giovedì 6 febbraio 2025

TRUMP E LA GUERRA DELLA NARRATIVA Alessandra Libutti

 

TRUMP E LA GUERRA DELLA NARRATIVA

Alessandra Libutti

Trump e la guerra della narrativa: chi controlla il dibattito, controlla il potere

[...]la mossa di Trump: ripetendo e ribadendo la devastazione di Gaza, ha comunicato al mondo un messaggio inconfutabile – non c’è più niente da salvare, va ricostruita da zero. E chi ricostruisce, decide. La guerra non è finita con un compromesso o con un cessate il fuoco che lasci spazio a interpretazioni: Hamas ha perso, e con esso l’intera narrazione che cercava di vendere. Non c’è più il lusso della propaganda, non c’è più la possibilità di fingere di aver raggiunto un obiettivo: la realtà è fatta di macerie e sconfitta[...]

La cosa che fa sorridere in questi giorni (forse l’unica) è che l’assoluta normalizzazione del giornalismo di pancia – quello fatto di reazioni istintive, emotive, incapace di riportare una notizia senza un commento morale o una condanna – ha mandato in tilt l’informazione: nessuno sapeva più neanche come riportare la notizia delle dichiarazioni di Trump su Gaza, come se – senza l’immediata condanna, affiancata alle dichiarazioni – si temesse di essere subito bollati degli stessi appellativi usati infinite volte contro altri: da “complice di genocidio” a “complice di pulizia etnica”… solo per avere riportato una notizia senza fronzoli.

E sia chiaro: nessuno crede davvero nell’obiettività assoluta. Non esiste. È un’illusione. Ognuno di noi ha un punto di vista, una lente attraverso cui osserva il mondo. Jean-Luc Godard diceva che “un’inquadratura è una questione morale”, e aveva ragione: la scelta dell’angolatura è tutto. Decidere su cosa mettere a fuoco, quale aspetto evidenziare, quale notizia dare più rilievo e quale ignorare, sono scelte inevitabili. Scrivere è sempre un atto di selezione. Ma se l’obiettività perfetta è un’utopia, il suo principio resta fondamentale: cercare di avvicinarsi il più possibile, attenersi ai fatti piuttosto che presentarne interpretazioni travestite da verità, separare l’informazione dalla reazione emotiva. Perché quando il giornalismo diventa sentimentalismo spicciolo, smette di far ragionare e inizia ad aizzare. E a quel punto, è già morto.

Con questo tipo attivismo travestito, Trump ha gioco facile. Le spara grosse, immense, plateali, inaccettabili, conscio che tutti i pesci cadano nella rete, reagendo esattamente come lui desidera. Ogni sua dichiarazione scioccante, ogni provocazione studiata, ogni iperbole volutamente eccessiva ottiene il massimo risultato proprio grazie a quel giornalismo di pancia che si indigna, strilla e sbraita senza mai fermarsi a un’analisi lucida e razionale. Il ciclo è sempre lo stesso: Trump lancia l’amo, i media abboccano con reazioni isteriche, gli opinionisti si accapigliano, i titoli si fanno sempre più sensazionalistici e il dibattito si polarizza, rendendo impossibile ogni ragionamento costruttivo.


E lui, naturalmente, vince su tutta la linea. Trump si nutre di questa indignazione compulsiva, di questo sdegno continuo che non lascia spazio alla riflessione. Le esternazioni Trump hanno molteplici obiettivi: quello di creare caos nella comunicazione (chi lo crea, lo controlla); quello di focalizzare l’attenzione mediatica in una direzione per distrarre il pubblico da una direzione nella quale non vuole che guardi; quella di lanciare messaggi ad alcune controparti (spesso sotto forma di implicito ricatto); quella di insinuare il seme di un’idea nell’immaginario collettivo.


Con l’idea della sua “Mar-a-Gaza”, il progetto di una presunta riviera lungo la Striscia e la prospettiva di un esilio forzato per quasi due milioni di palestinesi, Trump ha colpito perfettamente nel raggiungere tutti i suoi obiettivi strategici di comunicazione. Le sue dichiarazioni, apparentemente assurde e provocatorie, hanno innescato esattamente la reazione che voleva, ottenendo risultati su più livelli.

1. Creare caos nella comunicazione

Trump è un maestro della distorsione narrativa. Con un’unica dichiarazione ha fatto esplodere il dibattito, sovrapponendo concetti confusi e contraddittori tra loro. Coloro che fino al giorno prima gridavano al genocidio senza alcuna base reale, ora si sono precipitati a gridare alla pulizia etnica, senza rendersi conto della loro stessa incoerenza. Se davvero fosse in atto un genocidio, come potrebbero esserci abbastanza persone da “deportare”? E se ora si parla di espulsione forzata, non significa forse che il presunto genocidio era una narrazione insensata fin dall’inizio? Questo cortocircuito logico ha gettato nel caos il dibattito pubblico, facendo sì che chiunque si esprimesse sulla questione finisse per contraddirsi da solo.


2. Distrarre l’attenzione

Trump sa bene come spostare il focus mediatico per pilotare l’opinione pubblica lontano dalle questioni che potrebbero danneggiarlo o danneggiare le sue alleanze. Mentre tutti si accapigliano sulla “Mar-a-Gaza” e sulla fantomatica riviera, la sua attuazione a casa di Project 2025 e dissoluzione dello Stato federale, va avanti a ritmo serrato completamente inosservata. Invece di analizzare le reali conseguenze strategiche di ciò che sta accadendo a Gaza o le soluzioni possibili, i media e gli attivisti travestiti da giornalisti si concentrano su un’idea volutamente provocatoria, regalando a Trump il controllo della narrativa. Chi detta l’argomento della discussione, controlla il discorso pubblico.


3. Lanciare messaggi impliciti a chi di dovere

Le dichiarazioni di Trump non sono mai solo provocazioni fini a se stesse, e tutti sanno che non sono minacce a vuoto: se dice che potrebbe fare una cosa, è segno che sarebbe disposto a farla, se necessario, e gli interlocutori lo sanno. Nel mondo dei bulli e tagliagole in cui viviamo, il tycoon usa il linguaggio del tempo: quello della minaccia, del ricatto, della deterrenza. Può non piacerci, ma agitarci e fare gli isterici, non modifica di una virgola la realtà. Allora forse, almeno per il momento, sarebbe meglio tirare un lungo respiro, ragionare e cercare di capirla quella realtà (non la risolviamo, ma ci tiriamo fuori dalla mischia, l’unica cosa che possiamo fare).

Ogni sua frase è un messaggio a destinatari precisi. Parlare di un progetto “turistico” per Gaza, nel bel mezzo di un conflitto, non è casuale. È un segnale implicito a Israele, un modo per suggerire indirettamente che il futuro della Striscia potrebbe essere deciso unilateralmente e che la questione palestinese può essere ridefinita sul piano economico anziché politico. Allo stesso tempo, è anche un segnale agli alleati arabi, un messaggio di avvertimento: se gli Stati arabi non vogliono ritrovarsi con una nuova crisi umanitaria da gestire e centinaia di profughi nei loro Paesi, farebbero meglio a collaborare. In pratica, ha lanciato un ricatto: se non si trova un accordo accettabile per gli Stati Uniti e Israele, Gaza potrebbe subire una trasformazione radicale e irreversibile. Oppure, ancora peggio, gli USA e Israele si tirerebbero indietro lasciando tutto com’è: quasi 2 milioni di persone nel nulla. Neanche il ritiro di entrambi i Paesi dall’UNHCR è casuale: un altro messaggio chiaro che sancisce che chi paga per la ricostruzione di Gaza detta le regole su quello che sarà di Gaza, altrimenti, arrangiatevi, fate voi.

Ma più di ogni altra cosa, Trump ha spazzato via la messa in scena di Hamas, quell’illusione costruita ad arte per far credere al mondo che il massacro del 7 ottobre fosse stato l’inizio di una vittoria, e non il preludio a una sconfitta totale. La realtà è sotto gli occhi di tutti: Israele è in piedi, Gaza è in macerie. A Tel Aviv la vita scorre, le strade sono piene, i ristoranti aperti, i mercati affollati. A Gaza, invece, non è rimasto nulla. Palazzi sventrati, infrastrutture distrutte, intere aree rase al suolo. Non c’è più una città, non c’è più un’economia, non c’è più un’illusione di controllo da parte di Hamas.

E qui sta la mossa di Trump: ripetendo e ribadendo la devastazione di Gaza, ha comunicato al mondo un messaggio inconfutabile – non c’è più niente da salvare, va ricostruita da zero. E chi ricostruisce, decide. La guerra non è finita con un compromesso o con un cessate il fuoco che lasci spazio a interpretazioni: Hamas ha perso, e con esso l’intera narrazione che cercava di vendere. Non c’è più il lusso della propaganda, non c’è più la possibilità di fingere di aver raggiunto un obiettivo: la realtà è fatta di macerie e sconfitta.

Le guerre si vincono e si perdono, e chi perde, perde anche il diritto di decidere sulla terra che ha perso. È sempre stato così, da quando il mondo è mondo. Non esiste diritto alla sovranità senza il potere di difenderlo. Hamas non ha più nulla. Con la sua dichiarazione, Trump ha seppellito definitivamente l’illusione di Hamas, riducendola a quello che è sempre stata: una disfatta totale, senza appello.


4. Insinuare un’idea nell’immaginario collettivo

Trump sa che le grandi narrazioni politiche iniziano sempre come semplici suggestioni. Parlando di una riviera di lusso a Gaza, inserisce nel discorso pubblico un’idea che oggi può sembrare assurda, ma che domani potrebbe diventare materia di discussione concreta. La normalizzazione della Striscia attraverso un progetto economico è un concetto che, una volta entrato nel dibattito, non sparirà facilmente. Se inizialmente viene ridicolizzato, nel tempo potrebbe essere ripreso, elaborato e infine proposto in forme più “accettabili” (senza lo spostamento della popolazione, per esempio). Trump lancia un seme nell’immaginario collettivo, sapendo che l’idea crescerà da sola con il tempo, specialmente tra i circoli strategici e diplomatici.


Trump continua a controllare la comunicazione

La “Mar-a-Gaza” non è una proposta reale, né ha bisogno di esserlo per ottenere il suo scopo. Ha già funzionato nel creare caos comunicativo, distogliere l’attenzione dai veri temi strategici, mandare segnali impliciti ai protagonisti del conflitto e immettere un nuovo concetto nel dibattito internazionale. Come sempre, Trump non ha bisogno di vincere il dibattito: gli basta manipolare il discorso pubblico e spostarlo sul terreno che gli è più favorevole. Mentre giornalisti e analisti cadono nella sua trappola, lui continua a impostare l’agenda, lasciando agli altri il compito di rincorrerlo, indignarsi e perdere il filo della realtà.


Il problema dell’indignazione mondiale su una presunta “pulizia etnica” basata esclusivamente sulle frasi di un presidente, piuttosto che su fatti concreti e realtà tangibili, è che tutta quella furia morale si disperde nel nulla. Si grida allo scandalo, si lanciano accuse, si infiammano i social e i media, ma su cosa, esattamente? Su un’idea, su un’ipotesi, su una frase volutamente provocatoria, e non su eventi reali che possano dimostrarlo. L’indignazione si brucia da sola, svuotata della sua forza proprio perché non ancorata ai fatti, e finisce per essere sterile, inefficace, persino controproducente.


Il risultato è che quando – e se – una pulizia etnica reale dovesse verificarsi, la credibilità di chi ha gridato al lupo senza prove sarà ormai compromessa. Questo è il grande cortocircuito del giornalismo di pancia e dell’attivismo travestito da analisi: si spara tutta la propria indignazione nel nulla di un evento mai avvenuto, mentre le vere tragedie, quelle documentabili, finiscono per passare in secondo piano o, peggio, per essere equiparate a polemiche costruite sul vuoto. Così, il dibattito si riduce a una guerra di slogan, mentre la realtà – quella vera – resta sullo sfondo, ignorata.