domenica 27 febbraio 2022

CONDOMINIUM J.G. BALLARD



CONDOMINIUM

J.G. Ballard

Recensione di Vale Flip

Il racconto si svolge all'interno di questo edificio enorme (1000famiglie , 40 piani) , che risulta del tutto autonomo rispetto allo spazio esterno . All'interno del Condominio  , eccetto il luogo di lavoro dei singoli  , esiste tutto quello che è indispensabile per la sopravvivenza degli individui in tutte le necessità del quotidiano . Quindi non serve uscirne, non è proprio necessario . Questo è l'inizio, sembra idilliaco, ottimale...inoltre , e non trascurabile , c'è una certa eleganza nell'arredo ed una certa "scelta: di classi sociali medio-alte che occupano gli appartamenti. Solo che...pian piano emergono rivalità e contrapposizioni fra I membri del condominio, e la situazione si fa via via più complessa e deteriorata.  In sostanza , l'autore descrive come questa stretta comunanza di vita , che tende ad escludererapporti con il "fuori", porti in superficie pulsioni nascoste, comportamenti aggressivi, apatia, disinteresse, disumanità, e altre qualità negative che albergano nell'animo umano. È un lavoro di analisi dello spazio interiore , un'indagine sulla natura del nostro mondo . Dopo una progressiva escalation nell'aggressività dei vari individui e dei gruppi che si sono costituiti  , il risultato è un edificio in cui tutto è stato vandalizzato, in cui più niente funziona , in cui individui spariscono o perdono la vita nel più  totale disinteresse dei presenti e dei parenti . Il processo è descritto in maniera assai articolata e complessa, con interessanti risvolti di tipo psicologico.  

Gli attori principali sono tre : un regista , un medico , un architetto (progettista del complesso) ; sono loro I personaggi che si muovono attraverso I vari piani e risultano attori protagonisti nelle varie scene. Tutto negativo , dunque , tutto insozzato , tutto distrutto ...e poi si verifica l'incredibile, nella parte più alta del complesso c'è chi imbianca le pareti e ripulisce i corridoi, c'è chi raccoglie i bimbi e li fa giocare , c'è chi riconvince la vita ad essere partecipazione ed empatia : è il gruppo delle donne.  Così , senza enfasi, quasi sottovoce , l'umanità riprende il sopravvento .


CONDOMINIUM

 1.

Massa critica

Era trascorso qualche tempo e, seduto sul balcone a mangiare il cane, il dottor Robert Laing rifletteva sui singolari avvenimenti verificatisi in quell’immenso condominio nei tre mesi precedenti. Ora che tutto era tornato alla normalità, si rendeva conto con sorpresa che non c’era stato un inizio evidente, un momento al di là del quale le loro vite erano entrate in una dimensione chiaramente più sinistra. Con i suoi quaranta piani e le migliaia di appartamenti, il supermarket e le piscine, la banca e la scuola materna – ora in stato di abbandono, per la verità – il grattacielo poteva offrire occasioni di scontro e violenze in abbondanza. Ma il suo appartamento-studio al venticinquesimo piano sarebbe stato di sicuro l’ultimo posto che Laing avrebbe scelto come teatro della prima scaramuccia. Era una cella supervalutata, aperta sostanzialmente a casaccio nella facciata del palazzo, che aveva comprato dopo il divorzio specificamente per la pace, il silenzio e l’anonimato che la caratterizzavano. Nonostante tutti gli sforzi di Laing per isolarsi dai suoi duemila vicini e dal regime di banali controversie e irritazioni che costituivano la loro unica vita di comunità, stranamente il primo evento significativo aveva avuto luogo proprio lì. Su quel balcone dove ora, accucciato davanti a un fuoco di guide telefoniche, si stava mangiando il posteriore arrostito del pastore tedesco, prima di uscire per la sua lezione alla Facoltà di Medicina.

Mentre si preparava la colazione, poco dopo le undici di un sabato mattina di tre mesi prima, il dottor Laing trasalì per un’esplosione sul terrazzino del salotto. Da un piano superiore, circa quindici metri più in alto, era caduta una bottiglia di spumante che, rimbalzando su una tenda mentre precipitava, era poi scoppiata sul pavimento piastrellato del balcone.

Il tappeto del salotto era chiazzato di schiuma e pieno di vetri rotti. Laing, a piedi nudi in mezzo alle schegge taglienti, guardava ribollire fra le piastrelle crepate il vino scosso. In alto sopra di lui, al trentunesimo piano, era in corso una festa. Sentiva risuonare un chiacchiericcio deliberatamente ed esageratamente animato, insieme al frastuono aggressivo di un giradischi. Presumibilmente la bottiglia era stata gettata al di là del parapetto da un ospite particolarmente vivace. Manco a dirlo, nessuno alla festa si preoccupava minimamente della finale destinazione del missile. Ma, come Laing aveva già avuto modo di scoprire, la gente che vive nei grattacieli tende a disinteressarsi degli inquilini che stanno oltre due piani sotto il loro.

Cercando di identificare l’appartamento, Laing entrò nella pozzanghera di spuma fredda. Se fosse stato seduto lì, si sarebbe ritrovato con il più gran mal di testa da vino della storia. Si sporse fuori dal parapetto e scrutò la facciata del palazzo sopra di lui, contando i balconi con attenzione. Come sempre, però, le dimensioni dell’edificio di quaranta piani gli diedero il capogiro. Abbassando gli occhi sulle piastrelle del pavimento, si appoggiò allo stipite della porta. L’immenso volume di spazio aperto fra il suo condominio e il grattacielo vicino, a circa quattrocento metri di distanza, sconvolgeva il suo senso dell’equilibrio. A volte aveva la sensazione di vivere sulla navicella di una ruota gigante del luna park, sospesa in permanenza a trecento piedi dal suolo.

Nonostante tutto, Laing era sempre felicissimo di quel grattacielo, il primo a essere stato terminato e abitato di cinque unità identiche, facenti parte di un unico progetto immobiliare. Nell’insieme occupavano un’area di un chilometro quadrato e mezzo in una zona di bacini portuali e depositi abbandonati, lungo l’argine settentrionale del fiume. I cinque grattacieli sorgevano sul limite orientale dell’area, e guardavano su un laghetto ornamentale che, al momento, era solo un catino vuoto in cemento, circondato da parcheggi e macchinari edilizi. Sulla riva opposta sorgeva l’auditorium, appena completato, con la Facoltà di Medicina da un lato e i nuovi studi televisivi dall’altro. Le imponenti proporzioni delle strutture architettoniche in vetro e cemento, insieme alla sensazionale posizione, su un’ansa del fiume, separavano nettamente quell’area residenziale dalle zone circostanti in via di disfacimento, piene di cadenti ville con terrazza dell’Ottocento e fabbriche vuote, già pronte per la ristrutturazione e il recupero.

Nonostante la vicinanza alla City, circa tre chilometri a ovest lungo il fiume, i palazzi e gli uffici del centro di Londra appartenevano a un altro mondo, nel tempo e nello spazio. Le loro pareti divisorie a vetrate, le loro antenne per le telecomunicazioni erano offuscate dallo smog, che annebbiava anche i ricordi del passato di Laing. Sei mesi prima, quando aveva venduto il mutuo per la sua casa di Chelsea e si era trasferito al sicuro di quel grattacielo, era corso avanti nel tempo di cinquant’anni, via dalle strade affollate, dagli ingorghi nel traffico, dai viaggi in metropolitana nelle ore di punta per raggiungere l’ufficio, in condivisione, della vecchia clinica universitaria.

Là, invece, le dimensioni della sua vita erano lo spazio, la luce e i piaceri connessi a una sfumata, sottile forma di anonimato. Per raggiungere l’Istituto di Fisiologia ci volevano cinque minuti di macchina e, a parte quest’unica uscita, la vita di Laing trascorreva nel grattacielo indipendente e autonoma quanto il palazzo stesso. Di fatto, quella struttura abitativa era una piccola città verticale, con i suoi duemila abitanti inscatolati nel cielo. Gli inquilini erano collegialmente proprietari del palazzo, che gestivano direttamente attraverso un amministratore che abitava lì e il suo staff.

A causa delle sue dimensioni, il grattacielo conteneva una notevole gamma di servizi. L’intero decimo piano era occupato da un’ampia galleria, larga come il ponte di una portaerei, che ospitava un supermarket, una banca, un parrucchiere, una piscina con palestra, uno spaccio di liquori fornitissimo e una scuola materna per i pochi bambini piccoli dell’edificio. Sopra Laing, al trentacinquesimo piano, c’erano una seconda piscina, più piccola, una sauna e un ristorante. Contentissimo di quell’eccesso di comodità, Laing faceva sempre meno lo sforzo di uscire dall’edificio. Tolse dagli scatoloni la sua collezione di dischi e fece partire la colonna sonora della sua nuova vita, passando il tempo seduto sul balcone, a guardare i parcheggi e le piazze di cemento sotto di lui. Anche se il suo appartamento era solo al venticinquesimo piano, per la prima volta aveva la sensazione di dover abbassare gli occhi invece di alzarli, per guardare il cielo. Ogni giorno che passava le torri del centro di Londra apparivano un po’ più distanti, il paesaggio di un pianeta abbandonato che, piano piano, gli usciva di mente. A paragone con la quieta e sgombra geometria dell’auditorium e degli studi televisivi sotto di lui, l’orizzonte sfilacciato della città assomigliava all’encefalogramma disordinato di una crisi mentale irrisolta.

L’appartamento gli era costato caro, con il salotto studio e una sola camera da letto, con la cucina e il bagno incastrati a coda di rondine l’una nell’altro per risparmiare spazio ed eliminare i corridoi interni. A sua sorella Alice Frobisher, che abitava con il marito editore in un appartamento più grande, tre piani sotto, Laing aveva detto: “L’architetto deve aver trascorso gli anni della sua formazione in una capsula spaziale… Mi stupisce che non ci siano le pareti curve”.

All’inizio Laing trovò un po’ alienante il paesaggio di cemento dell’area residenziale, gli sembrava un’architettura pensata per la guerra, se non altro a livello inconscio. Dopo tutte le tensioni del divorzio, l’ultima cosa su cui avrebbe voluto affacciarsi ogni mattina era una fila di bunker di cemento.

In ogni caso, sua sorella fece presto a convincerlo del fascino impalpabile di vivere in un grattacielo di lusso. Di sette anni più vecchia di lui, Alice aveva fatto un’accorta valutazione delle necessità del fratello, nei mesi successivi al divorzio. Aveva messo l’accento sull’efficienza dei servizi del palazzo, sull’assoluta privacy. “Sarebbe come se ci stessi da solo, in un edificio vuoto… Pensa a questo, Robert.” E poi aveva aggiunto, senza logica: “A parte tutto, è pieno di quel genere di persone che tu dovresti proprio cominciare a conoscere”.

La questione che lei evidenziava non era sfuggita a Laing, nel corso delle sue visite d’ispezione. I duemila inquilini formavano una collezione sostanzialmente omogenea di ricchi professionisti: avvocati, medici, fiscalisti, docenti universitari e pubblicitari, insieme a un piccolo gruppo di piloti d’aereo, tecnici cinematografici e terzetti di hostess che si dividevano l’appartamento. Secondo il metro consueto del livello finanziario e del grado d’istruzione erano probabilmente più simili gli uni agli altri dei membri di qualsiasi altro agglomerato sociale immaginabile; avevano gli stessi gusti e gli stessi atteggiamenti, gli stessi pallini e lo stesso stile, che si rifletteva chiaramente nella scelta delle automobili parcheggiate attorno al grattacielo, nella maniera elegante ma in qualche modo standardizzata di arredare gli appartamenti, nella selezione di vivande sofisticate del reparto Delikatessen al supermarket, nel tono delle loro voci sicure. In breve, costituivano lo sfondo perfetto per incorporare anche Laing. La brillante immagine di sua sorella, che vedeva Laing solo in un edificio vuoto, era più prossima alla verità di quanto lei stessa credesse. Il grattacielo era un’immensa macchina progettata per servire non la collettività degli inquilini, ma il residente individuale e isolato. Il suo armamentario di tubature per l’aria condizionata, ascensori, scivoli per l’eliminazione dei rifiuti e sistemi di commutazione elettrica assicurava una fornitura ininterrotta di cure e attenzioni che, un secolo prima, avrebbero richiesto un esercito di servitori instancabili.

A parte tutto, dato che Laing aveva appena ricevuto l’incarico di Fisiologia alla nuova Facoltà di Medicina, l’acquisto di un appartamento nelle vicinanze appariva più che sensato. Lo aiutava anche a posticipare la decisione di smettere di insegnare e intraprendere l’esercizio della professione. Ma, come lui stesso si ripeteva, era ancora in attesa che arrivassero i suoi veri pazienti. Li avrebbe magari trovati nel grattacielo? Razionalizzando i suoi dubbi sul costo dell’appartamento, Laing sottoscrisse un mutuo di novantanove anni e traslocò nel suo millesimo di facciata.

In alto, sopra la sua testa, i rumori della festa continuavano, amplificati dalle correnti d’aria che, a sprazzi, si sollevavano attorno all’edificio. I resti del vino scorrevano nel canale di scolo del balcone e si dirigevano spumeggiando verso lo scarico, ancora pulitissimo. Laing posò il piede nudo sulle piastrelle fredde, poi, con l’alluce e le altre dita, staccò l’etichetta da un frammento di vetro. Riconobbe subito il vino, un costoso champagne di imitazione che si vendeva, già refrigerato, nello spaccio di liquori del decimo piano, dove era l’articolo più comprato.

Si era bevuto lo stesso la sera prima alla festa di Alice, una faccenda a suo modo confusa e chiassosa quanto quella che si stava svolgendo in quel momento sopra la sua testa. Desideroso solo di rilassarsi dopo un pomeriggio passato a fare esperimenti nei laboratori di Fisiologia, e con un occhio puntato su un’attraente invitata, Laing si era invece inesplicabilmente ritrovato in mezzo a un piccolo scontro con i suoi vicini del venticinquesimo piano, un giovane e ambizioso chirurgo ortodontista di nome Steele e la sua aggressiva consorte, consulente nel settore moda. Nel pieno di una conversazione da ubriachi, Laing si era a un tratto reso conto di averli profondamente offesi a proposito dello scivolo per l’immondizia, che usavano in comune. I due l’avevano chiuso in angolo dietro il mobile bar della sorella, dove Steele gli aveva sparato addosso una serie di domande pungenti, come se fosse seriamente infastidito dal comportamento irresponsabile di un paziente nei confronti della propria bocca. Gli spingeva contro, sempre più vicina, una faccia lunga e magra su cui culminava una pettinatura con la riga in mezzo: per Laing, questo era da sempre il segnale di qualche stortura caratteriale e quasi si attendeva che Steele, a un certo punto, gli ficcasse fra i denti una pinza metallica o un divaricatore. La sua affascinante e appassionata moglie lo sosteneva nell’attacco, in qualche modo sentendosi sfidata dai modi noncuranti di Laing, dal suo distacco di fronte alla seria questione della vita nel grattacielo. La passione di Laing per i cocktail prima di pranzo, il suo prendere il sole nudo sul balcone e, in generale, il suo aspetto volgare, le davano certamente sui nervi. Evidentemente pensava con chiarezza che, a trent’anni, Laing avrebbe dovuto lavorare dodici ore al giorno in uno studio di consulenze di moda, e avrebbe dovuto onestamente ingrandirsi come suo marito. Di sicuro considerava Laing una specie di evaso dalla professione medica, che si era scavato un tunnel verso un mondo meno gravato di responsabilità.

Laing era rimasto sorpreso da un litigio di livello così basso ma, già poco tempo dopo il suo arrivo nel condominio, aveva comunque dovuto notare attorno a lui una straordinaria quantità di antagonismi appena velati. Il grattacielo aveva una seconda vita tutta sua. Anche il chiacchiericcio alla festa di Alice procedeva su due livelli: poco sotto la schiuma del pettegolezzo professionale si stendeva una dura cappa di rivalità personali. A volte aveva la sensazione che tutti stessero aspettando che qualcuno facesse un grosso errore.

Dopo colazione, Laing raccolse i vetri dal terrazzino. Due piastrelle ornamentali si erano rotte. Leggermente irritato, Laing prese il collo della bottiglia, che aveva ancora il tappo, la gabbietta e la stagnola a posto, e lo gettò al di là del parapetto. Qualche secondo dopo lo udì fracassarsi tra le auto parcheggiate di sotto.

Riprendendo il controllo di sé, Laing sbirciò cautamente dal davanzale… Poteva benissimo aver rotto il parabrezza di qualcuno. Ridendo forte per quel gesto aberrante, guardò su verso il trentunesimo piano. Cosa stavano festeggiando, alle undici e mezzo del mattino? Laing sentì il chiasso che aumentava con l’arrivo di nuovi ospiti. Era una festa cominciata per caso troppo presto o andata avanti tutta la notte e che ora ripartiva, con rinnovato vigore? Il tempo interiore del grattacielo, come un clima psicologico artificiale, operava con ritmi suoi, generati da una combinazione di alcol e insonnia.

Su un balcone in diagonale sopra di lui, una delle vicine di Laing, Charlotte Melville, stava posando un vassoio di aperitivi sul tavolo. Nauseato dalla sensazione del fegato affaticato, Laing si ricordò che, alla festa di Alice della sera prima, aveva accettato un invito per un cocktail. Con suo grande sollievo, Charlotte lo aveva salvato dal chirurgo ortodontista ossessionato dallo scivolo per le immondizie. Laing era troppo ubriaco per arrivare a qualcosa con quella bella vedova di trentacinque anni, aveva solo appreso che era la copywriter di una piccola ma vivace agenzia di pubblicità. La vicinanza dell’appartamento e la semplicità di stile di lei attiravano Laing, suscitando in lui una confusa miscela di lussuria e romanticheria. Invecchiando scopriva di diventare sempre più romantico e più insensibile allo stesso tempo.

Laing continuava a ripetersi che il sesso era la classica cosa che un grattacielo poteva garantirgli in abbondanza. Un buon numero di mogli annoiate, vestite come per uno stravagante gala di mezzanotte sulla terrazza panoramica del tetto, gironzolavano attorno alla piscina e al ristorante nelle prime, lente ore del pomeriggio, oppure passeggiavano sottobraccio per la galleria del decimo piano. Laing le osservava, mentre lo superavano lentamente, con occhio incantato ma cauto. Nonostante tutte le sue ostentazioni di cinismo, sapeva di essere ancora vulnerabile, in quel periodo, immediatamente successivo al divorzio: bastava una bella relazione, con Charlotte Melville o chiunque altra, e sarebbe cascato dritto in un altro matrimonio. Era arrivato al grattacielo per sfuggire a ogni genere di rapporto. Perfino la presenza della sorella, con le sue reminiscenze della madre, un’ipersensibile vedova di un medico che stava lentamente scivolando nell’alcolismo, gli risultavano nel complesso troppo vicine per sentirsi a suo agio.

Comunque, Charlotte aveva rapidamente messo a tacere le sue paure. Era ancora tutta presa dalla morte per leucemia del marito, dal benessere del figlio di sei anni e, come confessò a Laing, dalla sua insonnia, una lamentela molto comune nel grattacielo, era quasi un’epidemia. Tutti gli inquilini che aveva conosciuto, sentendo che Laing era medico, a un certo punto tiravano fuori le loro difficoltà nel dormire. Alle feste le persone discutevano della loro insonnia come se fosse un’altra delle magagne progettuali dell’edificio. Alle prime ore del mattino i duemila condomini si lasciavano sommergere da una silenziosa marea di seconal.

Laing aveva conosciuto Charlotte nella piscina del trentacinquesimo piano, dove di solito andava a nuotare, in parte per starsene da solo, in parte per evitare i bambini, che usavano quella del decimo. Quando l’aveva invitata al ristorante lei aveva accettato subito ma, mentre sedevano a tavola, gli aveva detto in tono pungente: “Guarda che io voglio solo parlare di me”.

Laing l’aveva apprezzata, per quello.

A mezzogiorno, quando entrò nell’appartamento di Charlotte, c’era già un altro ospite, un produttore televisivo. Richard Wilder, così si chiamava, era un uomo massiccio e combattivo, un ex giocatore di rugby a livello di lega professionistica, che viveva con la moglie e due figli al secondo piano del palazzo. Le rumorose feste che organizzava per i suoi amici dei piani bassi, piloti d’aereo e hostess che coabitavano, lo avevano già messo al centro di varie discussioni. Entro certi limiti, gli orari irregolari degli inquilini dei piani bassi li avevano come tagliati fuori dai rapporti con i loro vicini di sopra. In un momento in cui nessuno guardava, la sorella di Laing gli aveva sussurrato che, da qualche parte nel grattacielo, doveva essere in funzione un bordello. I misteriosi movimenti delle hostess, che conducevano un’intensissima vita sociale, in particolare ai piani sopra il suo, infastidivano chiaramente Alice, come se, in qualche modo, interferissero con il naturale ordinamento sociale dell’edificio, con il suo sistema di precedenze interamente fondato sull’altezza del piano. Laing aveva notato che anche lui, come gli altri inquilini, era molto più tollerante con i rumori e i fastidi provenienti dai piani di sopra, che con quelli dei piani di sotto. In ogni caso, a lui Wilder piaceva, con quella sua voce sonora e i modi da mischia rugbistica. Era difficile valutare in che rapporti fosse con Charlotte Melville. La sua potente carica di aggressività sessuale era coperta da un’incredibile irrequietezza. Non c’era da meravigliarsi se sua moglie, una giovane donna pallida, di solida cultura universitaria, che recensiva libri per bambini su certi settimanali letterari, aveva quell’aria perennemente esausta.

Laing, in piedi sul balcone, prese un drink da Charlotte che glielo porgeva, mentre l’aria limpida si riempiva del frastuono della festa di sopra, come se il cielo stesso fosse stato collegato per trasmettere il sonoro. Charlotte indicò un frammento di vetro che era sfuggito alla scopa di Laing, sul suo balcone.

“Sei sotto assedio? Ho sentito cadere qualcosa.” Poi si rivolse a Wilder che, piazzato in mezzo al divano, si guardava le grosse gambe. “È quella gente del trentunesimo piano.”

“Quale gente?” chiese Laing. Aveva l’impressione che stessero parlando di un gruppo specifico, una ristretta cricca di attori del cinema o consulenti fiscali iperaggressivi, o forse una bizzarra congrega di alcolizzati. Ma Charlotte scrollò le spalle con un’aria vaga, come se non ci fosse bisogno di essere più precisi. Chiaramente nella sua testa si era determinata una specie di demarcazione e, del resto, anche Laing identificava superficialmente la gente con il piano dove abitava.

“A proposito, cosa stiamo festeggiando?” chiese mentre tornavano in salotto.

“Non lo sa?” Wilder fece un gesto che abbracciava le pareti e il soffitto. “La casa piena. Abbiamo raggiunto la massa critica.”

“Richard vuole dire che l’ultimo appartamento libero è stato occupato,” chiarì Charlotte. “Fra parentesi, quelli dell’impresa avevano promesso di offrirci una festa, alla vendita del millesimo appartamento.”

“Mi interesserebbe proprio vedere se manterranno,” osservò Wilder. Era evidente che ci provava gusto a sminuire il grattacielo. “E il beveraggio doveva procurarlo il nostro sfuggente Anthony Royal. Lei saprà chi è, penso,” disse a Laing. “L’architetto che ha disegnato il nostro paradiso sospeso.”

“Giochiamo insieme a squash,” ribatté Laing. Poi, conscio della sfumatura di sfida contenuta nella voce di Wilder, soggiunse: “Una volta alla settimana… Lo conosco appena, però mi piace”.

Wilder si chinò in avanti e poggiò la testa pesante sui pugni. Laing notò che stava continuamente a toccarsi, a ispezionarsi i peli dei polpacci, ad annusarsi il dorso delle mani coperte di cicatrici, come se avesse appena scoperto il suo corpo. “È uno dei pochi fortunati ad averlo conosciuto,” disse Wilder. “Mi piacerebbe sapere perché. È un tipo solitario… Dovrei avercela con lui, ma in qualche modo mi dispiace per quell’uomo, che si aggira sopra di noi come un angelo caduto.”

“Sta in un attico,” fu il commento di Laing. Non aveva nessuna voglia di farsi coinvolgere in un braccio di ferro sulla sua recente amicizia con Royal. Aveva conosciuto quel ricco architetto, a suo tempo membro del consorzio che aveva progettato l’intera area immobiliare, verso la fine della convalescenza di Royal da un piccolo incidente stradale. Laing l’aveva aiutato a montare un complesso macchinario da ginnastica ritmica nell’attico, dove Royal passava il suo tempo, al centro di una grande curiosità e attenzione generale. Come tutti ripetevano in continuazione, Royal viveva “in cima” all’edificio, come se abitasse in una specie di incantevole baita.

“Royal è stato il primo a trasferirsi qui,” lo informò Wilder. “C’è qualcosa in lui che non sono ancora riuscito a beccare. Forse perfino un senso di colpa… Se ne sta lassù come se attendesse di essere scoperto. Mi aspettavo che se ne andasse già qualche mese fa. Ha una moglie giovane e ricca, e allora perché restare in quell’appartamento da ‘voglio ma non posso’?” Prima che Laing potesse obiettare, Wilder si affrettò a proseguire. “Capisco che Charlotte abbia le sue riserve su come si vive qui… Il guaio di questi posti è che non sono stati pensati per i bambini. L’unico spazio libero che trovi finisce per essere il posto macchina di qualcun altro. A proposito, dottore, sto pensando di fare un documentario televisivo sui grattacieli, uno sguardo impietoso puntato sulle pressioni psicologiche e fisiche provocate dalla vita in un immenso condominio come questo.”

“Troverà un sacco di materiale.”

“Troppo, come al solito. Mi chiedo se Royal sarebbe disponibile a partecipare… Potrebbe domandarglielo lei, dottore. Il suo punto di vista, come architetto del complesso e primo inquilino, sarebbe interessante. E anche il suo…”

Mentre Wilder continuava a parlare rapidamente, con le parole che si rincorrevano nel fumo di sigaretta che gli usciva di bocca, Laing rivolse la sua attenzione a Charlotte. Fissava Wilder intensamente e annuiva a tutte le sue affermazioni. A Laing piaceva la sua determinazione nel difendere se stessa e il figlio, il suo essere chiaramente una persona sana e di buon senso. Il matrimonio di Laing, con una collega specialista di malattie tropicali, era stato una breve ma completa sciagura, il riflesso di Dio sa quali bisogni. Con infallibile discernimento, Laing si era legato a quell’altezzosa e ambiziosa giovane dottoressa, per la quale il suo rifiuto di lasciare l’insegnamento – già sospetto in sé – e la sua riluttanza a impegnarsi direttamente negli aspetti politici della medicina preventiva avevano costituito un’inesauribile fonte di battibecchi e scontri. Dopo soli sei mesi di matrimonio, lei era entrata senza preavviso in un’organizzazione internazionale per la lotta alla carestia ed era partita per un viaggio triennale. Ma Laing non aveva fatto alcun tentativo di seguirla. Per motivi che ancora non riusciva a spiegare, era comunque restio a lasciare l’insegnamento e la sicurezza, da tutti considerata ambigua, che gli derivava dal frequentare studenti che avevano più o meno la sua età.

Charlotte, immaginava, l’avrebbe capito. Mentalmente, Laing si raffigurò i possibili sviluppi di una relazione con lei. La contiguità e lontananza che nello stesso tempo il grattacielo assicurava ai suoi abitanti, quello sfondo emotivamente neutrale su cui si potevano intrecciare i rapporti più stuzzicanti, cominciavano a interessarlo di per se stessi. Ma scoprì che, per qualche motivo, si stava ritraendo anche da quell’incontro ancora immaginario, sentiva che erano tutti molto più legati gli uni agli altri di quanto essi stessi comprendessero. Un intreccio quasi tangibile di rivalità e intrighi li legava l’uno all’altro.

Come pensava, anche quella riunione nell’appartamento di Charlotte, in apparenza tanto casuale, era stata organizzata per saggiare il suo atteggiamento nei confronti degli inquilini dei piani alti, che stavano cercando di escludere i bambini dalla piscina del trentacinquesimo piano.

“Le condizioni specificate nei nostri contratti ci garantiscono il paritetico accesso a tutti i servizi,” spiegò Charlotte. “Abbiamo deciso di organizzare un gruppo di azione genitoriale.”

“Allora io sono fuori, mi sembra.”

“Abbiamo bisogno di un medico nella commissione. Le questioni pediatriche avanzate da te avrebbero una forza molto maggiore, Robert.”

“Be’, forse…” Laing era esitante a impegnarsi. Prima ancora di rendersene conto si sarebbe trovato a interpretare un documentario, o in mezzo a un sit-in davanti all’ufficio dell’amministratore. Non volendo a quel punto farsi coinvolgere in una rissa fra piani, Laing si alzò e si congedò. Mentre se ne andava, Charlotte si munì di un elenco di reclami. Seduta accanto a Wilder, cominciò a spuntare le lamentele da presentare all’amministratore, come un’insegnante coscienziosa che prepara il programma per gli esami.

Quando Laing tornò nel suo appartamento, la festa al trentunesimo piano era finita. Si fermò sul balcone ad ascoltare il silenzio, godendosi il meraviglioso gioco di luci sul grattacielo vicino, a circa quattrocento metri. L’edificio era appena stato ultimato e, per coincidenza, i primi inquilini stavano arrivando proprio la stessa mattina in cui l’ultimo si era insediato nel palazzo di Laing. Un camion da traslochi stava entrando in retromarcia nell’ingresso che portava al montacarichi e presto tappeti e casse stereo, tavolini e abat-jour sarebbero saliti lungo la colonna dell’ascensore, sino a formare gli elementi di un universo privato.

Pensando al sussulto di piacere ed eccitazione che i nuovi inquilini avrebbero provato guardando per la prima volta fuori dall’aerea balaustra sulla facciata, Laing vi contrappose la conversazione fra Wilder e Charlotte Melville che aveva appena ascoltato. Per quanto di malavoglia, doveva ormai riconoscere qualcosa che aveva sempre cercato di reprimere dentro di sé: che i sei mesi precedenti erano stati un periodo di litigi continui fra i suoi vicini, di scontri volgari per gli ascensori difettosi e l’aria condizionata mal funzionante, per gli inspiegabili guasti elettrici, per il rumore e le contese sugli spazi di parcheggio; in breve, riguardo alla moltitudine di piccoli difetti che gli architetti sarebbero stati specificamente tenuti a eliminare da appartamenti tanto cari. Le tensioni sotterranee fra gli inquilini erano decisamente forti, e solo in parte smorzate dal tono civilizzato del palazzo e dall’ovvia esigenza di rendere l’immenso condominio un successo.

Laing ricordava un piccolo ma sgradevole incidente verificatosi il pomeriggio precedente nella galleria di negozi del decimo piano. Mentre aspettava di incassare un assegno alla banca, davanti alle porte della piscina si stava svolgendo un alterco. Un gruppo di bambini, ancora bagnati, si allontanava indietreggiando dalla solenne figura di un analista finanziario del diciassettesimo piano. Lo fronteggiava, nell’ineguale contesa, Helen Wilder. La combattività di suo marito aveva da tempo prosciugato in lei ogni fiducia in se stessa. Mentre cercava nervosamente di tenere sotto controllo i bambini ascoltava con vero stoicismo la reprimenda dell’analista finanziario, ribattendo debolmente di tanto in tanto.

Staccandosi dallo sportello della banca, Laing si era diretto verso il gruppo, oltrepassando le affollatissime casse del supermarket e la fila di donne sotto i caschi del parrucchiere. Di fianco alla signora Wilder, mentre aspettava che lo riconoscesse, aveva appreso ciò di cui l’analista finanziario si lamentava: i bambini, e non era la prima volta, avevano urinato nella piscina.

Laing aveva brevemente cercato di mediare, ma l’altro era rientrato in piscina sbattendo la porta, certo di avere intimidito la signora Wilder quanto bastava perché si portasse via per sempre la sua covata di marmocchi.

“La ringrazio per aver preso le mie parti… Avrebbe dovuto esserci Richard.” La Wilder si era levata una ciocca di capelli bagnati dagli occhi. “Sta diventando impossibile… Ci organizziamo per riservare certe ore ai bambini, ma gli adulti vengono comunque.” Poi aveva preso il braccio di Laing gettando una rapida, timida occhiata alla galleria piena di gente. “Le spiace accompagnarmi all’ascensore? Potrà sembrare un po’ paranoico, ma comincio a essere ossessionata dall’idea che un giorno o l’altro saremo aggrediti…” Era rabbrividita, nel suo telo umido, e aveva cominciato a spingere avanti i bambini. “È quasi come se non fossero le persone che vivono qui davvero.”

Quello stesso pomeriggio Laing si ritrovò a pensare all’ultima osservazione di Helen Wilder. Per quanto assurda potesse sembrare, l’affermazione conteneva un certo grado di verità. Di tanto in tanto i suoi vicini, il chirurgo ortodontista e sua moglie, uscivano sul balcone e lo guardavano in cagnesco, come se disapprovassero l’atteggiamento rilassato con cui si distendeva sulla sdraio. Laing cercava di visualizzare la loro vita in comune, gli hobby, le conversazioni e i rapporti sessuali. Era difficile immaginare una loro realtà domestica di qualsiasi genere, era come se gli Steele fossero due agenti segreti che cercavano di darsi un poco convincente status di coppia sposata. A paragone con loro, Wilder era invece abbastanza realistico, ma non si poteva dire che appartenesse davvero al mondo del grattacielo.

Laing se ne stava sdraiato in poltrona sul balcone e guardava il tramonto, che oscurava le facciate degli edifici vicini. Sembrava che le loro dimensioni variassero a seconda dei giochi di luce sulle superfici. A volte, tornando a casa la sera dalla Facoltà di Medicina, aveva la netta impressione che il grattacielo nel frattempo fosse riuscito ad allungarsi. Ritto sulle sue gambe di cemento, il palazzo di quaranta piani sembrava ancora più alto, come se una squadra di edili degli studi televisivi, fuori servizio, avesse casualmente aggiunto un altro piano. Nell’insieme i cinque condomini, sul lato est di quell’area immobiliare di oltre un chilometro quadrato, fornivano un’imponente palizzata: ancora prima del tramonto facevano piombare nell’oscurità le strade periferiche dall’altra parte.

Le torri sembravano quasi sfidare il sole stesso – Anthony Royal e gli altri architetti che avevano progettato il complesso non avevano potuto prevedere la tragedia dello scontro che ogni mattina opponeva quei lastroni di cemento al sole nascente. Accresceva questa sensazione il fatto che il sole sorgesse fra le gambe dei palazzi e si alzasse sopra l’orizzonte come per paura di svegliare quella fila di giganti. La mattina, dal suo studio all’ultimo piano dell’Istituto, Laing osservava le loro ombre ruotare sui parcheggi e le piazze vuote del complesso, come chiuse che si alzavano per far passare la luce del giorno. Con tutte le sue riserve, Laing era però il primo ad ammettere che quegli enormi edifici erano riusciti nel loro intento di colonizzare il cielo.

Sempre quella stessa sera, poco dopo le nove, un guasto elettrico aveva fatto piombare temporaneamente nel buio il nono, il decimo e l’undicesimo piano. Tornando col pensiero a quell’episodio, Laing ricordava con sorpresa l’alto livello di confusione raggiunto nei quindici minuti del blackout. Nella galleria del decimo piano erano presenti circa duecento persone e molte erano rimaste ferite nel fuggi fuggi verso gli ascensori e le scale. Al buio era scoppiato un gran numero di assurdi e spiacevoli litigi, fra quelli che volevano scendere ai loro appartamenti ai piani più bassi e gli inquilini dei piani alti che insistevano per scappare di sopra, verso le più fresche altitudini dell’edificio. Durante il guasto due dei venti ascensori erano stati messi fuori uso. L’aria condizionata si era spenta e una donna, rimasta chiusa in un ascensore fra il decimo e l’undicesimo piano, aveva avuto una crisi isterica, forse per essere stata vittima di molestie sessuali. Il ritorno della luce aveva svelato un mucchio di relazioni illecite, fiorite col favore della totale oscurità come una specie di pianta carnivora.

Quando era mancata l’energia elettrica, Laing stava andando in palestra. Non volendo unirsi alla calca nella galleria, aveva atteso in una classe vuota della scuola materna. Solo, seduto a uno dei banchi in miniatura per i bambini e circondato dai fiochi contorni degli allegri disegni appesi alle pareti, aveva ascoltato i loro genitori che si accapigliavano urlando davanti agli ascensori. Quando era tornata la luce era uscito fra gli inquilini stupefatti e aveva fatto del suo meglio per calmare tutti. Aveva sovrinteso al trasferimento della donna con la crisi isterica dall’ascensore a un divano sul pianerottolo. Era una donna dalle ossa grosse, la moglie di un gioielliere del quarantesimo piano che si era aggrappata con forza al braccio di Laing, per lasciarlo solo quando era apparso suo marito.

Mentre la folla degli inquilini cominciava a disperdersi, spingendo con le dita i pulsanti dei piani sugli ascensori, Laing aveva notato che, nel corso del blackout, due bambini si erano rifugiati in un’altra classe. Ora si trovavano davanti all’ingresso della piscina e arretravano, in atteggiamento di difesa, davanti all’alta sagoma dell’analista finanziario del diciassettesimo piano. Quell’autoproclamato guardiano dell’acqua brandiva, come una bizzarra arma, un retino da piscina dal lungo manico.

Con rabbia, Laing si era fatto avanti di corsa. Ma i bambini non stavano per essere cacciati dalla piscina. Quando Laing era arrivato si erano fatti da parte. L’analista era fermo sul bordo della piscina e protendeva stranamente il retino sulla calma superficie dell’acqua. Sul lato profondo della vasca tre nuotatori, che erano rimasti in acqua per tutto il tempo del blackout, stavano arrampicandosi sul bordo per uscire. Uno di loro, aveva notato Laing in modo automatico, era Richard Wilder. Laing aveva afferrato il manico del retino e, sotto gli occhi dei bambini, aveva aiutato l’analista di costi a protenderlo sull’acqua.

In mezzo alla piscina galleggiava il corpo di un levriero afghano annegato.

2.

Tempo di feste

Nei giorni successivi all’annegamento del cane, l’atmosfera di sovreccitazione che animava il grattacielo si era gradatamente placata, ma per il dottor Laing quella calma relativa era ancora più sinistra. La piscina del decimo piano continuava a essere evitata da tutti, in parte, Laing immaginava, perché si aveva la sensazione che l’acqua fosse contaminata dall’afghano morto. Un miasma quasi tangibile aleggiava sull’acqua ferma, come se lo spirito dell’animale annegato stesse raccogliendo in sé tutte le energie votate alla vendetta e al castigo presenti nell’edificio.

Una delle mattine seguenti all’incidente, uscendo di casa per andare alla Facoltà di Medicina, Laing passò dalla galleria del decimo piano. Dopo aver prenotato il campo di squash per la sera, per la sua partita settimanale con Anthony Royal, si diresse verso l’ingresso della piscina. Ricordò il panico e il fuggi fuggi generale durante il blackout. In confronto, ora la galleria di negozi era quasi vuota, c’era un solo cliente che stava ordinando dei vini allo spaccio di liquori. Laing spinse i battenti e si mise a passeggiare attorno alla piscina. Le cabine erano chiuse e davanti ai box delle docce tutte le tende erano tirate. Il posto d’osservazione, dietro i trampolini, dell’incaricato della piscina, un istruttore di ginnastica in pensione, era vuoto. Evidentemente la profanazione della sua acqua era stato troppo per lui.

Laing si fermò sul bordo piastrellato dalla parte profonda, illuminato dalla luce fissa del neon. Di tanto in tanto, il lieve movimento laterale dell’edificio nell’aria produceva una piccola onda di avvertimento sulla superficie piatta dell’acqua, come se nelle profondità oceaniche una creatura immane si stesse stiracchiando nel sonno. Laing si ricordò di quando aveva aiutato l’analista finanziario a tirar su l’afghano dall’acqua ed era rimasto sorpreso dalla sua leggerezza. Con la sua incantevole livrea infradiciata dall’acqua clorata, il cane, steso sulle piastrelle, sembrava un grande ermellino.

Mentre aspettavano che la padrona, un’attrice televisiva del trentasettesimo piano, scendesse a prenderlo, Laing esaminò il cane con cura. Non c’erano ferite esterne né segni di costrizione. Si poteva ritenere che si fosse allontanato dall’appartamento andando a finire in un ascensore di passaggio, si fosse poi trovato nella galleria dei negozi in mezzo alla confusione del blackout, e fosse caduto in piscina, morendo per esaurimento delle forze. Ma una spiegazione del genere mal si accordava con i fatti. Il guasto elettrico era durato poco più di quindici minuti e un cane di quelle dimensioni era abbastanza forte da nuotare per ore e ore. A parte questo, avrebbe potuto semplicemente reggersi sulle zampe posteriori dalla parte in cui si toccava. Ma se fosse stato gettato nella piscina e tenuto sott’acqua, in quel buio, da un buon nuotatore…

Sorpreso dai suoi stessi sospetti, Laing fece un secondo giro della piscina. Qualcosa lo induceva a pensare che l’annegamento del cane fosse stato una provocazione, intesa a determinare a sua volta successive ritorsioni. Da parecchio tempo la presenza dei circa cinquanta cani nel grattacielo era una continua fonte di irritazione. Quasi tutti appartenevano agli inquilini degli ultimi dieci piani, proprio come, per converso, la maggior parte dei cinquanta bambini abitava nei primi dieci. Nel complesso i cani costituivano una squadra di viziatissimi tesorini di razza, i cui padroni non sembravano curarsi eccessivamente della privacy e del benessere dei coinquilini. Quando venivano portati fuori la sera, i cani abbaiavano in giro per i parcheggi, insozzando i passaggi fra le auto. Più di una volta le porte degli ascensori erano state spruzzate di urina. Laing aveva sentito Helen Wilder lamentarsi perché, invece di usare i loro cinque ascensori ad alta velocità, che li portavano da un ingresso separato direttamente ai piani più alti, i padroni dei cani passavano abitualmente sugli ascensori dei piani bassi, incoraggiando i loro animali a usarli come latrine.

Quella rivalità fra padroni di cani e genitori di bambini piccoli aveva già, in un certo senso, polarizzato l’edificio. In mezzo fra i piani superiori e inferiori, la massa centrale degli appartamenti – grosso modo dal decimo al trentesimo – faceva da stato cuscinetto. Nel corso del breve interregno seguito all’annegamento del cane, il settore mediano del grattacielo fu invaso da una strana calma, come se gli inquilini avessero già capito cosa stava per succedere nel palazzo.

Laing lo scoperse quella sera, tornando dalla Facoltà di Medicina. Di solito, verso le sei, l’area di parcheggio riservata ai piani dal ventesimo al venticinquesimo era già piena, e ciò lo costringeva a lasciare la macchina nel settore riservato agli ospiti, a trecento metri dall’edificio. Abbastanza ragionevolmente, gli architetti avevano suddiviso i parcheggi in modo che più in alto era l’appartamento (e di conseguenza più lungo il viaggio in ascensore) e più vicino al palazzo si parcheggiava. Gli inquilini dei piani bassi dovevano percorrere ogni giorno tratti considerevoli, per andare e venire dalla macchina, una sfilata non priva di soddisfazioni per gli spettatori, aveva notato Laing. In qualche modo, il grattacielo favoriva l’insorgere degli impulsi più meschini.

Quella sera, in ogni caso, nel raggiungere il parcheggio già parecchio affollato, Laing fu sorpreso dalla disponibilità dei suoi coinquilini. Arrivò contemporaneamente al suo vicino dottor Steele. Di norma avrebbero dovuto fare una corsa per rubarsi l’ultimo posto libero e poi salire su ascensori separati. Quella sera, invece, si fecero reciprocamente segno di passare avanti in un’esibizione di esagerata cortesia, e poi attesero che l’altro parcheggiasse. Addirittura raggiunsero insieme l’ingresso principale.

Nell’atrio c’era un gruppo di condomini che protestavano sonoramente con la segretaria dell’amministratore davanti al suo ufficio. L’impianto elettrico del nono era ancora una volta guasto e di sera il piano era al buio. Per fortuna c’era luce fino a tardi in quelle sere estive, ma il disagio per i cinquanta inquilini interessati era notevole. Nei loro appartamenti non funzionava più nessuna apparecchiatura e la collaborazione con i vicini del piano di sopra e di sotto aveva un limite, che era stato presto raggiunto.

Steele li fissava senza alcuna partecipazione. Sebbene non avesse ancora trent’anni, i suoi modi avevano già la sicurezza dell’uomo di mezza età. Laing si scoperse come incantato dalla sua candida scriminatura centrale, che sembrava quasi un orifizio.

“Stanno sempre a lamentarsi di qualcosa,” confidò Steele a Laing mentre entravano nell’ascensore. “Se non è questa cosa è un’altra. Pare che non vogliano rassegnarsi al fatto che gli impianti, in un edificio nuovo, richiedono un certo tempo per andare a posto.”

“Tuttavia, dev’essere fastidioso restare senza elettricità.”

Steele scosse la testa. “Sovraccaricano invariabilmente i fusibili con i loro complicati impianti stereo e una quantità di apparecchi inutili. Baby-sitter elettroniche perché le madri sono troppo pigre per alzarsi dalle loro poltrone, speciali passaverdure per pappe dei bambini…”

Laing attese la fine del viaggio, già dispiaciuto per l’appena ritrovata concordia con il suo vicino. Per qualche motivo, Steele lo rendeva nervoso. Si rammaricò di non aver comprato un appartamento al di sopra del trentesimo piano, e non era la prima volta che ci pensava. Gli ascensori ad alta velocità erano favolosi.

“I bambini di qui mi sembra che stiano abbastanza bene,” osservò quando uscirono dall’ascensore, al venticinquesimo piano.

Il chirurgo gli strinse il gomito in una presa sorprendentemente forte. Fece un sorriso rassicurante, mostrando una bocca che sembrava una cattedrale d’avorio in miniatura.

“Creda a me, Laing. Io vedo i loro denti.”

Il tono incattivito della voce di Steele, come se stesse descrivendo una masnada di lavoratori immigrati tradizionalmente inetti invece dei suoi facoltosi vicini di casa, sorprese Laing. Per caso, conosceva alcune persone che abitavano al nono piano: una sociologa amica di Charlotte Melville e un controllore di volo che suonava in un trio d’archi con degli amici al venticinquesimo, una persona divertente e raffinata con cui Laing chiacchierava spesso mentre metteva il violoncello nell’ascensore. Ma la distanza favorisce il disincanto. Il peso di questo sistema di lealtà separate toccò direttamente Laing quando uscì di casa per andare a giocare a squash con Anthony Royal. Prese l’ascensore fino al quarantesimo piano e, come sempre, arrivò con dieci minuti di anticipo in modo da poter salire sul tetto. Quella vista spettacolare lo rendeva ogni volta cosciente dell’ambivalenza dei suoi sentimenti nei confronti del sottostante paesaggio di cemento. Parte del suo fascino risiedeva, era fin troppo chiaro, nel fatto che quell’ambiente era stato costruito non per l’uomo ma per l’assenza dell’uomo.

Laing si appoggiò al parapetto, rabbrividendo piacevolmente nella tenuta sportiva. Si riparò gli occhi dalle forti correnti d’aria che sorgevano dalla facciata del grattacielo. Il grappolo formato dai tetti dell’auditorium, dalle curve delle banchine stradali e dai rettilinei dei muri divisori costituiva un’affascinante miscellanea di geometrie… Più che un’architettura abitativa, rifletteva, sembrava il diagramma inconscio di un misterioso accadimento psichico.

A una quindicina di metri da Laing, sulla sua sinistra, si stava svolgendo un cocktail party. C’erano due tavoli da buffet con le tovaglie bianche, pieni di vassoi con tartine e bicchieri. Un cameriere, dietro a un mobile bar portatile, serviva da bere. Intorno una trentina di ospiti in abito da sera chiacchieravano a piccoli gruppi. Per qualche minuto Laing li ignorò, battendo senza pensarci la custodia delle sue racchette sulla balaustra, ma poi qualcosa nel loro chiacchiericcio aspro ed esageratamente animato lo fece voltare. Vari ospiti stavano guardando nella sua direzione e Laing fu certo che stavano parlando di lui. Il gruppo gli si era accostato e gli invitati più vicini si trovavano a non più di tre metri da lui. Erano tutti inquilini degli ultimi tre piani. Ma la cosa più insolita era l’impacciata formalità dei vestiti. Laing non aveva mai visto nessuno, alle feste nel grattacielo, che non fosse in abiti casual, ma qui gli uomini erano in smoking, le donne in abito lungo. E tutti avevano un portamento sostenuto come se, invece che a una festa, si trovassero a una riunione di pianificazione.

A poco più di un braccio di distanza da Laing, l’elegantissima sagoma di un ricco mercante d’arte lo stava squadrando, con i risvolti della giacca che si flettevano come un mantice a pieno ritmo. Al suo fianco aveva, da una parte e dall’altra, due donne di mezza età, le mogli di un operatore di Borsa e di un fotografo mondano, che fissavano con disgusto i vestiti sportivi e le scarpe da tennis bianche di Laing.

Laing raccolse la custodia delle racchette e la borsa con l’asciugamano, ma la strada verso le scale gli era ostruita dalla gente che lo circondava. Tutti i partecipanti alla festa si erano spostati lungo il tetto e ora il cameriere era rimasto solo fra il bar e i tavoli.

Laing si appoggiò al parapetto, rendendosi conto per la prima volta dell’immane distanza dal suolo sotto di lui. Era attorniato da un gruppo di coinquilini che respiravano affannosamente, così vicini che poteva sentire la miscela di costosi profumi e dopobarba. Era curioso di sapere cosa volessero fare esattamente ma, allo stesso tempo, si rendeva conto che in qualsiasi momento avrebbe potuto verificarsi un insensato atto di violenza.

“Dottor Laing… Care signore, vorreste rilasciare il dottore?” All’ultimo istante, a quanto sembrava, una figura familiare, dalle abili mani e la camminata leggera, lo chiamò in tono rassicurante. Laing riconobbe il gioielliere, la cui moglie aveva rapidamente visitato dopo la sua crisi isterica durante il guasto elettrico. Mentre quello salutava Laing, gli altri si dispersero con aria noncurante, come un gruppo di comparse dirottate su un’altra scena. Tranquillamente, tornarono ai loro drink e alle loro tartine.

“È stata una fortuna che arrivassi, allora?” Il gioielliere scrutava Laing, come se fosse perplesso per la sua presenza in quel dominio privato. “Lei è qui per giocare a squash con Anthony Royal? Temo che abbia deciso di rinunciare,” aggiunse, parlando a se stesso oltre che a Laing. “Mia moglie doveva essere qui. È stata trattata in un modo spaventoso… Erano come animali…”

Leggermente scosso, Laing lo accompagnò alla scala. Si guardò alle spalle, verso il cocktail party con i suoi compitissimi invitati, nel dubbio di esserselo immaginato, l’imminente attacco contro di lui. Dopo tutto, cosa avrebbero potuto fargli? Mica potevano buttarlo di sotto.

Mentre meditava su queste cose, notò una silhouette familiare con i capelli chiari e la sahariana bianca. Era nell’attico sul lato nord-est del tetto, con una mano posata sul macchinario da ginnastica ritmica. Ai piedi di Royal c’era il pastore tedesco con il suo mantello artico, senza dubbio il più bel cane del grattacielo. Senza fare alcun tentativo di celarsi, Anthony Royal fissava su Laing uno sguardo pensoso. Come sempre la sua espressione era un’inquieta miscela di arroganza e cautela difensiva, come se fosse fin troppo consapevole dei difetti congeniti dell’imponente costruzione che aveva contribuito a progettare, ma fosse determinato a tacitare ogni critica, anche a prezzo di gesti teatrali come il pastore tedesco e la giacca da caccia bianca. Anche se aveva più di cinquant’anni, i capelli biondi lunghi fin sulle spalle lo facevano apparire magicamente giovane, come se l’aria più fresca di quelle grandi altezze lo avesse in qualche modo preservato dal comune processo di invecchiamento. La fronte ossuta, ancora segnata dalle cicatrici dell’incidente, era reclinata da un lato e dava l’impressione che stesse controllando se un esperimento che aveva predisposto fosse finito.

Laing alzò la mano e gli fece segno, mentre il gioielliere lo spingeva rudemente di sotto, ma Royal non ebbe alcuna reazione. Perché non aveva disdetto la loro partita a squash per telefono? Per un attimo Laing fu certo che Royal lo avesse deliberatamente lasciato salire fin sul tetto, sapendo che c’era quella festa, semplicemente perché era interessato alle reazioni degli invitati e al loro comportamento.

La mattina dopo Laing si alzò presto, ansioso di cominciare la giornata. Si sentiva fresco, la mente limpida, ma, senza capire perché, decise di non andare al lavoro. Appena furono le nove, dopo aver passeggiato per due ore, telefonò alla sua segretaria in Facoltà e rinviò la supervisione di quel pomeriggio. Quando la donna espresse il suo rincrescimento per la malattia del dottore, Laing chiarì l’equivoco. “Va tutto bene. Non sono malato. È successo qualcosa di importante.”

Ma cosa? Sconcertato dal suo stesso comportamento, Laing si mise a far su e giù per il piccolo appartamento. Anche Charlotte Melville era rimasta a casa. Si era vestita per andare a lavorare, aveva indossato un abito formale da ufficio, ma non accennava a uscire. Invitò Laing ad andare da lei per un caffè ma, quando lui arrivò un’ora più tardi, gli offrì distrattamente un bicchiere di sherry. L’invito, Laing scoprì subito, era un pretesto perché visitasse suo figlio. Il bambino stava giocando in camera ma, secondo Charlotte, non stava abbastanza bene per andare alla materna, giù al decimo piano. Il problema era che la baby-sitter, la sorella minore della moglie di un pilota del primo piano, aveva rifiutato di venire.

“È una vera seccatura, di solito è fin troppo disponibile. Sono mesi che faccio conto su di lei. E mi è sembrata piuttosto vaga, al telefono, era come evasiva…”

Laing ascoltava con partecipazione, chiedendosi se doveva offrirsi di badare al bambino. Ma nella voce di Charlotte non c’era traccia di una richiesta del genere. Giocando con il piccolo, Laing si accorse che non aveva niente che non andasse. Vivace come sempre, il bimbo chiese alla madre se nel pomeriggio avrebbe potuto andare al gruppo di gioco del terzo piano. Senza nemmeno pensarci, lei disse di no. Laing la guardava con crescente interesse. Come lui, Charlotte stava aspettando che accadesse qualcosa.

Non dovettero attendere molto. Subito dopo pranzo si verificò la prima di una nuova serie di provocazioni fra piani rivali, che rimise in moto il meccanismo sopito della disgregazione e dell’ostilità. Gli incidenti furono abbastanza banali, ma Laing aveva già capito che erano il riflesso di antagonismi profondamente radicati che stavano erompendo alla superficie della vita nel grattacielo, da più e più punti. Molti dei fattori tirati in ballo erano evidenti già da tempo: lamentele sul rumore e sull’abuso dei servizi dell’edificio, rivalità riguardo agli appartamenti meglio situati (quelli lontani dai pianerottoli degli ascensori e dalle colonne di servizio con il loro eterno brontolio). C’era perfino una meschina invidia per le donne più attraenti, che si supponeva abitassero ai piani superiori, una convinzione largamente condivisa che Laing si era divertito a controllare. Durante il blackout elettrico la moglie diciottenne di un fotografo di moda era stata assalita da una sconosciuta, mentre era dal parrucchiere. Probabilmente per ritorsione, tre hostess del secondo piano furono allora spintonate da un gruppo di aggressive matrone degli ultimi piani, impegnate in un saccheggio al comando dell’atletica moglie del gioielliere.

Guardando dal balcone di Charlotte, Laing attendeva che avesse luogo il primo incidente. In piedi accanto a quella donna graziosa, con un drink in mano, sentiva di avere la mente piacevolmente sgombra. Sotto di loro, al nono piano, era in pieno svolgimento una festa di bambini. I genitori non facevano il minimo tentativo di trattenere i loro rampolli e anzi li spingevano a fare più rumore possibile. Nel giro di mezz’ora, alimentati da un flusso costante di alcol, i genitori subentrarono ai figli. Charlotte rideva apertamente alla vista delle bibite che venivano rovesciate sulle auto di sotto, e andavano a bagnare il parabrezza e il tetto delle costose limousine e berline sportive delle prime file.

Quei comportamenti animosi si manifestavano sotto gli occhi di centinaia di inquilini che erano usciti sui loro balconi. Trovandosi davanti a un pubblico, i genitori presero a incitare i figli. Presto la festa sfuggì a ogni controllo. Bambini ubriachi giravano barcollando senza ricevere l’aiuto di nessuno. In alto sopra di loro, al trentasettesimo piano, una donna che faceva il patrocinatore legale cominciò a urlare di rabbia, offesa per il danno provocato alla sua spider, i cui sedili in pelle nera erano coperti di gelato che si stava sciogliendo.

Regnava una piacevole atmosfera carnevalesca. Almeno c’era un cambiamento, pensava Laing, rispetto alla condotta formale tipica del grattacielo. A dispetto di se stessi, lui e Charlotte si unirono alle risate e agli applausi, come se fossero spettatori di un estemporaneo circo dilettantistico.

Quella sera si tenne un gran numero di feste. Di solito ce n’erano poche, al di fuori del week-end, ma quel mercoledì sera erano tutti impegnati in qualche bagordo. I telefoni squillavano in continuazione e Charlotte e Laing furono invitati a non meno di sei feste differenti.

“Dovrei farmi sistemare i capelli.” Charlotte gli prese allegramente il braccio, quasi abbracciandolo. “Cosa festeggiamo, esattamente?”

La domanda sorprese Laing. Mise un braccio attorno alle spalle di Charlotte, come per proteggerla. “Dio solo lo sa… Niente a che vedere con il divertimento e il gioco.”

Uno degli inviti era arrivato da Richard Wilder.

All’istante, sia lui sia Charlotte rifiutarono.

“Perché abbiamo rifiutato?” chiese Charlotte, con la cornetta ancora in mano. “Lui si attendeva che dicessimo di no.”

“Gli Wilder abitano al secondo piano,” spiegò Laing. “C’è parecchia turbolenza, laggiù…”

“Robert, tu stai razionalizzando.”

Dietro Charlotte che parlava, la televisione stava trasmettendo il telegiornale, con un filmato su un tentativo di rivolta in un penitenziario. Il volume era stato abbassato e le immagini silenziose dei secondini e dei poliziotti acquattati, oppure delle file di celle barricate, le guizzavano fra le gambe. Nel grattacielo tutti, rifletté Laing, guardavano la televisione senza sonoro. Quando tornava a casa vedeva le stesse immagini illuminare il vano della porta di tutti i suoi vicini. Per la prima volta, da un po’ di tempo le persone lasciavano spalancate le porte d’ingresso ed entravano e uscivano, con la massima naturalezza, dagli appartamenti loro e dei vicini.

In ogni caso, questa intimità non superava mai il limite del proprio piano. Altrove la polarizzazione dell’edificio procedeva di buon passo. Scoprendo di non avere più liquori, Laing prese l’ascensore e scese alla galleria del decimo piano. Come si aspettava, c’era una grande richiesta di alcol e, fuori dallo spaccio di liquori, c’erano lunghe file di inquilini impazienti. Vedendo la sorella Alice vicino al banco, Laing cercò di ottenere il suo aiuto. Senza esitare, lei rifiutò e subito si lanciò in una vigorosa denuncia della buffonata di quel pomeriggio. Era evidente che, per qualche motivo, associava Laing agli inquilini dei piani inferiori che ne erano responsabili, identificandolo con Richard Wilder e i suoi facinorosi.

Mentre Laing attendeva di essere servito, quella che sembrava una spedizione punitiva dai piani superiori provocò un gran trambusto in piscina. Un gruppo di inquilini degli ultimi tre piani era sceso in atteggiamento bellicoso. Fra loro c’era anche l’attrice il cui levriero afghano era stato annegato nella vasca. Lei e i suoi compagni cominciarono a fare gli stupidi in acqua, bevendo champagne su un canotto di gomma contro le norme della piscina e schizzando la gente che usciva dalle cabine. Dopo un vano tentativo di mediazione, l’anziano addetto alla sorveglianza si arrese e si ritirò al suo posto dietro i trampolini.

Gli ascensori erano teatro di spinte e strattoni aggressivi. I pulsanti di chiamata funzionavano in modo regolare e le colonne degli ascensori risuonavano del tambureggiare della gente, che batteva impazientemente i pugni sulle porte. Mentre si dirigevano a una festa al ventisettesimo piano, Laing e Charlotte furono spintonati. Accadde quando l’ascensore fu chiamato al terzo piano da un trio di piloti ubriachi. Con le bottiglie in mano, da mezz’ora cercavano di raggiungere il decimo. Afferrando allegramente Charlotte per la vita, uno dei piloti quasi la trascinò fino alla saletta di proiezione che si trovava dietro la scuola e, in precedenza, era stata usata per proiettare i filmini per i bambini. Nella sala ora si stava svolgendo una proiezione privata di film hard-core, uno dei quali, a quanto sembrava, era stato girato in loco con protagonisti reclutati nel grattacielo.

Alla festa del ventisettesimo piano, data da Adrian Talbot, effeminato ma amabile psichiatra della Facoltà di Medicina, Laing cominciò a rilassarsi per la prima volta in tutta la giornata. Si accorse immediatamente che tutti gli ospiti venivano dagli appartamenti vicini. I loro volti e le loro voci gli erano familiari, e se ne sentì rassicurato. In un certo senso, così disse a Talbot, erano come gli abitanti di un villaggio.

“Forse sarebbe più esatto dire un clan,” fu il commento di Talbot. “La popolazione di questo condominio non è assolutamente omogenea come sembra a prima vista. Presto ci rifiuteremo perfino di parlare con chiunque sia al di fuori della nostra enclave.” E aggiunse: “La mia macchina ha avuto il parabrezza distrutto da una bottiglia-cadente, oggi pomeriggio. Posso spostarla di nuovo dove state voi, ragazzi?”. Come medico, Talbot aveva diritto di parcheggiare nelle file più vicine all’edificio. Laing, forse prevedendo i rischi della prossimità, non aveva mai approfittato della concessione. La richiesta dello psichiatra fu immediatamente accolta dai suoi coinquilini, era un appello alla solidarietà che nessun membro del suo clan avrebbe potuto disattendere.

La festa fu una delle più riuscite a cui Laing avesse mai partecipato. A differenza della gran parte delle feste del grattacielo, in cui ospiti cortesi se ne stavano in piedi a scambiare quattro chiacchiere sul loro lavoro prima di congedarsi, in quella ci fu una vera euforia, un’atmosfera di autentica eccitazione. Nel giro di mezz’ora quasi tutte le donne erano ubriache, un metro di giudizio che Laing usava da molto tempo per misurare il successo di una festa. Quando fece i complimenti a Talbot, lo psichiatra non si sbilanciò. “C’è nell’aria un ritmo più vivace, d’accordo, ma ha qualcosa a che fare con il buon umore e l’amicizia? Piuttosto il contrario, direi.”

“Non sei preoccupato?”

“Per un motivo o per l’altro, meno di quel che dovrei… Ma questo è vero per tutti noi.”

Queste considerazioni, espresse in modo così garbato, misero Laing sull’avviso. Ascoltando le animate conversazioni che si svolgevano attorno a lui, fu colpito dalle espressioni di esasperato antagonismo, dall’ostilità nei confronti di persone che vivevano in altri settori del grattacielo. L’umorismo maligno, l’ardente desiderio di credere a ogni pettegolezzo e a ogni storiella sull’inettitudine degli inquilini dei piani inferiori, o sull’arroganza dei piani superiori, avevano tutta l’intensità del pregiudizio razziale.

Ma come Talbot aveva sottolineato, Laing si rese conto di non preoccuparsene. Provò anzi un certo rozzo piacere nell’unirsi ai maldicenti e nel guardare la normalmente cauta Charlotte Melville buttar giù ben più di due drink di troppo. Almeno quello era un mezzo grazie al quale sarebbero riusciti a ritrovarsi.

Comunque, quando la festa finì, davanti alle porte dell’ascensore al ventisettesimo piano si verificò un piccolo e tuttavia spiacevole episodio. Benché fossero passate le dieci, tutto il palazzo era animato da rumori. Gli inquilini piombavano gli uni negli appartamenti degli altri, gridando per le scale come bambini che si rifiutavano di andare a letto. Mandati in confusione dal fatto che i pulsanti venivano premuti all’infinito, gli ascensori si erano fermati e bande di passeggeri impazienti affollavano i pianerottoli. Anche se la loro successiva destinazione era la festa di un lessicografo del ventiseiesimo, cioè un solo piano sotto di loro, tutti coloro che lasciavano la festa di Talbot erano ben decisi a non usare le scale. Perfino Charlotte, che barcollava allegramente al braccio di Laing con il volto arrossato, si unì al selvaggio impulso che percorreva l’atrio degli ascensori e cominciò a battere sulle porte con i suoi forti pugni.

Quando alla fine l’ascensore arrivò, le porte si aprirono per mostrare un passeggero isolato, una giovane massaggiatrice nevrastenica dalle spalle esili, che viveva con sua madre al quinto piano. Laing riconobbe immediatamente in lei una delle “nomadi” che abitavano in gran numero il grattacielo: casalinghe annoiate e confinate nell’appartamento o figlie adulte che erano “rimaste in casa”, le quali passavano gran parte del loro tempo andando su e giù con gli ascensori e girando per i corridoi del vastissimo edificio, in una migrazione senza fine alla ricerca di qualche cambiamento o fonte di eccitazione.

Allarmata dalla folla ubriaca che ondeggiava verso di lei, la giovane donna uscì di colpo dalle sue fantasticherie e schiacciò un pulsante a caso. Un fischio derisorio salì dagli invitati barcollanti. Nel giro di qualche secondo la ragazza fu tirata fuori dall’ascensore e sottoposta a un interrogatorio falsamente giocoso. La sovreccitata moglie di uno statistico, che inveiva contro l’infelice giovane con voce stridula, a un certo punto spinse un braccio robusto fra gli interroganti della prima fila e la schiaffeggiò.

Allontanandosi da Charlotte, Laing si fece avanti. L’umore della folla era sgradevole ma difficile da prendere sul serio. I suoi vicini erano come un gruppo di comparse che, senza aver provato, recitavano una scena di linciaggio.

“Andiamo… Ci vediamo sulle scale.” Tenendo la giovane donna per le spalle sottili, cercò di farla girare verso la porta, ma sollevò un coro di urla contrariate. Le donne che si trovavano fra gli invitati spinsero da parte i mariti e cominciarono a tempestare di pugni il petto e le braccia della ragazza.

Arrendendosi, Laing si spostò di lato. Guardò la donna che, sotto choc, finiva in mezzo a quell’ardente drappello di picchiatrici e veniva battuta da un giro di pugni prima che le fosse consentito di sparire per la tromba delle scale. Il suo automatico gesto di cavalleria e buon senso non aveva minimamente impressionato quella squadra di angeli vendicatori di mezza età. A disagio, pensò: “Attento, Laing, o la moglie di qualche broker è capace di evirarti con la stessa perizia con cui leva l’osso a un paio di avocados”.

La notte trascorse rumorosa, con un continuo movimento per i corridoi, echi di grida, fragore di vetri rotti nelle colonne degli ascensori e il frastuono della musica che scendeva nell’aria buia.

3.

Morte di un inquilino

Un cielo senza nuvole, stagnante come l’aria sopra un tino freddo, sovrastava i muri di cemento e i marciapiedi dell’area residenziale. All’alba, dopo una notte agitata, Laing uscì sul balcone e abbassò lo sguardo sui parcheggi immersi nel silenzio. Mezzo chilometro a sud, il fiume continuava il suo corso dalla città, ma Laing scrutava il paesaggio circostante, aspettandosi di trovare qualche radicale mutamento. Avvolto nell’accappatoio, si massaggiava le spalle contuse. Anche se al momento non se ne era reso conto, nel corso delle varie feste c’era stato un notevole quantitativo di violenze. Si toccò la pelle indolenzita, dandosi delle ditate nei muscoli come per cercare un altro se stesso, il fisiologo che aveva acquistato un tranquillo appartamento-studio in quel carissimo condominio sei mesi prima. Le cose tendevano a sfuggire a ogni controllo. Disturbato dai rumori continui, Laing aveva dormito per poco più di un’ora. Anche se ora il grattacielo era silenzioso, l’ultima delle cento diverse feste date quella notte era finita da soli cinque minuti.

Sotto di lui, le auto delle file davanti erano imbrattate di uova, vino e gelato liquefatto. Le bottiglie fatte cadere avevano rotto una dozzina di parabrezza. Anche se era molto presto, almeno venti coinquilini di Laing erano sul balcone a fissare i detriti accumulatisi ai piedi della facciata.

Sconvolto com’era Laing si preparò la colazione e, distrattamente, buttò via quasi tutto il caffè prima di averlo assaggiato. Facendo uno sforzo si rammentò che quella mattina aveva una dimostrazione all’Istituto di Fisiologia. La sua attenzione si era già concentrata su quanto stava accadendo nel grattacielo, come se quell’immensa costruzione esistesse unicamente nel suo cervello e potesse svanire se lui smetteva di pensarci. Scrutando, nello specchio di cucina, le sue mani macchiate di vino e la faccia non rasata dal colorito sorprendentemente sano, cercò di accendersi, di avviare il motore. “Una volta tanto, Laing,” si diceva, “cerca di evadere dalla tua testa.” La sgradevole immagine di quella squadra di donne di mezza età che picchiavano la giovane massaggiatrice ancorava tutto ciò che gli stava attorno a un diverso piano di realtà.

La sua stessa reazione – la prontezza con cui si era fatto da parte – riassumeva meglio di quanto lui stesso potesse capire il precipitare degli eventi.

Alle otto Laing partì per la Facoltà di Medicina. L’ascensore era pieno di vetri rotti e lattine di birra vuote. Parte del pannello dei comandi era stato danneggiato, nel chiaro tentativo di evitare che dai piani bassi potessero chiamare l’ascensore. Mentre attraversava il parcheggio, Laing si voltò a guardare il grattacielo, conscio che una parte della sua mente restava lì. Quando arrivò alla Facoltà camminò per i corridoi vuoti dell’edificio, riuscendo a fatica a ricostruire l’identità degli uffici e delle aule. Entrò nelle sale per le autopsie dell’Istituto di Anatomia e si mise a passeggiare tra le file di tavoli con il piano in vetro, studiando i cadaveri parzialmente sezionati. Quella giudiziosa amputazione di membra e toraci, teste e addomi da parte di gruppi di studenti, che entro la fine del semestre avrebbero ridotto ogni cadavere a una bracciata d’ossa e un cartellino per la sepoltura, era l’esatto corrispettivo dell’erosione del mondo attorno al grattacielo.

Per tutto il giorno, mentre faceva le supervisioni o pranzava con i colleghi alla mensa, Laing non cessò mai di pensare al suo condominio, un vaso di Pandora i cui mille coperchi si stavano aprendo, a uno a uno, verso l’interno. Gli inquilini dominanti nel grattacielo, rifletteva Laing, quelli che si erano adattati con maggior successo alla vita di lì, non erano gli indisciplinati piloti e tecnici cinematografici dei piani bassi, né le irascibili e aggressive mogli dei facoltosi fiscalisti degli ultimi piani. Anche se a prima vista erano loro a provocare tutte le tensioni e ostilità, i veri responsabili erano i condomini più silenziosi e controllati, come il chirurgo ortodontista Steele e sua moglie. Il grattacielo aveva creato una nuova tipologia sociale, una personalità fredda e antiemozionale, insensibile alle pressioni psicologiche della vita di condominio, con esigenze minimali in fatto di privacy e capace di prosperare, come una macchina di nuova generazione, nell’atmosfera neutra. Era il genere di abitante che si accontentava di restare seduto nel suo carissimo appartamento a guardare la televisione senza audio, aspettando che i suoi vicini commettessero un errore.

Allora, gli ultimi incidenti rappresentavano forse un estremo tentativo di ribellione, da parte di Wilder e dei piloti, contro il diffondersi di tale logica? Era triste ma, purtroppo, avevano scarse possibilità di successo, proprio perché i loro antagonisti erano persone soddisfatte della loro vita nel grattacielo e non provavano nessuna particolare avversione per quel paesaggio in acciaio e cemento, nessun conato di vomito per l’invasione della loro privacy da parte di organizzazioni statali e uffici statistici e, anzi, vedevano di buon occhio quelle intrusioni, le usavano a loro vantaggio. Erano le prime persone che riuscivano a dominare il nuovo modello di vita di fine secolo. Prosperavano proprio sul rapido avvicendarsi delle conoscenze, sullo scarso coinvolgimento con gli altri, sulla totale autosufficienza di una vita che, non avendo bisogno di nulla, non poteva patire delusioni.

In alternativa, le loro reali necessità avrebbero potuto affiorare in seguito. Più la vita nel grattacielo diveniva arida e priva di affettività, maggiori erano le possibilità offerte. Attraverso la sua notevole efficienza, il grattacielo assolveva al compito di preservare la struttura sociale che li sorreggeva tutti. Per la prima volta, questo rimuoveva anche la necessità di reprimere tutti i comportamenti antisociali e li lasciava liberi di sperimentare ogni impulso deviante e capriccioso. Era propriamente in quei momenti che prendevano corpo gli aspetti più importanti e interessanti della loro vita. Al sicuro nella conchiglia del grattacielo, come passeggeri a bordo di un aereo con il pilota automatico, erano liberi di comportarsi in qualsiasi modo volessero, di esplorare le pieghe più oscure della propria personalità. Per molti versi, il grattacielo era il perfetto modello di tutto ciò che la tecnologia aveva fatto per rendere possibile l’espressione di una psicopatologia autenticamente “libera”.

Per tutto quell’interminabile pomeriggio Laing aveva dormito nell’ufficio, aspettando di poter lasciare la Facoltà e tornarsene a casa. Quando finalmente se ne andò spinse la macchina a tutta velocità, superando gli studi televisivi in via di completamento, ma poi fu trattenuto per cinque minuti da una colonna di camion carichi di calcestruzzo che entravano nel cantiere. Era lì che Anthony Royal era rimasto ferito, quando la sua auto era stata distrutta da una terrazzatrice che si era rovesciata. Laing era sempre stato colpito dall’ironia della cosa, in un certo qual modo tipica dell’ambigua personalità di Royal: non solo aveva avuto il primo incidente stradale del nuovo complesso residenziale, ma aveva addirittura collaborato a progettare il luogo del sinistro.

Seccato per il ritardo, Laing, al volante, fremeva. Per un motivo o per l’altro, era certo che in sua assenza si stessero verificando avvenimenti importanti. E infatti, quando alle sei arrivò al condominio, apprese che si erano avuti da poco nuovi incidenti. Dopo essersi cambiato, andò da Charlotte Melville per un drink. Lei era tornata dall’agenzia di pubblicità prima di pranzo, preoccupata per il figlio.

“Non mi piaceva che fosse qui da solo… Le baby-sitter sono così inaffidabili.” Versò il whisky nei bicchieri, agitando ansiosamente la caraffa come se stesse per gettarla oltre la balaustra. “Robert, ma cosa succede? Per qualsiasi cosa sembra scoppiare una crisi… Anche prendere l’ascensore da sola mi terrorizza.”

“Ma, Charlotte, la situazione non è così brutta,” Laing si sentì rispondere. “Non c’è nulla di cui preoccuparsi.”

Ma lo credeva davvero che la vita lì dentro scorresse così bene? Laing ascoltava la propria voce e dovette notare che era davvero convincente. La lista dei disordini e delle provocazioni era lunga, per un solo pomeriggio. Due gruppi di bambini dei piani bassi erano stati allontanati uno dopo l’altro dal piccolo parco giochi sul tetto. Quella struttura cinta da mura e attrezzata con altalene, giostre e sculture-giocattolo era stata specificamente pensata da Anthony Royal per lo svago dei figli degli inquilini. Adesso i suoi cancelli erano stati chiusi con un lucchetto e a tutti i bambini che si avvicinavano al tetto veniva ordinato di andarsene. Allo stesso tempo, le mogli dei vari abitanti dei piani alti affermavano di essere state violentate negli ascensori. Altri residenti, andando in ufficio quella mattina, avevano trovato gli pneumatici squarciati. Dei vandali avevano fatto irruzione nelle classi della scuola materna al decimo piano e avevano strappato i disegni dei bambini. I pianerottoli dei primi cinque piani erano stati misteriosamente insozzati da escrementi di cani, ma gli inquilini dei piani bassi avevano prontamente raccolto tutto in un ascensore ad alta velocità e avevano riconsegnato gli escrementi ai piani alti.

Quando Laing scoppiò a ridere nell’ascoltare la notizia, Charlotte gli picchiettò col dito sul braccio, come se cercasse di svegliarlo.

“Robert! Queste sono cose da prendere sul serio!”

“È quello che faccio…”

“Sei praticamente in trance!”

Laing abbassò lo sguardo su di lei, tutt’a un tratto cosciente che quella donna intelligente e piacevole non riusciva a capire. Le circondò le spalle con un braccio, senza sorprendersi per la furia con cui lei si strinse a lui. Ignorando il suo bambino, che cercava di aprire la porta della cucina, Charlotte ci si appoggiò e attirò Laing sopra di lei, stringendogli e accarezzandogli con forza le braccia, come per convincersi che almeno là c’era qualcosa di cui poteva influenzare la forma.

Nel corso dell’ora in cui attesero che il bambino si addormentasse, le mani di lei non lo lasciarono un attimo. Ma, anche prima che sedessero insieme sul letto di lei, Laing sapeva che, quasi a dimostrazione della logica paradossale del grattacielo, la loro relazione sarebbe finita invece che cominciare, con quel primo atto sessuale. In realtà li avrebbe separati, invece di unirli. Per lo stesso paradosso, l’affetto e la preoccupazione che sentiva per lei mentre erano sdraiati sul suo letto singolo gli sembravano manifestazioni di insensibilità invece che di tenerezza, per la precisa ragione che tali emozioni non avevano alcun collegamento con le diverse realtà dell’universo che li circondava. I pegni che si sarebbero scambiati, che avrebbero dovuto manifestare il reale attaccamento dell’uno all’altra, erano fatti di materiali molto più malsicuri, di erotismo e perversione.

Mentre lei dormiva nella luce della prima sera, Laing uscì dall’appartamento e andò a cercare i suoi nuovi amici.

Fuori, fermi nei corridoi e negli atri degli ascensori, c’erano vari gruppi di persone. Laing non aveva alcuna fretta di tornare al suo appartamento e si mise a passare da un capannello all’altro, ascoltando i loro discorsi. Queste riunioni informali avrebbero presto assunto un carattere quasi di ufficialità, come dei tribunali in cui gli inquilini potevano rendere pubblici i propri problemi e i danni subiti. La maggior parte dei loro reclami, notò Laing, era ora diretta contro altri inquilini, piuttosto che contro l’edificio. Dei guasti agli ascensori venivano incolpati quelli dei piani superiori o inferiori, non più gli architetti o i servizi inefficienti progettati per il palazzo.

Lo scivolo per le immondizie che Laing divideva con gli Steele si era intasato di nuovo. Cercò di telefonare all’amministratore, ma l’uomo era al limite delle sue forze, era stato sommerso di proteste e richieste per interventi di ogni genere. Vari componenti del suo staff avevano dato le dimissioni e le energie di quelli che rimanevano erano consacrate allo sforzo di assicurare il funzionamento degli ascensori e di far tornare l’elettricità al nono piano.

Laing raccolse gli attrezzi che riuscì a trovare e andò nel corridoio, per liberarsi lo scivolo da sé. Steele venne immediatamente in suo aiuto, portando un complesso strumento da taglio a più lame. Mentre i due uomini lavoravano, cercando di sciogliere un groviglio di tende di broccato che sosteneva una colonna di rifiuti di cucina bloccati lì, Steele intrattenne amabilmente Laing con una descrizione degli inquilini sopra e sotto di loro, colpevoli di aver sovraccaricato il sistema di smaltimento.

“Alcuni di loro generano i rifiuti più singolari… Esattamente il genere di cose che non ci si aspetterebbe mai di trovare qui,” confidò a Laing. “Oggetti che potrebbero certamente interessare la buoncostume. Quell’estetista del trentatreesimo piano e le due cosiddette radiologhe che abitano insieme al ventiduesimo. Strane ragazze, anche di questi tempi…”

Entro certi limiti, Laing doveva dirsi d’accordo. Per quanto meschine potessero sembrare le accuse, la cinquantenne proprietaria del salone da parrucchiere effettivamente si rifaceva in continuazione l’appartamento al trentatreesimo piano, ed effettivamente ficcava nello scivolo vecchi tappeti e perfino mobiletti ancora intatti.

Steele si raddrizzò, mentre la colonna di spazzatura sprofondava giù, sotto forma di untuosa valanga. Prese Laing per un braccio e gli fece fare il giro di una lattina di birra vuota lasciata sul pavimento del corridoio. “E tuttavia, senza dubbio siamo tutti ugualmente colpevoli… Mi dicono che, ai piani bassi, la gente comincia a lasciare piccole quantità di spazzatura fuori dalla porta dell’appartamento. Allora, viene da noi a bere qualcosa? Mia moglie è impaziente di rivederla.”

Nonostante il ricordo del loro litigio, Laing non ebbe niente in contrario ad accettare. Come si aspettava, in quel clima di più vaste contese, ogni disagio fra loro scomparve rapidamente. I capelli perfettamente acconciati, la signora Steele gli volteggiò attorno con il sorriso felice di una maîtresse inesperta che intrattiene il suo primo cliente. Giunse perfino a complimentarsi con Laing per le sue scelte in fatto di musica, che poteva apprezzare attraverso le pareti malamente isolate. Laing ascoltò il brioso resoconto della signora sui continui guasti e interruzioni dei servizi interni all’edificio, sui vandalismi in un ascensore e nelle cabine della piscina del decimo piano. Parlava del grattacielo come se fosse una specie di immensa presenza animata che incombeva su di loro e teneva lo sguardo autoritario fisso sugli avvenimenti. C’era qualcosa di vero in quella sensazione… Gli ascensori che pompavano su e giù per le lunghe colonne assomigliavano agli stantuffi nella cavità di un cuore. Gli inquilini che si spostavano per i corridoi erano le cellule in un sistema di arterie, le luci dei loro appartamenti i neuroni di un cervello.

Laing guardava fuori, nell’oscurità, verso le terrazze vividamente illuminate del grattacielo vicino, quasi senza accorgersi degli altri invitati che arrivavano e si sedevano sulle sedie attorno a lui… Paul Crosland, il conduttore del telegiornale, e una giornalista di cinema che si chiamava Eleanor Powell, una rossa che beveva forte e che Laing trovava spesso mentre andava su e giù con gli ascensori, nel tentativo, compromesso dall’ubriachezza, di uscire dall’edificio.

Crosland era divenuto, almeno di nome, il capo del loro clan… Un gruppo locale di circa trenta appartamenti del venticinquesimo, ventiseiesimo e ventisettesimo piano. Stavano programmando, per l’indomani, una spedizione congiunta per la spesa al supermarket del decimo piano, come se fossero una banda di contadini che doveva recarsi in una città senza servizio di polizia.

Seduta accanto a lui sul divano, Eleanor Powell fissava su Crosland uno sguardo vitreo, mentre il giornalista televisivo, nel suo fiorito stile da notiziario, spiegava le proposte per la sicurezza degli appartamenti. Di tanto in tanto la Powell spostava in avanti una mano, come se cercasse di sistemare l’immagine di Crosland, magari regolando il colore delle guance carnose o abbassando il volume della voce.

“Il suo appartamento non è accanto al pianerottolo degli ascensori?” le chiese Laing. “Dovrà barricarcisi dentro.”

“E perché mai? Io lascio la porta spalancata.” Dato che Laing sembrava perplesso, soggiunse: “Non fa anche questo parte del gioco, forse?”.

“Allora lei crede che, in segreto, tutto questo ci piaccia?”

“Perché, a lei non piace? Io credo di sì, dottore. Solidarietà è fare a pezzi un ascensore vuoto. Per la prima volta da quando avevamo tre anni, qualunque cosa facciamo è assolutamente indifferente. È davvero interessante, a pensarci…”

Quando si appoggiò a lui, posandogli la testa sulla spalla, Laing disse: “Ci dev’essere qualcosa che non va con l’aria condizionata… Sul balcone dovrebbe esserci un’aria più fresca”.

Appoggiandosi al suo braccio, lei prese la borsetta. “D’accordo. Mi aiuti ad alzarmi. Lei è un satiro molto guardingo, dottore…”

Erano arrivati alla portafinestra quando, da un terrazzino di sopra, giunse un’esplosione come di vetri infranti. Frammenti di vetro schizzavano via nell’aria notturna come coltelli. Poi, vorticando nel vuoto a non più di sei metri da loro, cadde un grosso oggetto tozzo. In preda allo stupore, Eleanor inciampò addosso a Laing. Mentre riprendevano l’equilibrio, salì da terra il rumore duro e metallico di una grossa collisione, quasi come se un’auto fosse andata a sbattere. Seguì un breve ma totale silenzio, il primo momento di quiete assoluta che il grattacielo viveva, rifletté Laing, da giorni e giorni.

Tutti si affollarono sul balcone, Crosland e Steele aggrappati insieme come se l’uno stesse cercando di evitare che l’altro si gettasse nel vuoto. Spinto lungo la balaustra, Laing vide, a circa quattro metri di distanza, il suo balcone deserto. In un assurdo momento di panico si chiese se la vittima non fosse lui. Tutto attorno a loro, la gente si sporgeva dai parapetti. Con il bicchiere in mano e gli occhi puntati nel buio.

Giù di sotto, incastrato nel tetto sfondato di un’auto della prima fila, c’era il corpo di un uomo in smoking. Eleanor Powell, con il dolore dipinto sul volto, si allontanò barcollando dalla balaustra e, per passare, spinse via Crosland. Laing si teneva forte alla sbarra metallica, sconvolto ed eccitato nello stesso tempo. Quasi tutti i terrazzini dell’immensa facciata del grattacielo erano ormai pieni di gente, e gli inquilini guardavano tutti in basso, come dai palchi di un grandissimo teatro lirico all’aperto.

Nessuno si avvicinava alla macchina distrutta o al corpo incastrato nel tetto. Guardando lo smoking, che era come scoppiato, e le piccole scarpe di pelle pregiata, Laing pensò di riconoscere nel morto il gioielliere del quarantesimo piano. A terra, vicino a una delle ruote anteriori, c’erano i suoi occhiali. Le lenti al quarzo, intatte, riflettevano le scintillanti luci del grattacielo.

4.

Su!

Nella settimana che seguì la morte del gioielliere, gli eventi presero rapidamente una piega ancora più allarmante. Richard Wilder, che stava ventiquattro piani sotto il dottor Laing e, quindi, era molto più esposto alle pressioni che si generavano all’interno dell’edificio, fu tra i primi a rendersi conto della reale portata dei mutamenti che si stavano verificando.

Wilder era stato via tre giorni, a girare delle scene per un nuovo servizio sui tumulti nelle carceri. Uno sciopero di detenuti in una grande prigione provinciale gli aveva offerto l’opportunità di inserire nel documentario del materiale girato direttamente sul luogo. Tornò a casa nel primo pomeriggio. Dall’albergo aveva telefonato alla moglie tutte le sere, interrogandola a fondo sulla situazione nel grattacielo, ma lei non aveva mai espresso particolari lamentele. Nonostante ciò, il tono vago delle risposte lo aveva preoccupato.

Appena ebbe parcheggiato, Wilder spalancò la portiera e scese dall’auto, mettendo in mostra la robusta corporatura. Dal suo posto auto, al limite esterno del parcheggio, scrutò attentamente la facciata dell’enorme edificio. A prima vista, tutto sembrava calmo. Le diverse centinaia di macchine erano parcheggiate ordinatamente in riga. Le file di balconi si stagliavano in pieno sole, con i loro vasi di piante fiorite tra le sbarre delle ringhiere. Per un attimo provò un dispiacere quasi fisico, acuto: era uno che aveva sempre creduto nell’azione e le scaramucce della settimana precedente gli erano piaciute, si era divertito a malmenare i suoi aggressivi vicini, in particolare quelli che avevano reso la vita difficile a Helen e ai ragazzi.

L’unica nota stonata era la finestra panoramica rotta al quarantesimo piano, quella da cui lo sventurato gioielliere aveva fatto la sua uscita. Ai capi opposti del piano c’erano due attici, nell’angolo a nord abitava Anthony Royal, dall’altra parte il gioielliere con sua moglie. La lastra sfondata non era stata sostituita e quell’asterisco di vetro rotto sembrava, pensò Wilder, una specie di simbolo occulto, un adesivo sulla fusoliera di un aereo da guerra, che segnalava un abbattimento.

Wilder scaricò dall’auto la valigia e una borsa con dei regali per Helen e i figli. Sul sedile posteriore era posata una telecamera leggera con cui pensava di girare un po’ di repertorio preliminare, per il suo programma sul grattacielo. La misteriosa morte del gioielliere lo aveva confermato nella convinzione, maturata da tempo, che era ora di fare un importante documentario sulla vita nel grattacielo… Forse proprio a partire dalla morte del gioielliere. Era una fortunata coincidenza che lui vivesse nello stesso stabile del morto… Il programma avrebbe avuto tutto l’impatto di una biografia. Alla fine delle indagini il caso sarebbe arrivato in tribunale e la conseguente cattiva fama avrebbe piazzato su quello che Wilder amava definire un casermone di lusso, un palazzo sospeso che generava da sé i suoi intrighi e distruzioni, un inamovibile punto interrogativo.

Reggendo i bagagli con le braccia robuste, Wilder si avviò per il lungo viale fino al condominio. Il suo appartamento si trovava immediatamente sopra il proscenio dell’ingresso principale. Si aspettava che da un momento all’altro Helen spuntasse sul balcone e lo salutasse, era uno degli scarsi vantaggi che comportava dover lasciare la macchina al limite estremo del parcheggio. Comunque, tutte le tapparelle tranne una erano ancora abbassate.

Affrettando il passo, Wilder si avvicinò alle file di auto più interne. Di colpo, l’illusione della normalità cominciò a spezzarsi. Le macchine delle prime tre file erano cosparse di detriti, le loro carrozzerie, un tempo scintillanti, erano strisciate e piene di macchie. I passaggi attorno all’edificio erano ingombri di bottiglie, lattine, vetri rotti a mucchi, come se dai balconi avessero buttato giù roba in continuazione.

All’ingresso principale, Wilder scoprì che due ascensori non funzionavano. L’atrio era deserto e silenzioso, come se dal grattacielo se ne fossero andati tutti. L’ufficio dell’amministratore era chiuso e, davanti alla porta a vetri, sulle piastrelle del pavimento, giaceva della posta ancora da dividere. Sulla parete di fronte agli ascensori era stato scarabocchiato un messaggio, in parte cancellato: il primo della serie di slogan e messaggi privati che un giorno avrebbero ricoperto ogni superficie visibile dell’edificio. Sostanzialmente, le scritte murali riflettevano l’intelligenza e la cultura degli inquilini. Ma, nonostante tutto lo spirito e la fantasia che li caratterizzavano, quei complessi acrostici, palindromi e garbate oscenità, tracciati con la vernice spray sulle pareti, presto divennero un coloratissimo e indecifrabile pasticcio, non dissimile da quelli che si vedevano sulla tappezzeria a buon mercato delle lavanderie a gettoni e delle agenzie di viaggi, e che gli abitanti del grattacielo mostravano di disprezzare nel modo più totale.

Wilder attendeva con impazienza davanti agli ascensori, in preda a una collera crescente. Premeva con rabbia i pulsanti di chiamata, ma nessuno degli ascensori mostrò la minima inclinazione a rispondere. Erano tutti perennemente sospesi fra il ventesimo e il trentesimo piano e, in quel tratto, facevano brevi viaggi. Prendendo le valigie, Wilder s’incamminò per le scale. Quando arrivò al secondo piano trovò il corridoio immerso nel buio e inciampò in un sacco di plastica pieno di spazzatura che bloccava la sua porta.

Entrato in anticamera, la sua prima impressione fu che Helen avesse lasciato l’appartamento, portando con sé i due figli. Le tapparelle del salotto erano abbassate e l’aria condizionata spenta. Sul pavimento c’erano vestiti e giocattoli dei bambini.

Wilder aprì la porta della camera dei ragazzi. Dormivano entrambi, respirando in modo irregolare nell’aria pesante. Su un vassoio fra i due letti c’erano ancora i resti di un pasto del giorno prima.

Wilder attraversò il salotto ed entrò in camera sua. Lì una tapparella era alzata e un fascio di luce correva lungo le pareti. Bizzarramente, gli ricordò una cella che aveva ripreso due giorni prima, nel braccio psichiatrico del carcere. Helen, vestita, era sdraiata sul letto, perfettamente rifatto. Pensò che dormisse, ma mentre camminava, cercando di attutire il suo passo pesante, gli occhi di lei lo fissarono senza espressione.

“Richard… Non importa.” Parlava con calma. “Sono sveglia. Da quando hai telefonato ieri, in effetti. Hai fatto buon viaggio?”

Fece per alzarsi, ma Wilder le tenne la testa sul cuscino.

“I bambini… Cosa sta succedendo qui?”

“Niente.” Gli toccò la mano, gli sorrise per rassicurarlo. “Volevano dormire e io li ho lasciati. Non possono far altro. Di notte c’è troppo rumore. Mi spiace che la casa sia tanto in disordine.”

“Lascia stare la casa. Perché i bambini non sono a scuola?”

“È chiusa… È da quando sei partito tu che non ci vanno più.”

“Perché no?” Irritato dalla passività della moglie, Wilder cominciò a torcersi quelle sue mani forti. “Helen, non puoi restare sdraiata lì tutto il giorno. Perché non vai su al giardino pensile, o in piscina?”

“Penso che esistano solo nella mia testa. È troppo difficile…” Indicò la macchina da presa sul pavimento, fra i piedi di Wilder. “A cosa ti serve?”

“Potrei girare del repertorio… Per quel progetto sul grattacielo.”

“Un altro documentario carcerario.” Helen sorrise a Wilder, ma senza dar segno di intenzioni umoristiche. “Te lo dico io da dove cominciare.”

Wilder le prese il volto fra le mani. Le tastò le ossa sottili, come per assicurarsi che quella tenue armatura ci fosse sempre. In qualche modo sarebbe riuscito a risollevarla. Sette anni prima, quando l’aveva conosciuta lavorando per una televisione privata, era un’assistente di produzione brillante e sicura di sé, una bella sfida per Wilder, con quella sua lingua così svelta. Il tempo che non passavano a letto lo passavano litigando. Ora, dopo la combinazione di due figli più un anno passato nel grattacielo, si stava ritirando in se stessa, viveva ossessivamente, ed esclusivamente, per le più elementari attività dei figli. Anche le sue recensioni di libri per bambini facevano parte di questo programma di resa.

Wilder le portò un bicchiere di quel liquore dolce che le piaceva. Cercando di decidere qual era la miglior cosa da fare, si sfregava i muscoli del torace. Una novità che all’inizio gli aveva anche fatto piacere, ma ora lo turbava più di ogni altra cosa, era che ormai Helen non si accorgeva nemmeno più delle sue relazioni con le ragazze nubili del grattacielo.

Anche se vedeva suo marito parlare con una di loro, Helen si avvicinava tirandosi dietro i bambini, come se ciò che combinava con quel suo sesso ribelle non la riguardasse più. Alcune delle sue giovani donne erano diventate amiche di Helen, come l’attrice televisiva di cui aveva annegato il levriero durante il blackout, o la massaggiatrice del piano di sopra. Quest’ultima, una ragazza seria che durante le code al supermarket leggeva Byron, lavorava per un produttore indipendente di film pornografici, o almeno così gli aveva riferito Helen senza alcuna emozione. “Deve prender nota delle esatte posizioni sessuali fra una ripresa e l’altra. Un lavoro interessante. Mi chiedo quali siano i titoli richiesti, o il curriculum.”

Wilder ne era rimasto sconcertato. Vagamente pudibondo com’era, non era mai riuscito a far domande alla sceneggiatrice. Mentre facevano l’amore, nel suo appartamento al terzo piano, aveva la sgradevole sensazione che lei memorizzasse automaticamente ogni abbraccio e posizione copulatoria nel caso fosse improvvisamente chiamata altrove e dovesse poi ricominciare esattamente allo stesso punto con un altro ragazzo. Le illimitate competenze professionali del grattacielo non mancavano di aspetti sconvolgenti.

Wilder studiò la moglie che sorbiva il liquore. Le accarezzò le cosce minuscole, nel tentativo di ridarle vigore. “Helen, su… Sembra che tu stia solo aspettando la fine. Rimettiamo tutto a posto e portiamo i bambini in piscina.”

Helen scosse la testa. “C’è troppa ostilità. C’è sempre stata, ma ora viene fuori. La gente se la prende con i bambini… Senza rendersene conto, qualche volta mi viene da pensare.” Si sedette sul letto mentre Wilder si cambiava, con gli occhi fissi fuori dalla finestra, sulla fila di grattacieli che si allontanavano nel cielo. “In realtà, non sono davvero gli altri inquilini. È il palazzo…”

“Lo so. Ma vedrai che, quando le indagini finiranno, tutto si calmerà. Per dirne una, proveranno un insostenibile senso di colpa.”

“Su cosa indagano?”

“Sul morto, naturalmente. Sul tuffo del nostro gioielliere.” Prendendo la telecamera, Wilder levò la protezione dall’obiettivo. “Hai parlato con la polizia?”

“Non so. Da un po’ evito tutti.” Riaccendendosi con uno sforzo di volontà, raggiunse Wilder. “Richard… Hai mai pensato di vendere l’appartamento? Potremmo andarcene, davvero. Parlo sul serio.”

“Helen…” In imbarazzo per un momento, Wilder abbassò lo sguardo sulla piccola, determinata figura della moglie. Si tolse i pantaloni, come se esporre il torace solido e i grossi genitali in qualche modo ristabilisse la sua autorità su se stesso. “Sarebbe l’equivalente di farsi cacciar via. In ogni caso non riavremmo mai quello che abbiamo pagato per l’appartamento.”

Attese finché Helen non abbassò la testa e tornò sul letto. Su insistenza di lei, sei mesi prima, avevano traslocato dal loro primo appartamento, al pianoterra. All’epoca avevano seriamente discusso di lasciare il grattacielo, ma Wilder aveva convinto Helen a restare, per ragioni che non aveva mai pienamente compreso nemmeno lui. Prima di tutto, non avrebbe mai ammesso di essere incapace di trattare ad armi pari con i suoi vicini professionisti, di tener testa a quegli analisti finanziari e direttori marketing tanto pieni di sé.

Mentre i loro figli vagavano assonnati per la camera, Helen osservò: “Forse potremmo traslocare a un piano più alto”.

Sbarbandosi il mento, Wilder meditava sull’ultima considerazione della moglie. Quella debole supplica era per lui particolarmente significativa, come se fosse andata a colpire un’ambizione da lungo tempo presente nella sua testa. Helen, naturalmente, ragionava in termini di avanzamento sociale, pensava, in effetti, di traslocare in una “zona migliore”, di lasciare quella periferia popolare in favore di un’area residenziale più elegante fra il quindicesimo e il trentesimo piano, dove i corridoi erano puliti e i bambini non avrebbero dovuto giocare per le strade, dove tolleranza e raffinatezza rendevano l’atmosfera più civile.

Wilder aveva in mente una cosa un po’ diversa. Mentre ascoltava la flebile voce di Helen che sussurrava qualcosa ai bambini come se gli stesse parlando dalle profondità di un sogno, si esaminò allo specchio. Come un pugile professionista che vuole darsi sicurezza prima di un incontro, si batté gli addominali e i muscoli delle spalle. In senso mentale come in senso fisico, era quasi certamente l’uomo più forte del palazzo e la mancanza di coraggio di Helen lo infastidiva. Si rendeva conto di non avere mezzi reali per far fronte a una tale passività. La sua reazione a quello stato d’animo era sempre modellata sull’educazione ricevuta da piccolo. L’educazione datagli da una madre iperemotiva, che lo aveva amato con tutta se stessa per un’infanzia protratta il più possibile e poi aveva regalato a Wilder quella che lui definiva la sua incrollabile fiducia in se stesso. Sua madre si era separata dal padre di Wilder, una figura immersa nell’ombra di un passato sconveniente, quando lui era piccolo. Il secondo matrimonio, con un gentile ma passivo contabile appassionato di scacchi, era stato interamente dominato dal rapporto fra la madre e quel torello di figlio. Quando conobbe la sua futura moglie, Wilder credette ingenuamente di voler trasferire a Helen i vantaggi ricevuti, prendendosi cura di lei e assicurandole un fluire ininterrotto di sicurezza e serenità. Naturalmente, come ora capiva bene, nessuno può mai cambiare e, per quanto abbondante fosse la sua fiducia in se stesso, aveva bisogno che qualcuno si occupasse di lui esattamente come prima. Una o due volte, nei momenti di abbandono dei primi giorni di matrimonio, aveva cercato di fare i giochi fanciulleschi che si divertiva a fare con sua madre. Ma Helen non era riuscita a trattare Wilder come se fosse suo figlio. Per parte sua poi, almeno così pensava di lei Wilder, amore e attenzioni erano le ultime cose che davvero volesse. Forse il disfacimento della vita nel grattacielo avrebbe appagato le sue attese inconsce più di quanto lei stessa potesse comprendere.

Mentre si massaggiava le guance Wilder ascoltava, dai condotti dell’aria condizionata dietro la cabina della doccia, l’irregolare brontolio dell’aria pompata fin lì dal tetto dell’edificio, trentanove piani sopra di lui. Guardò l’acqua che usciva dal rubinetto. Anche quella aveva fatto la sua lunga discesa dai serbatoi sul tetto, scorrendo lungo gli immensi pozzi interni scavati nel condominio come gelidi ruscelli che colavano lungo una caverna sotterranea.

La sua determinazione a realizzare il documentario aveva una forte motivazione personale, faceva parte di un tentativo calcolato di venire a patti con il palazzo, accettare la sfida fisica che gli proponeva e poi dominarlo. Da un po’ di tempo ormai aveva capito di essere sotto l’influsso di una forte fobia per il grattacielo. Era costantemente consapevole dell’immenso peso del cemento sopra di lui, e aveva la sensazione che il suo corpo fosse al centro delle linee di forza che attraversavano l’edificio, come se Anthony Royal avesse intenzionalmente progettato che Wilder fosse tenuto nella loro morsa. Di notte, sdraiato accanto alla moglie che dormiva, spesso si svegliava da un brutto sogno nella camera soffocante, con la precisa sensazione degli altri novecentonovantanove appartamenti che pesavano su di lui attraverso le pareti e il soffitto, e gli spremevano l’aria dal petto. Era certo che il vero motivo per cui aveva annegato il levriero afghano non era perché odiasse in particolare l’animale o volesse turbare la sua padrona, ma per vendicarsi dei piani superiori dell’edificio. Aveva afferrato il cane al buio quando era finito nella piscina. Cedendo a un impulso crudele quanto potente, lo aveva tirato sott’acqua. Mentre teneva il corpo galvanizzato che si dimenava, in qualche strano modo, stava lottando contro l’edificio stesso.

Pensando a quelle lontane altezze, Wilder fece la doccia, aprendo tutta l’acqua fredda e facendo rombare il getto gelato sul petto e sul ventre. Proprio nel momento in cui Helen aveva cominciato a vacillare, lui si sentiva più determinato, come un rocciatore finalmente giunto ai piedi della montagna che da tutta la vita attendeva di scalare.

5.

La città verticale

Indipendentemente dai piani che avrebbe escogitato per la sua ascesa, o dalla via che avrebbe scelto per arrivare in vetta, a Wilder fu presto chiaro che, con gli attuali ritmi di erosione, del grattacielo sarebbe rimasto ben poco. Quanto ai servizi, quasi tutto quello che poteva rompersi si era rotto. Aiutò Helen a rimettere in ordine l’appartamento e, tirando su tutte le tapparelle e muovendosi rumorosamente per casa, cercò di far entrare un po’ di vitalità nel letargo della sua famiglia.

Wilder faceva fatica a rianimarli. Ogni cinque minuti l’aria condizionata smetteva di funzionare e, nella calura estiva, l’appartamento si riempiva di aria stagnante. Notò che cominciavano a considerare normale quell’atmosfera fetida. Helen gli raccontò di aver sentito dire da altri inquilini che gli abitanti dei piani superiori avevano deliberatamente fatto cadere nei condotti dell’aria condizionata escrementi di cane. Attorno agli spiazzi aperti dell’area residenziale circolavano forti correnti d’aria, che tormentavano i piani bassi del condominio, vorticando attorno ai pilastri di cemento. Wilder aprì le finestre sperando in un po’ di aria fresca, ma l’appartamento si riempì in breve tempo di terra e polvere di cemento. Una pellicola fine come cenere già ricopriva i piani degli armadi e gli scaffali.

Nel tardo pomeriggio gli inquilini cominciarono a tornare a casa dall’ufficio. Dagli ascensori superaffollati veniva un gran rumore. Ora ce n’erano tre fuori servizio, e i rimanenti erano stipati di passeggeri esasperati che cercavano di raggiungere i loro piani. Dalla porta aperta del suo appartamento Wilder guardava i vicini spintonarsi con fare aggressivo come minatori arrabbiati all’uscita dei loro pozzi. Gli passavano davanti a grandi passi, brandendo nervosamente le ventiquattrore e le borsette come accessori di un’armatura.

D’impulso, Wilder decise di verificare il suo diritto di libero passaggio per l’edificio e il diritto d’accesso a tutti i servizi, in particolare alla piscina del trentacinquesimo piano e al giardino delle sculture per bambini sulla terrazza panoramica. Afferrò la macchina da presa e partì per il tetto, accompagnato dal figlio maggiore. Scoprì ben presto, però, che gli ascensori ad alta velocità erano o fuori servizio, o in riparazione, o trattenuti agli ultimi piani con le porte forzatamente aperte. L’unico accesso a quegli ascensori era l’ingresso riservato dall’esterno, di cui Wilder non aveva la chiave.

Ancor più deciso a raggiungere il tetto, Wilder attese uno degli ascensori intermedi, che lo avrebbe portato fino al trentacinquesimo piano. Quando ne arrivò uno si ricavò un suo spazio nella cabina affollata, circondato da passeggeri che squadravano suo figlio di sei anni con aperta ostilità. Al ventitreesimo piano l’ascensore si fermò e non ci fu verso di farlo proseguire oltre. Con un’azione da mischia rugbistica i passeggeri guadagnarono l’uscita, battendo ripetutamente le cartelle sulle porte chiuse degli ascensori, in quella che sembrava una rituale ostentazione di collera.

Wilder prese a salire le scale, portando in braccio il figlioletto. Con il suo fisico possente, era abbastanza forte da arrivare fino al tetto. Due piani sopra, però, la tromba delle scale era bloccata da un gruppo di inquilini – c’era anche quel disgustoso chirurgo ortodontista che abitava vicino a Robert Laing – i quali cercavano di liberare uno scivolo per lo smaltimento dei rifiuti. Sospettando che lavorassero a manomettere i tubi dell’aria condizionata, Wilder si precipitò in mezzo a loro, ma fu bruscamente spinto da parte con una spallata da un tale che riconobbe subito, era il conduttore del notiziario di una televisione rivale.

“Questa scala è chiusa, Wilder! Non riesci a capirlo?”

“Cosa?” Wilder era sbalordito da tanta impudenza. “Come puoi dirlo?”

Chiusa! Che cosa ci fai quassù, in ogni caso?”

I due uomini si squadrarono. Divertito dall’aggressività del giornalista televisivo, Wilder alzò la camera, come per filmare quella faccia colorita. Quando Crosland gli intimò a gesti, con arroganza, di andarsene, Wilder fu tentato di stenderlo. Ma non volendo turbare il figlio, che era già abbastanza spaventato da quell’atmosfera così tesa, si ritirò fino all’ascensore e tornò ai piani bassi.

Lo scontro, per quanto modesto, aveva sconvolto Wilder. Ignorando Helen, vagava per l’appartamento, dondolando la telecamera avanti e indietro. Si sentiva confuso ed eccitato, in parte a causa del progettato documentario, ma anche per il clima di crescente conflittualità e ostilità.

Dal balcone studiò le imponenti sagome alla Alcatraz dei grattacieli vicini. Il materiale visuale e sociologico che si poteva tirar fuori da quegli edifici era praticamente illimitato. Gli esterni li avrebbero girati dall’elicottero e dalla costruzione più vicina, a quattrocento metri da lì. Con gli occhi della mente già vedeva un lungo zoom, sessanta secondi, che passava piano dall’inquadratura dell’edificio al close-up di un singolo appartamento, una cella di quel termitaio da incubo.

La prima metà della trasmissione avrebbe esaminato la vita nel grattacielo dal punto di vista degli errori nella progettazione e dei motivi di irritazione più banali, mentre il resto avrebbe puntato lo sguardo sui risvolti psicologici della vita in una comunità di duemila persone inscatolate nel cielo. Tutto: dall’incidenza di reati, divorzi e deviazioni sessuali fino ai cicli di permanenza degli inquilini, le loro condizioni di salute, la frequenza dell’insonnia e di altri disturbi psicosomatici. Le prove accumulate in vari decenni gettavano una luce critica sul grattacielo come struttura sociale attuabile, ma da un lato il buon rapporto qualità-prezzo per l’edilizia pubblica, dall’altro gli alti margini di profitto per l’edilizia privata facevano sì che si continuassero a spingere nel cielo queste città verticali, contro le reali esigenze di chi poi le abitava.

La psicologia del grattacielo era ormai stata svelata, con risultati schiaccianti. Ciò che, per esempio, aveva più colpito Wilder, che lo considerava in assoluto l’argomento più significativo, era l’assenza di umorismo. Tutti gli studi effettuati dai ricercatori confermavano che gli inquilini dei grattacieli non facevano battute su se stessi. In senso stretto, la vita in quei luoghi era “priva di eventi”. Sulla base della propria esperienza, Wilder si era convinto che l’appartamento in un grattacielo era una conchiglia troppo rigida per rappresentare il genere di casa che incoraggia le attività, una casa diversa dal semplice posto dove si mangia e si dorme. Vivere in un grattacielo richiedeva un tipo particolare di comportamento: acquiescente, controllato, forse anche un po’ folle. Qui uno psicotico starebbe benissimo, rifletteva Wilder. Quelle strutture a torre e a lastrone avevano subito la piaga del vandalismo fin dall’inizio. Ogni pezzo di apparecchio telefonico strappato, ogni maniglia divelta da una porta antincendio, ogni contatore elettrico sfondato a calci rappresentava un appello contro la decerebrazione.

Ma quello che più faceva arrabbiare Wilder, della vita nel suo condominio, era il modo in cui un insieme apparentemente omogeneo di professionisti ad alto reddito si era strutturato in tre campi disuniti e ostili. Le vecchie suddivisioni sociali, basate su potere, capitale ed egoismo, si erano riaffermate anche lì come in qualsiasi altro posto.

Di fatto, il grattacielo si era già diviso nei tre gruppi sociali classici, la classe inferiore, la classe media, la classe superiore. Il centro commerciale del decimo piano costituiva un chiaro confine fra i nove piani più bassi, con il loro “proletariato” di tecnici cinematografici, hostess e gente simile, e il settore mediano del grattacielo, che andava dal decimo piano alla piscina e alla terrazza-ristorante del trentacinquesimo. I due terzi centrali del condominio formavano la sua borghesia, costituita da membri delle professioni, egocentrici ma sostanzialmente docili: medici e avvocati, contabili e fiscalisti che lavoravano non per conto proprio ma per istituzioni sanitarie e grandi società. Puritani in grado di disciplinarsi da sé, avevano l’alto grado di coesione di coloro che desiderano ardentemente piazzarsi secondi.

Sopra di loro, ai cinque ultimi piani del grattacielo, c’era la classe superiore, la prudente oligarchia di piccoli magnati e imprenditori, attrici televisive e accademici arrivisti, con i loro ascensori ad alta velocità e servizi di qualità superiore, con la passatoia sulle scale. Erano loro che stabilivano il ritmo dell’edificio. Erano i loro reclami a venir accolti per primi ed erano sempre loro che, sottilmente, dominavano la vita del grattacielo: stabilivano quando i bambini potevano usare le piscine e il giardino pensile, fissavano il menu del ristorante e i conti salati che tenevano lontani quasi tutti tranne loro. Ma, soprattutto, erano loro a gestire il delicato rapporto di patronato che teneva in riga il livello medio, con la carota perennemente penzolante dell’amicizia e dell’approvazione.

Il pensiero di quei residenti tanto esclusivi, che stavano così in alto sopra di lui nelle loro ridotte degli ultimi piani, come ogni buon signore feudale sta sopra il servo della gleba, riempiva Wilder di un crescente sentimento di insofferenza e rancore. Comunque, sarebbe stato arduo organizzare un qualsiasi genere di contrattacco. Non avrebbe avuto difficoltà ad assumere il ruolo di capopopolo e divenire il portavoce dei suoi vicini dei piani bassi, ma quella era gente che mancava di ogni coesione o egocentrismo: i disciplinati professionisti del settore centrale del condominio li avrebbero battuti senza fatica. C’era, nei suoi compagni di piano, una latente faciloneria, l’inclinazione a tollerare un’eccessiva quantità di interferenze prima di radunarsi, semplicemente, e partire. In breve, il loro istinto territoriale, in senso psicologico e sociale, si era atrofizzato al punto che erano ormai maturi per l’assoggettamento.

Per chiamare a raccolta i suoi vicini Wilder aveva bisogno di qualcosa che desse loro un forte sentimento di identità. Il documentario televisivo sarebbe stato perfetto e, per di più, avrebbe parlato loro in termini che erano in grado di comprendere. Il documentario avrebbe messo in scena tutti i loro risentimenti e avrebbe mostrato in che modo gli inquilini dei piani superiori facevano cattivo uso dei servizi. Forse sarebbe stato necessario addirittura fomentare nascostamente i disordini, per amplificare le tensioni presenti nel grattacielo.

In ogni caso, come Wilder avrebbe scoperto in breve tempo, la forma del suo documentario stava già per essere decisa.

Infiammato dalla risoluzione di reagire combattendo, Wilder decise di offrire alla moglie e ai figli una pausa da quel suo incessante andare avanti e indietro. Ormai l’aria condizionata funzionava per cinque minuti all’ora e, al tramonto, l’appartamento era soffocante e umido. Il chiasso delle conversazioni a voce esageratamente alta e dei giradischi a tutto volume rimbombava fuori dai balconi sopra di loro. Helen Wilder passava dall’una all’altra delle finestre già chiuse, e le sue piccole mani intorpidite premevano sulle maniglie, come se cercasse di spinger via la notte.

Troppo assorto per aiutarla, Wilder uscì con un asciugamano e il costume da bagno per andare alla piscina del decimo piano. Qualche telefonata ai suoi vicini gli aveva confermato che erano disponibili a prender parte al documentario, ma Wilder aveva bisogno di adesioni del livello medio e superiore del grattacielo.

Gli ascensori fuori servizio non erano ancora stati riparati e Wilder salì a piedi. Varie zone delle scale erano già state trasformate in una discarica di rifiuti da parte degli inquilini di sopra. I gradini erano ingombri di vetri rotti che gli tagliavano le scarpe.

La galleria dei negozi era affollata di gente che girava in tondo e parlava a voce più alta che poteva, come se stesse aspettando l’inizio di un raduno politico. La piscina, a quell’ora normalmente deserta, era piena di inquilini che scherzavano in acqua, spingendosi a vicenda giù dal bordo piastrellato e schizzando le cabine. L’addetto se n’era andato, abbandonando la sua postazione, e già la piscina cominciava ad apparire trascurata, con asciugamani abbandonati nei canali di scolo.

Alle docce Wilder riconobbe Robert Laing. Benché il medico gli avesse rivolto le spalle, Wilder ignorò il rifiuto e si mise sotto il getto vicino. I due uomini si parlarono per un po’, ma senza dirsi nulla di significativo. Wilder aveva sempre trovato in Laing un compagno piacevole, con quel suo sguardo attento a ogni ragazza che passava, ma quel giorno era scostante. Come tutti gli altri, era stato toccato dall’atmosfera di sfida.

“È già venuta la polizia?” chiese Wilder, sopra il frastuono che li circondava, mentre andavano verso i trampolini.

“No… Lei si aspetta che vengano?” Laing sembrava autenticamente sorpreso.

“Vorranno interrogare i testimoni. Cos’è successo, davvero? È stato spinto? Sua moglie sembra piuttosto gagliarda… Magari voleva un divorzio rapido.”

Laing sorrise con indulgenza, come se quella osservazione di dubbio gusto fosse esattamente quanto poteva aspettarsi da Wilder. Il suo sguardo solitamente arguto restava di proposito vago e imperscrutabile. “Non so nulla dell’incidente, Wilder. Può essere stato un suicidio, immagino. La riguarda personalmente?”

“E lei no, Laing? È strano che un uomo possa cadere da una finestra a quaranta piani da terra senza che ci sia un’indagine di qualche genere…”

Laing salì sul trampolino. Il suo fisico era insolitamente muscoloso, notò Wilder, come se di recente avesse fatto un bel po’ d’esercizio, con piegamenti sulle braccia a dozzine.

Il medico attese che si formasse uno spazio libero, nell’acqua piena di gente. “Credo che potremo contare sui suoi vicini, si occuperanno loro di tutto.”

Wilder alzò la voce. “Ho iniziato a lavorare al documentario televisivo… La sua morte sarebbe un ottimo punto di partenza.”

Laing, tutt’a un tratto interessatissimo, abbassò lo sguardo su Wilder. Scosse la testa con vigore. “Lascerei perdere tutto quanto… Se fossi in lei, Wilder.” Arrivò alla fine del trampolino, saltò due volte e fece un bel tuffo preciso nell’acqua giallastra.

Nuotando da solo sul lato della piscina dove si toccava, Wilder studiava Laing e il suo gruppo di amici che se la spassavano nella parte profonda. Prima, Wilder li avrebbe raggiunti, specialmente visto che nella compagnia c’erano due belle donne: Charlotte Melville, con cui non parlava da parecchi giorni del loro progetto di un’associazione di genitori, e l’apprendista alcolizzata Eleanor Powell. Ma Wilder, naturalmente, era stato escluso. L’uso pungente del cognome che Laing aveva fatto nel rivolgersi a lui segnava la distanza che li separava, come la sua vaghezza sul gioielliere scomparso e il farsi da parte a proposito del documentario, a cui una volta si era entusiasticamente interessato. Se non altro, proprio l’approvazione di Laing aveva convinto Wilder a sviluppare l’idea, con una scaletta provvisoria. Presumibilmente Laing, con il suo eccessivo bisogno di privacy, non aveva ora nessuna voglia di vedere la pazzia collettiva degli inquilini, nonché le loro liti e gelosie infantili, svelate sugli schermi televisivi nazionali.

O forse ad agire era ancora un altro impulso, il bisogno di isolare, di allontanare da sé ogni comprensione di ciò che realmente stava accadendo nel grattacielo, in modo che gli eventi potessero seguire la loro logica e sfuggire ancor più di mano? Con tutto il suo dichiarato entusiasmo per il documentario, Wilder sapeva però di non averne mai parlato con nessuno che non vivesse nel condominio. Perfino Helen, al telefono con sua madre quel pomeriggio, era stata molto vaga: “Tutto bene. Abbiamo qualche piccolo problema con l’aria condizionata, ma la stanno riparando”.

Quella crescente sfida alla realtà delle cose non era più una sorpresa, per Wilder. La decisione che il caos all’interno del grattacielo fosse una questione che riguardava solo gli inquilini spiegava anche il mistero del gioielliere morto. Almeno mille persone dovevano aver visto il corpo… Wilder ricordava di essere uscito sul terrazzino e di essere rimasto sbalordito, non dalla vista del cadavere, ma da quell’immenso pubblico che arrivava fino al cielo. Qualcuno aveva poi avvertito la polizia? Wilder l’aveva dato per scontato, ma adesso non ne era più tanto sicuro. Gli era difficile credere che quell’uomo raffinato e presuntuoso si fosse suicidato. Eppure nessuno se n’era minimamente preoccupato, tutti accettavano il possibile omicidio allo stesso modo in cui chi andava a nuotare in piscina accettava le bottiglie di vino e le lattine di birra vuote che gli rotolavano tra i piedi sul pavimento piastrellato. Quella sera, le meditazioni di Wilder lasciarono però il posto a una lotta per preservare la sua sanità mentale. Dopo aver sistemato in camera i due bambini, lui e sua moglie sedettero a tavola, ma solo per essere precipitati nell’oscurità da un improvviso guasto elettrico. Seduti uno di fronte all’altra, ascoltavano il rumore continuo proveniente dal corridoio, i loro vicini che litigavano sul pianerottolo degli ascensori, i transistor che strombazzavano dalle porte spalancate degli appartamenti.

Helen si mise a ridere, rilassandosi per la prima volta da settimane. “Dick, è tutta una grande festa di bambini che ci è sfuggita di mano.” Tese la mano a Wilder per calmarlo. Nella fioca luce che attraversava la stanza e proveniva dal grattacielo vicino, il suo viso minuto aveva una calma quasi irreale, come se non si sentisse più toccata dagli eventi che si svolgevano attorno a lei.

Tenendo a freno la collera, Wilder si curvò nel buio fin quasi a toccare la tavola. Ebbe più volte la tentazione di tuffare il pugno nella minestra. Quando tornò la luce cercò di telefonare all’amministratore, ma il centralino era sommerso di chiamate. Finalmente una voce registrata gli disse che l’amministratore era ammalato, che tutti i reclami sarebbero stati ascoltati e trascritti per essere presi in considerazione in seguito.

“Mio Dio, ascoltare tutti quei nastri… Devono essere lunghi chilometri e chilometri…”

“Ne sei sicuro?” Helen rideva fra sé. “Forse non importa più a nessuno. Sei tu l’unico.”

La manomissione dell’impianto elettrico aveva toccato anche l’aria condizionata. Dalle grate nelle pareti uscivano sbuffi di polvere. Al colmo dell’esasperazione, Wilder batté i pugni l’uno contro l’altro. Come un grosso e aggressivo criminale il grattacielo era ben deciso a mettere in atto contro di loro ogni possibile ostilità. Wilder cercò di chiudere le grate, ma nel giro di pochi minuti dovettero cercare rifugio sul balcone. I loro vicini erano tutti stretti alle balaustre e allungavano il collo verso il tetto, come se sperassero di vedere i responsabili.

Lasciando la moglie a gironzolare per l’appartamento, mentre sorrideva spensierata alla polvere che usciva dalle bocchette, Wilder uscì in corridoio. Tutti gli ascensori stazionavano nella zona più alta del palazzo. Un folto gruppo di suoi vicini si era radunato sul pianerottolo davanti agli ascensori, tutti picchiavano ritmicamente sulle porte e protestavano per varie provocazioni da parte degli inquilini dei piani di sopra.

Wilder si fece largo verso il centro del gruppo dove due piloti, in piedi su un divanetto, stavano scegliendo i membri di una squadra per fare un’incursione. Wilder attese il suo turno, cercando di attirare la loro attenzione, finché scoprì dai discorsi esagitati attorno a lui che la loro missione consisteva soltanto nel salire al trentacinquesimo piano e urinare pubblicamente nell’acqua.

Wilder stava per mettersi a discutere per avvisarli che un’azione tanto infantile sarebbe stata controproducente. Finché non erano organizzati l’idea di una spedizione punitiva era assurda, perché erano troppo esposti a ritorsioni. All’ultimo momento, però, si allontanò. Si fermò accanto alla porta che dava sulle scale, rendendosi conto di non sentirsi più impegnato con quella massa di impulsivi, che si incitavano l’un l’altro a compiere un’esibizione tanto futile. Il loro reale antagonista non era la gerarchia degli inquilini che vivevano più in alto, sopra di loro, ma l’immagine che loro stessi si erano fatti dell’edificio, quel moltiplicarsi di strati di cemento che li ancorava al suolo.

Dal gruppo si levò un’acclamazione, seguita da un coro di fischi. Un ascensore stava scendendo dal trentacinquesimo piano, le cifre dell’indicatore si illuminavano da destra a sinistra. Mentre l’ascensore si avvicinava, Wilder pensò a Helen e ai due bambini… Aveva già capito che la sua decisione di dissociarsi dai suoi vicini non derivava da nessun sentimento di apprensione per la moglie e i figli.

L’ascensore arrivò al secondo piano e si fermò. Mentre le porte si aprivano calò un improvviso silenzio. Stesa sul pavimento c’era la sagoma di un vicino di Wilder, semisvenuto. Era un controllore di volo omosessuale che cenava regolarmente al trentacinquesimo piano. Distolse il volto contuso dalla folla che lo fissava, cercando di abbottonarsi la camicia strappata sul petto. Ora che la folla indietreggiava e riusciva a vederlo bene, Wilder si sgomentò per quella manifestazione di aperta violenza. Nel frattempo udì da qualcuno che altri due piani, il quinto e l’ottavo, erano al buio.

6.

Il pericolo per le strade del cielo

Per tutto il giorno Richard Wilder non fece che prepararsi all’ascesa. Dopo una notte rumorosa, passata a tranquillizzare i figli e la moglie, che continuava a ridacchiare, uscì per andare agli studi televisivi. Una volta arrivato, annullò gli appuntamenti e disse alla segretaria che sarebbe stato via per qualche giorno. Parlando, Wilder quasi non si accorgeva dello sconcerto della giovane donna, o della curiosità dei colleghi degli uffici vicini… Si era sbarbato solo il lato sinistro della faccia e non si era cambiato d’abito dal giorno precedente. Stravolto di stanchezza, si addormentò sulla scrivania per un po’, buttandosi a russare sulla corrispondenza ancora da leggere sotto gli occhi della segretaria. Dopo meno di un’ora, riempì la cartella e tornò al grattacielo.

Per Wilder, il breve periodo passato lontano da casa era irreale quasi come un sogno. Lasciò l’auto nel parcheggio senza chiuderla a chiave e cominciò a camminare verso l’ingresso, sentendo sopraggiungere un crescente senso di sollievo. Anche i detriti sparsi ai piedi dell’edificio, le bottiglie vuote e le chiazze di spazzatura sulle macchine con i parabrezza rotti, in qualche modo, rafforzavano in lui la convinzione che gli unici fatti reali della sua vita erano quelli che avevano luogo nel grattacielo.

Benché fossero passate le undici, Helen e i bambini dormivano ancora. Una coltre di polvere bianca copriva i mobili dell’atrio e delle camere, come se Wilder fosse tornato all’appartamento e ai suoi tre dormienti dopo un lunghissimo periodo di tempo, che si era condensato attorno a loro come una brina di pietra. La notte prima Wilder aveva bloccato le aperture dell’aria condizionata e nell’appartamento non si sentiva un suono, non c’era un movimento. Guardò sua moglie, distesa sul letto e circondata dai libri per bambini che doveva recensire. Sapendo che nel giro di qualche ora l’avrebbe lasciata, si rammaricò che fosse troppo debole per andare con lui. Avrebbero potuto scalare il grattacielo insieme.

Mentre cercava di pensare con maggiore chiarezza alla sua ascensione, si mise a pulire la casa. Uscì sul balcone e spazzò via i mozziconi e i vetri rotti, i preservativi e i giornali strappati gettati giù dai piani superiori. Non riusciva più a ricordare quando aveva preso la decisione di scalare il palazzo, e non aveva le idee molto chiare neppure su ciò che avrebbe fatto quando finalmente fosse arrivato in cima. Era anche ben conscio della grossa differenza fra la semplice faccenda di salire sul tetto – si trattava di schiacciare un pulsante in ascensore – e la versione mitica di quell’ascesa che aveva preso corpo nella sua mente.

La stessa resa a una logica più forte della razionalità era evidente anche nel comportamento dei suoi vicini. Nell’atrio degli ascensori, Wilder ascoltò le ultime voci e notizie. Quella mattina c’era stata una grossa rissa fra gli inquilini del nono e quelli dell’undicesimo. La galleria del decimo piano era ormai diventata una terra di nessuno fra due fazioni in guerra, gli abitanti dei primi nove piani contro quelli del settore mediano dell’edificio. Nonostante l’angoscia per le crescenti violenze, nessuno si sorprendeva di tali accadimenti. La routine della vita quotidiana nel grattacielo continuava come prima, si andava al supermarket, allo spaccio di liquori e dal parrucchiere. In qualche modo il grattacielo era in grado di conciliare quella duplice logica. Il tono di voce dei suoi vicini, mentre descrivevano quelle esplosioni di ostilità, era tranquillo e pratico, come se fossero dei civili in una città dilaniata dalla guerra, e avessero a che fare con l’ennesima incursione aerea. Per la prima volta, a Wilder venne da pensare che ai condomini piacesse quello sfacelo di tutti i servizi, e il crescente clima di scontro che li opponeva gli uni agli altri. Tutto ciò li univa e metteva fine al glaciale isolamento dei mesi precedenti.

Nel pomeriggio Wilder giocò con i figli, aspettando che venisse sera. Helen girava in silenzio per l’appartamento, senza quasi avvertire la presenza del marito. Dopo l’accesso di riso forzato della sera precedente aveva il viso cereo e svuotato di ogni espressione. Di tanto in tanto l’angolo destro della bocca le guizzava in un tic nervoso, come il riflesso di un tremito nascosto nel profondo della sua mente. Seduta a tavola, ravviava meccanicamente i capelli dei figli. Mentre la fissava, senza riuscire a pensare a niente che potesse aiutarla, Wilder aveva quasi l’impressione che fosse lei che stava per lasciare lui e non il contrario.

Mentre la luce cominciava ad affievolirsi, Wilder seguì con lo sguardo il ritorno dall’ufficio del primo gruppo di inquilini. Fra loro c’era anche Jane Sheridan, stava uscendo dall’auto. Sei mesi prima, Wilder aveva rotto con l’attrice per un motivo che ora sembrava piuttosto ironico, per la fatica di dover continuamente salire al trentasettesimo piano. Gli era difficile essere se stesso, nell’appartamento di Jane. Non poteva fare a meno di pensare tutto il tempo alla distanza da terra, a sua moglie e ai suoi figli laggiù in basso, sprofondati nelle viscere del palazzo, come le donne e i bambini operai sfruttati del diciannovesimo secolo. Mentre guardava la televisione durante i loro rapporti sessuali, in quella camera da letto tappezzata di chintz, aveva la sensazione di sorvolare la città su uno stravagante jet privato, con tanto di boudoir e bar. Le loro conversazioni, perfino nel vocabolario e nella dizione, si erano stilizzate come quelle di due estranei seduti vicini in aereo.

L’attrice si diresse verso l’ingresso riservato, che conduceva nell’atrio degli ascensori per i piani alti. Procedeva con noncuranza fra le bottiglie rotte e le lattine vuote. Un unico viaggio fino al suo appartamento lo avrebbe portato, come la scala di certi giochi di società, praticamente in cima all’edificio con un solo lancio di dadi.

Helen stava mettendo a letto i bambini. Aveva spostato l’armadio e la specchiera attorno ai loro letti, nel tentativo di proteggerli dal rumore e dall’agitazione che la notte avrebbe portato con sé.

“Richard…? Te ne vai…?”

Parlando era emersa per un attimo dalle profondità del pozzo che si era aperto in lei, e si rendeva conto, in quei pochi secondi, che lei e i suoi figli stavano per essere lasciati a se stessi.

Wilder attese che il momento di lucidità passasse, sapendo che sarebbe stato impossibile descrivere a Helen la missione che si era autoimposto. Lei sedette in silenzio sul letto, una mano posata sulla pila di libri per bambini, e lo guardò nello specchio, senza cambiare espressione quando uscì in corridoio.

Wilder si accorse presto che salire al trentasettesimo piano era più difficile di quanto credesse. I cinque ascensori per gli ultimi piani o erano fuori servizio, o erano stati portati ai piani superiori e parcheggiati là bloccando le porte.

Il pianerottolo del secondo piano era pieno di vicini di Wilder, alcuni in abiti da ufficio, altri vestiti da spiaggia, che litigavano fra loro come turisti inviperiti da una crisi valutaria. Wilder si fece strada in mezzo alla folla fino alle scale e cominciò la lunga salita per il decimo piano, dove pensava ci fossero maggiori possibilità di trovare un ascensore che saliva.

Quando arrivò al quinto piano incontrò una dozzina di membri della squadra di incursori organizzata dai piloti, di ritorno da un’altra delle loro fallimentari missioni. Arrabbiati e scossi, urlavano contro la gente che li scherniva dalla tromba delle scale sopra di loro. L’ingresso alla galleria del decimo piano era stato bloccato con banchi e sedie presi dalla scuola materna e buttati giù. Il gruppo degli incursori, composto da genitori dei bambini che frequentavano la scuola, aveva cercato di rimettere a posto i banchi, ma era stato ripetutamente respinto dagli abitanti dei piani di mezzo, i quali attendevano con impazienza che lo spaccio di liquori ricevesse i rifornimenti.

Wilder si affrettò a superarli. Quando raggiunse il decimo piano il gruppo degli avversari se ne era andato, in formazione da battaglia. Wilder camminava sui banchi rotti che coprivano gli scalini, sulle matite e i gessetti sparsi dappertutto. Pentendosi di non aver portato con sé la macchina da presa, notò due inquilini del diciottesimo piano, un ingegnere chimico e un direttore del personale, in piedi accanto alla porta. Avevano entrambi una videocamera e filmavano con cura la scena sottostante, seguendo Wilder che saliva verso di loro.

Lasciando che completassero i loro cinegiornali privati di dubbi e qualità, Wilder spinse i battenti della porta e si affacciò alla galleria dei negozi. Centinaia di condomini si stavano strattonando, tirando e spingendo fra le rastrelliere cariche di bottiglie di vino, gli scaffali dei detersivi e i carrelli del supermarket legati insieme in un reticolato di metallo cromato. Le voci cariche di rabbia si alzavano sopra il ronzio dei registratori di cassa. Nel contempo, mentre quei tafferugli erano in pieno svolgimento, una quantità di signore, sedute in fila sotto i caschi del parrucchiere, leggeva tranquillamente le riviste. Nella banca, i due cassieri del servizio serale contavano imperturbabili le loro banconote.

Rinunciando a qualsiasi tentativo di attraversare la galleria, Wilder svoltò nella piscina deserta. Il livello dell’acqua era sotto la norma di almeno venti centimetri, come se qualcuno stesse rubando quel liquido giallognolo. Wilder fece il giro della vasca. Nel mezzo galleggiava una bottiglia di vino vuota, attorniata da una broda di pacchetti di sigarette e mozziconi mezzo disfatti. Sotto i trampolini galleggiava mollemente nell’acqua un giornale, e il suo titolo vacillante sembrava un messaggio da un altro mondo.

Nell’atrio del decimo piano, una folla di inquilini premeva con impazienza contro le porte degli ascensori, le braccia cariche di scatoloni di liquori e stuzzichini, la materia prima per gli aggressivi festeggiamenti della serata. Wilder tornò alle scale. Da qualche parte sopra di lui quei passeggeri sarebbero usciti dagli ascensori, offrendogli la possibilità di entrare. Saliva gli scalini a due a due. Le scale erano deserte: più si saliva nell’edificio e più gli inquilini erano riluttanti a usare le scale, come se la cosa, in qualche maniera, li sminuisse. Mentre procedeva veloce, Wilder guardava di sfuggita dalle finestre il parcheggio, che spariva pian piano dalla sua vista. Il lontano braccio del fiume si allungava verso il profilo ormai quasi nero della città, come una freccia indicante un mondo dimenticato. Quando svoltò nell’ultima rampa di scale prima del quattordicesimo piano, facendosi strada fra le lattine e i pacchetti di sigarette gettati, qualcosa si mosse sopra di lui. Wilder si fermò e guardò su, con i polmoni che pompavano in silenzio. Una sedia di cucina, scagliata da un assalitore tre piani sopra di lui, volteggiò nell’aria verso la sua testa. Wilder si tirò indietro mentre la sedia d’acciaio colpiva il corrimano e rimbalzava sul suo braccio destro prima di cadere.

Wilder si acquattò sui gradini, riparandosi sotto la sporgenza del piano di sopra. Si massaggiò il braccio contuso. C’erano almeno tre o quattro persone ad attenderlo e battevano ostentatamente i loro bastoni sulla balaustra metallica. Serrando i pugni, Wilder ispezionò i gradini in cerca di un’arma. Per le strade del cielo si incontrava il pericolo… Il suo primo impulso era di correre su per le scale e contrattaccare. Col suo fisico possente, sapeva che non c’erano nel grattacielo tre inquilini che non potesse far volare giù. Non erano altro che amministrativi fuori esercizio e avvocati d’affari sovrappeso, istigati a quelle garbate violenze dalle loro invadenti mogli. Ma, comunque, si calmò e decise di scartare l’attacco frontale… Avrebbe raggiunto la cima del palazzo, ma grazie all’astuzia piuttosto che alla forza bruta.

Si spostò sul pianerottolo del tredicesimo piano. Attraverso le pareti delle colonne degli ascensori, riusciva a sentire il mormorio dei cavi nelle guide. I passeggeri uscivano ai loro piani. Ma le porte che conducevano al tredicesimo piano erano state sbarrate. Un volto lo squadrò, una mano ben curata gli fece bruscamente segno di andarsene. Le porte di comunicazione con i piani, di lì fino al decimo, erano tutte sbarrate o protette da barricate. Deluso, Wilder tornò al centro commerciale. Ad attendere gli ascensori c’era sempre una gran folla. Era divisa in gruppi di piani diversi, nettamente separati, e ciascuno prendeva con la forza il proprio mezzo di transito. Wilder li abbandonò e si diresse a grandi passi verso il supermarket. Gli scaffali erano già stati svuotati e gli impiegati se ne erano andati, dopo aver chiuso a chiave i cancelletti rotanti degli ingressi. Wilder saltò al di là di una delle casse d’uscita e si diresse verso il magazzino sul retro. Oltre le piramidi di scatoloni vuoti c’era uno dei tre nuclei di servizio del grattacielo, costituito da un montacarichi e dai quadri dell’acqua, dell’aria condizionata e dell’elettricità.

Wilder aspettava l’ascensore che stava scendendo, lento e goffo, lungo la colonna. Era grande come il montacarichi di un aereo per il trasporto merci, era stato progettato per reggere cucine, elementi per il bagno e gli immensi quadri pop e astratti-espressionisti che gli abitanti del grattacielo prediligevano. Mentre apriva la grata d’acciaio notò una giovane donna dalle spalle sottili che si nascondeva dietro il pannello dei comandi. Era smorta e denutrita, ma fissava Wilder con interesse, come se fosse felice di dargli il benvenuto nei suoi possedimenti privati.

“Fin dove vuoi spingerti?” gli chiese. “Possiamo arrivare ovunque. Ti porterò io.”

Wilder la riconobbe, era una massaggiatrice del quinto piano, una delle nomadi che passavano il tempo a vagare per il grattacielo, abitanti di un mondo interno che costituivano una seconda, invisibile popolazione. “D’accordo… Che ne dici del trentacinquesimo?”

“La gente del trentesimo è più simpatica.” Premette da esperta i pulsanti di comando, attivando le pesanti porte. Nel giro di pochi secondi, l’ascensore cominciò faticosamente a portarli in alto. La giovane massaggiatrice gli sorrideva per rincuorarlo, più viva ora che si stavano muovendo. “Se vuoi andare più in alto, ti faccio vedere. Sai, ci sono un sacco di pozzi di aerazione. L’unico problema è che ci sono entrati i cani… Stanno cominciando a diventare affamati…”

Quando, un’ora dopo, Wilder uscì dall’atrio lussuosamente tappezzato del trentasettesimo piano, era cosciente di aver scoperto un secondo edificio, interno a quello che aveva abitato da principio. Si lasciò dietro la giovane massaggiatrice, che percorreva incessantemente le colonne di servizio e quelle dei montacarichi del grattacielo, esteriorizzando in quei transiti un’odissea che aveva luogo nella sua testa. Durante la strada indiretta e tortuosa fatta con lei – erano saliti su un secondo montacarichi per fare tre piani fino al ventottesimo, poi erano andati su e giù per un dedalo di corridoi ai confini di varie enclave ostili e, infine, avevano preso un ascensore ad alta velocità per un viaggio di un piano – Wilder aveva visto in che modo il livello medio e superiore dell’edificio si erano organizzati.

Mentre i suoi vicini dei piani bassi restavano una marmaglia, uniti solo dal senso di impotenza, qui tutti si erano raccolti in gruppi locali di trenta appartamenti adiacenti, clan informali che abbracciavano due o tre piani e si basavano sull’architettura dei corridoi, dei pianerottoli e degli ascensori. In quel momento c’erano circa venti gruppi, ciascuno dei quali aveva stretto alleanze locali con quelli dell’uno e dell’altro campo. C’era un consistente aumento nelle attività di vigilanza di ogni genere. Si stavano disponendo delle barriere, le uscite antincendio venivano chiuse a chiave, la spazzatura veniva gettata giù per le scale o rovesciata sui pianerottoli rivali.

Al ventinovesimo piano Wilder si era imbattuto in una comune di sole donne, un pugno di appartamenti dominati da un’anziana scrittrice di racconti per bambini, una signora dalla corporatura e dalla personalità minacciose. Tre hostess del primo piano dividevano l’appartamento con lei. Wilder era passato con grande circospezione fra i loro appartamenti, ben contento di essere in compagnia della giovane massaggiatrice. Ciò che aveva turbato Wilder, mentre le donne lo interrogavano a coppie dalle porte semiaperte delle loro case, era l’ostilità che mostravano nei suoi confronti, non solo perché era un uomo, ma perché era evidente che stava cercando di salire a un livello superiore al suo.

Fu con vero sollievo che uscì nell’atrio deserto del trentasettesimo piano. Si fermò accanto alla porta che dava sulle scale, insospettito dal fatto che non ci fosse nessuno a guardia dell’entrata degli ascensori. Se ne poteva dedurre che gli abitanti di quel piano non fossero al corrente di ciò che stava accadendo sotto i loro piedi. Le passatoie nei corridoi silenziosi erano abbastanza spesse da isolarli anche dall’inferno.

Percorse il corridoio diretto all’appartamento di Jane Sheridan. Poteva forse sorprendersi di vederlo, ma Wilder era fiducioso che avrebbe passato la notte con lei. Il giorno dopo si sarebbe trasferito lì stabilmente e sarebbe passato a trovare Helen e i bambini andando e venendo dagli studi televisivi.

Mentre suonava il campanello riuscì a sentire, attraverso la porta, la sua voce forte e quasi maschile, dal tono tanto familiare per gli innumerevoli sceneggiati televisivi in costume. Alla fine la porta si aprì, ma con la catena. Quando posò lo sguardo su Wilder, riconoscendolo immediatamente, lui capì che si aspettava il suo arrivo. Era distante e imbarazzata allo stesso tempo, come una persona costretta a guardare qualcuno che stava per essere coinvolto in un incidente. Wilder si ricordò che aveva dato la sua destinazione a uno dei gruppi di vigilantes femminili.

“Jane, tu mi aspettavi. Sono lusingato.”

“Wilder… Io non posso…”

Prima che Wilder potesse parlare, la porta dell’appartamento vicino si aprì di colpo. A squadrare Wilder con evidente ostilità ora c’erano un fiscalista del quarantesimo piano e un muscolosissimo coreografo con cui Wilder si era spesso allenato a lanciarsi la palla medica, nella palestra del decimo piano.

Rendendosi conto che il suo arrivo era stato svelato in anticipo a tutti, Wilder si volse per andarsene, ma il corridoio dietro di lui era bloccato. Un gruppo di sei inquilini era uscito dall’atrio degli ascensori. Erano tutti in tuta e scarpe da tennis bianche e, a prima vista, sembravano una squadra di ginnasti di mezza età che si allenavano con i manubri, ma ciascuno aveva anche la sua lucida mazza di legno. Alla guida di quella compagnia di anticaglie alquanto spiritate, costituita da un operatore di Borsa, due pediatri e due professori emeriti dell’università, c’era Anthony Royal. Come al solito indossava la sua sahariana bianca, un costume che non mancava mai di irritare Wilder, il genere di vestiario che avrebbe potuto prediligere il direttore di un campeggio o il custode di uno zoo. Le luci del corridoio gli infiammavano i capelli biondi e mettevano in evidenza le cicatrici sulla fronte, una simbologia confusa che restava sospesa come una serie di beffardi punti interrogativi sulla sua espressione dura. Mentre si avvicinava a Wilder si batteva sulla mano come una verga il bastone da passeggio cromato. Wilder guardava la luce giocare su quella canna liscia e non vedeva l’ora di avvolgerla attorno al collo di Royal.

Benché sapesse bene di essere in trappola, Wilder si era messo a ridere vedendo quella bizzarra compagnia. Quando mancò la luce, prima diminuendo per avvertirli e poi spegnendosi di colpo, arretrò contro la parete per farli passare. Nell’oscurità che lo circondava le mazze di legno battevano il ritmo in perfetto affiatamento. Dalla porta aperta dell’appartamento di Jane Sheridan una torcia elettrica lo illuminò.

Attorno a Wilder, la compagnia dei ginnasti stava per dare inizio all’azione. Le prime mazze cominciarono a roteare alla luce della torcia. Senza preavviso, sentì una raffica di colpi sulle spalle. Prima di cadere, Wilder afferrò una delle mazze, ma le altre lo colpivano mentre era a terra, sulla passatoia ai piedi di Anthony Royal.

Quando si risvegliò si trovò steso su un divano dell’ingresso principale, al pianoterra. Tutto attorno a lui scintillavano le luci al neon, riflesse dai pannelli di vetro del soffitto. Con la loro luminescenza monotona gli sembrava che fossero accese da sempre, in qualche posto dentro la sua testa. Due inquilini, rientrati tardi al grattacielo, erano in attesa davanti agli ascensori. Stringevano le loro ventiquattrore e ignoravano Wilder, che ritenevano chiaramente ubriaco.

Le spalle peste gli dolevano e Wilder si massaggiò, dietro l’orecchio destro, il mastoide gonfio. Quando riuscì a reggersi in piedi, si allontanò barcollando dal divano verso l’ingresso e si appoggiò alla porta a vetri. Le file di macchine parcheggiate si perdevano nell’oscurità, c’erano abbastanza mezzi di trasporto da permettergli di sfollare verso mille diverse destinazioni. Uscì nell’aria fredda della notte. Tenendosi il collo guardò su, lungo la facciata del grattacielo. Riusciva quasi a distinguere le luci del trentasettesimo piano. Tutt’a un tratto si sentì spossato, tanto dal peso e dalla massa dell’edificio quanto dal suo fallimento. Il tentativo improvvisato di scalare l’edificio era finito con la sua umiliazione. In un certo senso era stato respinto più dal palazzo che da Royal e i suoi amici.

Abbassando gli occhi dal tetto scorse la moglie che, a cinquanta piedi da lui, stava guardando fuori dal balcone di casa loro. Benché vedesse chiaramente i suoi vestiti strappati e il volto pieno di lividi non mostrava la minima preoccupazione, come se non lo riconoscesse più.

7.

I preparativi per la partenza

Al quarantesimo piano, i primi due condomini si preparavano ad andarsene.

Era tutto il giorno che Anthony Royal e sua moglie facevano i bagagli. Dopo il pranzo nel ristorante deserto del trentacinquesimo piano erano tornati al loro appartamento, e Royal aveva passato quelle che sapeva essere le ultime ore nel grattacielo a chiudere il suo studio di architetto. Non aveva alcuna fretta di andarsene, ora che era arrivato il momento di abbandonare il condominio, e di proposito si prendeva, per quell’ultimo adempimento rituale, tutto il tempo che voleva.

L’aria condizionata aveva smesso di funzionare e l’assenza del vago, familiare ronzio che una volta era stato per lui una piccola fonte di irritazione, rendeva Royal inquieto. Seppure di malavoglia, era ormai costretto a riconoscere ciò che aveva cercato di negare per mesi, nonostante fosse sotto i suoi occhi. Quell’immenso edificio che aveva contribuito a progettare era moribondo, le sue funzioni vitali svanivano una dopo l’altra: la pressione dell’acqua diminuiva per il vacillare delle pompe, le sottostazioni elettriche ai piani si spegnevano da sole, gli ascensori si erano arenati nelle loro colonne.

Come per simpatia, le sue vecchie lesioni alle gambe e alla schiena si stavano risvegliando. Royal si appoggiò al tavolo da disegno, sentendo il dolore che si irradiava dalle ginocchia all’inguine. Afferrando il bastone cromato, lasciò lo studio e si trasferì fra i tavoli e le poltrone del salotto, ciascuno già avvolto nel suo lenzuolo antipolvere. Nell’anno successivo all’incidente aveva scoperto che solo l’esercizio fisico costante teneva lontano il dolore e gli mancavano le partite a squash con Robert Laing. Come il suo medico, anche Laing gli aveva detto che le lesioni patite negli incidenti d’auto ci mettevano parecchio tempo a guarire ma, di recente, Royal aveva cominciato a pensare che quelle ferite giocassero un loro ruolo perverso.

Le tre valigie che aveva riempito la mattina erano già in anticamera. Royal le fissò, sperando per un attimo che appartenessero a un altro. Non erano mai state usate e la funzione preminente che avrebbero presto giocato nella sua personale Dunquerque non faceva che sottolineare la sua umiliazione.

Royal tornò nello studio e riprese a staccare i disegni architettonici e i progetti appesi alle pareti. Quello era il piccolo ufficio, ricavato da una camera da letto, che aveva usato ai tempi del suo lavoro per l’area residenziale, e l’insieme di libri e cianografiche, fotografie e tavole che in origine doveva dare un senso e un fine alla sua convalescenza si era presto trasformato in una sorta di museo privato. Dopo l’incidente, nella maggior parte dei disegni e degli studi di progettazione gli erano subentrati alcuni colleghi ma, in qualche strano modo, quei vecchi prospetti per la facciata dell’auditorium e degli studi televisivi, come la foto che gli avevano scattato sul tetto il giorno della consegna del grattacielo, descrivevano un mondo più reale dell’edificio che stava per abbandonare.

La decisione di lasciare l’appartamento, a lungo rimandata, era stata difficile. Nonostante la sua identificazione professionale con il grattacielo, di cui era stato uno degli architetti, il contributo di Royal era stato secondario. Purtroppo per lui, si era concentrato proprio su quelle aree che avevano sopportato il peso maggiore delle ostilità fra i residenti: la galleria del decimo piano, la scuola materna, la terrazza panoramica con il giardino delle sculture per i bambini, il design e l’arredamento degli atri su cui si aprivano gli ascensori. Royal aveva scelto con immensa cura i rivestimenti per le pareti, ora coperte di oscenità tracciate con le bombolette. Era forse stupido da parte sua, ma non riusciva a non prenderlo come un fatto personale, in particolare perché era fin troppo consapevole dell’avversione che gli altri inquilini provavano nei suoi confronti… Il bastone cromato e il pastore tedesco bianco non erano più solo espedienti teatrali.

Da principio, l’ammutinamento di quei ricchi professionisti contro lo stabile che avevano collettivamente acquistato non era diverso dalle dozzine di rivolte di inquilini della classe operaia contro le torri dell’edilizia popolare, episodi ben documentati che si erano verificati con frequenza nel primo dopoguerra. Ma, anche agli inizi, Royal aveva scoperto di reagire agli atti di vandalismo contro il grattacielo come a offese personali. Il disfacimento dell’edificio in quanto struttura sociale era per lui una ribellione nei suoi confronti, al punto che nei primi giorni che erano seguiti alla morte del gioielliere si era aspettato un’aggressione.

In seguito, però, la rovina del grattacielo cominciò a rafforzare la sua volontà di reagire. Le prove a cui era sottoposto l’edificio che aveva collaborato a progettare erano prove anche per lui. Royal era convinto che la chiave per assicurare a quegli enormi palazzi il successo che non riuscivano a conseguire fosse una qualche forma di rigida organizzazione gerarchica. Come spesso faceva rilevare ad Anne, i palazzi per uffici, che contenevano fino a trentamila lavoratori, funzionavano tranquillamente per decenni grazie a una gerarchia sociale rigida e formalizzata come quella di un formicaio, con un’incidenza di reati, tensioni sociali e trasgressioni minori praticamente nulla. Il confuso ma inconfondibile affioramento di quel nuovo ordine sociale, fondato a quanto sembrava su piccole enclave tribali, affascinava Royal. Da principio era stato ben determinato a rimanere, qualsiasi cosa accadesse e nonostante l’ostilità nei suoi confronti, nella speranza di fare da levatrice al nuovo ordinamento. In effetti, soltanto quello gli aveva impedito di informare i suoi ex colleghi del caos che cresceva all’interno dell’edificio. Come si ripeteva spesso, la presente crisi del grattacielo poteva segnare l’inizio del successo invece che del fallimento. Senza rendersene conto, aveva dato a quella gente una via di fuga verso una vita nuova, e un modello di organizzazione sociale che sarebbe divenuto il paradigma di tutti i futuri grattacieli.

Ma il suo sogno, di aiutare i duemila abitanti del grattacielo a raggiungere la loro nuova Gerusalemme, per Anne non significava nulla. Quando l’impianto elettrico e l’aria condizionata avevano cominciato a tentennare ed era diventato pericoloso girare da soli per il palazzo, comunicò a Royal che sarebbero partiti. Facendo leva sul fatto che Royal si preoccupava per lei e sui suoi sensi di colpa per i guasti nell’edificio, in breve tempo lo aveva convinto che dovevano andarsene.

Volendo sapere a che punto era con i bagagli, Royal entrò in camera della moglie. Sul pavimento e sulla specchiera giacevano, aperti, due bauli e un’ampia scelta di valigie grandi e piccole, portagioie e beauty-case. Sembrava la vetrina di una valigeria. Anne stava riempiendo, o svuotando, una borsa davanti allo specchio. In tempi recenti, Royal aveva notato che si circondava intenzionalmente di specchi, come se la duplicazione di sé le desse una certa sicurezza. Anne aveva sempre dato per scontato un universo naturalmente deferente e quelle ultime settimane, perfino nella relativa sicurezza dell’attico, l’avevano duramente provata. Nella sua personalità era riaffiorata una tendenza all’infantilismo, come se adattasse il suo comportamento a una lunghissima festa del Cappellaio Matto a cui, come una riluttante Alice, era stata costretta a partecipare. Il viaggio fino al ristorante del trentacinquesimo piano era diventato un’ordalia quotidiana, e solo la prospettiva di lasciare il condominio le aveva permesso di reggere.

Si alzò e abbracciò Royal. Come al solito, senza pensarci gli sfiorò le cicatrici della fronte con le labbra, come se cercasse di leggervi un compendio dei venticinque anni che li separavano, la chiave di una parte della vita di Royal che non conosceva. Durante la convalescenza dall’incidente, mentre sedeva davanti alle finestre dell’attico o si esercitava alla macchina per la ginnastica ritmica, Royal si era accorto che le cicatrici la affascinavano.

“Che disordine.” Ma lei rivolse uno sguardo fiducioso al mucchio di valigie. “Ci vorrà circa un’ora… Hai chiamato il taxi?”

“Ce ne vorranno almeno due. Si rifiutano di aspettare, ora. È inutile chiamarli finché non siamo sul punto di uscire.”

Entrambe le loro auto, parcheggiate nelle file più vicine all’edificio, erano state danneggiate dagli inquilini di sotto, i parabrezza erano stati sfondati dalla caduta di varie bottiglie.

Anne tornò ai suoi bagagli. “L’unica cosa importante è che andiamo. Avremmo dovuto andarcene un mese fa, come volevo io. Non riesco a immaginare perché non se ne vadano tutti.”

“Anne, stiamo partendo…

“Finalmente… E perché nessuno ha chiamato la polizia? O protestato con i proprietari?”

“Siamo noi i proprietari.” Royal volse la faccia lontano da lei, mentre il suo sorriso affettuoso si irrigidiva. Dalla finestra osservò la luce che si affievoliva sulle pareti dei grattacieli vicini. Inevitabilmente, aveva sempre preso le critiche di Anne come osservazioni fatte a lui.

Royal aveva ormai capito che la sua giovane moglie non sarebbe mai stata felice nella speciale atmosfera del grattacielo. Figlia unica di un industriale di provincia, era stata allevata nell’isolato universo di una grande villa di campagna, la copia, esatta fino alla pignoleria, di un castello della Loira, della cui manutenzione si occupava una squadra di servitori in pieno stile ottocentesco. Nel condominio, invece, i servitori che lavoravano per lei erano un invisibile esercito di termostati, igrometri, commutatori di direzione computerizzati negli ascensori, che recitavano la loro parte in una versione infinitamente più raffinata della relazione servo-padrone. Ciò nonostante, nell’universo di Anne non era necessario soltanto che il lavoro fosse fatto, bisognava anche vedere che veniva fatto. Il costante e progressivo guastarsi dei servizi dell’edificio, insieme agli scontri fra gruppi rivali di inquilini, l’avevano spinta al limite, facendo leva sulla sua grande insicurezza e sull’inveterata paura di non riuscire a conservare la propria superiorità nel mondo, tanto diffusa nelle classi sociali elevate. I disordini di quelle settimane avevano svelato spietatamente le sue debolezze. Quando l’aveva conosciuta, Royal avrebbe giurato sulla sua assoluta fiducia in se stessa ma, in realtà, era vero il contrario: ben lungi dall’essere sicura di sé, Anne doveva continuamente riaffermare la sua posizione sul più alto piolo della scala. Per contro, i professionisti che le giravano attorno, e che avevano ottenuto tutto ciò che avevano come conseguenza del loro talento, erano dei modelli di fiducia in se stessi.

Quando si erano stabiliti nel grattacielo come primi inquilini, avevano entrambi considerato l’appartamento poco più di un pied-à-terre, comodo perché si trovava nell’area residenziale a cui Royal lavorava. Non appena avessero trovato casa a Londra se ne sarebbero andati. Ma poi Royal si era accorto di rinviare continuamente la decisione di trasferirsi. Era affascinato dalla vita in quella città verticale e dal genere di persone che venivano attratte dal suo comodo funzionalismo. Come primo inquilino e proprietario dell’appartamento più bello e più alto, si sentiva il signore del maniero, per prendere a prestito un’espressione di Anne che non gli piaceva. Il senso di superiorità fisica che gli derivava dall’essere stato un campione di tennis dilettante (aveva vinto un titolo secondario sulla terra battuta, ma la cosa suscitava una certa impressione), si era inevitabilmente attenuato con il passare degli anni ma, in un certo qual modo, era stato ravvivato dal fatto che tante persone vivessero direttamente sotto di lui. Sulle spalle delle loro dimore, tanto più modeste, la sua riposava al sicuro.

Anche dopo l’incidente, quando era stato costretto a vendere la sua quota societaria e a ritirarsi nell’attico su una sedia a rotelle, aveva percepito quel rinnovato senso di superiorità fisica. Nei mesi della convalescenza, mentre le sue ferite guarivano e il suo corpo riprendeva vigore, ciascuno dei nuovi inquilini in arrivo sembrava identificabile con il rafforzamento dei suoi muscoli e tendini, o con il ritorno alla rapidità dei riflessi: ciascuno di loro portava il suo invisibile tributo al ristabilimento di Royal.

Quanto ad Anne, invece, il continuo flusso di nuovi arrivi la sconcertava e l’irritava. A lei l’appartamento era piaciuto quando erano stati soli in tutto il grattacielo e aveva dato per scontato che non sarebbe mai arrivato nessuno. Usava gli ascensori come se fossero le cabine, grandiosamente tappezzate, di una funivia privata, nuotava da sola nelle placide acque delle due piscine e passeggiava per la galleria dei negozi come se andasse nella sua banca, parrucchiere e supermarket privati. Quando gli ultimi dei duemila inquilini dell’edificio presero possesso della loro casa nei piani bassi, Anne già non vedeva l’ora di andarsene.

Royal invece era attratto dai suoi nuovi vicini, non riusciva a pensare a migliori campioni dell’etica puritana del lavoro. A sua volta, seppe da Anne che loro lo consideravano un personaggio sconcertante e freddo, la vittima di un incidente stradale che viveva in carrozzella sul tetto del grattacielo, nel trascurato ménage con una giovane e ricca moglie che aveva la metà dei suoi anni e che lui era contento di veder uscire con altri uomini. Nonostante quella simbolica evirazione, Royal veniva comunque considerato quello che aveva le chiavi dell’edificio. La fronte coperta di cicatrici e il bastone cromato, la giacca bianca che ostentava indossandola come un bersaglio, tutti questi elementi nel loro complesso sembravano formare un codice che celava la vera natura dei rapporti fra l’architetto dell’immenso stabile e i suoi imbarazzati inquilini. Perfino le sempre imminenti promiscuità di Anne facevano parte dello stesso sistema di ironie, e soddisfacevano il gusto di Royal per le situazioni di “gioco”, dove si poteva rischiare tutto senza perdere niente.

Royal era molto interessato agli effetti che tutte queste cose producevano sui suoi vicini, in particolare sui torelli selvaggi come Richard Wilder, che sarebbe partito per scalare l’Everest equipaggiato solo della sua rabbia perché la montagna era più grossa di lui; oppure sui tipi come il dottor Laing, che passava la giornata a guardar fuori del balcone, beandosi dell’impressione di essere totalmente distaccato dal grattacielo, quando in effetti ne era probabilmente l’inquilino più autentico. Ma almeno Laing sapeva stare al suo posto. Tre notti prima erano stati costretti a dare a Wilder una piccola, dura lezione.

Pensando all’intrusione di Wilder – solo uno dei tanti tentativi di penetrare negli appartamenti dei piani superiori da parte di persone di sotto – Royal uscì dalla camera e andò a controllare le serrature della porta d’ingresso.

Anne aspettava, mentre lui era fermo in mezzo al corridoio deserto. Dai piani più bassi proveniva un cupo, continuo momorio, salito fin lassù attraverso le colonne degli ascensori. La donna indicò le tre valigie di Royal.

“È tutto lì quello che hai preso?”

“Per ora. Per tutto il resto tornerò.”

“Tornare? E perché vuoi tornare? Forse preferiresti rimanere?”

A se stesso, più che alla moglie, Royal disse: “Il primo ad arrivare, l’ultimo a partire…”.

“È uno scherzo?”

Naturalmente no.”

Anne pose una mano sul suo petto, come se stesse cercando una vecchia ferita. “È proprio finita, lo sai anche tu. Mi spiace doverlo dire, ma questo posto non ha funzionato.”

“Forse no…” La commiserazione di Anne aveva un sapore parecchio amaro per Royal. Senza rendersene conto, Anne toccava spesso il tasto del suo fallimento, terrorizzata dalla recente risoluzione di Royal di affrontare la prova, dalla sua convinzione che dopo tutto il palazzo poteva anche avere successo. Per di più, i suoi vicini lo avevano accolto un po’ troppo prontamente come loro capo. La quota associativa di Royal nel consorzio era stata largamente ripagata dalle commissioni che il padre di lei aveva stornato a suo favore, una cosa che Anne non gli aveva mai permesso di dimenticare, non per umiliare Royal ma per provargli quanto anche lei valesse. E comunque, l’idea era quella. D’accordo, era salito in alto nel mondo, ma in troppi sensi. Il suo incidente avrebbe potuto perfino considerarsi un folle tentativo di uscire dalla trappola.

Ma tutto ciò ormai apparteneva al passato. Come Royal ben sapeva, partivano appena in tempo. Negli ultimi giorni la vita nel grattacielo era divenuta impossibile. Per la prima volta gli inquilini dei piani alti erano stati coinvolti direttamente. L’erosione continuava e interessava tutto, era una lenta valanga psicologica che li stava trascinando in basso.

In superficie, la vita nel condominio scorreva abbastanza normale… La maggior parte degli inquilini andava in ufficio ogni mattina, il supermarket era ancora aperto, la banca e il parrucchiere funzionavano come al solito. Nonostante questo, in realtà l’atmosfera che si respirava all’interno era quella di una difficile coesistenza fra tre campi armati. Le posizioni si erano completamente irrigidite e quasi non c’erano più contatti di nessun genere fra il gruppo superiore, quello centrale e quello inferiore. Nelle prime ore della giornata era possibile spostarsi liberamente nell’edificio, ma nel pomeriggio, con l’avanzare delle ore, diventava sempre più difficile. Dal tramonto in poi ogni spostamento era impossibile. La banca e il supermarket chiudevano alle tre. La scuola materna aveva traslocato dai suoi locali devastati dai vandali in due appartamenti del settimo piano. Al di sopra del decimo piano si vedevano ben pochi bambini, per non parlare del giardino delle sculture, che Royal aveva progettato per loro con tanta cura. La piscina del decimo piano era una fossa semivuota di acqua gialla e rifiuti galleggianti. Uno dei campi di squash era sbarrato, gli altri tre erano pieni di spazzatura e mobili rotti della scuola. Dei venti ascensori del palazzo, tre erano fuori servizio in permanenza e gli altri, la sera, diventavano le linee di transito private dei gruppi rivali che riuscivano a impadronirsene. Cinque piani erano privi di elettricità. Di notte le cinque strisce buie attraversavano la facciata del grattacielo come strati già morti di un cervello che se ne andava.

Per fortuna di Royal e dei suoi vicini, le condizioni del settore più elevato dell’edificio non avevano ancora cominciato a peggiorare così vertiginosamente. Il ristorante aveva interrotto il servizio serale, ma a mezzogiorno era ancora possibile trovare una limitata scelta di piatti, nelle poche ore in cui lo scarso personale poteva liberamente entrare e uscire. Due camerieri se n’erano già andati, però, e Royal immaginava che il cuoco e sua moglie li avrebbero seguiti di lì a poco. La piscina del trentacinquesimo era ancora utilizzabile, ma il livello era precipitato e la fornitura d’acqua, come del resto accadeva negli appartamenti, dipendeva dai capricci dei serbatoi sul tetto e delle pompe elettriche.

Dalle finestre del salotto Royal guardò nel parcheggio. Molte macchine non erano più state spostate, nelle ultime settimane: con i parabrezza rotti, gli abitacoli pieni di spazzatura e le gomme a terra giacevano circondate da un mare di rifiuti che, tutto attorno all’edificio, si apriva verso l’esterno come una macchia che si sta allargando.

Quell’indicatore visibile del degrado del palazzo misurava allo stesso tempo quanto gli inquilini riuscissero a sopportare il processo di erosione. A volte Royal sospettava che i suoi vicini inconsciamente sperassero in un ulteriore deterioramento di tutto. Aveva notato che l’ufficio dell’amministratore non era più sotto l’assedio degli abitanti indignati. Perfino i suoi vicini degli ultimi piani, che ai vecchi tempi erano sempre prontissimi a protestare per qualsiasi cosa, ora non criticavano mai l’edificio. In assenza dell’amministratore – ancora a letto nel suo appartamento del pianoterra, in uno stato di prostrazione mentale – il suo staff, in costante diminuzione (erano rimaste in due: le mogli di un tecnico del suono del secondo piano e di un primo violino del terzo), restava stoicamente alle scrivanie dell’ingresso, dimentico del deterioramento che avanzava in fretta sopra le sue teste.

Ma ciò che interessava Royal era come gli inquilini erano diventati esageratamente violenti nell’interazione con l’edificio, maltrattando deliberatamente gli ascensori e l’impianto di condizionamento, sovraccaricando l’impianto elettrico. Quella negligenza di fronte ai propri interessi era il riflesso di un mutamento nelle loro priorità mentali e forse dell’emergere del nuovo ordine sociale e psicologico che Royal aspettava. Ricordava l’attacco a Wilder, che aveva riso allegramente quando il gruppo di pediatri e docenti universitari aveva cominciato a picchiare su di lui con i manubri come una squadra di ginnasti impazziti. Royal aveva trovato l’episodio grottesco, ma immaginava che, per chissà quale oscura via, Wilder fosse stato contento di farsi buttare, mezzo svenuto, in un ascensore.

Royal si mise a passeggiare fra i mobili coperti dai teli. Levò il bastone e vibrò nell’aria stagnante un colpo identico a quello inferto a Wilder. Da un momento all’altro sarebbe arrivato un battaglione di poliziotti, li avrebbe caricati tutti sui cellulari e li avrebbe portati in prigione. O no? Ciò che giocava nettamente a favore degli inquilini era la natura marcatamente autosufficiente del grattacielo, un’enclave autoamministrata entro il più vasto dominio privato dell’area residenziale. L’amministratore e i suoi collaboratori, il personale che gestiva il supermarket, la banca e il salone del parrucchiere abitavano tutti nel condominio; i pochi esterni se ne erano andati o erano stati mandati a spasso. I tecnici che provvedevano alla manutenzione dell’edifìcio lavoravano in base alle istruzioni impartite dall’amministratore e, chiaramente, non ne avevano più ricevute. Forse gli avevano perfino detto di starsene lontani… Da parecchi giorni il camion per la raccolta dei rifiuti non passava e un gran numero degli scivoli si era bloccato.

A dispetto del caos crescente che li circondava, i residenti mostravano un minore interesse per il mondo esterno. Sacchi di posta ancora da suddividere giacevano in giro negli atri del pianterreno. Come i rifiuti sparsi attorno al grattacielo, le bottiglie rotte e le lattine, anche quelli, dall’esterno, non si vedevano quasi. Perfino le auto danneggiate erano entro certi limiti nascoste dai mucchi di materiali edili, tavole di legno e sabbia che dovevano ancora essere sgomberati. A parte tutto, l’inconscia cospirazione per tenere fuori il mondo esterno faceva sì che al grattacielo non arrivassero visite. Da mesi lui e Anne non invitavano più i loro amici a casa.

Royal osservò la moglie che girava per la camera. Era venuta a trovarla Jane Sheridan, la sua migliore amica, e la stava aiutando a fare i bagagli. Le due donne stavano trasferendo una fila di abiti da sera dalle grucce dell’armadio ai bauli e, allo stesso tempo, stavano spostando camicette e pantaloni, che non volevano più, dalle valigie di nuovo sui ripiani. Nonostante fossero molto attive non si capiva se stessero facendo i bagagli per una partenza o disfacendoli dopo un arrivo.

“Anne… Ma parti o arrivi?” chiese Royal. “Non so se ce la facciamo per stasera.”

Anne indicò con un gesto disperato le borse mezze piene. “È l’aria condizionata… Non riesco a pensare.”

“Non potresti uscire neanche se volessi,” le disse Jane. “Siamo confinati qui, per quello che ne so. Tutti gli ascensori sono stati requisiti da altri piani.”

“Cosa? Hai sentito?” Anne fissò Royal piena di collera, come se la sua errata progettazione degli atri davanti agli ascensori fosse direttamente responsabile di quegli atti di pirateria. “Va bene, partiremo domattina presto. E per mangiare? Il ristorante sarà chiuso.”

Non avevano mai mangiato a casa… In quel modo, Anne manifestava il suo disprezzo per le infinite preparazioni di pasti complicati da parte dei vicini. L’unico cibo che avevano in frigo era quello per il cane.

Royal si guardò allo specchio, sistemandosi la giacca bianca. Nella luce del tramonto la sua immagine rimandava una vibrazione quasi spettrale, facendolo apparire come un cadavere ben illuminato. “Penseremo a qualcosa.” Una risposta curiosa, notò, che sembrava sottintendere che ci fossero altre fonti di cibo diverse dal supermarket. Abbassò lo sguardo sulla morbida figura di Jane Sheridan. Vedendo l’espressione soggiogata di Royal, lei gli rivolse un sorriso rassicurante. Da quando le era morto il levriero afghano, Royal si era assunto il compito di badare a quell’amabile giovane donna.

“Gli ascensori potrebbero liberarsi fra un’ora, più o meno,” disse loro. “Scenderemo al supermarket.” Gli venne in mente il pastore tedesco, che presumibilmente stava dormendo sul letto nell’attico, e allora decise di portarlo a fare un po’ di movimento sul tetto.

Anne aveva cominciato a svuotare le valigie mezze piene. Sembrava non rendersi conto del tutto di quel che faceva, come se una gran parte della sua mente si fosse spenta. Nonostante tutte le sue lamentele non aveva mai telefonato di persona all’amministratore. Forse pensava che una cosa del genere l’avrebbe sminuita, ma non aveva mai neppure accennato alla più piccola critica con nessuno degli amici estranei al mondo del condominio.

Mentre ci pensava, Royal si accorse che la spina del telefono sul comodino di lei era stata staccata dalla presa, e il cavo avvolto per bene attorno alla cornetta.

Mentre girava per l’appartamento, prima di uscire in cerca del cane, vide che anche gli altri tre telefoni collegati all’esterno, in anticamera, salotto e cucina, erano stati staccati. Royal capì allora come mai per tutta la settimana precedente non aveva ricevuto telefonate da fuori e provò una precisa sensazione di sicurezza sapendo che non ne avrebbe ricevute nemmeno in futuro. Indovinava già che, nonostante i propositi dichiarati, non sarebbero partiti né la mattina dopo né mai.

8.

Gli uccelli predatori

Dalle finestre aperte dell’attico Royal osservava i grossi uccelli raccolti in cima alle colonne degli ascensori, a quindici metri da lui. Esemplari di una specie poco comune di gabbiani, erano arrivati qualche mese prima risalendo il fiume e avevano cominciato a riunirsi fra i pozzi di aerazione e i serbatoi dell’acqua, infestando le gallerie del giardino delle sculture, ormai abbandonato. Durante la convalescenza ne aveva osservato gli arrivi, seduto sulla sedia a rotelle sul suo terrazzo privato. In seguito, una volta che la macchina per la ginnastica fu installata, gli uccelli cominciarono a zampettare goffamente sulla terrazza mentre lui faceva i suoi esercizi. In qualche modo erano attratti dalla giacca bianca e dai capelli chiari di Royal, tanto vicini nelle tonalità al loro vivace piumaggio. Che lo considerassero uno di loro, un vecchio albatros zoppo che aveva trovato rifugio in cima a quel tetto remoto, nei pressi del fiume? A Royal l’idea piaceva, e ci pensava spesso.

Le portefinestre sbattevano nella brezza della sera. Il pastore tedesco era scappato, era andato a caccia per conto suo sulla terrazza panoramica lunga centocinquanta metri. Ora che l’estate era alla fine solo in pochi continuavano a salire sul tetto. I resti di un tendone da cocktail party, fradici di pioggia, giacevano nel canale di scolo sotto la balaustra. I gabbiani, con le grosse ali ripiegate, camminavano impettiti fra i grissini al formaggio sparsi attorno a uno scatolone. Le palme in vaso non venivano curate da mesi, e il tetto nel suo complesso assomigliava sempre di più a un vorace giardino.

Royal uscì sulla terrazza panoramica. Gli piaceva lo sguardo ostile degli uccelli appollaiati sulle colonne degli ascensori. Fra le sedie rovesciate e le palme che crescevano disordinatamente, oppure guardando un paio di occhiali gettati via, di quelli con i brillantini ma senza più gemme, si coglieva il senso di una rinascente barbarie. Cosa attirava gli uccelli in quell’isolato reame sul tetto? Mentre Royal si avvicinava, un gruppo di gabbiani si tuffò nell’aria, librandosi in picchiata per afferrare gli avanzi gettati da un balcone dieci piani sotto di loro. Si nutrivano dei rifiuti gettati nel parcheggio, ma a Royal piaceva pensare che i veri motivi per cui avevano scelto quel tetto fossero vicini ai suoi e che fossero volati lì da qualche paesaggio arcaico, chiamati dallo stesso presagio della sacra violenza che sarebbe venuta. Per paura che se ne andassero gli portava spesso del cibo, come per convincerli che valeva la pena di attendere.

Spinse i cancelli arrugginiti del giardino delle sculture. Dal telaio di una lanterna ornamentale prese una scatola di cereali, di norma riservata al pastore tedesco. Royal cominciò a spargerne i grani in mezzo alle gallerie di cemento e alle forme geometriche delle sculture da gioco. Progettare quel giardino gli aveva dato una particolare soddisfazione e gli spiaceva che i bambini non usassero più i giochi. Almeno era aperto agli uccelli. I gabbiani lo seguivano pieni di bramosia, le loro possenti ali quasi gli rovesciavano la scatola dalle mani.

Appoggiato al suo bastone, Royal girava attorno alle pozzanghere sul suolo di cemento. Aveva sempre desiderato un suo zoo personale, con una mezza dozzina di grossi gatti e, ancora più importante, un’immensa voliera con ogni specie di uccelli. Negli anni aveva schizzato molti progetti di zoo. Uno di essi – ironia della sorte – era una struttura a torre, dove gli uccelli sarebbero stati liberi di spostarsi in quei settori di cielo che erano poi la loro vera casa. Gli zoo e l’architettura delle grandi strutture erano sempre stati gli interessi più specifici di Royal.

Il corpo fradicio di un gatto siamese giaceva nella grondaia, dove gli uccelli lo avevano chiuso in angolo… La bestiola si era arrampicata per tutta la lunghezza di un pozzo di aerazione, provenendo dalle calde comodità di un appartamento molto più in basso, e aveva riabbracciato la luce del sole per pochi secondi, prima che gli uccelli lo facessero a pezzi. Accanto al gatto c’era la carcassa di un gabbiano. Royal la raccolse, sorpreso da quanto pesava, fece qualche passo avanti e con un lancio potente scagliò l’uccello nell’aria, lontano. Cadde a piombo verso il suolo, un tuffo quasi senza fine verso il basso, finché esplose come una bianca bomba sul cofano di un’auto parcheggiata.

Nessuno l’aveva visto, ma a Royal non sarebbe importato comunque. Nonostante l’acuto interesse che provava per i comportamenti dei suoi vicini gli riusciva difficile non guardarli dall’alto in basso. I cinque anni di matrimonio con Anne gli avevano fornito una nuova serie di pregiudizi. Di malavoglia, riconosceva di disprezzare i suoi compagni di residenza per come si adattavano volentieri ai posti assegnati loro nel condominio, per il loro ipertrofico senso di responsabilità, per la mancanza in loro di ogni fioritura colorata.

Ma, più di tutto, li guardava dall’alto in basso per il loro buongusto. L’edificio era un monumento al buongusto, alle cucine dal bel design, agli utensili e ai tessuti raffinati, ai mobili eleganti e mai ostentati… A farla breve, li odiava per la sensibilità estetica che quei colti professionisti avevano ereditato da tutte le scuole di design industriale, e da tutti i premiati progetti per l’arredamento di interni che erano diventati canonici nell’ultimo quarto del ventesimo secolo. Royal detestava quella ortodossia degli intelligenti. Quando andava in visita negli appartamenti dei suoi vicini provava una repulsione fisica per le linee delle loro caffettiere d’autore, per l’insieme ben modulato dei colori, per il buongusto e l’intelligenza che, come Mida, avevano trasformato tutto ciò che c’era in quelle case in un perfetto connubio tra funzione e design. In un certo senso, erano le avanguardie degli agiati e colti proletari del futuro, inscatolati in quegli appartamenti carissimi con i loro arredamenti eleganti, le loro intelligenti sensibilità e nessuna possibilità di fuga. Royal avrebbe fatto qualsiasi cosa per una decorazione volgare sulla cappa del caminetto, per una tazza del gabinetto non proprio candida, per un segnale di speranza. Grazie a Dio alla fine stavano riuscendo a evadere da quella prigione foderata di pelliccia.

Da ogni parte attorno a lui, il cemento bagnato di pioggia si estendeva verso l’esterno, perdendosi nella foschia della sera. Del pastore tedesco non c’era traccia. Royal era arrivato al centro del tetto. I gabbiani stavano appollaiati sui pozzi di aerazione e in cima alle colonne degli ascensori, e lo fissavano con occhi insolitamente vigili. Pensando che forse si erano già mangiati anche il cane, Royal diede un calcio a una sedia rovesciata e si diresse verso la tromba delle scale, gridando il suo nome.

A pochi passi dalla terrazza privata sul lato sud del tetto, ferma accanto alla balaustra, c’era una donna di mezza età avvolta in una lunga pelliccia. Scossa da brividi continui, aveva gli occhi fissi al di là dell’area residenziale, sulla superficie argentea del fiume. Un trio di chiatte seguiva un rimorchiatore controcorrente, e una motovedetta della polizia incrociava lungo la banchina settentrionale.

Avvicinandosi, Royal riconobbe la vedova del gioielliere. Attendeva l’arrivo della polizia che, per qualche perversa ragione, era troppo orgogliosa per chiamare da sé? Stava per domandarle se aveva visto il pastore tedesco, ma sapeva già che non avrebbe risposto. Il viso era truccato perfettamente, ma dalla cipria e dal rossetto emergeva un’espressione di ostilità estrema, uno sguardo duro come la pietra. Royal strinse forte il bastone. Le mani della donna erano nascoste alla sua vista e quasi pensò che, dentro la pelliccia, le dita ingioiellate stringessero due pugnali sguainati. Per qualche motivo, tutt’a un tratto si convinse che fosse lei la colpevole della morte del marito e che, da un momento all’altro, avrebbe potuto afferrarlo e spingerlo oltre il parapetto. Nello stesso tempo scoprì con sorpresa di aver voglia di toccarla, di metterle il braccio attorno alle spalle. Una specie di lunatica sessualità si era accesa in lui. Per un grottesco attimo, ebbe la tentazione di mostrarsi alla donna.

“Sto cercando il pastore tedesco di Anne,” disse senza convinzione. Poiché lei non rispondeva, soggiunse: “Abbiamo deciso di restare”.

Turbato dalle sue reazioni nei confronti di quella donna in lutto, Royal si allontanò e scese le scale fino al piano di sotto. Nonostante il dolore alle gambe camminava rapidamente lungo il corridoio, battendo il bastone sul muro.

Quando arrivò all’atrio di centro sentì chiaramente il furioso abbaiare del suo cane, e si accorse che veniva dal più vicino dei cinque ascensori ad alta velocità. Royal premette l’orecchio contro il pannello della porta. La cabina dell’ascensore in cui il pastore tedesco ringhiava e saltava era ferma al quindicesimo piano, con le porte tenute aperte a forza. Royal sentiva i pesanti colpi delle sbarre di ferro sul pavimento e sulle pareti, e le grida di tre assalitori, fra cui una donna: lo stavano picchiando.

Quando i guaiti del cane cessarono, finalmente l’ascensore rispose alla chiamata. La cabina salì fino all’ultimo piano, dove le porte si aprirono sull’animale che, quasi privo di conoscenza, si trascinava per il pavimento insanguinato. La testa e le spalle erano inzuppate di sangue. Le pareti della cabina erano striate di ciuffi di pelo.

Royal cercò di tranquillizzarlo, ma il pastore tedesco gli morse la mano, terrorizzato dal bastone. Parecchi dei suoi vicini si erano raccolti attorno a lui, equipaggiati di armi assortite: racchette da tennis, manubri e bastoni da passeggio. Furono invitati a scostarsi dai cenni di un amico di Royal, un ginecologo che abitava nell’appartamento vicino agli ascensori. Era un compagno di nuotate di Anne e spesso giocava con il cane sul tetto.

“Lascia che gli dia un’occhiata… Poveraccio, quei selvaggi ti hanno fatto del male…” Abilmente si infilò nell’ascensore e cominciò a consolare il cane. “Lo riportiamo nel tuo appartamento, Royal. Poi propongo che si parli della questione degli ascensori.”

Pangbourne si inginocchiò sul pavimento, emettendo una serie di strani suoni rivolti al cane. Da qualche settimana il ginecologo insisteva con Royal perché intervenisse sugli impianti di commutazione elettrica dell’edificio, come ritorsione contro i piani inferiori. Quel suo presunto potere sul grattacielo era la principale fonte di autorità di Royal sui suoi vicini, anche se sospettava che almeno Pangbourne avesse capito che non ne avrebbe mai fatto uso. Con quelle mani morbide e i suoi modi da ambulatorio, il ginecologo metteva addosso a Royal una certa agitazione, come se fosse sempre in procinto di sistemare un’incauta paziente in qualche compromettente posizione ginecologica. Per la verità, Pangbourne apparteneva alla nuova generazione di ginecologi che mai avrebbero toccato le loro pazienti e tanto meno le avrebbero aiutate a partorire. La sua specializzazione consisteva nell’analisi computerizzata dei pianti alla nascita, registrati su nastro, da cui riusciva a diagnosticare un’infinità di disturbi futuri. Giocava con quei suoi nastri come uno stregone, la versione più recente degli stregoni che studiavano la disposizione delle viscere. Curiosamente, l’unica relazione che Pangbourne aveva avuto nel grattacielo era stata con una ricercatrice, una ragazza bruna, snella e silenziosa che probabilmente passava il suo tempo a torturare piccoli mammiferi. Poco dopo lo scoppio delle ostilità l’aveva lasciata.

In ogni caso, con il pastore tedesco ferito ci sapeva fare. Royal restò in attesa mentre l’amico tranquillizzava il cane ed esaminava i tagli. Gli teneva il muso come se avesse appena liberato la povera bestia dal sacco amniotico. Insieme, i due un po’ trasportarono un po’ trascinarono il cane nell’appartamento di Royal.

Per fortuna, Anne e Jane Sheridan erano andate al supermarket del decimo piano, prendendo l’unico ascensore lasciato libero per il traffico generale.

Pangbourne sistemò il cane sul lenzuolo che ricopriva uno dei divani.

“Sono contento che fossi a casa,” gli disse Royal. “Non sei andato al lavoro?”

Pangbourne accarezzò la testa tumefatta del cane, con le mani bianche che passavano leggere sulle ferite. “Ci vado due volte la settimana, quanto basta per ascoltare le ultime registrazioni. Per il resto sono di guardia qui.” Lanciò a Royal un’occhiata pungente. “Se fossi in te, seguirei Anne un po’ più da vicino, non vorrai che sia…”

“Ottimo consiglio. Non hai mai pensato di andartene? La situazione ormai…”

Il ginecologo aggrottò le sopracciglia, come chiedendosi se Royal stesse scherzando. “Ho appena traslocato. Perché dovrei darla vinta a quella gente?” E indicò eloquentemente il pavimento col dito macchiato di sangue.

Impressionato dalla determinazione di quell’uomo raffinato e meticoloso nel difendere il suo territorio, Royal lo accompagnò alla porta, ringraziandolo per l’aiuto e promettendogli che avrebbe discusso con lui del sabotaggio degli ascensori. Nella mezz’ora che seguì Royal lavò le ferite del pastore tedesco. Anche se il cane si era addormentato, le macchie di sangue sul lenzuolo bianco rendevano Royal sempre più inquieto. Quell’aggressione aveva liberato in lui una volontà di lotta quasi inconscia. Fino ad allora Royal aveva esercitato un’influenza moderatrice, trattenendo i suoi vicini da ogni ritorsione che non fosse strettamente necessaria. Ora desiderava lo scontro a ogni costo.

Da qualche parte giù di sotto, una bottiglia cadde in frantumi su un balcone, una secca esplosione sul crescente sottofondo di giradischi al massimo, urla e tambureggiamenti. La luce nell’appartamento cominciava a diminuire, i mobili avvolti nei lenzuoli parevano sospesi attorno a lui come nuvole sgonfie. Il pomeriggio era finito e presto sarebbe cominciato il pericolo. Con il pensiero di Anne che cercava di tornare dal decimo piano, Royal si mosse per uscire di casa.

Davanti alla porta si fermò, con una mano sul quadrante dell’orologio. La sua preoccupazione per Anne non era mai stata così forte – o per lo meno si sentiva più possessivo nei suoi confronti – ma decise di far passare un’altra mezz’ora prima di andare a cercarla. Nella sua logica perversa, quella scelta avrebbe accresciuto l’elemento di pericolo, le probabilità di scontro. Si mise a passeggiare tranquillamente per l’appartamento, notando i telefoni sul pavimento, e i fili arrotolati con cura. Anche se fosse rimasta intrappolata da qualche parte, Anne non avrebbe potuto telefonargli.

Mentre attendeva che facesse buio, Royal salì nell’attico a guardare i gabbiani sulle colonne degli ascensori. Nella luce della sera la loro livrea era di un bianco vibrante. Quasi attendessero il calar del sole fra i cornicioni di un mausoleo, gli uccelli sbattevano le ali contro il cemento. Il confuso stato d’animo di Royal sembrava averli messi in agitazione, e gli uccelli si alzarono in volo tutti eccitati. Royal pensava alla moglie, alle possibili aggressioni dirette contro di lei, e un desiderio febbrile, quasi erotico, di pericolo e vendetta gli tendeva i nervi. Nel giro di venti minuti sarebbe uscito di casa e avrebbe compiuto la sua picchiata assassina giù per le colonne degli ascensori, una discesa di morte nel grattacielo. Si rammaricò di non poter portare con sé gli uccelli. Li immaginava precipitarsi per le colonne, scendere a spirale lungo la tromba delle scale per slanciarsi nei corridoi. Li guardava volteggiare nel cielo ascoltando i loro gridi, e pensava all’imminente violenza.

9.

Nell’area decaduta

Alle sette Anthony Royal partì, con il pastore tedesco bianco, per ritrovare sua moglie. Il cane si era ristabilito dalla bastonatura quel tanto che bastava per accompagnarlo, zoppicandogli davanti. La sua pelliccia umida era segnata da una vivace fioritura rossa. Royal era fiero di quelle tracce del combattimento, come delle macchie di sangue sulla sua giacca bianca. Quasi per imitare il cane portava il suo sangue sul petto e sui fianchi, a insegna di uno strumento da carnefice ancora da inventare.

Cominciò la sua discesa nelle profondità inferiori dell’edificio dall’atrio degli ascensori ad alta velocità. Da una delle cabine era appena uscito un gruppo di suoi vicini agitatissimi. Quattro piani più in basso, un appartamento era stato saccheggiato da una squadra di inquilini del quindicesimo piano. Quelle sporadiche incursioni negli appartamenti stavano diventando sempre più frequenti. Erano particolarmente vulnerabili gli appartamenti vuoti, anche se venivano lasciati per un solo giorno. Una specie di sistema comunicativo inconscio metteva in allarme gli aspiranti incursori, avvertendoli che un appartamento dodici piani sopra o sotto di loro era pronto per il saccheggio.

Non senza difficoltà, Royal trovò un ascensore che lo portò al trentacinquesimo piano. Il ristorante era chiuso. Dopo aver servito l’ultimo pranzo ai Royal, il cuoco e sua moglie se n’erano andati per davvero. Le sedie e i tavoli erano stati accatastati in una barricata davanti alla cucina e la porta girevole era bloccata da un lucchetto. Le lunghe vetrate panoramiche dalla magnifica vista erano chiuse, e le imposte erano state munite di catene. Il lato settentrionale della piscina era così finito al buio.

L’ultimo nuotatore, un analista di mercato del trentottesimo, stava lasciando la piscina. Sua moglie vigilava davanti alla cabina dove lui si stava cambiando. Squadrò il pastore tedesco che beveva dalla vasca, steso sulle piastrelle viscide vicino al trampolino. Quando il cane urinò contro la porta di una cabina vuota il suo viso rimase impassibile. Royal provò un piccolo moto d’orgoglio per quel gesto, che rinnovava un primordiale istinto territoriale. Marcando quella porta con la sua limpidissima urina, il cane identificava il piccolo territorio che era passato sotto il dominio del suo padrone.

Nell’ora che seguì, Royal continuò a cercare la moglie, scendendo sempre più in profondità nella zona centrale del grattacielo. Mentre passava da un piano all’altro, da un ascensore all’altro, scopriva fino a che punto fosse arrivato il deterioramento dello stabile. La rivolta degli abitanti contro il condominio era al culmine. Attorno agli scivoli intasati giacevano montagne di rifiuti. Le scale erano sommerse di vetri rotti, sedie di cucine ridotte in pezzi e tratti di ringhiera. Ancora più significativo era il fatto che i telefoni a gettone dei pianerottoli erano stati tutti divelti, perché gli inquilini, come del resto Royal e Anne, avevano concordemente interrotto ogni contatto con il mondo esterno.

Più scendeva e più gravi erano i danni: le porte antincendio scardinate, le finestrelle di controllo al quarzo sfondate. I corridoi e le scale che avevano ancora l’illuminazione elettrica erano pochissimi, e nessuno si era preso la briga di sostituire le lampadine rotte. Dalle otto in poi arrivava ben poca luce nei corridoi, che si trasformavano in gallerie semibuie, disseminate di sacchi della spazzatura. I dotti slogan tracciati dappertutto con vernici luminose si dipanavano attorno a Royal come una tappezzeria da incubo.

Gruppi rivali di inquilini si raccoglievano nelle entrate a guardia dei loro ascensori e nei corridoi per sorvegliarsi l’un l’altro. Molte donne avevano radio portatili a tracolla e passavano da una stazione all’altra come per metterle a punto, in vista di una guerra acustica. Altre portavano invece con sé macchine fotografiche e flash, pronte a registrare ogni atto ostile, ogni incursione nel loro territorio.

Cambiando spesso ascensore e facendo viaggi di due piani alla volta, Royal finalmente riuscì a scendere nella metà inferiore del condominio. Gli altri inquilini non lo infastidivano, si limitavano a tenerlo d’occhio quando penetrava nei loro atri e si scostavano quando li superava. Il pastore tedesco ferito e la giacca macchiata di sangue garantivano a Royal libero passaggio in mezzo ai clan rivali. Era come un proprietario terriero tradito che discendesse dalla sua fortezza per ostentare le ferite ricevute tra gli affittuari ribelli.

Quando raggiunse il decimo piano la galleria era quasi deserta. Alcune persone gironzolavano fra i negozi, fissando i banconi di metallo vuoti. La banca e lo spaccio di liquori erano chiusi, con la catena alle saracinesche. Di Anne nessuna traccia. Royal fece passare il pastore tedesco fra i battenti della porta che conduceva alla piscina, ormai mezza vuota. L’acqua gialla era piena di detriti di ogni genere, dalla parte bassa il pavimento era allo scoperto, come una spiaggetta in una laguna di rifiuti. In mezzo alle bottiglie galleggiava un materasso, attorniato da una melma formata da vari scatoloni di cartone e giornali.

Persino un cadavere passerebbe inosservato qui, pensò Royal. Mentre il pastore tedesco girava annusando tra le cabine distrutte, Royal agitava il bastone nell’aria umida, cercando di ravvivarla. Temeva che sarebbe presto soffocato, là nel settore inferiore dell’edificio. Perfino durante quella breve visita si sentiva schiacciato dalla pressione di tutte le persone che aveva sopra, dalle migliaia di vite individuali, ciascuna con il suo tempo e spazio compressi.

Dall’atrio degli ascensori che stava davanti alla piscina sentì giungere delle urla. Incitando il cane, Royal si portò rapidamente all’uscita posteriore della piscina, dietro i trampolini. Dalla porta a vetri poté osservare un’accesa lite davanti all’ingresso della scuola materna. Il confronto impegnava una ventina fra uomini e donne, un gruppo proveniente dai piani inferiori con banchi e seggiole, una lavagna e il cavalletto da pittore, l’altro che cercava di impedire ai sopravvenuti di rioccupare le classi.

In breve tempo scoppiarono le prime risse. Incitati da un montatore che brandiva un banco sopra la testa, i genitori avanzavano con determinazione. Gli oppositori, inquilini dell’undicesimo e dodicesimo piano, tenevano la posizione formando uno sbuffante cordone. Ne venne fuori una brutta zuffa, con uomini e donne che lottavano goffamente.

Royal trascinò via il pastore tedesco, decidendo di lasciare che sistemassero la loro contesa a spintoni. Mentre si voltava per continuare a cercare Anne, le porte di comunicazione fra le scale e l’atrio si spalancarono. Un gruppo di inquilini, tutti del quattordicesimo e quindicesimo, si slanciò fuori e si gettò nella mischia. Erano comandati da Richard Wilder, con la sua macchina da presa stretta in mano come un vessillo di guerra. Royal pensò che Wilder stesse filmando un episodio del documentario di cui parlava da tanto tempo e avesse organizzato lui tutta la scena. Ma Wilder era nel folto della mischia e brandiva minacciosamente la telecamera, incitando i nuovi alleati contro i suoi ex vicini. Il gruppo che aveva tentato il colpo di mano, con i genitori in rotta che lasciavano cadere banchi e lavagna, fu respinto verso la tromba delle scale.

Wilder sbatté la porta delle scale dietro i fuggitivi. Aver cacciato quelli che un tempo erano i suoi vicini e amici gli dava un’evidente, enorme soddisfazione. Agitando la sua telecamera, indicava una classe della scuola materna. Due giovani donne, la moglie di Royal e Jane Sheridan, si erano acquattate dietro un banco rovesciato. Come bambine prese con le mani nel sacco, fissavano Wilder che le indicava con gesti teatrali.

Tenendo il pastore tedesco con il guinzaglio corto, Royal aprì la porta a vetri della piscina. Superò a grandi passi gli inquilini, che stavano ora allegramente rompendo i banchi dei bambini.

“Va bene, Wilder,” gridò con voce ferma ma in tono noncurante. “Ci penso io.”

Passò davanti a Wilder ed entrò nella classe. Aiutò Anne a rialzarsi. “Vi porto via di qui… Non preoccuparti per Wilder.”

“Io non sono…” Nonostante quello che aveva passato, Anne era incredibilmente serena. Fissava Wilder con evidente ammirazione. “Mio Dio, è proprio matto…”

Royal aspettava l’attacco di Wilder. A dispetto dei vent’anni che li separavano, si sentiva calmo e padrone di sé, pronto per lo scontro fisico. Ma Wilder non accennò a muoversi. Studiava Royal con interesse, battendosi sotto l’ascella in modo quasi animale, come se fosse contento di vederlo ai piani bassi, finalmente impegnato anche lui nella lotta per il territorio e le donne. Aveva la camicia aperta fino alla vita e metteva in mostra con un certo orgoglio un torace grande come una botte. Teneva la macchina da presa contro la guancia, come per visualizzare il set e la coreografia di un complicato duello, che si sarebbe dovuto combattere in un’occasione più propizia, su un palcoscenico più in alto nell’edificio.

Quella notte, quando tornarono nel loro appartamento al quarantesimo piano, Royal si dispose a rivendicare il comando supremo sui piani più elevati del grattacielo. Per prima cosa, mentre sua moglie e Jane Sheridan riposavano insieme nel letto di Anne, si occupò del pastore tedesco. Gli diede da mangiare in cucina quello che restava del suo cibo. Le ferite sulla testa e le spalle erano dure come monete. Royal era più scosso per le lesioni inferte al cane che per qualsiasi affronto sua moglie avesse potuto subire. Era stato lui a rendere quasi inevitabili le difficoltà in cui Anne era venuta a trovarsi, rimandando le sue ricerche. Come aveva pensato, una volta finita la spesa al supermarket, Anne e Jane non erano riuscite a trovare un ascensore. Dopo essere state molestate nell’atrio da un tecnico audio ubriaco si erano rifugiate in quella classe vuota.

“Si fanno tutti i loro film, laggiù,” gli aveva raccontato la moglie, chiaramente affascinata dalla sua violenta esperienza, dal vivo, dei piani bassi. “Ogni volta che qualcuno viene pestato ci sono almeno dieci videocamere in funzione.”

“Li fanno vedere nella sala di proiezione,” aveva confermato Jane. “Si ammassano là dentro tutti insieme per assistere agli attacchi dell’uno e dell’altro.”

“Tutti tranne Wilder. Lui aspetta qualcosa di veramente raccapricciante.”

Entrambe le donne si erano automaticamente voltate a guardare Royal, ma lui aveva fatto finta di niente. In qualche oscura maniera, era stato il suo affetto per Anne che l’aveva portato a esporla ai suoi vicini di sotto, era il suo contributo al nuovo regno che avrebbero creato insieme. Per contro, il pastore tedesco apparteneva a un universo molto più prosaico. Aveva già capito che il cane poteva dimostrarsi molto utile ed era più facile da barattare di qualsiasi donna, nel futuro che li attendeva. Aveva inoltre deciso di non gettare via la giacca macchiata di sangue, era felice di portare sul petto il sangue del cane. Per questo aveva rifiutato le offerte di pulirla da parte delle mogli dei suoi vicini, che erano venute a confortare le due giovani donne.

Le aggressioni al pastore tedesco e alla moglie di Royal avevano fatto del suo appartamento un punto di riferimento naturale per i vicini, che avevano deciso di riappropriarsi dell’iniziativa prima di finire intrappolati sul tetto del grattacielo. A Pangbourne, Royal spiegò che per loro era vitale ottenere l’appoggio degli abitanti dei piani immediatamente sotto il trentacinquesimo.

“Per sopravvivere abbiamo bisogno di alleati da usare come stato cuscinetto contro qualsiasi attacco dai piani inferiori, ma anche perché ci diano accesso a un maggior numero di ascensori. Corriamo il rischio di venire tagliati fuori dalla massa centrale dell’edificio.”

“Giusto,” concordò il ginecologo, felice di vedere che in Royal si era finalmente risvegliata la consapevolezza della loro reale situazione. “Una volta trovato un punto d’appoggio laggiù possiamo manovrare quella gente contro gli altri ancora più in basso… In breve, balcanizzare il settore centrale e poi cominciare la colonizzazione dell’intero edificio…”

Ripensandoci, Royal ancora si sorprendeva di come era stato facile per loro portare a compimento quegli schemi elementari. Alle nove, prima che iniziassero le feste della notte, Royal aveva cominciato a cercare l’aiuto e il sostegno di chi abitava sotto la piscina del trentacinquesimo piano. Da esperto, Pangbourne giocava sulle loro rimostranze. Quelle persone avevano molti problemi in comune con gli inquilini degli ultimi piani: anche le loro auto erano state danneggiate, e avevano le stesse difficoltà per l’acqua e l’aria condizionata. Con un gesto calcolato, Royal e Pangbourne gli avevano offerto l’uso degli ascensori riservati. Per raggiungere i loro appartamenti non avrebbero più dovuto entrare dall’ingresso principale ed essere malmenati per i successivi trenta piani. Da allora in poi avrebbero potuto attendere un inquilino degli ultimi piani, entrare con lui dall’ingresso riservato e andare direttamente al trentacinquesimo piano, per scendere poi i pochi gradini che li separavano dai loro appartamenti.

L’offerta era stata accettata, mentre Royal e Pangbourne, di proposito, non avevano chiesto in cambio alcuna concessione. La delegazione era tornata al quarantesimo, e i suoi membri si erano dispersi nei vari appartamenti, a prepararsi per le feste di quella notte. Nelle prime ore della serata si erano verificati alcuni banali incidenti: una signora di mezza età, moglie di un account del ventottesimo piano, era stata tramortita e gettata nella piscina semivuota, mentre una radiologa del settimo piano era stata picchiata fra i caschi del parrucchiere. In complesso, però, nel grattacielo era tutto tranquillo. Con il procedere delle ore notturne, il rumore di una ininterrotta baldoria avrebbe riempito l’edificio. A partire dai piani più bassi, gli intrattenimenti si sarebbero irradiati per tutto il condominio, adornandolo di un’armatura di luce e festosità. In piedi sul balcone, Royal ascoltava la musica e le risate che salivano fino a lui, mentre aspettava che le due giovani donne si vestissero. Giù in fondo, un’auto passò per la strada d’accesso al grattacielo vicino e i tre passeggeri alzarono lo sguardo sulle centinaia di balconi pieni di gente. Chiunque avesse visto quella nave tutta illuminata avrebbe dato per scontato che le duemila persone che si trovavano a bordo vivessero insieme in uno stato di euforia collettiva.

Rinvigorite da quell’atmosfera tonificante, Anne e Jane si erano riprese rapidamente. Anne non aveva più parlato di lasciare il grattacielo e sembrava aver dimenticato persino di aver mai pensato di andarsene. Il parapiglia alla scuola materna le aveva dato quel senso di solidarietà con gli altri inquilini del grattacielo che prima le mancava. In futuro, la violenza sarebbe certo divenuta un valido collante sociale. Mentre Royal l’accompagnava alla prima festa della serata, organizzata da un editorialista del trentasettesimo piano, Anne passeggiava sottobraccio a Jane, imbaldanzita dai resoconti di ulteriori scontri e dalla notizia che altri due piani, il sesto e il quattordicesimo, erano al buio.

Pangbourne si congratulò con Royal come se lo credesse responsabile della cosa, o quasi. Nessuno, nemmeno ai piani più alti, sembrava accorgersi del contrasto fra la gran classe dei partecipanti alle feste e lo stato di cadente abbandono dell’edificio. Lungo i corridoi ingombri di spazzatura che nessuno aveva portato via, davanti agli scivoli per i rifiuti bloccati e agli ascensori devastati, passavano uomini in smoking di ottimo taglio. Donne elegantissime sollevavano le lunghe gonne per passare sopra i cocci delle bottiglie rotte. Il profumo di costosissime lozioni dopobarba si mescolava all’aroma degli avanzi di cucina.

Royal era compiaciuto da tali contrasti, che mostravano quanto quei civili e boriosi professionisti, uomini e donne, si stessero allontanando da ogni nozione di comportamento razionale. Pensò al suo confronto con Wilder, che riassumeva in sé tutte le forze in lotta nel grattacielo. Wilder aveva chiaramente ripreso la sua ascensione all’edificio, ed era arrivato al quindicesimo piano. A rigore, il grattacielo avrebbe dovuto essere completamente deserto tranne che per Wilder e lui. Il vero duello si sarebbe risolto fra i corridoi deserti e gli appartamenti abbandonati del palazzo che stava nelle loro menti, con gli uccelli come unici spettatori.

Ora che l’aveva accettata, la minaccia di violenza che regnava nell’aria aveva reso Anne più matura. Fermo accanto al camino, nel salotto dell’editorialista, Royal la guardava con affetto. Non civettava più con gli anziani uomini d’affari e i giovani imprenditori, ma ascoltava attentamente il dottor Pangbourne, come se si rendesse conto che il ginecologo poteva esserle utile in molti modi al di là di quello puramente professionale. Nonostante il piacere che aveva provato nell’esporla agli altri inquilini, Royal si sentiva molto più protettivo verso di lei. E quella sua territorialità sessuale era estesa a Jane Sheridan.

“Hai pensato alla proposta di stabilirti da noi?” le chiese. “Il tuo appartamento è molto esposto.”

“Mi piacerebbe… Anne me ne ha parlato. Ho già portato qualcosa da voi.”

Royal si mise a ballare con lei nel corridoio tra i mucchi di spazzatura, palpandole apertamente i fianchi forti e le cosce, come se, in una specie di inventario, affermasse i suoi diritti su quelle parti del suo corpo per il tempo a venire.

Qualche ora dopo, quando era già passata la mezzanotte e Royal cominciava ad avere la sensazione che quelle feste durassero da sempre, si ritrovò, ubriaco, in un appartamento vuoto del trentanovesimo piano. Sdraiato su un divano, con Jane che si appoggiava alla sua spalla, era circondato da tavoli carichi di bicchieri e portacenere sporchi, i resti di una festa abbandonata dagli ospiti. La musica proveniente dai balconi vicini era di tanto in tanto coperta dal rumore di sporadici atti di violenza. Da qualche parte un gruppo di condomini mandava urla sconnesse, picchiando sulla porta di una colonna d’ascensore.

Un guasto elettrico aveva fatto andar via la luce. Royal, sempre sdraiato, cercava di ancorare il cervello, che girava lentamente, all’illuminazione del grattacielo vicino. Senza pensarci, cominciò ad accarezzare i seni pesanti di Jane. Lei non fece nulla per scostarsi da lui. Qualche attimo dopo, quando tornò la luce e si riaccese un’unica lampada da tavolo che stava sul pavimento del balcone, riconobbe Royal e si sistemò sopra di lui.

Sentendo un rumore che veniva dalla cucina, Royal volse lo sguardo e vide sua moglie, seduta al tavolo in abito da sera, con una mano posata sulla caffettiera elettrica che si stava scaldando. Royal circondò Jane con le braccia e la strinse a sé con deliberata lentezza, come se stesse facendo un replay al rallentatore per la moglie. Sapeva che Anne li vedeva, ma lei se ne stava tranquilla al tavolo di cucina, accendendosi una sigaretta. Durante l’atto sessuale che seguì li fissò in silenzio come se approvasse, non perché reagisse con eleganza all’infedeltà del marito ma, come Royal aveva compreso, per un sentimento di solidarietà tribale, una completa sottomissione al capo del suo clan.

10.

Il lago asciutto

La mattina successiva, poco dopo l’alba, Robert Laing stava sul suo balcone al venticinquesimo piano e mangiava una frugale colazione, ascoltando i primi rumori delle attività che riprendevano negli appartamenti attorno a lui. Alcuni condomini già lasciavano il palazzo per andare al lavoro, camminando fra i detriti verso le loro auto chiazzate di spazzatura. Diverse centinaia di persone uscivano ancora, tutte le mattine, per raggiungere i loro uffici e i loro studi, gli aeroporti e le sale d’asta. Nonostante la scarsità dell’acqua e del riscaldamento, quegli uomini e donne erano ben vestiti e curati, il loro aspetto non tradiva alcun indizio degli eventi verificatisi nelle precedenti settimane. E tuttavia, senza rendersene conto, molti di loro avrebbero passato gran parte del tempo addormentati alla scrivania, nei loro uffici.

Laing mangiava la sua fetta di pane con metodica lentezza. Seduto sulle piastrelle rotte di quel balcone, si sentiva come un povero pellegrino partito per un rischioso viaggio verticale, e ora impegnato in quel semplice e significativo rituale nel suo bizzarro sacrario.

La notte precedente aveva portato con sé il caos totale: feste di ubriachi, risse, saccheggi negli appartamenti trovati vuoti e aggressioni a tutti gli inquilini isolati. Vari altri piani erano rimasti al buio, compreso il ventiduesimo, dove viveva sua sorella. Quasi nessuno aveva dormito. Sorprendentemente, erano però poche le persone che mostravano i segni della stanchezza, come se l’economia delle loro giornate da diurna fosse divenuta notturna. Laing aveva una mezza idea che l’insonnia, di cui tanti suoi vicini avevano sofferto, fosse una specie di preparazione inconscia alla successiva emergenza. Lui stesso si sentiva vigile e fiducioso: nonostante le contusioni sulle spalle e sulle braccia, fisicamente era in gran forma. Alle otto aveva intenzione di ripulirsi e andare alla Facoltà di Medicina.

Laing aveva passato la prima parte della nottata a rimettere a posto l’appartamento di Charlotte Melville, che era stato saccheggiato da ignoti intrusi mentre lei e il figlioletto si erano rifugiati da amici. Più tardi aveva dato una mano a far la guardia a un ascensore di cui i suoi vicini si erano impossessati per varie ore. Non che ci fossero poi andati da qualche parte… Nel requisire gli ascensori la cosa importante era trattenerli per un intervallo psicologicamente efficace.

La serata era cominciata, come al solito, con una festa da Paul Crosland, conduttore del telegiornale e ora capoclan. Crosland era stato trattenuto agli studi, ma i suoi ospiti lo avevano guardato leggere il notiziario delle nove, e raccontare con la sua voce ben modulata e familiare di un incidente nell’ora di punta in cui erano morte sei persone. Come i vicini raccolti attorno al televisore, Laing si aspettava che Crosland riferisse anche degli altrettanto calamitosi eventi verificatisi nel grattacielo, per esempio della morte del gioielliere (ormai totalmente dimenticata) o della divisione degli inquilini in campi avversi. Forse, alla fine del telegiornale, avrebbe aggiunto un messaggio speciale per i membri del suo clan che, al momento, si stavano preparando i cocktail fra i sacchi della spazzatura nel suo salotto.

Quando finalmente Crosland era arrivato, con il giubbotto foderato di montone e gli stivali da pilota, erano già tutti ubriachi. Rossa ed eccitata, Eleanor Powell si era avvicinata ancheggiando a Laing e, puntandogli scherzosamente il dito contro, lo aveva accusato di aver cercato di introdursi nel suo appartamento. A questa notizia tutti lo avevano acclamato, come se lo stupro fosse un valido e sicuro mezzo per rafforzare i legami fra membri del clan.

“Un basso indice di criminalità, dottore,” gli aveva detto lei amabilmente, “è il segno più certo di una carenza di socializzazione.”

Bevendo forte e senza il minino autocontrollo, Laing aveva sentito l’alcol attraversargli impetuosamente il cervello. Sapeva che si stava eccitando di proposito, per reprimere ogni riserva nei confronti del buonsenso di persone come Crosland. Su un piano più prosaico, ubriacarsi era praticamente l’unico modo per avvicinare Eleanor Powell. Da sobria era fastidiosamente lacrimosa, e vagava a vuoto per i corridoi, come se avesse perso la chiave della sua mente. Dopo un paio di cocktail diventava iperattiva, si accendeva e si spegneva di scatto come un televisore che trasmetteva sprazzi di programmi straordinari, ma Laing riusciva a comprenderli solo se era ubriaco pure lui. Anche se Eleanor non smetteva di contraddirlo, quando aveva inciampato nei sacchi della spazzatura sotto il mobile bar lui l’aveva aiutata a rimettersi dritta, eccitato dal gioco delle sue mani sui risvolti della giacca. Non era la prima volta che Laing ci pensava: lui e i suoi vicini erano tanto assetati di quei disordini perché li consideravano un mezzo efficace per ampliare la loro vita sessuale.

Laing vuotò la caraffa del caffè al di là della balaustra. Sulla facciata dell’edificio era stesa una coltre untuosa formata dai residui della cascata di rifiuti che tutti ora gettavano senza preoccuparsi se il vento li mandava a finire negli appartamenti di sotto. Riportò in cucina il vassoio della colazione. I continui blackout avevano guastato i cibi conservati in frigorifero. In fila in mezzo alla muffa c’erano bottiglie di latte andato a male. Il burro rancido gocciolava dalle griglie dei ripiani. L’odore della roba da mangiare in decomposizione era abbastanza piacevole, ma Laing aprì un sacco di plastica e buttò tutto dentro. Poi lo gettò nel corridoio, dove andò a raggiungere, nella luce fioca, una ventina di altri sacchi.

Un gruppo di suoi vicini stava litigando a voce alta sul pianerottolo degli ascensori. Fra loro e gli abitanti del ventottesimo si stava svolgendo una piccola disputa. Crosland sbraitava minacciosamente nella colonna dell’ascensore vuota. Di norma, a quell’ora del mattino, Laing non gli prestava la minima attenzione. Spessissimo Crosland non aveva idea del motivo per cui litigava. L’importante era lo scontro. Senza trucco e con quell’espressione offesa in volto, Crosland sembrava un giornalista televisivo a cui avessero per scherzo fatto leggere una serie di cattive notizie su di lui.

Dall’ombra comparve davanti alla sua porta, con studiata noncuranza, il chirurgo ortodontista. Steele e la moglie, con la sua faccia impenetrabile, erano fermi da un po’ fra i sacchi della spazzatura, e tenevano d’occhio la situazione. Lui, camminando di sghembo, raggiunse Laing e gli afferrò il braccio in una presa delicata ma complessa, il genere di posizione che avrebbe potuto assumere per un’estrazione inconsueta. Gli indicò i piani superiori.

“Vogliono sigillare le porte per sempre,” spiegò. “Rifaranno due circuiti degli ascensori per farli andare senza fermate dal pianoterra al ventottesimo.”

“E noi?” chiese Laing. “Come facciamo a uscire dall’edificio?”

“Mio caro Laing, suppongo che di noi non gli importi granché. La loro reale intenzione è dividere lo stabile a metà… Qui, al venticinquesimo. Il nostro piano è un punto chiave per gli impianti elettrici. Tagliando fuori i tre piani sotto di noi si procureranno una zona cuscinetto che separi la metà superiore dalla metà inferiore del palazzo. Assicuriamoci, dottore, di essere dalla parte giusta del cuscinetto quando questo avverrà…”

Si interruppe quando vide la sorella di Laing che si avvicinava con in mano la caffettiera elettrica. Con un inchino, Steele si allontanò nell’ombra, muovendo con destrezza i piccoli piedi tra i sacchi della spazzatura, con la scriminatura che brillava nella luce fioca. Laing lo guardò scivolare silenziosamente nel suo appartamento. Non c’era dubbio che Steele avrebbe trovato la sua strada con identica abilità anche in mezzo ai futuri pericoli. Da un po’ di tempo non lasciava mai il palazzo, Laing l’aveva notato. Cos’era successo alla sua implacabile ambizione? Dopo le battaglie delle ultime settimane stava probabilmente facendo affidamento su un’imminente crescita della domanda di chirurgia avanzata della bocca.

Mentre Laing salutava Alice si rese conto che, se il chirurgo aveva ragione, anche sua sorella sarebbe rimasta fuori, a vivere al buio dalla parte sbagliata della linea di demarcazione, con quell’alcolizzato di suo marito. Apparentemente era salita per collegare la caffettiera alla presa della cucina di Laing ma, quando entrarono in casa, la lasciò distrattamente sul tavolo della sala. Uscì sul balcone e guardò fuori nell’aria del mattino, come se fosse contenta di avere quei tre piani in più sotto di lei.

“Come sta Charles?” chiese Laing. “È in ufficio?”

“No… Si è preso qualche giorno di vacanza. Definitiva, se vuoi la mia opinione. E tu? Non dovresti trascurare i tuoi studenti. Se le cose andranno come sembra avremo bisogno che diventino tutti medici alla svelta.”

“Ci vado stamattina. Ti farebbe piacere se dessi un’occhiata a Charles, mentre esco?”

Alice ignorò l’offerta. Si afferrò alla balaustra e cominciò a dondolarsi come una bambina. “C’è una gran pace, qui, Robert, tu non hai idea di come vanno le cose per la maggior parte della gente.”

Laing rise forte, divertito dall’idea di Alice secondo cui per qualche motivo lui non sarebbe stato toccato dagli avvenimenti delle ultime settimane… Era la tipica supposizione da sorella maggiore martirizzata, costretta durante la loro infanzia a badare a un fratellino molto più piccolo.

“Vieni qui quando vuoi.” Laing le mise un braccio attorno alle spalle, dandole un appoggio nel caso perdesse l’equilibrio. In passato si era sempre sentito fisicamente respinto da Alice, per la sua forte somiglianza con la loro madre ma, per ragioni non completamente sessuali, quella somiglianza ora lo eccitava. Desiderava toccarle i fianchi, posarle la mano sul seno. Come se ne fosse consapevole, lei si appoggiava passivamente contro di lui.

“Usa la mia cucina, stasera,” le disse Laing. “Da quel che sento, ci sarà un gran caos. Sarai più al sicuro, qui.”

“D’accordo… Ma il tuo appartamento è così sporco.”

“Lo pulirò per te.”

Controllandosi, Laing guardò la sorella. Capiva ciò che stava accadendo? Senza volerlo, stavano prendendo accordi per un convegno amoroso.

In tutto il grattacielo la gente stava facendo i bagagli, si preparava per viaggi brevi quanto significativi, qualche piano in su o in giù, oppure lateralmente, verso l’altro capo del corridoio. Ed era in pieno svolgimento anche un segreto, ma non per questo meno concreto, movimento di partner coniugali. Charlotte Melville ora stava con uno statistico del ventinovesimo piano e aveva quasi lasciato il suo appartamento. Laing l’aveva vista partire senza rancore. Charlotte aveva bisogno di qualcuno che le tirasse fuori la sua energia e il suo coraggio.

Pensando a lei, Laing sentì invece il rammarico di non essere riuscito a trovare nessuna per sé. Ma forse Alice gli avrebbe dato l’aiuto pratico di cui aveva bisogno, con quella sua dedizione, ora tanto fuori moda, alle virtù domestiche. Anche se non gli piaceva il suo atteggiamento da brontolona, che gli ricordava fastidiosamente la madre, la sorella gli dava un’innegabile sensazione di sicurezza.

Sempre tenendola per le spalle guardò in su, verso il tetto del grattacielo. Sembravano mesi dall’ultima volta che era stato sulla terrazza panoramica, ma per la prima volta non provava alcun desiderio di andarci. Avrebbe stabilito la sua dimora dove si trovava, con quella donna e in quella caverna scavata nella facciata.

Quando sua sorella se ne andò, Laing cominciò a prepararsi per la Facoltà di Medicina. Seduto sul pavimento di cucina guardò in alto, verso la pila di piatti e utensili sporchi nel lavandino. Era comodamente appoggiato a un sacco di plastica pieno di spazzatura. Vedendo la cucina da quell’insolita prospettiva, si rese conto dello stato di abbandono in cui si trovava. Il pavimento era ingombro di oggetti a pezzi, avanzi di cibo e lattine vuote. Con sorpresa, Laing contò sei sacchi della spazzatura quando, per chissà quale ragione, era convinto che ce ne fosse solo uno.

Si pulì le mani sui calzoni e sulla camicia macchiata. Sdraiato sul soffice letto formato dai suoi rifiuti sentì che stava per addormentarsi. Con uno sforzo di volontà si svegliò. Da un po’ di tempo era in preda a un continuo declino, un costante degrado che aveva interessato non solo l’appartamento ma anche le sue abitudini e la sua igiene personale. Entro certi limiti vi era costretto, perché l’acqua e l’elettricità erano disponibili solo a intervalli e l’impianto per lo smaltimento dei rifiuti era guasto. Ma la cosa denunciava anche un minore interesse per le civili convenzioni di qualsiasi genere. A nessuno dei suoi vicini importava che cibo mangiavano. Da settimane né Laing né i suoi amici preparavano un pasto normale ed erano arrivati al punto di aprire una scatoletta a caso quando erano affamati. Allo stesso modo, a nessuno di loro importava di quello che bevevano, ciò che gli interessava era solamente ubriacarsi il più rapidamente possibile, in modo da ottenere la scarsa consapevolezza che ancora li animava. Da settimane Laing non ascoltava più nessuno dei dischi che aveva raccolto con tanta cura nella sua discoteca. Perfino il suo linguaggio si era fatto più rozzo.

Si ripulì con le dita lo spesso strato di nero che aveva sotto le unghie. Ma Laing vedeva quasi con favore quel disfacimento, tanto della sua persona quanto dell’ambiente in cui viveva. In un certo modo si costringeva a procedere per quella china, come se stesse scendendo in una valle proibita. Lo sporco sulle mani, il sudiciume dei vestiti e l’igiene declinante, il disinteresse per il cibo e le bevande, tutto contribuiva a mostrare una più realistica immagine di sé.

Laing ascoltava gli intermittenti rumori provenienti dal frigorifero. L’elettricità era tornata e la macchina aveva ricominciato a succhiare energia dai fili. Quando le pompe ricominciarono a funzionare, dai rubinetti riprese a gocciolare dell’acqua. Spronandosi con le critiche di Alice, Laing si mise a vagare per l’appartamento, facendo quel che poteva per rimettere a posto la casa. Ma mezz’ora dopo, mentre trasportava un sacco della spazzatura dalla cucina in anticamera, di colpo, si fermò. Lasciò cadere il sacco sul pavimento, rendendosi conto che non aveva concluso niente: stava solo cambiando di posto allo sporco.

Molto più importante della pulizia era la sicurezza fisica dell’appartamento, in particolare quando lui era via. Laing si mise a camminare avanti e indietro accanto alla lunga libreria del salotto, gettando sul pavimento i suoi manuali medici e scientifici. Settore per settore, divelse le scaffalature. Portò le tavole in anticamera e, nell’ora che seguì, girò per l’appartamento trasformandolo in casamatta. Trascinò in anticamera tutti i mobili pesanti, il tavolo della sala e una cassapanca di quercia intagliata a mano che stava in camera sua. Con le poltrone e la scrivania costruì una solida barricata. Soddisfatto dei risultati raggiunti lì, trasportò le sue scorte di cibo dalla cucina alla camera da letto. Le risorse di cui disponeva erano scarse, ma sarebbero bastate per diversi giorni… Pacchetti di riso, zucchero e sale, scatolette di manzo e maiale, e una pagnotta rafferma.

Ora che l’aria condizionata si era arrestata, le stanze sapevano di chiuso. In tempi recenti, Laing aveva notato un odore forte ma non spiacevole, l’odore caratteristico dell’appartamento… Il suo.

Laing si tolse la camicia sportiva sudicia e si lavò con l’ultima acqua che scendeva dalla doccia. Si fece la barba e indossò un vestito pulito. Se fosse andato alla Facoltà di Medicina con l’aspetto di un barbone avrebbe potuto far intuire, a qualche collega dalla vista acuta, cosa stava succedendo al grattacielo. Si esaminò nello specchio dell’armadio. La sparuta, smorta e bizzarra figura che si vide davanti, con la fronte contusa e il vestito troppo largo, non avrebbe convinto nessuno, era come un prigioniero vestito a festa il giorno del rilascio, che strizza gli occhi alla luce del sole perché, dopo la lunga detenzione, non ci è più abituato.

Dopo aver controllato il chiavistello della porta d’ingresso, Laing uscì dall’appartamento. Per fortuna, lasciare il grattacielo era più facile che spostarsi al suo interno. Come un sottopassaggio non ufficiale, un ascensore continuava a viaggiare da e per l’entrata principale, per mutuo consenso. In ogni caso, l’atmosfera di tensione e ostilità, il complesso di assedi interni che si accavallavano l’uno all’altro erano evidenti ovunque. Barricate fatte di mobili presi dagli atri comuni e sacchi pieni di spazzatura bloccavano le entrate ai singoli piani. Non solo l’ingresso principale e le pareti dei corridoi, ma perfino i soffitti e le passatoie erano coperte di slogan, un guazzabuglio di messaggi in codice che segnalavano gli attacchi di squadre di incursori dai piani superiori o inferiori. Laing dovette farsi forza per trattenersi dallo scrivere il numero del suo piano in mezzo alle cifre, alcune alte tre piedi, che decoravano le pareti dell’ascensore come le registrazioni di un folle libro mastro. Quasi tutto ciò che era possibile distruggere era stato distrutto: gli specchi frantumati, i telefoni pubblici strappati, l’imbottitura dei divani squarciata. Il livello raggiunto dal vandalismo era intenzionalmente eccessivo, come se avesse una più importante funzione secondaria, quella di mascherare la scelta calcolata con cui gli abitanti del grattacielo, strappando tutte le linee telefoniche, si erano isolati dal mondo esterno.

Per qualche ora al giorno era possibile utilizzare una serie di percorsi, aperti come crepe lungo l’edificio, in cui regnava la tregua, ma quel periodo di tempo si faceva sempre più breve. I condomini giravano per il palazzo in piccoli gruppi, attentissimi all’apparire di estranei. Ciascuno si portava il piano di appartenenza scritto in faccia, era come se avessero un distintivo. Durante il breve armistizio, di quattro o cinque ore, potevano spostarsi come i concorrenti nel gioco della battaglia di scale a cui, fra un incontro e l’altro, si permetteva di salire sul piolo prestabilito. Laing e i suoi compagni di viaggio attendevano che la cabina terminasse la sua lenta discesa, tutti quanti immobili come manichini nel tableau di un museo: “Fine secolo ventesimo. Abitatori di grattacielo.”

Quando arrivarono al pianoterra Laing attraversò guardingo l’ingresso, superando l’ufficio chiuso dell’amministrazione e i sacchi di posta. Da giorni non andava in Facoltà e, appena fuori dalla porta a vetri, fu immediatamente colpito dalla luce e dall’aria più fresca, come se respirasse l’aspra atmosfera di un pianeta alieno. Un senso di estraneità, molto più tangibile di qualsiasi cosa si trovasse nel grattacielo, circondava da ogni lato il condominio, raggiungendo anche le piazzole in cemento e le strade sopraelevate dell’area residenziale.

Guardandolo sopra la spalla, come per tenersi legato all’edificio con una sagola di salvataggio mentale, Laing attraversò il parcheggio. Fra le auto giacevano centinaia di bottiglie rotte e lattine vuote. Il giorno prima era passato un tecnico sanitario dell’ufficio centrale dell’area residenziale, ma se n’era andato mezz’ora dopo, persuaso che quei segni di sfacelo non fossero altro che disturbi della crescita, problemi di avviamento del sistema di smaltimento dei rifiuti. Dal momento che i condomini non presentavano reclami ufficiali, non si sarebbe preso alcun provvedimento. Laing non si sorprendeva più di come gli inquilini, che solo poche settimane prima erano tutti uniti nella loro rabbia per i guasti nei servizi dell’edifìcio, fossero ora altrettanto uniti nel rassicurare qualsiasi estraneo che andava tutto bene… In parte si trattava di un rimosso orgoglio di grattacielo ma, soprattutto, del bisogno di risolvere lo scontro fra loro senza interferenze, come bande rivali che si danno battaglia in una discarica, ma uniscono le forze per espellere ogni intruso.

Laing raggiunse il centro del parcheggio, a soli duecento metri dal grattacielo vicino, un pianeta chiuso e rettilineo di cui distingueva chiaramente la faccia vitrea. Quasi tutti i nuovi inquilini si erano già stabiliti nei loro appartamenti, duplicando quelli del suo grattacielo in tutto, fino all’ultima tendina, fino all’ultima lavastoviglie. Nonostante ciò, quell’edificio gli sembrava remoto, minaccioso. Alzando lo sguardo sulle interminabili file di balconi si sentiva a disagio, come il visitatore di un maligno zoo, dove schiere di gabbie sovrapposte contenevano creature di imprevedibile e sanguinosa ferocia. Alcune persone appoggiate alle balaustre fissavano Laing senza espressione e, tutt’a un tratto, lui ebbe la visione dei duemila inquilini che si precipitavano sui loro balconi e gli gettavano tutto quello che avevano a portata di mano, seppellendolo sotto una piramide di bottiglie e portaceneri e bombolette di deodorante e buste di preservativi.

Laing arrivò alla sua macchina e si appoggiò al finestrino. Sapeva che stava mettendosi alla prova di fronte all’eccitazione del mondo esterno, si stava esponendo ai suoi pericoli nascosti. Nonostante tutti i suoi conflitti del momento, il grattacielo rappresentava comunque protezione e sicurezza. Sentendo contro la spalla la cellulosa calda del finestrino a cui era appoggiato, si ricordò dell’aria stagnante del suo appartamento, tiepida e intrisa dell’odore del suo corpo. Al confronto, i riflessi di quella luce brillante sulle finiture cromate delle centinaia di auto sembravano riempire l’aria di coltelli.

Si allontanò dalla sua macchina e si mise a passeggiare lungo la fila di piazzole che correva parallela all’edificio. Non era ancora pronto per avventurarsi all’aria aperta, fronteggiare i suoi colleghi alla Facoltà di Medicina, rimettersi alla pari con le supervisioni agli studenti. Magari quel pomeriggio sarebbe rimasto a casa, a preparare gli appunti per la sua prossima conferenza.

Raggiunse la riva del laghetto ornamentale, un grazioso ovale di duecento metri di lunghezza, e scese sulla pavimentazione di cemento. Seguendo la sua ombra, avanzò per il lento declivio del fondo del lago. Qualche minuto dopo si trovava al centro del bacino vuoto. Il cemento bagnato, come la superficie di un immenso stampo, si incurvava da tutti i lati, levigati e dolci, ma in qualche modo minacciosi come i contorni di una psicosi latente. L’assenza di qualsiasi rigida struttura rettilinea sintetizzava per Laing tutti i rischi del mondo che stava al di là del grattacielo.

Incapace di rimanere più a lungo, si diresse a grandi passi verso la riva, salì sulla banchina e corse fra le auto impolverate in direzione del condominio.

Dieci minuti dopo era già nel suo appartamento. Dopo aver messo il catenaccio si arrampicò al di là della barricata e si mise a vagare per le stanze vuote. Mentre inalava l’aria stagnante si sentiva rinfrescare dal suo stesso odore, quasi riconoscendo le diverse parti del corpo, i piedi e i genitali, la miscela di odori che gli usciva dalla bocca. Si spogliò in camera da letto, gettando il vestito e la cravatta in fondo all’armadio, e si rimise la sudicia camicia sportiva e i pantaloni, altrettanto sporchi. Sapeva bene, ora, che non avrebbe mai più tentato di lasciare il grattacielo. Pensava ad Alice e a come poteva fare a portarla nel suo appartamento. In qualche modo sarebbero stati proprio quei potenti odori che, funzionando da richiami, l’avrebbero attirata lì.

11.

Spedizioni punitive

Già prima delle quattro, quel pomeriggio, tutti gli inquilini erano tornati al grattacielo. Dal balcone Laing guardava le auto che percorrevano le strade d’accesso all’area residenziale e svoltavano nei loro posti macchina. Con le ventiquattrore in mano i sopravvenuti si dirigevano poi, a piedi, verso l’ingresso principale. Laing fu sollevato notando che, quando si facevano più vicini all’edificio, la conversazione terminava. Quel comportamento educato, per qualche motivo, lo turbava.

Nel pomeriggio Laing aveva riposato, aveva deciso di cercare di calmarsi e radunare le forze per la nottata a venire. Di tanto in tanto saliva sulla sua barricata e sbirciava in corridoio, nella speranza di scorgere Steele. La preoccupazione per sua sorella, solo tre piani sotto di lui con quel marito che si spegneva, lo rendeva sempre più irrequieto. Aveva bisogno di uno scoppio di violenza come pretesto per salvarla. Se il piano di dividere il palazzo fosse riuscito probabilmente non l’avrebbe più rivista.

Laing camminava per l’appartamento, provando i suoi primitivi sistemi di difesa. Gli inquilini dei piani superiori come lui erano più vulnerabili di quanto pensassero e potevano facilmente trovarsi alla mercé di quelli dei piani bassi. Senza troppe difficoltà, Wilder e i suoi accoliti potevano bloccare le uscite, distruggere l’impianto elettrico, quello dell’acqua e infine, appiccare il fuoco ai piani superiori. Laing immaginò le prime fiamme, che salivano dalle colonne degli ascensori e dalla tromba delle scale, i piani che crollavano e gli inquilini terrorizzati costretti a cercare rifugio sul tetto.

Turbato dalla sua fosca visione, scollegò le casse dello stereo e le aggiunse alla barricata di mobili ed elettrodomestici. Dischi e cassette giacevano sparsi sul pavimento e Laing, quando se li trovava tra i piedi, li allontanava a calci. Sollevò le assi del pavimento alla base dell’armadio in camera da letto. In quella cavità, delle dimensioni di una valigia, nascose il libretto d’assegni e le polizze di assicurazione, le ricevute delle tasse e le sue azioni. Come ultima cosa, ci ficcò la borsa da medico, con le fiale di morfina, gli antibiotici e i cardiotonici. Mentre inchiodava le tavole di nuovo al loro posto sentì che stava seppellendo per sempre gli ultimi residui della sua vita precedente e si stava preparando, senza riserve, per la nuova che era in arrivo.

In superficie, il condominio rimaneva tranquillo ma, con grande sollievo di Laing, appena venne la sera scoppiarono i primi incidenti. Aveva atteso davanti agli ascensori per tutta la seconda parte del pomeriggio, insieme ad alcuni coinquilini. Forse, pazzescamente, non sarebbe accaduto nulla? Poi arrivò un analista dei mercati esteri con la notizia che c’era stata una feroce zuffa a proposito di un ascensore, dieci piani più sotto. Adrian Talbot, l’amabile psichiatra del ventisettesimo piano, era stato sommerso d’urina mentre saliva le scale. Si diceva perfino che avessero devastato un appartamento del quarantesimo piano. Una provocazione del genere assicurava a tutti una nottata rovente.

Alle prime notizie seguì una piena di resoconti, secondo i quali molti abitanti dell’edificio, tornando a casa, avevano trovato i loro appartamenti saccheggiati, i mobili e le strutture di cucina danneggiati, gli impianti elettrici strappati. Abbastanza stranamente, le scorte di cibo non erano state toccate, come se quegli atti di vandalismo fossero intenzionalmente gratuiti e privi di significato. O forse i danni erano stati provocati dagli stessi padroni di casa che, senza rendersi conto di ciò che facevano, cercavano di aumentare il livello delle violenze.

Mentre la sera scendeva sul condominio gli incidenti continuavano. Dal balcone, Laing vedeva lampeggiare qui e là delle torce elettriche negli otto piani colpiti dal blackout, tutti sotto il suo. Sembravano i segnali per la preparazione di un brutale rito di sangue. Laing sedeva al buio sul tappeto del salotto, con la schiena appoggiata alla rassicurante mole della barricata. Era riluttante ad accendere le luci per la paura – assurda, lo sapeva bene – che qualcuno potesse attaccarlo dall’aria, arrivando sul balcone. Bevendo forte dalla fiaschetta tascabile del whisky, guardava i programmi di prima serata alla televisione. Tolse l’audio, non per la noia di quei documentari e telenovelas, ma perché per lui non significavano più nulla. Perfino gli spot pubblicitari, con il loro preoccuparsi per le realtà della vita quotidiana, erano diventati trasmissioni da un altro pianeta. Acquattato in mezzo ai sacchi della spazzatura, con tutti i suoi mobili accatastati dietro di lui, Laing studiava quelle sontuose ricostruzioni in studio di massaie che pulivano le loro perfette cucine, di deodoranti che spruzzavano ascelle ben curate. Nel loro complesso formavano gli elementi di un universo domestico assolutamente misterioso.

Calmo e senza alcuna paura, Laing ascoltava le stridule voci provenienti dal corridoio. Pensando alla sorella, registrava volentieri quei segnali di imminenti violenze. Alice, che era sempre stata schizzinosa, avrebbe probabilmente trovato repellente lo stato di abbandono dell’appartamento, ma avere qualcosa da criticare le avrebbe fatto solo bene. Il sudore sulle membra di Laing, come la placca che gli ricopriva i denti, lo avvolgeva in un involucro di sporco e odore corporeo, ma la puzza gli dava fiducia in se stesso, la sensazione di aver dominato il territorio con i prodotti del suo organismo. Anche la prospettiva che presto il gabinetto sarebbe rimasto irrimediabilmente intasato, un’ipotesi che un tempo lo avrebbe riempito di garbato orrore, diventava ora quasi invitante.

L’abbassamento degli standard igienici non riguardava solo Laing, ma tutti i suoi vicini. Dai loro corpi emanava un forte odore, l’unico tratto distintivo del grattacielo. L’assenza di quell’odore era in effetti ciò che maggiormente lo turbava del mondo esterno al condominio, anche se la più vicina approssimazione a quella caratteristica la ritrovava nelle sale autoptiche dell’Istituto di Anatomia. Qualche giorno prima Laing si era scoperto a gironzolare attorno alla scrivania della sua segretaria, cercando di arrivarle abbastanza vicino da distinguere il suo odore rassicurante. Quando la ragazza aveva alzato lo sguardo, sbalordita, aveva trovato Laing che le stava addosso come un vagabondo in calore.

Tre piani sopra una bottiglia, cadendo, esplose su un balcone. I pezzi di vetro schizzarono via come proiettili traccianti nell’oscurità. Un giradischi piazzato vicino a una finestra fu alzato al massimo. I pezzi di musica amplificata rimbombarono nella notte.

Laing aggirò la sua barricata e aprì la porta. Nell’atrio davanti agli ascensori, un gruppo di suoi vicini stava sistemando una porta antincendio d’acciaio davanti all’entrata che dava sulle scale. Cinque piani sotto, stavano facendo un’incursione. Laing e i suoi compagni di clan si ammassarono dietro la porta antincendio e cercarono di sbirciare giù dalle scale buie. Da come sentivano muovere gli ingranaggi di un ascensore sembrava che la cabina andasse in continuazione su e giù trasportando nuovi assalitori sul luogo della mischia. Dal ventesimo piano, ma era come se venisse dal patibolo, salì l’urlo di una donna.

Aspettavano che arrivasse Steele a dar loro una mano e Laing stava quasi per andare a cercarlo. Ma l’atrio e i corridoi erano pieni di persone che correvano, scontrandosi al buio mentre cercavano di farsi largo per tornare ai loro appartamenti, al di sopra del venticinquesimo piano. Gli incursori erano stati respinti. I coni di luce delle torce elettriche deviavano sulle pareti come semafori impazziti. Laing scivolò in una pozza di unto e cadde fra le ombre guizzanti. Dietro di lui, una donna sovreccitata gli camminò sulla mano e gli tagliò il polso con il tacco.

Nelle successive due ore, per i corridoi e le scale ebbe luogo una serie di veloci battaglie, che si spostavano su e giù per i piani, dove le barricate venivano alternativamente tirate giù e ricostruite. A mezzanotte, mentre stava accucciato dietro la porta antincendio nell’atrio degli ascensori, chiedendosi se era il caso di arrischiare una corsa fino all’appartamento di Alice, Laing vide Richard Wilder, in piedi fra le sedie d’acciaio sparpagliate lì attorno. In una mano stringeva sempre la sua macchina da presa. Si era fermato a respirare e sembrava un grosso animale, fissava le sue ombre proiettate sulle pareti e sul soffitto, come se stesse per saltare in groppa a tutte quante per cavalcarle lungo le tubature dell’edificio.

Lo scontro si placò, spostandosi come una tempesta verso i piani inferiori. Laing e i suoi vicini si riunirono nell’appartamento di Adrian Talbot. Sedettero sul pavimento del salotto fra i tavolini rotti e le poltrone dai cuscini squarciati. Le torce elettriche ai loro piedi formavano un cerchio di luce, facendo brillare le bottiglie di whisky e vodka che avevano messo in comune. Con un braccio al collo, lo psichiatra girava per l’appartamento distrutto, cercando di riappendere i quadri fracassati sopra gli slogan che i vandali avevano tracciato sulle pareti, con i colori più alla moda del reparto vernici spray del supermarket. Talbot sembrava più colpito dall’aggressione personale di quelle oscenità antiomosessuali che dalla totale devastazione del suo appartamento, ma Laing, suo malgrado, le trovò invece stimolanti. Le spaventose caricature sulle pareti baluginavano alla luce delle torce elettriche come le sagome priapiche disegnate dagli abitatori delle caverne.

“Almeno hanno lasciato stare voi,” disse Talbot, accucciandosi accanto a Laing. “Io sono evidentemente stato scelto come capro espiatorio. Questo palazzo doveva essere una vera centrale di rancori… stanno tutti liberando la più straordinaria mole di aggressività infantile arretrata che si sia mai vista.”

“La finiranno.”

“Forse. Mi hanno buttato addosso un secchio di urina, oggi pomeriggio. Se va avanti così potrei prendere la clava io stesso. Ma è un errore pensare che stiamo tutti spostandoci verso uno stato di felice primitivismo. Qui il modello non sembra essere il buon selvaggio, piuttosto, direi, il nostro sé post-freudiano e nient’affatto innocente, violentato da un’educazione all’evacuazione troppo indulgente, dalla devozione per il nutrimento al seno e dall’amore genitoriale… Una miscela ovviamente più pericolosa di qualsiasi cosa abbiano dovuto sopportare i nostri antenati vittoriani. I nostri vicini hanno tutti avuto un’infanzia che più felice non si poteva, ma sono comunque arrabbiati. Forse è perché non hanno mai avuto la possibilità di diventare dei perversi…”

Mentre si curavano le contusioni e si passavano la bottiglia, bevendo forte per darsi coraggio, Laing li ascoltò parlare di contrattacco e vendetta. Di Steele sempre nessuna traccia. Per qualche motivo, Laing sentiva che avrebbe dovuto esserci lui, lì con loro, era un futuro leader, molto più importante di Crosland. A dispetto delle ferite, Laing era contento e fiducioso, non vedeva l’ora di rigettarsi nella mischia. L’oscurità li rassicurava, garantiva protezione, era l’ambiente naturale di chi viveva nel grattacielo. Era orgoglioso di aver imparato come spostarsi nel buio pesto dei corridoi, al massimo tre passi alla volta, come fermarsi a scrutare l’oscurità, e perfino come attraversare il suo stesso appartamento, sempre il più vicino possibile al suolo. Gli dava quasi fastidio pensare che, la mattina seguente, sarebbe tornata la luce.

La vera illuminazione del grattacielo era il lampo metallico prodotto dal flash delle polaroid, quella radiazione intermittente che registrava i vari momenti della tanto attesa violenza per un successivo piacere voyeuristico. Quali specie deviate di flora elettrica sarebbero nate dalle passatoie striate di rifiuti, in risposta a quella nuova fonte di luce? I pavimenti erano ingombri di strisce di negativi anneriti, come faville cadute da quel sole interno.

Inebriato d’alcol ed eccitazione, Laing si mise faticosamente in piedi assieme ai suoi vicini, che si preparavano a uscire come un gruppo di studenti ubriachi, litigando fra loro per tener vivo il coraggio. Quando fu arrivato tre piani più sotto, al buio, si fermò a fare il punto. Erano entrati in un’enclave di appartamenti abbandonati al ventiduesimo. Vagavano per le stanze vuote sfondando a calci gli schermi dei televisori e spaccando il vasellame di cucina.

Cercando di schiarirsi le idee prima di andare a prendere sua sorella, Laing vomitò da un balcone. I fili di muco luminescente cadevano lungo la facciata. Sporgendosi nel buio, ascoltava i suoi vicini che si allontanavano per il corridoio. Quando se ne fossero andati avrebbe potuto cercare Alice.

Dietro di lui si accese la luce. Sorpreso, Laing si strinse contro il parapetto, attendendosi l’attacco di un intruso. Dopo un breve intervallo di tempo, le luci cominciarono a tremolare come un cuore in fibrillazione. Laing si guardò i vestiti fradici e le mani sporche di vomito. Il salotto devastato lampeggiava attorno a lui, il pavimento coperto di detriti gli dava l’impressione di essersi risvegliato in mezzo a un campo di battaglia.

In camera, sul letto, c’era uno specchio rotto i cui pezzi vibravano di luce intermittente come frammenti di un altro mondo che cercava senza riuscirvi di ricostituirsi.

“Entra, Laing…” La familiare, precisa voce del chirurgo ortodontista lo chiamava. “C’è una cosa interessante, qui.”

Steele stava girando per la stanza con un bastone animato in mano. Di tanto in tanto fingeva un affondo verso il pavimento, in atteggiamento scherzoso, come se stesse provando la scena di un melodramma. Indicò a Laing di farsi avanti, di andare sotto la luce intermittente.

Laing si avvicinò cautamente alla porta, contento di vedere infine Steele, ma anche ben conscio di quanto fosse esposto a qualsiasi capriccio gli passasse per la testa. Pensava che Steele avesse preso in trappola il proprietario dell’appartamento o un inquilino nomade che ci si fosse rifugiato, ma nella camera non c’era nessuno. Poi, seguendo la lama del bastone animato, vide che Steele aveva bloccato fra le gambe della specchiera un gattino. Steele si sporse in avanti, mulinando una tenda ricamata che aveva strappato dalla finestra e fece volare la creatura terrorizzata nel bagno.

“Aspetti, dottore!” Nella voce del chirurgo si percepiva una strana e fredda allegria, come di una macchina erotica. “Non se ne vada, ancora…”

Le luci intermittenti continuavano a tratteggiare la cruda iperrealtà di un notiziario sulle atrocità.

Confuso dalle sue stesse reazioni, Laing guardava Steele che lavorava il gatto sotto la tenda. Con una certa terribile logica, il piacere del dentista nel torturare quella creatura era raddoppiato dalla presenza di un testimone schizzinoso quanto affascinato. Laing era sulla porta del bagno, e sperava suo malgrado che le luci non se ne andassero di nuovo. Aspettava, mentre Steele, con tutta calma, soffocava il gatto, finendolo sotto la tenda come se stesse invece portando a termine una complessa rianimazione sotto un telo d’ospedale.

Riuscendo finalmente a staccarsi di lì, Laing se ne andò senza parlare. Si spostava con attenzione per i corridoi immersi nel buio, mentre dalle porte aperte degli appartamenti saccheggiati lampeggiava a tratti la luce delle lampade rovesciate sul pavimento e degli schermi televisivi, riportati per l’ultima volta alla vita da quel funzionamento intermittente. Da qualche parte attorno a lui suonava una debole musica. Il piatto di un giradischi abbandonato chissà dove aveva ripreso a girare. In una camera vuota un proiettore inviava sulla parete di fronte al letto le ultime immagini di un film pornografico.

Quando raggiunse l’appartamento di Alice Laing esitò, non sapeva come spiegare la sua presenza. Ma quando la sorella gli aprì e gli fece cenno di entrare capì subito che lei sapeva che sarebbe venuto. Nel salotto c’erano due valigie già pronte. Alice si affacciò per l’ultima volta alla porta della sua camera. Nella luce gialla e intermittente, Frobisher dormiva buttato sul letto, con una bottiglia di whisky semivuota accanto.

Alice prese il braccio di Laing. “Sei in ritardo,” gli disse in tono di rimprovero. “Sono ore che ti aspetto.” Mentre uscivano non accennò minimamente a voltarsi verso il marito. Laing si ricordò di quando, anni prima, lui e Alice stavano in casa insieme, e di una volta che erano usciti in silenzio dal salotto in quello stesso modo, mentre la madre giaceva svenuta sul pavimento, dopo essersi fatta male durante una gara a chi beveva di più.

Mentre salivano verso il venticinquesimo piano e la salvezza dell’oscurità completa, la tromba delle scale riecheggiava dei rumori tipici di uno scontro di scarsa importanza. Quindici piani, incluso quello di Laing, erano ormai stabilmente senza luce.

Come una tempesta che non voleva finire e a intervalli vedeva una ripresa, la violenza continuò a brontolare minacciosamente per tutta la notte, mentre Laing e la sorella giacevano insieme, svegli, sul materasso della camera da letto.

12.

Verso la cima

Quattro giorni dopo, alle due del pomeriggio o poco più, Richard Wilder tornò dagli studi televisivi ed entrò con la macchina nel parcheggio a lato del grattacielo. Riducendo la velocità in modo da potersi godere appieno il momento dell’arrivo, si sistemò comodamente sulla poltrona al posto di guida e lanciò uno sguardo di sfida alla facciata del condominio. Attorno a lui, le lunghe file di auto erano coperte da uno strato sempre più spesso di sudiciume e polvere di cemento, portata dal vento oltre le piazze vuote dell’area residenziale e proveniente dallo svincolo in costruzione dietro il polo medico. Erano ormai poche le auto che lasciavano il parcheggio e quasi non c’erano più spazi liberi, ma Wilder andava avanti e indietro per le corsie d’accesso, fermandosi in fondo a ogni fila e tornando al punto di partenza.

Si toccava la fresca cicatrice che aveva sul mento non rasato, un’eredità della vigorosa battaglia nei corridoi della notte precedente. Di proposito riaprì la ferita e guardò con soddisfazione una goccia di sangue sul dito. Tornando dalla televisione aveva corso parecchio, come se cercasse di uscire da un sogno rabbioso, urlando e suonando il clacson agli altri automobilisti, andando in controsenso. Ora si sentiva calmo e rilassato. Come sempre, la sola vista della fila dei cinque grattacieli lo aveva placato, offrendogli quel contesto di realtà che agli studi mancava.

Sicuro che avrebbe trovato un posto libero, Wilder continuava il suo pattugliamento. In origine parcheggiava, insieme ai suoi vicini dei piani inferiori, nelle file al limite estremo del parcheggio ma, nelle ultime settimane, aveva spostato la macchina più vicino al palazzo. Quella che era cominciata come un’inoffensiva manifestazione di vanità, uno scherzo autoironico, in breve aveva assunto una dimensione più seria, era divenuto il segno visibile del suo successo o insuccesso. Dopo diverse settimane consacrate all’ascensione dell’edificio, sentiva di avere il diritto di parcheggiare nelle file riservate ai suoi nuovi vicini. Alla fine avrebbe raggiunto la prima fila. Nel momento del trionfo, quando sarebbe salito al quarantesimo piano, la sua auto sarebbe andata ad aggiungersi alla fila dei costosi rottami più vicina al condominio.

La notte precedente Wilder era rimasto al ventesimo piano per varie ore e perfino, per i pochi minuti di un’inattesa scaramuccia, al venticinquesimo. Verso l’alba era stato costretto a ritirarsi dall’avamposto al suo attuale campo base, che era un appartamento del diciassettesimo piano di proprietà di un direttore artistico della sua televisione, un ex compagno di bevute di nome Hillman che, a malincuore, aveva accettato quel cuculo nel suo nido. L’occupazione di un piano, nell’accezione ristretta che ne dava Wilder, significava infatti molto di più del casuale impadronirsi di un appartamento abbandonato. Di quelli ce n’erano a dozzine, sparsi per il grattacielo. Wilder si era imposto un concetto più severo di ascesa: doveva essere accettato dai suoi nuovi vicini come uno di loro, come titolare di una locazione ottenuta con qualcosa di più della semplice forza fisica. In breve, li persuadeva che avevano bisogno di lui… Un’idea che, quando ci pensava, lo faceva sbuffare.

Aveva raggiunto il ventesimo piano come conseguenza di uno dei molti capricci demografici che avevano turbato il suo progresso nell’edificio. Nel corso delle battaglie volanti che avevano caratterizzato quella notte, Wilder si era ritrovato ad aiutare due analiste dei mercati finanziari a barricare la porta rotta del loro appartamento al ventesimo. Dopo aver cercato con una bottiglia di champagne di spaccargli la testa, che Wilder aveva infilato nel pannello rotto, avevano accettato con piacere la sua cortese offerta d’aiuto. Di proposito, Wilder non era mai tanto calmo come in quei momenti di crisi. E in effetti la più vecchia delle due, una focosa bionda di trent’anni, aveva fatto a Wilder i complimenti per essere l’unico uomo sano di mente che avesse conosciuto nel grattacielo. Da parte sua, Wilder era ben contento di recitare il ruolo di casalingo piuttosto che di capopopolo e Napoleone degli ascensori barricati, con l’ingrato compito di insegnare a una milizia male addestrata, di editori di riviste e impiegati di finanziarie, come assalire i difensori di una scala o conquistare un ascensore rivale. A parte tutto, più in alto saliva nell’edificio e peggiori erano le condizioni fisiche dei residenti: le ore passate sulle cyclette della palestra li preparavano solo a passare altre ore sulle cyclette della palestra.

Dopo aver aiutato le due donne, aveva trascorso il tempo che mancava all’alba a bere il loro vino e a manovrare perché gli proponessero di traslocare nel loro appartamento. Come di consueto, faceva ampi gesti con la macchina da presa e raccontava del documentario sul grattacielo, proponendo alle due donne di apparire in televisione. Ma non erano rimaste particolarmente colpite dall’offerta. Mentre gli inquilini dei piani bassi erano entusiasti di partecipare al programma e rendere pubbliche le loro lamentele, quelli dei piani alti erano già andati in televisione, spesso più di una volta, come professionisti ed esperti, in diverse trasmissioni d’attualità. “La televisione va guardata, Wilder,” gli aveva detto in tono fermo una delle due, “non fatta.”

Subito dopo l’alba erano arrivate le componenti di una squadra di guastatrici. I loro mariti e compagni o si erano trasferiti da amici su altri piani o erano usciti del tutto dalla loro vita. Al comando del gruppo c’era l’anziana scrittrice di racconti per bambini. Quando le aveva offerto il ruolo di protagonista nel suo documentario gli aveva lanciato un’occhiata fosca. Wilder aveva raccolto l’avvertimento e, con un inchino, se n’era tornato alla sua base precedente e sicura, l’appartamento degli Hillman al diciassettesimo piano.

A una decina di metri da lui, mentre Wilder girava per il parcheggio ben deciso a trovare una fila adeguata alla sua nuova posizione, una bottiglia andò a fracassarsi sul tetto di un’auto, volatilizzandosi in un acquazzone di minuscoli frammenti. La bottiglia era stata fatta cadere da molto in alto, presumibilmente dal quarantesimo piano. Wilder rallentò fin quasi a fermare la macchina, offrendosi come bersaglio. Quasi si attendeva di vedere, dietro al parapetto del suo attico, la sagoma ingiacchettata di bianco di Anthony Royal, in una delle sue pose messianiche e con il pastore tedesco bianco alle calcagna.

Nei giorni precedenti aveva intravisto spesso l’architetto, in cima a una scala molto più in alto di Wilder, o mentre spariva in un ascensore requisito e diretto alle fortificazioni degli ultimi piani. Senza dubbio, si stava intenzionalmente esibendo a Wilder, lo provocava a salire. A volte Royal sembrava magicamente sapere che, nelle soffitte della mente di Wilder, aleggiava la confusa immagine del padre naturale, che lui aveva sempre visto soltanto al di là dei vetri della sua stanza da bambino. Wilder si chiese se Royal stesse consapevolmente recitando quel ruolo, ben sapendo che il suo turbamento a proposito del padre avrebbe potuto distoglierlo dalla decisione di scalare l’edificio. Wilder picchiò i pugni pesanti sul volante. Ogni notte si avvicinava a Royal, ogni notte faceva qualche gradino verso lo scontro finale.

Sotto le ruote scricchiolavano i vetri rotti, come se gli aprissero il passaggio. Proprio davanti a Wilder, nella prima fila, quella riservata agli abitanti degli ultimi piani, c’era uno spazio libero, un tempo occupato dall’auto del gioielliere scomparso. Senza esitare, girò il volante e svoltò nella piazzola vuota.

“Non prima del tempo…”

Si distese allegramente all’indietro, guardando con soddisfazione i rottami coperti di spazzatura da una parte e dall’altra. L’apparizione del posto libero era un buon segno. Uscì con calma dalla macchina e sbatté la portiera con fare aggressivo. Mentre camminava a grandi passi verso l’entrata si sentiva come un ricco proprietario terriero che si fosse appena comprato una montagna.

Nell’ingresso un gruppo di scalcagnati inquilini del primo piano lo guardò passare in fretta davanti agli ascensori e prendere le scale. Erano insospettiti dai suoi spostamenti nell’edificio, dai suoi mutamenti di campo. Durante il giorno, Wilder passava qualche ora con Helen e i suoi figli nell’appartamento del secondo piano e cercava di rianimare la moglie, che si ritirava sempre più in se stessa. Presto o tardi avrebbe dovuto lasciarli per sempre. La sera, quando si disponeva a reiterare la sua ascensione al grattacielo, lei si rianimava un po’, magari addirittura gli chiedeva del lavoro agli studi televisivi, accennando a trasmissioni a cui aveva lavorato anni prima. La notte precedente, mentre si preparava a uscire dopo aver messo a letto i bambini e controllato le serrature delle porte, Helen inaspettatamente lo aveva abbracciato, come se volesse convincerlo a restare. I muscoli del suo volto minuto erano stati scossi da un’irregolare sequenza di tremori, come fossero dei saltimbanchi che cercavano di atterrare al posto giusto.

Con sua grande sorpresa, tornando all’appartamento Wilder trovò Helen in uno stato di grande agitazione. Si era fatto strada tra i sacchi di spazzatura e le barricate di mobili rotti che ingombravano il corridoio e l’aveva incontrata con un gruppo di mogli che stavano celebrando un piccolo trionfo. Le donne esauste, con i loro bambini ribelli – la guerra civile all’interno del grattacielo li aveva resi combattivi come i genitori –, formavano un eccitato quadro d’insieme della vita nel condominio.

Due giovani donne del settimo piano, che una volta lavoravano come insegnanti nella scuola materna, si erano apparentemente offerte di riprendere le lezioni. Ma dagli sguardi ansiosi che rivolgevano ai tre vigilantes-padri che stavano fra loro e la porta – un venditore di computer, un tecnico del suono e un accompagnatore turistico – Wilder immaginò che dovevano essere state vittime di un rapimento non esattamente galante.

Mentre lui preparava da mangiare con l’ultima scatoletta di cibo rimasta, Helen sedeva al tavolo di cucina, con le mani bianche in continuo e disordinato movimento, come due uccelli spaventati in una gabbia.

“Non riesco a crederci… Sarò libera dai bambini per un’ora o due.”

“Dove si tengono queste lezioni?”

“Qui… per le prime mattine. È il meno che possa fare.”

“Ma così non starai affatto lontana dai bambini. Be’, sempre meglio che niente.”

Avrebbe mai lasciato i bambini? Wilder se lo chiedeva. Lei non pensava ad altro. Mentre giocava con i suoi figli, Wilder pensò seriamente alla possibilità di portarli con sé nella sua scalata. Osservava Helen che si sforzava nervosamente di pulire l’appartamento. Il salotto era stato saccheggiato durante un’incursione. Mentre Helen e i bambini si rifugiavano nell’appartamento di un vicino, quasi tutti i mobili erano stati rotti e la cucina presa a calci fino a ridurla un macello. Helen portava le sedie scassate dal tinello e le allineava davanti alla scrivania con il piano rotto di Wilder. Le sedie barcollanti si sostenevano l’un l’altra in una straccionesca caricatura di una classe.

Wilder non fece nulla per aiutarla. Fissava le sue braccia sottili che cercavano di trascinare i mobili. A volte pensava che si sfinisse di proposito e che le contusioni e sbucciature ai polsi e alle ginocchia fossero elementi di un complesso sistema di cosciente automutilazione, un tentativo di riconquistarsi il marito. Ogni giorno, quando tornava a casa, quasi si aspettava di trovarla su una sedia a rotelle, con le gambe rotte e una fasciatura finta sulla testa rasata, un ultimo tentativo prima del passo disperato della lobotomia.

Perché continuava a tornare da Helen? Il suo unico desiderio era ormai di allontanarsene, di superare il bisogno di ritornare ogni pomeriggio in quell’appartamento, per tutti i vecchi legami che esso manteneva con la sua infanzia. Lasciando Helen si sarebbe liberato anche dell’intero sistema di restrizioni giovanili che aveva cercato di scrollarsi di dosso fin dall’adolescenza. Perfino quella sua coazione ad andare con altre donne faceva parte del suo sforzo di liberarsi dal passato, uno sforzo che Helen vanificava facendo finta di niente. E tuttavia, le sue relazioni gli avevano almeno preparato il terreno per la sua ascensione al grattacielo, erano altrettanti appigli su cui mettere le mani – letteralmente – per procedere nella sua scalata al tetto, sopra i corpi supini delle donne che aveva conosciuto.

Gli riusciva difficile ormai sentirsi coinvolto dalla penosa situazione in cui si trovava la moglie, come pure dai suoi vicini e dalle loro vite meschine di sconfitti. Era già chiaro che i piani inferiori erano condannati. Anche quell’insistenza nel mandare i figli a scuola, l’ultimo riflesso di ogni gruppo sociale sfruttato prima di affondare nella sottomissione, segnava la fine della loro resistenza. Helen adesso veniva perfino aiutata dal gruppo femminile del ventinovesimo piano. Durante l’armistizio di mezzogiorno la scrittrice di racconti per bambini e le sue favorite, sorelle di una sinistra carità, giravano per l’edificio offrendo il loro aiuto alle mogli abbandonate o isolate.

Wilder entrò nella stanza dei bambini. Felici di vedere il padre, si misero a battere sulle loro scodelle vuote con le pistole di plastica. Erano vestiti con dei costumi da paracadutisti ed elmetti di latta – una divisa sbagliata, pensò Wilder, alla luce di quanto stava accadendo nel grattacielo. La corretta tenuta da combattimento era: gessato da finanziere, ventiquattrore e Homburg.

I bambini avevano fame. Dopo aver chiamato la moglie, Wilder tornò in cucina. Helen era accasciata sulle ginocchia davanti al forno elettrico. Lo sportello era aperto e Wilder all’improvviso fu attraversato dall’idea che stesse cercando di nascondere il suo corpo minuto nel forno… Forse tentava di cucinarsi, il sacrificio estremo per la sua famiglia.

“Helen…” Si chinò, sorpreso dalla magrezza del suo corpo, un mucchio di bastoncini nella pelle smorta. “Per l’amor del cielo, ma sei…”

“Va tutto bene… Mangerò qualcosa più tardi.” Si allontanò da lui e cominciò distrattamente a piluccare pezzetti di grasso bruciato dal fondo del forno. Guardandola accoccolata ai suoi piedi, Wilder capì che prima era momentaneamente svenuta per la fame. La fece sedere contro il forno. Esaminò gli scaffali vuoti della dispensa. “State qui. Vado su al supermarket a prendere qualcosa da mangiare.” Poi, arrabbiandosi con lei, gridò: “Perché non mi hai detto che stavi morendo di fame?”.

“Richard, te ne ho parlato cento volte.”

Lo fissò dal pavimento mentre cercava dei soldi nel suo borsellino. I soldi erano una cosa che a Wilder sembrava ogni giorno più inutile. Non si era nemmeno preso la briga di versare sul suo conto l’ultimo stipendio. Afferrò la macchina da presa, assicurandosi che il coperchio dell’obiettivo fosse al suo posto. Voltandosi verso Helen si accorse che, sorprendentemente, gli rivolgeva uno sguardo più aspro, come se la divertisse vedere il marito tanto dipendente dalle fantasie su quel complesso giocattolo.

Chiudendo a chiave la porta dell’appartamento, Wilder partì alla ricerca di cibo e acqua. Durante la tregua pomeridiana, agli inquilini dei piani bassi era ancora consentito l’uso di una via d’accesso al supermarket del decimo piano. La gran parte delle scale era bloccata da barricate fisse: mobili da salotto, tavoli e lavatrici accatastati in cumuli che andavano dai gradini al soffitto. Dodici o più dei venti ascensori erano fuori uso. Gli altri funzionavano a intervalli, secondo il capriccio dei clan superiori.

Le pareti erano coperte di slogan, oscenità e, come in un folle elenco telefonico, di liste di appartamenti da devastare. Accanto alle porte che davano sulla tromba delle scale, un messaggio di tipo militare scritto in caratteri semplici indicava l’unica scala sicura da usare nel primo pomeriggio e l’ora del coprifuoco obbligatorio, le tre.

Wilder alzò la telecamera e fissò il messaggio attraverso l’oculare. Quell’inquadratura sarebbe stata una sbalorditiva sequenza d’apertura, su cui mandare i titoli di testa del documentario sul grattacielo. Era sempre convinto della necessità di registrare per immagini quanto stava accadendo nel condominio, ma la sua determinazione a farlo aveva cominciato ad affievolirsi. Il degrado dello stabile gli ricordava un filmato al rallentatore di una città delle Ande che veniva trascinata giù lungo il pendio di una montagna, alla sua distruzione, mentre gli abitanti ancora stendevano il bucato nei giardini in via di disintegrazione, o facevano da mangiare in cucina con le pareti attorno a loro che si riducevano in polvere.

Erano ormai venti i piani del grattacielo che di notte restavano al buio e più di cento gli appartamenti abbandonati dai loro proprietari. Il sistema dei clan, che una volta aveva garantito una certa sicurezza agli inquilini, si era in gran parte dissolto e alcuni gruppi scivolavano verso l’apatia e la paranoia. Dovunque la gente cominciava a ritirarsi nei propri appartamenti, anche in una sola stanza, e ci si barricava dentro. Sul pianerottolo del quinto Wilder si fermò, sorpreso che non ci fosse nessuno in giro. Attese accanto alle porte, per controllare se si sentivano rumori sospetti. L’alta figura di un sociologo di mezza età, con il secchio dei rifiuti in mano, affiorò dall’ombra e si avviò come un fantasma per il corridoio disseminato di spazzatura.

Nonostante lo stato pietoso dell’edificio – quasi non c’era più acqua, i condotti dell’aria condizionata erano otturati da spazzatura ed escrementi, le balaustre delle scale erano state divelte – il comportamento degli inquilini nelle ore diurne era sostanzialmente controllato. Sul pianerottolo del settimo Wilder si fermò e urinò sui gradini. In un certo modo fu sorpreso dalla vista dell’urina che gli scorreva fra i piedi. E, comunque, quella non era che la più lieve delle manifestazioni di rozzezza. Durante le risse e le battaglie notturne si rendeva conto di provare uno specifico piacere, senza alcun senso di colpa, nell’urinare dove gli pareva e nel defecare negli appartamenti abbandonati, senza curarsi dei rischi sanitari a cui esponeva se stesso e la sua famiglia. La notte precedente si era divertito a spintonare una donna che aveva protestato perché le aveva urinato sul pavimento del bagno.

E tuttavia, Wilder apprezzava e capiva la notte, solo al buio si poteva diventare sufficientemente ossessivi, far agire intenzionalmente tutti i propri istinti repressi. Gli piaceva quel reclutamento forzato delle tendenze devianti della sua personalità. Fortunatamente, un comportamento libero e degenerato gli diventava tanto più facile quanto più saliva nell’edificio, come se fosse incoraggiato dalla segreta logica del grattacielo.

La galleria del decimo piano era deserta. Wilder spinse i battenti scassati della porta sulle scale, ed entrò nel centro commerciale. La banca era già chiusa, come il salone del parrucchiere e lo spaccio di liquori. L’ultima cassiera del supermarket, la moglie di un operatore televisivo del terzo piano, sedeva stoicamente alla sua cassa regnando come un Britannia già condannato su quel mare di rottami e detriti. Wilder fece un giro fra gli scaffali vuoti. Sul fondo dei freezer le confezioni imputridivano galleggiando nell’acqua untuosa. Al centro del supermarket una piramide di scatoloni di biscotti per cani era crollata in mezzo al corridoio.

Wilder riempì un cestello con tre confezioni di biscotti per cani e una dozzina di barattoli di cibo per gatti. Nell’insieme avrebbero tenuto in vita Helen e i bambini fino a che non fosse riuscito a irrompere in un appartamento e a razziare il deposito dei viveri.

“Qui ci sono solo cibi per animali,” disse alla cassiera all’uscita. “Avete smesso di fare gli ordini?”

“Non c’è domanda,” gli spiegò lei. Intanto, giocherellava con una ferita aperta sulla fronte. “Devono aver fatto tutti la scorta mesi fa.”

Non era vero, rifletté Wilder mentre si allontanava verso gli ascensori, lasciando la cassiera sola nell’enorme galleria. Come lui sapeva bene, essendo entrato con la forza in un gran numero di appartamenti, erano in pochi ad avere riserve alimentari di qualsiasi genere. Era come se non si dessero più il minimo pensiero per quello che gli sarebbe servito l’indomani.

A quindici metri da lui, dietro i caschi da parrucchiere rovesciati davanti al salone, le luci dell’indicatore sopra gli ascensori si muovevano da destra a sinistra. L’ultimo ascensore pubblico della giornata si stava riavvolgendo verso l’alto. Da qualche parte, fra il venticinquesimo e il trentesimo piano, sarebbe poi stato fermato dal capriccio di una vedetta, che avrebbe così segnato la fine dell’armistizio di metà giornata e l’inizio di un’altra notte.

Automaticamente, Wilder affrettò il passo. Raggiunse la porta mentre l’ascensore si fermava al nono piano per scaricare un passeggero. All’ultimo momento, mentre la cabina riprendeva la sua salita, Wilder premette il pulsante.

Nei pochi secondi che restavano prima che le porte dell’ascensore si aprissero si rese conto che aveva già stabilito di abbandonare Helen e i suoi figli definitivamente. Solo una direzione si apriva davanti a lui: salita. Come uno scalatore che si riposa a trenta metri dalla cima, non aveva altra scelta che salire.

Le porte dell’ascensore si aprirono. Circa quindici passeggeri gli si pararono davanti, rigidi come manichini di plastica. Spostarono i piedi il minimo indispensabile a fare un po’ di spazio per Wilder.

Wilder esitò, cercando di controllare l’impulso a voltarsi e correre giù per le scale fino al suo appartamento. Gli occhi dei passeggeri erano fissi su di lui, diffidavano della sua indecisione e temevano che celasse qualche astuzia.

Mentre le porte cominciavano a chiudersi Wilder fece un passo avanti, entrando nell’ascensore con la telecamera alzata davanti a sé. La sua ascensione al grattacielo riprendeva.

13.

Segni sul corpo

Dopo una sosta di venti minuti, irritante come una coda a un posto di confine secondario, l’ascensore passò dal sedicesimo al diciassettesimo piano. Esausto per la lunga attesa, Wilder uscì sul pianerottolo cercando un posto dove buttare le sue scatole di cibo per animali. Pigiati uno sull’altro, spalla a spalla, gli analisti finanziari e i dirigenti televisivi di ritorno dai loro uffici stringevano saldamente le loro ventiquattrore, con gli occhi fissi davanti a sé per non guardarsi, come se studiassero le iscrizioni sulle pareti dell’ascensore. Il tettuccio d’acciaio era stato levato, e la lunga colonna si allungava sopra le loro teste, che erano alla mercé di chiunque avesse per caso a portata di mano un oggetto da tirargli.

I tre passeggeri scesi con lui sparirono fra le tante barricate dei corridoi male illuminati. Quando Wilder raggiunse l’appartamento degli Hillman scoprì che la porta era chiusa col catenaccio. Da dentro non veniva nessun rumore che indicasse movimento. Con ogni probabilità gli Hillman avevano abbandonato l’appartamento per cercare rifugio da amici. Ma poi Wilder sentì un leggero sfregamento provenire dall’anticamera. Premendo l’orecchio contro la porta, sentì la signora Hillman che parlava tra sé a bassa voce, mentre trascinava sul pavimento un oggetto pesante.

Dopo aver bussato a lungo e dopo una interminabile trattativa, nel corso della quale Wilder fu obbligato a parlare alla donna facendo le sue stesse moine, fu finalmente fatto entrare. L’ingresso era ostruito da una grossa barricata, fatta di mobili, elettrodomestici, libri, vestiti e soprammobili: una vera discarica comunale in miniatura.

Hillman giaceva su un materasso in camera da letto. Aveva la testa fasciata da un abito da sera fatto a strisce, attraverso il quale del sangue colava sul cuscino. Quando Wilder entrò, il ferito alzò la testa cercando di afferrare una sbarra della balaustra del balcone, che teneva accanto a sé sul pavimento. Hillman era stato uno dei primi capri espiatori a essere scelto e attaccato: le sue maniere brusche e l’atteggiamento indipendente ne facevano un bersaglio naturale. Nel corso di un’incursione al piano di sopra era stato colpito al capo con la statuetta di un premio televisivo, mentre cercava di salire per una rampa di scale ben guardata dai difensori. Era stato lo stesso Wilder a riportarlo nel suo appartamento e poi a curarlo per tutta la notte.

Con il marito fuori combattimento la signora Hillman dipendeva in tutto e per tutto da Wilder, ma si trattava di una dipendenza che anche a lui, per qualche ragione, era gradita. Quando Wilder era lontano, lei passava tutto il tempo a preoccuparsi per lui, come una mamma esageratamente apprensiva che si affligge per il figlio ribelle ma poi, non appena ritorna a casa, non lo guarda nemmeno.

Mentre Wilder osservava Hillman la donna lo tirava per la manica. Era più in ansia per la barricata che per il marito, il quale invece accusava preoccupanti disturbi della vista. Quasi tutto ciò che in casa si poteva spostare, per quanto piccolo fosse, lo aveva aggiunto alla barricata, a volte rischiando di rinchiuderli tutti in quella tomba. Ogni notte Wilder dormiva le poche ore che precedevano l’alba sdraiato su una poltrona in parte incastrata nella barricata. Sentiva la donna muoversi instancabilmente attorno a lui, aggiungendo un frammento di mobile trovato chissà dove, tre libri, un disco, il cofanetto dei suoi gioielli. Una volta Wilder, svegliandosi, aveva scoperto che gli aveva incorporato nella barricata parte della gamba sinistra. Spesso gli ci voleva mezz’ora per scavarsi una via d’uscita dall’appartamento.

“Cosa c’è?” le chiese Wilder con rabbia. “Cosa vuoi dal mio braccio?” Lei stava sbirciando il cibo per cani che Wilder, in assenza di mobili, non era riuscito a posare. Per un motivo o per l’altro, non gli andava che fosse aggiunto alla barricata.

“Ho pulito tutto per te,” gli disse lei con un certo orgoglio. “Volevi che ripulissi, no?”

“Certo…” Wilder si guardò in giro con l’aria del padrone di casa. In realtà non notava grandi cambiamenti e, se mai, l’appartamento lo preferiva sporco.

“E questo cos’è?” Tutta eccitata toccava col dito la scatola, colpendo Wilder nelle costole con fare furbesco come se avesse scoperto che il suo figlioletto aveva un regalino nascosto per lei. “È una sorpresa?”

“Lascia stare.” Wilder la scostò rudemente da sé, quasi facendola cadere. In un certo qual modo, quegli assurdi rituali gli piacevano. Con lei raggiungeva dei livelli di intimità che con Helen era impossibile toccare. Più saliva nell’edificio, più libero si sentiva di fare giochi del genere.

La signora Hillman riuscì a sottrarre dalla scatola un pacchetto di biscotti per cani. Era minuta, ma sorprendentemente agile. Fissò l’obeso basset-hound dell’etichetta. Sia lei, sia suo marito, erano magri come spaventapasseri. Con generosità, Wilder le diede un barattolo di cibo per gatti.

“Bagna i biscotti nel gin… Lo so che ne hai una bottiglia nascosta da qualche parte. Farà bene a entrambi.”

“Prendiamo un cane!” Quando vide che Wilder sembrava irritato dalla proposta gli si avvicinò di sghembo, con fare scherzoso, e gli posò le mani sull’ampio petto. “Un cane, eh? Per favore, Dicky…”

Wilder cercò di staccarsi da lei, ma quel tono lascivo e lamentoso, insieme alla pressione delle dita di lei sui capezzoli lo turbarono. L’inattesa abilità erotica di quelle dita eccitò una tendenza segreta della sua personalità. Hillman, con il vestito attorno alla testa come un turbante insanguinato, li guardava passivamente ma era sbiancato in volto. Con i disturbi della vista di cui ora soffriva, pensò Wilder, doveva avere l’impressione che la stanza si fosse riempita di replicanti suoi e della signora Hillman che si abbracciavano. Le si accostò ostentatamente, passandole per curiosità le mani sulle natiche, piccole come mele, per vedere come reagiva il ferito. Ma Hillman non diede il minimo segno di riconoscerli. Wilder smise di accarezzare la signora Hillman quando si accorse che lei reagiva con aperta disponibilità. Era a un altro livello che gli interessava sviluppare il loro rapporto.

“Dicky, lo so perché sei venuto a salvarmi…” La signora Hillman lo seguiva attorno alla barricata, sempre tenendolo per un braccio. “Li punirai?”

Era un altro dei loro giochi. “Salvarla” per lei significava essenzialmente che “loro” – cioè tutti gli abitanti del grattacielo al di sotto del diciassettesimo piano – sarebbero stati obbligati da Wilder a umiliarsi, prostrandosi davanti alla sua porta in una fila interminabile.

“Li punirò,” la rassicurò Wilder. “Va bene?”

Erano appoggiati alla barricata, e la signora Hillman gli premeva il viso dal mento aguzzo sul petto. Non c’era una coppia peggio assortita, riconobbe Wilder, per giocare a madre e figlio. Annuendo con ardore alla prospettiva di vendicarsi, la signora Hillman infilò una mano nella barricata e si mise a tirare un tubo metallico nero. Quando venne fuori, Wilder vide che era la canna di un fucile.

Sorpreso, le tolse l’arma dalle mani. Lei gli rivolse un sorriso incoraggiante, come se si aspettasse che Wilder uscisse immediatamente in corridoio e uccidesse qualcuno. Wilder aprì il fucile e vide che nelle canne c’erano due cartucce cariche.

Spostò l’arma fuori dalla portata della signora Hillman. Si rese conto che quella era solo una delle centinaia di armi da fuoco presenti nel grattacielo, fucili da caccia, carabine a ricordo del servizio militare, pistole da borsetta. Ma, nonostante l’epidemia di violenza che infestava l’edificio, nessuno aveva sparato un solo colpo. Wilder sapeva perfettamente il perché. Lui stesso non sarebbe mai arrivato a sparare con quel fucile, nemmeno in punto di morte. Fra gli inquilini del grattacielo c’era il tacito accordo di risolvere la loro contesa soltanto attraverso lo scontro fisico.

Ficcò di nuovo il fucile nella barricata e diede una spinta in pieno petto alla signora Hillman. “Va’ via. Salvati da sola…”

Mentre lei protestava, un po’ per gioco e un po’ sul serio, cominciò a gettarle i biscotti per cani, disseminandoli dappertutto sul pavimento sgombro. Wilder si divertiva a trattarla male. Schernendola davanti al marito supino le nascondeva il cibo, rifiutando di darglielo finché lei rinunciò e si ritirò in cucina. Il pomeriggio passò così, in allegria. Mentre l’oscurità scendeva sul grattacielo, Wilder diventava sempre più rozzo, comportandosi di proposito in modo grossolano, come un giovane delinquente che scherza con una maîtresse inebetita.

Fino alle due di una notte punteggiata da intermittenti esplosioni di violenza, Wilder rimase nell’appartamento degli Hillman, al diciassettesimo piano. La marcata diminuzione del numero di incidenti lo infastidiva, perché, per la sua scalata dell’edificio, Wilder contava sulla possibilità di offrirsi come combattivo guerrigliero all’uno o all’altro dei gruppi in lotta. E invece gli scontri aperti fra le tribù, che avevano caretterizzato la settimana precedente, erano chiaramente cessati. Con il disfacimento della struttura del clan, le linee di confine e le demarcazioni ufficiali delle aree di tregua si erano dissolte, dando luogo alla formazione di una serie di piccole enclave, costituite dall’unione di tre o quattro appartamenti isolati. Ma penetrarvi per sottometterle era molto più difficile.

Lui e la signora Hillman, seduti al buio sul pavimento del salotto con la schiena appoggiata a due pareti opposte, avevano ascoltato i rumori attutiti che si levavano attorno a loro. Gli abitanti del grattacielo erano come gli animali di uno zoo immerso nell’oscurità che giacevano insieme immersi in uno scontroso silenzio e, ogni tanto, si dilaniavano l’un l’altro in brevi atti di ferina violenza.

I vicini degli Hillman, un agente assicurativo e la moglie da un lato, due account e un farmacologo dall’altro, erano indolenti e disorganizzati. Wilder era andato a trovarli più volte, ma aveva scoperto che neppure prospettando loro dei vantaggi riusciva a scuoterli. Di fatto, l’unica cosa che riusciva a galvanizzare le loro menti appannate era il ricorso alle più rumorose espressioni di ostilità irrazionale. Wilder inscenava per loro accessi di collera finti e veri, e le sue fantasie di vendetta li risvegliavano per un po’ dal loro torpore.

Questa tendenza a fare gruppo attorno alle figure più combattive e radicali, scegliendole come nuovi capi, si stava diffondendo in tutto il grattacielo. Dopo la mezzanotte cominciavano a vedersi lampeggiare le torce elettriche da dietro le barricate degli atri e dei corridoi, dove gruppi di quattro o cinque inquilini si riunivano, accovacciati fra i sacchi della spazzatura, incitandosi l’un l’altro come gli invitati di un matrimonio che si ubriacavano, sapendo che presto anche loro si sarebbero accoppiati liberamente fra i dolci.

Alle due Wilder lasciò l’appartamento degli Hillman e si preparò a eccitare i suoi vicini alla battaglia. Gli uomini erano acquattati tutti insieme, con le mazze e le lance alla mano, e facevano girare le fiaschette del whisky. Le torce elettriche illuminavano le montagne di sacchi della spazzatura che li circondavano, imponente museo dei loro avanzi. Wilder si mise a sedere nel centro del gruppo, e cominciò a tratteggiare il suo piano per una nuova spedizione ai piani superiori, in cerca di vettovaglie. Benché da giorni non mangiassero quasi nulla, i suoi vicini esitavano, temendo la potenza di quelli che abitavano sopra di loro. Abilmente, Wilder si servì, per convincerli, delle loro stesse fantasie. Ancora una volta scelse, come capro espiatorio immaginario, lo psichiatra Adrian Talbot, che accusò questa volta di aver molestato un bambino in una cabina della piscina. La falsità dell’accusa, di cui tutti erano assolutamente coscienti, servì solo a rafforzarla. Nonostante ciò, prima di partire insistettero con Wilder perché inventasse un crimine ancora più sinistro, come se proprio la natura immaginaria delle trasgressioni sessuali di Talbot costituisse l’essenza del loro fascino. Nella logica del grattacielo le trasgressioni più innocenti diventavano le più colpevoli.

Poco prima dell’alba Wilder si ritrovò in un appartamento vuoto del ventiseiesimo piano. L’appartamento, una volta occupato da una donna con un figlio, era stato abbandonato solo di recente, senza neppure cercare di mettere un lucchetto esterno alla porta. Stanco dopo una notte di furia, Wilder sfondò la porta in un attimo. Lasciando la sua squadra di guastatori a distruggere l’appartamento di Talbot per la decima volta, aveva pensato di cercarsi, in quegli ultimi minuti di oscurità, un appartamento vuoto dove sistemarsi a dormire per le lunghe ore di luce, in tempo per riprendere, al tramonto, la sua scalata al grattacielo.

Wilder fece il giro delle tre stanze, assicurandosi che non ci fosse nessuno nascosto in cucina o nel bagno. Vagò per l’appartamento buio, aprendo a calci gli armadi e gettando a terra tutti i libri e i soprammobili che trovava. Prima di partire la proprietaria aveva cercato senza troppa convinzione di lasciare in ordine la casa, mettendo via i giochi del bambino in un armadio della camera da letto. La vista dei pavimenti scopati di fresco e delle tende accuratamente tirate turbò Wilder. Gettò i cassetti sul pavimento, tolse i materassi dai letti e urinò nella vasca da bagno. La sua figura corpulenta, con i pantaloni aperti a esibire i grossi genitali, lo fissava dagli specchi della camera da letto. Stava per spaccare il vetro, ma la vista del suo pene, un bastone bianco sospeso nel buio, lo calmò. Gli sarebbe piaciuto adornarlo in qualche modo, magari con un nastro per capelli legato a fiocco floreale.

Ora che era solo, Wilder si sentiva fiducioso a proposito della sua avanzata. Perfino la fame era coperta dalla sensazione di trionfo che provava per essere salito oltre la metà del grattacielo. Dalle finestre faticava a vedere il suolo, un mondo che si era lasciato alle spalle. Lassù da qualche parte, Anthony Royal se ne andava tutto impettito con il suo pastore tedesco, ignaro che presto qualcuno gli avrebbe fatto una sorpresa.

All’alba ricomparve la proprietaria dell’appartamento, che entrò alla cieca in cucina, dove Wilder stava riposando. Era rilassato, finalmente, e sedeva comodamente sul pavimento, appoggiato alla cucina economica, i resti del pasto sparsi attorno a lui. Aveva trovato qualche scatoletta di cibo e due bottiglie di vino rosso, nel luogo dov’erano invariabilmente nascoste le provviste: in camera, sotto le assi del pavimento in corrispondenza dell’armadio. Mentre apriva le scatolette aveva giocato con un registratore a batterie nascosto fra le cose del bambino. Aveva registrato i suoi grugniti e rutti, poi li aveva riascoltati. Wilder si era rallegrato per l’abilità con cui aveva mixato il nastro, sovrapponendo alla prima una seconda e poi una terza serie di rutti. Era una capacità che ormai risiedeva totalmente e unicamente nelle sua dita coperte di cicatrici, con le unghie spezzate e nere.

Le bottiglie di bordeaux gli avevano regalato una piacevole sonnolenza. Versandosi il vino rosso sull’ampio petto, guardò amabilmente la donna sbalordita, che era entrata a tentoni in cucina e aveva inciampato nelle gambe di Wilder.

Mentre lei lo fissava, Wilder si ricordò che una volta si chiamava Charlotte Melville. Il nome si era staccato da lei, come il numero di un atleta portato via da una raffica di vento. Sapeva di essere stato spesso in quell’appartamento, e così si spiegava la sua vaga familiarità con i giocattoli del bambino e i mobili, anche se le sedie e il divano erano stati spostati per proteggere vari nascondigli.

“Wilder…?” Come se non fosse sicura del nome, Charlotte Melville l’aveva pronunciato a voce bassa. Durante la notte si era rifugiata con il figlio tre piani più sopra, nell’appartamento dello statistico con cui aveva fatto amicizia. All’apparire della prima luce, quando la situazione si era calmata, era tornata con l’intenzione di raccogliere le ultime riserve di cibo prima di lasciare definitivamente l’appartamento. Ritrovando rapidamente la calma, guardò critica quell’uomo massiccio che esibiva i genitali sdraiato come un selvaggio in mezzo alle sue bottiglie di vino, con il petto dipinto di strisce rosse. Non si sentiva depauperata né offesa, provava invece un senso di accettazione fatalistica dei danni che quell’uomo aveva inflitto senza ragione al suo appartamento, come il forte odore di urina nel bagno.

Sembrava mezzo addormentato, per cui la donna si avviò piano verso la porta. Wilder allungò una mano e le prese la caviglia, poi le sorrise confusamente. Si mise in piedi e iniziò a girarle attorno, con il registratore alzato come se volesse colpirla. Invece lo accendeva e spegneva, facendole sentire la selezione di rutti e grugniti, evidentemente compiaciuto per quella dimostrazione di inattesa perizia. La guidava lentamente per tutto l’appartamento e lei passava, camminando all’indietro, da una stanza all’altra, sempre ascoltando quel montaggio di brontolii.

La prima volta che la colpì, gettandola sul pavimento della camera con uno schiaffo, cercò di registrare il suo gemito, ma la testina si era bloccata. Wilder la liberò con cautela, si chinò e la schiaffeggiò nuovamente, fermandosi solo dopo aver registrato le sue grida, ora intenzionali e intese a soddisfarlo. Gli piaceva terrorizzarla e registrare i suoi gemiti, esagerati, certo, ma pur sempre spaventati. Durante il rozzo atto sessuale che seguì, sul materasso in camera del bambino, Wilder lasciò il registratore acceso sul pavimento e poi riascoltò il sonoro del veloce stupro, mixando il rumore dei vestiti strappati con il rabbioso ansimare di lei.

Qualche tempo dopo, stufo sia della donna sia di giocare con il registratore, gettò il congegno in un angolo. Il suono della sua voce, per quanto parlasse grossolanamente, introdusse un elemento discordante. Gli dava fastidio parlare, con Charlotte o chiunque altro, perché gli sembrava che le parole riempissero le cose dei significati sbagliati.

Dopo che Charlotte si fu rivestita fecero colazione insieme sul balcone, seduti a tavola in un assurdo atteggiamento formale, all’antica. Lei mangiò gli avanzi di carne in scatola che aveva trovato sul pavimento di cucina. Wilder finì quel che restava del bordeaux, rinfrescando con il vino le strisce rosse che aveva sul petto. Il sole che sorgeva gli scaldò i genitali scoperti e a Wilder sembrò di essere un marito contento, seduto accanto alla moglie nella sua bella villa, in alto sul fianco di una montagna. Ingenuamente, desiderava spiegare a Charlotte la sua ascensione al condominio e, con un gesto timido, le indicò il tetto. Ma lei non capì. Si strinse i vestiti strappati sul corpo pieno di forza. Aveva dei lividi sulla bocca e sulla gola ma non sembrava curarsene, guardava Wilder con un’espressione passiva in volto.

Dal balcone Wilder riusciva a vedere il tetto, era a poco più di una dozzina di piani. L’ebbrezza di vivere a quelle altitudini era più tangibile di qualsiasi effetto potesse produrre la bottiglia di vino che aveva fra le mani. Riusciva già a distinguere la fila di grossi uccelli appollaiati sulle balaustre, certo in attesa che arrivasse lui e prendesse il comando.

Sotto, al ventesimo piano, un uomo stava cucinando sul balcone: faceva a pezzi un tavolino da salotto e aggiungeva le gambe del mobile al mucchio di braci su cui stava, in equilibrio, un barattolo di minestra.

Un’auto della polizia si avvicinò all’ingresso dell’area residenziale. Era ancora molto presto, ma alcuni inquilini stavano già partendo per andare al lavoro, tutti ben vestiti con i loro completi, l’impermeabile e la cartella in mano. Le auto abbandonate sulle vie d’accesso impedivano alla polizia di raggiungere l’entrata principale, così gli agenti scesero dalla macchina e si misero a parlare con i condomini che passavano. Di norma nessuno di loro avrebbe mai parlato con gente di fuori, ma in quel caso si raccolsero in gruppo attorno ai due poliziotti. Wilder si chiese per un attimo se non stessero svelando il gioco ma, pur non potendo ascoltarli, era sicuro di sapere cosa stavano dicendo. Stavano chiaramente tranquillizzandoli e rassicurandoli sul fatto che, nonostante la spazzatura e le bottiglie rotte sparse attorno all’edificio, era tutto in ordine.

Prima di andare a dormire, Wilder decise di controllare come era difeso l’appartamento e uscì in corridoio. Si fermò nel vano della porta, mentre l’aria stagnante del corridoio lo investiva. Wilder assaporò i ricchi odori del grattacielo. Come la spazzatura, anche gli escrementi di chi abitava più in alto nell’edificio avevano un odore nettamente diverso.

Tornato sul balcone, restò a guardare l’auto della polizia che se ne andava. Dei circa venti inquilini che uscivano ancora ogni mattina per andare al lavoro, tre avevano fatto marcia indietro, evidentemente stravolti dall’impresa di convincere i poliziotti che andava tutto bene. Senza guardare su, si dirigevano in tutta fretta verso l’entrata.

Wilder sapeva che non sarebbero più usciti. La completa separazione del grattacielo dal mondo circostante era ormai quasi avvenuta e avrebbe probabilmente coinciso con il suo arrivo in cima. Quell’immagine lo placò. Sedette sul pavimento e, appoggiandosi alla spalla di Charlotte Melville, si addormentò mentre lei gli accarezzava le strisce color vino sul petto e sulle spalle.

14.

Il trionfo finale

Al tramonto, dopo aver rafforzato il servizio di guardia, Anthony Royal ordinò che fossero accese le candele sulla tavola. Con le mani infilate nelle tasche dello smoking guardava, dalle finestre dell’attico al quarantesimo piano, le piazzole di cemento dell’area residenziale. Tutti gli inquilini che quella mattina erano usciti per recarsi al lavoro avevano appena parcheggiato le loro macchine ed erano rientrati nell’edificio. Con il loro ritorno, Royal sentì per la prima volta di potersi rilassare, gli sembrava di essere un comandante ansioso di spiegare le vele, che vede l’ultimo membro dell’equipaggio rientrare dalla franchigia in un porto straniero. La serata era cominciata.

Royal si accomodò sulla sedia di quercia dall’alto schienale, a un capo della tavola. La luce delle candele guizzava sulla posateria d’argento e il vasellame dorato, si rifletteva sui risvolti di seta della sua giacca. Come sempre, gli venne da sorridere per la teatralità della scelta che aveva escogitato e che sembrava uno spot improvvisato a basso costo per un prodotto d’alto livello. Tutto era cominciato tre settimane prima, quando lui e Pangbourne avevano stabilito di cenare in smoking tutte le sere. Royal aveva ordinato alle donne di allungare la tavola fino in fondo, in modo che potesse sedere con le spalle rivolte ai finestroni dell’appartamento e alle terrazze illuminate degli edifici vicini. In risposta al nuovo atteggiamento di Royal, le donne avevano preso candelieri e argenteria dai loro segreti nascondigli, e gli servivano piatti di complessa ed elaborata preparazione. Le loro ombre si proiettavano sul soffitto come se fossero nel salone dei banchetti di un feudatario. Seduto all’altro capo della lunga tavola, Pangbourne ne era rimasto adeguatamente impressionato.

Naturalmente, come il ginecologo ben sapeva, quella messa in scena non aveva alcun significato. A un solo passo dal cerchio di luce dei candelieri, i sacchi di spazzatura erano accatastati alle pareti in sei file sovrapposte. Fuori di lì, i corridoi e le scale erano pieni di mobili rotti e barricate fatte di lavatrici e freezer. Le colonne degli ascensori erano diventate i nuovi scivoli per i rifiuti. Nessuno dei venti ascensori dello stabile funzionava più, e le colonne erano piene di avanzi di cucina e carcasse di cani. Un’ultima, declinante sembianza di ordine sociale sopravviveva solo agli ultimi tre piani, che costituivano l’unica unità tribale rimasta nel grattacielo. Il solo errore commesso da Royal e Pangbourne era stato appunto quello di presumere che sotto di loro sarebbe sempre sopravvissuta una qualche forma di organizzazione della società, da sfruttare e dominare. Stavano invece entrando in una nuova era, quella dell’assenza di ogni struttura sociale. I clan si erano dissolti, dando luogo a piccoli gruppi di assassini e ai cacciatori solitari che costruivano trappole antiuomo negli appartamenti abbandonati, o depredavano gli incauti che si facevano trovare negli atri davanti agli ascensori, ormai sempre deserti.

Royal alzò lo sguardo dalle raffinatezze della tavola quando una delle donne entrò nella stanza, con un vassoio d’argento sulle forti braccia. Fissandola si ricordò che era la signora Wilder. Indossava un abito di Anne, un tailleur pantaloni di ottimo taglio, e Royal rilevò, come gli era già capitato di notare altre volte, con quanta facilità quella donna intelligente si era adattata alla vita dei piani superiori del grattacielo. Era stata trovata due settimane prima, acquattata con i suoi figli in un appartamento del diciannovesimo, dopo che Wilder l’aveva abbandonata. Era totalmente sfinita, obnubilata dalla fame e dall’indignazione. Cercando il marito, o in risposta a un debole istinto ancora vivo in lei, aveva cominciato a salire per l’edificio. La squadra di incursori l’aveva portata all’ultimo piano. Pangbourne voleva disfarsi di quella donna anemica e delirante, ma Royal revocò l’ordine. Da qualche parte, là sotto, Wilder continuava la scalata al grattacielo, e sua moglie un giorno avrebbe potuto trasformarsi in un utile ostaggio. Fu portata via e andò a raggiungere il gruppo di mogli reiette che vivevano con i loro bambini nell’appartamento vicino, facendo le serve per guadagnarsi vitto e alloggio.

In pochi giorni la signora Wilder aveva ripreso forza e fiducia in se stessa. Uscita dal suo stato di stupefatta prostrazione, a Royal ora ricordava la bella e seria moglie di un giornalista televisivo di successo che era arrivato nel grattacielo un anno prima.

Notò che stava togliendo il coperto di Pangbourne, e riponeva la scintillante argenteria sul vassoio.

“Sembrano abbastanza pulite,” le disse Royal. “Non credo che il dottor Pangbourne noterà nulla.” Dato che lei lo ignorava, continuando a rimuovere le posate, Royal le domandò: “Ha sue notizie? Non mi raggiungerà stasera, io credo, no?”.

“E neppure nelle prossime sere. Ha deciso di declinare gli inviti, per l’avvenire.” La signora Wilder lanciò un’occhiata all’architetto Royal dall’altra parte della tavola, come se provasse una certa apprensione per lui. Poi soggiunse, semplicemente: “Io mi guarderei dal dottor Pangbourne”.

“È quello che ho sempre fatto.”

“Quando un uomo come il dottor Pangbourne perde appetito per il cibo è ragionevole supporre che abbia fra i denti qualcosa di molto più interessante… E molto più pericoloso.”

Royal ascoltò il suo accorto consiglio senza alcun commento. Non si sorprendeva che le loro cene fossero giunte al termine. Sia lui sia il dottor Pangbourne, anticipando l’inevitabile scioglimento dell’ultimo clan del condominio, si erano ritirati nei loro quartieri ai due lati opposti del tetto, ciascuno portandosi le sue donne. Pangbourne aveva traslocato nell’attico un tempo appartenuto al gioielliere scomparso. Era abbastanza curioso, Royal osservò, ma presto sarebbero tornati da dove erano partiti, ogni inquilino isolato nel suo appartamento.

Qualcosa gli diceva che sarebbe stato meglio lasciar perdere la cena, ma lui attese che la signora Wilder lo servisse. Se era sopravvissuto fino ad allora, qualsiasi cosa quel ginecologo potesse organizzare non poteva certo intralciargli il cammino. Con il passare dei mesi, quasi ogni traccia dell’incidente era sparita, e Royal non si era mai sentito così forte e sicuro di sé. Era riuscito nel tentativo di dominare il grattacielo, dimostrando ampiamente il suo diritto a regnare sull’immenso edificio, anche se per questo aveva dovuto rinunciare al suo matrimonio. Quanto al nuovo ordinamento sociale che aveva sperato di veder emergere, aveva capito che con quell’antica visione della voliera a grattacielo si era avvicinato alla realtà più di quanto pensasse… Senza saperlo, aveva costruito un gigantesco zoo verticale, con centinaia di gabbie accatastate l’una sull’altra. E allora, per cogliere il senso di tutti i fatti avvenuti nei mesi precedenti, bastava capire che quelle creature brillanti ed esotiche avevano imparato ad aprire gli sportelli.

Royal si appoggiò allo schienale, mentre la signora Wilder lo serviva. Dato che nella sua cucina mancavano del tutto le attrezzature, i pasti gli venivano preparati nell’appartamento vicino. La signora Wilder ritornò con il vassoio, scavalcando i sacchi della spazzatura allineati lungo le pareti… Nonostante fossero caduti nella barbarie, gli inquilini del grattacielo rimanevano fedeli alle loro origini continuando a produrre grandi quantità di rifiuti.

Come sempre, il piatto forte della cena consisteva in un pezzo di carne arrostita. Royal non faceva mai domande sulla provenienza della carne… Presumibilmente era cane. Le sue donne sapevano come gestire la questione delle forniture. La signora Wilder rimase in piedi accanto a lui, fissando lo sguardo sulla notte, mentre Royal assaggiava il piatto fortemente speziato. Come una governante ben istruita, restava in attesa che Royal desse qualche segno di approvazione, anche se non sembrava mai preoccuparsi delle lodi o delle critiche. Gli parlava con una voce incolore, molto diversa dal tono animato che usava con Anne e le altre donne. Di fatto, la signora Wilder passava con la moglie di Royal più tempo di lui. Nell’appartamento accanto vivevano insieme sei donne, ufficialmente perché così sarebbe stato più facile proteggerle da un attacco a sorpresa. A volte Royal passava a trovare la moglie, ma c’era qualcosa che lo intimidiva in quel gruppo di donne saldamente unite fra loro, sedute sui letti attorniati dai sacchi della spazzatura, a occuparsi tutte insieme dei figli della Wilder. I loro occhi lo fissavano, mentre stava esitante sulla porta, e aspettavano solo che se ne andasse. Anche Anne si era allontanata da lui, in parte perché Royal le faceva paura, ma anche perché si rendeva conto che non aveva più bisogno di lei. Alla fine, dopo mesi trascorsi a cercare di ribadire il suo status superiore, aveva deciso di ricongiungersi con i suoi vicini.

“Buono… Ancora una volta, è davvero eccellente. Aspetti… Non se ne vada.” Royal posò la forchetta. In tono indifferente, le chiese: “Sa niente di lui? Magari qualcuno lo ha visto?”.

La signora Wilder scrollò il capo, seccata da quell’interrogatorio indiretto. “Chi?”

“Suo marito… Richard, credo si chiami. Wilder.”

La signora Wilder lo fissò scuotendo la testa come se non lo riconoscesse. Royal era certo che avesse scordato l’identità non solo di suo marito, ma di tutti gli uomini, incluso lui. Per provarlo, le mise una mano su una coscia, palpandone la forte muscolatura. La signora Wilder rimase in piedi con il suo vassoio, assolutamente passiva, senza nemmeno accorgersi che Royal l’accarezzava, sia perché nei mesi precedenti era stata molestata da un’infinità di uomini, sia perché la stessa aggressione sessuale aveva ormai cessato di avere qualsiasi significato. Quando Royal le fece scivolare due dita nel solco fra i glutei reagì, non spingendogli via la mano ma spostandola sull’addome e tenendola lì, come avrebbe fatto con le mani dei suoi bambini.

Quando se ne fu andata, portandosi via la porzione di carne che il suo padrone lasciava sempre per lei, Royal si accomodò meglio sulla sedia davanti alla lunga tavola. Era contento che se ne andasse. Senza chiederlo, la signora Wilder aveva lavato e stirato la sua giacca bianca, facendo sparire le macchie di sangue che gli avevano conferito non solo la sua autorità ma anche un ruolo indiscusso nel grattacielo.

Lo aveva fatto di proposito, sapendo che così lo avrebbe evirato? Royal si ricordava ancora l’epoca delle feste senza fine, quando il condominio sembrava un ebbro transatlantico. Allora, aveva esercitato fino in fondo il ruolo di capo feudale, presiedendo ogni sera le riunioni del consiglio che si tenevano nel suo salotto. Seduti insieme alla luce delle candele, quei neurochirurghi, docenti universitari e finanzieri manifestavano tutte le capacità di intrigo e autoconservazione esercitate in anni e anni di carriera nell’industria, nel commercio e all’università. Nonostante il lessico ufficiale degli ordini del giorno e dei promemoria, le mozioni avanzate e accolte, e tutto l’armamentario verbale ereditato da centinaia di riunioni di commissioni, in effetti quelle erano assemblee tribali. In quella sede si discutevano i più recenti stratagemmi per ottenere cibo e donne, o per difendere i piani alti dai predoni, e i programmi di alleanza e tradimento. Finalmente era affiorato il nuovo ordine, per cui tutta la vita del grattacielo ruotava attorno a tre ossessioni: sicurezza, cibo e sesso.

Alzandosi da tavola, Royal prese un candeliere d’argento e lo portò con sé accanto alla finestra. Tutte le luci del grattacielo erano saltate. Due piani, il quarantesimo e il trentasettesimo, avevano ancora l’energia elettrica, ma venivano lasciati spenti. L’oscurità era più confortante, era un luogo in cui potevano fiorire illusioni reali.

Quaranta piani sotto, un’auto svoltò nel parcheggio e si fece strada nel dedalo di vialetti d’accesso fino al suo posto, a duecento metri dal palazzo. L’uomo, che indossava un giubbotto da aviatore e pesanti stivali, scese dalla macchina e si diresse in fretta, a testa bassa, verso l’entrata. Royal pensò che quello sconosciuto era probabilmente l’ultimo inquilino a lasciare il grattacielo per andare in ufficio. Chiunque fosse, era riuscito a trovare una via di andata e ritorno al suo appartamento.

Da qualche parte sul tetto, si udì il guaito di un cane. Molto più in basso, venti piani sotto di lui, dalla bocca di un appartamento uscì un breve grido isolato… Se di dolore, lussuria o collera non importava più. Royal attese, con il cuore che cominciava ad accelerare. Un attimo dopo ci fu un secondo urlo, un lamento insensato. Quelle grida erano l’espressione di emozioni totalmente astratte, avulse dal contesto degli eventi.

Royal attendeva che qualcuno del suo seguito entrasse per informarlo delle probabili motivazioni di quello scompiglio. Oltre alle donne dell’appartamento vicino, alcuni fra i più giovani inquilini maschi – il proprietario di una galleria del trentanovesimo e un parrucchiere di grido del trentottesimo – stazionavano di norma nel corridoio tra i sacchi della spazzatura, appoggiati ai loro stessi rifiuti, a tenere d’occhio le barricate erette sulle scale.

Prendendo il bastone cromato, Royal uscì dalla sala, facendosi luce con un’unica candela, infilata nel candeliere d’argento. Inciampando sui sacchi di plastica nera si chiese perché non li avessero mai gettati fuori della finestra. Probabilmente si tenevano stretto il loro pattume non tanto per paura di attirare l’attenzione del mondo esterno, quanto per il bisogno di restare attaccati a ciò che era loro, di circondarsi con le mucillaggini di pasti lasciati a metà, bende insanguinate, bottiglie rotte ma un tempo piene del vino che li aveva ubriacati, tutte cose che si potevano sempre intravvedere attraverso la plastica semitrasparente.

Il suo appartamento era vuoto, le stanze dagli alti soffitti deserte. Guardingo, Royal uscì nel corridoio. Il posto di guardia accanto alle barricate era sguarnito e, dall’ingresso dell’appartamento accanto al suo, dove abitavano le donne, non filtrava luce. Sorpreso dall’assenza di luci nella cucina, di solito piena di gente indaffarata, Royal attraversò l’anticamera immersa nel buio. Diede un calcio a un giocattolo e alzò il candeliere sopra la testa, nel tentativo di vedere le persone che eventualmente stessero dormendo nelle stanze.

Nella camera da letto grande, sui materassi che ricoprivano il pavimento, c’erano delle valigie aperte. Royal si fermò nel vano della porta, lasciandosi attorniare nell’oscurità da una miscela di odori, le pungenti scie lasciate dalle donne in fuga. Dopo un attimo di esitazione, accese la luce.

L’istantaneo bagliore della luce, dopo il vacillante chiarore delle candele e i raggi delle torce elettriche, illuminò i sei materassi nella camera. Le valigie riempite a metà giacevano una sopra l’altra, come se le donne fossero fuggite all’improvviso, o per il sopraggiungere di un segnale concordato. Avevano lasciato buona parte dei vestiti e Royal riconobbe il tailleur che la signora Wilder indossava servendo la cena. Le grucce con gli abiti e i vestiti da sera di Anne erano tutte appese negli armadi, sembrava un negozio.

La luce della sera, come a indicare l’ora in una foto scattata dalla polizia sulla scena di un crimine, scendeva su quei materassi strappati e sugli abiti scartati, sulle macchie di vino alle pareti e sui cosmetici dimenticati per terra.

Con lo sguardo fisso su quei cosmetici, Royal sentì una specie di stridio che si allontanava, come se a emetterlo fossero quelle donne che scappavano. Da giorni li sentiva, quei gridolini e grugniti nasali, cercando senza esito di scacciarli dalla mente. Spense la luce, afferrò saldamente a due mani il bastone e uscì dall’appartamento.

Si fermò subito fuori della porta, ad ascoltare quei suoni in lontananza. Sembrava la parodia elettronica del pianto di un bambino. Filtravano dagli appartamenti sul lato opposto del piano: metallici e remoti, erano i versi emessi dalle bestie del suo zoo privato.

15.

L’intrattenimento serale

Con il trascorrere della sera, il condominio si chiudeva in se stesso, al buio. A quell’ora il grattacielo era sempre silenzioso, come se tutti, nell’immenso edificio, stessero oltrepassando una zona di confine. Sul tetto i cani guaivano a se stessi. Royal spense le candele e salì le scale, diretto all’attico. I pistoni cromati della macchina da ginnastica, riflettendo le luci del grattacielo vicino, davano l’impressione di salire e scendere, come le colonnine di mercurio di un complesso marchingegno che registrasse i mutevoli standard psicologici degli inquilini di sotto. Quando Royal uscì sul tetto vide che l’oscurità era rischiarata dalle sagome bianche di centinaia di uccelli. Sbattevano le ali nell’aria cupa, come se lottassero per trovare posto sulle affollate tettoie degli ascensori e sulle balaustre.

Royal attese che lo circondassero, allontanando i becchi dalle sue gambe con il bastone. Sentì che si stava calmando. Se le donne e gli altri membri del suo decrescente entourage avevano deciso di abbandonarlo, tanto meglio. Là al buio, fra gli uccelli che lanciando le loro strida si gettavano in picchiata e i cani che guaivano nel giardino delle sculture, si sentiva davvero a casa. Era sempre più convinto che i gabbiani fossero arrivati lì perché attratti dalla sua presenza.

Disperdendo gli uccelli che si trovavano sulla sua strada, aprì il cancello del giardino delle sculture. Quando lo riconobbero, i cani cominciarono a uggiolare e a dare strattoni ai guinzagli a cui erano legati. Quei retriever, barboncini e bassotti erano tutto ciò che restava dei cento e più animali che una volta vivevano ai piani alti del grattacielo. Erano tenuti lì come riserva alimentare strategica, ma Royal aveva fatto in modo che solo pochi di loro venissero effettivamente mangiati. Quei cani costituivano la sua personale muta da caccia, da tenere fino al momento dello scontro finale, quando li avrebbe guidati giù per il palazzo, spalancando le finestre degli appartamenti barricati per far entrare gli uccelli.

Trattenuti dai guinzagli intrecciati alle sculture, cercavano di morderlo alle gambe. Anche il preferito di Royal, il pastore tedesco bianco, era irrequieto e nervoso. Royal cercò di calmarlo, accarezzandone il mantello lucente, tuttora macchiato di sangue. Il cane però lo respinse, facendolo arretrare fra le ciotole vuote.

Mentre si rimetteva in equilibrio, Royal udì delle voci provenire dalla rampa di scale al centro del tetto, a una trentina di metri da lui. Vide avvicinarsi delle luci, era una processione di torce elettriche tenute all’altezza della spalla. I loro raggi squarciavano l’aria scura della notte, disperdendo gli uccelli nel cielo. Un registratore portatile diffondeva una musica altissima, che quasi copriva il rumore dei manubri sbattuti insieme. Mentre Royal si fermava dietro una colonna d’ascensore, un gruppo di suoi vicini dei piani più alti uscì sul tetto. Al comando di Pangbourne, si distanziarono in un ampio cerchio sulla terrazza panoramica, pronti a celebrare un recente trionfo. Senza l’autorizzazione di Royal, che non era stato neppure informato, avevano fatto un’incursione ai piani inferiori.

Il ginecologo era eccitatissimo, e faceva segno agli ultimi di salire le scale come un accompagnatore turistico folle. Dalla sua bocca uscì una serie di strani ululati e gridolini, grugniti appena articolati che facevano pensare ai richiami per l’accoppiamento dell’uomo di Neanderthal ma erano, in realtà, la riproduzione pangbournaria dei pianti alla nascita registrati e analizzati dal suo computer. Erano i bizzarri e inquietanti rumori che Royal era stato costretto ad ascoltare per settimane, perché ogni tanto qualcuno dei membri della sua cerchia attaccava con quel ritornello. Alcuni giorni prima aveva finalmente bandito del tutto l’esecuzione di simili rumori. Quando sedeva nell’attico a pensare ai suoi uccelli lo innervosiva sentire le donne che, dalla cucina, emettevano grugniti e versi metallici. Ma Pangbourne, nei suoi quartieri sull’altro lato del tetto, organizzava a intervalli regolari delle sedute durante le quali, alle donne che si accovacciavano silenziose in cerchio attorno a lui, faceva ascoltare tutta la sua collezione di pianti alla nascita. Poi imitavano insieme quei suoni bizzarri, un emblema vocale della crescente autorità di Pangbourne.

Adesso che avevano abbandonato Royal davano libero sfogo a tutto ciò che avevano imparato, stridendo e ringhiando come una congrega di aspiranti madri impazzite, che invocavano i traumi della nascita dei loro neonati.

Aspettando il momento più adatto per la sua entrata, Royal fece accucciare il pastore tedesco dietro un tendone logoro, appoggiato alla colonna degli ascensori. Per una volta era felice di avere addosso lo smoking, la sua sahariana si sarebbe vista lontano un chilometro.

Avevano prelevato due “ospiti”, un analista finanziario del trentaduesimo piano con la testa fasciata, e un meteorologo miope del ventisettesimo. La donna che aveva in mano il registratore, lo notò senza turbarsene, era sua moglie Anne. Vestita in modo trasandato, con i capelli in disordine, si appoggiava alla spalla di Pangbourne. Poi cominciò a girare qua e là nel cerchio formato dalle torce, come una prostituta lunatica, brandendo il registratore contro i prigionieri.

“Signore… prego. Altri adempimenti ci attendono.” Pangbourne tranquillizzò le donne, muovendo le dita sottili come fragili bastoncini nella luce confusa. Il mobile bar abbandonato sul terrazzo fu rimesso dritto. Gli posero accanto un tavolino e due sedie su cui gli ospiti, sconvolti, dovettero prendere posto. L’analista finanziario cercava di sistemare la fasciatura che si era sciolta, come se avesse paura di essere chiamato a giocare a mosca cieca. Il meteorologo si sforzava di vedere qualcosa alla luce delle torce elettriche, sperando di riconoscere qualcuno fra i partecipanti alla festa. Royal li conosceva tutti, i presenti, fino all’anno prima erano i suoi vicini, e gli sembrava quasi di essere a uno dei molti cocktail party che si erano fatti sul tetto quell’estate. Allo stesso tempo gli sembrava anche di assistere al primo atto di un’opera o di un balletto stilizzati, in cui un ristorante veniva ridotto a un unico tavolo e l’eroe, già condannato al suo destino, era schernito da un coro di camerieri prima di essere avviato a morire.

Gli anfitrioni di quella festa avevano già bevuto parecchio prima che i loro due ospiti arrivassero. La vedova impellicciata del gioielliere, Anne con il suo registratore, Jane Sheridan che agitava uno shaker, stavano tutte dondolandosi come se seguissero una musica disordinata che solo Royal non riusciva a sentire.

Pangbourne chiese nuovamente il silenzio. “Allora… Fate divertire i nostri ospiti. Sembra che si stiano annoiando. A cosa giochiamo stasera?”

Tutti gridarono insieme i loro suggerimenti.

“Passerella da sbarco!”

“Scuola di volo, dottore!”

“Passeggiata sulla luna!”

Pangbourne si rivolse ai suoi ospiti. “Io scelgo Scuola di volo… Lo sapevate che abbiamo una scuola di volo qui…? No…?”

“Abbiamo deciso di offrirvi alcune lezioni gratuite,” disse loro Anne Royal.

“Una lezione gratuita,” corresse Pangbourne. Udendo queste parole, tutti si misero a ridere. “Ma non ve ne serviranno altre. Vero Anne?”

“È un corso straordinariamente efficace.”

“Volo solitario fin dalla prima lezione, difatti.”

Guidati dalla vedova del gioielliere, gli adepti di Pangbourne cominciarono subito a trascinare l’analista finanziario ferito verso la balaustra, inciampando tutti quanti nella fasciatura che si stava dipanando di nuovo dalla sua testa. Gli legarono sulla schiena un paio di ali di cartapesta tutte stracciate, che avevano fatto parte una volta di un costume da angelo per bambini.

Tirandosi dietro il pastore tedesco recalcitrante, Royal uscì allo scoperto. Ma erano tutti presi dall’imminente esecuzione, e nessuno si accorse di lui. Allora, nel tono più indifferente che gli riuscì di trovare, gridò: “Pangbourne…! Dottor Pangbourne…!”.

Il chiasso diminuì. Le luci delle torce elettriche guizzarono nel buio, sferzando i risvolti di seta della sua giacca, e fissandosi fra i piedi di Royal sul pastore tedesco bianco che cercava di fuggire.

“Scuola di volo! Scuola di volo!” La tetra cantilena riprese. Abbassando lo sguardo su quella masnada riottosa, a Royal sembrò quasi di essere circondato da una massa di bambini semianalfabeti. Lo zoo si era ribellato al suo guardiano.

Sentendo la voce di Royal, il ginecologo lasciò perdere il suo prigioniero, a cui aveva abilmente rifatto la fasciatura. Pulendosi le mani, prese a camminare sul tetto verso di lui, quasi imitando il tranquillo e noncurante incedere di Royal. Ma i suoi occhi studiavano il volto di Royal con una curiosità decisamente professionale, come se avesse già stabilito che quell’espressione di ferma determinazione si potesse riaggiustare tagliando un numero minimo di nervi e muscoli.

Il canto si levò nuovamente nell’aria. I coni di luce delle torce elettriche, al suo ritmo, fendevano l’oscurità andando a colpire il volto di Royal. Lui attendeva pazientemente che il clamore si placasse. Quando Anne si staccò dal gruppo e corse avanti alzò il bastone cromato, pronto a colpirla. Lei gli si fermò davanti con un sorrisetto affettato, alzandosi la lunga gonna in atteggiamento provocante. A un tratto accese il registratore a tutto volume e glielo gettò in faccia. L’aria si riempì di pianti di neonati.

“Royal…” lo avvertì la vedova del gioielliere, “c’è qui Wilder!”

Sorpreso da quel nome, Royal fece un balzo indietro e vibrò un colpo nell’oscurità con il bastone cromato. I raggi luminosi delle torce elettriche giocavano attorno a lui e le ombre delle sedie rovesciate danzavano sul tetto di cemento. Aspettandosi che Wilder gli balzasse addosso da dietro, Royal inciampò nel tendone e si impigliò nel guinzaglio del cane.

Sentì che gli ridevano dietro. Facendo uno sforzo per controllarsi, si voltò per affrontare Pangbourne una seconda volta. Ma il ginecologo si stava allontanando e lo guardava senza la minima ostilità. Fece a Royal un rapido gesto della mano, come se gli lanciasse una freccetta, congedandolo per sempre. Le torce elettriche puntate su Royal furono abbassate e tutti si dedicarono alla più seria faccenda di torturare i due ospiti.

Royal, rientrato nell’oscurità, li guardava litigare sui prigionieri. Lo scontro con Pangbourne era finito o, più esattamente, non era mai cominciato. Un semplice trucco gli aveva tolto ogni energia, lasciandolo per di più nell’incertezza se avesse davvero paura di Wilder oppure no. Era stato umiliato ma, in un certo senso, era giusto. Il ginecologo era l’uomo del momento, per quelli. Nessuno zoo sarebbe sopravvissuto a lungo con Pangbourne come guardiano, ma lui avrebbe potuto garantire un intrico di crudeltà e violenze che avrebbe tenuto viva negli altri la voglia di sopravvivere.

Che vincano gli psicotici. Solo loro capivano cosa stava accadendo. Aggrappandosi al pastore tedesco, Royal si lasciò trasportare dal cane verso la zona sicura e buia accanto al giardino delle sculture. Le sagome bianche degli uccelli erano ammassate su ogni cornicione e parapetto. Royal ascoltò i guaiti dei cani. Non aveva modo di nutrirli, ormai. Le porte a vetri dell’attico riflettevano gli uccelli, come se fossero le pareti trasparenti di un padiglione nascosto. Avrebbe chiuso il piano di sotto del suo appartamento, bloccato la scala e si sarebbe ritirato nell’attico, magari prendendo con sé come serva la signora Wilder. Di lì avrebbe governato sull’edificio, avendo il cielo come ultima abitazione.

Aprì il cancello del giardino delle sculture e passò al buio fra le statue, liberando i cani. Uno alla volta, scapparono via tutti, finché rimasero solo Royal e gli uccelli.

16.

Una felice sistemazione

Una scena per lo meno incerta, stabilì Robert Laing. Non poteva più fidarsi dei suoi cinque sensi. Una luce curiosa, grigia e umida ma nello stesso tempo venata di una flebile luminosità interiore, era sospesa sull’appartamento. In piedi fra i sacchi di spazzatura della cucina, mentre cercava di ottenere qualche goccia d’acqua dal rubinetto, sbirciò da sopra la spalla la spessa nebbia che attraversava il salotto come un sipario, quasi fosse un’estensione della sua mente. Non sapeva che ora fosse, ma neanche in quale momento della giornata si trovasse, e non era la prima volta che gli capitava. Da quanto tempo era in piedi? Laing ricordava di aver dormito sul tappeto a quadri steso sul pavimento di cucina, la testa appoggiata a un sacco della spazzatura stretto fra le gambe del tavolo. Poi aveva vagato un po’ per la camera da letto dove sua sorella Alice ancora dormiva, ma se fosse sveglio da cinque minuti o dal giorno prima, questo Laing non lo sapeva dire.

Scosse l’orologio, battendo sul quadrante rotto con l’unghia sporca. L’orologio si era fermato nel corso di una rissa davanti agli ascensori del venticinquesimo piano, diversi giorni prima. Anche se aveva scordato quando esattamente il fatto era avvenuto, le lancette di quell’orologio guasto detenevano l’unico momento di tempo definito che gli era rimasto, come un fossile su una spiaggia, che cristallizzava per sempre una breve sequenza di eventi verificatisi in un oceano scomparso. In ogni caso, importava davvero poco, ormai, che ora fosse: purché non fosse notte, quando l’unico modo per proteggersi dal terrore era rifugiarsi nell’appartamento, e accucciarsi dietro la sua cadente barricata.

Laing aprì e chiuse più volte il rubinetto dell’acqua fredda, studiando i lievi cambiamenti di tono dei rumori che ne uscivano. A intervalli molto distanziati e per non più di un minuto in tutta la giornata, dal rubinetto scendeva un liquido verde, maculato di alghe. Quelle colonnine d’acqua, che andavano su e giù per l’immenso sistema di tubature che percorreva tutto il palazzo, annunciavano il loro arrivo con deboli cambi di nota. L’ascolto della loro musica remota e complessa aveva aguzzato l’udito di Laing, dandogli una sensibilità che si estendeva praticamente a tutti i tipi di rumori dello stabile. In compenso, la vista, offuscata dal fatto che la usava in prevalenza di notte, gli regalava un universo sempre più opaco.

Non c’era un gran movimento nel grattacielo. Come Laing si ripeteva spesso, quasi tutto ciò che poteva succedere era già successo. Uscì dalla cucina e si strinse nell’angusta nicchia fra la barricata e la porta d’ingresso. Mise l’orecchio destro sul pannello della porta di legno. Dalle minime vibrazioni poteva istantaneamente dire se nei più vicini appartamenti abbandonati stava passando un predone. Nel breve periodo che lui e Steele, ogni pomeriggio, passavano fuori dai loro appartamenti – una specie di commemorazione simbolica dell’epoca in cui la gente usciva davvero dall’edificio – premevano a turno le mani sulla porta metallica di un ascensore, esaminando le vibrazioni trasmesse al loro corpo e magari scoprendo un movimento improvviso, quindici piani sopra o sotto il loro. Accovacciati sulle scale, con le dita sulla balaustra metallica, ascoltavano i segreti mormorii dell’edificio, i lontani spasmi di violenza che comunicavano se stessi come esplosioni radioattive da altri universi. Il grattacielo rabbrividiva di quei tremiti, un sinistro gocciolare di suoni quando un inquilino ferito si trascinava per le scale, una trappola si chiudeva su un cane inselvatichito, o un’incauta preda cadeva sotto un bastone.

Quel giorno, tuttavia, in perfetto accordo con il momento senza tempo e la sua dubbia luce, non c’era assolutamente nessun rumore. Laing tornò in cucina ad ascoltare le tubature dell’acqua, che facevano parte di un immenso sistema acustico azionato da migliaia di congegni d’arresto, uno strumento musicale morente che, un tempo, avevano suonato tutti insieme. Ma tutto era fermo. Gli inquilini del grattacielo restavano dov’erano, nascosti dietro le barricate nei loro appartamenti, cercando di preservare quel che restava della loro sanità mentale e di prepararsi per la notte. A quel punto anche le violenze si erano totalmente stilizzate, erano diventate freddi e casuali spasmi di aggressività. In un certo senso, la vita nel grattacielo aveva cominciato ad assomigliare a quella del mondo esterno: le stesse crudeltà e violenza celate entro una serie di cortesi convenzioni.

Sempre senza sapere da quanto tempo fosse sveglio, o cosa avesse fatto mezz’ora prima, Laing sedette fra le bottiglie vuote e i rifiuti sul pavimento della cucina. Fissava la lavatrice e il frigorifero in disuso, che ora utilizzava solo come bidoni della spazzatura. Faceva fatica a ricordare quali erano state le loro funzioni originarie. Entro certi limiti, avevano assunto un significato nuovo, un ruolo che doveva ancora comprendere. Anche il disfacimento del grattacielo era un modello del mondo in cui sarebbero vissuti in futuro. Era uno scenario post-tecnologico, dove ogni cosa era o in abbandono o, più ambiguamente, rivista secondo modalità inaspettate e più significative. Laing meditava… A volte gli era difficile non pensare che stessero vivendo un futuro già realizzato, e che anzi quel futuro si fosse ormai esaurito.

Accovacciato vicino alla sua sorgente disseccata come un nomade del deserto, con tutto il tempo del mondo, Laing aspettava pazientemente che dai rubinetti cominciasse a scendere l’acqua. Intanto, si toglieva il sudiciume dal dorso delle mani. Nonostante avesse ormai un aspetto da barbone, rifiutava l’idea di usare l’acqua per lavarsi. Il grattacielo puzzava. Nessuno dei gabinetti o degli scivoli per la spazzatura funzionava più e sulla facciata dell’edificio aleggiava un’opprimente nuvola d’urina nebulizzata, proveniente dai balconi. Ma quel caratteristico odore veniva comunque coperto da un lezzo decisamente più misterioso, putrido e dolciastro, che in genere veniva dagli appartamenti vuoti e su cui Laing aveva stabilito di non indagare troppo da vicino.

Nonostante tutti quegli inconvenienti, Laing era contento della vita nel grattacielo. Ora che tanti inquilini si erano isolati gli pareva di potersi rilassare, si sentiva più responsabile, più pronto ad andare avanti e a esplorare la sua vita. Come e dove esattamente, però, non l’aveva ancora deciso.

La sua vera preoccupazione era la sorella. Alice si era ammalata di un malessere non meglio precisato e passava il tempo sdraiata sul materasso in camera di Laing, o a girare mezza nuda per l’appartamento, con il corpo scosso dai brividi come un sismografo ipersensibile agli impercettibili tremiti che percorrevano il palazzo. Quando Laing si mise a tamburellare sul sifone del lavandino, inviando un cupo ronzio giù per le tubature vuote, Alice chiamò dalla camera con la sua vocina sottile.

Laing andò a vedere, passando fra i mucchi di legnetti che Alice aveva ricavato dai mobili tagliati a pezzi. A lui piaceva spaccare le sedie e i tavoli.

Alice gli puntò addosso il dito, che sembrava una bacchetta. “Quel rumore… Stai di nuovo facendo dei segnali a qualcuno. Chi è adesso?”

“Nessuno, Alice. Chi pensi che conosciamo?”

“Quella gente dei piani bassi. Quelli che ti piacciono tanto.”

Laing era in piedi accanto a lei, non sapeva se sedersi sul materasso. Il viso della sorella era untuoso come un limone di cera. Cercando di mettere a fuoco il fratello, i suoi occhi stanchi giravano come pesci smarriti. In un lampo, Laing fu attraversato dall’idea che forse stava morendo: nei due giorni precedenti non avevano mangiato altro che alcune fettine di salmone affumicato in scatola che aveva trovato sotto le assi del pavimento in un appartamento abbandonato. Ironicamente, il livello culinario del grattacielo aveva cominciato ad alzarsi proprio in quei giorni di più grave disfacimento dell’edificio, perché venivano a galla sempre più spesso le squisitezze nascoste a suo tempo.

In ogni caso, il cibo era una faccenda secondaria, perché Alice era anche troppo viva, in altri ambiti. A Laing piacevano molto le critiche lamentose che gli rivolgeva, anche quando cercava di soddisfarla fin nei capricci più immotivati. Era tutto un gioco, ma lui godeva molto del ruolo di servo zelante consacrato alla padrona altezzosa; era una dedizione devota, la sua, la cui principale soddisfazione consisteva in una totale mancanza di apprezzamento e nell’infinita enumerazione delle sue colpe. Per molti versi, in effetti, la sua relazione con Alice riprendeva quella che anche sua moglie, senza pensarci, aveva cercato di instaurare, scoprendo per caso l’unica possibile fonte di armonia fra loro. Ma, a suo tempo, Laing l’aveva respinta. In quel grattacielo, pensava, il suo matrimonio sarebbe stato un successone.

“Sto cercando di trovare un po’ d’acqua, Alice. Lo vorresti, un po’ di tè?”

“Il bollitore puzza.”

“Lo laverò per te. Non puoi disidratarti.”

Lei annuì, con fare scontroso. “Cosa sta succedendo?”

“Niente… È già successo tutto.” Dal corpo di Alice si levava un odore molto maturo, ma non sgradevole. “Le cose stanno cominciando a tornare alla normalità.”

“E Charles? Hai detto che lo avresti cercato.”

“Temo che sia morto.” Laing detestava questi accenni al marito di Alice. Introducevano una nota stonata. “Ho ritrovato il tuo appartamento, ma è vuoto, ormai.”

Alice volse la testa dall’altra parte, a indicare che ne aveva abbastanza del fratello. Laing si chinò e raccolse i legnetti che lei aveva sparso per il pavimento vicino al materasso. Quelle gambe di sedie da salotto, ben impregnate di vernice e colla, bruciavano bene. Laing aveva portato via le sedie dall’appartamento di Adrian Talbot, dopo la sparizione dello psichiatra. Gli era grato per quell’imitazione Hepplewhite. I gusti convenzionali che li contraddistinguevano da sempre avevano fatto molto comodo agli inquilini del livello medio. Al contrario, quelli dei piani bassi ora si ritrovavano con un mazzo di tubi metallici cromati e pellami fuori moda, utili soltanto a sedercisi sopra.

Ormai si cucinava solo sui fuochi che gli inquilini si accendevano sul balcone, o nei caminetti artificiali. Laing portò sul terrazzino i suoi bastoncini. Mentre si accovacciava, però, si rese conto che non aveva niente da cucinare. Il suo deposito segreto di scatolette già da tempo era stato costretto a consegnarlo al chirurgo ortodontista suo vicino. Di fatto, la posizione di Laing rimaneva sicura solo in forza delle fiale di morfina che teneva nascoste.

Anche se Steele lo terrorizzava con le sue imprevedibili crudeltà, Laing aveva dovuto necessariamente legarsi a lui. Tanta gente era sparita o, semplicemente, si era ritirata dalla lotta. Avevano lasciato il grattacielo per il mondo esterno? Laing era sicuro di no. In un certo senso, Laing dipendeva dalle incertezze del suo rapporto con il dentista, seguiva le sue spedizioni assassine come un condannato innamorato del suo fosco carceriere. Nelle ultime settimane il comportamento di Steele si era fatto davvero raccapricciante. Gli attacchi, intenzionalmente gratuiti, su chiunque trovasse da solo o privo di protezione, il gusto infantile di imbrattare di sangue le pareti degli appartamenti vuoti… Di tutte queste cose Laing continuava a essere spettatore, ma con un’inquietudine sempre maggiore. Da quando era sparita sua moglie, Steele era teso come le balestre che costruiva con delle corde di piano e montava negli atri comuni e nei corridoi, oppure gli archi micidiali, fatti con le aste dei bastoni da golf. Allo stesso tempo, però, rimaneva stranamente calmo, come se perseguisse un ignoto obiettivo.

Nel pomeriggio Steele dormiva, e questo dava a Laing la possibilità di andare in cerca d’acqua. Mentre prendeva il bollitore sentì Alice che lo chiamava ma, quando tornò da lei, aveva già dimenticato cosa voleva.

Gli tese le mani. Di norma Laing gliele avrebbe sfregate, cercando di dar loro un po’ di calore, ma in quel momento, in forza di una strana lealtà verso il dentista, non fece nulla per aiutare Alice. Quella meschina dimostrazione di durezza, la sua declinante igiene personale, perfino la deliberata negligenza a proposito della sua salute erano tutti elementi di un sistema che lui non faceva alcuno sforzo per cambiare. Da settimane, tutto ciò che gli riusciva di pensare era una nuova incursione, un nuovo appartamento vuoto da saccheggiare, un nuovo inquilino da pestare. Gli piaceva guardare Steele all’opera, era ossessionato da quelle manifestazioni di violenza gratuita. Ogni nuovo episodio li avvicinava alla meta finale a cui tutto il grattacielo puntava, la costituzione di un regno in cui i loro impulsi più devianti fossero finalmente liberi di manifestarsi, in qualsiasi modo. A quel punto la violenza fisica sarebbe finalmente cessata.

Laing attendeva che Alice tornasse a uno stato di semicoscienza. Badare alla sorella cominciava a richiedergli più energie di quelle che poteva mettere in campo. Se stava morendo non c’era molto che potesse fare per lei, a parte darle un estremo grammo di morfina e nascondere il corpo per impedire a Steele di mutilarlo. Uno dei passatempi preferiti del dentista era, infatti, vestire e acconciare i cadaveri per sistemarli in grotteschi tableaux. La sua fantasia, repressa da anni e anni passati a ricostruire le bocche dei suoi pazienti, si riaccendeva quando poteva giocare con i morti. Il giorno precedente Laing era capitato per caso in un appartamento e lo aveva trovato a dipingere con dei cosmetici una bizzarra maschera sul volto di un account morto, che aveva abbigliato da vecchia checca, con un voluminoso abito da sera in seta. A dargli tempo, e una costante fornitura di soggetti, il dentista avrebbe ripopolato l’intero grattacielo.

Portandosi il bollitore, Laing uscì dall’appartamento. La stessa luce fioca, emanata da una debole luminescenza interna, si diffondeva nel corridoio e nell’atrio degli ascensori, una miasmatica secrezione del grattacielo stesso, come distillata dal cemento ormai morto. Le pareti erano chiazzate di sangue che copriva le scritte precedentemente tracciate, come nelle esplosioni tachistes dei quadri di cui erano pieni gli appartamenti agli ultimi piani. Fra i sacchi di spazzatura ammucchiati contro i muri si riconoscevano pezzi di mobili rotti e nastri da registrare tutti srotolati.

Camminando, Laing faceva scricchiolare i negativi delle foto sparsi sul pavimento del corridoio, ed erano tutte registrazioni di atti di violenza ormai dimenticati da tempo.

Temendo di attirare l’attenzione di un predone in attesa, si fermò. In quel momento la porta sulle scale si aprì e un uomo in giubbotto da aviatore e stivali imbottiti di pelo entrò nell’atrio degli ascensori.

Vedendo Paul Crosland camminare di buon passo sulla passatoia ingombra di macerie, Laing capì che era appena tornato dalla lettura del notiziario televisivo dell’ora di pranzo. Crosland era l’unica persona che ancora uscisse dal grattacielo, mantenendo un tenue legame con il mondo esterno. Perfino Steele gli cedeva prudentemente il passo. E c’era ancora qualcuno che lo guardava leggere le notizie dal suo televisore a batterie, accoccolato fra i sacchi di spazzatura dietro la barricata. Forse ancora speravano che Crosland, a un certo punto, abbandonasse il testo preparato e, di colpo, informasse il mondo di ciò che stava succedendo al grattacielo.

Nella tromba delle scale Laing aveva piazzato una trappola per cani, usando una zanzariera per i paesi caldi rubata nell’appartamento di un antropologo tre piani sopra. La nuova calamità dei cani era discesa dai piani alti che, un tempo, erano stati la culla di tutti gli animali dell’edificio. Laing non sperava di catturare i cani più grossi, con il suo congegno a molla, ma un bassotto o un pechinese avrebbero potuto rimanere impigliati nella rete di nylon.

Nessuno sorvegliava la tromba delle scale. Approfittandone, Laing scese fino al piano di sotto. Il pianerottolo era ostruito da una barricata di mobili, per cui svoltò nel corridoio che portava ai dieci appartamenti nell’ala settentrionale dell’edificio.

Dopo le prime tre porte, entrò in un appartamento abbandonato. Le stanze erano vuote, mobili e infissi erano stati staccati e portati via da un bel pezzo. In cucina Laing provò ad aprire i rubinetti. Poi, con il suo coltello a lama fissa, tagliò i tubi di gomma della lavatrice e della lavastoviglie, ricavandone circa una tazza d’acqua che puzzava di metallo. In bagno, sulle piastrelle del pavimento, giaceva il cadavere nudo di un anziano fiscalista. Laing lo scavalcò distrattamente. Girò un po’ per l’appartamento e raccolse da terra una caraffa da whisky, vuota. C’era rimasto un lieve odore di whisky di malto, che gli provocò una nostalgia quasi ubriacante.

Laing passò all’appartamento vicino, anche quello abbandonato e svuotato. In una delle camere da letto, notò che il tappeto copriva una leggera depressione circolare. Pensando che potesse trattarsi di un deposito alimentare nascosto, arrotolò il tappeto e scoprì una botola, che era stata aperta sull’appartamento di sotto bucando le tavole del pavimento e la soletta di cemento. Dopo aver bloccato la porta d’ingresso, Laing si stese sul pavimento e guardò nella stanza di sotto. Un tavolo rotondo in vetro, per miracolo ancora intatto, rifletteva la sua camicia imbrattata di sangue e la faccia barbuta, che guardava in su da quello che sembrava il fondo di un pozzo. Accanto al tavolo c’erano due poltrone rovesciate. Le portefinestre che davano sul balcone erano chiuse e, ai lati, avevano ancora le tende. Guardando quella scena di pace, Laing ebbe l’impressione di aver posato accidentalmente gli occhi su un mondo parallelo dove le leggi del grattacielo erano state sospese, un magico reame in cui quegli stabili immensi venivano tappezzati e arredati, ma non abitati.

D’impulso, Laing infilò le gambe magre nella botola. Si sedette sul bordo e si lasciò scivolare di sotto. In piedi sul tavolo di vetro, esaminò l’appartamento con attenzione.

L’esperienza maturata tra mille difficoltà gli diceva che non era solo: da qualche parte sentiva suonare un campanellino. Dalla camera da letto venne un leggero rumore, come se un animaletto stesse cercando di uscire da un sacchetto di carta.

Laing aprì la porta. Una donna di circa trentacinque anni con i capelli rossi, vestita di tutto punto, stava sdraiata sul letto e giocherellava con un gatto persiano. L’animale aveva un collare di velluto con il campanellino, e il guinzaglio era legato a un polso, insanguinato, della donna. Il gatto si leccava con vigore le macchie di sangue sul pelo, poi abbrancava il polso della donna e mordeva la pelle sottile per riaprire la ferita.

La donna, in cui Laing riconobbe vagamente Eleanor Powell, non faceva nessun tentativo di impedire che il gatto si nutrisse della sua carne. Il suo viso serio, dal colorito cianotico, era chinato verso il gatto come quello di un genitore indulgente che guarda il figlio giocare.

La mano sinistra riposava sul copriletto di seta, vicino a una matita e a un notes da giornalista. Di fronte alla donna, al di là del letto, c’erano quattro televisori sintonizzati su stazioni differenti. Tre erano spenti; sul quarto, che era alimentato a batterie, si vedevano le immagini sfocate di una corsa di cavalli, senza il sonoro.

Disinteressandosi della recensione, Eleanor giocava con il gatto, mettendogli in bocca il polso sanguinante. L’animale era eccitato, squarciava voracemente la carne vicino all’articolazione. Laing cercò di allontanare il gatto, ma Eleanor tirò il guinzaglio, forzandolo a tornare sulla ferita.

“Così lo tengo in vita,” disse a Laing in tono di rimprovero. Le attenzioni del suo gatto le fecero fiorire sul volto un sorriso sereno. Alzò la mano sinistra. “Lei può succhiare il sinistro, dottore… Poveretto, mi pare piuttosto dimagrito.”

Laing ascoltava il rumore prodotto dai denti del gatto. L’appartamento era immerso nel silenzio, e anche il respiro affannoso dell’uomo veniva misteriosamente e notevolmente amplificato. Sarebbe diventato, di lì a poco, l’unico sopravvissuto del grattacielo? Si immaginò solo nell’enorme edificio, libero di vagare per i piani e le gallerie di cemento, di arrampicarsi lungo le silenziose colonne degli ascensori, di sedere su ciascuno dei mille balconi. Quel sogno, tanto desiderato al suo arrivo nel grattacielo, all’improvviso ora lo turbava come se, una volta solo, temesse di sentire dei passi nella stanza accanto e di trovarsi faccia a faccia con se stesso.

Alzò il volume del televisore. L’altoparlante diffuse la voce del telecronista dall’ippodromo, una sparata di nomi che sembrava un folle inventario degli oggetti più disparati, reclutati al fine di ripopolare il grattacielo con una trasfusione di identità.

“Cosa…? Che programma è?” Eleanor alzò la testa, rivolgendo uno sguardo confuso al televisore. Con la mano sinistra cercava a tentoni la matita e il blocco. “Cosa sta dicendo?”

Laing le fece scivolare le mani sotto la schiena e le gambe. L’intenzione era di trasportarla, ma il suo corpo snello risultò sorprendentemente pesante. Si era fatto più debole di quel che pensasse. “Ce la fa a camminare? Torno io più tardi, per il televisore.”

Lei accennò un’alzata di spalle, appoggiandosi a Laing come un’ubriaca che ha accettato una proposta dubbia da parte di un conoscente incontrato al bar. Seduta accanto a lui sul bordo del letto, gli mise un braccio sulla spalla e gli lanciò un’occhiata pungente. Poi gli batté sul braccio con forza. “D’accordo. Per prima cosa, però, trovi delle pile.”

“Certo.” Quell’esibizione di caparbietà era piacevolmente incoraggiante. Mentre lei lo fissava dal letto, Laing tirò fuori dall’armadio una valigia e cominciò a riempirla di vestiti.

E fu così che Laing portò Eleanor Powell e il televisore portatile nel suo appartamento. La sistemò su un materasso in salotto e riprese a passare le giornate a caccia d’acqua, cibo e batterie. La ricomparsa di un televisore nella sua vita lo convinse che tutto nel grattacielo stava tornando alla normalità. Quando Steele partì per i più verdi pascoli dei piani superiori, Laing declinò l’offerta di andare con lui. Aveva già preso la decisione di isolarsi con le sue donne da tutti gli altri. Sentiva il bisogno di stare solo con Alice ed Eleanor, di essere aggressivo e sicuro di sé, oppure passivo e sottomesso come meglio gli piaceva. Era ancora troppo presto per sapere che ruolo avrebbe ricoperto con quelle due donne, ma qualsiasi parte scegliesse l’avrebbe recitata entro quelle quattro mura.

Laing sapeva di non essere mai stato tanto felice, nonostante tutti i rischi a cui si esponeva e la concreta possibilità di morire da un giorno all’altro di fame o per un’aggressione. Era contento della sua autonomia, dell’abilità dimostrata nell’affrontare i problemi della sopravvivenza: procurarsi le vettovaglie, mantenere il pieno possesso delle proprie facoltà mentali, difendere le sue due donne da tutti i predoni che volessero farne l’uso che ne faceva lui. Ma, soprattutto, era compiaciuto del buon senso dimostrato nel dare sfogo agli impulsi che lo legavano a Eleanor e a sua sorella, perversioni create dalle infinite possibilità offerte dal grattacielo.

17.

Il padiglione del laghetto

Come se avesse paura di disturbare l’interno del condominio, il sole del mattino esplorò dapprima il lucernario mezzo diroccato della tromba delle scale al quarantesimo piano, poi si infilò giù attraverso i pannelli sfondati e infine cadde obliquamente sugli scalini. Rabbrividendo per l’aria fredda, cinque piani più sotto Richard Wilder guardava la luce solare che gli si avvicinava. Era seduto sugli scalini e si appoggiava a un tavolo sporgente dalla massiccia barricata che bloccava le scale. Dopo essere stato acquattato lì tutta la notte, Wilder gelava. Più in alto saliva nell’edificio e più freddo faceva, tanto che a volte era stato tentato di ritirarsi ai piani inferiori. Abbassò lo sguardo sull’animale accucciato vicino a lui – una volta doveva essere stato un barboncino nero, immaginava – e gli invidiò il pelame ruvido. Il suo corpo era invece quasi nudo e Wilder prese a sfregarsi il rossetto che si era cosparso sul petto e sulle spalle, nel tentativo di isolarsi con quel grasso profumato.

Il cane teneva gli occhi fissi sul pianerottolo sopra di loro. Quando sentiva i rumori, inavvertibili da Wilder, prodotti da qualcuno che si muoveva dall’altra parte della barricata, drizzava le orecchie. Nei dieci giorni da che erano insieme avevano costituito una squadra formidabile, nella caccia, e Wilder avrebbe voluto evitare di mandare il cane all’attacco prima che fosse pronto.

I resti stracciati dei pantaloni di Wilder, tagliati al ginocchio, erano chiazzati di sangue e di vino. La sua faccia imponente era coperta da un’ispida barba che, in parte, copriva una ferita aperta sulla mascella. Il suo aspetto era trascurato ed esausto ma, per la verità, il suo fisico era forte e muscoloso come sempre. Aveva l’ampio petto coperto da un miscuglio di righe, un disegno vivace che si estendeva anche sulle spalle e sul dorso. Di tanto in tanto rimirava la decorazione che si era dipinto addosso il pomeriggio precedente, con un rossetto trovato in un appartamento abbandonato. Quello che era cominciato come un gioco da ubriaco aveva poi assunto il carattere di un serio rituale. I segni, oltre a terrorizzare le poche altre persone in cui avrebbe potuto imbattersi, gli davano un forte senso di identità. E celebravano anche la lunga e ormai praticamente riuscita ascensione all’edificio. Determinato ad avere il miglior aspetto possibile quando finalmente sarebbe arrivato al tetto, Wilder si leccava le dita coperte di cicatrici, si massaggiava con una mano e con l’altra rinfrescava il disegno.

Teneva il guinzaglio del cane con una presa sicura e sorvegliava il pianerottolo, dieci gradini sopra di lui. Il sole, nel continuare la sua faticosa discesa, finalmente lo raggiunse e cominciò a scaldargli la pelle. Wilder alzò lo sguardo verso il cielo, che era a una ventina di metri sopra la sua testa. Quel rettangolo di cielo bianco, avvicinandosi, diventava sempre più irreale, sembrava il fondale di un set cinematografico. Il cane fremeva, spingendo avanti le zampe. A pochi passi da loro, qualcuno stava risistemando la barricata. Wilder attese pazientemente, facendo avanzare il cane di un gradino. Nonostante la selvaggia ferocia del suo aspetto, il comportamento di Wilder era un modello di autocontrollo. Una volta arrivato fin lì, non aveva nessuna intenzione di farsi cogliere di sorpresa. Si chinò a spiare da una fenditura del tavolo: dietro la barricata qualcuno stava togliendo una piccola scrivania in mogano che serviva da porta segreta. Dall’apertura apparve una donna quasi calva sui settant’anni. Il suo volto indurito si sporse per sbirciare giù dalle scale. Dopo una pausa prudenziale attraversò l’apertura e raggiunse la ringhiera del pianerottolo, reggendo in mano un secchiello da champagne. Era vestita con i resti di un costoso abito da sera, che lasciava scoperta la pelle chiara e coperta di chiazze delle braccia muscolose e delle spalle.

Wilder la sorvegliava con un certo timore reverenziale. Aveva già avuto a che fare più di una volta con cariatidi come quella e aveva imparato che erano capaci di sorprendenti cambi di velocità. Senza muoversi, attese che si sporgesse dalla balaustra e svuotasse il secchiello della brodaglia che conteneva. Il grasso freddo andò a imbrattare sia Wilder sia il cane, ma nessuno dei due ebbe la minima reazione. Wilder ripulì con cura la telecamera, che stava accanto a lui sul gradino. L’obiettivo si era spaccato durante le scaramucce e gli attacchi che lo avevano condotto fino al tetto del grattacielo, ma la funzione della macchina da presa era ormai unicamente simbolica. Si identificava con quello strumento come con il cane. E però, nonostante tutto l’affetto e la devozione che lo legavano all’animale, il cane lo avrebbe presto lasciato: alla cena celebrativa per il raggiungimento del tetto sarebbero stati presenti entrambi, pensò con un tocco di umorismo nero, ma il barboncino l’avrebbe vista dalla pentola.

Pensando alla cena imminente – il suo primo pasto normale dopo diverse settimane – Wilder guardava la vecchia, che stava brontolando fra sé. Si pulì la barba e, con la massima attenzione, si mise in piedi. Tirò il guinzaglio, un pezzo di cavo elettrico, e sibilò fra i denti rotti.

Come a un segnale convenuto, il cane uggiolò. Si mise in piedi, scuotendosi, e salì due gradini. Ora che la donna poteva vederlo, si accucciò e cominciò a guaire lamentosamente. La vecchia tornò rapidamente dietro la barricata. Nel giro di pochi secondi un grosso trinciante le si era materializzato fra le mani. I suoi occhi furbi spiavano il cane, accucciato sui gradini sotto di lei. Quando si rivoltò sul fianco esponendo alla vista il bassoventre, gli occhi di lei si fissarono sulle sue spalle carnose e sulla pancia.

Mentre il cane ricominciava a guaire, Wilder osservava tutto da dietro il tavolo. Quella fase lo divertiva sempre. In effetti, più in alto saliva nell’edificio e maggiori diventavano le possibilità di ridere. Teneva sempre il guinzaglio, che si stendeva sui gradini dietro al cane, ma stava bene attento a lasciarlo allentato. La vecchia, incapace di staccare gli occhi dal cane, entrò nell’apertura della barricata. Fischiò nella dentiera e fece segno al cane di raggiungerla.

“Povero piccolo. Ti sei perduto, non è vero, carino? Vieni, su, vieni qui…”

Davanti allo spettacolo di quella vecchia cariatide calva che strisciava con tanta trepidazione davanti al cagnolino, Wilder riusciva a stento a trattenersi e si piegava sul tavolo, ridendo silenziosamente fra sé.

Da un momento all’altro avrebbe ricevuto una bella scossa, la vecchia, e si sarebbe ritrovata uno stivale sul collo.

Dietro la barricata comparve una seconda persona. Una giovane donna sui trent’anni, probabilmente la figlia, spiava la scena da sopra la spalla della vecchia. Il giubbotto di pelle era aperto a mostrare due seni sudici, ma aveva i capelli pieni di bigodini e raccolti in una complessa acconciatura, come se stesse preparando alcune parti del corpo a una serata di gala a cui le altre non erano invitate.

Le due donne fissavano sul cane uno sguardo privo di espressione. Mentre la figlia restava in attesa con il coltellaccio, la madre scese i gradini. Mormorando per tranquillizzarlo, accarezzò la testa del barboncino e si chinò per afferrare il guinzaglio.

Stringendo il cavo elettrico nelle grosse dita, Wilder balzò allo scoperto. Il cane si slanciò su per le scale e affondò i denti nel braccio della donna. Con sorprendente agilità, lei sfrecciò nell’apertura della barricata, con il cane attaccato al braccio. Wilder la seguì appena in tempo, sferrando un calcio alla scrivania prima che la figlia potesse incastrarla di nuovo al suo posto. Strappò il barboncino dal braccio insanguinato della donna, l’afferrò per il collo e la fece volare su un mucchio di scatoloni. Restò là, stupefatta, come una duchessa scarmigliata che si rendesse conto di essersi ubriacata a un ballo. Mentre Wilder si apprestava ad andarsene e cercava di immobilizzare il cane, gli arrivò addosso la figlia, correndo. Aveva gettato il coltello. Con una mano reggeva i bigodini, con l’altra reggeva una pistola da borsetta in argento. Wilder scattò di lato per evitarla, le fece saltare di mano la pistola e la spedì addosso alla barricata con un colpo di bastone.

Mentre le due donne ansimavano sul pavimento, Wilder guardò la pistola ai suoi piedi, era poco più di un luccicante giocattolo. La prese e cominciò a esplorare i suoi nuovi possedimenti. Si trovava all’ingresso della piscina del trentacinquesimo piano. La vasca d’acqua fetida, piena di rifiuti, rifletteva i sacchi di spazzatura ammucchiati sui bordi. In un ascensore bloccato a quel piano era stato costruito un piccolo rifugio. Là dentro, accanto ai resti di un fuoco, giaceva addormentato un uomo anziano – un ex consulente fiscale, a Wilder pareva di ricordare – apparentemente ignaro dell’esplosione di violenza appena verificatasi. Sopra la sua testa si innalzava una specie di canna fumaria, composta da due pezzi di tubo di scolo di un balcone, che saliva verso il tetto dell’ascensore.

Sempre stringendo la pistola, Wilder studiò le due donne. La madre sedeva fra gli scatoloni, e si fasciava tranquillamente il braccio con una striscia di seta strappata al vestito. La figlia si era accovacciata sul pavimento vicino alla barricata, si massaggiava un’ammaccatura sulla bocca e accarezzava la testa al barboncino di Wilder.

Wilder si sporse a guardare su per la rampa di scale che portava al trentaseiesimo piano. La scaramuccia lo aveva eccitato, ed era tentato di continuare fino al tetto. Ma, d’altra parte, era da più di un giorno che non mangiava e, vicino al fuoco all’entrata del rifugio, aveva sentito aleggiare un odore di grasso animale.

Fece segno alla più giovane di avvicinarsi. Il suo viso dolce, un po’ bovino, gli era vagamente familiare. Una volta era forse la moglie di un impiegato di una casa di produzione? Lei si alzò e lo raggiunse, guardandogli con interesse i simboli dipinti sul petto e le spalle, e i genitali scoperti. Mettendosi in tasca la pistola, Wilder la spinse verso il rifugio. Scavalcarono il vecchio ed entrarono nell’ascensore. I muri erano coperti da tende e sul pavimento erano stati stesi due materassi. Mise un braccio attorno alle spalle della giovane donna e, stringendola a sé, Wilder sedette, appoggiandosi alla parete di fondo dell’ascensore. Teneva gli occhi fissi sull’acqua gialla della piscina, al di là dell’atrio. Diverse cabine erano state trasformate in casotti singoli, da una sola persona, ma erano stati tutti abbandonati. Notò due corpi che galleggiavano nella piscina, ormai quasi indistinguibili dal resto dei rifiuti, avanzi di cucina e frammenti di mobilia.

Wilder si servì di quel che restava del gattino arrostito sul fuoco. Con i denti si accaniva sulla carne fibrosa, e il grasso ancora caldo quasi lo ubriacava mentre succhiava lo spiedo.

La giovane si appoggiava a lui affettuosamente, contenta di sentirsi accolta fra le sue forti braccia. Il fresco odore del suo corpo sorprese Wilder… Più saliva nel condominio e più le donne erano pulite. Wilder le guardò il viso senza segni, aperto e amabile come quello di un animale domestico. Sembrava non essere stata assolutamente toccata dagli eventi succedutisi all’interno del grattacielo, come se avesse atteso l’arrivo di Wilder in una camera isolata dall’esterno. Cercò di parlarle ma scoprì di grugnire, incapace di articolare le parole con quei suoi denti rotti e la lingua coperta di cicatrici.

Piacevolmente esaltato dalla carne si sdraiò comodamente, appoggiandosi alla donna e giocherellando con la pistola da borsetta. Senza dar troppo peso alla cosa, le aprì il davanti del giubbotto, liberandole i seni. Le mise le mani sui minuscoli capezzoli e si sistemò sopra di lei. Si sentiva come assonnato, e rivolgeva alla giovane donna dei mormorii inarticolati mentre lei gli accarezzava le strisce dipinte sul petto e sulle spalle, muovendo all’infinito le dita sulla sua pelle come se gli volesse scrivere un messaggio.

Nelle prime ore del pomeriggio, sdraiato sulla schiena in quel comodo padiglione accanto al laghetto, Wilder riposava. La giovane donna gli era seduta accanto e, toccandogli il viso con i seni, allattava quell’uomo imponente, quasi nudo e con i genitali scoperti. Sua madre e suo padre lavoricchiavano davanti agli ascensori. Di tanto in tanto la vecchia in abito da sera prendeva un pezzo di mobile a caso dalla barricata e lo riduceva in legnetti per il fuoco con il coltello da cucina.

Wilder li ignorava, pensando solo al corpo della donna e agli immensi pilastri che reggevano il condominio fino al tetto. Dalle finestre attorno alla piscina vedeva le quattro torri dei grattacieli vicini, sospese nel cielo come nuvole rettilinee. Il calore di quell’ascensore, che sembrava emanare dai seni della donna, gli aveva tolto ogni volontà ed energia. Con il viso sereno, la donna fissava su Wilder uno sguardo rassicurante. Lo aveva accolto come faceva con tutti i predoni e i cacciatori. Prima aveva cercato di ammazzarlo, poi, dopo che aveva fallito, gli aveva dato del cibo e il suo corpo, allattandolo al seno per riportarlo a uno stato infantile e, forse, anche per poter provare affetto nei suoi confronti. Quando si fosse addormentato, gli avrebbe tagliato la gola. Il compendio del matrimonio ideale.

Ritornando in sé, Wilder si mise a sedere e diede un calcio al barboncino, che dormiva su un materasso fuori dall’ascensore. Il suo guaito di dolore lo rianimò. Spinse via la giovane donna. Aveva bisogno di dormire, ma prima doveva traslocare in un luogo più sicuro, o la cariatide e sua figlia lo avrebbero fatto fuori in un attimo.

Senza voltarsi si alzò e si avviò, tirandosi dietro il cane. Infilò la pistola d’argento nella cintura dei pantaloni e controllò le figure dipinte sul petto e sulle spalle. Con la telecamera in mano, superò la barricata e ritornò sulle scale, lasciandosi alle spalle il tranquillo accampamento e la giovane donna accanto al laghetto giallo.

Saliva i gradini e attorno a lui c’era il più assoluto silenzio. Le scale erano coperte da una passatoia che attutiva il rumore degli stivali e Wilder era troppo distratto dal suono del suo respiro per notare che le pareti attorno a lui erano dipinte di fresco: le superfici bianche splendevano nel sole pomeridiano come l’ingresso di un macello.

Salì fino al trentasettesimo, annusando l’aria gelata che gli scorreva lungo il corpo nudo e veniva direttamente dall’esterno. Sentiva ormai chiaramente le strida dei gabbiani, e non li aveva mai sentiti così da vicino. Quando il cane cominciò a guaire, riluttante a procedere oltre, lo lasciò libero e lo guardò sparire giù per le scale.

Il trentasettesimo piano era deserto, le porte degli appartamenti erano aperte all’aria limpida. Troppo esausto per pensare, trovò un appartamento vuoto, si barricò nel salotto e cadde in un sonno profondo sul pavimento.

18.

Il giardino di sangue

Anthony Royal, invece, all’aperto sul tetto tre piani più su, non era mai stato così sveglio. Finalmente pronto a raggiungere gli uccelli, era in piedi davanti alle finestre dell’attico e guardava oltre le piazze dell’area residenziale, verso la lontana foce del fiume. Ripulita dalle recenti piogge, l’aria del mattino era limpida ma gelida e il fiume scorreva dalla città come un nastro di ghiaccio. Da due giorni Royal non mangiava nulla, ma l’assenza di cibo, invece di prostrarlo, aveva eccitato ogni nervo e muscolo del suo corpo. Le grida dei gabbiani riempivano l’aria e sembravano lacerare i tessuti scoperti del suo cervello. Come un incessante zampillo si alzavano dalle colonne degli ascensori e dalle balaustre, si libravano in aria per formare un vortice che si allargava verso l’esterno e si rituffavano di nuovo in picchiata, sul giardino delle sculture.

Royal era ormai certo che lo chiamavano. Era stato abbandonato dai cani – appena li aveva liberati erano spariti giù per le scale e i corridoi sottostanti – e solo il pastore tedesco bianco era rimasto. Sedeva ai piedi di Royal davanti alle finestre aperte, ipnotizzato dal movimento degli uccelli. Le sue ferite erano guarite, ormai, e la sua folta pelliccia artica era di nuovo bianca. A Royal mancavano quelle macchie di sangue, come gli mancavano le impronte delle mani insanguinate sulla giacca che la signora Wilder aveva lavato.

Il poco cibo che si era portato su, prima di chiudersi a chiave nell’attico, lo aveva dato al cane, ma si sentiva già trasportato al di là della fame. Da tre giorni non vedeva nessuno, ed era contento di essersi isolato da sua moglie e dai vicini. Alzando lo sguardo sulla nube vorticante dei gabbiani capiva che i veri abitanti del grattacielo erano loro. Senza rendersene conto, all’epoca, aveva progettato il giardino delle sculture unicamente per loro.

Royal rabbrividì per il freddo. Indossava la sahariana e il lino leggero non gli dava protezione contro il vento che spazzava il tetto di cemento. Nella brillantissima luce mattutina anche il tessuto bianco sembrava grigio in confronto alla pelle di Royal, candida come la neve.

Quasi incapace di controllarsi e chiedendosi se le cicatrici dell’incidente stessero cominciando a riaprirsi da sole, uscì in terrazza e si mise a camminare sul tetto.

I gabbiani lo accompagnavano, girando la testa e pulendosi il becco sul cemento. La superficie del tetto era striata di sangue. Per la prima volta Royal si accorse che le sporgenze e le balaustre erano coperte di tacche sanguinose, come i simboli di una grafia misteriosa.

In lontananza si sentivano delle voci, un mormorio femminile. Nella sezione centrale della terrazza panoramica, dietro il giardino delle sculture, un gruppo di inquiline si era riunito per una specie di discussione pubblica.

Turbato da quella intrusione nel suo paesaggio privato, che gli ricordava di non essere ancora solo nel condominio, Royal si ritirò dietro il muro posteriore del giardino delle sculture. Le voci si muovevano attorno a lui, parlando in modo informale come se quella fosse solo la più recente di molte altre visite del genere. Forse durante le precedenti uscite lui dormiva, oppure da quando il tempo si era rinfrescato avevano deciso di spostare le loro riunioni più verso il centro del tetto, in modo da ripararsi dietro il suo attico.

Il vortice di uccelli si stava rompendo. Mentre Royal tornava verso l’attico, la spirale aveva già cominciato a disintegrarsi. I gabbiani si allontanavano in picchiata lungo la facciata dell’edificio, giù, in basso. Spingendo avanti a sé il pastore tedesco, Royal uscì da dietro il muro posteriore del giardino delle sculture. Nell’attico c’erano due donne, in piedi. Una di esse appoggiava una mano sulla sua macchina per la ginnastica ritmica. Ma ciò che sbalordiva Royal era l’atteggiamento indifferente, come se stessero per trasferirsi in una villa appena affittata per le vacanze.

Royal si nascose dietro una colonna d’ascensore. Dopo essere stato per tanto tempo solo con gli uccelli e il pastore tedesco la vista di quegli intrusi umani lo metteva in ansia. Si tenne il cane vicino alle gambe e decise di attendere nel giardino delle sculture fino a che il gruppo delle visitatrici se ne fosse andato.

Aprì la porta sul retro del giardino e si mise a passeggiare tra le forme geometriche dipinte. Era circondato dai gabbiani, ammassati a decine sul pavimento piastrellato. Seguivano Royal come speranzosi, quasi credessero che avesse portato loro qualcosa.

Si scivolava, sulle piastrelle bagnate. Guardandosi i piedi, scoprì di avere un pezzetto di cartilagine attaccato a una scarpa. Per tirarlo via si appoggiò a una delle sculture in cemento, una sfera alta più o meno la metà di una persona e dipinta di carminio.

Quando ritirò la mano la trovò macchiata di sangue. I gabbiani ripresero a muoversi tutti impettiti liberando uno spazio davanti a lui, e Royal si accorse che l’intero parcogiochi era fradicio di sangue. Il pavimento piastrellato era reso viscido proprio dalla luccicante mucillaggine.

Il pastore tedesco annusava bramosamente, e inghiottì un brandello di carne vicino alla vasca per i bambini più piccoli. Paralizzato dal raccapriccio, Royal fissava le piastrelle imbrattate di sangue, le sue mani rosse, le ossa bianche ripulite dagli uccelli.

Quando Wilder si svegliò era pomeriggio tardi. Nella stanza vuota girava una brezza fredda che sfogliava le pagine di un giornale dimenticato sul pavimento. L’appartamento era senza imposte. Wilder sentì il vento soffiare nelle tubature dell’aria condizionata. Le grida dei gabbiani erano finite, come se gli uccelli se ne fossero andati per sempre. Wilder sedette sul pavimento in un angolo del salotto, un vertice di quel cubo disabitato. Sentendo la schiena premere contro la parete, gli sembrava quasi di essere il primo e ultimo inquilino del condominio.

Si alzò e attraversò la stanza per uscire sul balcone. Sotto di sé vedeva le migliaia di auto nei parcheggi, ma come schermate da una leggera foschia, a conferma che quel mondo era diverso dal suo.

Succhiandosi le tracce di grasso animale che gli restavano sulle dita, Wilder entrò in cucina. La dispensa e il frigorifero erano vuoti. Pensò alla giovane donna e al suo corpo caldo nell’ascensore accanto alla piscina, chiedendosi se dovesse tornare da lei. Si ricordava delle carezze sul petto e sulle spalle, e sentiva ancora la pressione delle sue mani sulla pelle.

Sempre succhiandosi le dita e pensando a se stesso abbandonato in quell’immenso edificio, Wilder uscì dall’appartamento. In corridoio c’era silenzio, l’aria fredda sollevava le cartacce sparse tra i rifiuti sul pavimento. Con la sinistra teneva la macchina da presa, ma non sapeva più con sicurezza che funzione avesse, né perché se la fosse portata dietro per tanto tempo.

La pistola d’argento, al contrario, la riconosceva immediatamente.

La teneva nella destra, puntandola scherzosamente contro le porte aperte, quasi sperando che saltasse fuori qualcuno per unirsi al gioco. I piani superiori erano stati in parte invasi dal cielo. Attraverso la colonna di un ascensore, mentre saliva al quarantesimo, vide delle nuvole bianche incorniciate dal lucernario della tromba delle scale.

Fingendo di sparare con la pistola, Wilder attraversò come una freccia l’atrio degli ascensori del quarantesimo piano. Non c’erano barricate, lì, e di recente era stato fatto un tentativo di pulizia domestica. I sacchi della spazzatura erano stati portati via, le barricate smantellate, l’arredamento dell’atrio rimesso al suo posto. Qualcuno aveva lavato e sfregato i muri, ripulendoli da ogni traccia di slogan, ruolini di servizio e orari di imbarco degli ascensori.

Dietro di lui una porta fu chiusa dal vento, spegnendo un fascio di luce. Spassandosela a giocare da solo, ma sicuro che presto sarebbe saltato fuori qualcuno a divertirsi con lui, Wilder piegò un ginocchio e puntò la pistola contro un immaginario assalitore. Si slanciò per il corridoio, riaprì la porta con un calcio ed entrò come una furia nell’appartamento.

Era il più grande che avesse mai visto nell’edificio, di gran lunga più spazioso di qualsiasi altro dei piani superiori. Come davanti agli ascensori e nei corridoi, le stanze erano state ripulite con cura, qualcuno aveva nuovamente steso i tappeti sul pavimento e riappeso le tende alle portefinestre. Sul lucidissimo tavolo della sala c’erano due candelieri d’argento.

Impressionato da ciò che vedeva, Wilder fece il giro del tavolo scintillante. In modo confuso, aveva la sensazione di essere già stato lì, ma molti anni prima di andare in quell’edificio vuoto. I soffitti alti e l’arredamento virile gli ricordavano una casa che aveva visitato da bambino. Girava per le stanze, in cui erano stati rimessi i mobili, quasi aspettandosi di ritrovarci i suoi giocattoli, un lettino e un girello tirati fuori per il suo arrivo.

Fra le due camere da letto si innalzava una scala interna che portava di sopra, a un altro salone e a una serie di stanze che davano sul tetto. Eccitato dal mistero e dalla sfida di quella scala segreta, Wilder cominciò a salire i gradini. Leccando l’ultimo grasso rimastogli sulle dita, si complimentò allegramente con se stesso.

Era arrivato a metà della scala quando qualcosa gli bloccò il cammino. La scarna figura di un uomo alto con i capelli bianchi era spuntata dall’ombra. Molto più vecchio di Wilder, i capelli arruffati dal vento, era fermo in cima alla scala e guardava in silenzio l’intruso sotto di lui. Il volto era nascosto dalla vivida luce alle sue spalle, ma le cicatrici sulla fronte ossuta risaltavano chiaramente, come le impronte ancora fresche delle mani che macchiavano la sua giacca bianca.

Riconoscendo vagamente quel vecchio pazzo della terrazza panoramica, Wilder si fermò sulle scale. Non capiva se Royal fosse venuto a giocare con lui o a sgridarlo. Dall’atteggiamento intimorito e dal suo aspetto misero, Wilder immaginava che se ne fosse stato nascosto da qualche parte, e non per divertimento.

Sperando comunque di arruolarlo al gioco, Wilder gli puntò scherzosamente la pistola addosso. Con sua grande sorpresa, l’architetto fece un balzo indietro, fingendo di essere terrorizzato. Mentre Wilder saliva verso di lui, Royal alzò il bastone cromato che aveva in mano e lo gettò giù per la scala.

Il tubo metallico colpì la balaustra e sferzò Wilder sul braccio sinistro. Tormentato dal dolore, Wilder lasciò cadere la macchina da presa. Aveva il braccio indolenzito e per un attimo si sentì disperato, come un bambino a cui è stata fatta violenza. Mentre l’architetto scendeva i gradini verso di lui, Wilder alzò la pistola e gli sparò al petto.

Quando la breve esplosione svanì nell’aria fredda, Wilder salì gli ultimi gradini. Il corpo dell’architetto giaceva in una strana posizione in cima alle scale, come se facesse finta di essere morto. Il volto sfregiato dalle cicatrici, esangue, guardava dalla parte opposta a Wilder. Royal era ancora vivo e fissava attraverso le finestre gli ultimi uccelli che lo sparo aveva fatto levare in volo.

Perplesso per il suo gioco e le inattese conseguenze verificatesi, Wilder lo scavalcò. In fondo alla scala c’era la telecamera, ma lui decise di lasciarcela. Sfregandosi il braccio contuso gettò via la pistola, che gli aveva scosso dolorosamente la mano, e uscì dalla portafinestra.

Venti metri più in là dei bambini giocavano nel giardino delle sculture. Le porte, chiuse con la catena per tanto tempo in modo da tenerli fuori, erano invece spalancate e Wilder riusciva a vedere le forme geometriche delle sculture, i loro vivaci colori che contrastavano con il bianco delle pareti. Tutto era stato appena ridipinto e il tetto vibrava di luce.

Wilder fece ai bambini un cenno di saluto, ma nessuno di loro lo vide. La loro presenza lo rianimava e lui provò un’impetuosa sensazione di trionfo a essere salito fino al tetto per ritrovarli. Quello strano tipo sfregiato con la giacca bianca insanguinata, che giaceva dietro di lui sui gradini, non aveva capito il gioco.

Uno dei bambini, un piccolino di due anni, era nudo ed entrava e usciva dalle sculture. In tutta fretta, Wilder si slacciò i calzoni stracciati e li lasciò cadere alle caviglie. Inciampando un pochino, perché si stava dimenticando come si usano le gambe, corse avanti, nudo anche lui, per raggiungere i suoi amici.

Nel centro del giardino delle sculture, accanto alla vasca vuota, una donna stava accendendo un gran fuoco di pezzi di mobili. Le sue forti mani sistemavano un grosso spiedo, messo insieme con i tubi metallici cromati di un marchingegno da ginnastica. Si accovacciò davanti al fuoco, affastellando gambe di sedie mentre i bambini giocavano tutti insieme.

Wilder si fece avanti, timidamente, sperando che la donna notasse i segni dipinti sul petto. Mentre aspettava che i bambini lo invitassero a giocare con loro, vide che a pochi passi da lui, sulla sinistra, c’era una seconda donna, dal volto austero. Indossava un vestito lungo fino ai piedi e un grembiule di percalle, e teneva i capelli tirati indietro e annodati sulla nuca.

Wilder si fermò fra le statue, a disagio perché nessuno lo aveva notato. Altre due donne, vestite alla stessa maniera formale, erano apparse vicino al cancello. E altre ancora avanzavano fra le sculture, mettendosi attorno a Wilder in un ampio cerchio. Sembravano appartenere a un altro secolo, se non fosse stato per gli occhiali da sole, le cui lenti scure risaltavano sul cemento della terrazza, disseminato di tacche insanguinate.

Wilder attese che gli parlassero. Era contento di essere nudo e di mostrare il suo corpo coperto di disegni. Finalmente, la donna inginocchiata davanti al fuoco lo guardò da sopra la spalla. Nonostante il cambiamento nel vestire riconobbe in lei sua moglie Helen. Stava per correre da lei, ma il suo sguardo disincantato e la fredda valutazione che sembrava fare dei suoi grossi genitali lo convinsero a fermarsi.

Ormai si era accorto di conoscere tutte le donne che lo circondavano. Riconobbe confusamente Charlotte Melville, che aveva una sciarpa attorno al collo escoriato e lo guardava senza mostrare ostilità. Vicino a Jane Sheridan c’era la giovane moglie di Royal, che ora faceva l’istitutrice e badava ai bambini più piccoli. Riconobbe la vedova del gioielliere, con la sua lunga pelliccia e la faccia dipinta di rosso come il corpo di Wilder. Guardando al di sopra della sua spalla, se non altro per avere la conferma che ogni via di fuga era bloccata, scorse la maestosa figura della scrittrice di racconti per bambini seduta davanti alla finestra aperta dell’attico, come una regina nel suo padiglione. In un estremo momento di speranza pensò che forse gli avrebbe raccontato una storia.

I bambini che aveva di fronte nel giardino delle sculture stavano giocando con delle ossa.

Il cerchio delle donne si fece più vicino. Dal fuoco si levarono le prime fiammate, la vernice scoppiettante delle sedie antiche bruciava subito. Da dietro i loro occhiali da sole le donne guardavano intensamente Wilder, come se si fossero accorte che il loro duro lavoro gli aveva messo un grande appetito. Tutte insieme, presero qualcosa dalla profonda tasca dei grembiuli.

Nelle mani insanguinate ora avevano dei coltelli dalle lame sottili. Sempre timido, ma finalmente felice, Wilder si diresse barcollando verso le sue nuove madri.

19.

Giochi notturni

La cena stava per essere servita. Seduto sul suo balcone al venticinquesimo piano, Robert Laing attizzò le braci del fuoco che aveva acceso con le pagine di un elenco telefonico cittadino. Le fiamme illuminarono le belle spalle e il petto del pastore tedesco che stava arrostendo sullo spiedo. Laing fece vento sul fuoco, augurandosi che Alice ed Eleanor Powell, sdraiate insieme sul letto di sua sorella, apprezzassero quanto aveva fatto. Intanto, ungeva metodicamente la pelle scura del pastore tedesco, che aveva condito con un ripieno di aglio ed erbe aromatiche.

“C’è una sola regola nella vita,” mormorò a se stesso. “Finché senti il profumo dell’aglio, va tutto bene.”

In quel momento, almeno, tutto andava in modo veramente soddisfacente. Il pastore tedesco era quasi cotto, e una cena abbondante avrebbe fatto molto bene alle donne. Per conseguenza della scarsezza di cibo, ultimamente erano diventate entrambe lamentose e troppo stanche perfino per apprezzare il coraggio e l’abilità di Laing nella cattura del cane; senza parlare dell’impresa, che l’aveva davvero sfinito, di spellare e sventrare quel grosso animale. Si erano perfino lagnate del fatto che guaisse nervosamente mentre Laing sfogliava un corso di alta cucina trovato in un appartamento vicino. Era rimasto a lungo indeciso sul modo migliore di cucinare il cane. E, a giudicare da quanto tremava e uggiolava, anche il pastore tedesco aveva sentito parecchio il problema, come se fosse consapevole di essere uno degli ultimi animali rimasti nel grattacielo e di meritare, non fosse che per quell’unica ragione, uno sforzo culinario di livello superiore.

Il pensiero delle settimane di fame che sarebbero seguite turbò mentalmente Laing, che mise per reazione altre pagine nel fuoco sul balcone. Forse c’era ancora selvaggina da scovare ai piani bassi, sebbene non si avventurasse mai sotto il ventesimo piano. Il puzzo proveniente dalla piscina del decimo era troppo rivoltante e saliva da ogni pozzo di aerazione e colonna d’ascensore. Laing era sceso ai piani bassi una sola volta, negli ultimi mesi, quando aveva brevemente fatto da buon samaritano per Anthony Royal.

Aveva trovato l’architetto morente mentre era a far legna da ardere nell’atrio del venticinquesimo piano. Stava tirando fuori da una barricata in disuso una specchiera antica e, dall’apertura che si era determinata, era cascato fuori Royal che quasi lo aveva messo al tappeto. Aveva una piccola ferita aperta nel petto, e il sangue che ne usciva aveva coperto la giacca bianca di grosse macchie con la forma delle sue mani, come se l’architetto avesse cercato di identificarsi attraverso quelle impronte della sua morte imminente. Era evidentemente alla fine, aveva lo sguardo appannato e le ossa della fronte che quasi bucavano la pelle troppo tesa. In qualche modo era riuscito a scendere fin lì dal quarantesimo piano. Proseguendo nel suo vagabondaggio inciampava continuamente sulle scale, in parte sorretto da Laing. Alla fine erano arrivati al decimo piano. Davanti al centro commerciale erano stati investiti dal puzzo della carne in putrefazione, che sembrava venire dai banconi vuoti del supermarket. Sulle prime, Laing aveva pensato che un deposito segreto di carne si fosse aperto all’improvviso e che la carne cominciasse a decomporsi. Spinto dalla fame, era stato sul punto di mollare Royal e buttarsi alla ricerca del cibo.

Ma Royal, a occhi quasi chiusi e aggrappato con una mano alla spalla di Laing, gli aveva indicato la piscina.

Nella luce gialla riflessa dalle piastrelle viscide, si estendeva davanti a loro la lunga vasca divenuta una fossa comune. L’acqua se n’era andata da parecchio, ma il pavimento digradante della piscina era coperto di teschi, ossa e parti smembrate di decine di cadaveri. Avviluppati insieme là dove erano stati gettati, sembravano i frequentatori di una spiaggia affollata, improvvisamente visitata da un olocausto.

Disturbato più dal fetore che dalla vista di quei corpi mutilati – che riteneva appartenessero a inquilini morti di vecchiaia o malattia e successivamente sbranati dai cani inselvatichiti – Laing se n’era andato. Royal, che gli si era attaccato così tenacemente durante la discesa, non aveva più bisogno di lui e si era trascinato via, lungo la fila delle cabine. L’ultima volta che Laing lo aveva visto, si stava dirigendo verso i gradini della parte bassa della piscina, come se sperasse di trovare un posto per sé alla fine di quel pendio terminale.

Laing si accucciò accanto al fuoco, saggiando i posteriori del pastore tedesco con uno spiedo sottile. Rabbrividì per l’aria fredda che saliva lungo la facciata del grattacielo, e si impose di scacciare il ricordo di quella fossa comune. A volte aveva avuto il sospetto che qualche inquilino fosse tornato al cannibalismo: da molti dei cadaveri la carne era stata asportata con abilità chirurgica. Per gli abitanti dei piani bassi, costantemente discriminati e sottoposti a pressioni insostenibili, era stato probabilmente inevitabile.

“Robert…! Si può sapere cosa stai facendo?” La voce lamentosa di Alice lo distolse dalle sue fantasie. Pulendosi le mani sul grembiule, corse in camera.

“È tutto a posto… La cena è quasi pronta.”

Parlò in tono rassicurante e infantile, con la stessa voce che usava una volta, durante il suo apprendistato ospedaliero, con i bambini ricoverati che si dimostravano particolarmente ottusi. Ma quel tono mal si accordava con lo sguardo intelligente e seccato delle due donne a letto.

“Stai riempiendo la casa di fumo,” gli disse Eleanor. “Fai di nuovo segnali a quelli di sopra?”

“No… Sono gli elenchi telefonici. La carta delle pagine dev’essere stata ricavata dalla plastica.”

Alice, infastidita, scosse la testa. “E le pile per Eleanor? Hai promesso di trovargliele. Deve ricominciare a fare le sue recensioni.”

“Sì, lo so…” Laing abbassò lo sguardo sullo schermo vuoto del televisore portatile, posato sul pavimento dalla parte di Eleanor. Non sapeva che pesci pigliare, come poter rispondere… A dispetto di tutti i suoi sforzi, avevano finito le batterie.

Eleanor lo fissava con un’espressione severa. Si era riaperta la ferita sul polso e la stava timidamente mostrando al gatto, che la guardava con estremo interesse dalla parte opposta della camera. “Abbiamo discusso dell’eventualità che tu ti trasferisca in un altro appartamento.”

“Cosa?” Laing si chiedeva se la pantomima non stesse diventando una cosa seria e rise allegramente, ancor più eccitato dal fatto che Eleanor rifiutava di farsi apparire sulle labbra il consueto, lento sorriso. Le due donne sedevano fianco a fianco, così vicine che sembravano fuse insieme. A intervalli regolari nella giornata Laing portava loro il cibo, ma senza mai sapere con esattezza di quale delle due stesse di volta in volta soddisfacendo i bisogni e le funzioni corporee. Si erano installate nello stesso letto per avere calore e sicurezza ma, in realtà, Laing sospettava che volessero sincronizzare la loro sorveglianza su di lui. Sapevano di dipendere da Laing. Al di là della “pantomima”, tutti i loro comportamenti erano diretti a soddisfare i bisogni privati di Laing, in compenso del fatto che lui si occupava della loro sopravvivenza fisica. Quello scambio a Laing andava benissimo, così come gli stava meravigliosamente bene tenerle a letto insieme, perché così doveva affrontare una sola sequela di richieste piagnucolose, un solo repertorio di giochi nevrotici.

Gli faceva piacere veder riemergere il vecchio spirito di Eleanor. Entrambe le donne soffrivano seriamente di denutrizione, e Laing si sentiva molto rincuorato quando erano abbastanza forti da recitare le loro parti in quella pantomima a svolgimento libero, trattandolo come due istitutrici di una famiglia ricca che tormentavano un bambino capriccioso e introverso. A volte Laing si divertiva a portare il gioco fino alla sua logica conclusione, immaginando che le donne avessero ottenuto il comando e lo coprissero di un totale disprezzo. Quell’ultima parte che ogni tanto recitavano una volta gli era stata molto utile, quando una banda di razziatrici comandate dalla signora Wilder era riuscita a penetrare nell’appartamento. Vedendole tormentare Laing avevano pensato che fosse prigioniero di Alice ed Eleanor, e se n’erano andate. O, forse, avevano capito fin troppo bene cosa stava accadendo.

Quale fosse la risposta giusta non importava, l’importante era che Laing, per il momento, era ancora libero di vivere nell’intimità di quella cerchia familiare, la prima da quando era bambino. La sua condizione gli concedeva ampia libertà di esplorare se stesso e l’elemento forte dell’imprevedibilità teneva tutti in allarme. Laing poteva supplicarle con mille moine di lasciarlo poppare, ma anche diventare facilmente crudele. Le donne lo ammiravano per quello. Gli rimaneva un numero consistente di fiale di morfina e aveva intenzione di iniziare le sue donne a quell’inebriante elisir. La loro tossicodipendenza avrebbe nuovamente inclinato a suo favore la bilancia dell’autorità, aumentando il bisogno che già avevano di lui. Per ironia della sorte, ecco che proprio lì, nel grattacielo, aveva trovato le prime pazienti.

Era passato un po’ di tempo, e Laing, dopo aver trinciato il cane e averne servito generose ma non eccessive porzioni alle donne, sedeva sul balcone con la schiena appoggiata alla balaustra e pensava a quanto era fortunato. Prima di tutto, ormai non aveva più alcuna importanza come si comportasse, a quali bizzarri impulsi desse sfogo, o quali perversi sentieri decidesse di seguire. Gli spiaceva che Royal fosse morto, perché aveva con l’architetto un debito di gratitudine per aver contribuito a progettare il grattacielo, rendendo possibile tutto ciò che era accaduto. Era strano che Royal si fosse sentito in colpa, prima di morire.

Laing rivolse un cenno di rassicurazione alle due donne, sedute sul letto con il vassoio sulle ginocchia, a mangiare dallo stesso piatto. Anche lui finì la sua carne, scura e agliata, poi alzò lo sguardo sulla facciata del grattacielo. Tutti i piani erano al buio, e lui ne era felice. Il suo affetto per le due donne era reale, come il suo orgoglio nel riuscire a tenerle in vita, ma questo non interferiva assolutamente con la nuova libertà che aveva scoperto.

Nel complesso, la vita nel grattacielo era stata generosa con lui. Le cose stavano progressivamente tornando alla normalità. Laing aveva ricominciato a pensare alla Facoltà di Medicina. Avrebbe anche potuto fare un salto all’Istituto di Fisiologia, l’indomani, e magari fare una supervisione. Prima però avrebbe ripulito tutto. Aveva visto due vicine che spazzavano il pavimento del corridoio. Forse sarebbe stato possibile anche rimettere in funzione un ascensore. Poteva prendersi un secondo appartamento, smantellare le barricate e cominciare a riammobiliarlo. A Laing tornò alla mente la minaccia di esiliarlo ventilata da Eleanor. Si trastullava con quella prospettiva, provando un illecito brivido di piacere. Doveva pensare a qualcosa che gli riconquistasse il loro favore.

E comunque tutto ciò, compresa la morfina che gli avrebbe somministrato in dosi crescenti, era soltanto un principio, semplici prove per il godimento vero, che ancora doveva venire. Sentendo che tutte quelle intuizioni si componevano dentro di lui, Laing si appoggiò all’inferriata.

Si era fatto buio, e le braci del fuoco brillavano nella sera. La sagoma del grosso cane sullo spiedo faceva pensare a un uomo mutilato che volasse con immensa energia nel cielo notturno, mentre i tizzoni incastonati nella sua pelle brillavano come gioielli.

Laing guardò il grattacielo vicino, a quattrocento metri di distanza. C’era un temporaneo guasto all’impianto elettrico e al settimo piano tutte le luci erano spente. Già si vedevano i raggi luminosi delle torce elettriche che scrutavano il buio, e gli inquilini facevano i primi, confusi tentativi di capire dove si trovavano. Laing li guardava soddisfatto, pronto a dargli il benvenuto nel loro nuovo mondo.