venerdì 7 febbraio 2025

Continuerò a dire con orgoglio che ho vissuto in Israele Leti

 


Continuerò a dire con orgoglio che ho vissuto in Israele 

Leti


Israele. Spesso, quando ne parlo, vedo sopracciglia alzarsi, labbra serrarsi, sguardi farsi sospettosi—qualsiasi segnale di curiosità o scetticismo. Per due anni della mia vita ho vissuto nella terra del latte e del miele, nella terra dei paradossi, nella terra della speranza e della guerra.

Israele è un piccolo paese del Medio Oriente, con soli 8 milioni di abitanti, il che rende improbabile che la maggior parte delle persone nel mondo abbia mai incontrato un israeliano. Eppure, sembra che tutti ne abbiano conosciuto almeno uno. Questo minuscolo stato è uno dei più discussi al mondo, in un pianeta con oltre 200 nazioni.

Potrei speigare di perché sia così, ma forse non ce ne è bisogno. Tra fatti storici e, spesso, palesi menzogne, tra ferventi sostenitori e ancor più accesi detrattori, sembra che tutti abbiano già capito perfettamente Israele.

Ma è davvero così?

Cosa sanno di Tel Aviv, con i suoi infiniti bar e i suoi giovani sempre in movimento? Cosa sanno di Haifa, con la sua università multiculturale e la numerosa popolazione araba? Cosa sanno di Gerusalemme, dove tre religioni si intrecciano ogni giorno? E di Eilat, con le sue spiagge cristalline e gli yogi che salutano il sole? Non possono saperlo.

Eppure, credono di sapere tutto. Basta un post sui social media, una dichiarazione di un sedicente storico, ed ecco che diventano esperti assoluti. Israele? Uno stato suprematista bianco, colonialista, genocida.

Suprematista bianco? Colonialista? Genocida?

Forse i miei amici di origine marocchina e algerina non sarebbero d’accordo. O gli ebrei etiopi che vivono a Florentin, a Tel Aviv. O gli yemeniti che servono piatti tipici in Allenby Street. O forse neppure gli arabi palestinesi con cittadinanza israeliana, che solo loro sanno davvero cosa significhi vivere in Israele.

E sulla questione del colonialismo, basterebbe chiedere alla Bibbia. O, per chi non è religioso, all’analisi genetica del popolo ebraico, che prova la sua presenza su quella terra da prima della nascita di Cristo o di Maometto.

E per quanto riguarda il genocidio, qualcuno potrebbe spiegare perché la popolazione di Gaza è cresciuta esponenzialmente dall’inizio dell’ultima guerra?

Ma questi sono fatti, e i fatti richiedono onestà e accettazione, qualità sempre più rare quando si parla di Israele. Ogni israeliano è abituato a questo.

Le persone con cui parlavo nelle mie serate a Tel Aviv, dove potevo vestirmi come volevo ed essere chi volevo senza paura, scherzavano spesso con me: “Sai, quando viaggio in Spagna dico che sono greco, e quando viaggio in Grecia dico che sono spagnolo.” Con quell’accento inconfondibile, mi sembrava strano che pensassero di poter nascondere la loro identità—o che trovassero divertente doverlo fare.

Di solito, quando le persone lasciano il proprio paese, il loro patriottismo si moltiplica. I miei amici francesi, peruviani, siriani, americani, filippini provano un orgoglio profondo nel dichiarare le proprie origini. Noi italiani non siamo da meno: quando io e il mio ragazzo siamo stati a New York, siamo andati subito a Little Italy, fieri della nostra cultura esportata nel mondo. Voleva una foto sotto una bandiera italiana, orgoglioso delle sue radici e senza paura di mostrarlo.

Nel 2021, quando l’Italia ha vinto gli Europei contro l’Inghilterra, ero a Tel Aviv, e portare la bandiera italiana in giro per la città è stata una delle sensazioni più belle di sempre. Poter esibire con fierezza la vittoria della mia nazione in faccia ai tifosi inglesi, che stringevano la loro bandiera un po’ più in basso.

Solo ora mi rendo conto che i miei amici israeliani non potranno mai vivere la stessa esperienza. Non potranno mai sventolare con orgoglio la loro bandiera all’estero. Non potranno mai dire apertamente da dove vengono, senza temere ritorsioni, minacce o persino rischiare la vita.

I palestinesi sono diversi: possono urlare le loro origini dai tetti, e l’Occidente li applaudirà. Il loro diritto di farlo è incoraggiato dal nostro senso di colpa collettivo, dalla nostra ossessione per il sostegno incondizionato agli “oppressi”, veri o presunti. È questo che rende impossibile per un israeliano fare lo stesso.

Gli israeliani sono forti, determinati, fieri di ciò che sono, senza bisogno di trasformarlo in uno spettacolo per compiacere il mondo. Sono qualità che l’Occidente ha gettato nella spazzatura, qualità che spaventano l’Occidente stesso. Perché i nostri leader devono essere morbidi, malleabili, compiacenti, la nostra cultura deve essere inclusiva di tutto e di tutti, il nostro orgoglio schiacciato.

Molti in Occidente vedono gli israeliani come i loro peggiori nemici, perché gli ricordano ciò che noi eravamo prima di distruggere la nostra cultura con le nostre stesse mani. E mentre ci convinciamo che la strada giusta sia abbandonare Israele, lasciandolo solo in questa guerra culturale, ci raccontiamo che questa sia la scelta morale.

Ma come potrei mai tornare a Tel Aviv e guardare negli occhi gli arabi del mio bar preferito, chiamandoli “colonialisti”? Come potrei sedermi con i miei amici ebrei a una cena di Shabbat e dire loro che non sono inclusivi? Come potrei mai guardare un popolo fatto di innumerevoli etnie e religioni, dicendo loro che stanno commettendo un genocidio, quando più della metà di loro ha origini arabe?

Non posso. E non lo farò.

Anche se ogni volta, chi mi ascolta alzerà un sopracciglio, stringerà le labbra, mi guarderà con aria inquisitoria. Lo farò per i miei amici, che non possono farlo per sé stessi.