L'UOMO DEL RITRATTO
(Cry Hope, Cry Fury!, Fantasy and Science Fiction, 1967)Estratto da: James G. Ballard
Tutti i racconti
Vol. II (1963-1968)
(The Complete Short Stories (vol. II, 1963-1968), 2001)
L'UOMO DEL RITRATTO
La notte scorsa, mentre l'aria del crepuscolo attraversava il deserto di Vermilion Sands, ho visto di nuovo un tremolio di sartiame tra le scogliere e un albero maestro che si spostava tra le spirali di roccia come una lanterna argentata. Affacciato dalla terrazza della mia casa di villeggiatura, ne ho seguito il movimento verso il mare di sabbia aperto e ho visto le vele spettrali di questa nave fantasma. Non c'era stata una sera in cui non avessi visto lo stesso yacht, quella goletta notturna che abbandonava il suo ormeggio segreto e rollava sul mare dipinto. La scorsa notte è apparso un secondo yacht, partito all'inseguimento dal suo nascondiglio fra le scogliere, con una donna dai capelli chiari e gli occhi di una Medea triste al timone. Mentre i due yacht volavano attraverso il mare di sabbia ho
ricordato il mio primo incontro con Hope Cunard, e la sua strana relazione
con l'olandese, Charles Rademaker...
Tutte le estati, non appena Vermilion Sands si riempiva di turisti e di compagnie cinematografiche d'avanguardia, chiudevo il mio ufficio e prendevo in affitto una delle case di villeggiatura che si affacciano sul mare di sabbia, a cinque miglia da Ciraquito. Lì, durante i lunghi tramonti,
il cielo e il deserto si caricavano di colori, proiettando sulle velature degli yacht da sabbia ombre a forma di geroglifico, che imprimevano sui natanti tutti gli enigmi di quel mare misterioso. Durante il giorno prendevo il mio yacht, uno sloop armato alle Bermuda, e navigavo verso le dune al centro del deserto. Le violente onde termiche mi trascinavano su una scia di
sabbia dorata.
Andando a caccia di razze, a volte mi ritrovavo a vagare per miglia lungo il deserto e perdevo di vista le scogliere che presiedevano come divinità erose alle gerarchie di sabbia e vento. Mi lanciavo all'inseguimento di un banco di razze in fuga, scagliando i miei dardi
nell'aria surriscaldata e perdendomi in un paesaggio astratto composto dalle razze in volo, le dune ondulate e i triangoli delle vele. E fu da questi materiali, dalla nuda geometria dello spazio e del tempo, che emersero le bizzarre figure di Hope Cunard e del suo seguito, come illusioni nate da quel mare di sogni.
Una mattina partii presto per dare la caccia a un gruppo di razze bianche che avevo visto il giorno prima in un punto lontano del deserto. Per ore
procedetti sulla sabbia solida, evitando le altre imbarcazioni, concentrato solo sull'orizzonte. A mezzogiorno avevo perso qualunque punto di riferimento ma avevo trovato le razze e le inseguivo tra le dune. Le venti
razze mi precedevano, quasi volessero guidarmi verso una destinazione ignota.
Le dune cedettero il passo a una serie di pianori chiusi e attraversati da vene di quarzo. Evitando un ampio crepaccio la cui imboccatura decorata
si spalancava come la porta di una cattedrale semisommersa, sentii che lo yacht si inclinava su un fianco per una foratura della gomma di tribordo.
Mentre abbassavo la vela, l'aria intorno a me sembrò tingersi d'oro.
Presi a calci la gomma ormai sgonfia e controllai il paesaggio nel quale mi trovavo - scogliere di sabbia sommerse, un oceano di dune, e lo scheletro di uno yacht abbandonato a meno di un chilometro di distanza, proprio di fronte all'imbocco di una vena di quarzo che splendeva come le fauci di un coccodrillo gemmato. Ero a trenta chilometri dalla costa e le mie uniche scorte erano rappresentate da una bottiglia quasi vuota di Martini nell'armadietto della cambusa.
Le razze, guidate da un misterioso riflesso, si erano fermate a loro volta sulla cresta di una duna. Mi armai del fucile da subacqueo e mi diressi verso il relitto nella speranza di trovarvi una pompa.
La sabbia sembrava polvere di vetro. Dopo seicento metri, accortomi che le suole delle scarpe erano completamente tagliuzzate e aperte, decisi di tornare indietro. Piuttosto che ridurmi allo stremo delle forze, preferii riposarmi all'ombra delle vele, per tornare a Ciraquito quando avesse fatto buio. I miei piedi lasciavano orme insanguinate sulla sabbia.
Ero appoggiato all'albero maestro, con i piedi feriti a mollo nel secchiello del ghiaccio, quando una grossa razza bianca spiccò il volo
sopra la mia testa. Si era staccata dalle altre, che restavano immobili sulla
cresta della duna, ed era venuta a controllarmi. Con le sue ali larghe quasi tre metri e il corpo grande come quello di un uomo continuò a volarmi
intorno in cerchi monotoni mentre sorseggiavo il resto del Martini, ormai caldo. Nonostante la sua curiosità, la razza non dava alcun segno di
volermi attaccare. Dieci minuti dopo, vedendo che continuava a volare in cerchio, presi il fucile da subacqueo e le sparai, perforandole l'occhio sinistro. Trafitta dall'arpione d'acciaio precipitò sulla vela, strappandola via dall'albero per poi atterrare sul ponte. La sua ala mi colpì alla testa come un fulmine
caduto dal cielo.
Rimasi per ore immobile in quel mare di sabbia deserto, sotto un sole bruciante, con la razza morta come unica compagnia. Il tempo sembrava sorpreso su un immutabile mezzogiorno, il cielo pieno di soli ingannevoli, ma doveva essere il primo pomeriggio quando sentii un'ombra immensa che calava sullo yacht. Mi sollevai sopra il cadavere della razza per vedere un enorme schooner da sabbia, il cui bompresso d'argento era grande
quanto tutto il mio yacht, che avanzava sulle sue ruote bianche. Gli uomini dell'equipaggio, con i volti nascosti dagli occhiali da sole, mi guardavano dal ponte.
In piedi, con una mano sul corrimano del cabinato e con gli oblò cerchiati d'ottone che formavano altrettanti aloni ai suoi piedi, c'era una
donna alta, stretta di fianchi, i capelli di un biondo così chiaro che mi
ricordò immediatamente la Morte-in-Vita del Vecchio Marinaio. I suoi occhi mi scrutavano come magnolie scure. Mossi dal vento, i suoi capelli, come l'argento antico, formavano una pianeta sacerdotale nell'aria.
Sospettando che quello strano veliero e il suo equipaggio potessero essere solo un'apparizione, alzai la bottiglia vuota di Martini, mostrandola alla donna. Lei mi guardò dall'alto in basso con gli occhi colmi di
disappunto. Due membri dell'equipaggio corsero verso di me. Mentre mi toglievano da sopra le gambe il corpo della razza di sabbia li guardai in faccia. Benché rasati di fresco a abbronzati, somigliavano a delle maschere.
Fu così che venni soccorso da Hope Cunard. Riposando nella cabina sotto coperta, mentre un membro dell'equipaggio mi bendava i piedi, vedevo la sua figura pallida attraverso il tetto trasparente. Il suo viso
preoccupato scrutava il deserto come se cercasse una preda molto più
importante di me.
Entrò in cabina solo mezz'ora dopo. Si sedette ai miei piedi, toccando le bende bianche, incuriosita. «Robert Melville... lei è un poeta? Quando l'abbiamo trovata stava parlando del Vecchio Marinaio.»
Feci un gesto vago. «Era una battuta di spirito. Su me stesso.» Non potevo certo dire a quella donna distaccata ma bellissima che l'avevo vista come l'incarnazione della strega da incubo di Coleridge, e aggiunsi: «Ho ucciso una razza di sabbia che volava intorno al mio yacht.»
La donna giocava con i ciondoli di giada che formavano pozze di smeraldo nelle pieghe della sua veste bianca. I suoi occhi si stagliavano al centro del volto pensoso come uccelli agitati. Prendendo apparentemente
sul serio il mio riferimento al Marinaio, disse: «Può riposarsi a Lizard Key fino a quando non starà meglio. Mio fratello si occuperà di riparare il suo
yacht. Mi spiace per le razze - l'hanno scambiata per qualcun altro.»
Mentre lei restava seduta, guardando fuori dall'oblò, il grande scafo scorreva silenzioso sulla sabbia e le razze bianche ne seguivano la scia a poco più di un metro da terra. Solo più tardi capii che avevano riportato alla loro padrona la preda sbagliata.
In meno di due ore raggiungemmo Lizard Key, dove sarei rimasto per le
tre settimane che seguirono. Innalzandosi sopra le onde termiche, l'isola sembrava sospesa in aria e la villa con la sua terrazza e il pontile era appena visibile nella foschia. Circondate su tre lati dagli alti minareti delle
scogliere, sia l'isola che la villa erano balzate fuori da una fantasia minerale del deserto. Spirali di roccia si slanciavano come cipressi lungo il sentiero che portava alla villa, e fra di esse sorgevano delle sculture
dall'aspetto selvaggio.
«Quando mio padre l'ha scoperta, l'isola era piena di mostri di gila e di basilischi» spiegò Hope mentre venivo portato a braccia su per il sentiero. «Ora veniamo qui tutte le estati, per dipingere e uscire in barca.»
Giunti alla terrazza, venimmo accolti dagli altri due padroni di questo paradiso privato - il fratellastro di Hope Cunard, Foyle, un giovane con una frangia bianca sulla fronte, una bocca carnosa e guance segnate dalla varicella, che mi guardava dal balcone come un pensieroso Amleto da spiaggia; e la segretaria di Hope, Barbara Quimby, una sfinge dal volto imperscrutabile, con un bikini nero e uno sguardo annoiato.
Restarono insieme a guardarmi mentre venivo trasportato su per gli scalini dietro Hope. L'espressione piena di aspettativa sui loro volti si trasformò in una di cortese indifferenza non appena venni presentato.
Prima ancora che Hope potesse finire la descrizione del mio salvataggio si erano già spostati sulle sdraio in fondo alla terrazza. Durante i giorni successivi, mentre me ne stavo disteso su un divanetto, ebbi tutto il tempo
di esaminare quello strano ménage. Nonostante la loro dipendenza da Hope, che aveva ereditato la villa da suo padre, il loro sembrava il tipico atteggiamento dei cospiratori di palazzo, con un ricco campionario di scherzi privati e sguardi segreti. Hope, però, ignorava completamente quelle gherminelle. Come l'atmosfera stessa della villa, la sua personalità era sfocata e le sue attenzioni erano sempre rivolte altrove.
Chi si aspettavano di vedere arrivare? E Hope Cunard, quale navigatore dei mari di sabbia stava cercando con il suo schooner e la sua flottiglia di razze? All'inizio la vidi di rado, anche se di tanto in tanto saliva sul tetto del suo studiolo e dava da mangiare alle razze, che le venivano incontro dalle loro tane tra le spirali di roccia. Tutte le mattine partiva con lo schooner e la sua figura dai capelli opalescenti e lo sguardo melanconico scrutava il mare deserto.
I pomeriggi, invece, li passava da sola nello studio, lavorando ai suoi quadri. Non fece il minimo sforzo per mostrarmi una qualunque delle sue opere, ma la sera, quando cenavamo tutti e quattro insieme, mi fissava da sopra il suo bicchiere di liquore come se vedesse già
il mio profilo in uno dei suoi dipinti.
«Posso farti un ritratto, Robert?» mi chiese una mattina. «Ti vedo nelle vesti del Vecchio Marinaio, con una razza bianca intorno al collo.»
Mi coprii le bende sui piedi con una vestaglia di lamé dorato - lasciata, immaginai, da uno dei suoi amanti. «Hope, ti stai costruendo un mito su di me. Mi dispiace di aver ucciso una delle tue razze, ma credimi, l'ho fatto
senza riflettere.»
«Lo stesso vale per il Marinaio.» Mi girò intorno, tenendo una mano sul fianco e toccandomi con l'altra le labbra e il mento, come se li confrontasse mentalmente con i lineamenti di una statua classica. «Ti farò un ritratto mentre leggi Maldoror.»
La sera prima mi ero esibito in una veemente difesa dei surrealisti per farmi bello agli occhi di Hope, ignorando deliberatamente lo sguardo annoiato di Foyle. Hope mi aveva ascoltato rapita, come se non fosse certa della mia vera identità.
Mentre guardavo la superficie bianca della tela che si era fatta portare dal suo studio, mi chiesi quale immagine di me sarebbe emersa da quei
pigmenti neutri. Come tutti i dipinti che venivano prodotti a Vermilion
Sands in quel periodo, il quadro non avrebbe richiesto l'intervento della mano dell'artista. Una volta che i pigmenti fossero stati selezionati, il colore fotosensibile avrebbe prodotto l'immagine di qualunque natura morta o paesaggio si fosse trovato davanti. Benché si trattasse di un processo lento, che richiedeva un'esposizione di almeno quattro o cinque giorni, aveva l'immenso vantaggio di non richiedere necessariamente la presenza continua del soggetto. Ai pigmenti fotosensibili sarebbero bastate poche ore al giorno per organizzarsi creando una somiglianza.
Era proprio quella discontinuità a fornire ai dipinti tutta la loro bellezza
e magia. Invece di tradursi in una mera replica fotografica, i movimenti del soggetto in posa producevano una serie di proiezioni multiple, che
potevano organizzarsi nelle forme analitiche del cubismo o, meno radicalmente, in piacevoli sfumature impressionistiche. Comunque, quelle
impercettibili variazioni del volto e della forma del soggetto mostravano spesso una sconcertante capacità di cogliere diversi lati della sua personalità. La continua mobilità dei lineamenti o la separazione delle tonalità poteva rivelare aspetti significativi nella composizione del volto o
dell'incarnato, o generare strani vortici negli occhi del modello, molto simili alle spirali epilettiche degli ultimi, folli paesaggi di Van Gogh.
Questi effetti infelici erano facilmente rafforzati da qualunque movimento nervoso o spazientito durante la posa.
La concreta possibilità che il mio ritratto rivelasse la natura dei miei sentimenti per Hope ben più di quanto sarei mai stato disposto a fare
volontariamente mi divenne chiara quando la tela fu portata in biblioteca.
Ero seduto sul sofà, rigido, aspettando di poter vedere il dipinto, quando apparve il fratellastro di Hope, con una seconda tela tra le mani tese.
«Mia cara sorellina, ti sei sempre rifiutata di posare per me.» Hope accennò a protestare, ma Foyle la mise a tacere con un gesto della mano. «Si rende conto, Melville? Non ha mai posato per un ritratto in tutta la sua vita! Perché, Hope? Non dirmi che hai paura della tela! Concedici finalmente di vederti nel tuo vero aspetto.»
«Aspetto?» Hope gli rivolse uno sguardo bellicoso. «A che gioco stai giocando, Foyle? Quella tela non è uno specchio magico.»
«Certo che no, Hope.» Foyle le sorrise. «Può dire solamente la verità. Non sei d'accordo, Barbara?»
La signorina Quimby, con gli occhi nascosti dietro un paio di occhiali scuri, annuì prontamente. «Assolutamente. Signorina Cunard, sarebbe affascinante vedere il risultato. Sono certa che sarebbe bellissima.»
«Bellissima?» Hope guardò la tela tra i piedi di Foyle. Per la prima volta sembrò che facesse uno sforzo consapevole per assumere il controllo di se stessa e della villa di Lizard Key. Poi, accettando la sfida di Foyle e rifiutando di cedere davanti al suo sorrisetto sarcastico, disse: «D'accordo, Foyle. Poserò per te. Il mio primo ritratto... potresti restare sorpreso da ciò che troverà in me.»
Eravamo ancora ben lungi dall'immaginare quale figura da incubo sarebbe emersa sulla superficie di quello specchio.
Durante i giorni successivi, i nostri ritratti emersero come pallidi fantasmi dai dipinti. Ogni pomeriggio vedevo Hope in biblioteca, dove veniva a posare per il quadro e ad ascoltarmi leggere Maldoror, ma già
allora le interessava solo guardare il mare di sabbia. Una volta, mentre era
via a solcare le dune con le sue razze bianche, mi trascinai zoppicando nel
suo studio. Trovai una dozzina dei suoi quadri montati su cavalletti accanto alle finestre, in modo che affacciassero direttamente sul deserto sotto la villa. Nella loro veste di sentinelle pronte a segnalare la comparsa del
fantomatico marinaio di Hope, rivelavano fino al minimo, monotono dettaglio del paesaggio deserto.
Al confronto, i due ritratti che si stavano sviluppando nella biblioteca erano molto più interessanti. Come sempre, ricapitolavano a ritroso, come
bizzarri embrioni, l'intera filogenesi dell'arte moderna, passando in rassegna tutte le principali scuole del ventesimo secolo. Dopo le prime increspature liquide e i movimenti della loro fase cinetica, si stabilizzavano
nei colori compatti della scuola hard-edge e di lì, quando mille arterie di
colore irrigavano la tela in una brillante replica di Jackson Pollock, i colori
andavano poi a compattarsi nelle forme rudimentali del tardo Picasso, nelle quali Hope appariva come una madonna giunonica con grandi spalle e un volto di pietra, per scomporsi di nuovo in fantasie anatomiche di
taglio surrealista e nei profili multipli del futurismo e del cubismo. Da
ultimo emergeva un periodo impressionistico destinato a durare qualche ora, un mare rosato di pulviscolo nel quale sembravamo una tranquilla coppia in uno dei giardini suburbani di Monet e Renoir.
Seguendo quell'evoluzione a ritroso, speravo di approdare a qualcosa nello stile di Gainsborough o di Reynolds, un ritratto a figura piena di Hope con un vestito scarlatto a fiori sotto un cielo azzurro, come una pallida bellezza inglese nel giardino della sua villa.
Invece, piombammo nella terra di nessuno di Balthus e di Gustave Moreau.
Mentre emergevano i lineamenti bizzarri della mia figura, rimasi sorpreso nello scorgere elementi altrettanto stravaganti nel ritratto di Hope.
A un primo esame il quadro aveva prodotto una versione fedele anche se stilizzata di me seduto sul sofà, ma attraverso una serie di sottolineature nel disegno la scena era totalmente trasformata. La tenda viola dietro il divano sembrava un'immensa vela di velluto, crollata sul ponte di una nave in bonaccia, mentre il poggiatesta, prendendo una forma a spirale, aveva assunto le fattezze di una prua intagliata. Cosa ancor più sorprendente, i cuscini bianchi che usavo come appoggio sembravano le penne di un grande uccello marino, attaccate alle mie spalle come un'àncora caduta dal cielo. Quel processo d'identificazione era completato dall'espressione del mio volto, piena di pathos e di amarezza.
«Ecco di nuovo il Vecchio Marinaio» disse Hope, girando intorno alla tela e soppesando tra le mani il mio Maldoror. «Sembra proprio che il fato abbia deciso il tuo ruolo, Robert. Del resto, è lo stesso che ho sempre pensato per te.»
«Più ancora dell'Olandese Volante, Hope?»
Si girò di scatto, con una contrazione nervosa all'angolo della bocca. «Perché l'hai detto?»
«Hope, chi stai cercando? Può darsi che lo abbia incontrato.»
Si allontanò da me, fermandosi accanto alla finestra. Sul lato opposto
della terrazza Foyle era impegnato in un gioco violento con le razze, che
abbatteva con un pugno per poi scagliarle giù verso le spirali di roccia. I lunghi pungiglioni si protendevano inutilmente verso la sua faccia segnata dalla varicella.
«Hope...» la raggiunsi. «Forse è ora che io vada. Non ha senso che resti qui. Hanno riparato lo yacht.» Indicai lo scafo ormeggiato nella cala e i suoi pneumatici nuovi. «Inoltre...»
«No! Robert, non hai ancora finito di leggermi Maldoror.» Hope mi guardò con i suoi grandi occhi, procedendo a un esame minuzioso del mio volto come se si attendesse la materializzazione di un elemento ancora assente del mio carattere.
Lessi ancora per un'ora, al solo scopo di calmarla. Per qualche motivo continuava a scrutare il dipinto che mi rappresentava nelle vesti del
Marinaio, come se quell'immagine nascondesse un altro navigatore del
mare di sabbia.
Quando se ne fu andata per riprendere la caccia tra le dune con il suo schooner, tornai a controllare il suo ritratto. Fu allora che scoprii che un altro intruso era apparso in quella casa degli inganni.
Il ritratto mostrava Hope in una posa convenzionale, seduta come un'ereditiera su una poltrona di broccato. Lo sguardo dello spettatore veniva attratto dai suoi capelli opalescenti sparsi come una morbida arpa sulle sue spalle, e dalle sue labbra pronunciate, lievemente incurvate agli angoli in un'espressione meditativa. Ma né Hope né io avevamo notato la presenza di una seconda figura. Nella terrazza sullo sfondo, alle spalle di Hope, si stagliava un uomo con una giubba bianca e la testa lievemente piegata a mostrare l'ossatura della fronte. Il profilo acquoso della sua figura - le mani inerti lungo i fianchi erano appena accennate - gli conferiva l'aspetto di un uomo che sia appena emerso dalle profondità del mare, coperto di filamenti e di alghe secche.
Stupefatto dal materializzarsi di quello spettro sullo sfondo del quadro, aspettai il mattino dopo per vedere se fosse un'aberrazione provocata dalla luce o dai pigmenti. Ma la figura era ancora lì, con una presenza fors'anche più solida, e i suoi tratti ossuti emergevano più chiaramente dall'impasto. Il suo sguardo pieno di solitudine invadeva la stanza. Leggendo ad alta voce per Hope dopo pranzo, aspettai che commentasse quella strana presenza.
Qualcuno, chiaramente non il suo fratellastro, trascorreva almeno mezz'ora al giorno davanti alla tela per imprimere la sua immagine sulla superficie dipinta.
Mentre Hope si alzava e si apprestava a lasciare la stanza, la sua attenzione fu richiamata dal volto pensoso dell'uomo e dal suo sguardo fisso. «Robert, sei una specie di mago! Vieni fuori anche lì!»
Ma sapevo bene che quell'uomo non ero io. La giubba bianca, la fronte
ossuta e il taglio duro della bocca indicavano chiaramente che si trattava di un soggetto diverso. Quando Hope se ne fu andata a passeggiare sulla spiaggia salii nel suo studio ed esaminai le tele che montavano di guardia sul paesaggio.
Nei due quadri orientati a sud di fronte alle scogliere, scoprii l'albero maestro di una nave seminascosta tra le secche.
Ogni mattina la figura emergeva più chiaramente e il suo sguardo vigile sembrava avvicinarsi. Una sera, prima di andare a letto, chiusi le finestre che affacciavano sulla terrazza e tirai la tenda davanti al quadro. A
mezzanotte sentii qualcosa muoversi lungo la terrazza e trovai le finestre della biblioteca che oscillavano al vento e la tenda di nuovo aperta, a rivelare il ritratto di Hope. Nel dipinto il volto forte ma melanconico
dell'uomo mi restituiva lo sguardo con un'intensità quasi spettrale. Corsi sulla terrazza. Attraverso il pulviscolo la figura sfocata di un uomo procedeva a passo spedito lungo la spiaggia. Le razze bianche volteggiavano nell'aria buia sopra la sua testa.
Cinque minuti dopo la figura canuta di Foyle emerse dalle tenebre. Mentre mi passava accanto, le sue labbra carnose si aprirono in un ghigno divertito. Sul suo pigiama nero di seta non c'era traccia di sabbia.
Poco prima dell'alba tornai in biblioteca, ricambiando lo sguardo del visitatore fantasma che veniva tutte le notti a vegliare sul ritratto di Hope. Tirai fuori il mio fazzoletto e cancellai il suo volto dalla tela, restando poi per due ore con la faccia vicinissima al dipinto. I pigmenti si riorganizzarono riproducendo rapidamente i miei lineamenti e allineandosi in una convezione di tonalità. Mi apparve davanti un travestimento in piena regola: un uomo con una giubba bianca da marinaio, le spalle larghe e la fronte alta, il fisico di un intelligente uomo d'azione cui erano stati incollati il mio viso pieno e i miei baffi folti.
La pittura si compattò proprio mentre le prime luci della finta alba toccavano la terrazza spazzata dalla sabbia.
«Charles!»
Hope Cunard entrò dalla finestra aperta, con la veste bianca tremante come una ghirlanda intorno al corpo nudo. Mi si fermò accanto, guardando la mia immagine nel ritratto.
«Allora eri davvero tu, Robert. Charles Rademaeker è tornato nelle tue vesti... Il mare di sabbia ci porta strani sogni.»
Cinque minuti dopo, mentre camminavamo a braccetto lungo il corridoio, diretti alla sua camera da letto, entrammo in una stanza vuota. Hope prese una giubba bianca da un armadio. Le cuciture erano lise e sporche di sabbia. Sulla pettorina, un'impronta di sangue secco circondava il buco di una pallottola.
La indossai come se fossi un bersaglio.
L'immagine di Charles Rademaeker rimase negli occhi di Hope mentre si sedeva sul letto come una sonnambula stanca e mi guardava chiudere le finestre della sua stanza.
Durante i giorni che seguirono, mentre veleggiavamo insieme sul mare di sabbia, mi raccontò qualcosa sulla sua relazione con Charles Rademaeker, l'olandese schivo e colto che vagava per il deserto con il suo yacht, catalogando la rara fauna che popolava le dune. Due anni prima era
emerso dal crepuscolo con un pennone danneggiato e aveva gettato l'ancora a Lizard Key. Sceso a riva per un cocktail, era rimasto per parecchie settimane, impegnato in un bizzarro idillio amoroso con la timida e bella pittrice, che si era concluso in modo violento. Hope non aveva mai spiegato chiaramente cosa fosse successo. A volte, indossando
la giubba macchiata di sangue con il buco di pallottola, sospettavo che
fosse stata lei a sparargli, magari posando per un ritratto. Forse a una delle
tele era accaduto qualcosa di strano e Rademaeker vi aveva colto alcuni degli elementi del carattere di Hope di cui aveva sospettato l'esistenza ma
che non erano mai stati resi espliciti. Dal giorno di quel picco tragico del
loro rapporto, in cui Rademaeker era stato ucciso o era fuggito, Hope
perlustrava il mare di sabbia per l'intera estate con il suo schooner bianco,
cercandolo.
Ora Rademaeker era tornato - dal deserto o forse dal regno dei morti -,
rimodellato dalla sabbia con i miei lineamenti. Ma Hope credeva davvero
che fossi la reincarnazione del suo amante? A volte la notte, mentre
giaceva accanto a me nella cabina e i riflessi delle vene di quarzo le
danzavano sui seni come collane, mi parlava come se fosse pienamente
consapevole della mia vera identità. Poi, dopo aver fatto l'amore, mi
impediva deliberatamente di dormire, come se lo considerasse un
inaccettabile tentativo di lasciarla sola, e mi chiamava Rademaeker: il suo
volto adombrato era quello di una donna nevrotica che stava andando in
pezzi. In quei momenti riuscivo a capire perché Foyle e Barbara Quimby si
fossero ritirati nel loro mondo privato.
Ripensandoci adesso, credo di aver fornito a Hope una distrazione dalla
sua ossessione per Rademaeker e una possibilità di rivivere la sua illusione
sotto forma di quella strana pantomima di emozioni. Nel frattempo,
Rademaeker in persona ci aspettava in un punto segreto e non lontano del
deserto.
Una sera portai Hope sul mare di sabbia avvolto dalle tenebre. Dissi all'equipaggio di accendere le luci sulle velature e le lampadine che decoravano il tendone sul ponte. Conducendo quella nave luminosa sulla sabbia nera, restai accanto a Hope sul parapetto a poppa, cingendole la vita con un braccio. In piedi, presa dal sonno, appoggiò la testa sulla mia spalla. I suoi capelli opalescenti fluttuavano sulla scia scura della nave come lo scheletro di un uccello primitivo. Un'ora dopo, raggiungendo Lizard Key, vidi uno schooner bianco che toglieva l'àncora in un punto tra le scogliere di sabbia e ripartiva verso il mare aperto.
Ormai c'era solo il fratellastro di Hope che potesse rammentarmi quanto fosse precario il mio controllo su di lei come sull'isola. Foyle mi aveva
sempre evitato, dedicandosi ai suoi giochi privati tra le spirali di roccia
sotto la terrazza. Di tanto in tanto, quando ci vedeva camminare a
braccetto, ci fissava dalla sdraio con uno sguardo divertito quanto
bellicoso.
Una mattina, subito dopo che ebbi suggerito a Hope di rispedire il
fratellastro e la signorina Quimby alla sua casa di Red Beach, Foyle
irruppe in biblioteca, e notai subito l'ostentata disinvoltura del suo
atteggiamento. Tenendo una mano premuta sulla bocca carnosa, rivolse
con l'altra un gesto scettico verso i ritratti mio e di Hope. «Prima il Vecchio
Marinaio, ora l'Olandese Volante - per essere un marinaio da quattro soldi
ha recitato in un bel po' di ruoli, Melville. Trenta giorni in mare aperto, o
meglio, in divano aperto, eh? Quale sarà il prossimo ruolo? Giona o il
capitano Ahab?»
Barbara Quimby sbucò alle sue spalle e insieme a Foyle, che aveva piegato leggermente la sua brutta testa di fauno, mi guardarono ridacchiando.
«Perché non Prospero?» replicai. «Quest'isola è piena di visioni. E lei, Foyle, potrebbe fare la parte di Calibano.»
Annuendo tra sé, Foyle si avvicinò ai quadri. Una mano rozza vi aveva inserito una serie di immagini oscene. Barbara Quimby cominciò a ridere. Se ne andarono insieme, abbracciati. Le loro voci ridacchianti si fusero con le strida delle razze di sabbia che volteggiavano sulle spirali di roccia, nell'aria rosso sangue.
Poco dopo cominciarono a verificarsi i primi strani cambiamenti nei nostri ritratti. Quella sera, mentre sedevamo insieme in biblioteca, notai un'alterazione lieve ma palese nel volto di Hope sulla tela: la pelle, in particolare, si era coperta di escrescenze, e anche i suoi capelli avevano assunto delle sfumature gialle.
Questa trasformazione si fece ancor più pronunciata il giorno dopo. Gli
occhi nel quadro avevano sviluppato una forma di strabismo, come se la tela avesse cominciato a cogliere una sorta di sbilanciamento nello sguardo di Hope. Mi voltai a controllare il mio ritratto. Anche lì si stavano
verificando dei cambiamenti palesi. Il mio viso aveva iniziato ad allungarsi in una sorta di grugno. La carne spessa si accumulava intorno alle labbra e alle narici, e gli occhi diventavano più piccoli, sommersi dai rotoli di grasso. Perfino i miei vestiti avevano subìto una modifica, e gli scacchi bianchi e neri della mia camicia di seta ricordavano ora la divisa di un bizzarro arlecchino.
La mattina dopo, questa orribile metamorfosi era così evidente che perfino Hope avrebbe potuto notarla. Le figure che mi guardavano mentre ero in piedi, immobile nella luce dell'alba, sembravano uscite da un saturnale mostruoso. I capelli di Hope erano diventati di un giallo brillante, e i riccioli incorniciavano un volto che somigliava a un teschio impomatato. Quanto a me, il mio grugno da maiale somigliava a un volto da incubo in un paesaggio tenebroso di Hieronymus Bosch.
Tirai la tenda per coprire i quadri ed esaminai la mia bocca e i miei occhi allo specchio. Quella ridicola mascherata corrispondeva davvero al modo in cui apparivamo Hope e io? Decisi che i pigmenti dovevano essere fallati
- Hope rinnovava di rado le sue scorte - e per questo producevano quelle immagini distorte. Dopo colazione ci vestimmo con i nostri abiti da vela e scendemmo verso la baia. Non dissi nulla a Hope. Per tutto il giorno navigammo nelle vicinanze dell'isola, e non tornammo fino a sera.
Poco dopo mezzanotte, mentre giacevo accanto a Hope nella sua stanza da letto sotto lo studio, venni svegliato dalle razze bianche che schiamazzavano nell'oscurità fuori dalle finestre. Giravano in cerchio, come luci agitate. Nello studio, facendo attenzione a non svegliare Hope, controllai le tele accanto alle finestre. Su una di esse trovai l'immagine dipinta di fresco di una nave bianca con le vele nascoste in una caletta a meno di un chilometro dall'isola.
Quindi Rademaeker era tornato, e la sua presenza aveva in qualche modo deturpato i pigmenti nei nostri ritratti. Convinto da quella folle
logica, presi a pugni la tela, cancellando l'immagine della nave. Le mie
mani e le braccia erano coperte di pittura ancora umida quando rientrai in
camera. Hope dormiva sui cuscini incrociati, le mani a proteggersi i seni.
Presi la pistola automatica che teneva sul comodino. Dalla finestra, il triangolo bianco della vela di Rademaeker si alzò nell'aria notturna mentre levava l'àncora.
A metà della scala, potei vedere l'interno della biblioteca. Sul pavimento
erano state accese delle lampade ad arco, che immergevano le tele nella
loro luce forte, accelerando il movimento dei pigmenti. Di fronte ai dipinti,
ghignando in una posa oscena, c'erano due creature uscite direttamente da
un incubo. La più alta indossava una veste nera che sembrava la tonaca di
un prete, e aveva la maschera di cartapesta di un maiale sulla testa.
Accanto a lui c'era una donna con una parrucca bionda, il viso incipriato, e
le labbra e gli occhi lucidi. Insieme, si pavoneggiavano davanti ai quadri.
Aprendo la porta con un piede ebbi una visione completa di quelle figure
da incubo. Sui quadri la carne si contorceva come cera surriscaldata, e le
immagini mia e di Hope assumevano quella stessa posa oscena. La donna
con la parrucca gialla si sottrasse alla luce delle lampade ad arco e uscì
sulla terrazza. Mentre passavo sopra i fili delle prese, sentii per un istante
le spalle di un uomo avvolto in un mantello, proprio dietro di me.
Qualcosa mi colpì sotto un orecchio. Caddi in ginocchio, e la veste nera mi
scavalcò, diretta alla finestra.
«Rademaeker!» Portandomi una mano sporca di pittura alla nuca,
inciampai sulla statuetta di peltro che mi aveva colpito e corsi fuori sulla
terrazza. Le razze agitate frustavano l'oscurità come tracce luminose di
saliva. Sotto di me, due figure correvano tra le spirali di roccia, dirette alla
spiaggia.
Quando la raggiunsi a mia volta, quasi esausto, camminai impacciato
sulla sabbia scura, con gli occhi che mi bruciavano per l'effetto della
pittura sulle mie mani. A cinquanta metri da riva le vele bianche di un
immenso schooner da sabbia con la prua puntata su di me si ergevano
nell'aria notturna.
Sulla sabbia, ai miei piedi, vidi una parrucca bionda, il grugno di plastica di un maiale e la tonaca stracciata. Cercando di raccoglierli, caddi sulle ginocchia. «Rademaeker...!»
Un piede mi colpì sulla spalla. Un uomo snello e dritto come un fuso con un berretto da marinaio mi guardava con occhi irritati. Benché fosse più basso di quanto avessi immaginato, riconobbi immediatamente il suo volto malinconico.
Mi aiutò ad alzarmi, tirandomi su con forza. Indicò la maschera, il costume e le mie braccia sporche di pittura.
«Allora, cos'è quest'assurdità? A che razza di gioco state giocando?»
«Rademaeker...» Feci cadere la parrucca gialla sulla sabbia. «Credevo che fosse...»
«Dov'è Hope?» chiese, sollevando il volto quadrato per studiare la villa. «Quelle razze... è qui? Cos'è questa, una messa nera?»
«Qualcosa di molto simile.» Scrutai la spiaggia deserta, inondata dalla
luce riflessa dalle bianche vele dello schooner. A quel punto capii chi
avevo visto in posa davanti alla tela. «Foyle e la ragazza! Rademaeker,
erano lì...». Ma lui si era già lanciato sul sentiero, fermandosi solo per gridare
qualcosa ai due membri dell'equipaggio che assistevano alla scena dal
parapetto dello yacht. Gli corsi dietro, usando la parrucca per togliermi la
pittura dalla faccia. Rademaeker sfrecciò via dal sentiero per tagliare verso
la terrazza. La sua figura compatta si muoveva veloce tra le spirali di
roccia, scivolando in mezzo alle statue sonore che si innalzavano sulla
sabbia fusa.
Quando raggiunsi la terrazza, Rademaeker era già in piedi nell'ombra
accanto alle finestre della biblioteca e guardava la stanza inondata di luce.
Si tolse il berretto con un gesto misurato, come un pastorello nell'atto di
corteggiare la sua innamorata. I suoi capelli lisci, schiacciati dall'orlo del
berretto, gli davano un'aria sorprendentemente giovanile, diversa dal rude
vagabondo del deserto che avevo immaginato. Mentre se ne stava lì
immobile a guardare Hope, la cui figura dalla veste bianca era riflessa nei
vetri della finestra aperta, potei vederlo nella stessa posizione che aveva
assunto durante le sue visite segrete all'isola, trascorse contemplando per
ore il ritratto di lei.
«Hope... lascia che io...»
Rademaeker gettò a terra il berretto e scattò in avanti. Vi fu un'esplosione, e il suo impatto ruppe uno dei vetri della porta finestra. Il suono rimbalzò tra le spirali di roccia spaventando le razze, che si levarono in volo. Tirai indietro le tende di velluto ed entrai nella stanza.
Le mani di Rademaeker erano appoggiate sul divano di broccato. Si muoveva con cautela, cercando di raggiungere Hope prima che lei si accorgesse della sua presenza. Voltata di spalle, era in piedi accanto al quadro, con la pistola in mano.
Sovraeccitati dalla luce violenta delle lampade ad arco, i pigmenti sulla superficie della tela avevano quasi raggiunto l'ebollizione. I colori lividi correvano sul volto coperto di pus di Hope come se la carne stesse andando in putrefazione. Accanto a lei, il sacerdote con la faccia da maiale che corrispondeva alla mia immagine montava la guardia come il procuratore dell'inferno.
Hope si voltò verso di noi, gli occhi freddi come ghiaccio. Guardò la parrucca bionda nelle mie mani e la pittura sparsa sul mio braccio. Il suo sguardo era vuoto. L'espressione l'aveva abbandonato come se fosse stata trascinata via da una valanga.
Il primo sparo aveva centrato il suo ritratto. La pittura cominciava già a
colare attraverso il foro della pallottola. Come un vampiro in via di dissoluzione, lo spettro dai capelli gialli con i lineamenti di Hope cominciò a ondeggiare in una spirale verso il basso.
«Hope...» Rademaeker fece un passo in avanti. Prima che potesse afferrarle un polso, lei si voltò e gli sparò. Il colpo mandò in frantumi il vetro della finestra alle mie spalle. I frammenti si sparsero nel buio come particelle lunari.
La pallottola successiva colpì il polso sinistro di Rademaeker, che cadde
in ginocchio stringendosi la ferita insanguinata. Confusa dalle esplosioni, che le avevano quasi fatto cadere l'arma, Hope strinse la pistola con entrambe le mani, puntandola contro la vecchia macchia di sangue sulla
mia giubba. Prima che potesse sparare, colpii con un calcio una delle
lampade, facendogliela cadere tra i piedi. La stanza girava come un
palcoscenico sul punto di crollare. Afferrai Rademaeker per una spalla e lo spinsi sulla terrazza.
Scendemmo di corsa verso la spiaggia. A metà del sentiero Rademaeker si fermò, quasi fosse tentato di tornare indietro. Hope si stagliava sulla terrazza e stava sparando alle razze che stridevano nell'oscurità sopra le nostre teste. Lo schooner bianco stava già levando l'àncora e le sue vele si sollevavano nell'aria notturna.
Rademaeker mi fece un cenno d'invito con il polso insanguinato. «Salga sulla nave. È sola ormai... per sempre.»
Ci acquattammo sotto il timone dello schooner, ascoltando le sculture sonore che gemevano nell'aria perturbata, mentre gli ultimi spari risuonavano nel deserto.
All'alba Rademaeker mi depositò a meno di un chilometro dalla spiaggia di Ciraquito. Aveva trascorso la notte al timone, con il polso bendato e legato al petto, guidando lo schooner con una mano sola. Nell'aria fredda della notte tentai di spiegargli perché Hope gli avesse sparato, in un ultimo tentativo di rompere il velo delle illusioni che si moltiplicavano intorno a lei e di raggiungere una qualche forma di realtà.
«Rademaeker... io la conoscevo bene. Non stava sparando a lei, ma a una sua versione fittizia, all'immagine del ritratto. Dannazione, era ossessionata da lei.»
Ma sembrava che avesse perso qualsiasi interesse, e la sua bocca sottile
dalle labbra imbronciate non si aprì alla minima risposta. In un certo senso,
mi aveva deluso. Chiunque fosse riuscito finalmente a portare via Hope da
Lizard Key avrebbe prima dovuto accettare le illusioni onnipresenti che erano il tessuto stesso di quella misteriosa isola. Rifiutandosi di ammettere la realtà delle fantasie di Hope, Rademaeker l'aveva distrutta.
Quando mi lasciò tra le dune, non lontano dalle case sulla spiaggia, mi rivolse un brusco saluto e girò il timone: la sua figura eretta sparì ben presto dietro la cresta delle onde.
Tre settimane dopo affittai uno yacht da uno dei pescatori di razze locali e tornai all'isola per recuperare il mio scafo. Lo schooner di Hope era all'ancora e lei venne di persona, in tutta la sua bellezza pallida e spigolosa, a salutarmi dalla terrazza.
I dipinti erano spariti insieme al ricordo di quella notte violenta. Gli occhi di Hope mi fissavano, tranquilli. Solo le sue mani dalle lunghe dita si muovevano come se godessero di vita propria.
In fondo alla terrazza il suo fratellastro riposava tra le sdraio, con il berretto di Rademaeker calato sugli occhi. Barbara Quimby gli sedeva accanto. Mi chiesi se spiegare a Hope il gioco astuto e macabro in cui si erano esibiti con lei, ma dopo qualche minuto lei si allontanò. Il sorriso affettato di Foyle era l'ultimo residuo di quel mondo. Privo di malizia, accettava la realtà della sorellastra e la faceva propria.
Comunque, Hope Cunard non ha dimenticato completamente Charles
Rademaeker. A volte la vedo a mezzanotte che solca il mare di sabbia, in
cerca di una nave bianca dalle bianche vele. La notte scorsa, seguendo uno
strano impulso, ho indossato la giubba macchiata di sangue che un tempo
era appartenuta a Rademaeker e ho navigato fino ai confini del mare di
sabbia. Ho atteso accanto a un grande scoglio dal quale sapevo che sarebbe
passata. Mentre si avvicinava silenziosa, stagliandosi contro la luce
morente del sole, mi sono affacciato dal parapetto, lasciando che vedesse
la giubba. Ancora una volta, la indossavo come fossi un bersaglio.
Ci sono però altri che solcano questo mare misterioso. Hope è passata a
cinquanta metri e non ha neppure notato la mia presenza, ma mezz'ora
dopo è apparso un secondo yacht, un agile ketch guidato da un uomo alto
dalla bocca carnosa che portava una parrucca gialla. Accanto a lui, una
donna dai capelli scuri sorrideva al vento. Mentre passava, Foyle mi ha
salutato sventolando la mano, e un risolino ironico ha percorso la sabbia
morta raggiungendo me e la mia giubba-bersaglio. Mascherati da prete
folle o arpia, sirena o strega delle dune, percorrono il mare di sabbia
secondo le proprie regole. La sera, quando mi passano vicino, posso
sentirli ridere.