mercoledì 19 febbraio 2025

IL GIOCO DEL MONDO (RAYUELA) Julio Cortázar

 

IL GIOCO DEL MONDO (RAYUELA)

Julio Cortázar

Recensione

P.b.

 [..] Mi guardi, mi guardi da vicino, ogni volta più vicino e allora giochiamo al ciclope, ci guardiamo ogni volta più da vicino e gli occhi ingrandiscono, si avvicinano fra loro, si sovrappongono e i ciclopi si guardano, respirando confusi, le bocche si incontrano e lottano tepidamente, mordendosi con le labbra, appoggiando appena la lingua sui denti, giocando nei loro recinti dove un’aria pesante va e viene con un profumo vecchio e un silenzio.

Allora le mie mani cercano di affondare nei tuoi capelli, carezzare lentamente la profondità dei tuoi capelli mentre ci baciamo come se avessimo la bocca piena di fiori o di pesci, di movimenti vivi, di fragranza oscura. E se ci mordiamo il dolore è dolce, se soffochiamo in un breve e terribile assorbire simultaneo del respiro, questa istantanea morte è bella. E c’è una sola saliva e un solo sapore di frutta matura, e io ti sento tremare stretta a me come una luna nell’acqua.[...]

 Cortázar inizia la sua descrizione con l’incontro degli sguardi, un processo che si avvicina gradualmente fino a diventare quasi irreale....irreale.  Una delle descrizioni più intense e sensoriali dell’atto del bacio mai scritte nella letteratura. La scrittura di Cortázar è avvolgente, ritmica, quasi ipnotica Un’esperienza amorosa che trascende la fisicità per diventare quasi metafisica.

...giochiamo al ciclope....Il gioco al ciclope è un’espressione metaforica che sottolinea il progressivo annullamento della distanza tra gli amanti, fino a quando gli occhi sembrano fondersi in un unico sguardo.

Recensione 

Vale Flip

Di primo acchito. Vivere un tempo inconsapevole. Stranieri, trapiantati, affamati di tutto. Tutto nuovo, tutto da imparare, da sperimentare inconsciamente, alla ventura, accogliendo i relitti che porta il mare. Questo è quello che ho colto, che mi ha colpita. 

È una fase della vita, che succede in "qualche" vita, in cui il tempo scorre tra le mani, in cui non hai un indirizzo preciso, ma sai che sei alla ricerca, di un centro, un punto di coagulo, un nucleo generatore.

Lei, la Maga, inconsapevole e infinita per lui.

Lui, Oliveira, che vagheggia il "kibbutz del desiderio", "unicamente per il desiderio di creare un contatto dal lato giusto, di reinventare l'amore come unico modo di entrare un giorno nel suo kibbutz ".

Sono strani i percorsi della nostra mente, infinite le possibilità, molto varie le storie che noi raccontiamo a noi stessi ed imprevedibili i risultati che ne derivano. Di questo si tratta, di una mente sempre in fermento (Oliveira) e di un gruppo di amici che , bene o male, gli fanno il controcanto. E poi un amore, tutt'altro che usuale. È vero, a questo siamo ormai abituati, abbiamo letto Bukowsky, però...

Un argentino, mente da poeta e un po' filosofo, incontra a Parigi una singolare donna uruguaiana. Vivono insieme, almeno per un po', e lasciano scorrere la vita, i giorni, i pensieri. Non hanno progetti per il futuro, né inibizioni, né remore; hanno una loro maniera di andare alla deriva. Succede qualcosa di grave, imprevisto; e lei sparisce, e lui ritorna in patria ai vecchi amici, alle vecchie abitudini. Lei è perduta. O quasi , perché ritorna come ossessione della mente di lui, che credeva di considerarla cosa di poco conto. Invece la realtà di questa assenza presente finisce col tracimare e lui la ritrova in uno sguardo, un gesto, un sorriso d'altre. È complicato da spiegare, è il suo tormento, che si riaffaccia pur tra le reiterate, inutili incombenze del vivere quotidiano. Senza soluzione.

La stesura/lettura prevede due momenti: una storia iniziale in cui si segue nella lettura l'ordine dei capitoli, ed una parte, se vogliamo, accessoria che con i primi capitoli ne interseca altri, in un ordine segnato precisamente dall'autore, a salti. Perché sotteso c'è, da parte dell'autore, il proposito di fornire nuove vie, una diversa apertura rispetto al romanzo svolto in maniera tradizionale. La seconda parte spiega e non spiega, disserta a vuoto, si perde e a volte offre schiarite di luce.

Romanzo intrigante, scrittura brillante, accesa.

E no, non è propriamente un romanzo d'amore, anche se questa è la chiave nascosta.

Il gioco del mondo? Compare e ricompare come sfida tra sé e sé. È quel gioco che una volta si faceva nei cortili, disegnando con il gesso, sul pavimento, uno schema di 10 caselle poi cercando di percorrere tutte, spingendo su ognuna un piccolo sasso piatto e saltando su un piede solo.

" Between midnight and dawn, baby, we may ever have to part

But there's one thing about it, baby, please remember I've always been your heart" 

Jonny Temple (cit.)


IL GIOCO DEL MONDO 

(capitoli 1-10)

Sorretto dalla speranza di essere particolarmente utile alla gioventù, e di contribuire alla riforma dei costumi in generale, ho formato la presente raccolta di massime, consigli e precetti, che sono la base di quella morale universale, sì atta alla felicità spirituale e temporale di tutti gli uomini di qualsiasi età, stato e condizione, e alla prosperità e buon ordine, non soltanto della repubblica civile e cristiana nella quale viviamo, ma di qualsiasi altra repubblica o governo che i filosofi maggiormente speculativi e profondi dell’orbe prendono ad argomento del proprio filosofare.

Spirito della Bibbia e Morale Universale, tratta dall’Antico e Nuovo Testamento. Scritta in toscano dall’abate Martini con le citazioni a piè pagina: Tradotta in castigliano da un Clérigo Reglar della Congregazione di San Cayetano. Con licencia. Madrid: Por Aznar, 1797.

 

Ogni volta che giugne il frescolino, ovverossia nel mezzo dell’autunno, un uzzolo m’assale di pensare idee di tipo exentrico ed exotico, qual son per por esempio il gusto di tormi rondinella e volgermi e volare alli paesi ove fa caldo, oppur esser formica e ficcarmi ben ben nel dentro d’una buca e là mangiare i cibi conservati nell’estio, od anche una vipera come quelle del zologico, con tutti gli agi d’una gabbia di vetro col riscaldamento acciò non restino stecchite dal freddo, che è quanto capita ai poveri mortali che mai non ponno comprarsi vestimenta con quel che costano, né ponno riscaldarsi per mancanza di cherosene, mancanza di carbone, mancanza di legne, mancanza di petroleo ed anche mancanza di soldi, perché se invece ci hai i soldarelli uno può por piè nell’ostaria e ordinare una grappa che accidenti se non riscalda, occhio però ché abusar non deesi, poi che dall’abuso entra lo vissio e dallo vissio la degeneraz'fon di corpo et anco delle tare morali d’ogni homo, e quando in giuso si scende la fatai pendente manco d’ogni buona condotta in tutti i versi, niuno e niuni evitar potranno che quei tomboli nell'orribil secchio della spazzatura del discridito humano, e mai gli daran la mano acciò torlo di fora di dentro del fango immondo nel qual si va rivoltolando, né più né meno fosse un condor che in giuventude spiccavasi in corsa e volo dall’alta punta delle vette, ma vecchio cadde giùgiù qual bombardiere in picchiata cui manchia il motor della morale. E magari quel che vo scrivendo servaqualcuno acciò stia ben attento a quel che fa né in deinde si pentisca quando è tardi e al diabolo s’en vada tutto quanto per colpa sua! 

CESAR BRUTO, Quello che mi piacerebbe essere se non fossi quello che sono (capitolo Cane di San Bernardo).

 

Dall’altra parte

Rien ne vous 

tue un homme 

comme d’être

obligé de 

représenter un pays.

JACQUES VACHÉ, 

lettera a André Breton

1

Avrei incontrato la Maga? Tante volte mi era bastato affacciarmi, arrivando da rue de Seine, all’arco che dà sul quai de Conti, e appena la luce di cenere e di olivo sospesa sul fiume mi lasciava distinguere le forme, subito la sua figurina sottile si disegnava sul Pont des Arts, qualche volta muovendosi da una parte all’altra, qualche altra ferma contro la ringhiera di ferro, china sull’acqua. Ed era così naturale attraversare la strada, salire i gradini del ponte, penetrare nella sua sottile vita ed avvicinarmi alla Maga, che sorrideva senza sorpresa, convinta quanto me che incontrarsi per caso non era un caso nelle nostre vite, e che la gente che si dà appuntamenti precisi è la medesima che ha bisogno del foglio a righe per scriversi o che preme dal basso il tubetto del dentifricio.


Ma adesso lei non ci sarebbe stata, sul ponte. Il suo volto delicato dalla pelle quasi trasparente si affacciava forse ai vecchi portici del ghetto del Marais, forse stava chiacchierando con una venditrice di patate fritte o mangiando un salsicciotto caldo nel boulevard Sebastopol. Ad ogni modo salii sul ponte, e la Maga non c’era. Adesso la Maga non era neppure sulla mia strada, e per quanto conoscessimo i nostri indirizzi, ogni vuoto delle nostre due stanze di falsi studenti a Parigi, ogni cartolina come una finestrella Braque o Ghirlandaio o Max Ernst stretta fra le povere modanature e la tappezzeria chiassosa, nonostante questo non saremmo andati a cercarci in casa. Preferivamo incontrarci sul ponte, al tavolino di un caffè, in un cineforum o curvi su un gatto in un qualsiasi cortile del quartiere latino. Camminavamo senza cercarci pur sapendo che camminavamo per incontrarci. Oh, Maga, a ogni donna che ti somigliava s’addensava intorno un silenzio assordante, una pausa tagliente e cristallina che finiva per crollare tristemente, come un ombrello bagnato che si chiuda. Proprio un ombrello, Maga, forse ricorderai quel vecchio ombrello che sacrificammo in un fossato del Parc Montsouris, in un gelido tramonto di marzo. Lo gettammo via perché lo avevi trovato in place de la Concorde, già un po’ rotto, e lo usasti moltissimo, soprattutto per infilarlo nelle costole della gente sul metrò o sugli autobus, sempre goffa e distratta, sempre con la testa per aria o attenta al disegno che due mosche tracciavano sul tetto dell’auto, e quella sera cadde un acquazzone e tu volesti aprire orgogliosa il tuo ombrello quando entrammo nel parco, e nella tua mano scoppiò un cataclisma di freddi fulmini e nuvole nere, brandelli di stoffa lacerata cadevano fra lampi di stecche sgangherate, e ridevamo come matti mentre ci bagnavamo, pensando che un ombrello trovato in una piazza doveva morire degnamente in un parco, non poteva entrare nell’immondo ciclo del secchio della spazzatura o dello scolo di un marciapiede; allora io lo arrotolai meglio che potei, lo portammo nella parte alta del parco, vicino alla passerella sopra la ferrovia e di là lo lanciai con tutte le mie forze in fondo al fossato di erba bagnata mentre tu emettevi un grido nel quale credetti di riconoscere vagamente un’imprecazione di valchiria. E giù nel fosso affondò come vascello che soccomba all’acqua verde, all’acqua verde e procellosa, a la mer qui est plus félonesse en été qu’en hiver, all’onda perfida, Maga, secondo enumerazioni lungamente particolareggiate da noi innamorati di Joinville e del parco, abbracciati e simili ad alberi bagnati o ad attori di una qualsivoglia pessima pellicola ungherese. E restò fra l’erba, minimo e nero, come un insetto calpestato. E non si muoveva, nessuna delle sue molle scattava come prima. Finito. Basta. Oh Maga, e noi non eravamo contenti.


Che cosa venivo a fare io sul Pont des Arts? Mi sembra che quel giovedì di dicembre avessi pensato di portarmi sulla riva destra e di bere del vino nel piccolo caffè della rue des Lombards dove Madame Léonie mi legge il palmo della mano e mi annuncia viaggi e sorprese. Non ti ho mai portata da Madame Léonie a farti leggere la mano, forse avevo paura che scorgesse nella tua mano qualche verità su di me, perché sei sempre stata un terribile specchio, una spaventosa macchina di ripetizioni, e ciò che chiamavamo amarci forse fu che io ero in piedi davanti a te, con un fiore giallo in mano, e tu reggevi due candele verdi e il tempo soffiava contro i nostri volti una lenta pioggia di rinunce e addii e biglietti di metrò. Per questo non ti ho mai portata da Madame Léonie, Maga; e so, tu me lo dicesti, che a te non piaceva che io ti vedessi entrare nella piccola libreria di rue de Verneuil, dove un vecchio affaticato fa migliaia di schede e sa tutto quel che si può sapere sulla storiografia. Andavi là per giocare con un gatto, e il vecchio ti lasciava entrare e non ti faceva domande, contento se qualche volta gli sporgevi uno dei libri degli scaffali più alti. E ti scaldavi alla sua stufa dal grande tubo nero e non ti piaceva che io sapessi che andavi a metterti accanto a quella stufa. Ma tutto ciò lo si sarebbe detto al momento giusto, solo che era difficile individuare con esattezza il momento di una cosa, e persino adesso, con i gomiti appoggiati al ponte, vedendo passare una barca color vinaccia, bellissima come uno scarafaggio lucente di pulizia, con una donna dal grembiule bianco che stende la biancheria su un filo a prua, guardando quei finestrini dipinti di verde con tendine alla Hansel e Gretel, persino adesso, Maga, mi stavo domandando se questo giro aveva un senso, dato che per arrivare alla rue des Lombards mi sarebbe convenuto di più attraversare il Pont Saint-Michel e il Pont au Change. Ma se fossi stata lì, quella sera, come tante altre volte, io avrei saputo che quel giro aveva un senso, mentre ora avvilivo il mio insuccesso chiamandolo giro. Si trattava, dopo aver alzato il collo della giacca a vento, di continuare lungo le banchine fino a entrare in quella zona dai grandi negozi che finisce allo Châtelet, passare sotto l’ombra violacea della torre di Saint-Jacques e risalire la mia strada pensando che non ti avevo incontrata e a Madame Léonie.


So che un giorno arrivai a Parigi, so che per un certo periodo vissi vite altrui, facendo quel che fanno gli altri e vedendo quel che gli altri vedono. So che uscivi da un caffè di rue du Cherche-Midi e che ci parlammo. Quel pomeriggio tutto andò male, perché le mie abitudini argentine mi vietavano di passare continuamente da un marciapiede all’altro per guardare le cose più insignificanti nelle vetrine debolmente illuminate di non ricordo più quali strade. Ti seguivo, allora, di malavoglia, trovandoti petulante e maleducata, finché ti stancasti di non essere stanca e ci infilammo in un caffè di Boul’ Mich’ e all’improvviso, fra due croissants mi raccontasti gran parte della tua vita.


Come potevo sospettare che ciò che sembrava una grossa bugia fosse vero, un Figari con viole del tramonto, con volti lividi, con fame e botte negli angoli. Più tardi ti credetti, più tardi ci fu la spiegazione, ci fu Madame Léonie che leggendo la mia mano che aveva dormito con i tuoi seni mi ripeté quasi le tue stesse parole. «Quella donna porta in sé una sofferenza. Ha sempre sofferto. È molto allegra, adora il giallo, il suo uccello è il merlo, la sua ora la notte, il suo ponte il Pont des Arts». (Una barca color vinaccia, Maga, ma perché non ci siamo saliti quando eravamo ancora in tempo).


E bada che ci conoscevamo appena e già la vita ordiva quanto era necessario per farci allontanare minuziosamente. Siccome non sapevi fingere, mi accorsi subito che per vederti come volevo io era necessario cominciare col chiudere gli occhi, e allora, prima, cose come stelle gialle (che si muovevano in una gelatina di velluto) poi rossi salti dell’umore e delle ore, lento ingresso in un mondo-Maga che era fatto di goffaggine e confusione ma anche di felci con la firma del ragno Klee, del circo Mirò, degli specchi di cenere di Vieira da Silva, un mondo in cui ti muovevi come un cavallo degli scacchi che si muovesse come una torre che si muovesse come un alfiere. E allora in quei giorni andavamo ai cine-forum a vedere film muti, perché io con la mia cultura, non è vero, e tu poverina non capivi assolutamente niente di quello stridore convulsamente giallo previo alla tua nascita, quell’emulsione striata su cui correvano i morti; ma all’improvviso ecco Harold Lloyd e allora ti scrollavi di dosso l’acqua del sonno e alla fine ti convincevi che era stato tutto bellissimo, e Pabst e Fritz Lang. M’infastidivi un pochino con la tua mania di perfezione, con le tue scarpe scalcagnate, con il tuo rifiuto di accettare l’accettabile. Mangiavamo hamburger nel carrefour de l’Odéon, e andavamo in bicicletta a Montparnasse, in un albergo qualsiasi, un guanciale qualsiasi. Altre volte, però, proseguivamo fino alla Porte d’Orléans, conoscevamo sempre meglio la zona di terreni incolti oltre il boulevard Jourdan, dove qualche volta a mezzanotte si riunivano quelli del Club del Serpente per parlare con un veggente cieco, paradosso stimolante. Lasciavamo le biciclette per strada e c’inoltravamo un pochino fermandoci a guardare il cielo perché quella è una delle poche zone di Parigi dove il cielo vale più della terra. Seduti su un mucchio di rifiuti ci mettevamo a fumare, e la Maga mi carezzava i capelli o canticchiava motivi neppure inventati, assurde melopee interrotte da sospiri o da ricordi. Io ne profittavo per pensare a cose inutili, metodo che avevo cominciato ad adottare anni addietro in un ospedale e che mi sembrava sempre più fecondo e necessario. Con grandissimo sforzo, riunendo immagini ausiliarie, pensando a odori o facce, riuscivo ad estrarre dal nulla un paio di scarpe marrone che avevo portato a Olavarrìa nel 1940. Avevano i tacchi di gomma, le suole molto sottili, e quando pioveva mi entrava l’acqua fin dentro l’anima. Con quel paio di scarpe nella mano del ricordo, il resto veniva da sé: la faccia della signora Manuela, per esempio, o il poeta Ernesto Morroni. Ma li respingevo perché il gioco consisteva nel recuperare soltanto ciò che era insignificante, non in mostra, consumato. Tremando per non essere capace di ricordare, aggredito dal tarlo che propone il rinvio, rimbecillito a forza di baciare il tempo, finivo col vedere accanto alle scarpe una lattina di Tè Sole che mia madre mi aveva dato a Buenos Aires. Il cucchiaino per il tè, cucchiaio-trappola dove quei sorcetti neri bruciavano vivi nella tazza d’acqua emettendo striduli gorgoglii. Convinto che il ricordo abbraccia tutto e non soltanto le Albertine e le grandi effemeridi del cuore e dei reni, mi ostinavo a ricostruire il contenuto del mio scrittoio a Floresta, la faccia di una ragazza impossibile da ricordare di nome Gekrepten, il numero dei pennini a spatola dentro l’astuccio di quinta elementare, e finivo per tremare talmente e disperarmi (perché mai ho potuto ricordarmi di quelle penne, so che stavano nell’astuccio, in una tasca speciale, ma non ricordo quante fossero e neppure posso precisare il momento esatto in cui dovettero essere due o sei), fin quando la Maga, baciandomi e lanciandomi in faccia il fumo della sigaretta e il suo alito caldo mi riportava alla realtà e ridevamo, riprendevamo a camminare fra i mucchi dei rifiuti, cercando quelli del Club. A quel punto mi ero accorto che cercare era il mio destino, l’emblema di coloro che escono la notte senza alcuna precisa intenzione, lo scopo degli assassini di bussole. Con la Maga parlavamo di patafisica fino all’esaurimento, perché anche a lei capitava (e il nostro incontro consisteva in questo e in tante altre cose oscure come il fosforo) di cadere continuamente nelle eccezioni, di trovarsi fino al collo in caselle che non erano di tutti, e questo senza disprezzare nessuno, senza sentirci dei Maldoror in liquidazione o dei Melmoth privilegiatamente erranti. Non mi pare che la lucciola si attribuisca maggior importanza per il fatto incontrovertibile d’essere una delle meraviglie più spettacolari di questo circo, e tuttavia è sufficiente supporre in essa una coscienza per capire che ogni volta che le si accende il pancino l’insetto di luce deve sentire come un solletico di privilegio. Nello stesso modo la Maga amava tutti gli inverosimili guai in cui si trovava fino al collo per via del fallimento d’ogni legge nella sua vita. Era di quelle che fanno crollare i ponti quando li attraversano, o che si ricordano fra strilli e pianti di aver visto in una vetrina il biglietto della lotteria vincitore dei cinque milioni. Da parte mia, mi ero ormai abituato al fatto che mi capitassero cose modestamente eccezionali, e non trovavo troppo orribile che entrando in una stanza al buio per prendere un 33 giri, sentissi brulicare nel palmo della mano il corpo vivo d’un centopiedi gigante che aveva scelto di dormire sulla copertina del disco. Questo, e trovare dei pelacci grigi o verdi in un pacchetto di sigarette, o sentire il fischio di una locomotrice esattamente nel momento e con il tono necessario per incorporarsi ex officio in un passaggio di una sinfonia di Ludwig van, o entrare in una pissotière di rue de Médicis e vedere un uomo intento ad orinare diligentemente fino al momento in cui, allontanandosi dal suo settore, si girava verso di me e mi mostrava, sostenendolo con il palmo della mano, come un oggetto liturgico e prezioso, un membro di dimensioni e colori incredibili, e nello stesso attimo accorgermi che quell’uomo era esattamente uguale a un altro (anche se non era quell’altro) che ventiquattro ore prima, nella Salle de Géographie, aveva dissertato su totem e tabu1, ed aveva mostrato al pubblico, sostenendoli bellamente sul palmo della mano, bacchette d’avorio, piume di uccelli del paradiso, monete rituali, fossili magici, stelle di mare, pesci disseccati, fotografie di concubine reali, offerte di cacciatori, enormi scarabei imbalsamati che facevano fremere di spaventata delizia le immancabili signore.


Insomma, non è facile parlare della Maga che a quest’ora sta certamente girando per Belleville o per Pantin, intenta a guardare per terra fin quando non abbia trovato qualcosa di rosso. Se non lo trova continuerà così per tutta la notte, frugherà nei secchi della spazzatura, gli occhi vitrei, convinta che qualcosa d’orrendo le capiterà se non troverà quel pegno del riscatto, indice di perdono o di rinvio. So cosa significa perché anch’io obbedisco a questi segni, ci sono volte in cui anch’io devo trovare uno straccetto rosso. Fin da bambino, appena mi cade per terra qualcosa devo tirarlo su, qualunque cosa sia, perché se non lo faccio capiterà una disgrazia, non a me ma a qualcuno cui voglio bene, e il cui nome comincia con l’iniziale dell’oggetto caduto. Il guaio è che niente può trattenermi quando qualcosa mi cade per terra, e non vale che sia un altro a raccoglierlo perché il maleficio agirebbe ugualmente. Per questa ragione sono passato molte volte per pazzo e la verità è che sono preso da follia quando agisco così, quando mi precipito a raccattare una matita o un pezzetto di carta che mi sia scivolato di mano, come la sera della zolletta di zucchero nel ristorante di rue Scribe, un ristorante elegante frequentato da dirigenti, da puttane con la volpe argentata e da coppie bene assortite. Eravamo con Ronald ed Etienne, e a me cadde una zolletta di zucchero che andò a finire sotto un tavolo abbastanza lontano dal nostro. La prima cosa che attirò la mia attenzione fu il modo con cui la zolletta si era allontanata, perché in generale le zollette di zucchero s’immobilizzano appena toccano terra per ragioni parallelepipede evidenti. Ma quella si comportava come se fosse stata una pallina di naftalina, cosa che aumentò la mia apprensione, e giunsi a credere che veramente me l’avessero strappata di mano. Ronald, che mi conosce, guardò verso il punto dove era andata a fermarsi la zolletta, e cominciò a ridere. Questo mi fece ancor più paura, insieme a rabbia. Un cameriere si avvicinò pensando che mi fosse caduto qualcosa di prezioso, una Parker o una dentiera, ottenendo solo d’infastidirmi, per cui, senza chiedere scusa, mi gettai a terra e cominciai a cercare la zolletta di zucchero fra le scarpe della gente che se ne stava con grande curiosità (e a ragione) credendo che si trattasse di qualcosa di importante. Al tavolo era seduta una cicciona con i capelli rossi, un’altra meno grassa ma altrettanto puttana, e due dirigenti o qualcosa di simile. Innanzi tutto mi resi conto che la zolletta era invisibile, e dire che l’avevo vista saltare fino a quelle scarpe (che si muovevano inquiete come galline). Per colmo di disgrazia c’era il tappeto, e sebbene facesse schifo tanto era usato, la zolletta era dovuta andare a nascondersi fra i peli, ma non riuscivo a trovarla. Il cameriere si distese dall’altra parte del tavolo, ed ormai eravamo due quadrupedi che si muovevano fra le scarpe-gallina che lassù cominciavano a starnazzare come pazze. Il cameriere continuava ad essere convinto della Parker o del Luigi d’oro, e quando eravamo ormai infilati sotto il tavolo, in una specie di grande intimità e penombra, e lui mi domandò e io risposi, fece una faccia che era da spruzzare con un fissatore, ma io non avevo nessuna voglia di ridere, la paura mi aveva chiuso a doppio giro la bocca dello stomaco e infine fui preso da una vera disperazione (il cameriere si era alzato furibondo) e cominciai ad afferrare le scarpe delle donne e a guardare se sotto l’arco della suola non si fosse acquattata la zolletta, e le galline starnazzavano, i galli dirigenti mi beccavano la schiena, sentivo le risate di Ronald e di Etienne mentre mi spostavo da un tavolo all’altro fin quando non ebbi trovato lo zucchero nascosto dietro una gamba Secondo Impero. E tutti quanti furibondi, persino io con lo zucchero stretto nel palmo della mano, sentendo in qual modo si mescolava al sudore della pelle, in qual modo, schifosamente, si scioglieva in una sorta di vendetta appiccicosa, questo genere di episodi tutti i giorni.

(-2)

2

 


 


 


In principio, qui, era stato come un salasso, delle percosse ad uso interno, una necessità di sentire lo stupido passaporto dalla copertina azzurra nella tasca della giacca, la chiave dell’albergo ben appesa al chiodo del pannello. La paura, l’ignoranza, l’offuscamento. Questo si chiama così, questo si chiede così, adesso quella donna sorriderà, oltre quella strada incomincia il Giardino Botanico. Parigi, una cartolina con un disegno di Klee accanto ad uno specchio sporco. La Maga era comparsa una sera in rue du Cherche-Midi, quando saliva nella mia stanza di rue de la Tombe Issoire portava sempre un fiore, una cartolina Klee o Mirò, e se non aveva soldi sceglieva una foglia di platano del parco. In quell’epoca io raccattavo fili e cassette vuote nelle strade dell’alba e fabbricavo mobiles, profili che giravano sui caminetti, aggeggi inutili che la Maga mi aiutava a dipingere. Non eravamo innamorati, facevamo l’amore con un virtuosismo distaccato e critico, ma poi cadevamo in terribili silenzi e la spuma dei bicchieri di birra diventava come la stoppa, si intiepidiva e si restringeva mentre ci guardavamo e sentivamo che quello era il tempo. La Maga finiva per alzarsi e girava più volte e inutilmente per la stanza. Più di una volta la vidi ammirare il suo corpo nello specchio, prendersi i seni con le mani come le statuette siriane e far scorrere gli occhi sulla pelle come una lenta carezza. Mai potei resistere al desiderio di chiamarla vicino a me, sentirla cadere a poco a poco su di me, sdoppiarsi di nuovo dopo esser stata per un attimo tanto sola e tanto innamorata di fronte all’eternità del suo corpo.


In quell’epoca non parlavamo molto di Rocamadour2, il piacere era egoista e s’imbatteva su di noi gemendo con la sua stretta fronte, ci legava con le sue mani piene di sale. Giunsi ad accettare il disordine della Maga come naturale condizione d’ogni attimo, passavamo dall’evocazione di Rocamadour a un piatto di spaghetti riscaldati, mescolando vino birra e limonata, scendendo di corsa perché la vecchia dell’angolo ci aprisse due dozzine di ostriche, suonando sul piano screpolato di Madame Noguet melodie di Schubert e preludi di Bach, o tollerando Porgy and Bess grazie alle bistecche ai ferri e ai cetrioli arrostiti. Il disordine in cui vivevamo, ossia l’ordine per cui un bidè si va trasformando per azione lenta e naturale in discoteca ed in archivio di corrispondenza da evadere, mi sembrava una disciplina necessaria anche se non volevo confessarlo alla Maga. Mi ci era voluto assai poco per capire che alla Maga non si doveva proporre la realtà in termini di metodo, l’elogio del disordine l’avrebbe scandalizzata tanto quanto la sua condanna. Per lei, il disordine non esisteva, lo seppi nell’attimo stesso in cui scopersi il contenuto della sua borsetta (in un caffè di rue Réaumur, pioveva e cominciavamo a desiderarci), mentre io lo accettavo, e lo assecondavo dopo averlo identificato; di svantaggi del genere erano fatti i miei rapporti con quasi tutti, e quante volte, sdraiato su un letto sfatto da molti giorni, sentendo piangere la Maga perché sulla metropolitana un bambino l’aveva riportata con il ricordo a Rocamadour, o vedendola pettinarsi dopo aver trascorso il pomeriggio davanti al ritratto di Eleonora d’Aquitania con una voglia pazza di somigliarle, mi veniva in mente, come una sorta di rutto mentale, che tutto quell’abicì della mia vita era una penosa stupidaggine perché limitata a un mero movimento dialettico, alla scelta di una incondotta invece di una condotta, di una modica indecenza invece di una decenza gregaria. La Maga si pettinava, si spettinava, tornava a pettinarsi. Pensava a Rocamadour, cantava una cosa di Hugo Wolf (male), mi baciava, mi domandava della sua acconciatura, si metteva a disegnare su un foglietto giallo, e tutto questo era indissolubilmente lei mentre io, là, in un letto deliberatamente sporco, bevendo una birra deliberatamente tiepida, ero sempre io e la mia vita, io con la mia vita fronte a fronte con la vita degli altri. Ma ero ugualmente abbastanza orgoglioso di essere un perdigiorno cosciente, e al di sotto di lune e lune, di innumerevoli peripezie in cui la Maga e Ronald e Rocamadour e il Club e le strade e i miei malanni morali e altre piorree, e Berthe Trépat e qualche volta la fame e il vecchio Trouille che mi toglieva dai pasticci, al di sotto di notti vomitate di musica e tabacco e piccole meschinerie e traffici d’ogni genere, sia al di sotto o al di sopra di tutto questo non avevo voluto fingere, come i soliti bohémien, che quel caos tascabile fosse un ordine superiore dello spirito o qualsiasi altra definizione parimenti marcia, e neppure avevo voluto ammettere che bastasse un po’ di decenza (decenza, figliolo!) per uscirne, da tutto quel cotone macchiato. E così mi ero imbattuto nella Maga, mio testimone e mia spia senza saperlo, e nell’irritazione di star pensando a tutto questo e sapendo che come sempre mi costava molto meno pensare che essere, e che nel mio caso l'ergo della solita frase non era poi così ergo né roba simile, con tutto ciò ce ne andavamo così per la riva sinistra, la Maga senza sapere di essere la mia spia e il mio testimone, con straordinaria ammirazione delle mie disparate cognizioni e del mio dominio della letteratura e persino del jazz cool, misteri più che enormi per lei. E per via di tutte queste cose io mi sentivo antagonicamente vicino alla Maga, ci amavamo in una dialettica di calamita e limaglia, di attacco e di difesa, di pelota e di muro. Suppongo che la Maga si facesse delle illusioni sul mio conto, forse credeva che fossi al di sopra dei pregiudizi o che stessi passando ai suoi, almeno più volubili e poetici. In pieno appagamento precario, in piena falsa tregua, tesi la mano e toccai il gomitolo Parigi, la sua materia infinita avviluppante se stessa, il magma dell’aria e di quanto si disegnava nella finestra, nuvole e abbaini; allora non c’era disordine, allora il mondo continuava ad essere qualcosa di pietrificato e di stabilito, un ingranaggio di elementi che girano sui loro stessi cardini, una matassa di strade e alberi e nomi e mesi. Non c’era un disordine che aprisse porte al riscatto, c’erano unicamente sporcizia e miseria, bicchieri con fondi di birra, calze in un angolo, un letto che puzzava di sesso e di capelli, una donna che mi passava una mano sottile e trasparente sulle cosce, ritardando la carezza che mi avrebbe strappato per breve tempo a quella vigilanza in pieno vuoto. Troppo tardi, sempre, perché anche se facevamo così tanto l’amore, la felicità doveva essere un’altra cosa, qualcosa forse più triste di questa pace e di questo piacere, un’aria forse di liocorno o di isola, una caduta interminabile nell’immobilità. La Maga non sapeva che i miei baci erano come occhi che cominciassero ad aprirsi oltre lei stessa, e che io ero come se fossi partito, ribaltato in un’altra immagine del mondo, pilota vertiginoso su una prua nera che tagliava le acque del tempo e le negava.


In quei giorni degli anni cinquanta e passa cominciai a sentirmi come messo alle strette fra la Maga e una nozione diversa di quanto avrebbe dovuto accadere. Era sciocco ribellarsi al mondo Maga e al mondo Rocamadour, quando tutto mi diceva che non appena avessi ricuperato l’indipendenza avrei smesso di sentirmi libero. Ipocrita come pochi, m’infastidiva uno spionaggio a livello della mia pelle, delle mie gambe, del mio modo di godere con la Maga, dei miei tentativi di pappagallo in gabbia che legge Kierkegaard attraverso le sbarre, e credo che soprattutto mi desse fastidio che la Maga non fosse cosciente di essere il mio testimone ed anzi fosse convinta della mia sovrana autarchia; eppure no, quel che davvero mi esasperava era sapere che mai mi sarei ritrovato tanto vicino alla mia libertà come in quei giorni in cui mi sentivo messo alle strette dal mondo Maga, e che l’ansia di liberarmi altro non era che ammettere la disfatta. Mi addolorava riconoscere che a base di colpi sintetici, di sventagliate manichee o di stupide dicotomie rinsecchite mai sarei riuscito a farmi strada lungo le scalinate della Gare de Montparnasse, dove la Maga mi trascinava per andare a trovare Rocamadour. Perché non accettavo quanto stava accadendo senza pretendere di spiegarlo, senza fondare le nozioni di ordine e di disordine, di libertà e di Rocamadour come colui che dispone i vasi di gerani in un cortile di via Cochabamba? Forse era necessario cadere a capofitto nella stupidità per imbroccare il saliscendi della latrina o del Giardino degli Olivi. Per il momento ero sbalordito che la Maga avesse potuto spingersi con la fantasia fino al punto di chiamare Rocamadour suo figlio. Al Club ci eravamo stancati di cercarvi una spiegazione, la Maga si limitava a dire che suo figlio si chiamava come il padre ma che, sparito il padre, era stato molto meglio chiamarlo Rocamadour e mandarlo in campagna per essere allevato en nourrice. A volte la Maga lasciava passare settimane intere senza parlare di Rocamadour, e questo coincideva sempre con le sue speranze di riuscire a diventare una cantante di lieder. Allora Ronald veniva e si metteva al piano con la sua testa rossa di cow-boy, e la Maga gargarizzava Hugo Wolf con una ferocia che faceva rabbrividire Madame Noguet, nella stanza accanto, intenta ad infilare perline di plastica da vendere nel banchetto del boulevard Sebastopol. Quando la Maga cantava Schumann ci piaceva abbastanza, ma tutto dipendeva dalla luna e da quel che avremmo fatto la sera, ed anche da Rocamadour, perché appena la Maga si ricordava di Rocamadour il canto andava a farsi benedire, e Ronald, solo al piano, aveva tutto il tempo di sviluppare le sue idee di bebop o di ucciderci dolcemente a forza di blues.


Non voglio scrivere di Rocamadour, almeno per oggi, avrei tanto bisogno di avvicinarmi meglio a me stesso, lasciar cadere tutto quanto mi separa dal centro. Finisco sempre coll’alludere al centro senza la minima garanzia di sapere quel che dico, cedo al facile tranello della geometria con cui si pretende di far ordine alla nostra vita di occidentali: Asse, centro, ragion d’essere, Omphalos, nomi della nostalgia indoeuropea. Anche questa esistenza che qualche volta cerco di descrivere, questa Parigi dove mi muovo come una foglia secca, non sarebbero visibili se dietro non palpitasse l’angoscia assiale, il rincontro con il fusto. Quante parole, quante nomenclature per uno stesso scompiglio. A volte mi convinco che la stupidità si chiama triangolo, che otto per otto è la follia o un cane. Stringendo la Maga, questa concrezione di nebulosa, penso che fare un pupazzetto con la mollica di pane abbia ugual significato che scrivere il romanzo che non scriverò mai o difendere con la vita le idee che redimono i popoli. Il pendolo compie il suo moto istantaneo e nuovamente mi trovo inserito nelle categorie tranquillizzanti: pupazzetto insignificante, romanzo trascendente, morte eroica. Li metto in fila, dal minore al maggiore: pupazzetto, romanzo, eroismo. Penso alle gerarchie di valori, così ben esplorate da Ortega, da Scheler: estetica, etica, religione. Religione, estetica, etica. Etica, religione, estetica. Il pupazzetto, il romanzo. La morte, il pupazzetto. La lingua della Maga mi fa il solletico. Rocamadour, l’etica, il pupazzetto, la Maga. La lingua, il solletico, l’etica.

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3

 


 


 


La terza sigaretta dell'insonnia bruciava fra le labbra di Horacio Oliveira seduto nel letto; una o due volte aveva passato lievemente la mano sui capelli della Maga addormentata contro di lui. Era l’alba del lunedì, avevano lasciato passare la sera e la notte della domenica leggendo, ascoltando dischi, alzandosi alternativamente per scaldare il caffè o preparare il mate. Durante il finale di un quartetto di Haydn la Maga si era addormentata e Oliveira, non avendo più voglia di ascoltare, staccò il giradischi stando a letto; il disco continuò a fare ancora qualche giro, senza che alcun suono ormai uscisse dall’altoparlante. Non sapeva perché, ma quella stupida inerzia gli aveva fatto pensare ai movimenti apparentemente inutili di certi insetti, di certi bambini. Non poteva dormire, fumava e guardava la finestra aperta, l’abbaino dove qualche volta un violinista gobbo studiava fino a tardi. Non faceva caldo, però il corpo della Maga gli scaldava la gamba e il fianco destro; si scostò a poco a poco, pensò che la notte sarebbe stata lunga.


Si sentiva benissimo, come ogni volta che la Maga e lui erano riusciti ad arrivare alla fine di un incontro senza cozzare e senza esasperarsi. Non gli importava gran che la lettera del fratello, soddisfatto avvocato di Rosario, che allegava quattro fogli di carta aerea sui doveri figliali e civili dissipati da Oliveira. La lettera era una vera squisitezza e l’aveva già fissata con lo scotch al muro perché gli amici l’assaporassero. L’unica cosa importante era la conferma di un invio di denaro tramite borsa nera, che il fratello definiva delicatamente «il corriere». Oliveira pensò che poteva comperare alcuni libri che aveva voglia di leggere, e che avrebbe dato tremila franchi alla Maga perché ne facesse quel che le veniva in mente, con ogni probabilità comprare un elefante di peluche dalle dimensioni quasi naturali per lo stupore di Rocamadour. In mattinata doveva andare dal vecchio Trouille per sbrigargli la corrispondenza con l’America latina. Uscire, fare, sbrigare, non erano cose che aiutassero ad addormentarsi. Sbrigare, che espressione.


Fare. Fare qualcosa, fare del bene, fare la pipì, far passare il tempo, l’azione in tutte le sue combinazioni. Ma dietro ad ogni azione si nascondeva la protesta, perché fare significava uscire da per arrivare a, o muovere qualcosa perché stesse qua e non là, o entrare in quella casa invece di non entrarci o entrare in quella accanto, ovvero in ogni atto era insita l’ammissione di una carenza, di qualcosa non ancora fatto e che era possibile fare, la protesta tacita di fronte alla continua evidenza della mancanza, della diminuzione, della pochezza del presente. Credere che l’azione potesse colmare, o che la somma delle azioni potesse realmente equivalere a una vita degna di questo nome, era un’illusione da moralista. Era meglio rinunciare, perché la rinuncia all’azione era la protesta medesima e non la sua maschera. Oliveira accese un’altra sigaretta, e quell’azione minima lo obbligò a sorridere fra sé ironicamente e a prendersi in giro seduta stante. Poco gli importavano le analisi superficiali, quasi sempre viziate da distrazione e trabocchetti filologici. L’unica certezza era il peso alla bocca dello stomaco, il sospetto fisico che qualcosa non andasse per il suo verso, che quasi mai fosse andato. Non era neppure un problema, ma un essersi negato fin dagli inizi alle menzogne collettive o all’astiosa solitudine di colui che si mette a studiare gli isotopi radioattivi o la presidenza di Bartolomé Mitre3. Se qualcosa aveva scelto fin da giovane era il non difendersi mediante la rapida e affannosa accumulazione di una «cultura», trucco per eccellenza della classe media argentina per sottrarre il corpo alla realtà nazionale e a qualsiasi altra ancora, e credersi al riparo dal vuoto che la circondava. Forse grazie a quella specie di fiacca metodica, come la definiva il suo compagno Traveler, si era sottratto al dovere di entrare in quell’ordine fariseo (nel quale militavano molti amici suoi, generalmente in buona fede perché anche questo era possibile, c’erano degli esempi), che evitava la sostanza dei problemi mediante una qualsiasi specializzazione, il cui esercizio conferiva ironicamente le più alte patenti di argentinità. Per il resto, gli pareva ingannevole e facile mescolare problemi storici come essere argentino o esquimese, con altri come quello dell’azione o della rinuncia. Aveva vissuto abbastanza per sospettare ciò che sfugge quasi sempre a tutti anche quando l’hanno sotto il naso: il peso del soggetto nella nozione dell’oggetto. La Maga era una delle poche persone che non dimenticavano mai che la faccia di uno influiva sempre sull’idea che poteva farsi del comunismo o della civiltà cretomicenea, e che la forma delle mani era presente in ciò che il loro padrone poteva sentire nei confronti del Ghirlandaio o di Dostoevskij. Per questo Oliveira era propenso ad ammettere che il suo gruppo sanguigno, l’aver trascorso l’infanzia attorniato da zii imponenti, alcuni amori contrastati nell’adolescenza e una certa facilità per l’astenia potevano essere fattori decisivi nella sua cosmovisione. Era borghese, era portegno, era collegio nazionale, e queste cose non cambiano così sui due piedi. Il guaio era che a forza di temere l’eccessiva localizzazione dei punti di vista, aveva finito per pesare e persino per accettare troppo il sì e il no di tutto, a guardare i piatti della bilancia tenendosi sull’ago. A Parigi, tutto era per lui Buenos Aires, e viceversa; all’apice dell’amore pativa e accettava la perdita e l’oblio. Attitudine perniciosamente comoda e addirittura facile, per poco che si trasformi in un riflesso e in una tecnica; la lucidità terribile del paralitico, la cecità dell’atleta perfettamente idiota. Si comincia a muoversi nella vita con il passo lemme lemme del filosofo o del clochard, riducendo sempre più i gesti vitali al mero istinto di conservazione, all’esercizio di una coscienza più attenta a non lasciarsi ingannare che ad afferrare la verità. Quietismo laico, atarassia moderata, attenta disattenzione. L’importante per Oliveira era assistere senza deliquio allo spettacolo di uno squartamento alla Tupac-Amarù4, a non incorrere nel povero egocentrismo (creolocentrismo, sobborgocentrismo, culturcentrismo, folklorcentrismo) che quotidianamente veniva proclamato attorno a lui in tutte le forme possibili. A dieci anni, in una sera di zii pontificanti sermoni storico-politici all’ombra di alcuni paradisi, aveva manifestato timidamente la sua prima reazione nei confronti del tanto ispanoitaloargentino «Glielo dico io!», accompagnato da un sonoro pugno ad uso d’iraconda ratificazione. Glielo dico io!5 Glielo dico io, cazzo! Quell’io, era riuscito a pensare Oliveira, quale valore probatorio aveva? L’io dei grandi, quale onniscienza evocava? A quindici anni si era accorto del «so soltanto che non so niente»; la cicuta concomitante gli era sembrata inevitabile, non si sfida a questo modo la gente, glielo dico io. Più tardi lo diverti comprovare in qual modo nelle forme superiori di cultura il peso dell’autorità e delle influenze, la fiducia nata dalle buone letture e dall’intelligenza, producano anch’esse il loro «glielo dico io», sottilmente dissimulato, anche per colui che lo proferiva: adesso subentravano i «ho sempre creduto che», «se di qualcosa sono certo è», «è evidente che», quasi mai compensati dalla valutazione spassionata del punto di vista opposto. Come se la specie vegliasse sull’individuo per non lasciarlo avanzare troppo nella via della tolleranza, del dubbio intelligente, della fluttuazione sentimentale. In un punto dato spuntava il callo, la sclerosi, la definizione: o nero o bianco, radicale o conservatore, omosessuale o eterosessuale, figurativo o astratto, la squadra San Lorenzo o quella di Boca Juniors, carne o verdura, affari o poesia. Ed era giusto, perché la specie non poteva fidarsi di individui come Oliveira; la lettera del fratello era esattamente l’espressione di questa ripulsa.


«Il guaio è, - pensò, - che tutto questo sfocia inevitabilmente nell'animula vagula blandula6. Che fare? Con questa domanda, ho cominciato a non dormire. Oblomov, cosa facciamo?7. Le grandi voci della Storia incitano all’azione: Hamlet, revenge! Ci vendichiamo, Amleto, o tranquillamente Chippendale8 e pantofole e un bel focherello? Il nazareno, in fin dei conti, lodò scandalosamente Marta, lo sappiamo benissimo. Dai battaglia, Arjuna9? Non puoi negare i valori, re tentenna. La lotta per la lotta, vivere pericolosamente, pensa a Mario l’Epicureo10, a Richard Hillary, a Kyo, a T. E. Lawrence... Beati coloro che scelgono, coloro che accettano d’essere gli eletti, i begli eroi, i bei santi, gli evasori perfetti».


Magari. Perché no? Ma poteva anche darsi che il suo punto di vista fosse quello della volpe che guarda l’uva. Ed anche, poteva darsi che avesse ragione, però una ragione meschina e deplorevole, una ragione da formica contro la cicala. Se la lucidità sfociava nell’inazione, non diventava sospetta, non nascondeva una forma particolarmente diabolica di cecità? La stupidità dell’eroe militare che salta con la miccia, eroico soldato Cabrai coperto di gloria, insinuava forse una visione superiore, un istantaneo affacciarsi a qualcosa d’assoluto, al di là di qualsiasi coscienza (non è questo che si può chiedere a un sergente) nei cui confronti la chiaroveggenza ordinaria, la lucidità da laboratorio, da sigaretta fumata a letto alle tre del mattino, erano meno efficaci di quelle di un topo.


Parlò di tutto questo alla Maga, che si era svegliata e si stava accoccolando contro di lui miagolando assonnata. La Maga aprì gli occhi, si mise a pensare.


- Tu non potresti, - disse. - Pensi troppo prima di fare una cosa.


- Parto dal principio che la riflessione deve precedere l’azione, stupidina.


- Parti dal principio, - disse la Maga. - Che complicato. Sei come un testimone, sei quello che va al museo e guarda i quadri. Voglio dire che i quadri sono là e tu sei nel museo, vicino e lontano nello stesso tempo. Io sono un quadro, Rocamadour è un quadro. Etienne è un quadro, questa stanza è un quadro. Tu credi di trovarti in questa stanza, ma non ci sei. Tu stai guardando la stanza, non sei nella stanza.


- Farebbe restar senza fiato san Tommaso, questa ragazza, - disse Oliveira.


- Perché san Tommaso? - disse la Maga. - Quello scemo che voleva vedere per credere?


- Sì, cara, - disse Oliveira, pensando che in fondo la Maga aveva azzeccato il santo giusto. Felice per lei che poteva credere senza vedere, che faceva corpo unico con la durata, la continuità della vita. Felice per lei che stava nella stanza, che aveva diritto di cittadinanza in tutto ciò che toccava e con cui conviveva, pesce nel fiume, foglia sull’albero, nuvola nel cielo, immagine nella poesia. Pesce, foglia, nuvola, immagine; esattamente questo, a meno che...

(-84)

4

 


 


 


E così avevano incominciato a passeggiare per una Parigi favolosa, lasciandosi guidare dai segni della notte, obbedendo a itinerari nati dalla frase di un clochard, da una mansarda illuminata in fondo a una strada nera, fermandosi nelle piazzette confidenziali per baciarsi sulle panchine o guardare i disegni del gioco del mondo, riti infantili del sassolino e del salto su un piede, per entrare zoppin zoppetta nel Cielo della Domenica. La Maga parlava delle sue amiche di Montevideo, degli anni dell’infanzia, di un certo Ledesma, di suo padre. Oliveira ascoltava distratto, un tantino spiaciuto di non potersi interessare; Montevideo era esattamente come Buenos Aires, e lui aveva bisogno di consolidare una rottura precaria (cosa stava facendo Traveler, quel gran perdigiorno, in quali impressionanti guai si era cacciato dopo la sua partenza? E quella povera scema di Gekrepten, e i caffè del centro), per questo ascoltava svogliato e disegnava sulla ghiaia con un ramoscello mentre la Maga spiegava perché Chempe e Graciela erano delle brave ragazze, e quanto le aveva fatto male che Luciana non fosse andata a salutarla all’imbarco, Luciana era una snob, e questo lei non poteva sopportarlo in nessuno.


- Cosa intendi per snob? - domandò Oliveira, più interessato.


- Ecco, - disse la Maga, chinando il capo come chi intuisce di star per dire una bestialità, - viaggiavo in terza classe, ma credo che se avessi preso la seconda, Luciana mi sarebbe venuta a salutare.


- Non ho mai sentito una definizione migliore, - disse Oliveira.


- E poi c’era Rocamadour, - disse la Maga.


Fu così che Oliveira seppe dell’esistenza di Rocamadour, che in Montevideo si chiamava modestamente Carlos Francisco. La Maga non si mostrava disposta a fornire troppi particolari sulla genesi di Rocamadour, a parte il fatto che si era rifiutata d’abortire e che adesso cominciava a esserne pentita.


- Ma in fondo non me ne pento, il problema è come vivrò. Madame Irène mi chiede molto, devo prendere lezioni di canto, e sono spese grosse.


La Maga non sapeva bene perché era venuta a Parigi, e Oliveira si era andato convincendo che con una leggera confusione in fatto di biglietti, agenzie di viaggio e visti, avrebbe potuto approdare tanto a Singapore quanto a Città del Capo; l'unica cosa importante era essere partita da Montevideo, aver affrontato ciò che lei chiamava modestamente «la vita». Il gran vantaggio di Parigi era che conosceva abbastanza il francese (tipo Berlitz School) e che si potevano vedere i migliori quadri, i migliori films, la Kultur nelle sue espressioni più preclare. Oliveira si sentiva intenerito da questo panorama (sebbene Rocamadour fosse stato un contrattempo abbastanza sgradevole, non sapeva perché), e pensava a certe brillanti amiche sue di Buenos Aires, incapaci di spingersi oltre Mar de la Piata nonostante tanta metafisica ansia d’esperienze planetarie. Quella mocciosa, con un figlio sulle braccia per di più, era salita su una terza di piroscafo, ed aveva tagliato la corda per studiare canto a Parigi, senza un centesimo in tasca. E come se niente fosse gli dava lezioni su come si guarda e si vede; lezioni che lei non sospettava, essendo il suo soltanto un certo modo di fermarsi improvvisamente per strada e sbirciare in un androne dove non c’era niente, ma più in là un barlume verde, un bagliore, ed allora infilarsi furtivamente perché la portinaia non si arrabbiasse, affacciarsi al grande cortile con qualche volta una vecchia statua o un pozzo con l’edera, o niente, solo il consunto pavimento di pietre tonde, muffa sui muri, un’insegna di orologiaio, un vecchietto che prendeva l’ombra in un angolo, e i gatti, sempre inevitabilmente i minouche morrongos maiumiau kitten kat chat cat gatto grigi e bianchi e neri e da immondezzaio, padroni del tempo e delle mattonelle tiepide, invariabili amici della Maga che sapeva far loro il solletico sulla pancia e rivolgersi a loro con un linguaggio fra lo sciocco e il misterioso, con appuntamenti a scadenza fissa, consigli e ammonimenti. Passeggiando con la Maga, di colpo Oliveira si sorprendeva, non gli serviva a niente irritarsi perché la Maga quasi sempre rovesciava i bicchieri di birra o tirava fuori il piede da sotto il tavolino esattamente in modo che il cameriere vi inciampasse e si mettesse a bestemmiare; era felice pur sentendosi costantemente esasperato da quel modo di non fare le cose come dovrebbero essere fatte, di ignorare deliberatamente le grosse cifre del conto e invece sentirsi rapita davanti alla coda di un modesto 3, o ferma in mezzo alla strada (la Renault nera frenava a due metri e l’autista tirava fuori la testa e insultava con accento piccardo), ferma come se niente fosse per guardare dal centro della via la vista sul Panteon in lontananza, sempre meglio della vista che se ne aveva dal marciapiede. E cose simili.


Oliveira conosceva già Perico e Ronald. La Maga gli presentò Etienne, e Etienne fece loro conoscere Gregorovius; il Club del Serpente si andò formando nelle notti di Saint-Germain-des-Prés. Tutti quanti accettavano immediatamente la Maga come una presenza inevitabile e naturale, anche se si irritavano perché le dovevano spiegare quasi tutto ciò di cui stavano parlando, o perché faceva volare due etti e mezzo di patate fritte in aria semplicemente perché incapace di maneggiare decentemente una forchetta e le patate fritte finivano quasi sempre fra i capelli di quelli del tavolo vicino, e bisognava chiedere scusa, o dire alla Maga che era una incosciente. All’interno del gruppo la Maga ingranava malissimo, Oliveira si rendeva conto che era meglio vedere tutti quelli del Club separatamente, andare a spasso con Etienne o con Babs, immetterli nel suo mondo senza mai pretendere di immetterli eppure immettendoli, perché erano persone che non stavano aspettando altro che di uscire dal solito percorso degli autobus e della storia, e così per un verso o per l’altro tutti quelli del Club erano riconoscenti alla Maga, anche se la coprivano d’insulti alla prima occasione. Etienne sicuro di sé come un cane o una cassetta delle lettere, diventava verde quando la Maga sparava una delle sue davanti al suo ultimo quadro, e persino Perico Romero aveva la compiacenza di ammettere che per-essere-una-donna-la-Maga-era-un-osso-duro. Per settimane o mesi (il computo dei giorni risultava difficile ad Oliveira, felice, ergo senza futuro) camminarono e camminarono per Parigi guardando le cose, lasciando che capitasse quel che doveva capitare, amandosi e bisticciando e tutto al margine delle notizie dei giornali, dei doveri di famiglia e di qualsiasi forma d’imposizione fiscale o morale.


Toc, toc.


- Svegliamoci, - diceva Oliveira ogni tanto.


- A che scopo, - rispondeva la Maga, guardando correre le péniches dal Pont Neuf. - Toc, toc, tu hai un uccellino nella testa. Toc, toc, ti becchetta dentro continuamente, vuole che gli dia da mangiare cibo argentino. Toc, toc.


- E va bene, - rimbrottava Oliveira. - Non mi confondere con Rocamadour. A questo passo finiremo per parlare in gliglico al negoziante o alla portinaia, vedrai che pandemonio. Guarda, il tizio che va dietro a quella moretta.


- Lei la conosco, lavora in un caffè di rue de Provence. Le piacciono le donne, quel disgraziato è suonato.


- Con te ha tentato, la moretta?


- Naturale. Ma poi siamo diventate amiche lo stesso, le regalai il mio rouge e lei mi diede un libretto di un certo Retef, no... aspetta, Retif...


- Sì, sì, ho capito. Davvero non siete andate a letto? Deve essere curioso per una donna come te.


- Non sei mai andato a letto tu, con un uomo, Horacio?


- Certo. L’esperienza, capisci?


La Maga lo guardava di sbieco, con il sospetto che la prendesse in giro, che tutto dipendesse dal fatto che era furente per l’uccellino nella testa, toc toc, l’uccellino che gli chiedeva cibo argentino. Allora si lanciava su di lui con grande sorpresa di una coppia che passeggiava per la rue Saint-Sulpice, ridendo lo spettinava, Oliveira era costretto a tenerla ferma per le braccia, cominciavano a ridere, la coppia li guardava e l’uomo arrischiava un sorriso, la moglie era troppo scandalizzata da quel modo di comportarsi.


- Hai ragione, - finiva per confessare Oliveira. - Sono incurabile, sai. Parlare di svegliarsi quando in fondo si sta così bene addormentati.


Si fermavano davanti a una vetrina per leggere i titoli dei libri. La Maga cominciava a far domande, guidata dai colori e dai formati. Era necessario dare una collocazione a Flaubert, dirle che Montesquieu, spiegarle come mai Raymond Radiguet, informarla su quando Théophile Gautier. La Maga ascoltava, disegnando con il dito sulla vetrina. «Un uccellino nella testa, vuole che gli dia da mangiare cibo argentino, - pensava Oliveira sentendosi parlare.


- Povero me, mamma mia».


- Ma non capisci che così non s’impara niente, - finiva per dirle. - Pretendi di farti una cultura per strada, cara, è impossibile. Piuttosto abbonati al «Reader’s Digest».


- Oh, no, quella porcheria.


Un uccellino nella testa, diceva a se stesso Oliveira. Non lei, lui. Ma lei, cosa aveva nella testa? Aria o farina, qualcosa di poco ricettivo. Non era nella testa che aveva il suo centro.


«Chiude gli occhi, - pensava Oliveira, - e fa centro. Esattamente il sistema zen per tirare con l’arco. Ma fa centro semplicemente perché non sa che quello è il sistema. Io invece... Toc, toc. E così andiamo avanti».


Quando la Maga faceva domande su questioni come la filosofia zen (cose che potevano capitare al Club, dove si parlava sempre di nostalgie, di sapienze tanto lontane da potersi credere fondamentali, di rovesci di medaglia, dell’altra faccia della luna sempre), Gregorovius si sforzava di spiegarle i rudimenti della metafisica mentre Oliveira sorbiva il suo pernod e li guardava assaporandoli. Era insensato voler spiegare qualcosa alla Maga. Fauconnier aveva ragione, per gente come lei il mistero comincia esattamente con la spiegazione. La Maga sentiva parlare di immanenza e trascendenza e spalancava quegli occhi incantevoli da stroncare ogni metafisica a Gregorovius. Alla fine arrivava a convincersi di aver capito lo Zen, e sospirava stanca. Soltanto Oliveira si accorgeva che la Maga si affacciava ad ogni istante a quelle grandi terrazze senza tempo che tutti loro cercavano dialetticamente.


- Non imparare dati stupidi, - le consigliava. - Perché vuoi metterti gli occhiali se non ne hai bisogno.


La Maga era un tantino diffidente. Ammirava terribilmente Oliveira ed Etienne, capaci di discutere tre ore senza mai fermarsi. Attorno ad Oliveira e a Etienne c’era come un cerchio di gesso, lei voleva entrare nel cerchio, capire perché il principio d’indeterminazione era così importante in letteratura, perché Morelli, del quale parlavano tanto e tanto ammiravano, aveva la pretesa di fare del suo libro una sfera di cristallo in cui il micro e il macrocosmo si unissero in una visione annichilante.


- Impossibile spiegarti, - diceva Etienne. - Questo è come il numero 7 del Meccano, e tu sei appena al numero 2.


La Maga ne rimaneva rattristata, acchiappava una fogliolina sull’orlo del marciapiedi, le parlava un po’, se la faceva passare sul palmo della mano, la coricava prima in su e poi in giù, la pettinava, finiva per spolparla e lasciarne allo scoperto le nervature, un delicato fantasma verde andava disegnandosi contro la sua pelle. Etienne gliela strappava di mano con gesto brusco e la metteva controluce. Per cose come questa la ammiravano, un po’ vergognandosi di essere stati tanto villani con lei, e la Maga ne profittava per chiedere un altro mezzo litro e se era possibile un po’ di patatine fritte.

(-71)

5

 


 


 


La prima volta era stato un albergo di rue Valette, stavano gironzolando da quelle parti fermandosi ogni tanto nei portoni, la pioggerella dopo pranzo è sempre amara, e si doveva far qualcosa contro quel pulviscolo gelato, contro quegli impermeabili che puzzavano di gomma, allora la Maga si strinse improvvisamente ad Oliveira e si guardarono imbambolati, HOTEL, la vecchia dietro al tignoso scrittoio li salutò comprensiva e che altro si poteva fare con quel tempo schifoso. Strascicava una gamba, era un’angoscia vederla salire fermandosi ad ogni scalino per far montare la gamba malata molto più grossa dell’altra, ripetere la manovra fino al quarto piano. C’era un odore molle di minestra, sul tappeto del corridoio qualcuno aveva versato un liquido turchino che disegnava come un paio di ali. La camera aveva due finestre con le tendine rosse, rammendate e piene di toppe; un’umida luce filtrava come un angelo fino sul letto dalla trapunta gialla.


La Maga aveva preteso innocentemente di far della letteratura, di restare accanto alla finestra fingendo di guardare in strada mentre Oliveira controllava la spagnoletta dell’uscio. Doveva avere uno schema prefabbricato di queste cose, o forse le succedevano sempre nello stesso modo, prima di tutto si lasciava la borsa sul tavolo, si cercavano le sigarette, si guardava la strada, si fumava aspirando a fondo, si faceva un commento sulla tappezzeria, si aspettava, evidentemente si aspettava, si compivano tutti i gesti necessari per far fare all’uomo la miglior figura, lasciargli quando era necessario l’iniziativa. A un certo momento si erano messi a ridere, era troppo stupido. Gettata in un angolo, la trapunta gialla restò come un pupazzo informe contro il muro.


Si abituarono a paragonare le trapunte, le porte, le lampade, le tende; le camere degli alberghi del cinquième arrondissement erano migliori di quelle del sixième per loro, nel septième non avevano fortuna, sempre capitava qualcosa, colpi nella camera accanto oppure tubi che mandavano un rumore lugubre, già in quell’epoca Oliveira aveva raccontato alla Maga la storia di Troppmann, la Maga ascoltava stringendosi a lui, era bene che leggesse il racconto di Turgenev, era incredibile tutto quel che avrebbe dovuto leggere in quei due anni (non si sapeva perché due), un altro giorno fu la volta di Petiot, e poi di nuovo Weidmann, e poi ancora di Christie, l’albergo finiva quasi sempre per far venire voglia di parlare di delitti, ma anche la Maga era improvvisamente invasa da una marea di serietà, domandava con gli occhi fissi sul soffitto se era vero che la pittura senese fosse tanto meravigliosa come affermava Etienne, se non era meglio fare economie per comperare un giradischi e le opere di Hugo Wolf, che a volte canticchiava interrompendosi a metà, senza memoria e furente. A Oliveira piaceva far l’amore con la Maga perché niente poteva essere più importante per lei e nello stesso tempo, in un modo difficilmente comprensibile, era come sottomessa al suo piacere, lo raggiungeva un istante e per questo vi aderiva disperatamente, lo prolungava, era uno svegliarsi e un conoscere il suo vero nome, e quindi ricadeva in una zona sempre un po’ crepuscolare che affascinava Oliveira, sempre timoroso di perfezioni, però la Maga soffriva davvero quando rientrava nei propri ricordi e in tutto ciò che oscuramente aveva bisogno di pensare e non poteva pensare, allora era necessario baciarla profondamente, incitarla a nuovi giochi, e l’altra, la riconciliata, cresceva sotto di lui e lo rapiva, si dava allora come una bestia frenetica, gli occhi perduti e le mani torte in dentro, mitica e atroce come una statua che rotola da una montagna, strappando il tempo con le unghie, fra singhiozzi e un rantolo lamentoso che durava interminabilmente. Una notte gli conficcò i denti, gli morse la spalla a sangue perché lui si lasciava andare di fianco, già un po’ perso, e vi fu un confuso patto senza parole, Oliveira sentì come se la Maga aspettasse da lui la morte, qualcosa in lei che non era il suo io sveglio, un’oscura forma reclamante annichilimento, la lenta coltellata supina che infrange le stelle della notte e restituisce lo spazio alle domande e ai terrori. Solo quella volta, resosi eccentrico quale un matador mitico, per il quale uccidere è restituire il toro al mare e il mare al cielo, vessò la Maga tutta una lunga notte di cui poco parlarono in seguito, la rese Pasifae, la piegò e la usò come se fosse un adolescente, la conobbe ed esigette da lei la servitù della più squallida puttana, la magnificò a costellazione, l’ebbe fra le braccia con sapore di sangue, le fece bere il seme che scorre per la bocca come una sfida al Logos, le succhiò l’ombra del ventre e del dorso e l’alzò fino al volto per ungerla di se medesima in un ultimo atto di conoscenza che solo l’uomo può dare alla donna, la esasperò con pelle e capelli e bava e gemiti, la svuotò fino allo stremo della sua forza magnifica, la gettò contro un cuscino e un lenzuolo e la sentì piangere di felicità contro il suo viso che una sigaretta restituiva alla notte della camera e dell’albergo.


Più tardi Oliveira temette che si credesse colmata, che i giochi presumessero di innalzarsi al sacrificio. Temeva soprattutto la riconoscenza nel suo aspetto più sottile, che si trasforma in affetto canino; non voleva che la libertà, unico abito che si addiceva pienamente alla Maga si perdesse in una diligente femminilità. Si tranquillizzò perché il ritorno della Maga al piano del caffè espresso e delle visite al bidè fu contraddistinto da una ricaduta nella peggiore delle confusioni. Maltrattata in assoluto durante quella notte, aperta a una porosità di spazio che pulsa e si espande, le prime parole su quest’altra sponda potevano necessariamente flagellarla, come fruste, ma il suo ritorno al bordo del letto, immagine di una progressiva costernazione che cerca di neutralizzarsi con sorrisi e una vaga speranza, lasciò particolarmente soddisfatto Oliveira. Dato che non l’amava, dato che il desiderio sarebbe finito (perché non l’amava, e il desiderio sarebbe finito), evitare come la peste ogni sorta di sacralizzazione dei giochi. Per giorni, per settimane, per alcuni mesi, ogni camera di albergo, ogni piazza, ogni posizione amorosa e ogni alba in un caffè dei mercati: circo feroce, operazione sottile e lucido bilancio. Si venne così a sapere che la Maga aspettava veramente che Horacio la uccidesse, e che quella morte doveva essere quella della fenice, l’ingresso nel concilio dei filosofi, ovvero le chiacchiere del Club del Serpente: la Maga voleva imparare, voleva i-stru-ir-si. Horacio era esaltato, chiamato, convocato alla funzione del sacrificatore lustrale, e siccome quasi mai si raggiungevano l’un l’altro perché in pieno dialogo erano tanto diversi e seguivano vie opposte (e questo lei lo sapeva, lo capiva benissimo), allora l’unica possibilità d’incontro era che Horacio la uccidesse nell’amore, là dove lei poteva ottenere d’incontrarsi con lui, nel cielo delle camere d’albergo si affrontavano alla pari e nudi, e là poteva consumarsi la resurrezione della fenice, dopo che lui l’avesse strangolata deliziosamente, facendole cadere un filo di bava nella bocca aperta, guardandola estatico come se incominciasse a riconoscerla, a renderla davvero sua, a trarla alla sua sponda.


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6

 


 


 


La tecnica consisteva nel darsi vagamente appuntamento in un quartiere e a una certa ora. A loro piaceva sfidare il pericolo di non incontrarsi, di trascorrere la giornata soli, avendo il muso in un caffè o sulla panchina di una piazza, leggendo-un-libro-in-più. La teoria del libro-in-più era di Oliveira, e la Maga l’aveva accettata per pura osmosi. In realtà per lei quasi tutti i libri erano libro-in-meno, avrebbe voluto essere presa da sete immensa e per un tempo infinito (calcolabile fra i tre e i cinque anni) leggere l’opera omnia di Goethe, Omero, Dylan Thomas, Mauriac, Faulkner, Baudelaire, Roberto Arlt, sant'Agostino e altri autori i cui nomi la facevano sussultare durante le conversazioni del Club. A questo Oliveira rispondeva alzando sdegnosamente le spalle, e parlava delle deformazioni rioplatensi, di una razza di lettori a fulltime, di biblioteche pullulanti di saputelle infedeli al sole e all’amore, di case dove l’odor d’inchiostro tipografico annullava l’allegria dell’aglio. A quei tempi leggeva poco, occupatissimo ad osservare gli alberi, i cordini che trovava per terra, le gialle pellicole della cineteca e le donne del quartiere latino. Le sue vaghe tendenze intellettuali si risolvevano in meditazioni senza profitto e quando la Maga gli chiedeva aiuto, una data o una spiegazione, gliele forniva svogliato, come cosa inutile. «Tutto perché tu lo sai già», diceva la Maga risentita. Allora lui si sobbarcava la fatica d’indicarle la differenza fra conoscere e sapere, e le proponeva esercizi di ricerca individuale che la Maga non eseguiva e che la disperavano.


D’accordo che in quel campo non sarebbero mai stati d’accordo si davano appuntamento lì intorno e quasi sempre si incontravano. Gli incontri erano qualche volta così incredibili che Oliveira si proponeva ancora una volta il problema del calcolo delle probabilità e lo rigirava da tutti i lati, con diffidenza. Era impossibile che la Maga decidesse di svoltare quell’angolo di rue de Vaugirard esattamente nel momento in cui lui, cinque isolati più giù, rinunciava di risalire rue de Buci e si orientava verso rue Monsieur le Prince senza alcuna ragione, lasciandosi trasportare fin quando la scorgeva all’improvviso, ferma davanti a una vetrina, assorta nella contemplazione di una scimmia imbalsamata. Seduti in un caffè ricostruivano minuziosamente gli itinerari, i cambiamenti improvvisi, cercando di spiegarli telepaticamente, fallendo sempre, eppure si erano incontrati in pieno labirinto di strade, quasi sempre finivano per incontrarsi e ridevano come pazzi, certi di un potere che li arricchiva. Oliveira era affascinato dalle strampalerie della Maga, dal suo tranquillo disprezzo per i calcoli più elementari. Quel che per lui era stato analisi delle probabilità, scelta o semplicemente fiducia nella rabdomanzia deambulatoria, diventava per lei semplice fatalità. «E se non mi avessi incontrato? - domandava. - Non so, comunque sei qui...» Inesplicabilmente la risposta invalidava la domanda, rivelava gli strumenti logici dozzinali. Dopo di che Oliveira si sentiva maggiormente capace di lottare contro i suoi pregiudizi bibliotecari e paradossalmente la Maga si ribellava contro quel disprezzo per le cognizioni scolastiche. Funzionavano così, Punch and Judy11, attraendosi e respingendosi come bisogna fare se non si vuole che l’amore finisca in una figurina o in una romanza senza parole. Ma l’amore, quella parola...

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7

 


 


 


Tocco la tua bocca, con un dito tocco l'orlo della tua bocca, la sto disegnando come se uscisse dalle mie mani, come se per la prima volta la tua bocca si schiudesse, e mi basta chiudere gli occhi per disfare tutto e ricominciare, ogni volta faccio nascere la bocca che desidero, la bocca che la mia mano sceglie e ti disegna in volto, una bocca scelta fra tutte, con sovrana libertà scelta da me per disegnarla con la mia mano sul tuo volto, e che per un caso che non cerco di capire coincide esattamente con la tua bocca che sorride sotto quella che la mia mano ti disegna.


Mi guardi, mi guardi da vicino, ogni volta più vicino e allora giochiamo al ciclope, ci guardiamo ogni volta più da vicino e gli occhi ingrandiscono, si avvicinano fra loro, si sovrappongono e i ciclopi si guardano, respirando confusi, le bocche si incontrano e lottano tepidamente, mordendosi con le labbra, appoggiando appena la lingua sui denti, giocando nei loro recinti dove un’aria pesante va e viene con un profumo vecchio e un silenzio. Allora le mie mani cercano di affondare nei tuoi capelli, carezzare lentamente la profondità dei tuoi capelli mentre ci baciamo come se avessimo la bocca piena di fiori o di pesci, di movimenti vivi, di fragranza oscura. E se ci mordiamo il dolore è dolce, se soffochiamo in un breve e terribile assorbire simultaneo del respiro, questa istantanea morte è bella. E c’è una sola saliva e un solo sapore di frutta matura, e io ti sento tremare stretta a me come una luna nell’acqua.

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8

 


 


 


Andavamo i pomeriggi a vedere i pesci del quai de la Mégisserie, di marzo, il mese leopardo, quello acquattato, ma ormai con un sole giallo in cui il rosso ogni giorno entrava un po’ di più. Dal marciapiede che seguiva il fiume, indifferenti ai bouquinistes che non ci avrebbero dato niente senza denaro, aspettavamo il momento in cui avremmo visto le vasche (camminavamo lentamente, rimandando l’incontro), tutte le vasche al sole, e come sospesi in aria centinaia di pesci rosa e neri, uccelli fermi nella loro aria rotonda. Un’allegria assurda ci prendeva cingendoci alla vita, e tu cantavi trascinandomi ad attraversare la strada, ad entrare nel mondo dei pesci appesi in aria.


Tirano fuori le vasche, i grossi barattoli in strada, e fra turisti e bambini ansiosi e signore che collezionano varietà esotiche (550 fr. pièce) ecco le vasche sotto il sole con i loro secchi, le loro sfere d’acqua che il sole mescola all’aria, e gli uccelli rosa e neri girano danzando dolcemente in una piccola porzione d’aria, lenti uccelli freddi. Li guardavamo, giocando ad avvicinare gli occhi al vetro, schiacciandovi il naso, facendo infuriare le vecchie venditrici armate di reti per cacciare farfalle acquatiche e capivamo sempre meno ciò che è un pesce, seguendo la via del non comprendere andavamo avvicinandoci a loro che non si comprendono, attraversavamo le vasche e arrivavamo vicino come la nostra amica, la venditrice del secondo negozio venendo dal Pont-Neuf, che ti disse: «L’acqua fredda li uccide, è triste l’acqua fredda...» E io pensavo alla cameriera dell’albergo che mi dava consigli per una felce: «Non la innaffi, metta un piatto pieno d’acqua sotto il vaso, così quando vuol bere, beve, e quando non vuole non beve...» E pensavamo a quella cosa incredibile che avevamo letto, che un pesce solo nella vaschetta diventa triste e allora basta mettergli uno specchio e il pesce ridiventa contento...


Entravamo nei negozi dove le varietà più delicate avevano vasche speciali con il termometro e i vermicelli rossi. Scoprivamo fra esclamazioni che rendevano furibonde le venditrici - più che certe che non avremmo comperato niente a 550 fr. pièce - i comportamenti, gli amori, le forme. Il tempo era deliquescente, qualcosa come cioccolata finissima o pasta d’arancio della Martinica, in cui noi ci ubriacavamo di metafore ed analogie, cercando sempre di penetrarvi. E quel pesce era un perfetto Giotto, ricorderai, e quei due giocavano come cani di giada, oppure un pesce era l’esatta ombra di una nuvola viola... Scoprivamo come la vita s’insedia in forme prive di terza dimensione, che spariscono se si mettono di taglio o lasciano appena una piccola riga rosata immobile verticale nell’acqua. Un colpo di pinna e mostruosamente eccolo di nuovo là con occhi baffi pinne e qualche volta uscendogli dal ventre e ondeggiando un nastro trasparente di escremento che non finisce mai di staccarsi, zavorra che all’improvviso li situa fra noi, li strappa alla loro perfezione d’immagini pure, li mette a repentaglio, per dirla con una delle grandi parole che tanto usavamo da quelle parti e in quei giorni.

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9

 


 


 


Da rue de Varenne presero rue Vaneau. Piovigginava e la Maga si appese ancora di più al braccio di Oliveira, si strinse al suo impermeabile che sapeva di minestra fredda. Etienne e Perico discutevano una possibile spiegazione del mondo tramite la pittura e la parola. Annoiato, Oliveira passò il braccio attorno alla vita della Maga. Anche questo poteva essere una spiegazione, un braccio che stringe una vita sottile e calda, camminando si sentiva il movimento lieve dei muscoli come un linguaggio monotono e persistente, una Berlitz ostinata, ti amo ti a-mo ti a-mo. Non una spiegazione: verbo puro, a-ma-re, a-ma-re. «E poi, sempre la copula», pensò grammaticalmente Oliveira. Se la Maga avesse potuto capire come all’improvviso l’obbedienza al desiderio lo esasperava, inutile obbedienza solitaria, aveva detto un poeta, così tiepida la vita, quei capelli bagnati contro la sua guancia, l’aspetto Toulouse-Lautrec della Maga per poter camminare rannicchiata accanto a lui. In principio fu la copula, violare è spiegare ma non sempre viceversa. Scoprire il metodo antiesplicativo, forse quel ti a-mo ti a-mo era il mozzo della ruota. E il Tempo? Tutto ricomincia, non c’è assoluto. E poi bisogna riempire lo stomaco e vuotarlo, tutto ritorna in crisi. Il desiderio ogni alcune ore, mai troppo diverso e ogni volta un’altra cosa: inganno del tempo per creare le illusioni. «Un amore come il fuoco, ardere eternamente nella contemplazione del Tutto. Ma subito si cade in un linguaggio smisurato».


- Spiegare, spiegare, - borbottava Etienne. - Se non nominate le cose, neppure le vedete, voi. E questo si chiama cane e questo si chiama casa, come diceva l’uomo di Duino. Perico, bisogna mostrare, non spiegare. Dipingo, ergo sum.


- Mostrare cosa? - disse Perico Romero.


- Le uniche giustificazioni del fatto che siamo vivi.


- Questa bestia crede che non esista altro senso che quello della vista e le sue conseguenze, - disse Perico.


- La pittura è ben altro che un prodotto visuale, - disse Etienne. - Io dipingo con tutto il mio corpo, in questo senso non sono tanto diverso dal tuo Cervantes o dal tuo Tirso non so più cosa. Quel che non mi va giù è la mania delle spiegazioni, il Logos inteso esclusivamente come verbo.


- Eccetera, - disse Oliveira, di cattivo umore. - A proposito di sensi, il vostro sembra un dialogo fra sordi.


La Maga si strinse ancor più a lui. «Adesso questa qui salta su con una delle sue bestialità, - pensò Oliveira. - Ha bisogno di strofinarsi, prima, di decidersi epidermicamente». Senti una specie di tenerezza astiosa, qualcosa di così contraddittorio che non poteva essere altro che la verità. «Bisognerebbe inventare lo schiaffo dolce, il calcio delle api. Ma a questo mondo le sintesi ultime sono ancora da scoprire. Perico ha ragione, il Gran Logos veglia. Peccato, avremmo bisogno dell'amoricidio, per esempio, la luce autenticamente nera, l’antimateria che dà tanto da pensare a Gregorovius».


- Di’, Gregorovius verrà a sentire i dischi? - domandò Oliveira.


Perico credeva di sì, e Etienne credeva che Mondrian.


- Pensa per esempio Mondrian, - diceva Etienne. - Con lui i segni magici di un Klee sono finiti. Klee giocava con il caso, con i vantaggi della cultura. La sensibilità pura può sentirsi soddisfatta con Mondrian, mentre per Klee occorre un mucchio di altre cose. Un raffinato per raffinati. Un cinese, davvero. Invece Mondrian dipinge assoluto. Ti metti davanti, completamente spogliato, e allora una delle due: o vedi o non vedi. Il piacere, il solletico, le allusioni, i terrori o le gioie sono assolutamente superflui.


- Capisci tu, quel che dice? - domandò la Maga. - A me pare che sia ingiusto con Klee.


- Giustizia o ingiustizia non c’entrano, - disse Oliveira annoiato. - Quel che cerca di dire è un’altra cosa. Non farne subito una questione personale.


- Ma perché dice che tutte quelle cose bellissime non servono per Mondrian?


- Vuol dire che in fondo una pittura come quella di Klee esige da te una laurea ès lettres o per lo meno ès poesie, mentre Mondrian si accontenta che ci si mondrianizzi e basta.


- Non si tratta di questo, - disse Etienne.


- Certo che si tratta di questo, - disse Oliveira. - Secondo te una tela di Mondrian basta a se stessa. Ergo ha bisogno più della tua innocenza che della tua esperienza. Parlo di una innocenza da Eden, non della scemenza. Bada che persino la tua metafora di starsene nudo davanti a un quadro sa di preadamitico. Paradossalmente Klee è molto più modesto perché esige la molteplice complicità dello spettatore, non basta a se stesso. In fondo Klee è storia e Mondrian atemporalità. E tu muori per raggiungere l'assoluto. Mi spiego?


- No, - disse Etienne. - C’est vache comme il pleut.


- Tu parles, cazzo, - disse Perico. - E quel Ronald del cavolo che vive per il diavolo.


- Sbrighiamoci, - lo imitò Oliveira. - È cosa da schernirsi dal nevischio.


- Ci risiamo. [Perché voi argentini pronunciate strano, quando parlate, cazzo]. Quel tale di Pedro de Mendoza12, venirgli in mente di andare a colonizzarvi.


- L’assoluto, - diceva la Maga, dando calci a una pietruzza da una pozzanghera all’altra. - Che cos’è un assoluto, Horacio?


- Ecco, - disse Oliveira, - sarebbe come dire il momento in cui qualcosa raggiunge il massimo della sua profondità, il massimo della sua portata, il massimo del suo significato, e smette completamente d’essere interessante.


- Sta arrivando Wong, - disse Perico. - Si è trasformato in una zuppa d’alghe, il nostro cinese.


Quasi contemporaneamente videro Gregorovius sbucare all’angolo di rue de Babylone, carico, come sempre, d’una cartella colma di libri. Wong e Gregorovius si fermarono sotto il lampione (e pareva che stessero prendendo insieme una doccia), salutandosi con una certa solennità. Nel portone della casa di Ronald ci fu un interludio di chiudilombrello comment ça va c’è nessuno che accende un fiammifero si è rotta la minuterie che notte schifosa ah oui c’est vache, e un’ascesa piuttosto confusa interrotta al primo pianerottolo da una coppia seduta su uno scalino e profondamente immersa nell’atto di baciarsi.


- Allez, c’est pas une heure pour faire les cons, - disse Etienne.


- Ta gueule, - rispose una voce soffocata. - Montez, montez, ne vous gènez pas. Ta bouche, mon trésor.


- Salaud, va’, - disse Etienne. - È Guy Monod, un caro amico.


Al quinto piano li aspettavano Ronald e Babs, ciascuno con una candela in mano e un puzzo di vodka scadente. Wong fece un cenno, tutti si fermarono per le scale, e sgorgò salmodiante l’inno profano del Club del Serpente. Poi entrarono di corsa nell’alloggio, prima che i vicini cominciassero ad affacciarsi.


Ronald si appoggiò alla porta. Pellirossamente in camicia a scacchi.


- La casa è accerchiata da cannocchiali, damn it. Alle dieci di sera s’insedia qui il dio Silenzio, e guai al sacrilego. Ieri è salito ad ammonirci un ispettore. Babs, come ha detto il solerte signore?

- Ha detto «reiterate lamentele».

- E noi che si fa? - disse Ronald socchiudendo la porta per lasciare entrare Guy Monod.

- Noi, questo, - disse Babs, con gestaccio impeccabile e una violenta pernacchia.

- E la tua ragazza? - domandò Ronald.

- Non so, ha sbagliato strada, - disse Guy. - Credo che se ne sia andata, stavamo così bene per le scale, e di colpo. Sopra non c’era. Bah, non importa, tanto è svizzera.

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10

 


 


 


Le nuvole schiacciate e rosse sul quartiere latino di notte, l’aria umida con ancora qualche goccia d’acqua che lo svogliato vento gettava contro la finestra debolmente illuminata, i vetri sporchi, uno rotto ed uno aggiustato con un pezzo di cerotto rosa. Più in alto, sotto le grondaie di piombo forse dormivano i colombi, anch’essi di piombo, rannicchiati in se medesimi, esemplarmente antigargouille. Protetto dalla finestra il parallelepipedo muscoso e odoroso di vodka e di candele, biancheria umida e avanzi di stufato, indefinibile laboratorio di Babs ceramista e di Ronald musicista, sede del Club, sedie di vimini, sdraio sbiadite, pezzi di matite e fil di ferro per terra, civetta imbalsamata con metà della testa marcia, un tema banale, sonato male, un vecchio disco con un aspro fondo di puntina, un raspare scricchiolare crepitare incessanti, un riprovevole saxo che in una notte del ventotto o del ventinove aveva sonato con la paura di perdersi, sostenuto da una percussione da collegio per signorine, un piano qualunque. Ma poi veniva una chitarra incisiva che pareva annunciare il passaggio a un’altra cosa, e all’improvviso (Ronald li aveva preavvisati alzando un dito) una cornetta si separò dal resto e lasciò cadere le prime due note del tema, appoggiandosi su esse come su un trampolino. Bix spiccò il salto in pieno cuore, il limpido disegno s’iscrisse nel silenzio con un lusso di zampata. Due morti combattevano l’uno contro l’altro fraternamente, raggomitolandosi e ignorandosi, Bix ed Eddie Lang (che si chiamava Salvatore Massaro) giocavano a palla I’m coming, Virginia, e dove sarà sepolto Bix, pensò Oliveira, e dove Eddie Lang, a quante miglia l’uno dall’altro i loro due nulla che in una futura notte di Parigi si battevano chitarra contro cornetta, gin contro sfortuna, il jazz.


- Come si sta bene, qui. Fa caldo ed è buio.


- Bix, che folle formidabile. Metti Jazz me Blues, vecchio.


- L’influsso della tecnica sull’arte, - disse Ronald, posando le mani su una pila di dischi e guardando distrattamente le copertine. - Questi qui di prima del long-playing avevano a loro disposizione meno di tre minuti per sonare. Adesso invece ti si fa avanti un volpone come Stan Getz, ti si pianta venticinque minuti davanti al microfono, e così può lasciarsi andare come vuole, dare il meglio che ha. Il povero Bix doveva cavarsela con un coro e basta, appena si scaldavano, zas, finito. Chissà quante arrabbiature quando incidevano.


- Mica tante, - disse Perico. - Doveva essere come fare sonetti invece che odi, e dire che io di quelle scocciature lì non me ne intendo. Sono venuto perché ero stanco di leggere in camera mia un saggio di Juliàn Marìas che non finisce mai.

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