sabato 1 febbraio 2025

CINQUE ANNI DI BREXIT TRA PIFFERAI MAGICI E DATI REALI Alessandra Libutti

 

CINQUE ANNI DI BREXIT TRA PIFFERAI MAGICI E DATI REALI 

 Alessandra Libutti  

01/02/2025 


La campagna per la Brexit è stata la dimostrazione pratica di come una massa possa essere guidata più dalle emozioni che dalla razionalità verso la sua stessa distruzione. Se Gustave Le Bon, teorico della psicologia delle folle, fosse stato vivo al tempo della Brexit, avrebbe trovato terreno fertile per osservare le sue teorie prendere forma sotto i riflettori della politica moderna nell’era dei social media.

Secondo Le Bon, le folle sono impulsive, suggestionabili e inclini a lasciarsi trascinare da immagini potenti e parole semplici. Esattamente ciò che è accaduto con lo slogan martellante “Take Back Control” e le promesse vaghe ma evocative di un futuro glorioso e indipendente.

Non c’era fatto, dato o alcuna realtà capace di riportare la massa a una valutazione razionale: la Brexit era ormai un’onda emotiva, un’illusione collettiva alimentata da abili pifferai di Hamelin. Nigel Farage e Boris Johnson avevano incarnato alla perfezione i leader descritti da Gustave Le Bon: carismatici, spregiudicati e abilissimi nel parlare alla pancia della folla. Con slogan semplici e immagini potenti, hanno trasformato la complessa questione dell’appartenenza all’Unione Europea in un atto di liberazione nazionale. Il loro messaggio era chiaro: l’UE era il male, la Brexit la salvezza. Poco importava che le promesse fossero infondate, se gli esperti mettevano in guardia dai rischi economici, se gli stessi leader della campagna Leave non avevano un piano concreto per il dopo. Il punto non era convincere con la logica, ma trascinare con l’emozione.

Dietro questa orchestrazione si nascondeva un apparato strategico e finanziario imponente. Arron Banks, imprenditore e principale finanziatore del Leave.EU, aveva investito milioni per diffondere il messaggio euroscettico, mentre gli algoritmi di Facebook hanno permesso di targetizzare gli elettori con una precisione senza precedenti. Le promesse erano accattivanti e incisive: il Regno Unito avrebbe recuperato 350 milioni di sterline a settimana da destinare al sistema sanitario nazionale, un’idea stampata sugli autobus che attraversavano il Paese, incidendosi nella mente degli elettori. La realtà, però, era un dettaglio secondario: la folla, ormai ipnotizzata dal sogno di una nuova sovranità, si muoveva compatta verso l’ignoto, guidata dalla suggestione più che dalla ragione.

La Brexit ha dimostrato come un discorso politico ben costruito possa trasformare un gruppo di individui in una folla emotivamente carica, disposta a seguire un’idea anche contro la logica economica e politica. Un’illusione collettiva capace di cancellare dalla vista i benefici tangibili dell’Unione Europea: agricoltori, tra i maggiori beneficiari dei sussidi europei, marciavano convinti per l’uscita; intere comunità del Galles, tra le più povere dell’Europa occidentale e destinatarie di ingenti fondi strutturali UE, votavano in massa per il “Leave”. Non si trattava di calcoli razionali, ma di percezioni costruite ad arte. La paura e il senso di appartenenza nazionale erano diventati strumenti più potenti di qualsiasi dato economico.

Ma perché persone che dipendevano direttamente dai finanziamenti europei hanno votato per perderli? La risposta è nella manipolazione emotiva e nella distorsione della realtà operata dalla campagna Brexit. Come evidenziato dalle inchieste della giornalista Carol Cadwalladr, molte di queste comunità, pur vivendo in luoghi dove l’immigrazione era quasi inesistente, avevano sviluppato un terrore viscerale dell’”invasione”. Questo panico era alimentato dagli annunci targetizzati su Facebook, studiati per colpire proprio chi era più vulnerabile a messaggi di paura. Scene di sbarchi e orde di immigrati—spesso immagini decontestualizzate o false—venivano diffuse ad arte per spingere il voto verso la Brexit. Il risultato? Una folla persuasa da un nemico invisibile, pronta a sacrificare i propri interessi concreti in nome di una narrazione costruita ad arte.

Perfino l’idea di perdere il diritto alla libera circolazione nei Paesi UE – un privilegio che migliaia di pensionati britannici sfruttavano per trasferirsi al sole della Spagna o della Francia – veniva accantonata come una quisquilia. La possibilità di studiare, lavorare e costruire un futuro in Europa? Irrilevante. La forte dipendenza dei campus universitari britannici dagli studenti europei, i fondi per la ricerca, gli accordi scientifici e culturali? Tutto ridotto a dettagli trascurabili di fronte alla narrazione dominante. La folla, ormai ipnotizzata, marciava convinta verso la propria autodistruzione, seguendo il richiamo di chi prometteva un ritorno all’età dell’oro senza spiegare come.

Era l’apoteosi della suggestione collettiva: un popolo che rinunciava ai propri vantaggi concreti per inseguire una fantasia. Boris Johnson e Nigel Farage conducevano milioni di cittadini verso il baratro, mentre dietro le quinte, strategie di manipolazione digitale amplificavano la paura e il risentimento. Ogni voce critica veniva bollata come allarmismo elitario, ogni dato scomodo ignorato. Il referendum sulla Brexit non fu solo un voto politico, ma un caso esemplare di come le folle possano essere pilotate attraverso emozioni primordiali, anche contro il proprio stesso interesse.

Che la Brexit fosse una truffa colossale era già abbastanza evidente a molti fin dalle prime battute, soprattutto a chi l’aveva promossa. Non per nulla, appena vinto, Nigel Farage si eclissò con la disinvoltura di chi aveva già compiuto la sua missione, lasciando il caos in eredità al governo britannico. Per anni è rimasto nell’ombra, attendendo il naufragio inevitabile, pronto a tornare solo per lavarsene le mani e, con il suo solito candore da uomo che – comunque – aveva un passaporto UE in tasca, puntare il dito contro altri. Nel frattempo, Theresa May si dibatteva tra le rovine di un referendum che nessuno sapeva come attuare, cercando disperatamente un compromesso che non facesse collassare il Regno Unito su se stesso. Ma guai a lasciarglielo trovare: un accordo “morbido”, una “Soft Brexit”, non fosse mai che potesse persino funzionare.

May andava fatta fuori, perché la Brexit doveva restare un’illusione da sventolare, non una realtà da gestire. E così, tra faide interne e congiure di palazzo, fu Boris Johnson a prendersi la scena, il nuovo pifferaio pronto a guidare il popolo verso il precipizio con rinnovato entusiasmo. Stavolta, niente più tecnicismi o trattative, ma puro show: a bordo di una ruspa per demolire le esitazioni con lo slogan martellante “Get Brexit Done”, oppure in versione cuoco, annunciando con una faccia tosta memorabile che la Brexit era ormai “sfornata” (“Brexit is oven ready”).

Era la politica ridotta a marketing sfacciato, una recita in cui la realtà contava meno dello slogan giusto, e il Regno Unito, sempre più diviso e confuso, affrontava il triennio forse tra i più devastanti della storia contemporanea del Paese, il grande circo del mandato di Bojo. 

E ora, cinque anni dopo, Brexit non è più uno show da campagna elettorale, ma una realtà di numeri vissuti sulla pelle di ogni cittadino britannico. Il divorzio dalla UE ha avuto un costo salatissimo: oltre 30 miliardi di sterline, un’emorragia economica che non ha portato alcun beneficio concreto. Solo nel 2022, il Regno Unito ha perso 27 miliardi in esportazioni verso l’Unione Europea, mentre il settore agroalimentare, un tempo florido, ha visto un crollo di 2,8 miliardi di sterline l’anno. Il commercio complessivo ha subito una contrazione del 15%, con effetti devastanti per le imprese: 16.400 aziende hanno chiuso i battenti a causa delle nuove barriere burocratiche e dei costi aggiuntivi imposti dalla Brexit.

E poi ci sono stati i colpi indiretti, quelli che hanno amplificato il disastro in modo ancora più spettacolare. Il più clamoroso? Il mini-budget di Kwasi Kwarteng, voluto durante il breve e disastroso mandato di Liz Truss, che nel giro di poche ore ha mandato la sterlina in caduta libera e bruciato 60 miliardi di sterline. Un vero suicidio economico in diretta, con la Banca d’Inghilterra costretta a intervenire per evitare un collasso ancora più drammatico. E così, mentre gli ex pifferai della Brexit si dileguano o reinventano le loro narrazioni, il Regno Unito si trova a fare i conti con la dura realtà: la promessa di libertà e prosperità si è rivelata un’illusione costosissima, e il conto è ancora lontano dall’essere saldato.

Non c’è più modo di addolcire la pillola. Il fallimento della Brexit è così lampante che persino i suoi più ferventi sostenitori stanno iniziando a fare retromarcia. Il noto conduttore televisivo Piers Morgan, che per anni ha difeso l’uscita dall’UE con toni da crociata, oggi ammette candidamente che sì, è stato un errore colossale. Ma la vera perla arriva da Nigel Farage, l’uomo che più di tutti ha cavalcato la Brexit come missione di vita, ora improvvisamente riciclato in versione pro-UE. Sì, proprio lui, quello che brindava con la pinta in mano dopo la vittoria del referendum, ora si dice deluso dai risultati e critica le conseguenze dell’uscita.

Una cosa che, siamo certi, sta causando travasi di bile a Guy Verhofstadt, uno dei più accesi sostenitori del progetto europeo e storico avversario di Farage al Parlamento europeo. Dopo anni di battaglie verbali e sprezzanti interventi in aula, vedere il campione della Brexit accennare a un ripensamento deve essere una scena surreale per lui e per tutti quelli che, fin dall’inizio, avevano previsto il disastro scritto nelle stelle. Ma è proprio questo il punto: chi ha creato la Brexit non ne paga il prezzo. Loro si reinventano, cambiano idea, trovano nuove narrazioni. 

Ma il fallimento più clamoroso della Brexit è stato l’immigrazione. Il grande spauracchio agitato per raccattare voti, l’ossessione che ha dominato la propaganda euroscettica, la promessa di un Regno Unito finalmente libero dall’”invasione” straniera. Doveva essere il muro protettivo britannico, una versione in salsa British della barriera di Trump con il Messico. E invece, ironia della sorte, l’immigrazione non solo non è diminuita, ma ha raggiunto livelli mai visti prima proprio durante il mandato di Boris Johnson.

L’UK ha effettivamente perso oltre un milione di cittadini europei tra il 2016 e il 2021 (mettendo in crisi diversi settori, a partire dalla sanità), ma a rimpiazzarli non è stata una chiusura dei confini, bensì un flusso migratorio ancora più massiccio e difficile da gestire. Tra il 2019 e il 2024, il Regno Unito ha registrato una immigrazione netta di 2,3 milioni di persone, in gran parte da Paesi extraeuropei.

E chi erano i fautori della Brexit che promettevano di riprendere il controllo delle frontiere? Gli stessi che poi hanno spalancato le porte a un sistema ancora più caotico e inefficiente. Perfino Suella Braverman, ex ministra dell’Interno e paladina dell’hard Brexit, non può più nascondere l’evidenza: dopo aver martellato per anni sull’idea di fermare l’immigrazione, ora è costretta a cospargersi il capo di cenere. E con lei, Priti Patel, che l’ha preceduta, e che aveva spianato la strada a politiche tanto intransigenti quanto inefficaci. La Brexit che doveva essere una fortezza inespugnabile, si è rivelata un colabrodo fuori controllo proprio dopo l’uscita.

Le università britanniche sono entrate in crisi, un altro prezzo salato della Brexit che nessuno dei suoi promotori aveva messo in conto. La perdita di cooperazioni accademiche, fondi per la ricerca e soprattutto di studenti europei ha lasciato un vuoto che il sistema non è stato in grado di colmare. Prima, il Regno Unito era una delle destinazioni accademiche più ambite d’Europa, con atenei che prosperavano grazie a una rete di scambi, finanziamenti e collaborazioni internazionali. Ora, invece, i corsi vengono chiusi per mancanza di iscritti, i fondi europei per la ricerca sono evaporati e il prestigio accademico sta lentamente erodendo sotto il peso della crisi.

Ma la vera conseguenza, ancora più insidiosa, è l’aumento della dipendenza dalla Cina. Con sempre meno studenti europei, a partire dal 2016, nel dopo referendum, le università britanniche hanno dovuto aprire le porte a un flusso crescente di studenti cinesi, economicamente indispensabili per colmare i buchi di bilancio. E con questa nuova dipendenza, cresce anche il rischio di censura e pressione politica. Non è più solo un’ipotesi: già diversi corsi sono stati sospesi o ridimensionati perché considerati sgraditi a studenti pilotati da Pechino. Argomenti come i diritti umani, Hong Kong, Taiwan o il genocidio degli uiguri diventano mine vaganti in un clima sempre più teso. Il risultato? Un’aria inquietante di sottomissione al mercato dei regimi, dove la libertà accademica rischia di piegarsi sotto il peso degli interessi economici. La Brexit doveva restituire sovranità e indipendenza. Ha finito per rendere l’università britannica più vulnerabile e controllabile da potenze esterne.

Al primo ministro Keir Starmer giunge un’eredità pesante: un Paese isolato, un’economia che vacilla, un’opinione pubblica sempre più insofferente e la pressione crescente per un nuovo referendum. Ironia della sorte, perfino i maggiori promotori della Brexit, quelli che avevano giurato che l’uscita dall’UE sarebbe stata una rinascita, oggi sventolano timidamente la bandiera europea, come se il disastro fosse colpa di qualcun altro. Ma Starmer sa che riportare il Regno Unito in Europa non sarà semplice. Per quanto il vento stia cambiando, restano i fatti: gli accordi post-Brexit hanno tracciato linee rosse difficili da rimuovere, rigidità imposte dagli stessi che ora fingono di volerne l’abolizione.

E il paradosso è tutto qui: quelli che ieri hanno imposto paletti invalicabili – su commercio, dogane, mobilità – oggi ne chiedono la revisione, ma domani potrebbero tornare a difenderli con la stessa foga. La Brexit non è mai stata un progetto politico serio, ma una narrazione mutevole, pronta ad adattarsi a qualsiasi esigenza elettorale. Non importa la coerenza, basta che qualcuno gridi uno slogan, e il pubblico si dividerà ancora, magari su un’altra promessa impossibile. Starmer si trova così a governare un Regno Unito ancora ostaggio del suo stesso mito, in bilico tra la necessità di riallacciare i rapporti con l’Europa e il rischio di risvegliare l’ennesima battaglia ideologica, alimentata da chi della Brexit ha fatto un brand, non una soluzione.

E ora, con Trump di nuovo alla Casa Bianca, il panorama geopolitico si fa ancora più insidioso per Keir Starmer. L’illusione di una Global Britain indipendente e potente si è scontrata con la realtà di un Paese isolato e fragile, troppo distante dall’Europa per beneficiarne e troppo piccolo per essere una priorità per Washington. Starmer non può permettersi di saltare su una nave o sull’altra: deve costruire un ponte. Con l’Europa, per riparare i danni della Brexit, ma senza riproporre lo stesso dibattito tossico che ha diviso il Paese per anni. Con gli Stati Uniti, per mantenere un rapporto strategico, senza però diventare succube delle politiche protezioniste e imprevedibili di Trump.