poteva non aver capito il tedesco, ma sembrò sentirsi in obbligo di capire il russo. Avvertii che, continuando a ridere, mi scriveva col gesso qualcosa sulla schiena. Evidentemente ritenne le parole di Nikolaj Nikolaevič il coronamento dello scherzo intercorso tra noi e mi scrisse sulla schiena il numero del reggimento del vero Konstantin Il’ič.
«“E lei non rida così come uno scemo!” udii Nikolaj Nikolaevič gridare all’aiutante. Ma anche la condotta dei sottufficiali tra i quali fui spinto, non mi lasciò alcun dubbio che pure loro credessero di riconoscere in me un ufficiale del reggimento. Con prudente rispetto mi fecero procedere verso il muro.
«Mi rivolsi a una delle reclute che avevo accanto. “Che cosa mi hanno scritto sulla schiena?” bisbigliai. Quel balordo non sapeva leggere. “In che reggimento siamo, accidenti?” sibilai, e lui mi rispose: “Ussari di Grodno”.
«Era uno dei reggimenti più ragguardevoli. Con ogni evidenza dovevo essere un aristocratico con cui il granduca era in amicizia, ero perlomeno un “dvorianin”, un nobile. Soltanto ufficiali nobili, infatti, servivano nella Guardia. Quando ci fecero uscire dalla scuola di equitazione respirai. Quella sera stessa montammo – un centinaio dei miei nuovi camerati e io – in un vagone militare. Anche il sergente maggiore, che comandava il trasporto, mi prese palesemente per un ufficiale. Mi chiamò “illustrissimo” e sembrò giudicare una pazzia il fatto che volessi passare per una semplice recluta.
«Avevamo viaggiato una notte e un giorno quando, durante una sosta del treno in una stazione, udii il sergente maggiore chiamare con voce stentorea il mio nome, o meglio quello del figlio del colono tedesco che avevo rimpiazzato. “Gagemann!” urlò. “Wilgelm Karlovič Gagemann!”. I russi infatti non sanno pronunciare bene la htedesca. Guardai fuori. Il sergente maggiore stava sul marciapiede circondato dal personale della stazione, e si passavano l’un l’altro un foglio, evidentemente un dispaccio.
«L’imbroglio – se così lo si poteva chiamare – era stato scoperto. Saltai subito giù dal treno, sul lato opposto, e mi misi a correre per salvare la vita. Per non perdere tempo non mi voltai neppure una volta. Mi accorsi tuttavia che mi venivano dietro. Udii pure detonare fragorosamente alcuni colpi di revolver, e i proiettili mi sibilarono sopra la testa. Fucili, per buona sorte, non dovevano averne a portata di mano.
«Dopo una mezz’ora mi ero liberato dei più immediati inseguitori. Mi lasciai cadere in un canale asciutto, boccheggiando. Appena mi fu possibile, ripresi la fuga.
«Non è mio proposito trattenere oltre l’attenzione di lorsignori sui particolari della fuga, che dopo notevoli fatiche e pericoli mi portò finalmente di là dal Caucaso. Migliaia di fughe più o meno simili alla mia sono riuscite, molte di più sono fallite. Benché taluni asseriscano che la vita reale offre le storie più interessanti, questa affermazione non è meno banale di quelle che sono sulla bocca di tutti. Quanto a me, ho riscontrato invece che ciò che si chiama realtà, pur essendo sgradevole, è destituito di qualsiasi interesse. La vita incomincia invece a farsi interessante nei momenti in cui diventa irreale; e i racconti di maggior perfezione sono quelli che, per grande che sia la loro pretesa verosimiglianza, toccano il grado più alto di inverosimiglianza.
«Fu qualche tempo dopo la fine delle ostilità che ebbi occasione di recarmi al Ministero della guerra a studiarvi gli elenchi dell’esercito russo. Mi indirizzarono all’archivio, nella caserma centrale. L’episodio del maneggio Michajlovskij si era verificato nel 1916. Mi feci portare quell’annata. Fu, sia detto per inciso, l’ultima a essere redatta. Negli ussari di Grodno a quel tempo c’era un solo ufficiale che si chiamava Konstantin Il’ič. Era un tale Konstantin von Pufendorf.
«Tenni a lungo lo sguardo su quel nome. Io sarei dunque stato quell’uomo. Non lo conoscevo, non sapevo nemmeno che esistesse. E tuttavia io ero lui, e lui era stato me. Del resto, se uno è qualcun altro, io credo, non viene mai a saperlo.
«Nikolaj Nikolaevič avrà magari discusso a volte con Pufendorf se sia possibile travestirsi perfettamente da qualcun altro, ovvero se lui, il granduca, avrebbe saputo riconoscere Konstantin Il’ič anche sotto mentite spoglie. A un colloquio del genere può aver dato occasione il disorientamento ormai crescente nell’intera Russia. Ma non è escluso che una certa mania di persecuzione vi abbia avuto la sua parte. Ora, i membri delle famiglie sovrane credono sempre di avere un occhio infallibile. Ritengono di saper leggere nelle facce delle masse come in un libro aperto. Insomma, quando comparvi innanzi al granduca, questi, poiché evidentemente assomigliavo a Konstantin Il’ič, mi prese per lui.
«Ma se non gli avesse parlato di simili questioni, probabilmente non mi avrebbe mai scambiato per lui.
«Continuai soprappensiero a sfogliare gli elenchi. Dopo un po’ un altro punto mi risultava oscuro. Non capivo, cioè, perché avessero scoperto tanto in fretta lo scambio di persona. Ma ebbi subito un sospetto.
«Mi feci portare gli elenchi dei caduti dell’esercito russo. E difatti trovai dopo poche pagine quel che cercavo. Konstantin Il’ič era tra i caduti.
«La morte lo aveva colto pochi giorni prima dei fatti occorsi al maneggio Michajlovskij. La cosa risultava chiaramente dai dati registrati in quell’elenco. Nell’intervallo fra il colloquio con Nikolaj Nikolaevič e il momento in cui avevano telegrafato al mio convoglio, la notizia doveva aver raggiunto il granduca, o perché questi aveva comunicato qualcosa al reggimento per inasprire la punizione di Konstantin Il’ič, e ne aveva ricevuto la risposta che Konstantin Il’ič era morto; o perché la notizia gli era pervenuta a prescindere da ciò. Poteva anche darsi che il granduca si fosse rivolto al vecchio Elias von Pufendorf per lamentare l’insolenza di suo figlio, e che quegli – il quale assomigliava forse a mio padre e quindi al granduca quanto io al figlio – gli avesse risposto che il preteso insolente non era più in vita.
«Così soltanto, o in modo molto simile, poteva essersi svolta la faccenda. Non poteva essere andata altrimenti. E tuttavia mi pareva che soltanto così tutto avesse ricevuto un senso; e a lungo non abbandonò i miei pensieri il capriccio di provare a immaginarmi che cosa fosse passato per la mente del granduca dopo esser venuto a sapere che ero sparito dal treno. Mi sembra certo che si rivolsero subito al padre del colono che avevo rimpiazzato. Invece trovarono un’altra volta “me”, o meglio: credettero di aver trovato veramente “me” – ma ecco che a un tratto io non mi assomigliavo più, “io” ero tutt’altra persona da quella del maneggio. A voler veramente documentare l’identità di una persona, si scende in un abisso senza fondo: quando noi stessi non sappiamo chi siamo in realtà! Povero Wilhelm Hagemann! Povero sergente maggiore degli ussari di Grodno, che non era riuscito ad acciuffarmi!
«E Nikolaj Nikolaevič? Poteva davvero essersi convinto di aver parlato con lo spirito di Konstantin Il’ič che, caduto in guerra pochi giorni prima, ma “scettico e cavilloso” anche dopo la morte, gli aveva predetto la sconfitta della Russia. I segni che ci invia il destino hanno tanto o tanto poco significato quanto riusciamo a indovinarne noi...
«In ogni caso il granduca deve essere stato sicuro che la catastrofe sarebbe arrivata. Perché della parola di un soldato forse si può ancora dubitare; della parola di un soldato morto, no».

2

Qui lo sconosciuto pose fine al suo racconto. Vi fu un silenzio, in cui non si udì che il vocio degli altri ospiti seduti più lontano; quindi parlò Flesse:
«Se non avessi detto tu stesso che soltanto le storie irreali meritano di essere raccontate, penserei che la tua storia sia vera».
L’altro scrollò le spalle e sorrise.
«Mai privare qualcuno di un’illusione» disse. «Men che meno svelandogli che è una verità».
«E perché,» fu ora il colonnello a prendere la parola «perché pensi che si debba credere più a un soldato morto che a uno vivo?».
Lo sconosciuto si volse e fermò gli occhi sul colonnello.
«Forse» disse «potrei risponderti che i morti non mentono. Ma anzitutto sarebbe troppo banale, e inoltre non è dimostrato. Com’è quel proverbio? Meglio un cane vivo che un leone morto, o qualcosa di simile. Ma un soldato morto a me sembra che valga ben più di uno vivo».
«Perché?» chiese il colonnello. «Che cosa intendi dire?».
«I morti» proseguì lo sconosciuto «ormai non parlano più. Ma se un soldato morto potesse parlare, si saprebbe che cos’è realmente un soldato».
«Per quale motivo?» chiese il colonnello. «Perché dovrebbe essere morto?».
«Perché chi si fa soldato dev’essere anche pronto a morire; e perché un soldato non ancora caduto in battaglia non ha condotto dunque a compimento ciò cui si era votato».
«Ma non giura mica di morire a ogni costo» disse il colonnello. «Giura solo di agire a rischio della vita. A chi giova che la perda davvero? Soltanto ai suoi nemici. O credi forse che l’onore di un esercito sia commisurato al numero dei suoi caduti? È commisurato alle sue vittorie».
«Non ci capiamo del tutto» disse lo sconosciuto. «Io parlo dei guerrieri in generale, tu ragioni del mestiere». Così dicendo accostò come distrattamente le punte delle dita alla medaglia del colonnello, quasi volesse toccarla. «Tu ragioni del lato pratico della cosa, mentre io ragiono dello spirito soldatesco. Una vittoria dipende, oltre che dal valore della truppa, dall’abilità dello stato maggiore e dalla fortuna. Ma la condotta onorevole di un soldato dipende da lui solo. E l’onore più alto nella vita di un soldato è la morte. Anche il popolo, comunque finiscano le guerre che conduce, ha un rispetto assoluto per i suoi morti. E in ogni modo il senso di una guerra non emerge mai nel corso della guerra stessa, ma soltanto dopo, dalla storia. Concedo che questo significhi dare forse troppa dignità agli storici. Ma è davvero di grande importanza sapere come furono le cose e gli eventi? Quel che conta è come sono. Nessun passato esiste più se non nel presente, e nulla è stato davvero se non ciò che ancora è. È indifferente com’era. Esiste ormai solo in quanto si presenta a noi».
Il colonnello voleva replicare, ma non gli fu possibile poiché lo sconosciuto proseguì:
«Che significa allora per noi, in sé, lo scontro di Borodino ad esempio, che significa Plevna, o Aladja Dagh! Chi ricorda ancora chi vinse realmente a Höchst, al monte Harsány, a Thionville! Ormai sappiamo solo che ovunque risuonino alle nostre orecchie i nomi delle battaglie, eroi morti o feriti hanno intriso del loro sangue la terra. E forse nelle innumerevoli albe che hanno illuminato i campi di battaglia, chiare o nebbiose, grevi o da brivido dopo le veglie notturne, forse tutti i guerrieri mossi l’un contro l’altro a battaglia non sapevano neppure loro a che cosa miravano i comandanti. Sapevano solo che c’era la guerra. Avevano la convinzione di essere soldati e di doversi sacrificare nel momento in cui avessero rullato i tamburi e squillato le trombe».
Di nuovo il colonnello avrebbe voluto controbattere, e di nuovo lo sconosciuto gli impedì di prendere la parola. Sembrava in preda a un’irresistibile coazione a parlare e, pur avendo appena terminato una lunga storia, si diffuse in altre considerazioni:
«Checché si pensi della guerra: soltanto i morti giustificano le guerre. Il loro sacrificio è più glorioso di una vittoria. Le pieghe delle bandiere conservate nelle chiese e negli arsenali non sussurrano che i loro nomi, e le lettere dorate incise nel marmo delle lapidi celebrano solamente loro. Non ci sono commemorazioni senza lutto. Vedi quindi» concluse soddisfatto lo sconosciuto «che in ogni caso l’onore più grande nella vita di un soldato è cadere in battaglia».
«Certo» concesse comprensivo il colonnello. «Ma non rinfacciare a nessuno di non essere caduto. È sufficiente che un soldato sia pronto a dare la vita. E questo val quanto averla già data. Morire non è gravoso per chi non ci pensa; ma è un atto sublime in chi sa di dover morire. Come la natura favorisce con ogni sorta di attrattive la nascita della vita, così cerca di impedirne la fine con ogni sorta di repulsione. Insomma la morte di un individuo non è minimamente comparabile alla morte di un altro. Quindi interrogare i soldati morti, come tu proponi, è senza scopo. Non saprei che altro direbbero rispetto a ciò che dicono i vivi».
«Be’,» replicò lo sconosciuto «potrebbero per esempio domandare come mai i loro camerati sono ancora in vita».
«Sono vivi,» disse il colonnello aggrottando le sopracciglia «sono vivi... o meglio: non sono più riusciti a morire perché un giorno hanno detto loro che non erano più soldati».
«Un soldato non cessa mai di essere soldato» asserì lo sconosciuto.
Il colonnello non rispose subito. Si stava evidentemente chiedendo chi fosse quell’uomo che s’era messo a dargli lezioni sulle virtù militari. Si accingeva finalmente a replicare, quando lo sconosciuto disse:
«Via, stiamo facendo una conversazione del tutto inattuale. Oggi l’onore militare è in ribasso, l’orgoglio è caduto nell’oblio e la fama si è dissolta. La fama! Che cos’è poi la fama? Rumore intorno al silenzio degli eroi. O, nel migliore dei casi, la deferenza sgomenta di contemporanei e posteri. Bene. Ma che uomo sarebbe mai colui che facesse qualcosa solo in vista della deferenza! Anche il soldato agisce onorevolmente solo perché non può agire altrimenti. Se sei un uomo onesto, provati un po’ ad agire disonestamente – non ci riuscirai. Che senso ha allora affannarsi tanto? Un poeta – credo Ossian – afferma bensì che “l’ombre dei morti in guerra intorno stanno Sitibonde di canto”. Ma io non posso crederlo. Celebrare significa: tacere. In un modo o nell’altro si rimane soldato, anche senza deferenza. Si potrà anche, pro tempore, scordarsi d’esserlo, ma in fondo lo si rimarrà sempre. E si continuerà sempre, anche dopo avere smesso da lungo tempo la divisa, ad agire da soldato».
«Indubbiamente,» disse il colonnello «per quanto io stesso, ad esempio, al momento non saprei di preciso come. Dato che non posso considerare un’attività molto soldatesca il non saper più che cosa fare del mio tempo».
«Se anche tu fossi andato in pensione nella pace più profonda, non avresti più saputo che cosa farne» disse lo sconosciuto. «Ma non è questo che intendo. Invece basterebbe che un qualche evento ti si parasse innanzi, e torneresti a essere quello che eri».
«Ma non mi si para innanzi nessun evento» disse il colonnello. «È proprio questo il punto: tutti fanno finta che non sia successo nulla e nulla debba più succedere».
«Ogni momento» disse lo sconosciuto «succede incomparabilmente più di quanto si possa immaginare, e ogni momento gli uomini fanno finta che non succeda nulla. Certo non si può prevedere niente di determinato. Non esistono vere e proprie predizioni. Solo se sapessimo tutto ciò che è stato potremmo predire ciò che sarà. Ma poiché sono accaduti infiniti eventi, ne consegue che ne accadranno ancora infiniti altri – a prescindere dal fatto che è un po’ gramo dover sempre aspettare eventi esterni per agire. Meglio agire di propria iniziativa. Ma come che sia, puoi trovare in ogni momento una nuova occasione per farti valere, te... e i tuoi».
«E chi sarebbero... questi miei?».
«Il tuo reggimento, per esempio».
«Ma non esiste più».
«In tal caso: quanto ancora ne sussiste. Magari potete persino recuperare quel che non vi è stato concesso».
«E che cosa non ci sarebbe stato concesso?».
«Morire da soldati, per esempio».
«Stai delirando» disse il colonnello con una scrollata di spalle e fece cadere la cenere del suo sigaro, che fumava col filtro di carta, in una ciotola posta sulla consolle di uno specchio. «Tu vuoi che siano tutti andati, così resti soltanto tu a raccontare le belle storie che pretendi di aver vissute».
«Ma» disse lo sconosciuto «già una volta ero effettivamente morto quando ho vissuto una di queste storie».
Poi però, quasi a stornare quella conversazione che pareva non condurre più a nulla, domandò:
«Sai forse dirmi chi era il giovanotto che prima stava parlando con tua figlia?».
Questa domanda lo sconosciuto la fece senza voltarsi verso i due cui accennava. Il colonnello guardò nella direzione dove sedevano, o meglio dove erano stati a sedere Gabrielle ed Engelshausen. Infatti le loro poltrone adesso erano vuote. I due erano forse andati in un’altra stanza. Il colonnello, conversando, non se n’era accorto. Tanto più lo meravigliò che l’altro, senza guardare, l’avesse scoperto.
«... Un signor di Engelshausen» disse infine. «Uno degli ufficiali del mio reggimento» si sentì in obbligo di aggiungere.
«Vedi!» disse lo sconosciuto. «Dunque esiste ancora qualcuno di quel tuo reggimento!».
«Nemmeno questo» replicò il colonnello «è del tutto esatto. Potrei affermare altrettanto a ragione che quel giovane non era nel mio reggimento. Il suo è un caso singolare, per quanto non escludo che un fatto del genere possa essersi verificato anche altre volte. Dopo aver concluso l’accademia, era stato comandato al reggimento quando l’esercito si andava ormai sciogliendo. Arrivò al campo allorché noi lasciavamo i nostri presìdi ed eravamo già sulla via del ritorno. Sicché non gli restò altro che mettersi in viaggio pure lui per rientrare, e l’unica occasione che ebbe di presentarsi a me fu nel momento in cui stavo licenziando il reggimento».
«È doloroso» disse lo sconosciuto, e sembrò, invero per la prima volta, che intendesse effettivamente quanto diceva. «Tuttavia non dubito che, se ne avesse avuto l’occasione, si sarebbe fatto valere».
E così dicendo accennò un inchino all’indirizzo dei presenti e si allontanò.
«Chi era?» chiese subito il colonnello.
Flesse disse che era un tal capitano di cavalleria Gasparinetti.
«Di che reggimento?» chiese il colonnello.
Era sicuro di non aver mai sentito quel nome nell’esercito. Nondimeno gli sembrava di averlo conosciuto in qualche altra circostanza.
Flesse rispose che non sapeva a quale reggimento appartenesse. «Persona singolare, comunque» aggiunse.
In quel momento Gabrielle rientrò, ma non era più in compagnia di Engelshausen. Gli invitati, a quell’ora, si accingevano ormai ad andare via. Poteva essere l’una. Le persone si salutavano, le stanze si svuotavano. Delle due cameriere l’una, nel vestibolo, aiutava gli ospiti a infilare il cappotto, l’altra era scesa al portone, l’aveva aperto ed era rimasta lì.
Rochonville, mettendosi il cappotto, stava per rivolgere una domanda alla figlia, ma questa lo precedette dicendo che Engelshausen si era offerto di portare a casa in vettura entrambi, lei e il colonnello.
Si fermarono pertanto ad aspettare nel vestibolo, mentre gli altri invitati, da cui avevano già preso congedo, si rivestivano e salutavano ancora. Solo Engelshausen non compariva. Immaginando che poteva essersi già avviato alla vettura, scesero al portone.
Per le scale Gasparinetti si unì a loro. Portava un cappotto piuttosto aderente in vita e una sciarpa di seta bianca. Aveva il cappello un po’ inclinato e calato sugli occhi e teneva le mani in tasca. Attraversarono il cortile, e Gasparinetti prese a conversare, o meglio: parlava con la sola Gabrielle, dal momento che il colonnello non partecipava a quel colloquio; aveva deciso che Gasparinetti era troppo ciarliero.
Un battente del portone era aperto, e la cameriera aspettava di fianco. Di fronte al palazzo non c’era più che una sola vettura ferma, probabilmente quella di Engelshausen, ma Engelshausen non si vedeva. Mandarono su la cameriera a chiedere se per caso fosse ancora di sopra. Nel frattempo il capitano di cavalleria discorreva con Gabrielle. Dopo qualche tempo la cameriera ritornò a dire che, di sopra, Engelshausen non c’era, ma un cappotto e un cappello – evidentemente i suoi – erano ancora appesi nell’ingresso.
I tre si guardarono l’un l’altro, quindi il colonnello disse che se Engelshausen non c’era, dovevano andare a casa a piedi. Gabrielle però fece presente che le era scomodo camminare con le sue scarpe da sera; e chiese se non fosse proprio possibile avvertire Engelshausen che lo stavano aspettando.
Il colonnello pertanto tornò di sopra con Gabrielle, e curiosamente anche Gasparinetti rientrò con loro, benché la cosa in fondo non lo riguardasse. «Sei sicura che Engelshausen voleva portarci a casa?» chiese il colonnello alla figlia.
«Sì» rispose lei. «Certo. Del resto dev’essere ancora qui, sennò la sua vettura sarebbe già andata via». Nell’ingresso c’erano ancora cappotto e cappello, e i Flesse, aiutati dalla cameriera rimasta di sopra, stavano disponendosi a rimettere un po’ d’ordine.
Entrando, il colonnello si scusò di essere tornato indietro e aggiunse che stava cercando Engelshausen. I Flesse, stupiti, risposero che neppure loro lo avevano visto. Forse, dissero, se n’era già andato?
«Non è venuto a salutarti?» chiese Flesse alla moglie.
Ella rispose che non se ne ricordava. E Gasparinetti fece osservare che quando tante persone se ne vanno nello stesso momento, non sono necessariamente tenute ad accomiatarsi una per una.
«Quand’è l’ultima volta che hai parlato con Engelshausen?» chiese il colonnello a Gabrielle.
«Poco fa» rispose lei.
«E dove?» domandò lui.
«Qui» disse lei. «In una delle stanze. Però non so più esattamente quale».
Passarono dunque di camera in camera: qualche finestra era già stata aperta, altre erano ancora chiuse, e lì l’aria era satura del fumo di sigarette e dell’odore acre dei camini. La cera delle candele era colata e le fiammelle vacillavano. La luce inquieta ballava e baluginava sui dipinti in cui le figure ritratte, gran parte delle quali in uniforme bianca, parevano torcersi in pose innaturali, quasi che il fumo le soffocasse. Gasparinetti parlava senza sosta, come in un accesso di logorrea nervosa.
Finalmente entrarono in una camera dove le candele erano ormai spente. L’odore di cera colata ristagnava nell’aria. Si arrestarono per un attimo nell’oscurità impregnata di fumo e di calore.
Quindi Flesse accese la luce. La stanza era tappezzata di broccato rosso, le pareti affollate di quadri, ventagli d’avorio incorniciati e miniature. In una vetrina vi erano porcellane dipinte. Le tende alle finestre erano chiuse, e davano un che di ovattato alla camera. Un paravento di palissandro lucido, adorno di alcune calcografie colorate, era spostato verso il centro della stanza.
Sulla tavola, in mezzo a bicchieri vuoti, una bomboniera, posacenere d’argento e simili, vi era una bottiglia di Chartreuse.
Ai piedi del divano rivestito di seta, in una postura insaccata che ne rendeva stranamente informe il corpo, giaceva Engelshausen.

3

Parve dapprima che fosse supino, perché la faccia era rivolta al soffitto. Ma bastava accostarsi per notare che, in realtà, egli sarebbe stato prono, se non avesse avuto appunto la faccia rivolta al soffitto. Essa guardava, in modo affatto inconsueto e sconcertante, al di là della schiena, a cui per nulla si accordava. Anche le braccia giacevano, sinistramente scontorte, sotto il corpo, e le gambe poi parevano giustapposte, e in certo senso buttate là, con tale negligenza che la forma di quella persona non poteva più dirsi normale. Un pantalone era risalito lungo la gamba scoprendo un tratto di pelle al di sopra della calza. Il corpo giaceva in una quiete perfetta.
La signora von Flesse cascò con un gemito su una sedia, premendosi il fazzoletto da qualche parte sul volto. Gli uomini si avvicinarono al corpo lì disteso. La sua figura sembrava visibilmente rimpicciolita. I morti, in genere, fanno un’impressione simile solo dopo una lunga malattia che li abbia consunti. Ma chi se ne va di morte improvvisa pare spesso assai più piccolo. È come se di colpo gran parte del peso corporeo fosse venuta meno. Già chi è caduto a terra appare molto più piccolo. Come il mondo si compone in massima parte di movimento e solo minimamente di massa, così pure l’uomo è sostanziato più dalla sua postura che dalla sua complessione. Tolta la postura, il resto non è quasi più nulla, si sbriciola, e tosto è come se mai fosse stato.
La bocca di Engelshausen e i suoi occhi erano aperti. La lingua spuntava da un angolo della bocca. La faccia aveva un colore stranissimo. Si sarebbe detto che fosse tutta scura. Ma quella sua scurezza si manifestava ormai solo in residui o tracce che, sospinti per così dire dal sangue in certi punti del volto, soggiacevano a uno strato di pallore che vi si era depositato sopra, simile a una crema dal candore di neve. Sulla guancia sinistra aveva un ematoma solcato da un graffio, come per una percossa.
Rochonville toccò il corpo, che gli parve diaccio o quantomeno freddo. Quel poco di calore in cui consiste la vita era ormai volato via, come il calore di un uccello. Poteva essere trascorso un quarto d’ora dacché Engelshausen era morto. E Gasparinetti, dopo essere rimasto per un po’ curvo su di lui a osservarlo, dichiarò che aveva l’espressione di uno portato via dal diavolo.
Il colonnello, giudicando indecoroso quel modo di esprimersi, rimbeccò Gasparinetti, il quale volle giustificarsi dicendo che a Engelshausen – lo vedeva chiunque – avevano torto il collo, come notoriamente fa il diavolo quando viene a prendersi qualcuno.
Torto il collo! gridò esacerbato il colonnello. Credeva forse Gasparinetti, proseguì, che fosse tanto semplice torcere il collo a una persona? Semplice o no, ribatté il capitano di cavalleria, era un fatto che gliel’avevano torto. Come si spiegava, altrimenti, che aveva la faccia al posto della nuca? E con tali parole, chiaramente offeso, si rialzò per andare alla finestra. A questo punto dovette sembrargli opportuno cavarsi infine il cappello che per tutto il tempo aveva, anche nelle stanze, tenuto in testa. Dopodiché aprì le tende, dietro le quali la finestra, probabilmente per aerare un poco, era stata solo accostata. Il capitano di cavalleria spalancò i battenti. La signora von Flesse prese a lamentarsi ad alta voce, chiedendosi com’era possibile una simile disdetta, e Flesse rispose in tono brusco che era perché si invitava sempre gente – da ciò si evinse che i continui inviti erano opera della signora von Flesse e che il signor von Flesse non amava quelle compagnie. Ma non era certo il momento di gettar la croce addosso ai padroni di casa. Chi mai, gridò la signora von Flesse, chi mai poteva aver ammazzato Engelshausen, e per quale motivo? Nessuno ne aveva idea. Con ogni evidenza era stato uno degli invitati.
«Oh, è atroce!» esclamò la signora. «È una cosa atroce!». Il colonnello si accinse a sollevare il morto e ad adagiarlo sul divano, ma Flesse fece presente che non si poteva: doveva rimanere lì dov’era finché la polizia, avvisata, non lo avesse esaminato. Ma in nome di Dio, strillò la von Flesse, quanto ci doveva rimanere, in terra? Lei aveva la camera da letto proprio lì accanto!
In effetti quel locale confinava con la sua camera da letto. Il colonnello, esasperato dal comportamento di Gasparinetti e dalle urla della signora, porse il braccio a quest’ultima per condurla fuori, mentre Flesse si precipitò nell’ingresso a telefonare. Gabrielle, che per tutto il tempo non aveva detto una parola, gli andò dietro. L’ultimo a uscire fu il capitano di cavalleria.
Un tentativo di discutere il caso, messo in atto dagli uomini, fu provvisoriamente sventato con successo dalla signora von Flesse, la quale affermò che solo un corteggiatore di una delle sue cameriere poteva aver commesso il delitto, essendo del tutto ridicolo pensare che i suoi ospiti si ammazzassero fra di loro. Le ragazze, subito convocate, dichiararono però di non avere corteggiatori. La signora tuttavia replicò di aver motivo di dubitarne. Non credeva, ecco, a un’esistenza vuota d’amore. E comunque tollerava il corteggiamento soltanto nella cosiddetta buona società. In altri ceti sociali era un orrore. Vedeva dappertutto nascosti gli amanti delle sue persone di servizio. Ne nacque un battibecco nel corso del quale una delle ragazze si licenziò e uscì di corsa dalla stanza. L’altra, di aspetto sgradevole, si mise a piangere. Anche lei venne invitata a uscire da Flesse, che mal sopportava i sottintesi erotici nelle asserzioni della moglie. Gasparinetti però disse che il sospetto manifestato da sua eccellenza andava forse in una direzione non del tutto infondata, giacché in quella che si suol chiamare l’alta società quasi nessuno disporrebbe della forza necessaria a torcere il collo a un uomo. Che ciò richieda una forza fuori dell’ordinario l’aveva del resto testé accennato anche il colonnello. Ci voleva un fabbro, o un facchino, o un macellaio, per provvedere alla bisogna. E come sarebbe mai finito tra gli invitati un simile uomo di fatica! esclamò la signora von Flesse. Ma il capitano di cavalleria rispose che non doveva trattarsi necessariamente di uno degli invitati. E di chi allora? chiese Flesse, incominciando poi a raccontare d’aver conosciuto un certo conte Wagensperg che era capace non solo di strappare in due, con le nude mani, un mazzo di carte o di spezzare una moneta, ma addirittura di accartocciare un piatto d’argento come un foglio di carta, cosa tanto più bizzarra in quanto costui esercitava la professione puramente intellettuale di procuratore prefettizio.
Gasparinetti osservò che per strappare un mazzo di carte si ricorre a un semplice trucco, e ben presto ciascuno dei presenti fu impegnato soltanto a far valere il proprio punto di vista, senonché la controversia venne interrotta dal sopraggiungere della commissione di polizia, composta di numerosi agenti in divisa che furono subito introdotti nella stanza in cui giaceva Engelshausen. Vi rimasero qualche tempo, fotografando il cadavere e ispezionando il luogo. Gli altri, fuori, stavano in ascolto. Quindi gli agenti ricomparvero a chiedere un elenco degli invitati presenti quella sera. Mentre Flesse stilava l’elenco, il commissario capo avviò con gli altri una sorta di interrogatorio.
Ne risultò anzitutto che fra il momento in cui Engelshausen era stato visto per l’ultima volta in compagnia e il momento in cui era stato trovato il cadavere erano trascorsi all’incirca tre quarti d’ora. Gli invitati che in quel frangente critico erano stati visti da tutti in compagnia vennero espunti dall’elenco perché non sospettabili.
L’ultima ad aver parlato con Engelshausen era stata, a quanto pareva, Gabrielle Rochonville.
Il quadro che alla fine si riuscì a comporre era all’incirca il seguente:
Gabrielle ed Engelshausen, dopo aver conversato per qualche tempo insieme al resto della compagnia, si erano alzati a fare due passi per la casa. Ed erano giunti nella camera rossa. In quella camera non c’era nessuno. Si erano seduti sul divano, fumando sigarette e bevendo qualche bicchiere di Chartreuse che era sul tavolo.
In quel frattempo nessun altro aveva messo piede nella stanza. Mentre seguitavano così a discorrere, Engelshausen aveva fatto la proposta di accompagnare a casa con la sua vettura Gabrielle e il colonnello. Gabrielle si era alzata e, per andare a riferire al padre l’offerta di Engelshausen, era uscita dalla camera, in cui Engelshausen era rimasto solo. Trovando però gli invitati che si accingevano a congedarsi, aveva potuto parlare con il padre soltanto nel vestibolo.
Dopo le dieci e mezzo di sera – testimoniarono le cameriere – nessun altro ospite (né altra persona di sorta) aveva messo piede nell’appartamento. A uccidere Engelshausen, pertanto, poteva essere stato solo uno degli invitati, o qualcuno entrato per una delle finestre e poi anche riuscito dall’appartamento per una delle finestre – presumibilmente quella della camera rossa, che Gasparinetti aveva aperta, trovandola solo accostata dietro le tende. Peraltro le cameriere dichiararono in proposito che la finestra, in origine, non era né accostata né nascosta dalle tende, ma spalancata su disposizione del signor von Flesse per meglio aerare i locali surriscaldati. Bisognava quindi che qualcuno l’avesse accostata e avesse tirato le tende, e in effetti Gabrielle confermò che Engelshausen l’aveva chiusa quando erano entrati nella stanza.
L’appartamento dei Flesse si trovava al primo piano. Il giardino sotto le finestre era in realtà un semplice cortile circondato da case. Sul muro dell’edificio in cui abitavano i Flesse una spalliera di vite selvatica si arrampicava fino all’ammezzato. Tutti i portieri dei palazzi vicini attestarono però che, dopo le dieci di sera, nessuna persona a loro sconosciuta aveva chiesto di accedere agli appartamenti. Sicché se veramente qualcuno era entrato da una finestra che dava sul giardino, costui doveva abitare in uno dei palazzi adiacenti. Ma non si trovarono né orme nel terreno sotto le finestre dei Flesse, né residui di terriccio sul davanzale o sui tappeti della camera.
Tutte le ispezioni del caso furono seguite con impazienza da Gasparinetti. Stava lì fra una stanza e l’altra, osservando ora questo ora quel poliziotto andare e venire, inarcando le sopracciglia e battendosi col cappello, che reggeva nella destra, a intervalli regolari sulla coscia.
«Ma tutto questo,» disse infine a Flesse «voglio dire: questo genere di indagini, nel suo complesso, è inutile! Detesto questo investigare con la lente d’ingrandimento, questo strisciare per terra, questo fotografare e misurare. Potrà servire in qualche caso, ma non come principio esclusivo. È indegno di un uomo d’una certa intelligenza sudare sette camicie quando una semplicissima riflessione – purché ci si dia la pena di farla – può portare allo scopo».
«E quale riflessione?» disse Flesse.
«Qualsiasi» replicò Gasparinetti. «Qualsiasi e di qualunque genere. Una qualunque. Purché sia una riflessione. Bisognerebbe domandarsi, per esempio, il motivo per cui qualcuno avrebbe attentato alla vita di Engelshausen. E hanno davvero attentato alla sua vita, poi? O non è rimasto vittima, piuttosto, di un malinteso o di un caso o di un’assurdità? A una tragica assurdità ci rifiutiamo di credere, ma non possiamo negare che già di per sé la tragicità è assurda. Oppure, se non si è trattato di un abbaglio, che cosa faceva lui, Engelshausen, tutto il tempo, di che mai si occupava ogni santo giorno? Quali nemici aveva? E soprattutto, che amici aveva? Con che donne era in relazione, quale rapporto intratteneva con Gabrielle Rochonville? Di che cosa ha parlato, che cosa ha fatto con lei in quella camera dove ora giace disteso? E la porta era chiusa? O l’ha forse chiusa Gabrielle uscendo di lì? Magari però lo ha fatto qualcun altro. Perché quando siamo arrivati noi la porta era chiusa. O tu credi per caso che il commissario abbia già raccolto tutte queste informazioni? Il denaro che il morto aveva in tasca, la polizia l’avrà già contato, ma di avvertire i suoi genitori non è venuto in mente a nessuno».
«Credi?» disse Flesse. «Cioè, volevo dire: ti pare? Faceva la corte alla Rochonville, la cosa è piuttosto risaputa».
«Sì» disse Gasparinetti. «Ma allora perché, per esempio, l’ha lasciata tornare sola dagli altri invitati e lui è rimasto nella stanza? Mi concederai che è alquanto inconsueto non riportare una signora alla compagnia da cui ci si è allontanati al suo fianco. E perché lei non è andata subito dal padre a dirgli che Engelshausen voleva condurli a casa? Per quale ragione glielo ha detto solo nel vestibolo? Lei sostiene che è perché tutti stavano già andando via. Ma qual è il motivo reale per cui ha voluto lasciare Engelshausen da solo per un certo tempo? E che persona è, come passa le giornate, che amici ha?».
Flesse lo guardò. «Ne sai qualcosa, tu?» domandò.
«No» disse Gasparinetti. «Ma il commissario dovrebbe prendere informazioni».
«Non è il compito di una commissione come questa» disse Flesse. «Dubito perfino che abbia il diritto di fare simili domande, a prescindere dal fatto che forse non otterrebbe per risposta la verità».
«Tutti dicono la verità» replicò Gasparinetti. «La dicono anche mentendo. Sta a chi pone le domande ricavarla dalla menzogna».
«Ma questi sono luoghi comuni belli e buoni» obiettò Flesse. «Chi ne sarebbe davvero capace?».
«La verità,» affermò il capitano di cavalleria «la prendono tutti per un luogo comune. Sotto questo punto di vista si cela la coscienza sporca».
«Insomma, che ne pensi tu dell’intera faccenda?» volle sapere Flesse.
«Non è compito mio pensarne qualcosa» replicò il capitano. «Volevo solo dire che ritengo inutile trattenerci qui mentre la polizia ispeziona con la lente d’ingrandimento i davanzali».
E con questo, riprese a camminare per le diverse stanze.
Nel frattempo si era accertato che né in cucina né in altri luoghi della casa le cameriere stesse avevano sentito rumori o grida riconducibili a quanto stava accadendo nella camera rossa. E lì, del resto, non c’era la minima traccia di colluttazione. Engelshausen sembrava essere stato sopraffatto senza alcuna possibilità di disporsi alla difesa, e poi ammazzato. Tutto ciò attestava un’enorme risolutezza e brutalità nell’omicida. Quale fosse la natura precisa della ferita, la commissione non fu in grado di accertare.
Con questo risultato il commissario e i suoi si ritirarono. Gasparinetti lo guardò mentre se ne andavano, quindi fece un gesto della mano come a dire: tanto non si troverà niente, e accomiatandosi andò via pure lui.
Rientrati nella camera rossa ci si avvide che Engelshausen era adesso disteso sul divano; e anche per altri rispetti la polizia aveva rimesso un certo ordine nella sua persona. Benché gli occhi fossero ancora aperti, la testa posava sul bracciolo e il mento era puntato sul petto, sicché la bocca adesso era chiusa. Ma anche prescindendo da questo, l’espressione del viso era di nuovo cambiata. Ogni volta che rimaneva per un po’ solo, sembrava, poi, che qualcosa lo avesse mutato. Ogni tumefazione si era dileguata dalle sue fattezze, quasi egli stesso se ne fosse ritratto per ricoverarsi in qualche luogo interno; solo il graffio sulla guancia spiccava ancor più arrossato; e dai lineamenti emergeva un’affilatezza che non era sua, ma forse dei suoi antenati – fors’anche dei discendenti che non avrebbe avuti.
Una mosca ronzò posandosi vicino a un angolo della bocca.
«Povero diavolo» disse il colonnello. Gli chiuse gli occhi. E vi riuscì solo con un certo sforzo. Gli uomini si consultarono quindi per decidere chi di loro avrebbe chiamato i genitori di Engelshausen. Perché lasciarne l’incombenza alla polizia non si poteva certo. Flesse non se la sentiva, sicché il colonnello si risolse a farlo.
La telefonata gli risultò incresciosa. Il padre di Engelshausen disse, in conclusione, che sarebbe venuto. In un primo momento il colonnello approvò, ma poi aggiunse di sentir gente che stava entrando, con ogni evidenza per portare via il morto. Ma dove? chiese il vecchio. A casa? Il colonnello non era in grado di dirglielo. Assicurò che sarebbe subito andato a trovare gli Engelshausen. Quando trasportarono la salma giù per le scale, i Rochonville tennero dietro.

FONSECA

1

Il funerale ebbe luogo soltanto quattro giorni dopo, alla presenza anche dei compagni di reggimento del morto. Questi erano, oltre Rochonville, il maggiore Lukawsky, il sottotenente Fonseca e il tenente Silverstolpe, nonché il caporale Slatin. Il capitano di cavalleria Marschall von Sera non era venuto: lo tratteneva altrove un impegno irrinunciabile, e se ne scusava.
Doveva essere stato desiderio del defunto, espresso peraltro in forma occasionale e senza alcun sospetto di una prossima dipartita, venir sepolto in uniforme – non già la semplice, ma quella dai molteplici colori. Questo almeno asseriva il vecchio Engelshausen. Rochonville e Silverstolpe, inoltre, avevano visto il morto nella camera ardente. Negli anni dopo la guerra Engelshausen doveva essersi ingrossato. L’uniforme non gli si chiudeva più sul petto, o comunque non c’era stato verso di agganciare i bottoni. Si era dunque finito per fermare la giacca con alcuni spilli. La si sarebbe anche potuta tagliare dietro e abbottonare davanti, ma quest’idea – evidentemente – non era venuta a nessuno.
Sul petto il morto non aveva la minima decorazione. C’era solo l’azzurro della giacca che pareva ancora singolarmente nuovo, come pure il colore dei risvolti e, al confronto, l’oro delle stellette e delle spalline risultava un po’ sbiadito e lasciava trasparire il rosso del fil di rame. Come passa il tempo! Già si cominciava a notarlo. Soltanto ieri quegli oggetti lustravano, così almeno sembrava. Frattanto l’espressione sul volto di Engelshausen era di nuovo mutata. Egli adesso pareva un vecchio dal naso affilatissimo, e neppure la benda bianca che gli fasciava la fronte, e che in altra circostanza gli avrebbe conferito un che di giovanile, poteva cancellare quell’impressione. Il graffio, che gli attraversava la guancia dallo zigomo al naso, si era scurito prendendo un color grafite, quasi fosse un frego di matita sulla faccia.
Silverstolpe, ritenendo che la giacca di Engelshausen potesse venir chiusa meglio di quanto non lo fosse ora, si accostò al morto e con l’aiuto degli spilli sovrappose le falde della giacca.
Così facendo si sovvenne del verso in cui – ora che aveva molto tempo per leggere – doveva essersi imbattuto di recente:
Vous lui remettrez son uniforme blanc.
Engelshausen fu sepolto sotto la pioggia, anzi sotto un vero diluvio. È curioso che, qualunque tempo faccia, esso non sembri mai adatto a tali circostanze. O piove, o fa troppo caldo, o il tempo è spensieratamente ameno, insomma: le esigenze poste da una simile circostanza non sono contemplate dalla natura. La parentela degli Engelshausen era convenuta in larga parte, tutta gente di bell’aspetto, che ora non se la passava bene, ma che sapeva portare con un certo decoro persino gli ingrati vestiti a lutto. C’erano anche molti invitati di quella sera dai Flesse, e in particolare i due padroni di casa. Gabrielle Rochonville non era presente. Il colonnello notò con compiacimento l’assenza di quel «chiacchierone» di Gasparinetti. Dalle molte corone funebri pendevano nastri con scritte quali: «All’unico figlio i genitori affranti», «Al compagno d’armi defunto gli ufficiali e la truppa del reggimento Due Sicilie», dov’era sottinteso il consenso di tutti coloro che non sapevano nulla della cosa.
Non ci furono discorsi funebri. Del resto non ci sarebbe stato da dire molto più di questo: che la buonanima non aveva, tragicamente, conseguito nulla: non la morte, non la vita – benché sia difficilissimo dire quale sia lo scopo reale di una vita o di una morte. Può essere che una vita breve abbia raggiunto il suo scopo, e può essere che una vita lunga sia senza scopo. Del resto l’intero funerale si svolgeva, per così dire, a fianco della realtà. Si percepiva che il mondo vero e proprio non vi aveva parte. Era quella un’epoca in cui non si amava la morte, senza peraltro saper vivere realmente.
Verso la fine della cerimonia smise di piovere. Poi, a gruppi, i convenuti lasciarono il cimitero. Gli ufficiali, tra di loro, commentavano il caso. Al sottufficiale, che si era tenuto rispettosamente in disparte, ognuno porse la mano, sì che quegli si accostò ad ascoltare la conversazione.
«I giornali» diceva Lukawsky «non pubblicano nuovi particolari. Io ritengo nondimeno possibile che l’indagine faccia progressi, anzi è senz’altro verosimile. Qualche altra cosa salta sempre fuori. Dalle mie cugine Cernuschio ho appreso che il commissario designato a indagare sul caso è un loro conoscente. Ho subito chiesto che mi invitino insieme a lui. Non si tratta però dello stesso che era dai Flesse. Alla commissione omicidi spettavano soltanto gli accertamenti. L’indagine vera e propria è poi passata a un’altra commissione – mi hanno spiegato –, e anche il commissario è stato sostituito. Comunque adesso è un altro. È uno dei Gordon. Sua madre era una Lang, dei Lang di Eggendorf. I Gordon erano proprietari minerari in Carinzia. Sono anche imparentati con i Chazal.
«Mi sono trovato innanzi un uomo ancora giovane, con una faccia rubizza e un po’ gonfia, come in seguito a un congelamento. Tutti i Gordon hanno delle facce così. Vestiva un abito di stoffa scozzese veramente pregevole. I Gordon hanno sempre fatto un certo sfoggio delle loro relazioni con l’industria estera. Mia madre sostiene che è facoltoso. Perché sia entrato nella polizia non è dato saperlo. Forse volevano così in famiglia, per ragioni pratiche.
«Quando ha sentito che conoscevo Engelshausen, ha mostrato interesse, o forse ha solo fatto finta. Oppure ha simulato un interesse di pura cortesia, mentre interessato lo era davvero. Parlando con me aveva un sorriso convenzionale, tra l’affaristico e il mondano, come ce l’hanno tutti i Gordon, magari ritengono d’essere considerati uomini d’affari troppo abili perché li si possa poi prendere per semplici uomini di mondo. Sullo stato delle indagini, a quanto sembrava, non voleva lasciarsi scappare nulla, forse perché non sono ancora approdate a nessun risultato, forse perché veramente non gli è consentito dire nulla. Stava lì seduto, come se non avesse mai fatto altro che sedere davanti a una tazza di tè, e si fingeva del tutto incompetente a saper qualcosa, dal momento che – come asseriva – c’erano tanti e tanti altri a occuparsi del caso, caso al quale, come in ogni altra faccenda pubblica, nessuno aveva un interesse personale. I Gordon hanno sempre fatto finta che nulla li riguardasse, finché non saltava fuori che avevano le mani in pasta dappertutto. Comunque cavargli qualcosa di bocca era un’impresa. Parlava sempre e solo riferendo notizie date dai giornali, che citava con cieca fiducia. Ora, tutti quelli che erano dai Flesse affermano che l’autore del delitto può essere entrato soltanto dalla finestra. La polizia, invece, sembra non desistere dall’idea che sia stato uno degli invitati. A corroborare questa tesi sta il fatto che se davvero un estraneo fosse entrato improvvisamente dalla finestra, Engelshausen avrebbe di sicuro gridato; e del resto nulla, come per esempio un certo disordine nella stanza e simili – a parte il graffio sulla guancia della vittima –, lascia credere che vi sia stata una colluttazione, anzi che Engelshausen sia rimasto anche solo stupito della comparsa improvvisa di qualcuno. Deve essere stato dunque uno degli invitati, a meno che Engelshausen non abbia proprio notato l’uomo che gli si appressava da dietro. In ogni caso costui, nel mettere a segno il suo proposito, deve anzitutto aver tappato con una mano la bocca alla sua vittima, per prenderle poi la testa fra le mani e spezzarle così, letteralmente, l’osso del collo.
«Non so però capacitarmi che un invitato dei Flesse abbia potuto risolversi a un atto del genere. Quand’anche fossimo disposti a commettere un omicidio, a noialtri non passerebbe mai per la testa di torcere il collo a qualcuno, come a una gallina – a prescindere dal fatto che non ne saremmo materialmente in grado. E poi non si capisce perché l’assassino, se non per un attacco improvviso di indescrivibile furore, abbia agito in casa dei Flesse, in mezzo a tante altre persone che sarebbero potute entrare in ogni momento nella stanza, anziché aspettare un’occasione e un luogo più propizi. Del resto il motivo rimane completamente oscuro. Ho chiesto a Gordon se Engelshausen conduceva una vita sregolata, tale da procurargli nemici. Io in effetti – dissi – lo conoscevo soltanto di sfuggita, sicché non potevo arrogarmi il diritto di giudicare, né lui né il suo stile di vita. Gordon rispose però che, per quanto era venuto a saperne, la vita di Engelshausen era la più mediocre e comune ci si possa immaginare. E come sarebbe potuto essere altrimenti! Avrei ben dovuto aspettarmi una risposta del genere, data la natura del mio interlocutore. Domandai allora se lui, Gordon, nell’impossibilità di ipotizzare un altro plausibile movente del delitto, non pensasse che fosse avvenuto a causa di una donna. Ma Gordon rispose subito che Engelshausen aveva di sicuro avuto solo fuggevoli rapporti con le donne».
Il colonnello, che era avanzato d’un mezzo passo rispetto agli altri, alzò gli occhi. «Che cosa intendi con questo?».
«Signor colonnello?» disse Lukawsky.
«Che cosa intendi parlando di relazioni fuggevoli con le donne? O meglio: che cosa intendeva quell’uomo, il commissario, con queste parole?».
«Con ogni evidenza,» rispose Lukawsky «voleva dire che Engelshausen non prendeva troppo sul serio quel genere di cose e che, per converso, probabilmente neppure le donne a cui si interessava davano particolare importanza a lui».
«Ah sì?» disse il colonnello. «E come fa a saperlo?».
«Immagino da informazioni che avrà raccolte sul passato di Engelshausen».
«Ma in questo caso non può essere una donna il movente del delitto».
«No di certo» disse Lukawsky. «C’è solo da chiedersi se il ragguaglio che mi ha dato il commissario corrisponda alle sue effettive opinioni. Io questo non lo so, posso dire soltanto che con quel suo modo di prendere ogni cosa alla leggera ha finito per ottenere il contrario di quanto forse si prefiggeva – perlomeno con me, visto che l’ho lasciato, in fondo, con la convinzione che ne sappia più di quanto mi ha rivelato. Certo non era tenuto a dirmene qualcosa; al contrario, non ne aveva – con ogni evidenza – neppure il diritto».
Il colonnello, dopo un attimo, disse: «Insomma, tu quindi credi che il movente possa essere stato una donna».
«Non lo credo» disse Lukawsky. «Ritengo solo che non sia escluso».
Il colonnello tacque, e dal momento che con le sue domande aveva in certo senso tratto a sé la conversazione, tacquero anche gli altri. Ma nel frattempo erano arrivati al cancello del cimitero, e il caporale chiese di potersi accomiatare. Il colonnello gli porse la mano guardandolo distrattamente, dopodiché gli diedero la mano anche gli altri.
«Ma lei come sta, Slatin?» domandò Silverstolpe.
Il caporale ringraziò.
«E sua moglie? E il bambino?» continuò Silverstolpe.
«Bene anche loro» rispose il caporale. Quindi salutò.
«Probabilmente» disse Silverstolpe seguendolo con lo sguardo «sta meglio di noi». Slatin era stato uno dei suoi. Non sapevano che vivesse a Vienna, fin quando Silverstolpe l’aveva incontrato per caso. Al reggimento Silverstolpe non aveva avuto l’impressione che Slatin fosse un buon sottufficiale. Adesso era una figura modesta, ma assolutamente ammodo. «La sventura che ti casca addosso,» disse Lukawsky, cui piaceva riflettere «la sventura non serve mica a cavartene fuori. Il suo unico senso è che tu la sopporti decorosamente»; in risposta Silverstolpe manifestò il dubbio che Slatin considerasse una grande sventura i mutamenti sopravvenuti nella sua esistenza.
Il caporale si era sposato subito dopo la guerra e ora mandava avanti il negozio lasciatogli dai suoceri. Aveva una figliola, una bella bambina, che Silverstolpe aveva vista una volta. «Forse ci saremmo dovuti sposare anche noi» disse Silverstolpe. Lukawsky in realtà aveva moglie. Gli altri però erano scapoli impenitenti.
Erano indecisi se prendere una vettura, ma siccome il colonnello puntò senza parlare in direzione del tram, gli altri vi montarono con lui. Fonseca sosteneva sempre che il colonnello viaggiava in tram per principio e con una certa dignità. Durante il tragitto, tutti stretti sui sedili, tirarono a sé gli ombrelli bagnati. Dappertutto, infatti, anche nel corridoio, c’era gente in piedi. Fonseca parlava con Silverstolpe. Il colonnello invece taceva, e così pure Lukawsky.
Arrivati al Ring scesero, e subito dopo il colonnello salutò, quasi volesse assolutamente evitare di tornar sull’argomento rimasto in sospeso al cimitero. Gli uomini fecero un inchino formale. «Spero che ci rivedremo in un’occasione meno triste di questa» disse il colonnello.
Quindi si allontanò in direzione del parco cittadino.
Lukawsky lo seguì con lo sguardo. E infine si rivolse agli altri due dicendo: «Gradirei scambiare ancora due parole con voi, da me».
«A casa tua?» chiese Silverstolpe.
«Sì. Ho ancora diverse cose da discutere, che non intendevo menzionare in presenza del colonnello».
«Prego» disse Silverstolpe dopo un istante.
Andarono a piedi, e cammin facendo parlarono di cose irrilevanti. Lukawsky abitava nella Marokkanergasse, dove aveva preso in affitto alcune camere di modeste pretese. Sua moglie aprì agli ospiti. Mentre questi si sfilavano i cappotti, egli scambiò due parole con la donna, che fece portare il tè. Dopo una mezz’ora, ella si scusò e uscì dalla stanza.
«Mi dispiace» disse Lukawsky quando la moglie li lasciò soli «che Marschall non si sia fatto vedere, avrei voluto parlare anche con lui».
«Mi aveva fatto sapere fin da ieri» disse Silverstolpe «che non sarebbe potuto assolutamente venire».
«Va bene» disse Lukawsky. «Dunque, desidero anzitutto continuare il mio resoconto, ma in modo più dettagliato. L’idea che adesso – dopo che sono state sentite così tante persone e vagliate accuratamente le circostanze – possiamo farci dei fatti di casa Flesse è più o meno questa: mentre si trovavano in quella stanza, Engelshausen e Gabrielle Rochonville sono stati, a quanto sembra, tenuti d’occhio e forse anzi sorpresi in un atteggiamento che ha provocato una reazione immediata e talmente violenta di un terzo individuo – il colpevole – da portare alle tragiche conseguenze che conosciamo. Il fatto non è altrimenti spiegabile. I due devono essere stati osservati o da una delle porte – e dunque da un invitato –, oppure da qualcuno che non poteva far parte degli ospiti, da una delle case vicine, attraverso la finestra che era aperta quando i due entrarono nella stanza. La Rochonville, è vero, ha dichiarato che Engelshausen andò subito a chiuderla. Ma può averla chiusa in un secondo momento. In ogni caso l’hanno trovata soltanto accostata. E per quale motivo ha tirato anche le tende? O forse è stata Gabrielle a farlo? Quando hanno trovato Engelshausen, la porta a due battenti era chiusa. Pertanto la stessa Rochonville, uscendo dalla stanza per andare in cerca di suo padre, deve averla chiusa – o è stato invece il colpevole che poi l’ha riaperta e di nuovo chiusa? C’è però una seconda porta che dà in quella stanza, dalla camera da letto della signora von Flesse. Il colpevole può anche essere entrato di lì per poi uscirne.
«Vediamo insomma tre possibilità. L’assassino è entrato o dalla porta principale o dalla porta della camera da letto o dalla finestra. In questi due ultimi casi è molto probabile che sia entrato di sorpresa. E il delitto può essere avvenuto mentre Gabrielle Rochonville era ancora nella stanza, oppure dopo che ne era uscita. Comunque l’assassino può essere entrato quando Gabrielle si trovava ancora lì. Lei sarebbe quindi o rimasta fino a delitto avvenuto o uscita prima. Il delitto dev’essersi consumato mentre gli invitati stavano andando via, o immediatamente prima. Tra la partenza degli invitati e il ritrovamento di Engelshausen sono trascorsi circa venti minuti o mezz’ora.
«Ora io non credo che la Rochonville sia stata testimone del delitto. Altrimenti non avrebbe insistito a dire che Engelshausen intendeva accompagnarla a casa. Certo è anche possibile che abbia insistito solo perché sapeva che non sarebbe ormai stato possibile. Tuttavia, come detto, è in effetti pensabile che lei sia uscita dalla stanza quando l’assassino vi si era già introdotto, anzi che ne sia uscita proprio perché quegli era entrato, e che abbia lasciato che i due, lui e Engelshausen, discutessero fra loro, benché certo non potesse prevedere le conseguenze tragiche di tale discussione. Non è da escludere, inoltre, che lei, se anche non ha visto il responsabile, sappia o quantomeno sospetti chi sia. Ed è infine possibile che non abbia visto il colpevole né sappia chi è.
«Può avere diverse ragioni per non rivelare chi è il responsabile. O non vuole farlo perché ama quella persona e con la sua deposizione non intende perderla. Oppure non osa farlo perché ha paura di cadere vittima della sua vendetta, prima che la polizia lo abbia catturato. Oppure non sa con certezza chi sia. Oppure crede di potersi cavare d’impaccio rifiutando di dare indicazioni. Oppure ancora non può dare indicazioni perché non conosce il colpevole. È pur sempre possibile, infatti, che l’omicidio sia stato commesso per altre ragioni, e non per causa sua. Come potete constatare, per quanto ripugnante mi risulterebbe vedere la figlia di Rochonville coinvolta in questa vicenda, passo in rassegna tutte le eventualità nel modo più obiettivo e spassionato possibile.
«Eppure viene spontaneo pensare che lei abbia un rapporto reale con il fatto, e un rapporto se non diretto, quantomeno indiretto. Certo non si può escludere che non vi abbia invece alcun rapporto, ma è improbabile. Per il momento l’opinione pubblica s’interessa poco di questi rapporti, essendo impaziente di sapere piuttosto chi è l’autore del delitto. Quanto meno gli uomini sono capaci di pensare, tanto più sciaguratamente sono propensi a voler risolvere i casi criminali più enigmatici. E così facendo ignorano ogni autentico delitto. Alla gente sembra di somma rilevanza sapere chi ha commesso un omicidio. Una volta che l’hanno scoperto, però, non sanno più che farsene, e all’agitazione universale subentra una gran noia. Un nome, in fondo, non dice niente; e di un atto che sia in qualche misura inconsueto l’universale normalità non se ne fa nulla. Reputo dunque che, per quanto interessanti siano le premesse di quell’atto, non dobbiamo tanto chiederci di quale natura esse siano o chi abbia commesso il delitto, dato che il povero Engelshausen ormai è morto, e la giustizia procederà col responsabile come riterrà adeguato; a riguardarci, invece, è soprattutto il fatto che questo responsabile, chiunque egli sia, farà, dovrà fare delle dichiarazioni, nel caso – s’intende – che la polizia riesca a catturarlo. Allora però non salterà fuori solo il movente del delitto, ma verranno anche menzionate tutte le circostanze accessorie del caso. Le relazioni di quel soggetto con altre persone verranno tutte quante sciorinate, si rovescerà l’intero cesto dei suoi panni sporchi, e suppongo che anche voi ci abbiate già riflettuto a sufficienza per prevedere quale disgustoso polverone ne verrà sollevato».
Silverstolpe guardava nel vuoto, e Fonseca fissava Lukawsky.
«Non è forse così?» domandò Lukawsky.
Fonseca alzò le spalle e le lasciò ricadere.
«No» disse infine. «Non necessariamente. È vero che oggi ci sono più scandali che mai, ma quanti più ce ne sono, tanto meno scalpore fanno. Ce ne sono troppi, ecco, perché valga la pena ogni volta mettere il mondo a rumore. Un tempo il mondo si annoiava per mancanza di scandali, oggi si annoia per la loro sovrabbondanza. Gli uomini non trovano mai il giusto mezzo. Qualunque cosa sia successa qui, succede ogni giorno...».
«Certamente» disse Lukawsky. «Ma in tutti gli altri casi non è un delitto il motivo per cui l’intera opinione pubblica si interessa veramente. In questo caso, invece, l’opinione pubblica mostrerà sommo interesse verso tutto ciò che l’assassino dovrà confessare».
«Non credo» disse Silverstolpe. «O perlomeno non credo che farà grandi ammissioni».
«Perché non lo credi?».
«Non lo ritengo comunque sicuro, perché non vorrà compromettere una donna che gli sta talmente a cuore da avere commesso il delitto solo per lei».
«Nella sua situazione non potrà certo usare riguardi per il cosiddetto buon nome di lei».
«Ma farà di tutto per non coinvolgerla almeno nel delitto. Non la menzionerà neppure, se appena gli sarà possibile; e di conseguenza lei non verrà toccata dalle sue dichiarazioni».
«Forse» disse Lukawsky. «Ma quand’anche sottacesse il peggio, ci si potrebbe comunque risalire. Di più: non si smetterebbe mai di risalirvi. Del resto ritengo impossibile che costui riesca a indicare un movente senza dover insieme ammetterne i presupposti. E questi presupposti sono già di per sé il movente».
«È vero» disse Silverstolpe. «Resta però in sospeso l’attendibilità delle tue congetture».
«Non erano forse anche le tue?».
«Non tanto per convinzione, quanto perché non volevo essere di parere diverso...».
«Che vuol dire? Ma perché continui a toccarti la mano?».
«Ho qualcosa» disse Silverstolpe. «Ma non è niente d’importante. Dicevi?».
«Fa’ vedere!» ingiunse Lukawsky.
«Non è niente. Un puntolino, qui, nell’interno del dito medio».
Gli altri due si curvarono a guardargli la mano. Sembrava una pustolina.
«Da quando ce l’hai?» domandò Lukawsky.
«Da oggi. O comunque me ne sono accorto solo stamattina. Qual era allora la tua opinione?».
«Sono partito dal principio» disse Lukawsky «che tutto è possibile. In generale: qualunque idea, per inverosimili che siano i risultati cui porta, va tenuta salda, purché sia coerente sul piano logico. La maggior parte degli uomini non approda a nulla e non scopre mai la verità, o perché giudica troppo faticoso perseguirla, o perché i risultati dei suoi ragionamenti le sembrano impossibili. Ma quel che oggi è impossibile, domani è un’ovvietà. Sì, è perfino pensabile che gran parte di quanto accade sia possibile solo perché la gente non è in grado di ragionarci sopra».
«Va bene» disse Fonseca dopo aver fatto una pausa. «E che cosa ti ha detto in realtà quel Gordon?».
«Quello che vi ho già raccontato».
«Nient’altro?».
«No».
«Pensavo che non volessi dirlo davanti al colonnello».
«Al contrario: volevo persino sapere che cosa ne avrebbe detto il colonnello».
«E hai l’impressione che ci siano già elementi a carico di qualcuno?».
«Di certo non si è ancora proceduto a nessun arresto. D’altra parte, sarebbe ormai troppo tardi».
«Troppo tardi per che cosa?».
«Per prendere una qualche iniziativa».
«E cosa pensi che si potrebbe fare?».
«Bisognerebbe assolutamente cercare di impedire che diventino di pubblico dominio questioni di cui non desideriamo che si parli».
«Con ogni probabilità ci sarebbe una trattazione segreta del caso».
«E allora, che qualche voce ne arrivi all’opinione pubblica».
«E come vorresti, semmai, prevenirlo?».
«Non lo so ancora» disse Lukawsky. «Dipenderà dalla situazione. Per ora non è così importante come venir a sapere di chi si tratta».
«Insomma, per prima cosa occorre scoprire l’identità dell’assassino?».
«Per noi sì».
Fonseca si accese una sigaretta.
«E nemmeno la polizia, tu credi, sa chi sia?».
«Anche se lo sapesse, Gordon non me lo direbbe».
«Be’,» replicò Fonseca «se da lui non riesci a cavar nulla, caverai forse qualcosa da qualcun altro».
«Non saprei da chi».
«Magari da Gabrielle Rochonville?».
Lukawsky non rispose, e vi fu una pausa di silenzio. Finalmente parlò Silverstolpe:
«Ma, posto pure che abbiate ragione e che sappiate che cosa fare, chi vi autorizza a immischiarvi nelle faccende dei Rochonville? Chi vi dice che il colonnello, o che la stessa Gabrielle non abbiano forse già...».
«Il colonnello,» disse Lukawsky «benché non riesca a sottrarsi all’universale congettura che Gabrielle sia implicata nel caso – glielo si legge in faccia –, passa probabilmente il tempo sperando che la figlia non abbia in fin dei conti niente a che fare con l’intera vicenda. Che Gabrielle compia poi i giusti passi per cavarsi d’impiccio, lo credo ancor meno, ma meno di tutto lo credo se lei aveva davvero una relazione con l’assassino. Vedi dunque che gli stessi Rochonville o, diciamo, il colonnello potrebbero presumere che proprio noi ci adoperiamo a occultare il peggio».
«Ma chi vi dà il diritto di prendere un’iniziativa in seguito alla quale il colpevole si sottrarrebbe alla polizia?».
«E perché mai?».
«Perché, nel momento stesso in cui verrà a sapere che la sua identità è conosciuta, si renderà irreperibile».
«Bisognerebbe che non venisse a saperlo».
«E come vuoi mettere in atto il tuo proposito? Potresti certo – posto che tu sappia a chi hai da rivolgerti – andare semplicemente da costui e dirgli: Veda di sparire, mio caro, perché non desideriamo che si parli pubblicamente del suo caso! O conosci forse un’altra via?».
«Sì» disse Lukawsky.
«E sarebbe?».
Lukawsky, dopo un istante, si sporse verso gli altri. Era sul punto di dire qualcosa e aveva già aperta la bocca, quando rientrò la moglie. Ella si avvide subito d’essere tornata troppo presto e fece l’atto di allontanarsi di nuovo. Lukawsky però, dopo un’occhiata a Silverstolpe, si rivolse a lei dicendole stranamente: «No, rimani! Devo solo scambiare ancora due parole con Fonseca. Tu intanto potresti intrattenere Silverstolpe, o, meglio ancora, occuparti della sua mano. Ha una specie di ferita. Potresti fargli una fasciatura».
«Ma non ne vale la pena» disse Silverstolpe. Il maggiore però aveva già preso per un braccio Fonseca, e lo stava portando fuori dalla stanza.
Quando dieci minuti più tardi i due rientrarono, Silverstolpe aveva un cerottino al dito e stava intrattenendo la sua infermiera su un suo cuoco di campo che aveva in precedenza governato la cucina di un Grand Hotel.

2

Fonseca era già stato in visita dai Rochonville, ma molto tempo prima, e da allora si erano visti solo in casa d’altri. Se ora il giovane fosse andato dal colonnello, la cosa avrebbe già di per sé dato nell’occhio, ma soprattutto Fonseca non sarebbe stato in grado di motivare quella seconda visita.
Decise comunque di passare almeno sotto casa del colonnello. Questo fu il giorno dopo ch’era stato da Lukawsky, la mattina. Attraversando la piazza vide il colonnello alla finestra. Quest’ultimo, com’era sua abitudine, stava guardando lo spiazzo su cui i colombi andavano avanti e indietro. Parve non accorgersi di Fonseca o, quantomeno, non riconoscerlo. Forse non vedeva neppure lo spiazzo e i colombi, forse non vedeva minimamente ciò che vedeva, guardava soltanto – stando alla finestra – nel vuoto.
Fonseca camminò tra i colombi che becchettavano come sempre, senza che fra le lastre di pietra si scorgessero granelli di mangime; e ogni volta che sembrava sul punto di calpestarne qualcuno, gli uccelli con rapidi passettini si facevano da parte.
Dietro il primo angolo si fermò sbirciando di nuovo verso il palazzo. Il colonnello era ancora là che continuava a guardare la piazza.
Alla vecchia università stavano lavando le finestre. La donna intenta a quel lavoro aveva aperto un battente e cantava: «Ripensi a quell’ore...».
Dal campanile della chiesa suonarono le undici e mezzo. Qualcuno camminava per la stradina, i passi echeggiavano. Davanti a una casa vendevano verdura fresca. Sparse sul lastricato c’erano foglie d’insalata. La facciata di una casa era stata rimessa a nuovo. Era un palazzo barocco, il muro si levava come una parete di roccia in cui si aprissero grotte luminose.
Fonseca, sperando di incontrare Gabrielle Rochonville in centro, attraversò la Kärntnerstrasse e il Graben, ma non la scorse da nessuna parte. Si disse tuttavia che, dopo gli ultimi eventi, non si sarebbe fatta vedere in centro a quell’ora. Più tardi ebbe l’idea che lei non si mostrasse in nessun caso tra quel genere di persone che lì stavano passeggiando.
Restò fuori fin oltre l’una, andando su e giù, ogni tanto fermandosi a chiacchierare con qualche conoscente. Verso le tre era di nuovo nei paraggi del colonnello. Ma aveva ancora da aspettare un pezzo, fino alle cinque circa. I muri dei campanili prendevano già la tinta della sera, alcuni strati di nuvole d’un grigio tenue e orlate di color lampone, come le avrebbe dipinte Watteau, salivano impercettibilmente nel cielo. La piazza era già in ombra, ma il nimbo tra i campanili della chiesa dei gesuiti fiammava ancora come un’esplosione d’oro. Di tanto in tanto qualcuno attraversava la piazza. Faceva freddo, le giornate di tarda primavera emergevano appena – come lo scintillio di una polena dalla prua sommersa di una nave – dal fiotto d’ebano della lunga tenebra invernale. I colombi tubavano sui loro cornicioni.
Fonseca, camminando qua e là, aveva già fumato diverse sigarette quando vide il colonnello uscire di casa. Costui non si accorse di Fonseca e si allontanò in direzione del Ring. Guardava dritto e un poco fisso innanzi a sé. Anche il movimento non inelegante con cui posava il piede aveva qualcosa di rigido.
Gabrielle comparve dieci minuti dopo. Era diretta verso il centro.
Fonseca salì subito rapidamente per la Untere Bäckerstrasse fino al Lugeck e poi ridiscese per la Obere Bäckerstrasse, dove non aveva fatto che pochi passi quando si imbatté in Gabrielle. «Ma guarda!» disse arrestandosi. «Ecco dove ci si incontra».
Ella sorrise un istante. Poi aggrottò le sopracciglia, o perché era il suo modo di fare, o perché non le risultava forse gradito aver incontrato qualcuno. Fonseca, comunque, interpretò il gesto come diretto a lui. Non accennò tuttavia a proseguire, anzi le chiese come stesse. Lei parve ritenere superflua la risposta, e in ogni caso non la diede. Tenne gli occhi su di lui, occhi marroni che, all’ombra della falda del cappello, sembravano però quasi neri. La sua carnagione, senza che vi fosse nulla da eccepire, aveva qualcosa di non del tutto genuino. Il colore dei capelli, nel crepuscolo incipiente, pareva quasi innaturale.
Aveva parlato, riprese Fonseca, col padre di lei al funerale del povero Engelshausen – e di nuovo, non ottenendo risposta, le domandò senza ambagi dove stesse andando.
Intendeva fare delle commissioni, disse lei.
Gli consentiva di accompagnarla?
«Non ha proprio altro da fare?» gli chiese lei.
«No» rispose lui. «Niente di niente».
Ella non replicò, e lui le camminò accanto. Nella Rotenturmstrasse Gabrielle entrò in un negozio di calze e vi rimase per quasi mezz’ora. Quindi entrò nella merceria accanto e si intrattenne con le commesse fino alla chiusura. Lui, nel frattempo, rimase lì in attesa chiedendosi dove lei avesse avuto in realtà intenzione di recarsi.
Quando furono di nuovo in strada, i lampioni erano già accesi. Lei fece l’atto di andare verso casa. Ma Fonseca era convinto che volesse andarvi per poi uscirne subito dopo, da sola.
«Voglia concedermi il piacere» le disse «di accompagnarmi da Demel! Commissioni ormai non può più farne, e io non vorrei lasciarla dopo averla appena incontrata».
«La sto trattenendo già da un’ora» disse lei.
«Ma in tutta quest’ora ha parlato soltanto con le commesse e non con me».
«Non desidero andare da Demel» disse lei.
«Perché no?».
«Per via di quella storia» disse lei.
«Allora voglia tenermi compagnia da qualche altra parte».
Gabrielle esitò, ma finì per acconsentire. Fonseca suppose che lei dubitasse di potersi liberare di lui; o che fosse convinta di essere poi seguita, se lo avesse piantato lì.
Le propose il caffè al Lugeck.
«Non credo» le disse «che vi incontreremo dei conoscenti. La hanno già subissata di domande per via di Engelshausen?».
«Non ho parlato con nessuno».
«E suo padre, che cosa dice di tutto questo?».
«Pensavo che lei l’avesse incontrato al funerale».
«Ieri Lukawsky» disse lui «raccontava d’essersi intrattenuto con il commissario che investiga sul caso. È un certo Gordon. Lo conosce?».
«È lo stesso che era dai Flesse?».
«No. Quindi suo padre non le ha raccontato niente?».
Ella non rispose. Avevano ormai percorso il breve tratto di via fino al caffè, e Fonseca, dopo un istante, le aprì la porta. Entrarono. Il locale era pieno a metà. Si sedettero a un tavolo. La luce era bianco-azzurrastra come di illuminazione a gas, nell’aria ristagnava parecchio fumo di sigarette, e in quella luce il volto di Gabrielle scintillava come neve.
Senza sfilarsi i guanti beige, aveva posato le mani sulla borsetta che teneva in grembo.
«Mi perdoni,» disse lui «questo posto è orribile, ma ci hanno rinfacciato così spesso di vivere in un mondo irreale, che non ci si può mai convincere a sufficienza della scarsa utilità di vivere in quello reale».
«Ma dica,» domandò lei «che genere d’uomo è?».
«Chi?».
«Il commissario».
Un cameriere frattanto era venuto al tavolo. Ordinarono.
«Il commissario non lo conosco. Ma a sentire Lukawsky sembra che abbia cervello. E ha ancora un’altra qualità in comune con lei».
«Ah sì? Quale?».
«Non dice niente, o molto poco. E a proposito, lei conosceva bene Engelshausen? Io non avevo rapporti veri e propri con lui. Al reggimento non c’era mai, e io l’ho conosciuto solo qui a Vienna, dopodiché l’ho visto soltanto di rado. Lei, a proposito, lo ha trovato divertente?».
Gabrielle gli rivolse uno sguardo come a volergli chiedere che cosa intendesse con divertente.
«No» disse poi. «Non era divertente».
Parve considerare ridicola la parola. Infatti aggiunse: «Trovo noiose le persone cosiddette divertenti».
«Ma lo ha visto spesso? Che cosa le risulta allora divertente? Con che genere di persone riesce di preferenza a divertirsi?».
«Dio mio,» mormorò lei «che razza di domande!».
Lui rise.
«Mi sarei immaginata che lei volesse cavarmi di bocca se avevo dell’interesse per Engelshausen. Non è così? E perché vuole anche sapere che cosa trovo divertente?».
«Non posso mica chiederle a bruciapelo chi è stato».
«Chi è stato cosa?».
«Chi è stato a farlo».
In quel momento il cameriere tornò portando l’ordinazione. Nel passare più volte la salvietta sul piano di marmo del tavolino osservò Gabrielle. L’aveva guardata già mentre prendeva la comanda. Gli piaceva, con ogni evidenza. Gabrielle diede a Fonseca un’occhiata quasi volesse rinfacciargli qualcosa.
Finalmente il cameriere si allontanò.
«Come le viene in mente una cosa simile?» disse lei investendo Fonseca.
«Che lei lo sappia? Be’, a quanto sembra lei è stata l’ultima ad aver parlato con Engelshausen. Non dico che lei debba per forza saperlo. Ma chi, se non lei, potrebbe davvero saperlo?».
E le offerse una sigaretta. Dato che lei non vi prestò attenzione, ne accese una per sé.
«E quali erano realmente i suoi rapporti con Engelshausen?» continuò. «Non potrebbero, questi rapporti – se già parliamo in modo schietto –, aver dato adito al gesto compiuto dopo che lei fu uscita dalla stanza in cui poi lo hanno ritrovato? E di che cosa ha parlato con lui, che cosa ha fatto in quella stanza? Chi può averla osservata? O non è addirittura entrato qualcuno senza che lei se ne avvedesse? Lei ha detto di avere, con Engelshausen, “chiacchierato, fumato sigarette, bevuto Chartreuse”...».
«Che altro avrei fatto?».
«Lui non l’ha almeno baciata?».
Ella non rispose.
«Per farla breve,» disse Fonseca «chi oltre a lui aveva – o ha tuttora – interesse nei suoi confronti?».
Lei lo sfiorò con un’occhiata.
«Creda pure quel che vuole» mormorò.
«Non è che io» disse lui «voglia sapere che cosa è successo allora. Non c’è niente di più noioso delle faccende amorose altrui, e io non ho del resto la minima intenzione di addentrarmi nei suoi segreti. Per me, sia successo quel che vuole. Mi perdoni se parlo così senza fronzoli, ma consideri che se la polizia riuscisse veramente a catturare il colpevole, si verrebbe a parlare di tutta quanta la storia in una forma per lei molto sgradevole...».
«Bene, e la polizia ha già catturato il colpevole?».
«No. Finora no. Ma non c’è, per me almeno, il minimo dubbio che ci riuscirà».
«Ah sì? E come mai?».
«Perché quell’uomo, se realmente ha commesso il fatto solo per lei, deve poter essere arrestato. Perché costui, se lei è stata la causa per cui si è fatto trascinare a un simile delitto, non demorderà. Perché cercherà comunque di rivedere la donna che ama – e meno che mai saprà risolversi a mettersi al sicuro, magari all’estero. Insomma: perché la polizia non ha da far altro se non aspettare che quello finisca nella rete. Gli uomini amano più di tutto commettere sciocchezze, e quelli che le commettono per ragioni di cuore sono in fondo i più scusabili».
Ella non rispose subito. Finalmente disse: «Lei quindi è del parere che, se io conoscessi il colpevole, continuerei a vedermi con lui; che lo aiuterei a nascondersi; e che potrei addirittura indurlo a fuggire. Lei non se lo augura forse? Perché altrimenti raccontarmi tutte queste cose; il che è tanto più inopportuno in quanto io non ho idea di chi sia stato, in quanto io non conosco – o almeno non in modo consapevole – un uomo che possa aver commesso un delitto del genere, in quanto io probabilmente non l’ho mai visto...».
«Non avrei mai creduto» disse lui «che lei non avrebbe trovato nulla di meglio da dire che: “Non so niente, non conosco quell’uomo, non ho idea di chi sia!”. Mi ero formata una diversa opinione di lei. Perché non fa almeno un tentativo di trarsi d’impaccio in maniera più persuasiva...».
«Perché non intendo parlare con lei all’infinito di queste cose...».
«Ma forse» disse lui «è stato davvero qualcuno che la ama senza che lei lo conosca».
«Ma è ridicolo!» esclamò Gabrielle. «Nessuno fa qualcosa a causa di un altro – e men che meno se non lo conosce neppure».
«Non dica così. Non conoscere una persona è forse l’unica giustificazione per far qualcosa per amor suo. Magari è stato davvero un uomo che lei non conosce e che non la conosce, a commettere il delitto. E in verità chi mai conosce tutte le infinite possibilità del cuore umano! se perfino il cuore non conosce se stesso. E soprattutto, chi può sapere quali traviamenti il cuore sa occultare! Forse, anzi, l’intera passione che quest’uomo ha concepito nei suoi confronti finirebbe nell’istante stesso in cui lei ne venisse a conoscenza. Anzi, forse l’ha concepita solamente perché deve occultarla. Dicono che abbia una forza incredibile nelle braccia. Ma forse tutta questa forza, indispensabile per compiere il delitto con tanta efferatezza, altro non è che la conseguenza di quella violenta passione occultata. La massima violenza non viene dal cervello o dalle braccia, la massima violenza viene dal cuore».
Ella lo guardò. «Trovo assurde le sue supposizioni» disse finalmente.
«Le donne» replicò lui «credono sempre di dover ritenere assurdo ciò che garba loro. Lei non si è mai accorta di un qualche uomo dalla forza fisica chiaramente eccezionale che le abbia fatto la posta per parecchio tempo – no, non fatto la posta: che semplicemente la segua e la tenga d’occhio? Non ha notato nessuno che di quando in quando stia sotto la sua finestra e guardi in su...?».
«No» disse lei. «Nessuno salvo lei».
«Io?».
«Sì, lei».
«Lei dunque si sarebbe accorta che io oggi...».
«Eccome».
«Be’,» rise lui «non fa niente. Non sapevo come parlarle e non volevo farmi avanti con prepotenza... Quindi non ha visto già da tempo persone ferme, più o meno come me, sotto la sua finestra...?».
«No».
«È curioso,» disse lui «altre donne vedono più pericoli di quanti ne esistano in realtà, mentre lei ricusa perfino di prendere atto di quelli che dovrebbe davvero temere. Lei sembra amare molto qualcuno...».
«Perché?».
«Perché è così impavida. Non c’è per esempio qui, tra i presenti, qualcuno che la osservi? Non uno che la guardi soltanto, ma che la osservi? Non dico il cameriere, che la fissa di continuo – per quanto lei faccia forse più colpo su persone del genere che...».
«Che genere di persone?».
«Persone» disse lui «estranee al suo ambiente. Magari lei stessa ha una propensione per gente di quel tipo – una propensione che tuttavia il suo rango e la sua educazione le vietano di assecondare».
Lei arrossì un istante. Per un qualche motivo Fonseca ne fu sorpreso. Forse aveva creduto che Gabrielle non fosse capace di arrossire. «Non so perché lei insista a parlare del mio rango» disse lei. «Che valore ha poi, oggigiorno? Probabilmente lei ignora che mia madre era – per così dire – di condizione inferiore a mio padre, tanto che lui ebbe difficoltà a ottenere il permesso di sposarla».
«No,» disse lui «non lo sapevo».
«Quanto a me, non sarebbe mai il rango a impedirmi di fare qualcosa, ma sempre e solo il mio sentimento».
Egli la guardò.
«Allora lasciamo stare» disse. «Ma dunque lei come si immagina che si siano svolti i fatti? E, soprattutto, cosa pensa delle conseguenze che avrebbe l’arresto del colpevole?».
«Che cosa dovrei pensarne?» chiese Gabrielle.
Lui, dopo una pausa, scrollò le spalle.
«Lei è comunque avvisata delle eventualità cui si trova esposta» disse. Ma poi, come spesso accade nelle conversazioni, tornarono di nuovo a parlare dell’intera vicenda. Fonseca cercò di tracciare i contorni di una figura indistinta, una figura non solo macchiata del sangue di quell’omicidio, ma che si aggirava nella vita di lei: Gabrielle disse però che non se n’era mai accorta, e aggiunse che quelle idee erano pure fantasie.
Verso le sette e mezzo lui la accompagnò a casa. Camminando per la via male illuminata si voltò alcune volte all’improvviso, come a scoprire qualcuno che li seguiva.
Ma non vide nessuno.
Sotto casa di Gabrielle parlò ancora, andando su e giù, una mezz’ora con lei. Poi prese congedo.

3

Il giorno dopo lo colse, fin dal risveglio, la sensazione di aver fortuna. Abitava da suo fratello, e il servitore di quest’ultimo gli portò a letto, con la posta del mattino, diverse lettere, due delle quali contenevano notizie decisamente positive. Anche il tempo era bello, di quella bellezza perfetta che spesso ci spinge a credere per ore, a volte per un giorno intero, di vivere nella felicità dei paesi meridionali.
Con le braccia incrociate sotto la nuca, Fonseca rimase ancora qualche minuto nel letto, sul quale erano sparse le lettere, e respirò l’aria che entrava dalla finestra aperta. Un alito di vento muoveva il fogliame del giardino, un uccello cantava tra le fronde. Il giovane si alzò, si mise una vestaglia sulle spalle e andò in bagno. Il sole accendeva le finestre dai vetri opalini, e la stanza, tipica creazione di inizio secolo, era tutta immersa in una luce iridescente. Le piastrelle parevano opale, l’acqua un crisoprasio nel crepuscolo come lo stagno d’un bosco. Una goccia cadeva a intervalli schioccando sulla sua superficie.
Fonseca, fumando una sigaretta, si pettinò e si vestì. Gli procurava piacere portare il vestito che aveva scelto. Prima di uscire di casa si fermò ancora qualche istante nell’ingresso a giocare con i segugi del fratello. L’ingresso, decorato con corna di cervo, era buio, ma le porte delle stanze adiacenti, che il servitore stava rimettendo in ordine, e le finestre che in quelle stanze davano sulla strada, erano aperte. Il riflesso del sole penetrava illuminando i cani, che saltavano alle mani di Fonseca con le grandi bocche rosee spalancate e correvano via con i suoi guanti.
Stava camminando da un po’ per la via, quando notò avanti a sé una personcina giovane, che sembrava graziosa oltre la norma. O quantomeno, parecchi passanti si voltavano a guardarla. Era alta, aveva gambe splendide e biondi capelli serici.
Dopo uno o due minuti ella si arrestò difronte ai cristalli di una vetrina. Anche Fonseca si mise lì davanti, e osservò la bella ora di lato ora nell’immagine riflessa. Era in effetti una donna di somma avvenenza, con grandi occhi grigi sotto due sopracciglia nere, ed era di carnagione delicatissima.
Se lei pure si interessasse a Fonseca, anzi se solo ne percepisse la presenza, era difficile a dirsi, in ogni caso non lo dava certo a vedere. Dopo poco, tuttavia, si voltò andando con tale sicurezza verso un taxi fermo sul bordo della strada, da potersi indovinare che l’aveva già visto riflesso nei cristalli e aveva deciso di prenderlo.
Quando la vettura partì, Fonseca la guardò allontanarsi con rammarico, ma pure con un sorriso. Al fievole innamoramento che, come una leggera brezza in alto mare, aveva provocato un sussulto dentro di lui, si accordava forse il fatto che egli avesse visto la bella solo per qualche istante.
Nel corso della mattinata fece, con soddisfazione, diverse commissioni che si era prefisso di sbrigare. Quell’anno la primavera, dopo che l’inverno si era a lungo protratto, era arrivata relativamente tardi, ma tanto più doviziosa, e quando Fonseca raggiunse l’Äusserer Burghof, vide il lillà e gli ippocastani ancora in piena fioritura. Sopra incredibili onde di fiori, come sopra un mare primaverile color lilla, i vincitori di Belgrado e di Aspern impennavano i loro bronzei destrieri, Eugenio di Savoia il suo greve napolitano in una levata ben tenuta a freno, la testa del cavallo volta a destra; Carlo d’Austria il suo alto mezzosangue rampante, e nella destra la bandiera d’un reggimento di fanteria, adorna di nastri svolazzanti.
Il ricordo del profumo di lillà accompagnò il giovane diretto in centro, empiendolo di una nostalgia dolce e indefinita. Mentre usciva da una casa – intorno al mezzodì –, in cui l’aveva trattenuto un’incombenza, una mendicante che era nell’androne gli rivolse la parola. Egli mise la mano in tasca per darle una moneta, e stava già per passare oltre quando le gettò un’occhiata ed ella gli ricordò, a un tratto, una sua bambinaia d’un tempo. A rammentargli quella persona non erano le fattezze, ma qualcosa nei movimenti e nei modi della vecchia. Tanto più che, nel ringraziarlo, lei lo chiamò «signor conte». Così almeno gli parve di sentire. «Lei mi conosce?» le domandò. Dalla risposta farfugliata e senza dubbio confusa della donna egli capì che sosteneva d’aver conosciuto la servitù della famiglia di lui, e di colpo Fonseca ebbe la sensazione di averla vista realmente in quel regno sospeso fra conscio e inconscio che si chiama infanzia. O quantomeno credette, guardandola, di rammentare qualcosa di quel tempo, che però non sapeva più cosa fosse; e del resto l’infanzia non è soltanto un continuo assorbir nuove cose, ma altresì un progressivo dimenticarne altre, che in seguito crediamo di riuscire a ricordare e, per converso, di non ricordare. O, perlomeno, ripensandoci sembra così. A un tratto però si accorse che erano gli occhi della vecchia a richiamargli qualcosa alla mente. Erano occhi un po’ arrossati, lacrimanti, non già di donna quanto di uomo: occhi di un vecchio. La governante a cui ripensava aveva gli stessi occhi. Erano gli occhi che lui aveva visti per primi, nei quali più aveva guardato. In essi era lo sguardo di generazioni intere.
Quant’è invecchiata! pensò. Ma era proprio come se intendesse l’altra. La mendicante, mentre egli si perdeva in questi pensieri, aveva seguitato a parlare, ma Fonseca non badava a quel che la donna diceva, era solo un farfuglìo indistinto, e intanto lei ripeteva sempre uno stesso movimento, come per indurlo a sfilarsi il guanto. E poiché continuava a stringere fra le dita la moneta che le aveva dato, lui credette che volesse predirgli il futuro. «Sei una zingara?» le chiese. Lei intanto gli aveva già tolto il guanto dalla mano, senonché, invece di iniziare le cerimonie d’uso in quel genere di vaticini, si limitò a tenergli la mano tra le sue e cominciò a carezzarla.
Una strana sensazione s’impadronì di lui. Non avrebbe saputo dire che cosa fosse, vi si mescolavano il ribrezzo per la sporcizia della vecchia e al tempo stesso un ricordo lontano, di qualcuno che gli aveva tenute le mani e aveva fatto con lui giochi infantili, giochi nei quali lui e quell’altra persona sovrapponevano le mani, e poi le toglievano da sotto e le mettevano di nuovo sopra e così via. E quel ricordo trapassava nel movimento con cui egli, anche ora, tirava indietro le mani.
In quell’attimo vide una figura nota passare dinanzi al palazzo. Gli occorse un altro istante per rendersi conto che si trattava di Gabrielle Rochonville. Non sembrava però che lei si fosse accorta di lui. Probabilmente non aveva guardato nell’androne.
Con mossa rapida riprese il guanto e, piantando lì la vecchia, uscì subito dall’androne. Nel contempo svanì, come di colpo, lo strano stato d’animo o quella sorta d’incantesimo che la mendicante aveva gettato su di lui.
Arrivato in strada, si voltò nella direzione in cui si era avviata Gabrielle, e la vide una quindicina di passi avanti a sé. Esitò ancora qualche poco, di modo che la distanza crescesse. Quindi la seguì.
Aveva subito deciso di tenerle dietro. Aspettarla un’altra volta sotto casa per vedere dove sarebbe andata, non l’avrebbe più fatto; ma siccome gli era passata innanzi, la seguì.
Si aspettava che lei di quando in quando si sarebbe voltata, e in effetti non si era ingannato: ella si guardò alcune volte indietro. Ma essendovi preparato, riuscì a nascondersi nella folla dei passanti senza che lei lo scorgesse. Ebbe peraltro modo di seguirla solo per un breve tratto. Nella Renngasse gli era passata innanzi. E ora continuò fino alla Wipplingerstrasse salendo poi verso il Municipio vecchio. Qui svoltò a destra, nella Jordangasse, che sbocca in Judenplatz. Quando lui fu sull’angolo, vide che Gabrielle stava entrando in una delle case sulla sinistra della piazza.
Si ritrasse dietro l’angolo, sicuro com’era che lei entrando nella casa si sarebbe di nuovo voltata a guardare se l’avessero seguita. Solo dopo qualche minuto svoltò l’angolo, portandosi però subito anch’egli sul lato sinistro della via per non venire scoperto, nel caso che qualcuno si fosse affacciato a una finestra. Gli venne in mente che lei lo aveva già notato sotto casa sua, e al pensiero che a poco a poco stava facendo la mano a sorvegliarla, sorrise.
Alzando lo sguardo osservò la casa. Un edificio vecchio, benché non fatiscente, i muri erano scuri, quasi neri. Al pian terreno si trovavano alcuni magazzini. Era al civico numero quattro.
Entrò nel portone. L’andito era angusto; in fondo, nel buio, saliva la scala a chiocciola di pietra. Regnava il silenzio. Ai piedi della scala, accanto all’uscio del portinaio, c’era la bottoniera con i campanelli dei singoli alloggi. I nomi degli inquilini stavano sotto i bottoni.
Fonseca accese un fiammifero e lesse i nomi. Non uno che gli fosse noto.
Uscì dunque dalla casa e si appostò dietro un angolo di Judenplatz. Aspettò circa tre quarti d’ora. Ma Gabrielle non ricompariva.
All’una egli aveva un appuntamento con alcune persone invitate a pranzo a casa del fratello. Si era convenuto di incontrarsi da Gerstner e poi mangiare insieme. Pur non dubitando che Gabrielle dovesse uscire da un momento all’altro per rincasare a sua volta, Fonseca poco prima dell’una lasciò la propria postazione. Del resto non avrebbe avuto ulteriore importanza vederla uscire di lì. Gli bastava che vi avesse passato quasi un’ora. A Vienna, dove tutti si conoscono, una giovane signora non faceva certo visite innocenti a emeriti sconosciuti. E se si fosse recata da una sartina, da una insegnante di lingue o da una ex istitutrice, non si sarebbe voltata di continuo per la strada.
Entrando da Gerstner, Fonseca vi trovò già riuniti coloro che doveva incontrare. Li salutò, dopodiché si chiuse nella cabina del telefono e chiamò Lukawsky. Lo raggiunse subito, poiché Lukawsky era appena rientrato a casa. Fonseca parlò con lui per qualche minuto. Quindi uscì dalla cabina, andò al buffet e ordinò uno sherry. Allungando la mano al bicchiere, mentre chiacchierava con gli altri, urtò col braccio una signora. Levò gli occhi e vide la sconosciuta di quella mattina.
Si scusò, e lei, guardandolo, sorrise, ma solo un attimo, quindi si rivolse nuovamente a un’altra signora, più anziana, che le stava accanto e con la quale era intenta a conversare. La fortuna la riporta sul mio cammino, pensò Fonseca. Quante ne vediamo, di creature incantevoli, che dopo un attimo perdiamo di vista e non incontriamo mai più. Questa, invece, la incontro già per la seconda volta nella stessa mattinata.
Rimase finché rimase anche la sconosciuta, benché la compagnia gli dicesse che ormai era ora di andare. Voleva vedere se la bella si accorgeva finalmente di lui. Se così era, lei comunque non lo dava a intendere. Fonseca non avrebbe nemmeno saputo dire se lo avesse riconosciuto. Lei, tuttavia, rimase piuttosto a lungo. Parlò con la signora in sua compagnia, e solo dieci minuti dopo se ne andò. Allora anche Fonseca se ne andò, con la sua compagnia.
Dopo pranzo il discorso cadde sui diversi casi del gioco e sulla fortuna al gioco in generale, gli amici si fecero portare le carte, esaminarono questa e quella combinazione e la giocarono, finché la prova diventò gioco vero, il gioco si fece serio, e nel giro di pochi minuti Fonseca ebbe guadagnato una somma per lui tanto più ragguardevole in quanto dal fratello – detentore del fedecommesso familiare, ma al momento in difficoltà – riceveva in contanti solo una rendita esigua. Probabilmente Fonseca avrebbe perso la sua vincita con la stessa rapidità con cui l’aveva ottenuta, se in quel momento non l’avessero chiamato al telefono. Pensò che fosse Lukawsky, era invece la sorella di lui – Fonseca –, Marie Türkheim, che aveva preso marito in Moravia ma si trovava adesso per qualche settimana a Vienna. Chiese al fratello di incontrarsi con lei e una conoscente che intendeva comprare una sella e di aiutarle con un consiglio, avendo lui qualche cognizione in quel genere di cose, mentre loro – le signore – non ne capivano nulla.
«E c’è ancora gente» disse Fonseca «che si compra una sella! La tua amica non è per caso alta, bionda, e ha occhi grigi e bellissime gambe?».
«Sì» rispose la sorella, stupita. «Non è certo brutta. Ma tu come lo sai?».
«È tutto il giorno che ho fortuna» disse lui. «Perché non dovrei avere anche la fortuna che sia la stessa persona che intendo io!».
E in effetti lo era. Si erano accordati di vedersi davanti al Bristol, e non appena scorse la signora venirgli incontro con la sorella, ebbe conferma che si trattava della sua sconosciuta. Risultò essere una certa signorina Leeb, o von Leeb, come insisté la sorella di Fonseca sussurrandogli all’orecchio che la madre era una Martinitz e che aveva sposato l’amministratore del suo patrimonio. Quel modo di fare da vecchie dame – sussurrare cose confidenziali di maniera che tutti le sentissero – la Türkheim lo aveva fin dagli anni della giovinezza.
Fonseca però era interessato più al futuro che al passato della sua bella. La quale era più affascinante che mai. Com’è possibile, pensò, che una personcina tanto graziosa vada a giro così e non sia sposata!
«Sono più che felice di conoscerla» le disse. «Il caso, che mi permette di incontrarla ripetutamente, oltrepassa ogni limite! In realtà il caso non esiste! Il caso non è altro che la necessità in cui non vogliamo credere».
«Come?» disse la Türkheim. «Dunque vi conoscete davvero?».
«Sì e no» sorrise la bella. «Ma tuo fratello ha un modo di conoscere a tutti i costi le persone senza mai diventare banale. Lui aspetta finché sono gli altri a presentarglisi».
Se era così, disse la Türkheim, non voleva turbare oltre la loro felicità. Comprassero o no la sella, come preferivano, lei intanto non ne capiva niente, e se la sarebbero cavata benissimo anche in sua assenza.
E dopo averli accompagnati ancora per qualche passo, si accomiatò.
«Dovrei io veramente credere» disse Fonseca seguendo con lo sguardo la sorella «che questo caso non sia tale? Sarebbe possibile che lei, benché a me sconosciuta, sapesse chi sono io, e che...».
«Non si fanno domande del genere a una signora» rispose lei. «Quale vantaggio ne avrebbe a saperlo? Niente più che la delusione di sapere che io volevo davvero conoscerla...».
«Delusione, la chiama?».
«Oggi forse» disse lei «non lo sarebbe ancora... ma tra qualche giorno sicuramente».
«Tra qualche giorno?» esclamò lui felice.
«Mi consenta, piuttosto, di meravigliarmi che le sia riuscito di fare tanto in fretta la mia conoscenza».
«E la sella, vuole comprarla per davvero?».
«Naturalmente!».
«Una sella da caccia?».
«Una sella da caccia».
Comprarono dunque la sella, dopodiché egli le tenne compagnia per altre due ore e infine le chiese di poterla rivedere. Avrebbe anche rinunciato a un invito che aveva per il tardo pomeriggio, e non si sarebbe voluto separare dalla bella, se non avesse pure lei dichiarato di avere ancora un appuntamento. Frattanto, del resto, erano già le cinque e mezzo.
Era stato invitato per le cinque da una certa signora von Malowetz, che abitava a Hietzing. Quando vi arrivò, erano quasi le sei, e con sua sorpresa trovò aperta la porta di casa, vuoto l’appartamento e nemmeno l’ombra d’un ospite. C’erano invece diversi operai intenti a rimettere a nuovo le camere.
«Non abita più qui la signora von Malowetz?» chiese a uno degli uomini che stava salendo le scale e sembrava sul punto di entrare nell’appartamento.
«No» rispose quegli. «Da due settimane».
«Ma dove si è trasferita?».
L’operaio nominò un indirizzo, in una traversa della Schönbrunner Strasse. Era quindi in tutt’altra parte del parco.
La sola spiegazione possibile era che quella signora, nel suo modo di fare confuso, si fosse scordata di comunicare agli invitati di aver traslocato. Fonseca si chiese se non fosse il caso di tornar subito a casa.
«Non hanno già chiesto di lei altre persone?» domandò ancora.
«No» disse l’uomo. «Nessuno».
Gli altri, quantomeno, doveva averli informati.
Erano le sei e mezzo quando Fonseca arrivò nella Schönbrunner Strasse, strada che, già di per sé non particolarmente prestigiosa, era pur sempre più presentabile della viuzza in cui doveva svoltare. Si meravigliò molto che la Malowetz si fosse trasferita lì. Le case erano squallide, quasi cadenti: desolate case di periferia. Dall’una e dall’altra si erano staccati larghi tratti d’intonaco, zone bianco-giallastre interrompevano il sudicio grigio-nero dei muri. Imbruniva. Dalle finestre sotto cui passò esalavano gli odori delle abitazioni anguste, l’afrore della povertà. La Malowetz, pensò Fonseca, doveva essere o impazzita o andata completamente in rovina per essersi trasferita lì. Perché mai, allora, invitare ancora ospiti?
Ma aveva visto spesso, in quella città dall’edilizia singolarmente eterogenea, gente abitare a ridosso di quartieri miserabili dove si apriva poi una bella zona. Quella viuzza, però, non era così. Restava triste com’era. Dei bambini giocavano sulla carreggiata, ma il gioco degenerò in lite, uno di loro venne inseguito, fra gli strilli, dagli altri. I passanti non se ne curavano. Non osservavano neppure Fonseca; soltanto un cane, un botolo giallognolo, si mise a camminargli a fianco saltando per gioco alla sua mano. Anzi, prendendogli la mano nella bocca rosa pallido, sembrava volerlo guidare. Un vago ricordo di qualcosa, che il giovanotto però non sapeva più identificare, si fece strada in lui, per scomparire subito dopo. Egli pensò soltanto che il botolo, probabilmente, aveva fiutato l’odore dei cani di casa.
L’edificio in cui abitava la Malowetz si presentava un po’ meglio degli altri. Ma Fonseca, entrando, trovò le scale mal illuminate e, salendo i gradini, ebbe l’impressione che – dietro le grate delle finestre affacciate sulla tromba delle scale – degli occhi lo osservassero. Gli sembrò tutto molto strano. Anzi gli sembrò ridicolo andare da quella pazza. E poi i pomeriggi da lei erano sempre stati noiosissimi.
Finalmente suonò alla porta indicata. Una ragazza, pur sempre in nero con il grembiule di pizzo bianco, gli aprì. Agli attaccapanni, nell’ingresso, erano appesi parecchi cappotti e cappelli. Fonseca consegnò cappello e guanti. Quindi fu fatto accomodare in una delle stanze.
Ma nella stanza non c’era nessuno, né vi entrò nessun altro, e poi il mobilio era ben diverso da quello che lui era abituato a vedere dalla Malowetz. Che tutto fosse solo un malinteso? pensò. Forse l’indirizzo che gli aveva dato l’operaio non era quello giusto. O poteva anche darsi che lui, Fonseca, avesse frainteso ciò che gli aveva detto quell’uomo.
C’era un gran silenzio; solo, da qualche parte, in una casa lontana, qualcuno suonava il pianoforte. La musica proveniva come da un altro mondo ed era immensamente triste. Una sensazione di sogno, quasi uno stato irreale, si impadronì di Fonseca. Nell’insieme gli toccò aspettare nella stanza una ventina di minuti, durante i quali si rivelò che quel tempo – e il tempo in generale – si poteva sì suddividere, ma non realmente misurare. Lo si poteva scomporre in parti, ciascuna di uguale grandezza rispetto alle altre – esattamente uguale addirittura: in minuti, ad esempio, o in ore. Ma quanto duri in realtà un minuto o un’ora, non si può determinarlo. Il tempo si misura con il moto di un oggetto – in definitiva con il moto rotatorio della terra –, dividendo in parti lo spazio di tempo considerato – in ore e minuti, appunto. Ma quanto impiega la terra a girare su se stessa?
Sentiamo ventare il lento battito delle ali di condor bianche e nere del giorno e della notte, ma la durata di quel battito riusciamo a misurarla solo sui moti dei corpi celesti. E questi, a loro volta, quanto impiegano a compiere le proprie rivoluzioni?
Il tempo, insomma, in sé non c’è – ma può esserci. Quel che conta è non accorgersi che c’è. Perché accorgersene è sgradevole. Meglio dimenticarsene. Oppure riempirlo con le cose il cui decorso costituisce il tempo. Allora esso ha una durata comprensibile. Altrimenti dura incomprensibilmente a lungo. E altrettanto terribile è che ci sfugga fra le dita o che non cessi di durare.
Giacché il tempo dilegua solo per durare, e dura solo per dileguare...
Anche Fonseca, in definitiva, non avrebbe più saputo dire se avesse già aspettato per un tempo breve o un tempo lungo. Gli sembrava però lungo, più che breve. Ma alla fine smarrì anche il senso di questa lunghezza temporale, da lui percepita. Un tempo che gli si riempiva delle cose da cui era costituito. Ora, a costituirlo erano i suoi pensieri. E la sostanza dei suoi pensieri – così come dei pensieri in generale – era tanto indeterminabile quanto il tempo. Forse erano pensieri reali, quelli che lui pensava. Al pari di un prigioniero in carcere o di un santo nella sua grotta, che non soppesa più la propria felicità o infelicità, ma osserva ormai solo le oscillazioni della grazia – quell’effusione che scende dall’alto e gli consente di tollerare la propria esistenza – o il venir meno della grazia stessa, che torna a togliergli tutto, anche Fonseca sentiva ormai solo che stava pensando, o che i pensieri da lui si ritraevano.
Ma quali pensieri? Non lo sapeva. Ebbe un sussulto di paura, senza riuscire a ricordare che cosa avesse pensato. E ricadde in parte nel suo intontimento, e sopraggiunsero altre riflessioni – più concrete. Ripensò alla sua giornata, quella strana giornata che aveva vissuto, e alla varia fortuna che aveva avuta fin dal mattino. Era una fortunata coincidenza anche l’essere capitato lì, si domandò per un istante, o forse aveva avuto tutta quella fortuna solo perché non gli balzasse all’occhio come vi era capitato... In effetti non comprendeva più in che modo fosse finito in quella casa; e del resto com’era possibile che quell’uomo nel vecchio appartamento della Malowetz fosse in grado di dirgli dove lei si era trasferita, anzi come poteva sapere che proprio la Malowetz aveva abitato in quelle stanze che ora venivano rammodernate per qualcun altro! La cosa non riguardava minimamente l’operaio, e poi come avrebbe potuto saperlo! Cercò di raffigurarsi quell’uomo, era un tipo piuttosto tarchiato e un po’ più basso di lui – Fonseca –, ma non riusciva a rammentare nient’altro, anzi d’un tratto gli risultò quanto mai difficile pensare a qualcosa di preciso, era forse per via del pianoforte che continuava a suonare e lo intorpidiva, che cresceva d’intensità, si ingrossava e lo sopraffaceva con la sua veemenza, come se a un tratto chi suonava stesse lì accanto a lui.
Questo avvenne un mercoledì, in un’ora compresa, come detto, fra le sei e mezzo e le sette di sera. Il venerdì il fratello di Fonseca si recò dal colonnello Rochonville e gli comunicò che Fonseca era scomparso.

LUKAWSKY

1

Il fratello di Fonseca si era presentato dal colonnello e gli aveva domandato se lui, il colonnello, sapesse dov’era Fonseca.
«No» disse stupito il colonnello. «Lo ignoro. Ma perché lo chiedi a me? Come faccio a saperlo?».
Il fratello di Fonseca rispose che aveva già chiesto a tanti e tanti altri.
«Non è qui?» domandò il colonnello.
«No» disse Fonseca.
«Ma dove altro è di solito?».
«Dovunque sia, non è qui. Ma non ha comunicato a nessuno l’intenzione di fare un viaggio o simili. Del resto, non ha preso niente con sé. Le sue cose sono tutte in camera sua».
«Com’è possibile!» esclamò Rochonville.
Fonseca diede una scrollata di spalle.
«Non lo so» disse. «Naturalmente ho informato la polizia. Ma finora nessuno lo ha rivisto».
«Il signorino» disse il colonnello «non sarà mica scomparso come un gatto in amore. È già successo che si sia assentato senza che si sapesse dov’era diretto?».
«No» disse Fonseca. E poi aggiunse: «Prima Engelshausen, ora lui».
«Come?» domandò il colonnello. «Che cosa intendi dire?».
«Prima è stato assassinato Engelshausen, e adesso è sparito mio fratello. Non abbiamo rivisto l’uno, non rivedremo l’altro».
«Perché non dovremmo rivederlo?» proruppe il colonnello. «Che connessioni vai inventando? Cosa vai dicendo?».
«È che ho la sensazione, appunto,» disse Fonseca «che tra queste cose ci sia un nesso».
«Non saprei proprio quale!».
«Tutti e due» disse Fonseca scrollando le spalle «avevano prestato servizio nello stesso reggimento».
«Ti prego di non addossarmi la colpa» esclamò il colonnello «se prima è capitata una disgrazia a Engelshausen e se poi tuo fratello preferisce non farsi vedere per diversi giorni! Cosa ho mai a che farci io?».
«Niente» disse Fonseca. «E io non l’ho mica affermato. Ho detto soltanto che erano nel tuo reggimento».
«Non esiste più quel reggimento!» gridò il colonnello. «Sono anni che non c’è più! Sei già la seconda persona a cui mi tocca spiegarlo».
«E qual era la prima?».
«Un capitano di cavalleria Taldeitali: Gasparinetti, se lo vuoi sapere».
«E perché gliel’hai dovuto spiegare?».
«Perché asseriva il contrario».
«Appunto».
«Appunto che cosa?».
Fonseca non rispose.
«Appunto che cosa?» urlò Rochonville.
«Signor colonnello,» disse Fonseca «ti chiedo, in coscienza, se non sai che cosa possa essere successo a mio fratello».
«Come arrivi a tanto?» esclamò Rochonville. «Io come posso saperlo? Cosa ha a che vedere la mia coscienza con la scomparsa di tuo fratello? Che io non vedo quasi mai. L’ho visto, è vero, in occasione del funerale di Engelshausen, ma da allora è passata quasi una settimana. E altrimenti non lo vedo per mesi e mesi».
«L’ultima che, a quanto pare, lo ha visto» disse Fonseca «è una certa signorina Leeb».
«E chi è?».
«Un’amica di mia sorella».
«E quando è stato?».
«L’altroieri. Dopo pranzo si era incontrato con lei e con mia sorella. Volevano comprare una sella. O meglio, era la Leeb che voleva comprarla».
«Una sella?».
«Sì».
«Ma chi è che al giorno d’oggi vuole ancora comprare una sella?».
«Questo – afferma mia sorella – lo ha detto anche lui. Ciononostante si sono trovati, e poi lui e la Leeb hanno comprato la sella. Per le cinque era invitato da una certa signora von Malowetz. Ma, in primo luogo, ha tenuto compagnia alla Leeb fino alle cinque e mezzo e, in secondo luogo, non si è presentato dalla Malowetz, nemmeno in ritardo. La Malowetz peraltro si è da poco trasferita, e può essere che lui sia andato al vecchio indirizzo senza trovarci nessuno, e che poi...».
«Qual è il vecchio indirizzo?».
«Hietzing, Wattmanngasse. Adesso però abita a due passi di lì. Qualcuno di casa avrebbe dovuto dirglielo. E c’è di più: la Malowetz sostiene di averglielo comunicato di persona. Anzi il senso dell’intera faccenda è che lei voleva invitare un po’ di gente nella casa nuova. Di continuo dà ricevimenti in case nuove, non fa che traslocare. È una pazzia, questa dei suoi traslochi; nostra madre diceva sempre che cambiare due volte la casa equivale a perderla una volta in un incendio».
Il colonnello scosse la testa.
«E in che modo» domandò «lo ha comunicato a tuo fratello?».
«Per lettera».
«Quando?».
«Tre giorni fa: dunque il giorno prima dell’invito. Ci siamo messi a cercare la lettera, perché pensiamo che lei, a mio fratello, il nuovo indirizzo non lo abbia scritto affatto; che, distratta come è sempre, se ne sia dimenticata. Ma la lettera non si trova. Probabilmente lui l’aveva con sé».
«Ma perché gli ha scritto, poi? Non poteva avvisarlo per telefono...».
«Perché non ha il telefono. Nella casa nuova non gliel’hanno ancora allacciato».
«E non aveva nulla di meglio da fare che invitare subito gente...».
«Te l’ho detto che è pazza. Ha la fissazione delle case, così come altri sono fissati sui loro vestiti o i loro beni. Io d’altronde credo che gli esseri umani siano quasi tutti pazzi. Vedrai che si arriverà a una vera catastrofe».
Il colonnello lo guardò. Infine disse: «Quindi nessun altro lo ha più visto?».
«No, più nessuno, in seguito. Ma il giorno prima lo aveva incontrato anche tua figlia».
«Mia...».
«Sì».
«Chi te l’ha detto?».
«Lukawsky».
«Come mai Lukawsky?».
«Glielo ha detto per telefono».
«Tuo fratello?».
«Sì».
«Perché? E a che scopo?».
«L’ho chiesto anch’io a Lukawsky, e lui ha asserito che ovviamente mio fratello non lo aveva chiamato per quello, ma per un’altra ragione – parlando, però, aveva menzionato la cosa».
«E quale altra ragione?».
«Credo che fosse per la messa in suffragio di Engelshausen. Tua figlia non ti ha detto niente?».
«Di cosa avrebbe dovuto...».
«Di avere incontrato mio fratello».
«Sai che grande evento! Allora lui non era mica tanto interessante, non si sapeva ancora che sarebbe scom...».
«E perché dunque ha ritenuto di doverlo dire a Lukawsky?».
Il colonnello non rispose. Finalmente domandò: «Dove lo ha incontrato mia figlia, di preciso?».
«Non lo so» disse Fonseca.
«Avevano appuntamento?».
Fonseca fece spallucce.
«E che cosa gli ha detto?».
«È quello che volevo chiedere a te» disse Fonseca. «Cioè: avrei piuttosto voluto sapere se lui ha detto a lei qualcosa da cui arguire dove si trova adesso. Saresti dunque così gentile da chiederle...».
«Se sa qualcosa?».
«Sissignore».
Trascorso un istante, il colonnello andò alla porta e pigiò il bottone di un campanello. Quindi rimase ad aspettare rivolto alla porta. Dopo qualche momento comparve una domestica.
«Chiami mia figlia, per favore».
La donna si ritirò. Il colonnello si volse di nuovo verso Fonseca. Lo guardò senza dir nulla, quindi con le mani dietro la schiena si diresse alla finestra e si fermò a guardar fuori.
Solo quando udì entrare Gabrielle, tornò a voltarsi.
Gabrielle era rimasta sulla soglia e andava con lo sguardo dall’uno all’altro. «Come sta, conte Fonseca?» si sentì infine in obbligo di domandare.
«Fonseca asserisce» disse il colonnello «che suo fratello è scomparso improvvisamente. Ma che prima tu gli hai parlato».
«Chi è scomparso?» fece lei.
«Suo fratello».
«Ma come...».
«Non lo sappiamo. Ebbene, che cosa ti ha detto esattamente, allora, quando lo hai visto?».
«Che cosa mi...».
«Sì. Di che cosa avete parlato? E dove vi siete incontrati?».
«Non capisco tutto questo» disse lei. «Sarebbe davvero sparito?».
«Eccome. Dall’altroieri. Era mercoledì. Martedì, però, tu gli avevi parlato. Non è così?».
«Sì... credo che sia stato martedì».
«Dunque?».
«Ci siamo incrociati per la strada» disse lei. «Stavo andando a fare delle commissioni, e lui ha detto che desiderava accompagnarmi. Non so più esattamente di che cosa abbiamo parlato. Ma niente di importante. Comunque non ha affatto accennato a una sua intenzione di mettersi in viaggio o cose del genere. Ma come è possibile che sia sparito?».
«Sì,» disse Fonseca guardandola «come è possibile? E d’altra parte come è stato possibile che Engelshausen sia morto!».
«Se non vi siete detti niente d’importante,» esclamò il colonnello con gran veemenza, quasi volesse dar sulla voce a Fonseca e coprire ciò che questi aveva detto «perché lo avrebbe riferito a Lukawsky?».
«A Lukawsky lo ha...?».
«Sì. Gli ha telefonato».
«Per dirglielo? E gli ha detto che cosa?».
Rochonville fece un gesto impetuoso all’indirizzo di Fonseca, e Fonseca proseguì: «Gli ha riferito di aver parlato con lei».
«E che altro ancora gli ha detto?».
«Non lo so» rispose Fonseca. «Lukawsky, comunque, non ha aggiunto nulla. Non credo però che gli avrebbe raccontato dell’incontro con lei, se vi foste detti solo cose senza importanza».
«Lei evidentemente,» disse Gabrielle «ha un grande concetto delle mie conversazioni con suo fratello».
«Non è privo d’intelligenza».
«Crede che non me ne sia accorta?».
Il colonnello, dopo un istante, tornò alla porta e pigiò il campanello. Quando comparve la ragazza, le disse: «Vada a un telefono e chiami il maggiore Lukawsky». Cercò il numero in una rubrica sulla sua scrivania e glielo diede. «Dica al maggiore di venire subito da me per una questione urgente. Io non possiedo un telefono» aggiunse rivolto a Fonseca. «Non ho mai voluto averne uno. Non ne ho bisogno. Quando però ne hai bisogno è di sicuro per una questione atroce come questa. Anche la telefonata di Lukawsky con tuo fratello non sarà stata molto meglio».
 
 
Lukawsky si presentò circa venticinque minuti dopo. Vedendo più persone riunite, inarcò le sopracciglia. «Prego?» disse, dopo aver salutato con un inchino.
«Tu hai detto al conte Fonseca» esordì il colonnello «che suo fratello, prima di scomparire, ti ha riferito in una telefonata di aver parlato con mia figlia. Quando esattamente ti ha telefonato?».
«L’altroieri» rispose Lukawsky. «Qualche minuto passata l’una. Ricordo con precisione l’ora, perché stavamo – mia moglie e io – mettendoci a tavola».
«E dici che ti ha riferito solo di quell’incontro? Di nient’altro, quindi? Nemmeno dell’argomento su cui si era intrattenuto con mia figlia?».
Lukawsky guardò Gabrielle.
«No» disse. «Di nient’altro. Nel caso tu abbia dubbi in proposito, o meglio: se ritieni che i due si siano detti qualcosa che possa riguardare te o il conte Fonseca, allora è meglio che tu chieda informazioni non a me, ma esclusivamente a tua...». E accennò a Gabrielle.
«Ma che ragione aveva mio fratello di telefonare proprio a lei, maggiore Lukawsky,» disse Fonseca «se non aveva altro da comunicarle, all’infuori dell’incontro con la contessa?».
«Ho già avuto occasione di spiegarle» disse Lukawsky «che mi aveva chiamato per via della messa in suffragio di Engelshausen. L’incontro con la contessa, lo ha menzionato solo di sfuggita».
«Io però non posso credere che lo abbia fatto senza una ragione precisa: se anche non aveva altro da riferire su questo incontro, di certo lo ha menzionato solo perché era sicuro che la cosa la interessava. Che interesse vi aveva o vi ha tuttora, lei, maggiore Lukawsky?».
«Avrei creduto» disse Lukawsky «che a lei premesse conoscere dove si trova suo fratello, e non i miei eventuali interessi. Ora, dal momento che suo fratello è scomparso dall’altroieri sera, mi sono sentito in dovere di farle sapere che gli ho parlato al telefono ancora l’altroieri mattina. Le ho persino riferito ciò che mi ha detto per telefono. Tuttavia non mi sento in dovere di farle sapere che interesse abbia io in merito al suo incontro con...» e di nuovo fece un gesto della mano «la contessa».
«È appunto questo interesse a indurmi a supporre che la scomparsa di mio fratello sia in relazione con il colloquio da lui avuto con lei».
«Come le viene in mente quest’idea incredibile?».
«Perché altrimenti lei, mio caro maggiore, in una situazione del genere rivelerebbe senz’altro quanto sa di quel colloquio. Può darsi che il colloquio non abbia avuto l’esito sperato – difatti tanto lei che la contessa lo minimizzate –, ma io sono convinto che mio fratello abbia, e d’accordo con lei, cercato intenzionalmente, e dunque con uno scopo ben preciso, quel colloquio. Non è certo un puro caso che abbia incontrato la contessa. E allora che cosa c’è dietro? A quali passi lei, maggiore Lukawsky, ha indotto mio fratello, e che relazione ha la sua scomparsa con la morte di Engelshausen?».
Lukawsky lo guardò un attimo senza parlare, quindi si rivolse a Gabrielle. «Dica lei stessa al conte Fonseca» la invitò «se suo fratello voleva sapere qualcosa da lei, e che risposta gli ha dato».
«La contessa» disse Fonseca «non mi sembra la persona adatta a fornire informazioni in proposito».
«Ah no? E perché?».
«Perché probabilmente ha ancor più motivo di tacere queste cose, di quanto ne abbia lei, maggiore Lukawsky».
«Bene!» disse il colonnello. «Finalmente si ammette anche in mia presenza quello che da una settimana sospettano tutti».
Così dicendo tornò alla finestra e, con le mani dietro la schiena, si mise a guardar fuori. Gabrielle restò lì ancora un momento. Quindi, dopo aver volto gli occhi dall’uno all’altro, uscì senza parlare dalla stanza.
Nel silenzio che seguì divenne percepibile il canto di una voce femminile. Era la donna che lavava le finestre della vecchia università. Stava lavorando al primo piano. Era in piedi su un davanzale, e i passanti da sotto le guardavano le gambe. Cantava: «L’amore, ah, l’amore...».
Il colonnello chiuse fragorosamente la finestra.
«Credo che ormai qui siamo superflui» disse Lukawsky a Fonseca. «Si è in altre faccende affaccendati».
Fonseca si alzò. Ma, mentre insieme a Lukawsky stava per uscire dalla stanza, Rochonville richiamò il maggiore.
«Scusami,» disse il colonnello a Fonseca accompagnandolo per qualche passo fino all’anticamera «ma al momento non posso restare a tua disposizione. Ho da parlare con Lukawsky».
Fonseca aveva già preso il cappello. «Tanto ormai è inutile» disse. «Lo do per perso».
Quindi, dopo un attimo, andò via. Il colonnello rientrò nella stanza. Guardò Lukawsky, poi finalmente disse:
«Non volevo crederci, e per la verità non riesco ancora a crederci. E soprattutto, essendo suo padre,» e indicò la porta da cui Gabrielle era uscita «non posso agire come dovrei. Ignoro che cosa sia veramente accaduto, e tu pure, penso, ne sai poco più di me. Non so cosa sia tutto questo – è come un sogno non propriamente lieto. E nemmeno voglio chiederti di... È un pezzo che non ho più il diritto di darti degli ordini. Ma se mai l’ho avuto, questo diritto, ti ordino adesso di continuare ad agire come fin qui hai agito, di fare ciò che questi – e forse tutti – i morti esigono da noi, e di assecondare la voce cui non avremmo mai dovuto smettere di ubbidire!».

2

Si era agli inizi di giugno. Gordon, quando in quei giorni era dato parlargli, esibiva il più affaristico dei sorrisi mondani, lasciando intendere – come d’abitudine – che riteneva pressoché impossibile che la polizia riuscisse mai a scoprire l’assassino di Engelshausen o il luogo dov’era Fonseca – due termini che ben presto l’opinione pubblica aveva messo concretamente in relazione. Ci si era di fatto dimenticati che i due giovani avevano prestato servizio in un reggimento chiamato «Due Sicilie». Ora la gente cominciava a rammentarsene, e su questa idea si costruivano le combinazioni più arrischiate. Gordon però le respingeva in modo categorico. Asseriva che erano irrilevanti – e che comunque non sarebbero state d’aiuto alla polizia.
Ad ogni modo non dispose nessun arresto nel caso Engelshausen – e Fonseca restò uccel di bosco: semplicemente scomparso. Né si poté trovare un qualche indizio che questi intendesse mai rifarsi vivo. Su Gabrielle Rochonville, intanto, si diffondevano le voci più fantasiose. Parendo ormai alla pubblica opinione troppo insipida la congettura iniziale, che cioè la figlia del colonnello fosse in relazione con tutti gli ufficiali del padre, si inventò che ella, negandosi loro, li spingesse alla disperazione, oppure che gli altri suoi amanti (e gliene attribuivano finanche negli ambienti più loschi) ammazzassero gli ufficiali. Ci si aspettava a ogni istante di veder scomparire un altro ufficiale del reggimento «Due Sicilie», e chi più ne ha più ne metta. Dopo avere dapprincipio respinta Gabrielle, ora avevano tutti ricominciato a ronzarle intorno. Perfettamente superficiali com’erano, volevano vedere di nuovo a casa propria quella persona circonfusa di scandalo, e da cui irradiava il brivido del pericolo, tanto da poter dire come de Quincey a proposito di Thomas Wainewright: «Oggi siamo stati a tavola con un assassino». Si dava infatti per scontato che, in incognito come dai Flesse, anche il misterioso colpevole sarebbe stato della partita. Insomma piovevano gli inviti. Ma ovviamente Gabrielle li declinava. Anzi, non si faceva più vedere.
 
 
Ma neppure il colonnello andava più in società. Non lo aveva mai fatto volentieri, ormai viveva solo nelle sue stanze, accanto a una figlia di cui ignorava che cosa pensasse e che cosa mai facesse. Sotto le finestre era la piazza con i colombi; Rochonville li guardava senza vederli, e a volte aveva l’impressione di essere da tutt’altra parte, per esempio in campagna – forse perché era arrivata l’estate, e l’estate, solitamente, la passavano in campagna. E guardando di lì la piazza, gli pareva perfino di trovarsi su un monte, o comunque in un luogo naturale elevato. Può darsi che in ciò avessero una parte alcuni ricordi – non sapeva però bene quali – che gli venivano forse dall’infanzia. Credeva di essere stato una volta, probabilmente solo in visita, e forse per la semplice durata di un meriggio e delle ore successive, in una certa casa che sorgeva su un’alta contrada collinare e intorno alla quale si profilavano lunghe alture, qua e là sassose: e ora, come per incanto, gli pareva di esservi tornato. La casa stessa sorgeva su un poggio, doveva essere quindi una di quelle ville padronali che si possono definire anche palazzi – ma forse non si trattava neppure del ricordo di un unico edificio, erano piuttosto ricordi di ville diverse, uguali o simili a quella, colti in qualche visita occasionale o durante viaggi o campagne militari, ricordi che erano poi confluiti in uno solo. A ogni modo, il colonnello non sapeva più come raffigurarsi quella villa. Ricordava e insieme non ricordava. Altre cose, però, aveva ben presenti. Sapeva, per esempio, che il tempo del giorno da lui rammentato era il dopopranzo. Le persone di casa, e forse anche quelle con cui era giunto, verosimilmente i genitori, dovevano essere andate a dormire – del bambino, comunque, nessuno si occupava.
Credeva di trovarsi all’aperto. Il cielo pareva scuro, non di nubi ma di caligine – una caligine da cui trapelava a momenti un po’ di sole. L’aria era tiepida, calda quasi, e a tratti gli spirava in volto l’alito d’un vento quasi torrido. La petrosità delle colline conferiva alla contrada, che in realtà non era di particolare altezza, un aspetto quasi montano, cui ben si addiceva quello scampanio – campanacci di pecore, si sarebbe detto – che di tanto in tanto risonava. («Ah, i nostri sono terreni cattivi,» poteva aver detto a tavola qualcuno «alleviamo quasi solo pecore»). Regnava un grande silenzio, si udiva soltanto lo scampanio sospinto di quando in quando da un alito di vento. Benché un po’ torbida, la luce era decisamente estiva. A giudicare dall’erba, si era di giugno o d’agosto.
Saranno state le tre del pomeriggio. L’ora era satura di malinconia, ma anche della singolare presenza di eventi invisibili. Era indubbio che nel raggio di parecchie miglia non stesse avvenendo nulla di notabile; e nondimeno si avvertiva la sensazione che potesse succedere da un momento all’altro qualcosa che accadeva solo una volta ogni tanti anni – o forse erano eventi che, pur lontani nello spazio, si erano fatti vicinissimi: forse alcune persone sarebbero venute a comprare la tenuta, provocando un mutamento inevitabile dell’esistenza, o un esercito di ritorno dalla guerra sarebbe passato di là, o qualcosa di simile era nell’aria. E poi non si sapeva bene dove ci si trovasse, non solo perché il nome di quel luogo restava ignoto, ma anche perché era come se tanti altri luoghi del mondo confluissero in quell’uno. E come era presente la lontananza, così pure il passato era presente. Qui poteva ancora accadere ciò che altrove era finito da tempo. Accanto alla villa doveva esservi stata una qualche chiesa o una cappella piuttosto grande, perché il colonnello ebbe a un tratto l’impressione di avervi veduto figure dorate di re con la corona in testa e rappresentazioni del martirio di certi santi. Pareva che quei re potessero avviarsi in ogni momento per i viottoli della campagna, e di ora in ora poteva aver luogo il martirio dei santi – tra i contadini, magari. Anche se – o proprio perché – tutto era senza vita, pareva che la vita avesse deciso di mostrarsi per ciò che era. Come un animale dilaniato dal morso delle volpi, cui siano fuoriuscite le viscere, così giaceva lì, inerte, la vita. Il cuore della vita palpitava ancora, e il suo fianco squarciato sanguinava nell’erba polverosa.
Un tempo vi erano stati pittori che avevano dipinto paesaggi cosiddetti ideali, paesaggi in cui si prefiggevano di ritrarre la vita intera e che erano saturi di cose: monti, fiumi, città, battaglie e mari tutti tempesta e bonaccia, tutti navi e mostri degli abissi. Anzi, perfino il giorno e la notte, in quei quadri, dovevano essere sincronici, e la luna e il sole affiancarsi in cielo. La vita reale, però, non si manifesta nella varietà. La varietà non è che rumore. La vita reale si manifesta solo nel vuoto. È nell’assenza di eventi che – come in uno spazio vuoto, come la tentazione nella solitudine dell’eremita – irrompe la vita intera, e il suo frastuono è di tale intensità che le orecchie credono di percepire solo il silenzio, tanto immane e soverchiante come il fragore del sole che sorge è il fremito dell’essere.
 
 
Alla fine del mese il maggiore Lukawsky si presentò in quella casa della Jordangasse 4 in cui, settimane prima, Fonseca aveva visto entrare Gabrielle.
Fu verso sera. Le vie erano immerse in una luce di madreperla, strie sparse di nubi orlate di un rosa fenicottero galleggiavano sopra la città.
Il maggiore salì al secondo piano dello stabile e suonò alla porta sulla destra del pianerottolo.
Una donna di aspetto modesto gli aprì.
«Posso parlare col signor von Pufendorf?» chiese il maggiore, il quale, come poteva evincersi dal tono della voce, si aspettava una risposta affermativa. E quando la donna effettivamente disse di sì, il maggiore si tolse cappello e guanti e venne introdotto in una stanza dove, al suo ingresso, un uomo alto, sui trentacinque anni, si alzò per osservare il visitatore.
«Il signor von Pufendorf?» domandò Lukawsky.
«In che cosa posso servirla?».
«Mi chiamo Lukawsky» disse il maggiore «ed ero uno degli ufficiali del colonnello Rochonville nel reggimento delle Due Sicilie».
Pufendorf, dopo un istante, invitò con un gesto della mano il maggiore ad accomodarsi.
Era, per la sua statura, straordinariamente snello, soprattutto nei fianchi, e la sua sagoma, disegnandosi contro la luce vespertina delle finestre, aveva una certa somiglianza con quella del generale russo Vrangel’.
«Mi consenta» esordì Lukawsky «di rifarmi un po’ indietro in ciò che ho da dirle...».
«Certo» rispose Pufendorf. «Ma se è così, a maggior ragione la prego di accomodarsi».
Parlava, a quanto pareva, un tedesco assai corretto. Solo la sua voce aveva un’inflessione leggermente insolita.
Lukawsky si mise a sedere e per un momento si guardò intorno nella stanza. Questa era arredata con grande semplicità, anzi con poco gusto, come mille altre stanze.
«Lei è quello stesso Konstantin Il’ič von Pufendorf, che fu tenente degli ussari di Grodno?» disse Lukawsky.
«Giustissimo» replicò Pufendorf. «Vede dunque che, pur essendo russo, non mi spaccio né per un capitano di cavalleria né per un principe...».
«Ma sua madre» disse Lukawsky «era una principessa».
«Certamente» consentì Pufendorf, e parve un poco sorpreso che Lukawsky lo sapesse. «Una Vjazemskaja. Ma questo cosa ha a che fare con la questione?».
«E lei si è anche fatto passare per un capitano di cavalleria, pur se in via temporanea».
Pufendorf inarcò le sopracciglia.
«E precisamente in occasione della sua fuga dalla Russia» sentì di dover aggiungere Lukawsky. «Lei, se non erro, realizzò l’espatrio servendosi dei documenti del capitano Gasparinetti, uno dei nostri ufficiali, morto in prigionia».
«Sicché pure quest’avventura – per sé priva d’interesse – è giunta alle sue orecchie?» disse Pufendorf. «Ebbene, io allora non avevo molte altre scelte, né credo che ciò abbia nuociuto alla memoria del suo compagno d’armi, non essendomi macchiato di alcuna azione disonorevole in suo nome, e avendo ripreso la mia vera identità non appena mi fu possibile».
«Così è» disse Lukawsky. «E nel mio ricordo è rimasto questo particolare della sua vita...».
«... sulla quale lei mostra di essere informatissimo...».
«... invero soltanto perché adesso anche qui figura un capitano di cavalleria Gasparinetti – con ogni evidenza un parente del defunto».
«Ne ho sentito parlare» disse Pufendorf dopo un momento.
«E poiché lei» continuò Lukawsky «in fondo non si spaccia né per un vero capitano di cavalleria né per un principe, non ha neppure ritenuto indispensabile dedicarsi a una delle due professioni esercitate perlopiù, all’estero, dai russi che detengono quei titoli: vale a dire quella di autista o di cameriere; si è invece guadagnato da vivere dapprima come tornitore meccanico, in quello stesso ramo in cui lei ora è avanzato a venditore, ossia nell’industria automobilistica».
Pufendorf, chiaramente divertito dalla puntualità delle informazioni di Lukawsky, annuì.
«E facendo il tornitore» disse Lukawsky «ha altresì acquisito una forza straordinaria nelle mani, o comunque maggiore rispetto a quella che la sua corporatura snella...».
«Lei tuttavia non deve credere, maggiore Lukawsky,» lo interruppe Pufendorf sorridendo «che un tornitore prenda tra le mani il metallo e lo giri come un interruttore della luce o una maniglia d’automobile...».
«... o il collo di un uomo...».
«Si capisce,» concesse Pufendorf, evidentemente stupito di questa aggiunta «... o come lei, in quanto militare, voglia figurarsi la cosa. Il modo di operare del tornitore è del tutto diverso. E la forza nelle mani non l’ho acquisita al tornio, ma molto prima grazie a certi esercizi cui mi ero dedicato per divertire i miei commilitoni – e, di quando in quando, anche il granduca Nikolaj, che conoscevo di persona – con qualche gioco di destrezza, come per esempio piegare una moneta da un rublo fra le dita o strappare in due un mazzo di carte. Sì, posso dire che perfino gli attendenti più robusti si sforzavano inutilmente, dopo che ero uscito dalla mensa ufficiali, di raddrizzare il rublo deformato...».
Lukawsky fece un gesto di rifiuto con la mano: la sinistra, perché la destra continuava a tenerla in tasca.
«La supplico, caro signor von Pufendorf,» disse «non incominci anche lei con queste storie di monete piegate e mazzi di carte strappati! Dovunque uno vada, oggi, discorrendo di grandi forze fisiche non si sente altro che mazzi di carte strappati e monete piegate in due».
«Può darsi» disse Pufendorf sorridendo «che qui questi giochi di destrezza risultino tediosi. In Russia, però, noi eravamo più ingenui, sicché riuscivo sovente a divertire i miei compagni con cose del genere. Lei fuma forse?». E aprì un astuccio per offrire una sigaretta al maggiore. «Vede,» disse «non sono nemmeno russe, quelle che le offro».
«Che pure erano eccellenti» disse Lukawsky servendosi con la sinistra. «Per parte mia, sono stato qualche mese in Ucraina, e le fumavo con gran piacere. Ma quello che volevo domandarle, signor von Pufendorf: lei conosce, vero, la contessa Gabrielle Rochonville?».
Pufendorf lo guardò senza rispondere. Infine gli accese la sigaretta.
«Può ammetterlo tranquillamente» disse Lukawsky. «Sono comunque costretto, per ragioni che subito le dirò, a dedicare grande discrezione a questo nostro colloquio».
«Ebbene,» concesse Pufendorf dopo un momento «conosco la contessa».
«Signor von Pufendorf,» disse Lukawsky «intendo battermi con lei».
Pufendorf non rispose subito.
«Il colonnello Rochonville non desidera che io sposi sua figlia?» domandò infine.
«Il colonnello» disse Lukawsky «probabilmente ignora del tutto che lei la conosce. Dubito perfino che sappia qualcosa della sua esistenza».
«O forse lei stesso, maggiore Lukawsky, ama la contessa Gabrielle?».
«Io sono sposato, signor von Pufendorf».
Un sorriso fuggevole passò sulla bocca di Pufendorf. A un’osservazione superficiale, si sarebbe detto che sorrideva perché la sua domanda non era se Lukawsky fosse sposato o meno. Ma forse sorrideva soltanto per la serietà della risposta di quell’ufficiale, che apparteneva a un mondo incomparabilmente più modesto rispetto a quello cui era appartenuto lui.
«Noto comunque» disse «che lei è un uomo tutto d’un pezzo, signor Lukawsky. Perché allora vuole battersi con me? Lei accenna al fatto che il colonnello, verosimilmente, non sa nulla di me, e mi confessa di non amare Gabrielle. Io invece la amo più d’ogni altra cosa».
«Lo so» disse Lukawsky.
«Qual è allora il vero motivo della sua sfida?».
«A proposito» soggiunse Lukawsky. «Il mio procedere è di certo inconsueto, il mio modo di introdurmi in casa sua è stato forse singolare – ma ho ritenuto superfluo muovere offesa a un uomo come lei, o creare una situazione in cui lei avrebbe infine dovuto offendere me. Credo che basti se le dico che voglio battermi con lei».
«Io però non ne vedo la ragione».
«Mio caro signor von Pufendorf,» disse Lukawsky «mi sorprende che questo genere di cose paia esserle estraneo. A quel che so, nella sua patria ci sono state nel secolo passato autentiche epidemie di duelli, e finanche due dei vostri poeti più famosi, Lermontov e Puškin, sono morti in duello; dei nostri poeti, invece, finora nessuno – ciò che forse depone a sfavore dei vostri poeti, o forse dei nostri. Puškin ha perfino scritto di duelli in diverse occasioni».
«Sì,» disse Pufendorf «in realtà tutti i poeti scrivono sempre e solo di ciò che finisce per essere il loro destino».
«Se lei dunque non vuole supporre che solo per distrazione abbia messo mano alla pistola, anziché alla penna...».
«Puškin è morto battendosi per una donna» disse Pufendorf. «La sua: sua moglie. Era molto bella, e lo zar la amava. Fu lui a far uccidere Puškin da un avventuriero».
«Vede!» disse Lukawsky. «O pensa forse che non siano più i tempi, per questo genere di cose? Fra uomini d’onore non vi sono casi a proposito dei quali lei possa dire che i tempi sono ormai superati».
«Questo sarebbe vero,» disse Pufendorf «o meglio: potrebbe confarsi a noi due, se lei mi ritenesse un uomo d’onore. Ma lei non mi ritiene tale».
«Come arriva a questa conclusione?».
«Perché lei non mi ritiene tale. Lei vuole battersi con me – battersi comunque, maggiore Lukawsky – solamente perché lei non vede altro modo per prevenire quel signor Gordon e lo scandalo che, come lei crede, nascerebbe dal mio arresto. Io però sono convinto che Gordon non ha la minima intenzione di farmi arrestare. Non vorrei pungerla sul vivo, ma lo reputo più avveduto di lei. Innanzitutto è di sicuro venuto a sapere molto prima di lei della mia esistenza e dei miei rapporti con Gabrielle Rochonville – benché questa non fosse certo una grande impresa, avendo lui a disposizione tutti gli strumenti della polizia. Inoltre lo considero avveduto perché deve aver capito subito che io ho ben poco a che fare, nonostante ogni apparenza contraria, con quanto ha in mente lei. Insomma, non mi farà di sicuro arrestare. Lei vede bene che, per quanto le circostanze lo suggerissero, fino ad ora non lo ha fatto. Ma le sciagure non arrivano mai dalla direzione da cui uno se le aspetta. Vengono sempre da una direzione diversa. A qualcosa come la sua visita avrei dunque dovuto essere preparato. E debbo confessare che sono piuttosto a corto di argomenti, perché qualsiasi rassicurazione io possa darle sul fatto di non aver nulla a che vedere con quel che tanto la preoccupa, lei non mi crederà...».
«Lei avrà notato» disse Lukawsky «che non le ho nemmeno chiesto dove possa trovarsi Fonseca».
Pufendorf, dopo un momento di irritazione, continuò: «E così, dato che non ho voglia di passare inutilmente due anni in una fortezza ungherese, non mi resta altro che metterla in guardia. Io, se lei davvero insiste a volersi battere con me, io la ucciderò in duello, maggiore Lukawsky...».
«Ah, la prego, niente profezie!» disse il maggiore. «Le profezie non sono fatte per realizzarsi».
«E perché no?» chiese Pufendorf stupito.
«Perché non predicono il reale, ma il vero. Lei quindi nuoce soltanto a se stesso se vuol raccontarmi, per esempio, che è un ottimo tiratore. Con le pistole da duello non si tira decisamente bene. E quand’anche dovesse riuscirle di ferirmi o uccidermi, lei non avrebbe risolto nulla: perché dovrebbe ancora vedersela con i signori Silverstolpe e Marschall, e con il colonnello stesso. Si disponga pertanto a morire, Konstantin Il’ič von Pufendorf! Ora accetta la mia sfida o no?».
Pufendorf, senza rispondere, scrollò le spalle. In quel momento suonò il campanello.
«La contessa Rochonville, naturalmente, non sa che io sono qui» disse Lukawsky.
Pufendorf lo osservò ancora un istante, quindi uscì dalla stanza. In anticamera parlò brevemente a bassa voce, poi si udì aprirsi e chiudersi un’altra porta, e Pufendorf rientrò.
«Maggiore Lukawsky,» disse «più ci penso più trovo talmente vergognosa la sua condotta che ho deciso di accettare la sfida. Così lei potrà davvero vantarsi di aver raggiunto lo scopo. Dio la perdoni. Avrà soddisfazione».
«Bene» disse Lukawsky. «Ma perché di colpo tanta irruenza? Finora lei è stato molto cortese, così come mi attendevo da un conoscente di una signora che è pur sempre la figlia del mio colonnello».
«Lei non sa proprio quello che fa, maggiore Lukawsky!» disse Pufendorf. «Non sa nemmeno quello che dice!».
«Non creda che io mi sia deciso con leggerezza a questo passo. Le ho detto che ho famiglia».
«Macché!» esclamò Pufendorf irritato. «Non sto parlando del pericolo per l’ulteriore educazione dei suoi figli!».
Lukawsky, dando una scrollata di spalle, si alzò. «E lei non prende troppo sul serio le sue questioni?».
«Sì,» disse Pufendorf «le questioni, ad esempio, per cui in questo paese non si ha abbastanza cuore da viverle sino in fondo. E le si lascia cadere». Quindi, con altro tono, aggiunse: «Attendo – diciamo per domani a mezzogiorno – i suoi padrini».
«Benissimo» disse Lukawsky. «Glieli manderò per tempo».
E con questo si congedò.
Attraversò, senza guardarsi intorno, l’anticamera. Dopo che la porta dell’appartamento si fu chiusa dietro di lui, restò ancora un istante sovrappensiero. Poi scese le scale.

3

Ecco la lettera che, verso la fine di giugno di quell’anno, Silverstolpe indirizzò al capitano di cavalleria Marschall von Sera.
Era vergata su molti piccoli fogli in una grafia minuta, quasi infiorata, e con un certo senso della forma e della distribuzione della scrittura sulla superficie della pagina. Le iniziali dell’esordio e di ogni capoverso erano ornate di svolazzi. La data era posta in fondo ed era seguita da due post scripta, quasi non potesse, una vera lettera, esserne priva.
Se non si è avvezzi a scrivere lettere, può accadere che si affidi una vita intera – e forse persino in forma più compiuta di come la si vive – a una lettera. Lo scritto era un tutto conchiuso, una lettera a sé, destinata a rimanere lettera e non a essere riprodotta secondo misure e criteri differenti. Le sviste e il modo in cui è piegata rientrano nell’unicità di una lettera, così come i caratteri sbavati magari da una mosca che abbia vagato per la scrittura ancor umida. Riproducendo la missiva, pertanto, agiamo nella convinzione che essa non sortirà più tutto l’effetto che operò invece sul capitano di cavalleria.
«Mio caro Marschall» così scriveva Silverstolpe «sarai sorpreso di ricevere questa lettera, anzi semplicemente una lettera, da me: noi non usavamo certo scriverci molto; non era necessario per assicurarci della nostra reciproca amicizia, né mai abbiamo avuto bisogno di definire un nuovo incontro che potevamo invece lasciare al caso. Sicché prenderai queste righe per segno di un fatto inconsueto – a meno che tu non faccia come quel tale che potei ancora conoscere, e che per decenni occupò nel suo albergo due stanze: una per abitarci, l’altra al solo scopo di riversarci tutte le lettere ricevute e mai aperte; talché alla sua morte trovarono quell’altra stanza quasi interamente colma di lettere non lette. Che gesto eloquente a significare che gli uomini, in definitiva, non sono in grado né di dirsi né di scriversi alcunché!
«Se nondimeno leggerai questa mia lettera, non avrai motivo di trarne maggiore sgomento rispetto a tutti gli altri casi in cui abbiamo dovuto semplicemente accettare il sopraggiungere – in altre persone – di quello stesso evento che qui ti annuncio.
«Mi è dispiaciuto non vederti al funerale di Engelshausen. Anche Lukawsky avrebbe voluto parlarti. E forse la tua presenza avrebbe dato un’altra piega alle cose di cui abbiamo discusso. Fummo infatti invitati, Fonseca e io, dopo il funerale di Engelshausen a casa di Lukawsky, e sua moglie ebbe la cortesia di bendarmi una piccola ferita che mi ero fatta – allora ignoravo ancora come – alla mano e che avevo creduta trascurabile.
«Ma già la notte successiva mi svegliai in preda a dolori violentissimi e alla febbre. La mattina vidi che non solo la mano, ma anche il braccio era gonfio. Strie di colore sgradevole risalivano dal dito medio ferito alla spalla, e mi accorsi che anche le ghiandole ascellari erano ingrossate.
«Il medico disse che si trattava di un’intossicazione. Da principio pensai che la benda con cui la Lukawsky mi aveva fasciato avesse infettato la piccola ferita. Ma tosto il medico insisté a dire che era un’intossicazione cadaverica.
«Io, naturalmente, non avevo idea di dove mai potessi averla contratta. Ma riflettendoci sopra, dovetti concludere che la sola possibilità da considerare era la seguente: il colonnello e io avevamo reso visita alla salma di Engelshausen. Era in uniforme. Poiché la giacca non gli si chiudeva più sul petto, le falde erano state unite con alcuni spilli. A me pareva che ciò fosse stato fatto in modo maldestro, e fissai meglio gli spilli.
«Qui avrà certo avuto la sua parte un qualche ricordo del servizio militare d’un tempo. Non era forse nostra abitudine non poter vedere un soldato senza trovargli addosso qualcosa da sistemare? Insomma, devo essermi ferito con uno di quegli spilli. È probabile che, nel rivestire il morto della sua uniforme, lo abbiano scalfito superficialmente con la punta nel petto – quella stessa punta con cui ho poi graffiato il mio dito.
«Nell’intossicazione cadaverica il nome suona, in genere, più minaccioso di quanto non lo siano le effettive conseguenze. Il male cui ero esposto ebbe, dapprima, il suo regolare decorso. Per alcuni giorni la febbre fu, a tratti, anche alta e le mie ghiandole rimasero gonfie; ma poi – come aveva previsto il medico – l’intossicazione regredì, e qualche tempo dopo avrei detto d’essere guarito.
«Fin qui non vi sarebbe nulla di abnorme da registrare. Certo era una sensazione strana recare in me i veleni di un altro corpo umano. Ma non inspiriamo forse costantemente l’aria espirata da qualcun altro, e la nostra vita non si mescola forse di continuo alla vita, e perfino alla morte altrui? Il pane che mangiamo forse è stato cotto con la farina tratta da una spiga nata e cresciuta su un cadavere, e il pesce che ci viene servito potrebbe essersi cibato dei resti di gente annegata. La nostra inaccessibilità, mediante la quale crediamo di non entrare in contatto col mondo circostante, è assai di superficie, e la nostra presunta intangibilità è di fatto inesistente. Di continuo ci sporchiamo i guanti bianchi, che sempre riteniamo di dover indossare, di continuo la sostanza di ogni creatura e cosa alita su di noi i suoi effluvi – e noi i nostri su tali creature e cose. Tutto si mescola con tutto, senza posa.
«Così, in capo a qualche giorno, sarei dovuto guarire. E invece non sono guarito. I gonfiori, è vero, erano regrediti e la febbre era calata. La mia temperatura scese perfino al di sotto della norma, ma io, anziché riacquistare le forze, sentivo crescere in me una singolare spossatezza, una debolezza logorante. Come a volte noi avvertiamo un peso in proporzione non già alle sue dimensioni, ma alla sua consistenza, così anch’io avvertivo quella debolezza come un’estenuazione logorante e quasi dolorosa. Incominciai allora a sentirmi veramente male.
«Il medico sosteneva che quelle erano sempre le conseguenze dell’intossicazione, che l’intossicazione era passata e che l’indebolimento ne era solo lo strascico; entro breve, concludeva, sarei dovuto guarire. Ma i giorni trascorrevano, e io non mi sentivo meglio, al contrario: mi sentivo peggiorare. Dissi al medico che, o la malattia non era ancora passata, o al suo posto ne era subentrata un’altra. L’intossicazione, rispose il medico, era senz’altro superata: tutti i sintomi erano scomparsi. E una nuova malattia, derivante da quella, non era a suo giudizio possibile – o, quantomeno, lui non sapeva quale potesse essere.
«Lo sapesse o no, era comunque una malattia – ed era, se non nuova, sempre la stessa intossicazione, che aveva solo assunto una diversa forma. Una forma destinata a essere letale.
«Vero è che Dio non fa differenza tra la punta di una spada e la punta di uno spillo. Non era altro che un pregiudizio, l’aver noi creduto di poter morire soltanto sotto le lame di un qualche reggimento francese o russo d’élite. In seguito ci siamo dovuti acconciare all’idea che saremmo egualmente potuti morire in una qualche sudicia trincea, dilaniati da una granata. Ed ora mi devo rassegnare al pensiero di morire per la puntura di uno spillo. Perché è un fatto, che io devo morire. Non vedrò le bufere autunnali, che tanto amo e che portano sino a noi il profumo del mare, anzi forse non vedrò neppure il pieno dell’estate.
«Non ho, mio caro Marschall, l’intenzione di annoiarti descrivendoti gli indizi che mi hanno portato a questa conclusione. Forse a tale convincimento sono arrivato io solo, forse i medici continuano a non crederci, perché come questa malattia – che non conoscono – è venuta, così, pensano, potrebbe anche andarsene. Sono parecchi i medici che, chiamati a consulto, mi hanno studiato per settimane. Ma c’era ben poco da studiarmi, non vi era da scoprire una malattia in senso proprio: era il mio corpo a consumarsi da sé. Non occorrevano più veleni esiziali: erano stati solo la causa occasionale della fine, e in realtà io ho cominciato a considerarmi perduto.
«Certo, un tempo gli uomini morivano spesso di malattie sconosciute, malattie di cui si aveva soltanto il nome, non il concetto: di febbre nervosa per esempio, di crepacuore e simili. Forse è un puro pregiudizio il credere che debba sempre essere una malattia o una ferita ciò di cui si muore. Forse, anzi probabilmente, si può benissimo morire da sé. E se uno non sa risolversi da sé a morire, avrà bisogno del destino – per esempio di scalfirsi con una punta di spillo, alzerà gli occhi, prenderà coscienza e morirà.
«Non pare anche a te che noi non abbiamo mai veramente preso coscienza della morte? Forse, quando siamo ritornati dalla guerra, abbiamo persino creduto di averla gabbata, la morte. Ma lei non si fa gabbare. Non che noi ci fossimo votati a lei. Non ve n’era necessità. Ma a un tratto era diventato inutile vivere. È sbagliato credere di dover sempre essere vivi. Si può benissimo essere morti. Credo che non per questo cambi minimamente il nostro modo d’essere. Chi è morto d’amore è ancora, e così pure tutti i caduti di guerra continuano a essere: sono, anzi, molto più che non se vivessero ancora. Vi sono, è vero, uomini che per vivere devono restare vivi, ma ve ne sono molti altri che per essere devono prima morire.
«Mi domanderai per quale motivo io non abbia speso una parola per informare te – o gli altri – circa il mio stato, mi rinfaccerai anzi di non averlo fatto. Ma, appunto, avevo bisogno di tempo per rendermi cosciente della mia morte. Se adesso ti chiedo addirittura di venirmi a trovare, lo faccio ormai con tutt’altri presupposti. I medici non mi infastidiscono più, e io, pur avvertendo sempre maggior debolezza, mi sento tuttavia meglio. Ora ho smesso di combattere contro la mia fine: la accetto. Forse sono stato, a tratti, un malato insopportabile, ma sono divenuto un moribondo ben sopportabile.
«Quando ho visto che era inutile sperare nell’arte medica, mi sono negato agli studi che si volevano condurre su di me. Mi sono detto che, se anche fossero riusciti a penetrare il mio male, i medici non avrebbero comunque potuto applicarne gli esiti ad altri malati, perché non ci saranno altri malati simili. La mia malattia è la mia personalissima morte. Non muoio di un morbo, ma di me solo.
«Ho due vecchie parenti in Carinzia, cugine della mia povera madre – mio padre, giunto dalla Curlandia ed entrato nel nostro esercito, aveva preso in moglie una Ungnad –, le quali mi avevano invitato già più volte. Amministrano una piccola proprietà chiamata Gegendt e si annoiano, credo, terribilmente come tutte le persone di una volta in questi tempi. Quando ho scritto loro che intendevo proprio venire, ho aggiunto subito che il mio disfacimento non sarebbe stato uno svago per loro. Ma forse nella mia lettera c’era una qualche insistenza che non consentiva di respingere la mia richiesta. Non mi sarebbe piaciuto morire in città. E loro comunque hanno avuto la bontà di invitarmi davvero.
«Ora abito qui – per non dire: vivo qui –, altrimenti dovrei soggiungere che aspetto solo di tirare le cuoia. Ho avuto, come avrai notato, il tempo di riflettere sul mio destino – sul destino di noi tutti. Ma sono settimane ormai che queste considerazioni hanno smesso di angosciarmi. Sapendo che non si vivrà più tanto, si vive meglio che non pensando di dover continuare a vivere. Ormai mi voto soltanto alle cose più immediate: il caldo, il continuo bel tempo; ciò compensa un poco il freddo che va crescendo in me; la vita di campagna, la visione della fecondità incredibile di questa terra – pare colma di spiriti della fecondità come di tutti i fauni di Pomponio Mela – mi sostengono nel mio venir meno e trapassare. È più facile morire se ci si accorge che la morte è parte della vita. E io, cercando di partecipare a questa vita, per quanto ancora mi è possibile, dimentico che non posso più vivere. Dimentico anzi la vita stessa, come il dormiente dimentica il ragno o la blatta che, prendendo sonno, ha visto sul soffitto – e al suo risveglio gli animaletti si sono spostati e sono ormai altrove. Così la vita, come in sonno, mi abbandona.
«Una delle mie zie è un’anziana signorina Ainether, l’altra per un certo tempo è stata moglie d’un consigliere di corte dal curioso nome di Pobeheim von Holzapfel-Wasen. Ma il matrimonio fu breve, anzi per la verità un semplice interludio nella vita dell’attempata signorina che, in fondo, non ha mai smesso di essere tale, sicché quando tornò dalla sorella fu come se non fosse mai stata via. Pranziamo assieme, di quando in quando abbiamo visite, oppure rendiamo visita noi a gente dei paraggi, ma io trascorro la maggior parte del tempo in una poltrona che mi faccio sistemare al sole, così da non aver freddo, e il tempo passa sopra di me. Io non me ne accorgo. La lancetta dell’orologio cosmico procede, mossa dal gigantesco ingranaggio delle orbite stellari – per me è come se si fosse mossa solo una foglia. Ogni istante che passa mi ruba molta più vita che a chiunque altro – io non vi bado. A volte, in precedenza, volevo arrestare il coro delle ore, questa turba duodena, come la chiama san Tommaso d’Aquino, quasi fosse una schiera di dodici fanciulle in vesti aleggianti, ed ero triste quando una sola di loro mi sfuggiva. Adesso, trascorrano pure sui piedi invisibili e silenziosi dalla loro eternità a questa caducità, e da questa caducità di nuovo alla loro eternità: perché mai dovrei ancora cercare di afferrarle? Se non le ritroverò di là, che cosa me ne faccio qui!
«Ma, in forma attenuata, anche qui c’è qualche svago. Di recente, per esempio, ho partecipato al bagno che, durante i mesi caldi, le vecchie signorine usano prendere nello stagno ogni giorno prima di pranzo. Si bagnano, a un dipresso, nello stesso modo in cui venne scoperto nel 1890 il bagno a Ostenda, solo che lo stagno non è il mare, ma una pozza tutta giunchi, ninfee, bisce d’acqua e coleotteri. Il cerimoniale di questo bagno ha però la mondanità di tempi trapassati... A volte capita che le signorine si distendano nelle amache, ma poi, quando vogliono rialzarsi, non ci riescono perché vi restano impigliate con i loro mille bottoni...
«Questo e altro mi rammenta certe scene domestiche, che un tempo, essendo io bambino, non avvertivo come ridicole – e all’epoca, di certo, ancora non lo erano. E anche qui, a volte, devo quasi sforzarmi di sorriderne. Il fatto è che qui i tempi si compenetrano in maniera non facile a descriversi, il presente non soppianta il passato; tutto, passato e presente e forse anche il futuro, è un sussistere insieme; e tante cose, così come mi richiamano il passato, sanno ricordarmi, in certo senso, anche il futuro. Non so se mi capirai. Ma qui il tempo, o non esiste affatto, o esiste con tale prepotenza che risulta indifferente cos’è già stato e cosa ha da venire: è comunque presente. La natura stessa reca in sé questa presenza costante di tutti i tempi.
«Quando sono arrivato qui, l’estate ricordava ancora un po’ la primavera, i prati in particolare, alti, non falciati, avevano – così mi pareva – un’espressività incredibile. O perlomeno questa era la mia percezione, e non voglio decidere se reali siano le cose stesse o la percezione che noi ne abbiamo. Allora, in quel trascorrere dalla tarda primavera all’estate in senso proprio, spesso nelle prime ore del pomeriggio, quasi ogni giorno, un sottile velo di nuvole – formatosi probabilmente a causa degli instabili strati atmosferici – saliva un tratto nel cielo, e quando compariva si aveva la sensazione che l’aria si facesse appena un po’ più fredda: come quando una folata di vento improvvisa passa sopra gli alberi o i tetti, e per un attimo un’aria affatto diversa ristà nell’aria consueta del giorno, prima di disperdersi – ma quel fenomeno non era legato a un alito di vento o a un reale raffreddarsi dell’aria: era solo come un’infiltrarsi nell’aria d’una sostanza altrettanto diafana ma assai più indefinita – o appena come un brivido. Un gran numero di cose, che non so esprimere, credevo di percepire – o meglio, credevo di prendere coscienza di eventi a tal punto chimerici e obliati, che pareva tornarmi in mente non solo l’intera mia vita, su su fino a giorni così remoti che non potevo averli vissuti, ma anche tanti giorni di tante altre vite. E ogni volta che quel fenomeno si verificava, ogni volta che il brivido sopraggiungeva, erano anche i prati ad avvertirlo. Un fremito molto più delicato di un refolo li attraversava, sebbene i fili d’erba non si muovessero minimamente, o quantomeno non per quella causa; era solo uno scemare, per minimi gradi, della luminosità del verde argenteo e tremulo – un rabbrividire insomma che, nella sua inafferrabilità, toccava ancor più l’anima.
«Così me ne stavo nella mia poltrona aspettando quotidianamente quello strano atterrirsi della natura – sì, era senza dubbio un atterrirsi –, era come se anch’essa ricordasse a un tratto qualcosa e ne avesse terrore. Ma che cosa ricordava? Poteva essere, di nuovo, il ricordo di qualcosa sia del passato, sia del futuro. Le cose tremende che forse intuiva potevano essere già accadute o di là da venire. Ma era come se fosse accaduto appena ieri o avesse da venire già domani, talmente dappresso era ancora – o di nuovo – il terrore. Quale terrore? Non il gran diluvio di un tempo, evidentemente, o la conflagrazione universale anch’essa di un tempo – salvo che l’uno è tanto remoto quanto l’altro ancora si preannuncia. Ma che cosa sono mai per la natura il fuoco e l’acqua! Non sono forse, acqua e fuoco, la natura stessa? No, non aveva certo terrore di se stessa. Il terrore doveva invece essere più profondo: una qualche memoria o il presagio di una catastrofe nelle proprie cellule, o la paura del nascere della coscienza, o dello scindersi in principio maschile e femminile, o dell’insorgere del desiderio, o del mutuo compenetrarsi del vivente, o soprattutto e insieme: dell’amore.
«Ma non della morte. Solamente della morte no, che già di per sé è nulla. Terribile – così come si chiamano terribili e tremendi anche gli dèi –, è solo la vita. E io me ne stavo sdraiato e osservavo la vita atterrirsi di sé. E non avevo più paura.
«Questo, pressappoco, è quanto ho provato; o meglio: dev’essere stato più o meno questo. Sento però che non sono riuscito a trasmetterti un’idea della peculiarità della mia esperienza. Il peculiare – lo constato sempre – è tutto sotto la superficie delle parole, quelle strane entità che non riescono mai a comunicare concetti grazie alla precisione, ma semmai grazie alla loro imprecisione. Quanto più celata è una cosa, infatti, tanto più spettrale è il suo tentativo di emergere. Cosa potrebbe mai essere, altrimenti, il fatto che mentre scrivo, qualcosa sembra aprirsi un varco nella mia scrittura, come da calami intinti nell’ombra i tratti d’una scrittura assai diversa? – o ciò è piuttosto da paragonarsi a pesci che d’inverno affiorano muti e umbratili dal profondo dell’acqua fin sotto l’esile strato del ghiaccio? Che cosa affiora fino a me dal profondo delle pagine, incerto e quasi illeggibile, come alla fiamma sventolante d’una candela? Ma soprattutto, chi ha scritto ciò che qui vuole aprirsi un varco? E per chi mai è stato scritto? Talvolta, è vero, qua e là – simili a righe in una carta assorbente – i tratti si sovrappongono: i miei e quelli altrui, spettrali, si fondono come i lineamenti di un avo nel volto di un pronipote; e, come se due sostanze si unissero in un fuoco che erompesse dalle pagine, erompe radiante un senso che solo per metà è mio, ma per l’altra metà è di qualcuno da me affatto diverso. Pure bisognerebbe ricalcare l’intera, umbratile scrittura, e non lasciare al caso che i tratti vengano di quando in quando a sovrapporsi. È un unico, spettrale accalcarsi di segni, la camera ne è satura, come di fumo, e l’aria di là dalle finestre ne è pregna e vi preme contro...
«Quasi tutto ciò che fu scritto dagli uomini è come non ancora scritto. Simile a lettere in cui nessuno ha detto quanto voleva dire è tutto quel che venne scritto – come lettere non scritte. Aprendo i cassetti dei comò le trovi a fasci, quelle lettere legate da nastri, e la ceralacca dei sigilli, che il destinatario ha rotto come se rompesse i sigilli di vere lettere, si sbriciola tristemente sul fondo dei cassetti in frammenti di minuscoli stemmi e pesti cimieri. È come avere infranto uno stemma alle esequie dell’ultimo rappresentante d’una casata nobiliare. Perché quando si slegano i plichi e si aprono i fogli delle lettere, vi si trova soltanto delusione. Pure, vi sarebbe stato tantissimo da dire! Non già sul reale, benché neppure questo sia stato detto. Ma sull’irreale. Le nostre parole però sono imprecise, e quando diciamo l’irreale, forse intendiamo invece il reale.
«Come è stato, per esempio, ieri durante la passeggiata che ho arrischiato fare? Ero finito su uno stretto sentiero che, passando dietro una fattoria, saliva con una ben determinata serpentina (ci sarà forse chi dica che era una qualunque, ma io insisto nel ritenerla ben determinata, quella serpentina), saliva verso un margine del bosco, in direzione nord. Mi parve però, non appena vi ebbi fatto pochi passi, che non salisse ma scendesse. Vedevo, sì, che portava, di poco eppur sensibilmente, in su, e nondimeno sentivo che conduceva in giù, e quel dissidio tra percezione e sensazione deve avermi messo ben presto in uno stato d’animo singolarissimo – io comunque avvertii nettamente, senza poter tornare indietro o resistere altrimenti, l’inconsueto cui andavo incontro. Il sentiero era pietroso, come se vi fosse passata sopra l’acqua di un torrente; quantomeno all’estremità più bassa del sentiero – a quella realmente più bassa, e non a quella da me presunta tale – s’era accumulata una quantità di sassi, come un ghiaieto, e più su vi erano certi solchi scavati da ruote, mentre in altri punti le pietre che spuntavano dalla terra erano arrotondate come se molte persone vi avessero camminato sopra – mentre quello, per certo, non era un sentiero battuto –, e fra le pietre cresceva un po’ d’erba e di piantaggine. Il sentiero era di un’ampiezza diseguale e andava, per dir così, sfumando. Quando cominciai a percorrerlo, udii dalla cascina sbuffare un cavallo. Era uno sbuffare innervosito, come nell’imminenza di un evento inquietante. Per il resto tutto era silenzio. Il sentiero dapprima fiancheggiava un orticello chiuso da un basso steccato e una misera striscia di terra coltivata, poi oltrepassava un filo d’acqua che colava con un lamento impercettibile. Tutt’intorno si stendevano tratti di terreno paludoso coperti da una specie d’erba fatta di singoli steli lanceolati o d’un vello simile a una pelliccia di lontra, e qua e là cosparsi di bianche infiorescenze stellate. Là dove il sentiero faceva un gomito prima di infossarsi, un dieci passi più oltre, fra due sponde dell’altezza d’un uomo, sorgeva una cava di sabbia – o comunque un avvallamento ghiaioso, che io presi per una cava di sabbia o di breccia, e lì era cresciuto un cespo o un arbusto dalle strane infiorescenze, come un ciuffo di crespino o un rovo di more. Sul margine della cava, a monte, vi era un abete privo di rami fino a metà altezza; ai suoi piedi lussureggiava un groviglio di crespini, querce spinose, biancospini e arbusti d’altro genere. Più in là verso il bosco si ergeva una betulla isolata. Sull’altro versante del sentiero vidi un albero d’una specie a me ignota, che era come accovacciato e nel contempo bizzarramente dissolto nell’aria, e i ceppi di alcuni frassini tagliati, mentre più lontano parecchi altri esibivano tronchi curiosamente ricoperti di muschio. Le loro chiome, con ogni evidenza potate e ripotate – a che scopo, però, lo ignoro –, avevano preso la forma di cespugli ovoidali.
«Non comprenderai di primo acchito perché ti descrivo tutto questo. Ecco che cosa mi è successo su quel sentiero: cominciando a percorrerlo osservavo la piantaggine, o meglio solo le foglie e non lo stelo, e le pietre arrotondate. È possibile che, guardando a terra e procedendo senza alzare gli occhi, io non abbia più avuto già dopo pochi istanti piena contezza della direzione e l’abbia cercata solo in modo semiconsapevole; come che sia, questa scissione della mente fra le mie percezioni e l’intento di mantenermi sul sentiero, mi ha affaticato oltre il consueto – mi accorsi così di scivolare in uno stato simile alla vertigine, per effetto del quale credetti a un tratto di essere in tutt’altro luogo rispetto a quello in cui in realtà io mi trovavo. O meglio, credetti all’improvviso di non essere più in alcun luogo, perlomeno non in un punto determinato, e la sensazione di scendere anziché salire s’impadronì interamente di me. La sensazione stessa non saprei descrivertela. Era qualcosa di paragonabile semmai al senso della mia debolezza fisica. Come adesso avverto in me questa logorante debolezza, così allora – nello stesso modo logorante – il sentiero ascendente mi trascinava in basso. Scoprii con terrore e in maniera incomparabilmente più incisiva di quanto fino a quel momento non mi fosse chiaro – d’essere del tutto solo. Non so cosa non avrei dato per avere con me una qualsiasi compagnia. Ci fosse stato qualcuno al mio fianco, fosse anche il cane, che invece se ne sta sempre accucciato in cucina e non mi accompagna mai, allora – pensai – questo non mi sarebbe successo. Ma che cosa, in realtà, mi è successo? Lo ignoro. Era un sentirsi completamente persi sprofondando; e ho avuto l’impressione, anzi la certezza, che né io né nessun altro si sia mai abbandonato a un’avventura del genere o abbia avuto un’esperienza simile e – per ragioni tanto oscure – così inquietante, anzi sconvolgente.
«Quando rialzai gli occhi, o meglio: quando tornai in me, ero al margine del bosco. Avevo solo percorso il sentiero, ma credetti d’essere stato in contrade talmente lontane da non figurare in Tolomeo e neppure nelle fantastiche carte di Mercatore. Cercai di scrollarmi di dosso l’impressione che ne avevo ricavato, ma essa già stava cascando da sé, come una cappa che mi avesse coperto anche la testa e il volto. Di colpo non capii più che cosa mi fosse successo, e neanche dopo fui in grado di capirlo. Insieme con quell’indescrivibile senso di paura ormai allontanatosi da me, era venuta meno anche la capacità di comprendere tale sentimento, o di farne almeno il tentativo.
«Mi accorgo che scrivere questa lettera mi ha stancato, occorre dunque che io affretti la conclusione più di quanto non vorrei. Non sono neppure riuscito a chiederti con la debita urgenza ciò di cui innanzitutto volevo pregarti: una tua visita. Ho già avuto dalle signorine il permesso di invitarti. Me lo hanno concesso di buon grado. Tuttavia ignoro se tu abbia la possibilità di venirmi a trovare qui; ma se dovessi risolverti a farlo, lo farai – lo so – assai più per amor mio che non per il diletto che io potrei procurarti. Vieni però, vieni e rimani quanto vuoi. Qui non si misura il tempo. Credo anzi che le signorine stesse sarebbero felici di avere qui un altro ospite – sempre che io possa essere considerato tale e non sia, piuttosto, persona da annoverare fra i residenti stabili.
«Mi dispiace d’aver esaurito le energie scrivendo di tutte le altre possibili cose, anziché trovare quelle parole affettuose che in realtà intendevo rivolgerti. Scusami quindi, in considerazione del mio stato, e fa’ come se ti avessi detto tutto ciò che non ho saputo mettere per iscritto.
 
Gegendt, 26 giugno 1925.
Silverstolpe».
 
 
Con queste parole, nella fretta di un’evidente estenuazione, terminava la lettera. Seguivano ancora, aggiunti senz’altro prima dell’invio, due poscritti riguardanti le circostanze dell’eventuale viaggio dell’amico.

ROCHONVILLE

1

Fintantoché i padrini suoi e di Pufendorf non ebbero regolato la faccenda, Lukawsky passò i giorni e le notti con una pistola a ripetizione in tasca ovvero sotto il cuscino – la stessa sul grilletto della quale aveva tenuto il dito durante l’incontro con Pufendorf. Non sentiva, infatti, il minimo bisogno di condividere il destino di Engelshausen o di Fonseca. In quei giorni – dopo la guerra era diventato funzionario di una compagnia assicurativa – doveva andare in visita di lavoro da due clienti fuori città. Ritenendo che i due inviti fossero simulati, era già preparato a qualche brutta sorpresa. Ma non era successo niente di inconsueto.
Il giorno trenta partì con i suoi padrini per Sopron. Alla moglie aveva detto che si trattava di un viaggio di lavoro. Usava allora, poiché per tali occorrenze le leggi ungheresi erano più favorevoli, andare oltre confine e battersi sul suolo magiaro anziché sul proprio.
I padrini di Lukawsky erano un tal capitano Vargha e un certo tenente von Schustekh. In un primo momento Lukawsky avrebbe voluto chiedere a Silverstolpe e a Marschall, ma poi abbandonò l’idea per non mettere a repentaglio la propria libertà d’azione e altresì quella dei due amici.
Arrivarono verso sera a Sopron e pernottarono all’«Albero verde». Dopo cena trascorsero il tempo giocando a carte.
La notte vi fu un temporale, e la mattina i campi erano ancora coperti di nebbia. Il terzetto si mosse già alle cinque. Lukawsky asseriva, è vero, che battersi così di buon’ora era soltanto un uso sopravvissuto al tempo in cui la gente si alzava molto prima, e solo per negligenza non si era passati a orari più ragionevoli. Ma ritenendo che a ora più tarda ci sarebbero state più persone in giro, si era rimasti d’accordo per le prime luci del giorno.
Montando in vettura – un calesse dalle imbottiture di pelle nera e relativamente malandato – Lukawsky sentì affiorare alla memoria certe sue imprese giovanili, e durante il tragitto si diede a raccontarne qualcuna. Gli altri, però, non erano in animo di ascoltarlo, o non gli prestarono attenzione, perché si davano pensiero delle conseguenze che la faccenda avrebbe potuto avere.
Vargha aveva portato con sé un medico. Schustekh teneva sulle ginocchia la scatola con le pistole.
Due poliziotti, davanti ai quali passarono, li salutarono pur indovinando, dal loro aspetto, il proposito di quei signori incamminatisi così di buon’ora.
Lukawsky non era del tutto sicuro che Pufendorf si sarebbe presentato, non avendolo scorto, il giorno innanzi, né sul treno né in città. Ma quando arrivarono al luogo stabilito, sui prati rivieraschi, Pufendorf era già lì con i suoi padrini.
Qualche raggio di sole filtrava attraverso la nebbia. Gli alti alberi erano avvolti in veli simili a ragnatele, i quali stavano cominciando già a dissolversi, e sopra le carici il vapore umido aleggiava come un corteo di anime afflitte sui prati inferi.
I padrini di Pufendorf – entrambi russi – erano un certo signor Harff e un tal conte Goleniščev-Kutuzov. Di Harff si venne a sapere, durante le trattative, che in precedenza era stato funzionario di banca. Goleniščev, invece, era stato consigliere di legazione.
I russi avevano miseri vestiti e nei loro sguardi si leggevano malumore e abbattimento. Sullo sfondo nebbioso la silhouette di Pufendorf somigliava di nuovo alla silhouette di Vrangel’.
La vettura dei russi si era già ritirata sotto gli alberi, e quella di Lukawsky la raggiunse.
Dopo i saluti, i secondi si accordarono designando Harff arbitro del duello. I due avversari, intanto, stavano in disparte, ciascuno per sé. Lukawsky si accese una sigaretta e seguì con gli occhi le spire della nebbia, fingendo di non vedere che Pufendorf lo stava osservando. Quest’ultimo lo scrutava però con uno sguardo non già minaccioso, bensì fisso e quasi triste.
Il medico era occupato con i suoi strumenti.
Erano stati pattuiti tre scambi di pallottole. Dopo aver letto il verbale che Schustekh gli aveva passato, Harff fece un tentativo di conciliazione. Abbassò il foglio che aveva letto sino in fondo, dicendo: «Siamo diventati tutti dei poveracci. Non siamo più quelli di una volta. Il mondo di cui eravamo parte non è più. Ciò che qui sta per accadere è cosa d’altri tempi. Tempi in cui eravamo giovani. Non dobbiamo più invocare il giudizio di Dio in questa contesa. Dio è diventato altissimo. Non decide più. Chiedo ai contendenti di riconciliarsi».
Parlava male il tedesco, e si notava che aveva mandato a memoria quelle frasi. Evidentemente i russi si aspettavano che lui, il più anziano, sarebbe stato comunque designato arbitro del duello.
Le sue parole caddero come ombre sopra la scena per sé già tetra.
Lukawsky, aggrottando le sopracciglia, dichiarò di essere perfettamente consapevole della responsabilità che si addossava, ma di dover nondimeno respingere il tentativo di mediazione. Quanto a Pufendorf, tacque affatto. Non restava dunque che caricare le pistole, e ciò richiese un certo tempo; dopodiché esse vennero consegnate ai due avversari, i quali erano stati condotti alla debita distanza.
«Conterò fino a tre» disse Harff. «A ogni numero batterò le mani. Noi in Russia facevamo così. Tra l’uno e il tre si può tirare. I secondi sono tenuti ad abbattere immediatamente qualunque dei due avversari faccia fuoco prima dell’uno o dopo il tre».
Dal modo in cui pronunciò anche queste frasi si capì che le aveva imparate a memoria. Era, del resto, una sorta di voce estranea a parlare per bocca di quell’uomo. Non era solo la voce di un paese straniero, era proprio una voce estranea.
«Tristo individuo!» disse Lukawsky, sottovoce, a Vargha. Vargha non replicò. I padrini andarono a collocarsi a distanza dai duellanti, su una stessa linea. Anche Goleniščev e Vargha stringevano in mano pistole cariche. Alle loro spalle, il medico. In quell’istante il sole irruppe, con cascate di luce, attraverso la nebbia. La rugiada scintillò.
«Siete pronti, signori?» domandò Harff. E alla risposta affermativa esclamò: «Attenzione!» e prese a contare: «Uno – due – tre!».
Al contempo batté tre volte le mani. I duellanti fecero fuoco in modo quasi simultaneo. Lukawksy forse una frazione di secondo prima di Pufendorf. La sua pallottola aveva chiaramente mancato il russo. Attraverso il fumo dello sparo vide che Pufendorf, il quale prima teneva lo sguardo chino, adesso levava l’occhio su di lui. Anzi, erano invero due, gli occhi che si levarono insieme su di lui: quello animato, umano, e quello rotondo e inanimato della pistola, che era distintamente raffigurato nella superficie anteriore di questa, anch’essa rotonda, su cui splendeva il sole. Era in realtà impossibile che il maggiore vedesse da una simile distanza questi due occhi. Ma credette nondimeno di vederli. Erano l’uno al di sopra dell’altro, un po’ come gli occhi di una sogliola, e guardavano lui.
Nell’istante successivo il fumo dello sparo di Pufendorf nascose lo sguardo di entrambi. La pallottola del russo fracassò il gomito del braccio destro ancora alzato del maggiore, dopodiché il piombo deformato si conficcò nel margine inferiore della sua scapola destra.
Egli restò ritto ancora un attimo, poi cadde a terra. Il medico accorse insieme con gli altri, lo visitò dopo avergli tolta la giacca e gli fece una prima fasciatura. In quel mentre il maggiore perse conoscenza. Chiamarono le vetture. Mentre lo caricavano, Goleniščev-Kutuzov disse al secondo di Lukawsky: «Iddio la perdoni per aver costretto Konstantin Il’ič a far questo a quell’uomo».
Il maggiore venne portato all’ospedale. Gli altri si consegnarono alle autorità.

2

Rochonville apprese la notizia verso sera di quello stesso giorno: la apprese da Gordon, che non conosceva di persona. Quest’ultimo, con sua sorpresa, andò infatti a trovarlo.
«Colonnello Rochonville,» disse Gordon con quel sorriso obbligato che esprimeva al tempo stesso la sua rassegnazione verso il corso del mondo e la sua convinzione che solo un uomo d’affari si intenda di checchessia – «colonnello Rochonville, non so se lei sa già che il suo maggiore Lukawsky si è battuto a Sopron con un certo signor von Pufendorf, un russo, e che è stato ferito piuttosto gravemente».
«Lukawsky?» esclamò Rochonville. «Con un russo? Un signor von...?».
«Proprio così» disse Gordon. «Questo Pufendorf le è forse sconosciuto?».
«Mi faccia riflettere! Dove ho già sentito il nome...? E il maggiore, dice, è stato ferito? Che ferita è, che ha...».
«Un braccio fracassato» disse Gordon sorridendo come se si trattasse della cosa più gradevole del mondo «e un proiettile confitto nella scapola. A considerar la cosa con leggerezza, se ne potrebbe concludere che si sia buscato quel genere di ferita, particolarmente ignominiosa per i Romani, voltando le spalle al nemico. Ma in realtà ciò è dovuto alla posizione da lui assunta durante lo scambio di revolverate: si era infatti postato di fianco per offrire il minor bersaglio possibile all’avversario. E non è stato colpito da due tiri, ma da uno soltanto: la stessa pallottola che gli ha frantumato il gomito ha avuto ancora forza sufficiente da penetrargli nella schiena.
«Comunque lo sfidante era lui stesso, e a nessuno verrà in mente di rinfacciargli mancanza di coraggio. Al contrario: è proprio la sua iniziativa che mi ha indotto a farle questa visita. Desidero infatti chiederle, signor colonnello, di voler esercitare l’influenza di cui gode presso i suoi ufficiali affinché essi desistano dal cercar oltre di risolvere per conto proprio un caso la cui soluzione è di pertinenza della polizia. Già il suo conte Fonseca ha dovuto scontare un simile tentativo scomparendo di scena, e adesso anche il suo maggiore Lukawsky si è buscato questa ferita grave».
Disse «il suo conte Fonseca» e «il suo maggiore Lukawsky» come una ditta chiama i dipendenti di un’altra ditta «i loro signori Taldeitali». Quindi continuò:
«La decisione di pregarla di smorzare lo spirito d’iniziativa dei suoi signori, colonnello Rochonville, è mia personale e privata. Così facendo io oltrepasso – lo so bene – i limiti delle mie competenze di funzionario di polizia, e lei ha tutte le ragioni di chiedermi con quale diritto io venga qui da lei accampando simili pretese. Voglia considerare però, la prego, questa mia visita sotto l’aspetto non già professionale, ma mondano. Vorrei che noi, da signori quali siamo, ne parlassimo qui in privata sede. Io, quantomeno, ritengo che questo sia il modo migliore di addivenire a un’intesa. Già la scomparsa di Fonseca ha proiettato una luce inutilmente chiassosa sulle questioni in sospeso, e che adesso – per giunta – il maggiore Lukawsky si sia preso a revolverate con quel Pufendorf peggiora ulteriormente la faccenda. Senza questi due episodi l’opinione pubblica con ogni probabilità avrebbe dimenticato da un pezzo la morte di Engelshausen. Così, invece, si parla già di un affare “Due Sicilie” – e forse non a torto. Sì, perché soprattutto nel caso di Fonseca ci si domanda per che cosa mai sarebbe dovuto morire, se non per un reggimento di tal nome. Ma, come ho detto, tutte queste iniziative dei suoi signori non giovano alla polizia, al contrario ne ostacolano il lavoro.
«Lei certo potrebbe obiettarmi che la polizia finora non ha fatto nessun lavoro, o perlomeno non ha conseguito grandi risultati. Purtroppo non sono autorizzato a darle informazioni circa l’attività dei miei agenti e sugli esiti, finora raggiunti, dei loro sforzi. Credo, nondimeno, di dover uscire in una certa misura dal riserbo impostomi e comunicarle che sotto il cielo ci sono più cose di quante non si sogni uno che non è poliziotto – e non viceversa –, e che io sono soddisfatto dei risultati provvisori raggiunti dai miei uomini. Non si dia dunque pensiero della durata dell’indagine e lasci fiduciosamente sbrigare queste cose a noi poliziotti. In ogni caso non cerchi di esserci d’aiuto».
Aveva parlato come a un consiglio d’amministrazione. Il colonnello lo aveva lasciato finire, ma nel frattempo aveva riflettuto e gli era venuto in mente dove aveva già sentito il nome di Pufendorf.
«Signor Gordon,» domandò «sa qualcosa di più preciso intorno a questo signor von Pufendorf?».
Gordon gettò un’occhiata al colonnello. «Lei no?» domandò.
«Io» disse il colonnello «ho udito parecchio su un altro personaggio dal medesimo nome, ma su questo no».
«Dunque,» disse Gordon «posso tanto più darle alcune informazioni su di lui, in quanto lo stesso Pufendorf non ha nulla da spartire con il caso che mi è stato affidato».
«Nulla?».
«No. È stato un errore madornale del maggiore Lukawsky averlo attaccato – o aver creduto di attaccare lui».
Il colonnello lo guardò dubbioso.
«Lei non sembra credermi» disse Gordon. «Ma è così. Questo Pufendorf, come ho detto, è un russo, sebbene la sua famiglia, che nel Seicento deve aver ottenuto una patente di nobiltà, sia originaria della Germania settentrionale. È stato ufficiale e ha servito nella Guardia, in uno dei reggimenti più rinomati, quello degli ussari di Grodno...».
«Negli ussari di Grodno?» esclamò il colonnello.
«Sì. La sorprende poi tanto?».
«Quello che intendo io deve aver servito anche lui negli ussari di Grodno».
«Forse allora è la stessa persona».
«Sarebbe impossibile. Quell’altro, infatti, dev’essere morto».
«Ma forse non lo è veramente. Questo, comunque, è figlio di un certo Elias von Pufendorf e di una tal principessa Vjazemskaja...».
«Di un Elias von Pufendorf? Ma allora dovrebbe chiamarsi Il’ič!».
«Certo, dal nome di suo padre».
«E come si chiama lui?».
«Konstantin».
«Konstantin?» esclamò il colonnello. «Konstantin Il’ič?».
«Così è, e non può essere altrimenti».
«In questo caso sarebbe, in effetti, la stessa persona. Ma è impossibile!».
«Impossibile? Perché?».
«Perché, come le ho già detto, Konstantin Il’ič è morto».
«Ebbene, io le dico che è vivo. Come avrebbe altrimenti potuto colpire Lukawsky al braccio e, a provar ancor meglio la propria esistenza, pure nella schiena? Del resto, che cosa la spinge a crederlo morto? Chi glielo ha raccontato?».
Il colonnello era sul punto di dirlo al commissario. Ma per una qualche ragione se ne astenne. Difficilmente avrebbe saputo spiegare perché a un tratto non voleva dirlo. Forse riteneva che Gordon, se fosse venuto a sapere della vicenda, l’avrebbe mandata a rotoli come già i casi Engelshausen e Fonseca. Giacché, per quanto il commissario lo assicurasse che le indagini procedevano bene, il colonnello era convinto che la polizia si trovasse in un vicolo cieco. Quantomeno non poteva – come Gordon – ritenere che Lukawsky si fosse sbagliato.
«Non riesco più a ricordare» rispose finalmente. «Ma mi dica: conosce il capitano di cavalleria Gasparinetti?».
«È quello stesso che, la sera della sventura di Engelshausen, dai Flesse...».
«Sì. Il signor von Pufendorf gli somiglia?».
«Al capitano? Come le viene in mente? Io non conosco Pufendorf di persona, ma credo che i due, a prescindere dalla loro alta statura, non abbiano nessuna somiglianza tra loro».
«Perché no?».
«Perché ho visto la fotografia del russo e ho avuto in mano i suoi dati segnaletici: né quella né questi combaciano con le fattezze del capitano di cavalleria. Pufendorf, ad esempio, è biondo – di quel biondo slavo che è proprio di tanti russi –, mentre il capitano è decisamente scuro. Perché me lo domanda, poi?».
«Perché avevo sperato di potermi fare un’idea di questo Pufendorf partendo dalle fattezze di Gasparinetti. In fondo vediamo molti – per così dire – conoscenti senza sapere chi sono, e dopo un po’ di tempo praticamente finiamo per aver visto quasi tutte le persone che vivono nella stessa città».
«Ebbene,» disse Gordon «è possibile che lei abbia – praticamente – già visto anche Pufendorf».
Il colonnello non capì del tutto che cosa intendesse Gordon.
«Sa forse, per caso, anche qualcosa di Gasparinetti?» chiese.
Gordon lo guardò.
«Ho solo qualche dato,» rispose «come quelli che a suo tempo sono stati presi di tutti gli invitati dei Flesse».
«Ho dimenticato in quale reggimento prestava servizio Gasparinetti».
Il sorriso di Gordon si accentuò. Ora sorrideva davvero.
«Nel nono reggimento degli ulani, se non erro» disse. «Lo ritiene importante?».
«Nel nono reggimento degli ulani?» esclamò il colonnello.
«Sì. Perché si stupisce sempre tanto quando viene a sapere in quale reggimento uno ha prestato servizio?».
«Quel reggimento non è mai esistito».
«Che reggimento?».
«Il nono ulani».
«Perché non dovrebbe essere esistito? Non avevamo forse almeno tredici reggimenti degli ulani? Mio cognato, per esempio, era nel tredicesimo».
«Ma il nono e il decimo non esistevano. Cioè, in origine esistevano sì, ma poi, e ormai da un pezzo, sono stati sciolti. Quindi lei si sbaglia se crede che Gasparinetti abbia prestato servizio nel nono reggimento».
«Non sbaglio di certo» disse Gordon. «Potrò forse suscitare l’impressione di essere una persona superficiale, però ho presente tutto ciò che ha rilevanza, e probabilmente anche qualcosa di più».
«Eppure si nota che lei non ha fatto il soldato».
Gordon scrollò le spalle.
«Forse il funzionario che ha preso nota del numero di reggimento di Gasparinetti si è sbagliato o ha sentito male» disse il colonnello.
«Nessun funzionario, perlomeno dai Flesse, ha preso nota del numero di reggimento di Gasparinetti. Non creda che si continuino ad annotare i numeri di reggimento delle persone che vengono identificate – a meno che ciò non accada per i componenti del suo reggimento partenopeo. Il numero di reggimento di Gasparinetti dev’essere entrato per altra via nel fascicolo».
«Per che via?» domandò il colonnello, chiedendosi dove volesse andare a parare Gordon con quel classico accenno.
«Per una via erronea, presumibilmente – come lei stesso asserisce. Ma questo, si diceva, è irrilevante. Supponiamo pure che il numero sia stato effettivamente mal trascritto e che il capitano abbia prestato servizio nel sesto o nel dodicesimo ulani o che so io, in uno degli ussari. La questione non cambia».
«Quale questione?».
«La sua, colonnello Rochonville» disse Gordon. «La mia no di certo. Ma l’ho trattenuta fin troppo e la prego di scusarmi se sono venuto a disturbarla. Spero nondimeno che vorrà prendere atto della piccola richiesta che è stata motivo di questa mia visita».
E si alzò.
Il colonnello, assorto nei suoi pensieri, lo guardò per un istante distrattamente, quindi si alzò lui pure.
«Dove si trova adesso Lukawsky?» chiese.
«Il mestiere del soldato» disse Gordon «è davvero rude, altrimenti lei si sarebbe informato da un pezzo sulle condizioni del maggiore. Non per nulla mi ha riprovato perché non ho servito nell’esercito».
«Ebbene, dov’è?».
«A Sopron» disse Gordon. «All’ospedale. E gli altri partecipanti a quel confronto a mano armata sono stati arrestati – almeno momentaneamente – dalle autorità ungheresi».
«E chi erano codesti – come le è piaciuto esprimersi – “partecipanti”?».
«Un tal tenente von Schustekh, indi un certo capitano Vargha, il signor von Pufendorf, un tal signor Harff, un conte Goleniščev e un medico – un numero considerevole di persone, quindi, le quali hanno deciso, benché erroneamente, di correggere me, singola persona. Lei osserverà tuttavia – e, presumo, con sollievo – che i suoi signori Marschall e Silverstolpe (il quale ultimo, certo, non è più idoneo a questo genere di imprese), come pure il suo caporale Slatin, non sono della partita».
Perché mai Silverstolpe non fosse più idoneo a «questo genere di imprese», il colonnello non lo capì. «Osservo altresì» disse «che lei non manca di interessarsi dell’appartenenza a certi reggimenti».
«Solo in questo caso particolare,» disse Gordon «come ho già accennato. Vorrà dunque lei pure, egregio colonnello, come egualmente già accennato, usare la mia stessa sollecitudine affinché i componenti di questo reggimento, che fu tenuto per così dire a battesimo dalla figlia di Maria Teresa e da Emma Hamilton, non prendano altre iniziative individuali. L’Ordine di Maria Teresa ormai non viene più conferito per questo genere di azioni».
E così dicendo si congedò con un sorriso.

3

Uscito Gordon, il colonnello rimase pensieroso e immobile – ma se qualcuno fosse entrato all’improvviso e gli avesse chiesto in che genere di pensieri fosse assorto, egli probabilmente non avrebbe neppure saputo di avere dei pensieri o a che cosa avesse mai pensato. Sentiva che qualcosa di preciso doveva venirgli in mente, che già vi era vicino, e tuttavia non avrebbe saputo dire di che si trattasse, né che lui stesse cercando di arrivarvi. Tutti i risultati effettivi del nostro riflettere sono ispirazioni. Il pensiero cosciente porta sempre e solo a esiti irrilevanti. Non è il cervello a ubbidire a noi: siamo noi a ubbidirgli.
Erano i pensieri più svariati, quelli che agitavano il colonnello, anzi è probabile che fossero un’infinità. Una mente che, in modo consapevole, non è in grado di pensare due cose al tempo stesso, in modo inconscio ne pensa mille insieme: alcune si mostrano chiare come, in un banco di pesci, quelli più vicini alla superficie, mentre gli altri si fanno vieppiù confusi nelle profondità della coscienza come nell’oscurità delle acque. Il colonnello non si era più curato di quel che restava del suo reggimento, sei ufficiali e un sottufficiale – ora che anche quel resto andava scomparendo, finalmente vi faceva caso. E gli risultava chiaro che anche i resti degli altri reggimenti, anzi, che tutto l’esercito tornato dalla guerra, si perdeva sempre più, scompariva, si dissolveva. D’un tratto ebbe la sensazione di non essere più nella sua stanza, ma all’aperto; era un paesaggio singolare – singolare per una ragione non meglio precisabile –, quello su cui credeva di trovarsi. Pareva un magro pascolo su colline autunnali, macchie d’alberi e boschetti sparsi all’intorno. L’aria, benché il cielo fosse coperto, era limpidissima. Il colonnello credette di non essere solo: erano comparse anche altre persone in gran numero, ma non singolarmente, bensì a gruppi o a drappelli, pur se alquanto dispersi in lontananza. Al colonnello costoro sembrarono carichi di attrezzi, ed era immaginabile che fossero strumenti di misurazione; quei drappelli sembravano accingersi a misurare il terreno. A suggerirlo era anche l’atteggiamento esplorativo con cui procedevano. Ma di colpo il colonnello vide che quelle che portavano con sé erano armi.
Erano armi, e con ogni evidenza quegli uomini non si erano ritrovati casualmente, ma si erano raccolti intorno a singoli vessilli. Ogni drappello aveva una bandiera, portata da un alfiere. Gli uomini erano carichi di armi e attrezzi militari e indossavano pastrani. Trascinavano i lembi dei pastrani sulle foglie cadute dagli alberi, facendole frusciare. E con le estremità delle armi tastavano il terreno.
Il colonnello non capì subito che cosa significasse quell’operazione. Alcuni avevano sguainato la spada, altri reggevano i fucili per il calcio, altri ancora portavano lunghe aste, forse lance. Con le punte delle lame e delle picche, ma anche con le bocche dei fucili, frugavano qua e là nel terreno. E d’un tratto il colonnello seppe che cosa cercavano. Cercavano le loro tombe.
Erano uomini in cerca delle proprie tombe – il luogo in cui sarebbero stati uccisi e sepolti, non poteva essere altrimenti. La frase di Gasparinetti, secondo cui, in fondo, ognuno non fa altro che cercare la propria tomba, gli tornò alla memoria e di colpo gli risultò chiara. E adesso lo si vedeva anche distintamente: con le punte delle spade e con le estremità delle altre armi rovistavano tra le foglie cadute, rivoltavano le pietre e cercavano, quasi come con una verga da rabdomante, tra i cespugli coperti di clematide, sotto le ramature degli alberi e sotto massi muscosi i luoghi dove li avrebbero sepolti.
Il colonnello andava con gli occhi da un gruppo all’altro, e alla sua vista si dischiuse d’un subito l’intero paesaggio, egli vide ben oltre quanto giunga in realtà lo sguardo: tutto il territorio era pieno di drappelli spettrali, anzi l’occhio arrivava al limitare delle montagne, e anche le pareti rocciose erano colme di ombre spettrali. Oltre il bosco di caducifoglie, che stava cangiando nei diversi colori dell’autunno, dal giallo al fucsia al rosa fino al terreo, incominciava subito, insieme con il bosco di aghifoglie, la neve (la stagione era piuttosto inoltrata), anche se non tanto da fermarsi sui rami – ancora piuttosto caldi – di pini e abeti in forma diversa dai bizzarri batuffoli fioccosi. Era una veduta singolarissima, come un ardito esperimento sullo sfondo d’un dipinto di Altdorfer. E dovunque, sotto gli alberi, brulicavano figure incerte. Imbruniva, e la luna di tre quarti stava sospesa nell’aria plumbea come una moneta d’oro incurvata. E in quel crepuscolo le ombre continuavano a cercare.
Il mondo era pieno di uomini in cerca delle proprie tombe. Molti di loro giungevano da età remote, ma ve n’erano altresì di ancora vivi – e forse anche uomini a venire. Indossavano magari costumi, corazze, uniformi, ma coperti da pastrani, e in alto svettavano le bandiere. Quale ordine aveva mai imposto a tutti di cercare i luoghi dove le loro vite avrebbero avuto fine? Chi li aveva condotti tra i boschi e i colli, nei deserti e fra le nevi – la volontà di un unico sovrano e condottiero, oppure una superiore volontà comune? Dal momento che, quand’anche il singolo avesse creduto trattarsi della sua sola volontà, pure non era forse la volontà sua: era qualcos’altro a spingere i popoli. Poteva essere la miseria, o il desiderio di nuove terre, o la fame, o la libidine di donne altrui. L’uno o l’altro trovava forse quanto cercava. Ma quel che tutti cercavano, era la propria tomba.
Era tempo ormai di tornare alla terra da cui erano usciti. Qua e là cominciava già a cadere la neve, non solo sui pendii dei monti ma fin sulle colline, troppo presto a quel che sembrava. Stava infatti sopraggiungendo il lunghissimo inverno, che rendeva impossibile soggiornare là dove ci si era fermati durante l’estate fino ad autunno inoltrato: l’ombra delle querce non era più abitabile, e le fronde degli aceri, tra le quali le anime dei trapassati bisbigliavano come respiri del vento, erano già schiacciate dal peso della neve. Su tutte le fronde era caduta la neve, e sulla neve cadevano a loro volta le fronde gelate – come un uomo dopo una malattia perde tutti i capelli, così a un tratto il fogliame cascava da tutti gli alberi ad un tempo. E ciascuna foglia, catturando più luce della neve circostante, sprofondava isolata nella neve. Era ora che anche i morti sprofondassero. Erano finiti i pomeriggi estivi in cui dai boschetti del parco si guardava verso la casa dove i vivi trovavano lungo il pomeriggio e non sapevano che cosa sia la vita; finiti gli umbratili incontri alla meridiana senz’ombra, finito il tempo sui prati dove si muovevano al vento le campanule. Bisognava prepararsi e partire. Bisognava radunare le armi e gli attrezzi mezzo sprofondati nell’umido, dire addio ai boschetti e alle sorgenti dove si era soggiornato a lungo, e le anime svanivano con un ultimo sospiro. Si avviavano agli ingressi della terra. Alle estremità delle gole coperte di neve, che portavano verso settentrione e verso il basso, era un accalcarsi di ombre, finché l’una dopo l’altra penetravano nella fenditura della terra e proseguivano per sprofondate valli, più sorde e più calde, avanti, fino alle acque degli inferi, ai mesti fiumi e laghi di un azzurro stigio. Qui dovevano montare sulle navicelle e pigiate, barca dopo barca, tragittavano di là e ancora, in un brulichio spettrale, ancora e ancora più al fondo...
 
 
Il colonnello sobbalzò. Gli parve d’essersi perso parecchio nei suoi pensieri, ma probabilmente era stato solo un tempo breve – forse perfino brevissimo. Infatti la sigaretta che, prima di accompagnare Gordon all’uscio, aveva posata in un portacenere senza più riprenderla in mano fumava ancora quando egli rientrò nella stanza e si sedette in poltrona. Anzi gli sembrava di aver dormito un attimo soltanto; e nel momento del risveglio – o del pensiero del risveglio – credette di aver avuto un’idea improvvisa.
Si alzò immediatamente, andò alla libreria e prese un libro preciso: la Storia del reggimento dei dragoni Ferdinando I, re delle Due Sicilie, opera di tal Gustav Amon, cavaliere di Treuenfest, seconda edizione, 1917, che ancora non affrontava gli avvenimenti della prima guerra mondiale, ma già aggiungeva gli elenchi dei gradi, dei feriti e dei caduti in tale conflitto.
Rochonville cercò l’indice dei colonnelli. Tra quelli dell’età napoleonica – ovvero di Francesco I – trovò:
 
1805 Karl conte Grünne.
1806 Sigmund barone von Enzenberg.
1809 Johann von Szombathely.
1812 Jakob cavaliere von Sück.
1814 Karl barone Ramming.
1815 Gasparinetti.
1815 Josef barone von Schuster.
 
Il fatto che mancasse il nome, metteva in risalto il cognome di Gasparinetti rispetto a tutto il lungo elenco.
Rochonville sfogliò il volume all’indietro, e nelle pagine relative agli anni 1815 e 1817 trovò quanto segue:
 
1815. Il colonnello barone Ramming ebbe intanto, in data 31 marzo, l’assegnazione allo stato maggiore, il capitano di cavalleria uditore Laurer ebbe la nomina a uditore di stato maggiore e, della disciolta armata italiana, furono assegnati al reggimento il colonnello Casparinetti, i capitani di cavalleria Bordogni e Brioschi, il tenente Bonacina e i sottotenenti Berri e Bertoletti.
1817. In data 4 luglio il colonnello Casparinetti venne esonerato dall’incarico. In settembre il reggimento venne concentrato a Horodenka per esercitazioni di divisione e di reggimento.
 
Lo stile era vago e scorretto. Da quale armata italiana nel 1815 fossero stati presi alcuni ufficiali, Rochonville non sapeva dire. Che quel colonnello Casparinetti (qui scritto con la C, nell’elenco dei colonnelli invece con la G) fosse stato «esonerato dall’incarico» il 4 luglio 1817 e liquidato con una sola frase, gettava una strana luce su tutta la vicenda.
In ogni caso adesso Rochonville sapeva dove aveva già incontrato quel nome.
Tornò a sfogliare l’elenco dei colonnelli. Complessivamente erano più di settanta. Ultimo della lista compariva lui stesso: Ludwig marchese e nobiluomo von Rochonville. Lo Stato non aveva registrato la sua famiglia con il titolo di margravio, ma solo con il grado nobiliare più basso.
 
 
Rimise il libro nello scaffale, prese il cappello, uscì di casa e trovò un telefono pubblico, dal quale chiamò i Flesse. Si fece dare l’indirizzo di Gasparinetti.
Imbruniva già, quando entrò in casa di Gasparinetti. In anticamera trovò valigie aperte e due servitori occupati a riempirle.
«Signor colonnello,» disse Gasparinetti «è un grande onore per me che tu venga a trovarmi; e che tu lo faccia oggi mi rallegra maggiormente, perché domani non mi avresti più trovato. Sono di partenza».
«Ah sì?» disse il colonnello. «Per dove?».
«Vado in campagna; ormai è arrivata l’estate. Posso offrirti una sigaretta o un po’ di cognac?».
Il colonnello si mise a sedere, prese una sigaretta e accavalciò le gambe.
«Se ti ho chiesto dove vai,» disse mentre Gasparinetti gli accendeva una sigaretta «era solo così per dire. In realtà volevo chiederti da dove vieni».
«Prego, colonnello?» chiese Gasparinetti.
«Non prenderla per un’indiscrezione» disse Rochonville con un mezzo sorriso adagiandosi con la schiena nella poltrona, come se la trovasse comodissima. «È vero che forse non si dovrebbe chiedere a qualcuno così a bruciapelo donde viene e dove va. Sì, perché donde viene mai ciascuno di noi! Dal nulla. E dove va? Pure nel nulla. Sicché, in effetti, non è molto opportuno informarsi di cose tanto intime. Dato che, a rigore, queste – e probabilmente non soltanto queste, ma anche il loro concetto – non esistono, interessarsene ha sempre un che di proibito, anzi di quasi indecente».
Rochonville disse questo a mo’ di introduzione, senza troppo riflettervi, ma mentre parlava si meravigliò di esprimersi a un tratto in modo così complicato, e anche Gasparinetti lo osservò sorridendo un po’ sorpreso, anzi quasi soddisfatto.
«Nondimeno,» soggiunse Rochonville come sentendosi spinto a ritornare rapidamente al concreto «nondimeno vorrei pregarti di rispondere ad alcune domande a questo proposito».
«Niente mi è più gradito del darti ragguaglio» acconsentì Gasparinetti.
«Tu,» disse il colonnello «la sera in cui accadde il triste fatto di Engelshausen, hai saputo avvincerci dai Flesse con il racconto delle tue avventure russe. Ti ricordi?».
«Certo» disse Gasparinetti, e parve divertito, anche se al tempo stesso diede a vedere che il suo diletto veniva meno, al pensiero della morte di Engelshausen.
«E raccontando hai fatto il nome di un certo Konstantin von Pufendorf, per il quale ti avrebbero scambiato».
«Eccome» disse Gasparinetti, e parve sempre più divertito.
«Questo Pufendorf» continuò il colonnello «avrebbe prestato servizio negli ussari di Grodno e, stando alle tue indicazioni, sarebbe caduto in battaglia...».
«... e invece, in realtà, è vivo e abita a Vienna» completò la frase con divertimento Gasparinetti.
«Proprio così» disse il colonnello. «Ma non è tutto. Questa mattina a Sopron ha anche ferito il maggiore Lukawsky al braccio, e per giunta pure alla schiena».
«Ma che cosa dici!» esclamò Gasparinetti allegramente. «Però, come è possibile?».
«È quello che mi domando anch’io – o meglio, che domando a te. Voglio dire: è stato possibile perché i due si sono battuti a duello».
«E per quale ragione?».
«Per ragioni private» disse il colonnello. «E io non voglio certo mostrare un così scarso senso dell’umorismo da chiederti come tu abbia potuto raccontarci che Pufendorf era morto, pur sapendo che è ancora vivo...».
«Posso lo stesso spiegartelo» disse Gasparinetti. «E lo faccio anche molto volentieri. Io...».
«Tutti hanno il diritto» disse il colonnello «di raccontare storielle non vere, purché siano buone...».
«La storiella non è malvagia, e nemmeno falsa come credi».
«Sì, è ben possibile – fatto salvo che Pufendorf non era morto, ma...».
«... che io stesso ero, in certo senso, morto o almeno creduto morto» aggiunse Gasparinetti.
«Cosa vuoi dire?».
Gasparinetti si accese una sigaretta.
«Dovrebbe esserti noto» disse «che anche Pufendorf dopo la guerra è fuggito dalla Russia. Cioè: dal momento che ora è qui, dev’esserci pure arrivato in un modo o nell’altro. Ma sai sotto che nome è riuscito a farlo?».
«Quale, dunque?».
«Sotto il mio, e con i miei documenti».
E guardò con soddisfazione il colonnello.
«Che altra storia è mai questa!» disse il colonnello. «Come può esserci riuscito?».
«Perché con il suo vero nome, presumibilmente, non ce l’avrebbe fatta – o solo con gran difficoltà. Sicché pensò di servirsi dei documenti di un prigioniero di guerra, al quale, dato che rientrava in patria, non avrebbero fatto difficoltà, o almeno non tante. Ma quel prigioniero di guerra ero io, e quei documenti erano i miei».
«E come ne sarebbe entrato in possesso?».
«Li avranno sequestrati dopo la mia fuga dal campo di prigionia, dove li avevo lasciati» disse Gasparinetti. «E per chiarire il putiferio che avevo provocato al maneggio Michajlovskij, li avranno spediti a San Pietroburgo. Di sicuro il mio fascicolo è arrivato sotto gli occhi di Pufendorf. E lui avrà preso i miei documenti conservandoli amabilmente per ricordo. In fondo, non è privo di interesse entrare in possesso dei documenti di una persona con cui ti hanno scambiato. Ma quando ebbe modo di impiegarli per sé, ecco, li impiegò per sé».
«Ma come hanno potuto scambiarti per lui?».
«Perché non dovrebbero scambiarmi per...».
«Perché voi, nell’insieme, non vi assomigliate affatto. Lui, per esempio, è biondo, e tu non lo sei».
«Se fossi stato ben rasato e ben vestito,» disse Gasparinetti «di sicuro il granduca non mi avrebbe preso per Pufendorf. Può aver immaginato che fossi Pufendorf solo perché mi credeva travestito. E, una volta che si era messo in testa un’idea, sorvolava sulle dissomiglianze che altrimenti non gli sarebbero sfuggite. Di sicuro ha pensato che mi fossi, per esempio, tinto i capelli».
«Bene» disse il colonnello dopo un momento. «Tralasciamo questa storia del granduca. Non puoi certo pretendere che io dia ancora molto credito ai tuoi ameni racconti. Ma se fossero veri, le cose sarebbero potute andare più o meno così. Il punto è: perché, invece di dirci che Pufendorf era scappato con i tuoi documenti, hai finito per raccontarci la conclamata menzogna che era morto?».
Gasparinetti, sorridendo, si versò un bicchiere di cognac.
«In primo luogo,» disse «non potevo immaginare che sarebbe entrato tanto presto nel tuo campo visivo. E, in secondo luogo, ho propalato con intenzione la notizia della sua morte».
«E con quale intenzione?».
«Se due persone sono una persona sola,» disse Gasparinetti «bisogna fondatamente che uno dei due non si faccia vedere».
«Perché mai una persona sola? Siete in due».
«Noi, però, a seconda dei casi, abbiamo asserito di essere una persona sola – o per meglio dire: me, mi hanno preso per lui, lui – invece – si è davvero spacciato per me. Perché, allora, non dovrei dire di lui che non esiste? Lui per me non esiste veramente più».
«Tu però sapevi che lui vive qui».
«Già,» disse Gasparinetti «forse per me era proprio questa la ragione buona per affermare che non era più vivo. Del resto, se non è oggi sarà domani. Che cosa ne posso, io, se Lukawsky mira tanto male? E poi: con gli anni ci si avvezza a non sopportare più i propri simili. Ma nessuno è meno sopportabile di chi si spaccia per te. Probabilmente questo è dovuto al fatto che meno ancora si sopporta se stessi. Solo che a se stessi si è costretti a rassegnarsi».
«Lo conosci di persona?» domandò il colonnello dopo una pausa.
«Dio ne scampi!» disse Gasparinetti. «Fra tutti gli uomini, quelli che hanno a che fare l’uno con l’altro sono i più restii a conoscersi. Soltanto quelli che non hanno niente da spartire fra di loro si legano d’intima amicizia».
Il colonnello scosse la testa.
«Non ti capisco sino in fondo» disse. «Comunque è curioso che ora voi due viviate nella stessa città. Ma c’è un’altra cosa che volevo chiederti. In che reggimento hai prestato servizio?».
«Nell’ottavo reggimento degli ulani; com’è risaputo, il Massimiliano I, imperatore del Messico» disse Gasparinetti. «Cioè, basta Massimiliano solo – un secondo Massimiliano del Messico non c’è stato, e non credo che ce ne sarà un altro».
«Ah ecco!».
«Prego?».
«Si dice che tu abbia servito nel nono ulani».
«Curioso!» commentò Gasparinetti.
«Nevvero? Il nono non esiste. O meglio: già allora non esisteva più».
«No, non per questo è tanto curioso» disse Gasparinetti.
«E perché allora?».
«Perché da noi era l’ottavo reggimento a chiamarsi Max von Mexico – ma in Russia invece era il nono».
«Che cos’era il nono in Russia?».
«Il nono reggimento russo degli ulani. Anche quello si chiamava ulani del Messico».
«Come lo sai?».
«L’ho appreso in Russia. Quanti reggimenti aveva quel poveretto, e in definitiva non gli sono serviti a niente! Quell’indio Juárez alla fine l’ha fatto fucilare lo stesso! Ma questo, solo di passata. Quanto a me, comunque, se fossi stato davvero nel nono reggimento, dovrei aver prestato servizio in Russia oppure – se avessi servito qui nel nono – sarei del tutto inesistente. Tanto poco esistente quanto ho asserito essere Pufendorf affatto inesistente».
Al colonnello tutti quei reggimenti cominciavano a far a girare la testa: gli ussari di Grodno, il leggendario colonnello Gasparinetti nel reggimento dragoni delle Due Sicilie, l’ottavo vero e proprio e il nono russo degli ulani, gli inesistenti nono e decimo, e per giunta vi si mescolavano ancora ricordi del reggimento dragoni Nicola II di Russia. Inoltre da un po’ Gasparinetti sorrideva ambiguamente, e il suo sorriso ricordava il continuo sorridere di Gordon. Il colonnello non si sentiva più del tutto padrone del suo senno, quella era davvero una giornata curiosa.
Si alzò.
«Come?» disse Gasparinetti. «Vai già via?».
«Temo sia ormai tempo».
«Ma non hai ancora raccontato, per esempio, l’oggetto del contendere fra il mio bravo Pufendorf e quel – com’è che si chiama? –, e quel maggiore! Che cosa è successo in realtà?».
«A quanto pare una divergenza di opinioni» disse il colonnello. «Non so neanch’io di preciso. Io...».
«Che la gente, oggi, abbia ancora tanta dignità e continui a battersi!» disse Gasparinetti. «Di Pufendorf, quantomeno, non lo avrei creduto. Ma che ne sarà adesso di quei due?».
«Le autorità ungheresi li tratterranno di certo».
«Pufendorf,» disse il capitano di cavalleria «è capace di scappargli ancora sotto un altro nome. Stavolta magari sotto il nome di Engelshausen. O anche sotto il proprio? A proposito, nel caso Engelshausen non è venuto fuori ancora niente? – per non dire di Fonseca».
«Niente di sicuro» disse il colonnello.
«Già, io l’avevo predetto fin da allora. Nella vita capitano a volte cose talmente curiose che gli strumenti quotidiani non riescono a spiegarle. In fondo si può dubitare di tutto, anzi ti dirò: può darsi perfino che ci si metta a dubitare di se stessi e si finisca per non sapere più chi si è e a che punto della propria vita ci si trovi. A volte si crede davvero di essere un altro e di aver fatto cose di cui poi, come un sonnambulo, non ci si ricorda più. Ma in fondo Dio sa che disegno ha su di noi, su tutto, e non occorre che ci spremiamo le sue meningi. Anche quando Dio opera in modo discutibile, basta sostenere più dignitosamente di quanto lui non si immagini anche la sorte più discutibile che ci ha riserbato, e comunque con la stessa dignità con cui i tuoi ufficiali sanno vivere e morire – proprio come ti avevo predetto prima ancora che si verificasse ciò che ha dato origine a tutti questi fatti».
Poiché Gasparinetti stava ricominciando con la sua ossessione della morte, il colonnello si congedò piuttosto alla svelta dopo aver replicato qualcosa a certi altri fronzoli retorici del capitano, senza curarsi della coerenza delle proprie risposte. È tempo, pensò, di andar a trovare, per esempio, la signora Lukawsky. Scese le scale e uscì sulla strada, dove i lampioni erano già stati accesi, ma le cose di cui aveva parlato Gasparinetti continuavano a frullargli per il capo. Si sentiva estenuato, e tuttavia non poteva impedire alla sua mente di continuar a voltare e rivoltare quei pensieri, riandò a tutti i reggimenti di cui avevano parlato, i suoi e gli altri, alle schiere di una volta, che rivedeva su lunghe file, con le teste tentennanti dei cavalli. A un tratto gli parve di vedere distintamente avanti a sé, come se le file venissero tirate indietro, le bocche dei cavalli mordere le briglie digrignando i denti e roteando gli occhi, tanto che lui – degli occhi – vedeva il bianco. Al tempo stesso udì grida confuse, come di più litiganti, e sentì l’urto di un timone di carrozza, quasi una lancia, in pieno petto, e venne scaraventato a terra e perse conoscenza.
Quando sollevarono il vecchio, che sanguinava dalla bocca, in mezzo a un assembramento e fra le esclamazioni del cocchiere che continuava a maledirsi e a proclamarsi incolpevole, Gasparinetti, che aveva visto dalla finestra l’incidente, era già lì e fece trasportare in casa il colonnello. Ma prima ancora che Gabrielle, da lui subito avvertita, fosse accorsa, Rochonville morì.