domenica 27 febbraio 2022

L'UOMO DEL RITRATTO
(Cry Hope, Cry Fury!, Fantasy and Science Fiction, 1967)

Estratto da: James G. Ballard
Tutti i racconti
Vol. II (1963-1968)
(The Complete Short Stories (vol. II, 1963-1968), 2001)



L'UOMO DEL RITRATTO
La notte scorsa, mentre l'aria del crepuscolo attraversava il deserto di Vermilion Sands, ho visto di nuovo un tremolio di sartiame tra le scogliere e un albero maestro che si spostava tra le spirali di roccia come una lanterna argentata. Affacciato dalla terrazza della mia casa di villeggiatura, ne ho seguito il movimento verso il mare di sabbia aperto e ho visto le vele spettrali di questa nave fantasma. Non c'era stata una sera in cui non avessi visto  lo  stesso  yacht,  quella  goletta  notturna  che  abbandonava  il  suo ormeggio segreto e rollava sul mare dipinto. La scorsa notte è apparso un secondo  yacht,  partito  all'inseguimento  dal  suo  nascondiglio  fra  le scogliere, con una donna dai capelli chiari e gli occhi di una Medea triste al timone. Mentre i due yacht volavano attraverso il mare di sabbia ho
ricordato il mio primo incontro con Hope Cunard, e la sua strana       relazione 
con l'olandese, Charles Rademaker...

Tutte le estati, non appena Vermilion Sands si riempiva di turisti e di compagnie  cinematografiche d'avanguardia,  chiudevo  il  mio  ufficio  e prendevo  in  affitto  una  delle  case  di  villeggiatura  che  si  affacciano  sul mare di sabbia, a cinque miglia da Ciraquito.  Lì, durante i lunghi tramonti,
il cielo e il deserto si caricavano di colori, proiettando sulle velature degli yacht da sabbia ombre a forma di geroglifico, che imprimevano sui natanti tutti gli enigmi di quel mare misterioso. Durante il giorno prendevo il mio yacht, uno sloop armato alle Bermuda, e navigavo verso le dune al centro del  deserto.  Le  violente  onde  termiche  mi  trascinavano  su  una  scia  di
sabbia dorata.
Andando  a  caccia  di  razze,  a  volte  mi  ritrovavo  a  vagare  per  miglia lungo  il  deserto  e  perdevo  di  vista  le  scogliere  che  presiedevano  come divinità   erose   alle   gerarchie   di   sabbia   e   vento.   Mi   lanciavo all'inseguimento  di  un  banco  di  razze  in  fuga,  scagliando  i  miei  dardi
nell'aria  surriscaldata  e  perdendomi  in  un  paesaggio  astratto  composto dalle razze in volo, le dune ondulate e i triangoli delle vele. E fu da questi materiali, dalla nuda geometria dello spazio e del tempo, che emersero le bizzarre figure di Hope Cunard e del suo seguito, come illusioni nate da quel mare di sogni.
Una mattina partii presto per dare la caccia a un gruppo di razze bianche che avevo visto il giorno prima in un punto lontano del deserto. Per ore
procedetti sulla sabbia solida, evitando le altre imbarcazioni, concentrato solo  sull'orizzonte.  A mezzogiorno  avevo  perso  qualunque  punto  di riferimento ma avevo trovato le razze e le inseguivo tra le dune. Le venti
razze  mi  precedevano,  quasi  volessero  guidarmi  verso  una  destinazione ignota.
Le dune cedettero il passo a una serie di pianori chiusi e attraversati da vene di quarzo. Evitando un ampio crepaccio la cui imboccatura decorata
si spalancava come la porta di una cattedrale semisommersa, sentii che lo yacht si inclinava su un fianco per una foratura della gomma di tribordo.
Mentre abbassavo la vela, l'aria intorno a me sembrò tingersi d'oro.
Presi a calci la gomma ormai sgonfia e controllai il paesaggio nel quale mi  trovavo  -  scogliere  di  sabbia  sommerse,  un  oceano  di  dune,  e  lo scheletro di uno yacht abbandonato a meno di un chilometro di distanza, proprio di fronte all'imbocco di una vena di quarzo che splendeva come le fauci di un coccodrillo gemmato. Ero a trenta chilometri dalla costa e le mie  uniche  scorte  erano  rappresentate  da  una  bottiglia  quasi  vuota  di Martini nell'armadietto della cambusa.
Le razze, guidate da un misterioso riflesso, si erano fermate a loro volta sulla cresta di una duna. Mi armai del fucile da subacqueo e mi diressi verso il relitto nella speranza di trovarvi una pompa.
La sabbia sembrava polvere di vetro. Dopo seicento metri, accortomi che le suole delle scarpe erano completamente tagliuzzate e aperte, decisi di tornare indietro. Piuttosto che ridurmi allo stremo delle forze, preferii riposarmi all'ombra delle vele, per tornare a Ciraquito quando avesse fatto buio. I miei piedi lasciavano orme insanguinate sulla sabbia.
Ero  appoggiato  all'albero  maestro,  con  i  piedi  feriti  a  mollo  nel secchiello  del  ghiaccio,  quando  una  grossa  razza  bianca  spiccò  il  volo
sopra la mia testa. Si era staccata dalle altre, che restavano immobili sulla
cresta della duna, ed era venuta a controllarmi. Con le sue ali larghe quasi tre metri e il corpo grande come quello di un uomo continuò a volarmi
intorno in cerchi monotoni mentre sorseggiavo il resto del Martini, ormai caldo. Nonostante la sua curiosità, la razza non dava alcun segno di
volermi attaccare. Dieci minuti dopo, vedendo che continuava a volare in cerchio, presi il fucile  da  subacqueo  e  le  sparai,  perforandole  l'occhio  sinistro.  Trafitta dall'arpione d'acciaio precipitò sulla vela, strappandola via dall'albero  per poi  atterrare  sul  ponte.  La sua  ala  mi  colpì  alla  testa  come  un  fulmine
caduto dal cielo.

Rimasi per ore immobile in quel mare di sabbia deserto, sotto un sole bruciante, con la razza morta come unica compagnia. Il tempo sembrava sorpreso su un immutabile mezzogiorno, il cielo pieno di soli ingannevoli, ma doveva essere il primo pomeriggio quando sentii un'ombra immensa che calava sullo yacht. Mi sollevai sopra il cadavere della razza per vedere un  enorme  schooner  da  sabbia,  il  cui  bompresso  d'argento  era  grande
quanto tutto il mio yacht, che avanzava sulle sue ruote bianche. Gli uomini dell'equipaggio, con i volti nascosti dagli occhiali da sole, mi guardavano dal ponte.
In  piedi,  con  una  mano  sul  corrimano  del  cabinato  e  con  gli  oblò cerchiati d'ottone che formavano altrettanti aloni ai suoi piedi, c'era una
donna  alta,  stretta  di  fianchi,  i  capelli  di  un  biondo  così  chiaro  che  mi
ricordò  immediatamente  la  Morte-in-Vita  del  Vecchio  Marinaio.  I  suoi occhi mi scrutavano come magnolie scure. Mossi dal vento, i suoi capelli, come l'argento antico, formavano una pianeta sacerdotale nell'aria.
Sospettando  che  quello  strano  veliero  e  il  suo  equipaggio  potessero essere solo un'apparizione, alzai la bottiglia vuota di Martini, mostrandola alla  donna.  Lei  mi  guardò  dall'alto  in  basso  con  gli  occhi  colmi  di
disappunto. Due membri dell'equipaggio corsero verso di me. Mentre mi toglievano da sopra le gambe il corpo della razza di sabbia li guardai in faccia.  Benché  rasati  di  fresco  a  abbronzati,  somigliavano  a  delle maschere.
Fu  così  che  venni  soccorso da  Hope Cunard. Riposando  nella  cabina sotto  coperta,  mentre  un  membro  dell'equipaggio  mi  bendava  i  piedi, vedevo  la  sua  figura  pallida  attraverso  il  tetto  trasparente.  Il  suo  viso
preoccupato  scrutava  il  deserto  come  se  cercasse  una  preda  molto  più
importante di me.
Entrò in cabina solo mezz'ora dopo. Si sedette ai miei piedi, toccando le bende  bianche,  incuriosita.  «Robert  Melville...  lei  è  un  poeta?  Quando l'abbiamo trovata stava parlando del Vecchio Marinaio.»
Feci  un  gesto  vago.  «Era  una  battuta  di  spirito.  Su  me  stesso.»  Non potevo certo dire a quella donna distaccata ma bellissima che l'avevo vista come l'incarnazione della strega da incubo di Coleridge, e aggiunsi: «Ho ucciso una razza di sabbia che volava intorno al mio yacht.»
La donna giocava con i ciondoli di giada che formavano pozze di smeraldo nelle pieghe della sua veste bianca. I suoi occhi si stagliavano al centro del volto pensoso come uccelli agitati. Prendendo apparentemente
sul serio il mio riferimento al Marinaio, disse: «Può riposarsi a Lizard Key fino a quando non starà meglio. Mio fratello si occuperà di riparare il suo
yacht. Mi spiace per le razze - l'hanno scambiata per qualcun altro.»
Mentre  lei  restava  seduta,  guardando  fuori  dall'oblò,  il  grande  scafo scorreva silenzioso sulla sabbia e le razze bianche ne seguivano la scia a poco più di un metro da terra. Solo più tardi capii che avevano riportato alla loro padrona la preda sbagliata.
In meno di due ore raggiungemmo Lizard Key, dove sarei rimasto per le
tre settimane che seguirono. Innalzandosi sopra le onde termiche, l'isola sembrava  sospesa  in  aria  e  la  villa  con  la  sua  terrazza  e  il  pontile  era appena visibile nella foschia. Circondate su tre lati dagli alti minareti delle
scogliere,  sia  l'isola  che  la  villa  erano  balzate  fuori  da  una  fantasia minerale del deserto. Spirali di roccia si slanciavano come cipressi lungo il sentiero  che  portava  alla  villa,  e  fra  di  esse  sorgevano  delle  sculture
dall'aspetto selvaggio.
«Quando mio padre l'ha scoperta, l'isola era piena di mostri di gila e di basilischi» spiegò Hope mentre venivo portato a braccia su per il sentiero. «Ora veniamo qui tutte le estati, per dipingere e uscire in barca.»
Giunti alla terrazza, venimmo accolti dagli altri due padroni di questo paradiso privato - il fratellastro di Hope Cunard, Foyle, un giovane con una frangia bianca sulla fronte, una bocca carnosa e guance segnate dalla varicella,  che  mi  guardava  dal  balcone  come  un  pensieroso  Amleto  da spiaggia; e la segretaria di Hope, Barbara Quimby, una sfinge dal volto imperscrutabile, con un bikini nero e uno sguardo annoiato.
Restarono insieme a guardarmi mentre venivo trasportato su per gli scalini  dietro  Hope.  L'espressione  piena  di  aspettativa  sui  loro  volti  si trasformò  in  una  di  cortese  indifferenza  non  appena  venni  presentato.
Prima ancora che Hope potesse finire la descrizione del mio salvataggio si erano  già  spostati  sulle  sdraio  in  fondo  alla  terrazza.  Durante  i  giorni successivi, mentre me ne stavo disteso su un divanetto, ebbi tutto il tempo
di  esaminare  quello  strano  ménage.  Nonostante  la  loro  dipendenza  da Hope, che aveva ereditato la villa da suo padre, il loro sembrava il tipico atteggiamento  dei  cospiratori  di  palazzo,  con  un  ricco  campionario  di scherzi  privati  e  sguardi  segreti.  Hope,  però,  ignorava  completamente quelle gherminelle. Come l'atmosfera stessa della villa, la sua personalità era sfocata e le sue attenzioni erano sempre rivolte altrove.

Chi si aspettavano di vedere arrivare? E Hope Cunard, quale navigatore dei mari di sabbia stava cercando con il suo schooner e la sua flottiglia di razze? All'inizio la vidi di rado, anche se di tanto in tanto saliva sul tetto del suo studiolo e dava da mangiare alle razze, che le venivano incontro dalle  loro  tane  tra  le  spirali  di  roccia.  Tutte  le  mattine  partiva  con  lo schooner e la sua figura dai capelli opalescenti e lo sguardo melanconico scrutava  il  mare  deserto.
I  pomeriggi,  invece,  li  passava  da  sola  nello studio, lavorando ai suoi quadri. Non fece il minimo sforzo per mostrarmi una qualunque delle sue opere, ma la sera, quando cenavamo tutti e quattro insieme, mi fissava da sopra il suo bicchiere di liquore come se vedesse già
il mio profilo in uno dei suoi dipinti.
«Posso farti un ritratto, Robert?» mi chiese una mattina. «Ti vedo nelle vesti del Vecchio Marinaio, con una razza bianca intorno al collo.»
Mi coprii le bende sui piedi con una vestaglia di lamé dorato - lasciata, immaginai, da uno dei suoi amanti. «Hope, ti stai costruendo un mito su di me. Mi dispiace di aver ucciso una delle tue razze, ma credimi, l'ho fatto
senza riflettere.»
«Lo stesso vale per il Marinaio.» Mi girò intorno, tenendo una mano sul fianco e toccandomi con l'altra le labbra e il mento, come se li confrontasse mentalmente con i lineamenti di una statua classica. «Ti farò un ritratto mentre leggi Maldoror.»
La sera prima mi ero esibito in una veemente difesa dei surrealisti per farmi  bello  agli  occhi  di  Hope,  ignorando  deliberatamente  lo  sguardo annoiato di Foyle. Hope mi aveva ascoltato rapita, come se non fosse certa della mia vera identità.
Mentre guardavo la superficie bianca della tela che si era fatta portare dal suo studio, mi chiesi quale immagine di me sarebbe emersa da quei
pigmenti  neutri.  Come  tutti  i  dipinti  che  venivano  prodotti  a  Vermilion
Sands in quel periodo, il quadro non avrebbe richiesto l'intervento della mano  dell'artista.  Una  volta  che  i  pigmenti  fossero  stati  selezionati,  il colore  fotosensibile  avrebbe  prodotto  l'immagine  di  qualunque  natura morta  o  paesaggio  si  fosse  trovato  davanti.  Benché  si  trattasse  di  un processo lento, che richiedeva un'esposizione di almeno quattro o cinque giorni,  aveva  l'immenso  vantaggio  di  non  richiedere necessariamente  la presenza continua del soggetto. Ai pigmenti fotosensibili sarebbero bastate poche ore al giorno per organizzarsi creando una somiglianza.
Era proprio quella discontinuità a fornire ai dipinti tutta la loro bellezza
e magia. Invece di tradursi in una mera replica fotografica, i movimenti del soggetto  in  posa  producevano  una  serie  di  proiezioni  multiple,  che
potevano  organizzarsi  nelle  forme  analitiche  del  cubismo  o,  meno radicalmente, in piacevoli sfumature impressionistiche. Comunque, quelle
impercettibili variazioni del volto e della forma del soggetto mostravano spesso  una  sconcertante  capacità  di  cogliere  diversi  lati  della  sua personalità.  La  continua  mobilità  dei  lineamenti  o  la  separazione  delle tonalità poteva rivelare aspetti significativi nella composizione del volto o
dell'incarnato,  o  generare  strani  vortici  negli  occhi  del  modello,  molto simili alle spirali epilettiche degli ultimi, folli paesaggi di Van Gogh.
Questi  effetti  infelici  erano  facilmente  rafforzati  da  qualunque movimento nervoso o spazientito durante la posa.
La concreta possibilità che il mio ritratto rivelasse la natura dei miei sentimenti  per  Hope  ben  più  di  quanto  sarei  mai  stato  disposto  a  fare
volontariamente mi divenne chiara quando la tela fu portata in biblioteca.
Ero seduto sul sofà, rigido, aspettando di poter vedere il dipinto, quando apparve il fratellastro di Hope, con una seconda tela tra le mani tese.
«Mia  cara  sorellina,  ti  sei  sempre  rifiutata  di  posare  per  me.»  Hope accennò a protestare, ma Foyle la mise a tacere con un gesto della mano. «Si rende conto, Melville? Non ha mai posato per un ritratto in tutta la sua vita!  Perché,  Hope?  Non  dirmi  che  hai  paura  della  tela!  Concedici finalmente di vederti nel tuo vero aspetto.»
«Aspetto?» Hope gli rivolse uno sguardo bellicoso. «A che gioco stai giocando, Foyle? Quella tela non è uno specchio magico.»
«Certo che no, Hope.» Foyle le sorrise. «Può dire solamente la verità. Non sei d'accordo, Barbara?»
La signorina Quimby, con gli occhi nascosti dietro un paio di occhiali scuri,  annuì  prontamente. «Assolutamente.  Signorina  Cunard,  sarebbe affascinante vedere il risultato. Sono certa che sarebbe bellissima.»
«Bellissima?» Hope guardò la tela tra i piedi di Foyle. Per la prima volta sembrò che facesse uno sforzo consapevole per assumere il controllo di se stessa  e  della  villa  di  Lizard  Key.  Poi,  accettando  la  sfida  di  Foyle  e rifiutando di cedere davanti al suo sorrisetto sarcastico, disse: «D'accordo, Foyle. Poserò per te. Il mio primo ritratto... potresti restare sorpreso da ciò che troverà in me.»
Eravamo  ancora  ben  lungi  dall'immaginare  quale  figura  da  incubo sarebbe emersa sulla superficie di quello specchio.
Durante  i  giorni  successivi,  i  nostri  ritratti  emersero  come  pallidi fantasmi  dai  dipinti.  Ogni  pomeriggio  vedevo  Hope  in  biblioteca,  dove veniva a posare per il quadro e ad ascoltarmi leggere Maldoror, ma già
allora le interessava solo guardare il mare di sabbia. Una volta, mentre era
via a solcare le dune con le sue razze bianche, mi trascinai zoppicando nel
suo studio. Trovai una dozzina dei suoi quadri montati su cavalletti accanto alle finestre, in modo che affacciassero direttamente sul deserto sotto la villa.  Nella  loro  veste  di  sentinelle  pronte  a  segnalare  la  comparsa  del
fantomatico  marinaio  di  Hope,  rivelavano  fino  al  minimo,  monotono dettaglio del paesaggio deserto.
Al confronto, i due ritratti che si stavano sviluppando nella biblioteca erano molto più interessanti. Come sempre, ricapitolavano a ritroso, come
bizzarri  embrioni,  l'intera  filogenesi  dell'arte  moderna,  passando  in rassegna  tutte  le  principali  scuole  del  ventesimo  secolo.  Dopo le  prime increspature liquide e i movimenti della loro fase cinetica, si stabilizzavano
nei colori compatti della scuola hard-edge  e di lì, quando mille arterie di
colore irrigavano la tela in una brillante replica di Jackson Pollock, i colori
andavano  poi  a  compattarsi  nelle  forme  rudimentali  del  tardo  Picasso, nelle quali Hope appariva come una madonna giunonica con grandi spalle e un volto di pietra, per scomporsi di nuovo in fantasie anatomiche di
taglio  surrealista  e  nei  profili  multipli  del  futurismo  e  del  cubismo.  Da
ultimo emergeva  un periodo impressionistico destinato a durare qualche ora,  un  mare  rosato  di  pulviscolo  nel  quale  sembravamo  una  tranquilla coppia in uno dei giardini suburbani di Monet e Renoir.
Seguendo  quell'evoluzione  a  ritroso,  speravo  di  approdare  a  qualcosa nello  stile  di  Gainsborough  o di  Reynolds,  un  ritratto  a figura  piena  di Hope  con  un  vestito  scarlatto  a  fiori  sotto  un  cielo  azzurro,  come  una pallida bellezza inglese nel giardino della sua villa.
Invece,  piombammo  nella  terra  di  nessuno  di  Balthus  e  di  Gustave Moreau.
Mentre  emergevano  i  lineamenti  bizzarri  della  mia  figura,  rimasi sorpreso nello scorgere elementi altrettanto stravaganti nel ritratto di Hope.
A un primo esame il quadro aveva prodotto una versione fedele anche se stilizzata di me seduto sul sofà, ma attraverso una serie di sottolineature nel disegno la scena era totalmente trasformata. La tenda viola dietro il divano sembrava un'immensa vela di velluto, crollata sul ponte di una nave in bonaccia, mentre il poggiatesta, prendendo una forma a spirale, aveva assunto le fattezze di una prua intagliata. Cosa ancor più sorprendente, i cuscini  bianchi  che  usavo  come  appoggio  sembravano  le  penne  di  un grande uccello marino, attaccate alle mie spalle come un'àncora caduta dal cielo. Quel processo d'identificazione era completato dall'espressione del mio volto, piena di pathos e di amarezza.
«Ecco di nuovo il Vecchio Marinaio» disse Hope, girando intorno alla tela e soppesando tra le mani il mio Maldoror. «Sembra proprio che il fato abbia  deciso  il  tuo  ruolo,  Robert.  Del  resto,  è  lo  stesso  che  ho  sempre pensato per te.»
«Più ancora dell'Olandese Volante, Hope?»
Si  girò di  scatto,  con  una contrazione  nervosa  all'angolo  della bocca. «Perché l'hai detto?»
«Hope, chi stai cercando? Può darsi che lo abbia incontrato.»
Si allontanò da me, fermandosi accanto alla finestra. Sul lato opposto
della terrazza Foyle era impegnato in un gioco violento con le razze, che
abbatteva con un pugno per poi scagliarle giù verso le spirali di roccia.  I lunghi pungiglioni si protendevano inutilmente verso la sua faccia segnata dalla varicella.
«Hope...» la raggiunsi. «Forse è ora che io vada. Non ha senso che resti qui. Hanno riparato lo yacht.» Indicai lo scafo ormeggiato nella cala e i suoi pneumatici nuovi. «Inoltre...»
«No!  Robert,  non  hai  ancora  finito  di  leggermi  Maldoror.»  Hope  mi guardò con i suoi grandi occhi, procedendo a un esame minuzioso del mio volto  come  se  si  attendesse  la  materializzazione  di  un  elemento  ancora assente del mio carattere.
Lessi ancora per un'ora, al solo scopo di calmarla. Per qualche motivo continuava  a  scrutare  il  dipinto  che  mi  rappresentava  nelle  vesti  del
Marinaio,  come  se  quell'immagine  nascondesse  un  altro  navigatore  del
mare di sabbia.
Quando se ne fu andata per riprendere la caccia tra le dune con il suo schooner, tornai a controllare il suo ritratto. Fu allora che scoprii che un altro intruso era apparso in quella casa degli inganni.
Il  ritratto  mostrava  Hope  in  una  posa  convenzionale,  seduta  come un'ereditiera  su  una  poltrona  di  broccato.  Lo  sguardo  dello  spettatore veniva attratto dai suoi capelli opalescenti sparsi come una morbida arpa sulle sue spalle, e dalle sue labbra pronunciate, lievemente incurvate agli angoli in un'espressione meditativa. Ma né Hope né io avevamo notato la presenza di una seconda figura. Nella terrazza sullo sfondo, alle spalle di Hope, si stagliava un uomo con una giubba bianca e la testa lievemente piegata  a  mostrare  l'ossatura  della  fronte.  Il  profilo  acquoso  della  sua figura - le mani inerti lungo i fianchi erano appena accennate - gli conferiva l'aspetto di un uomo che sia appena emerso dalle profondità del mare, coperto di filamenti e di alghe secche.
Stupefatto dal materializzarsi di quello spettro sullo sfondo del quadro, aspettai il mattino dopo per vedere se fosse un'aberrazione provocata dalla luce o dai pigmenti. Ma la figura era ancora lì, con una presenza fors'anche più solida, e i suoi tratti ossuti emergevano più chiaramente dall'impasto. Il suo sguardo pieno di solitudine invadeva la stanza. Leggendo ad alta voce per Hope dopo pranzo, aspettai che commentasse quella strana presenza.
Qualcuno, chiaramente non il suo fratellastro, trascorreva almeno mezz'ora al giorno davanti alla tela per imprimere la sua immagine sulla superficie dipinta.
Mentre  Hope  si  alzava  e  si  apprestava  a  lasciare  la  stanza,  la  sua attenzione  fu richiamata dal volto  pensoso dell'uomo e dal  suo  sguardo fisso. «Robert, sei una specie di mago! Vieni fuori anche lì!»
Ma sapevo bene che quell'uomo non ero io. La giubba bianca, la fronte
ossuta e il taglio duro della bocca indicavano chiaramente che si trattava di un  soggetto  diverso.  Quando  Hope  se  ne  fu  andata  a  passeggiare  sulla spiaggia salii nel suo studio ed esaminai le tele che montavano di guardia sul paesaggio.
Nei due quadri orientati a sud di fronte alle scogliere, scoprii l'albero maestro di una nave seminascosta tra le secche.
Ogni mattina la figura emergeva più chiaramente e il suo sguardo vigile sembrava avvicinarsi. Una sera, prima di andare a letto, chiusi le finestre che  affacciavano  sulla  terrazza  e  tirai  la  tenda  davanti  al  quadro.  A
mezzanotte sentii qualcosa muoversi lungo la terrazza e trovai le finestre della  biblioteca  che  oscillavano  al  vento  e  la  tenda  di  nuovo  aperta,  a rivelare  il  ritratto  di  Hope.  Nel  dipinto  il  volto  forte  ma  melanconico
dell'uomo mi restituiva lo sguardo con un'intensità quasi spettrale. Corsi sulla  terrazza.  Attraverso  il  pulviscolo  la  figura  sfocata  di  un  uomo procedeva  a  passo  spedito  lungo  la  spiaggia.  Le  razze  bianche volteggiavano nell'aria buia sopra la sua testa.
Cinque  minuti  dopo  la  figura  canuta  di  Foyle  emerse  dalle  tenebre. Mentre mi passava accanto, le sue labbra carnose si aprirono in un ghigno divertito. Sul suo pigiama nero di seta non c'era traccia di sabbia.
Poco  prima  dell'alba  tornai  in  biblioteca,  ricambiando  lo  sguardo  del visitatore fantasma che veniva tutte le notti a vegliare sul ritratto di Hope. Tirai fuori il mio fazzoletto e cancellai il suo volto dalla tela, restando poi per  due  ore  con  la  faccia  vicinissima  al  dipinto.  I  pigmenti  si riorganizzarono riproducendo rapidamente i miei lineamenti e allineandosi in  una  convezione  di  tonalità.  Mi  apparve  davanti  un  travestimento  in piena regola: un uomo con una giubba bianca da marinaio, le spalle larghe e la fronte alta, il fisico di un intelligente uomo d'azione cui erano stati incollati il mio viso pieno e i miei baffi folti.
La pittura si compattò proprio mentre le prime luci della finta alba toccavano la terrazza spazzata dalla sabbia.
«Charles!»
Hope Cunard entrò dalla finestra aperta, con la veste bianca tremante come una ghirlanda intorno al corpo nudo. Mi si fermò accanto, guardando la mia immagine nel ritratto.
«Allora eri davvero tu, Robert. Charles Rademaeker è tornato nelle tue vesti... Il mare di sabbia ci porta strani sogni.»
Cinque  minuti  dopo,  mentre  camminavamo  a  braccetto  lungo  il corridoio, diretti alla sua camera da letto, entrammo in una stanza vuota. Hope  prese una  giubba  bianca  da  un  armadio.  Le cuciture  erano  lise  e sporche di sabbia. Sulla pettorina, un'impronta di sangue secco circondava il buco di una pallottola.
La indossai come se fossi un bersaglio.
L'immagine di Charles Rademaeker rimase negli occhi di Hope mentre si sedeva sul letto come una sonnambula stanca e mi guardava chiudere le finestre della sua stanza.
Durante i giorni che seguirono, mentre veleggiavamo insieme sul mare di  sabbia,  mi  raccontò  qualcosa  sulla  sua  relazione  con  Charles Rademaeker, l'olandese schivo e colto che vagava per il deserto con il suo yacht, catalogando la rara fauna che popolava le dune. Due anni prima era
emerso  dal  crepuscolo  con  un  pennone  danneggiato  e  aveva  gettato l'ancora  a  Lizard  Key.  Sceso  a  riva  per  un  cocktail,  era  rimasto  per parecchie  settimane,  impegnato  in  un  bizzarro  idillio  amoroso  con  la timida e bella pittrice, che si era concluso in modo violento. Hope non aveva mai spiegato chiaramente cosa fosse successo. A volte, indossando
la  giubba  macchiata  di  sangue con il  buco di  pallottola,  sospettavo  che
fosse stata lei a sparargli, magari posando per un ritratto. Forse a una delle
tele era accaduto qualcosa di strano e Rademaeker vi aveva colto alcuni degli elementi del carattere di Hope di cui aveva sospettato l'esistenza ma
che non erano mai stati resi espliciti. Dal giorno di quel picco tragico del
loro  rapporto,  in  cui  Rademaeker  era  stato  ucciso  o  era  fuggito,  Hope
perlustrava il mare di sabbia per l'intera estate con il suo schooner bianco,
cercandolo.
Ora Rademaeker era tornato - dal deserto o forse dal regno dei morti -,
rimodellato dalla sabbia con i miei lineamenti. Ma Hope credeva davvero
che  fossi  la  reincarnazione  del  suo  amante?  A  volte  la  notte,  mentre
giaceva  accanto  a  me  nella  cabina  e  i  riflessi  delle  vene  di  quarzo  le
danzavano sui seni come collane, mi parlava come se fosse pienamente
consapevole  della  mia  vera  identità.  Poi,  dopo  aver  fatto  l'amore,  mi
impediva  deliberatamente  di  dormire,  come  se  lo  considerasse  un
inaccettabile tentativo di lasciarla sola, e mi chiamava Rademaeker: il suo
volto adombrato era quello di una donna nevrotica che stava andando in
pezzi. In quei momenti riuscivo a capire perché Foyle e Barbara Quimby si
fossero ritirati nel loro mondo privato.
Ripensandoci adesso, credo di aver fornito a Hope una distrazione dalla
sua ossessione per Rademaeker e una possibilità di rivivere la sua illusione
sotto  forma  di  quella  strana  pantomima  di  emozioni.  Nel  frattempo,
Rademaeker in persona ci aspettava in un punto segreto e non lontano del
deserto.
Una sera portai  Hope sul  mare  di  sabbia  avvolto dalle  tenebre. Dissi all'equipaggio  di  accendere  le  luci  sulle  velature  e  le  lampadine  che decoravano il tendone sul ponte. Conducendo quella nave luminosa sulla sabbia nera, restai accanto a Hope sul parapetto a poppa, cingendole la vita con  un  braccio.  In  piedi,  presa  dal  sonno,  appoggiò  la  testa  sulla  mia spalla.  I  suoi  capelli  opalescenti  fluttuavano  sulla  scia  scura  della  nave come  lo  scheletro  di  un  uccello  primitivo.  Un'ora  dopo,  raggiungendo Lizard Key, vidi uno schooner bianco che toglieva l'àncora in un punto tra le scogliere di sabbia e ripartiva verso il mare aperto.
Ormai c'era solo il fratellastro di Hope che potesse rammentarmi quanto fosse precario il mio controllo su di lei come sull'isola. Foyle mi aveva
sempre evitato, dedicandosi ai suoi giochi privati tra le spirali di roccia
sotto  la  terrazza.  Di  tanto  in  tanto,  quando  ci  vedeva  camminare  a
braccetto,  ci  fissava  dalla  sdraio  con  uno  sguardo  divertito  quanto
bellicoso.
Una  mattina,  subito  dopo  che  ebbi  suggerito  a  Hope  di  rispedire  il
fratellastro  e  la  signorina  Quimby  alla  sua  casa  di  Red  Beach,  Foyle
irruppe  in  biblioteca,  e  notai  subito  l'ostentata  disinvoltura  del  suo
atteggiamento.  Tenendo  una  mano  premuta  sulla  bocca  carnosa,  rivolse
con l'altra un gesto scettico verso i ritratti mio e di Hope. «Prima il Vecchio
Marinaio, ora l'Olandese Volante - per essere un marinaio da quattro soldi
ha recitato in un bel po' di ruoli, Melville. Trenta giorni in mare aperto, o
meglio,  in  divano  aperto,  eh?  Quale  sarà il  prossimo ruolo? Giona  o  il
capitano Ahab?»
Barbara Quimby sbucò alle sue spalle e insieme a Foyle, che aveva piegato  leggermente  la  sua  brutta  testa  di  fauno,  mi  guardarono ridacchiando.
«Perché non Prospero?» replicai. «Quest'isola è piena di visioni. E lei, Foyle, potrebbe fare la parte di Calibano.»
Annuendo tra sé, Foyle si avvicinò ai quadri. Una mano rozza vi aveva inserito una serie di immagini oscene. Barbara Quimby cominciò a ridere. Se ne andarono insieme, abbracciati. Le loro voci ridacchianti si fusero con le  strida  delle  razze  di  sabbia  che  volteggiavano  sulle  spirali  di  roccia, nell'aria rosso sangue.
Poco  dopo  cominciarono  a  verificarsi  i  primi  strani  cambiamenti  nei nostri ritratti. Quella sera, mentre sedevamo insieme in biblioteca, notai un'alterazione  lieve  ma  palese  nel  volto  di  Hope  sulla  tela:  la  pelle,  in particolare, si era coperta di escrescenze, e anche i suoi capelli avevano assunto delle sfumature gialle.
Questa trasformazione si fece ancor più pronunciata il giorno dopo. Gli
occhi nel quadro avevano sviluppato una forma di strabismo, come se la tela avesse cominciato a cogliere una sorta di sbilanciamento nello sguardo di  Hope.  Mi  voltai  a  controllare  il  mio  ritratto.  Anche  lì  si  stavano
verificando dei cambiamenti palesi. Il mio viso aveva iniziato ad allungarsi in una sorta di grugno. La carne spessa si accumulava intorno alle labbra e alle  narici,  e  gli  occhi  diventavano  più  piccoli,  sommersi  dai  rotoli  di grasso. Perfino i miei vestiti avevano subìto una modifica, e gli scacchi bianchi e neri della mia camicia di seta ricordavano ora la divisa di un bizzarro arlecchino.
La mattina dopo, questa orribile metamorfosi era così evidente che perfino Hope avrebbe potuto notarla. Le figure che mi guardavano mentre ero  in  piedi,  immobile  nella  luce  dell'alba,  sembravano  uscite  da  un saturnale mostruoso. I capelli di Hope erano diventati di un giallo brillante, e i riccioli incorniciavano un volto che somigliava a un teschio impomatato. Quanto a me, il mio grugno da maiale somigliava a un volto da incubo in un paesaggio tenebroso di Hieronymus Bosch.
Tirai la tenda per coprire i quadri ed esaminai la mia bocca e i miei occhi allo specchio. Quella ridicola mascherata corrispondeva davvero al modo in cui apparivamo Hope e io? Decisi che i pigmenti dovevano essere fallati
- Hope rinnovava di rado le sue scorte - e per questo producevano quelle immagini distorte. Dopo colazione ci vestimmo con i nostri abiti da vela e scendemmo  verso  la  baia.  Non  dissi  nulla  a  Hope.  Per  tutto  il  giorno navigammo nelle vicinanze dell'isola, e non tornammo fino a sera.
Poco dopo mezzanotte, mentre giacevo accanto a Hope nella sua stanza da  letto  sotto  lo  studio,  venni  svegliato  dalle  razze  bianche  che schiamazzavano  nell'oscurità  fuori  dalle  finestre.  Giravano  in  cerchio, come luci agitate. Nello studio, facendo attenzione a non svegliare Hope, controllai le tele accanto alle finestre. Su una di esse trovai l'immagine dipinta di fresco di una nave bianca con le vele nascoste in una caletta a meno di un chilometro dall'isola.
Quindi  Rademaeker  era  tornato,  e  la  sua  presenza  aveva  in  qualche modo  deturpato  i  pigmenti  nei  nostri  ritratti.  Convinto  da  quella  folle
logica, presi a pugni la tela, cancellando l'immagine della nave. Le mie
mani e le braccia erano coperte di pittura ancora umida quando rientrai in
camera. Hope dormiva sui cuscini incrociati, le mani a proteggersi i seni.
Presi la pistola automatica che teneva sul comodino. Dalla finestra, il triangolo bianco della vela di Rademaeker si alzò nell'aria notturna mentre levava l'àncora.
A metà della scala, potei vedere l'interno della biblioteca. Sul pavimento
erano state accese delle lampade ad arco, che immergevano le tele nella
loro luce forte, accelerando il movimento dei pigmenti. Di fronte ai dipinti,
ghignando in una posa oscena, c'erano due creature uscite direttamente da
un incubo. La più alta indossava una veste nera che sembrava la tonaca di
un  prete,  e  aveva  la  maschera  di  cartapesta  di  un  maiale  sulla  testa.
Accanto a lui c'era una donna con una parrucca bionda, il viso incipriato, e
le labbra e gli occhi lucidi. Insieme, si pavoneggiavano davanti ai quadri.
Aprendo la porta con un piede ebbi una visione completa di quelle figure
da incubo. Sui quadri la carne si contorceva come cera surriscaldata, e le
immagini mia e di Hope assumevano quella stessa posa oscena. La donna
con la parrucca gialla si sottrasse alla luce delle lampade ad arco e uscì
sulla terrazza. Mentre passavo sopra i fili delle prese, sentii per un istante
le  spalle  di  un  uomo  avvolto  in  un  mantello,  proprio  dietro  di  me.
Qualcosa mi colpì sotto un orecchio. Caddi in ginocchio, e la veste nera mi
scavalcò, diretta alla finestra.
«Rademaeker!»  Portandomi  una  mano  sporca  di  pittura  alla  nuca,
inciampai sulla statuetta di peltro che mi aveva colpito e corsi fuori sulla
terrazza.  Le  razze  agitate  frustavano  l'oscurità  come  tracce  luminose  di
saliva. Sotto di me, due figure correvano tra le spirali di roccia, dirette alla
spiaggia.
Quando la raggiunsi a mia volta, quasi  esausto, camminai  impacciato
sulla  sabbia  scura,  con  gli  occhi  che  mi  bruciavano  per  l'effetto  della
pittura sulle mie mani.  A cinquanta metri  da riva le vele  bianche di  un
immenso  schooner  da  sabbia con  la  prua  puntata  su  di  me  si  ergevano
nell'aria notturna.
Sulla  sabbia,  ai  miei  piedi,  vidi  una  parrucca  bionda,  il  grugno  di plastica di un maiale e la tonaca stracciata. Cercando di raccoglierli, caddi sulle ginocchia. «Rademaeker...!»
Un piede mi colpì sulla spalla. Un uomo snello e dritto come un fuso con un berretto da marinaio mi guardava con occhi irritati. Benché fosse più basso di quanto avessi immaginato, riconobbi immediatamente il suo volto malinconico.
Mi  aiutò  ad  alzarmi,  tirandomi  su  con  forza.  Indicò  la  maschera,  il costume e le mie braccia sporche di pittura.
«Allora, cos'è quest'assurdità? A che razza di gioco state giocando?»
«Rademaeker...» Feci cadere la parrucca gialla sulla sabbia. «Credevo che fosse...»
«Dov'è Hope?» chiese, sollevando il volto quadrato per studiare la villa. «Quelle razze... è qui? Cos'è questa, una messa nera?»
«Qualcosa di molto simile.» Scrutai la spiaggia deserta, inondata dalla
luce  riflessa  dalle  bianche  vele  dello  schooner.  A quel  punto  capii  chi
avevo visto in posa davanti alla tela. «Foyle e la ragazza! Rademaeker,
erano lì...». Ma  lui  si  era  già  lanciato  sul  sentiero,  fermandosi  solo  per  gridare
qualcosa  ai  due  membri  dell'equipaggio  che  assistevano  alla  scena  dal
parapetto dello yacht. Gli corsi dietro, usando la parrucca per togliermi la
pittura dalla faccia. Rademaeker sfrecciò via dal sentiero per tagliare verso
la  terrazza.  La  sua  figura  compatta  si  muoveva  veloce  tra  le  spirali  di
roccia,  scivolando  in  mezzo  alle  statue  sonore  che  si  innalzavano  sulla
sabbia fusa.
Quando raggiunsi la terrazza, Rademaeker era già  in piedi  nell'ombra
accanto alle finestre della biblioteca e guardava la stanza inondata di luce.
Si tolse il berretto con un gesto misurato, come un pastorello nell'atto di
corteggiare la sua innamorata.  I  suoi capelli lisci, schiacciati dall'orlo del
berretto, gli davano un'aria sorprendentemente giovanile, diversa dal rude
vagabondo  del  deserto  che  avevo  immaginato.  Mentre  se  ne  stava  lì
immobile a guardare Hope, la cui figura dalla veste bianca era riflessa nei
vetri della finestra aperta, potei vederlo nella stessa posizione che aveva
assunto durante le sue visite segrete all'isola, trascorse contemplando per
ore il ritratto di lei.
«Hope... lascia che io...»
Rademaeker  gettò  a  terra  il  berretto  e  scattò  in  avanti.  Vi  fu un'esplosione, e il suo impatto ruppe uno dei vetri della porta finestra. Il suono rimbalzò tra le spirali di roccia spaventando le razze, che si levarono in volo. Tirai indietro le tende di velluto ed entrai nella stanza.
Le mani di Rademaeker erano appoggiate sul divano di broccato. Si muoveva  con  cautela,  cercando  di  raggiungere  Hope  prima  che  lei  si accorgesse della sua presenza. Voltata di spalle, era in piedi accanto al quadro, con la pistola in mano.
Sovraeccitati dalla luce violenta delle lampade ad arco, i pigmenti sulla superficie della tela avevano quasi raggiunto l'ebollizione.  I  colori lividi correvano  sul  volto  coperto  di  pus  di  Hope  come  se  la  carne  stesse andando in putrefazione. Accanto a lei, il sacerdote con la faccia da maiale che  corrispondeva  alla  mia  immagine  montava  la  guardia  come  il procuratore dell'inferno.
Hope si voltò verso di noi, gli occhi freddi come ghiaccio. Guardò la parrucca bionda nelle mie mani e la pittura sparsa sul mio braccio. Il suo sguardo era vuoto. L'espressione l'aveva abbandonato come se fosse stata trascinata via da una valanga.
Il primo sparo aveva centrato il suo ritratto. La pittura cominciava già a
colare  attraverso  il  foro  della  pallottola.  Come  un  vampiro  in  via  di dissoluzione, lo spettro dai capelli gialli con i lineamenti di Hope cominciò a ondeggiare in una spirale verso il basso.
«Hope...»  Rademaeker  fece  un  passo  in  avanti.  Prima  che  potesse afferrarle un polso, lei si voltò e gli sparò. Il colpo mandò in frantumi il vetro della finestra alle mie spalle. I frammenti si sparsero nel buio come particelle lunari.
La pallottola successiva colpì il polso sinistro di Rademaeker, che cadde
in ginocchio stringendosi la ferita insanguinata. Confusa dalle esplosioni, che  le  avevano  quasi  fatto  cadere  l'arma,  Hope  strinse  la  pistola  con entrambe le mani, puntandola contro la vecchia macchia di sangue sulla
mia  giubba.  Prima  che  potesse  sparare,  colpii  con  un  calcio  una  delle
lampade,  facendogliela  cadere  tra  i  piedi.  La  stanza  girava  come  un
palcoscenico sul punto di crollare. Afferrai Rademaeker per una spalla e lo spinsi sulla terrazza.
Scendemmo di corsa verso la spiaggia. A metà del sentiero Rademaeker si  fermò, quasi  fosse tentato  di tornare indietro. Hope si stagliava sulla terrazza e stava sparando alle razze che stridevano nell'oscurità sopra le nostre teste. Lo schooner bianco stava già levando l'àncora e le sue vele si sollevavano nell'aria notturna.
Rademaeker mi fece un cenno d'invito con il polso insanguinato. «Salga sulla nave. È sola ormai... per sempre.»
Ci acquattammo sotto il timone dello schooner, ascoltando le sculture sonore  che  gemevano  nell'aria  perturbata,  mentre  gli  ultimi  spari risuonavano nel deserto.
All'alba Rademaeker mi depositò a meno di un chilometro dalla spiaggia di Ciraquito. Aveva trascorso la notte al timone, con il polso bendato e legato al petto, guidando lo schooner con una mano sola. Nell'aria fredda della notte tentai di spiegargli perché Hope gli avesse sparato, in un ultimo tentativo di rompere il velo delle illusioni che si moltiplicavano intorno a lei e di raggiungere una qualche forma di realtà.
«Rademaeker... io la conoscevo bene. Non stava sparando a lei, ma a una sua   versione   fittizia,   all'immagine   del   ritratto.   Dannazione,   era ossessionata da lei.»
Ma sembrava che avesse perso qualsiasi interesse, e la sua bocca sottile
dalle labbra imbronciate non si aprì alla minima risposta. In un certo senso,
mi aveva deluso. Chiunque fosse riuscito finalmente a portare via Hope da
Lizard Key avrebbe prima dovuto accettare le illusioni onnipresenti che  erano il tessuto stesso di quella misteriosa isola. Rifiutandosi di ammettere la realtà delle fantasie di Hope, Rademaeker l'aveva distrutta.
Quando mi lasciò tra le dune, non lontano dalle case sulla spiaggia, mi rivolse  un brusco  saluto  e girò  il  timone:  la  sua  figura  eretta  sparì  ben presto dietro la cresta delle onde.
Tre settimane dopo affittai uno yacht da uno dei pescatori di razze locali e tornai all'isola per recuperare il mio scafo. Lo schooner di Hope era all'ancora  e  lei  venne  di  persona,  in  tutta  la  sua  bellezza  pallida  e spigolosa, a salutarmi dalla terrazza.
I dipinti erano spariti insieme al ricordo di quella notte violenta. Gli occhi di Hope mi fissavano, tranquilli. Solo le sue mani dalle lunghe dita si muovevano come se godessero di vita propria.
In  fondo  alla  terrazza  il  suo  fratellastro  riposava  tra  le  sdraio,  con  il berretto  di  Rademaeker  calato  sugli  occhi.  Barbara  Quimby  gli  sedeva accanto. Mi chiesi se spiegare a Hope il gioco astuto e macabro in cui si erano esibiti con lei, ma dopo qualche minuto lei si allontanò. Il sorriso affettato  di  Foyle  era  l'ultimo  residuo  di  quel  mondo.  Privo  di  malizia, accettava la realtà della sorellastra e la faceva propria.
Comunque,  Hope  Cunard  non  ha  dimenticato  completamente  Charles
Rademaeker. A volte la vedo a mezzanotte che solca il mare di sabbia, in
cerca di una nave bianca dalle bianche vele. La notte scorsa, seguendo uno
strano impulso, ho indossato la giubba macchiata di sangue che un tempo
era appartenuta a Rademaeker e ho navigato fino ai confini del mare di
sabbia. Ho atteso accanto a un grande scoglio dal quale sapevo che sarebbe
passata.  Mentre  si  avvicinava  silenziosa,  stagliandosi  contro  la  luce
morente del sole, mi sono affacciato dal parapetto, lasciando che vedesse
la giubba. Ancora una volta, la indossavo come fossi un bersaglio.
Ci sono però altri che solcano questo mare misterioso. Hope è passata a
cinquanta  metri  e non ha neppure  notato  la  mia presenza,  ma  mezz'ora
dopo è apparso un secondo yacht, un agile ketch guidato da un uomo alto
dalla bocca carnosa che portava una parrucca gialla. Accanto a lui, una
donna dai capelli scuri sorrideva al vento. Mentre passava, Foyle mi ha
salutato sventolando la mano, e un risolino ironico ha percorso la sabbia
morta  raggiungendo  me  e  la  mia  giubba-bersaglio.  Mascherati  da  prete
folle  o  arpia,  sirena  o  strega  delle  dune,  percorrono  il  mare  di  sabbia
secondo  le  proprie  regole.  La  sera,  quando  mi  passano  vicino,  posso
sentirli ridere.