martedì 11 febbraio 2025

LA RIBELLE DI GAZA Asmaa Alghoul & Sèlim Nassib

 


LA RIBELLE DI GAZA

Asmaa Alghoul & Sèlim Nassib

Recensione

Benedetto Lorusso

Asmaa Alghoul, è una donna, un essere umano preferisce definirsi, diffidente da un femminismo con troppi limiti quando in ballo c’è l’islam.

Rampolla di una importante famiglia di Gaza, nata a Rafah, con un padre e un nonno aperti e liberali e due zii alti dirigenti di Hamas.

Benché spesso all’estero per studio o per lavoro, i suoi primi anni li passa negli emirati arabi dove lavora suo padre, ma torna sempre nella sua terra amata e infelice, schiacciata da tre occupanti, Al Fatah e Hamas, che opprimono ferocemente il loro popolo, entrambi dispotici e corrotti, ma il primo sarà annientato ferocemente dal secondo, che, ugualmente dispotico e corrotto utilizza la religione per meglio sottomettere, e Israele che per difendersi o vendicarsi, manda i suoi soldati o i suoi missili senza considerare gli scudi umani.

Un popolo perciò senza libertà, senza cultura, senza dialogo (e a volte il dialogo con l’altro aiuta a capire e abbattere le barriere create da odio e ignoranza).

In una società dove la donna è il nulla, lei, pur dichiarandosi musulmana, rifiuta il velo e la sottomissione, entra ed esce di prigione, organizza lotte, dimostrazioni, organizza una società civile che verrà disgregata dall’esilio (lei stessa oggi vive in Francia) o dall’annientamento.

Una società dominata dall’ignoranza, più delle rivolte ci vorrebbero i libri, la cultura, la musica, i più grandi nemici dell’oppressione.

In Iran c’è un regime altrettanto feroce che però deve confrontarsi con la rivolta del suo popolo, un popolo colto, istruito, aperto al mondo esterno.

A Gaza manca la cultura, mancano i libri, mancano gli sguardi oltre il confine, e di conseguenza manca la rivolta, il popolo che possa costruire il suo stato e la gente vive senza speranza fra le macerie.

Un libro questo che dovrebbe essere letto da tutti i pro-pal, perché capiscano che regime difendono e dagli amici di Israele, perché capiscano che gli scudi umani sono innanzitutto umani, che la battaglia è prima culturale che militare.

Coautore del libro è Selim Nassib, ebreo libanese oggi residente in Francia, autore di romanzi sulla Palestina e sul Libano e corrispondente di Liberation.


LA RIBELLE DI GAZA

PREFAZIONE

Sbucata da un vicolo…

Sbuca da un vicolo del Cairo e ti salta al collo. Non la conosci, non l’hai mai vista. L’amico che sta con lei le ha detto chi sei, lei ha spiccato la corsa, la sua risata ti avvolge, ha gli occhi che le brillano, ti guarda e cerca in te quella cosa che hai scritto un giorno su Umm Kalthum e che le è piaciuta o qualcos’altro, un particolare, un segno di riconoscimento che ti faccia diventare uno della sua banda, uno di quelli con cui può parlare liberamente. Era la fine del 2011, il cuore della primavera araba batteva ancora. Asmaa Alghoul, scrittrice palestinese di Gaza, era in via provvisoria al Cairo per farsi dimenticare un po’. Anni prima si era opposta pubblicamente allo zio, dirigente militare di Hamas, dandogli praticamente dell’assassino in una lettera aperta postata in rete. Altra ragione di quell’allontanamento volontario era la pressione sfibrante che subiva ogni giorno e dalla quale era curiosamente stupita. Il fatto è che tutto ciò che scrive è pervaso da una specie di candore, l’espressione innocente di un sentimento interiore di ribellione di fronte all’islamizzazione forzata, ai cosiddetti delitti d’onore e alle segregazioni sessiste. Non è colpa sua se ha un carattere del tutto incompatibile con il regime soffocante che impera a Gaza. Musulmana, credente, laica, Asmaa non può essere definita unicamente per la sua opposizione a Hamas. Ha parole durissime per la corruzione senza limiti di al-Fatah e per la disumanità criminale di Israele, ma la sua critica si estende alle organizzazioni per i diritti umani, ai movimenti femministi, alle istituzioni internazionali, all’Europa e agli Stati Uniti, tutti più o meno complici di un sistema corrotto che tende a mantenere le cose così come sono. Alla fine con chi si schiera? Con gli umili, i ribelli, gli anonimi, la gente comune. Alle prese con il maschilismo imperante della società, assediata e bombardata da Israele, sottomessa al regime oscurantista di Hamas, Gaza è il punto d’incontro di ogni possibile oppressione del mondo arabo, tutte assorbite e rifiutate dal suo corpo vibrante.


Il piccolo ristorante popolare in cui mi trascina è situato in una viuzza a scalinata, i tavoli con la tovaglia cerata sono sui pianerottoli che dividono gli scalini, la cucina è all’aria aperta, la cuoca è un’amica. Asmaa Alghoul fa amicizia facilmente e parla con tutti nello stesso tono. Possiede una fluidità naturale e un brio che le permettono di dire quello che pensa senza apparire aggressiva.


Infanzia nel campo profughi di Rafah, prima intifada a cinque anni, soldati israeliani che fanno irruzione nel cuore della notte, zii che si uniscono a Hamas e fanno regnare in casa la sua morale, padre spesso assente (lavora negli Emirati arabi) ma tollerante, appassionato di lettura e scrittura… Asmaa mi racconta tutto, e il suo ritratto viene pubblicato sul primo numero dell’Impossible, il giornale lanciato a Parigi da Michel Butel. «Credo che i nostri veri occupanti siano occupanti interni» dice, «Hamas, al-Fatah, i partiti… poi c’è la grande occupazione, quella di Israele. Non possiamo sbarazzarci della grande se non ci sbarazziamo prima delle piccole. La verità è che siamo sottoposti a un assedio mentale molto più imponente dell’assedio alle frontiere».


Torna a Gaza e continua a ubbidire a quel suo radicalismo sottile che la porta a essere bersaglio di tutti, ma non riesce a cambiare. Viene aggredita, riceve minacce di morte, viene sbattuta in prigione dove i poliziotti di Hamas la picchiano con l’idea di trasformarla in una “brava musulmana”, ma resta una delle poche donne a Gaza che si rifiuta di coprirsi la testa perché nel Corano non ha mai letto niente che lo imponga. La sua incapacità di scendere a compromessi condiziona anche la sua vita privata, in particolare i rapporti con gli uomini, tanto che a soli trent’anni ha avuto due matrimoni che si sono conclusi con due divorzi.


Asmaa ripete che non è un’eroina e non vuole esserlo. Il suo sogno irrealizzato è di diventare una donna normale con un marito e dei figli, una vita tranquilla, l’amore, ma è una fantasia inarrivabile, una chimera rapidamente contraddetta dal suo temperamento focoso e dalla sua incapacità a sottomettersi. Non le va più di essere “militante” e rifiuta l’etichetta di “femminista”. L’attività giornalistica, che pure le ha valso numerosi premi, la distoglie dalla vocazione di scrittrice. Sta ancora cercando la sua strada nella letteratura


Sebbene la sua prima raccolta di racconti, Separazione su una lavagna, sia stata accolta con favore, la seconda raccolta, Città dell’amore e del peccato, è ancora troppo “realista” per i suoi gusti, non vuole consegnarla all’editore così com’è.

Da quel primo incontro nel ristorante sulle scale ci siamo tacitamente capiti, ma il libro che abbiamo progettato di scrivere insieme presenta problemi pratici. Raggiungerla a Gaza? Il regime militare di nuovo al potere in Egitto ha chiuso il confine con la striscia, mentre Israele risponde invariabilmente che la mia domanda di transito è “al vaglio” delle autorità. Lo è ancora oggi. Invitarla in Francia? A fare la valigia ci mette poco, ma, una settimana dopo l’altra, il confine resta chiuso. Tocco con mano cosa significhi “Gaza, prigione a cielo aperto”. Eppure le cose succedono. Un giorno Asmaa riesce a varcare la frontiera con l’Egitto e a prendere un aereo. Ricomincia a parlare in una casa della Normandia sotto gli occhi delle mucche al pascolo, e non smette più. Lei si esprime in arabo, io scrivo in francese. Poi si fa tradurre tutto. Racconta la vita quotidiana di una società controllata da Hamas, come sotto quel giogo si possa amare, sposarsi, subire guerre a ripetizione, andare in spiaggia, pedalare in bicicletta e fumare il narghilè. Ribatte punto per punto alla pretesa di sottomettere la vita a un ordine imbecille. O meglio, la vera risposta all’islamismo che la fa da padrone è lei, la donna che è, la sfumatura del suo pensiero, il suo islam, la possibilità stessa di esistere. Questa “figlia di Gaza” non parla soltanto in superficie, la sua critica non è teorica, è un filo che lei tira, e viene tutto a galla. Non pretende di proporre soluzioni, ma solo testimoniare il fatto che lei e quelli come lei della sua generazione sono vivi, almeno finora.

Finisce di parlare, torna a Gaza, e lì viene colta dalla guerra dell’estate 2014 che racconta per un giornale online con sede a Washington, Al-Monitor, battendo il territorio da un capo all’altro, scrivendo tutti i giorni, sfidando il pericolo come tutti gli altri colleghi giornalisti. I missili dei caccia israeliani non colpiscono lei, ma la casa della sua infanzia: nove membri della famiglia, tra cui un bebè e uno zio di sessant’anni, periscono nell’esplosione, nessuno di loro aveva a che fare con Hamas. Grida il suo dolore in un articolo rimasto famoso, “Non parlatemi più di pace”. Meno di ventiquattr’ore dopo si riprende e scrive sulla sua pagina Facebook: “Oggi comincia un giorno nuovo… Dobbiamo sanare le ferite, prenderci cura dei rifugiati e di chi ha perso i suoi cari”.

Viene di nuovo a Parigi a raccontare gli ultimi sussulti della storia, poi fa ritorno a Gaza. Siamo a marzo del 2015, il manoscritto della Ribelle di Gaza è finalmente pronto, Asmaa deve solo tornare in Francia per il lancio del libro.

Comincia allora una lunga attesa contrassegnata da continue domande di transito alle autorità israeliane, egiziane, giordane… Dall’Inghilterra le viene assegnata una borsa di studio per la difesa dei diritti umani, ma le autorità britanniche le rifiutano il visto. L’ambasciata americana le ottiene dalle autorità israeliane il permesso di recarsi in Cisgiordania per partecipare a un convegno. Asmaa ci va, visita emozionata Gerusalemme e crede di poter ormai passare in Giordania e prendere un aereo ad Amman, ma le autorità giordane la avvertono per SMS che le è vietato il transito, chissà perché! Viene a sapere che alcuni artisti e scrittori di Gaza sono stati invitati a partecipare a un evento culturale a Parigi e Marsiglia, cerca di unirsi al gruppo, ma non fa in tempo, la domanda collettiva di visti di transito è già stata inoltrata… e accettata. Nel frattempo le scade il visto d’entrata nello spazio Schengen, deve mettere insieme i documenti per rinnovarlo. Il confine con l’Egitto viene aperto per soli tre giorni, il numero che le è stato assegnato le avrebbe permesso di passarlo… al quarto. Per non parlare delle tensioni di tutti i tipi che una tale reclusione perpetua porta inevitabilmente nella sfera privata. Così come un milione e ottocentomila abitanti di Gaza, Asmaa si ritrova prigioniera del territorio per quattordici mesi! L’Egitto del presidente al-Sisi e l’Israele del Primo ministro Netanyahu pretendono di soffocare Hamas, ma il blocco implacabile è proprio ciò che rafforza gli islamisti e permette loro di proseguire, senza contatti con l’esterno, con l’islamizzazione forzata degli abitanti di Gaza. “Cose importantissime come i libri, il cinema e la musica sono rare per i figli di Gaza” scrive Asmaa. “Eppure sono le cose che trasformano la gente, le cose che hanno trasformato me! Come possiamo giudicare quelli che non hanno mai potuto usufruirne? Il conservatorismo criminale è interamente costruito su illusioni, fantasie, discorsi di partito, di moschea, di governo, ma se si guarda all’interno di una persona cosa si vede? L’unica cosa che manca alla gente è un buon libro. Di questo ha bisogno Gaza, di questo e nient’altro! È un territorio che ha solo bisogno di aprirsi al mondo, e a vietarlo è l’assedio imposto da Israele, Hamas, al-Fatah ed Egitto”.

Per uno strano fenomeno il mondo esterno sembra ritenere che il territorio di Gaza, con le sue distruzioni, il suo blocco e le sue sofferenze, non faccia parte dello stesso pianeta. Si commuove un po’ nel momento in cui la guerra imperversa, ammette che è disumano punire collettivamente una popolazione perché è controllata dagli islamisti, poi dimentica. La guerra dell’estate 2014 a Gaza è appena finita e già in Israele si parla della prossima, a scatenarla basterebbe qualche lancio di missili nel momento sbagliato (o giusto). Perché un’altra guerra? Per “tagliare il prato” risponde Breaking the Silence, un’associazione di militari israeliani ostili all’occupazione che riprende il nome dato dagli ufficiali superiori alla strategia consistente nel tornare regolarmente a falciare “l’erbaccia” che cresce nel cortile dietro casa.

Poi, in occasione del Ramadan 2016, l’Egitto decide di aprire il confine per cinque giorni e pubblica i numeri dei richiedenti che saranno autorizzati a passare. Asmaa, con il numero 10962, si rende conto di farne parte. La gita, cominciata alle cinque del mattino, è più simile a una corsa a ostacoli in cui ogni tappa è carica di angosce e umiliazioni per i malcapitati viaggiatori. Dopo mille peripezie, al calar della sera arriva al Cairo, dove può di nuovo collegarsi con il mondo, le compagnie aeree e l’aria aperta.

La ribelle di Gaza torna allora d’attualità, un’attualità che non ha mai perso dato che quel territorio è praticamente immobile. Nelle parole di Asmaa si sente, come il primo giorno, il racconto senza pathos della giovane che si domanda se la sua voce controcorrente finirà per spegnersi senza suscitare nulla. L’atmosfera dell’area geografica non le è favorevole. Quasi ovunque la primavera araba è stata schiacciata da una repressione sfociata in orrori, carneficine e guerre civili, come se sotto la minaccia del caos la scelta impietosa concessa ai popoli fosse soltanto tra militari e islamisti. Suo malgrado Asmaa Alghoul continua a dire ciò che ha da dire e a guardare il mondo, finché è possibile, con occhi da donna libera.

Sélim Nassib

ottobre 2016

INTRODUZIONE

Come se fossi viva da un pezzo

Scrivere di Gaza non mi è stato facile. Con tutte le battaglie politiche e ideologiche che si svolgono in questo territorio, produrre una storia che incontrasse l’adesione di tutti non era impresa banale, ma almeno raccontavo la mia storia, e la mia voce non pretendeva di parlare a nome di nessun altro. La cosa più difficile era tenermi lontana dai cliché classici, l’ode alla liberazione della terra occupata o l’immagine della giovane donna che da sola tiene testa al governo. Volevo invece mantenermi nell’ambito di storie della quotidianità, quelle che non hanno bisogno di titoloni, e sviluppare un racconto che, lo sapevo, poteva risultare scioccante per lettori abituati al solito blabla.

In verità questo libro è diventato un traguardo credibile solo nel momento in cui, nel caffè Altak’iba del Cairo, ho conosciuto lo scrittore franco-libanese Sélim Nassib. Gli ho espresso la mia ammirazione per il suo libro su Umm Kalthum e proposto di scriverne uno insieme. Poi è arrivato il momento in cui la editor Mireille Paolini ha messo il libro in cantiere. A quel punto ci siamo imbarcati in una non facile avventura a tre che è durata più di quattro anni. Ogni volta che dovevamo vederci per una nuova tappa del lavoro, per me significava aspettare a lungo al confine tra Gaza e l’Egitto finché la sbarra non veniva alzata, oppure tenere d’occhio il confine con Israele nell’attesa che mi fosse rilasciato un permesso di transito, permesso che ovviamente non è mai arrivato. Mi toccava vivere nella speranza di un prossimo incontro, che ci avrebbe permesso di scrivere un altro capitolo tra discussioni senza fine, o di un appuntamento su Skype che vivevo con più ansia di un esame di scuola.

Mentre scrivevamo o discutevamo mi tornava sempre in mente il titolo di un film, Lost in Translation, quindi controllavamo ogni paragrafo e ogni pagina per assicurarci che non ci fosse stata perdita di senso. Spesso, più che di un traduttore, l’amore, il lutto, le storie di paternità, maternità, tradimento, guerra e morte avevano bisogno di uno scrittore dalla sensibilità acuta. È il cuore a tradurre la vita e metterla su carta, ed è ciò che Sélim ha fatto con ogni parola, ogni pensiero e ogni espressione. L’altra sfida che dovevamo raccogliere affinché la scrittura restasse letteraria e personale era non cadere nella trappola del tipico evento giornalistico. È chiaro che il racconto restava fondamentalmente politico e giornalistico, ma allo stesso tempo era fatto per vivere dentro di noi per anni.

La città di Gaza vibra di una profusione di amore, felicità, morte e oppressione tale che ti impedisce di vedere altri luoghi, come se tutti i posti del mondo, anche le città moderne e sviluppate, vivessero a margine di essa, come se le sofferenze di Gaza mi allungassero la vita e mi facessero provare il contrario del “Sento di essere morto da un pezzo” espresso dal poeta inglese John Keats. Io, qui, sento semmai di essere viva da un pezzo.

Il fatto è che la vita a Gaza possiede una forza da cui percepisci che la morte non esiste, se non nella guerra, e che la tua vita continuerà per il tempo che si risolvano i problemi legati alle interruzioni dell’elettricità, alla riconciliazione tra al-Fatah e Hamas o alla ricostruzione. Oppure resterà sospesa, come se la città, in attesa di sistemare i suoi problemi, avesse in serbo per te un’altra vita. È così che Gaza ti attrae e ti lega a sé, come se fosse il centro dell’universo. E tu aspetti e aspetti…

Il libro è nato con questa speranza, nell’attesa del cambiamento, dell’amore e della gente con il cuore buono.

Asmaa Alghoul

ottobre 2016

1

Finirai nel fuoco

Da bambini giocavamo molto ad “arabi ed ebrei”. Gli uni si nascondevano, gli altri li cercavano. In genere i maschi facevano gli ebrei e noi femmine gli arabi, perché gli ebrei sono più forti e più brutali. Nessuno ragionava su cosa volesse dire, non facevamo politica, l’importante era divertirci. Era un gioco che ci piaceva molto e che di solito facevamo per strada, ovviamente quando non c’era il coprifuoco.

Nel campo profughi di Rafah in cui sono cresciuta non dicevamo mai “gli israeliani” e neanche “l’esercito”, dicevamo “gli ebrei”, per esempio “Stanno arrivando gli ebrei!”. Per me, ebreo significava paura. La notte, stesa sul materasso a terra, pensavo ai bombardamenti, alla morte, agli aerei che passavano lacerando i tetti. Guardavo la grossa scatola gialla di latte in polvere Nido sopra l’armadio. Era la cosa più costosa che si potesse comprare al campo. I comuni mortali bevevano il latte senza marca dell’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei profughi palestinesi. Pensavo: “Dio, perché non sono una scatola di Nido?”. Tutti la rispettavano, veniva tirata giù per versare un cucchiaio di latte in polvere nel tè e subito rimessa a posto, era circondata da sguardi. Io invece passavo le giornate a sentirmi dire: «Finirai nel fuoco, andrai all’inferno!» ed ero convinta che sarei bruciata tra le fiamme.

I soldati facevano sempre irruzione in casa nostra dalla porta di dietro, quella di camera mia. Certe volte mi svegliavo di soprassalto e gridavo: «Mamma, mamma, stanno arrivando gli ebrei, sento gli stivali!» e lei rispondeva: «Ma no, è il rumore della sveglia… Dormi, dormi». Il crepitio della pioggia sulla lamiera, il tic-tac della sveglia e l’irruzione dei soldati: tre cose che nella mia testa sono mischiate per sempre. La mia vita era prigioniera di quei momenti di angoscia e tristezza. Quando uno è felice si aspetta sempre che sopravvenga qualcosa di bello, anche se non succede spesso. La tristezza è più costante, si addice di più al mio carattere, si armonizza alla mia indole. Nel 1987, quando è scoppiata la prima intifada, avevo solo cinque anni, ma ho ancora nelle narici l’odore dei gas lacrimogeni. Hamas è stato fondato in quello stesso anno, ci sono cresciuta insieme. Era un mondo stabile e triste. I miei zii facevano parte di Hamas, è per quello che gli israeliani ci piombavano in casa di notte e mi terrorizzavano.

Eppure da piccola ero andata in Israele. Nonno Jomaa, il padre di mio padre, lavorava lì in un albergo, cosa che aveva aiutato a farlo ricoverare in un ospedale di Tel Aviv quando aveva avuto problemi di cuore. Mi avevano portato a trovarlo. L’autobus in cui eravamo seduti si era fermato in una stazione di servizio e il benzinaio si era messo a lavare i finestrini con una pompa. Il getto usciva dal tubo e colpiva il vetro imbrattandolo d’acqua, io avevo strillato dalla paura. In ospedale ho preso l’ascensore per la prima volta in vita mia. Quando la porta si è riaperta c’era un ambiente completamente diverso, non ci capivo niente. Ho chiesto alla nonna: «Abbiamo viaggiato, téta? Abbiamo viaggiato in questo… questo…». Non sapevo nemmeno che si chiamasse ascensore! Più tardi ci siamo ritrovati seduti sul prato dell’ospedale. Tutto quel verde intorno a noi: non credevo ai miei occhi! Nel campo in cui vivevo non c’era niente di verde. Il nonno guardava insieme a me le donne stese sull’erba a capo scoperto in compagnia dei familiari. «Quella ha il cancro, quell’altra è malata di cuore… Quelli sono i figli che sono venuti a trovarla». In quel giardino ho scoperto che gli ebrei erano persone normalissime, non riuscivo a credere che fossero davvero ebrei, mi sono convinta solo sentendoli parlare ebraico. Fino a quel momento avevo creduto che tutti gli ebrei fossero soldati.

Quel nonno era un uomo aperto, mi ha insegnato la tolleranza nei confronti degli altri popoli. Prima che io nascessi aveva invitato mio padre a fare una vacanza in Israele, non provava il minimo odio e trovava normale che il figlio imparasse l’ebraico. Parlava del principale israeliano con molto rispetto e apprezzava il lavoro che faceva, responsabile dei camerieri dell’albergo. Mi ha fatto vedere alcune foto scattate a Tel Aviv di lui e nonna con un bel vestito, braccialetti e capelli al vento. Certi suoi figli si erano affiliati a Hamas, ma non lui. Viveva tra i soldati che attaccavano casa nostra da un lato e il principale israeliano a cui voleva bene dall’altro. Tornava da Israele con dolci dai sapori insoliti, una quantità di cose deliziose, e mi regalava mezzo shekel. Era molto, le altre bambine della scuola ricevevano come paghetta un centesimo di mezzo shekel. All’epoca quelli che lavoravano in Israele erano considerati ricchi.

Ciò nonostante preferivo l’altro nonno, Abdallah, il padre di mia madre. Anche lui ci aveva portato in Israele in una fattoria in cui faceva il bracciante, la più bella gita della mia vita! Il cielo era popolato da una moltitudine di uccelli e c’eravamo messi a cantare per loro L’uccello del giovedì mi ha portato una camicia. In arabo, “giovedì” fa rima con “camicia”. Ci aveva fatto raccogliere delle piante che avevamo portato a casa. Gli volevo veramente bene. Un giorno in cui a Rafah pioveva eravamo seduti sotto il suo ulivo e di colpo ho provato la stessa emozione che provavo quando leggeva il Corano ad alta voce. In quel preciso momento un piccione me l’ha fatta addosso, mi capita sempre, ma il nonno ha detto: «Non te la prendere, porta fortuna, riceverai una buona notizia».

Si dice “striscia di Gaza” o “Gaza” per indicare il territorio, ma Gaza è anche il nome della capitale. Come per noi Israele era un altro mondo, così lo era pure la città di Gaza. La prima volta che ci sono andata ero sbalordita, perché venivo dal campo profughi di Rafah, una quarantina di chilometri a sud, in cui non c’era niente, e penetravo in un mondo così vasto che era impossibile conoscerlo tutto. Quel giorno mia zia mi aveva portato a un matrimonio della buona società di Gaza. Sgranavo gli occhi nella lussuosa villa circondata da alberi con garage per le macchine, uomini in abito scuro e donne eleganti a volto scoperto senza niente in testa. Quindi esistevano palestinesi ricchi! Stentavo a crederci. Io ero vestita bene perché mio padre lavorava negli Emirati e da lì mi spediva sempre bei vestiti. Avevo un cappellino a fiori e di colpo mi ero resa conto di averlo dimenticato sul taxi collettivo. Arrabbiatissima, avevo ritrovato l’autista: «Stupido, te ne sei andato con il mio cappello!». Invece il poverino era tornato indietro per riportarmelo. Non avevo ancora cinque anni ed ero già insopportabile.

2

Troppo forte

Mi piacevano i maschi, soprattutto i ragazzi carini, preferivo sempre giocare con loro, le altre bambine mi odiavano perché ero “troppo forte”, appellativo che mi ha perseguitato per tutta la vita. A sedici anni, tornata dagli Emirati, mi sono innamorata di un cugino che mi ha posato la mano sulla spalla. Il cuore ha cominciato a battermi come mai prima, non sapevo che una mano sulla spalla potesse provocare sensazioni tanto sconvolgenti. Sua madre ha fatto girare la voce che uscivo sul balcone in shorts e a braccia scoperte, pura menzogna, ma è riuscita a separarci. Secondo lei non andavo bene per il figlio, ero “troppo forte”. La stessa accusa mi è stata rivolta l’anno dopo quando mi sono innamorata di un professore d’inglese di ventiquattro anni. Si chiamava Saleh. Era un rapporto strano, lui non insegnava nella mia classe, quindi non avevamo scuse per parlarci. Ci incrociavamo nei corridoi della scuola, mi diceva qualcosa, io gli rispondevo parole furtive e continuavamo ognuno per la propria strada. Vibravo quando i nostri occhi si incontravano, quando gli mettevo in mano una poesia che avevo scritto e lui ne dava una a me. Era tutto in quelle parole rubate, in quegli sguardi scambiati da lontano, non osavo fare altro perché avevo paura dei pettegolezzi, ma pensavo sempre a lui, non ci dormivo la notte. Alla fine mio padre ha capito che amavo quel professore, non so se gliel’avesse detto qualcuno o l’avesse intuìto perché a scuola andavo sempre peggio, fatto sta che con la scusa di avere notizie sul mio rendimento scolastico è andato a scuola e l’ha incontrato. «Da quando Asmaa ti conosce studia meno. Stai lontano da lei». «Voglio fidanzarmi con lei» ha risposto Saleh, e papà ha detto: «Va bene, ti aspettiamo giovedì prossimo a casa». Pur deciso a rifiutargli la mia mano, l’aveva invitato per capire quanto serie fossero le sue intenzioni e voleva che io ne fossi testimone. Quel giovedì, dopo aver messo in ordine la casa e preparato le bibite, l’abbiamo aspettato, ma non è venuto. La madre era una donna terribile, anche lei insegnante in un’altra scuola, e non mi poteva vedere. «Asmaa non va bene per te, è decisamente troppo forte». A quanto pareva gli uomini non erano abbastanza forti da resistere alle loro madri.


Mi hanno detto che ebrei e musulmani esigevano che le loro donne si coprissero la testa a causa del timore che ispirano, perché mostrare i capelli è considerata una provocazione sessuale. Mi hanno anche detto che nella storia dell’umanità la donna è alla base della vita, la madre dell’universo. L’uomo ha sempre avuto paura della sua potenza e del suo potere, e ha camuffato la propria “paura di lei” in “paura per lei”. Per proteggere se stesso l’ha confinata in casa e ne ha ridotto il ruolo sociale allo stretto necessario, permettendo alle religioni di rendere eterna quella struttura di dominio che non avevano inventato loro. Ecco perché la donna occupa un posto inferiore e i figli prendono il cognome del padre anziché il suo. La teoria mi sembrava abbastanza convincente. A Gaza ci sono più laureate che laureati, ma nessuno spinge le donne a trovare un impiego e il mercato del lavoro resta in grande maggioranza maschile. Il mio innamorato ha ubbidito alla madre perché aveva paura di lei? E io, faccio paura agli uomini?


Mia sorella Fatmeh è nata nel 1983, Aicha nel 1984, Mustapha nel 1985, e così di seguito fino a nove figli. Io ero la maggiore e la famiglia mi considerava in qualche modo responsabile dei fratelli e delle sorelle, anche se mamma era sempre presente. Erano più viziati di me, più belli, andavano meglio a scuola, e soprattutto nessuno li picchiava. Quando sentivo il canto del muezzin, «Allahou Akbar, Allaaaahou Akbar!» (Dio è il più grande), mi piaceva recitare quelle parole dopo di lui e mio zio urlava: «È peccato! Stai cantando l’Azan» (il richiamo alla preghiera) e mi picchiava. Non riesco a dimenticarlo. «Perché hai detto Murid invece di zio Murid?», «Perché sei andata da nonno Abdallah?», «Perché non hai sparecchiato?», e giù botte! Le buscavo anche da mia madre perché non facevo i compiti. E non mi piaceva la scuola perché pure la maestra mi picchiava. Tutti avevano il diritto di darmele e non c’era nessuno a dire “Non fatelo!”. Avrei potuto rimanere traumatizzata, sempre che non siano state le botte a rendermi “troppo forte”.


A volte, stufa di essere picchiata, andavo a rifugiarmi a casa del mio nonno materno, che solo un muro separava dalla nostra. Ricordo l’odore di nonno Abdallah quando mi prendeva sotto la sua ala protettrice e mi copriva con una trapunta per nascondermi. L’altro nonno, quello severo (ma volevo bene anche a lui) veniva a cercarmi. Tremavo di paura mentre domandava: «È qui Asmaa?» e l’altro gli rispondeva: «No, non c’è». Accucciata contro il suo petto, gli sentivo battere il cuore. Quando nonno Abdallah è morto le mie speranze sono morte con lui. Mi alleviava da quelle paure che non sapevo mi sarebbero rimaste per tutta la vita. Quando morirò voglio essere sepolta accanto a lui, è l’unico che sia stato tenero con me! Tutti gli volevano bene. Dopo aver smesso di fare il bracciante è diventato imam di una piccola moschea. Era un uomo di religione, ma pacifico e cordiale. Ascoltava Samira Tawfik, una cantante libanese: “Il giovanotto bruno mi ha fatto impazzire… oh, i miei occhi! Mi ha rubato la mente, Allah, Allah!”. Sentiva quella canzone beduina pur essendo sceicco, lo sceicco Abdallah Alghoul. Mio padre e mia madre sono lontani cugini, i due rami della famiglia hanno lo stesso cognome. Non avevo scampo, ero circondata da ogni parte da orchi: è ciò che significa “Alghoul” in arabo.

3

Le mutande di mio nonno

La nonna paterna mi ha raccontato che sua sorella era morta nel villaggio, nel 1948, perché qualcuno le aveva posato addosso una tartaruga. All’epoca le tartarughe erano sconosciute in Palestina. Non è uno scherzo, era letteralmente morta di paura! Mi ha anche raccontato quanto fosse grande la loro terra a Sarafand al-‘Amar, un paradiso, le belle verdure che coltivavano, le canzoni che ascoltavano, e come avesse lasciato la chiave di casa sotto il vaso da fiori e dato da mangiare ai polli perché non patissero la fame durante la sua breve assenza… e come la famiglia si fosse messa a camminare in direzione di Gaza…


La nostra epopea familiare è cominciata in quel villaggio palestinese a sud di Tel Aviv. Pare che durante il mandato britannico un soldato inglese uscito di senno gli abbia dato fuoco e che una volta spento l’incendio il villaggio si sia ritrovato diviso in due: Sarafand al-Kharab (il distrutto) e Sarafand al-‘Amar (il costruito). Da qualunque delle due metà si provenga gli egiziani, come molti arabi, dicono di noi palestinesi che abbiamo venduto la nostra terra. Ma cosa abbiamo venduto? Un bel niente! Se avessimo venduto, perché diavolo mia nonna si sarebbe preoccupata di dover tornare a dar da mangiare ai polli, perché diavolo avrebbe messo la chiave sotto il vaso da fiori? Non sono affatto attaccata a quella terra che non conosco, ma voglio un gran bene a mia nonna. Se n’è andata da là senza portarsi niente, a parte i mutandoni del marito, nonno Jomaa. Lui e lei se li mettevano a turno, me lo raccontava e rideva imbarazzata. Gli ebrei (che non erano ancora israeliani) avevano espulso direttamente i palestinesi dai villaggi secondo un piano ben preciso, il piano Dalet, ma molti, come i miei nonni, erano già scappati dopo aver sentito che un commando ebreo dell’Irgun aveva massacrato quasi duecento palestinesi nel villaggio di Deir Yassin. Erano stati presi dal panico, avevano paura di essere derubati, aggrediti, assassinati! Si erano detti che l’onore (sottinteso quello delle donne) viene prima della terra. In arabo fa rima: al ‘ard abl el ard. È quel ‘ard, “l’onore”, che ci ha sempre ridotti in schiavitù. Grazie a quello (e al sostegno occidentale) Israele ha occupato la nostra terra senza colpo ferire, dato che i palestinesi sono fuggiti per proteggerlo. Grazie a quello Hamas ha messo le mani su Gaza con la pretesa di proteggere i nostri figli dal peccato, far indossare il velo alle nostre figlie, vietare loro il narghilè in pubblico e difendere il loro “onore”, capite?


Si presume che ami la Palestina che abbiamo perso, ma non voglio mentire dicendo che sogno di tornare nella mia patria. Rimpiango quelle terre per via di mia nonna, ma non riesco a condividere con lei quella sensazione, quel desiderio imperioso di “ritorno” di cui non ha fatto che parlarmi. So soltanto che ci affezioniamo al luogo in cui siamo vissuti e io sono molto affezionata a Rafah, il campo profughi in cui sono cresciuta. Secondo la tradizione nazionale palestinese considerare “patria” il campo profughi è tradimento, perché significa aver rinunciato. In quanto profughi si suppone che sogniamo il ritorno, e nei discorsi i palestinesi scacciati dalla Palestina si chiamano a’idun, “quelli che ritornano”, cioè che torneranno a casa loro, come se il campo profughi fosse solo una realtà transitoria, un’illusione alla quale sarebbe un delitto aggrapparsi. Tutta la nostra mitologia si basa su quello. Perché dovrei avere il sogno di “tornare” se non ho mai conosciuto il villaggio della mia famiglia? E se per me il campo profughi a sud della striscia di Gaza è come una patria, perché non dovrebbe essere la patria? Amo Rafah con tutto il cuore, mi piace camminare lungo la costa, sedermi sulle spiagge… E ancora di più mi piace contemplare la riva del mare da dietro il finestrino di una macchina, perché il piacere che ti procura una cosa che non ti appartiene è maggiore, come quando senti una musica da lontano.


L’esodo non l’ho vissuto, e neanche l’arrivo dei miei nonni a Rafah insieme alla fiumana dei profughi, ma me l’hanno raccontato loro. Hanno montato le tende l’una accanto all’altra su un terreno spoglio, hanno aspettato, hanno smesso di sperare e si sono rassegnati a costruire in materiali solidi. Nessuno ha disegnato progetti, si sono costruiti la casa così, con le loro mani, pietra su pietra, tavola su tavola, e tutti hanno fatto la stessa cosa. Non stavano certo a preoccuparsi dell’estetica, era solo un campo profughi! Così sono nata in un luogo dove si dormiva aspettando, in baracche strette freddamente l’una all’altra in un intrico di vicoli. Quella storia ci è stata raccontata talmente spesso, la stessa in tutte le famiglie, che la vedo come se facesse parte dei miei ricordi. La nostra casa era di legno, con il tetto di lamiera e un piccolo bagno, e contava una decina di stanze, perché eravamo tantissimi: nove zii e tre zie, tutti fratelli e sorelle di mio padre!


Il mio primo ricordo reale è mia madre che mi mette in una culla bianca con le sbarre tipo prigione e comincia a spazzare la casa e lavare per terra a grandi secchiate d’acqua. Papà ha detto che dovevo avere due anni e mezzo, è possibile? E ha aggiunto ridendo: «Ti ricordi di quei giorni antichi? Io e mamma facevamo cose davanti a te, pensavamo che non te ne saresti ricordata… Te ne ricordi?».


A tre anni ho cominciato a frequentare la rawda, l’asilo accanto alla moschea, mio padre mi ci portava tutti i giorni. Un giorno gli ho detto: «Voglio andarci da sola» e lui me l’ha permesso. Mi mettevo la divisa dell’asilo, grembiule rosso a quadretti, e andavo. Era abbastanza lontano. In seguito papà mi ha confessato che mi seguiva a distanza, «e se ti voltavi mi nascondevo». Tipico di mio padre! Non diceva “no”, mi lasciava fare e mi sorvegliava senza farsi vedere per assicurarsi che non mi succedesse niente. È merito suo se in me si è sviluppata quella volontà di indipendenza che mi caratterizza ancora oggi.


Con i bambini della rawda ripetevamo gli insulti a sfondo sessuale che sentivamo per strada, ma subito dopo dicevamo: «No no! Vogliamo andare in paradiso, non all’inferno! Non finiremo nel fuoco! Smettiamola di dire queste cose!». L’asilo dipendeva dall’UNRWA, mangiavamo il loro cibo, buonissimo. Tutti i giorni ci davano la mhallabiye, una crema al latte e cioccolato, da allora non ne ho più mangiato una così buona. L’UNRWA ci forniva anche stivali di plastica coloratissimi che d’inverno ci permettevano di camminare tra i rigagnoli e le buche delle strade sfondate. Ci davano olio di fegato di merluzzo, vitamine e tagliandi per ricevere farina, sardine e hummus. Venivano gli zii a prendere i sacchi che per me pesavano troppo. Ci avevano trasformato in mendicanti, ma non mi vergognavo, era la nostra situazione.


Spesso sentivamo dalla strada il venditore di barad, succo di limone e ghiaccio tritato con l’aggiunta di un colorante giallo in superficie, una specie di gelato, solo che non era gelato perché il latte era raro e caro. Ogni volta che sento il profumo di barad o un odore che gli assomiglia ho davanti agli occhi l’infanzia e il campo. Anche durante l’occupazione, quando c’era il coprifuoco, l’uomo del barad trovava il modo di passare tra i vicoli lontano dagli occhi dei militari, e noi correvamo! Erano giorni belli. All’epoca pensavamo che la nostra non fosse un’infanzia felice, ma lo è diventata allontanandosi, ho cominciato a sentirne la mancanza. È strano come i ricordi possano trasformare la sofferenza in felicità. “L’abito del passato è fatto di taffetà cangiante, e ogni volta che ci voltiamo a guardarlo lo vediamo con colori diversi” diceva Milan Kundera in La vita è altrove.


La mia infanzia resterà per sempre associata al campo profughi e alla casa del nonno, in cui nonna Zakiyyé abitava ancora fino a non molto tempo fa. Gran parte era stata distrutta dall’esercito israeliano nel 2001, durante la seconda intifada, ma erano rimaste due stanze in cui nonna aveva continuato a vivere. Era bellissimo restare a dormire da lei, soprattutto quando pioveva e la mattina venivo svegliata dal tubare dei piccioni come quand’ero piccola, con la differenza che non c’erano più i tre alberi davanti alla porta, una guaiava, un gelsomino e un ulivo. I soldati israeliani avevano abbattuto i primi due e mio zio materno aveva tagliato il terzo, che Dio lo perdoni. La gente non ha sensibilità. L’ossessione del profugo palestinese è di avere una casa, finché non ne possiede una soffre di insicurezza permanente, appena l’ha costruita si sente meglio, in linea di massima. Ecco perché mio zio ha tagliato l’ulivo, per mettere ordine, diceva, per avere un ingresso pulito. Voleva sistemare quella casa, sentirla sua e viverci con la nonna. Sennonché non c’è rimasto! Non ha retto più di sei mesi, è tornato in Giordania. A Gaza non trovava pace. Nessuno trova pace a Gaza, è un territorio che esercita sulla gente una pressione psichica tremenda. La famiglia non ti stacca gli occhi di dosso, tutti parlano senza sosta e si fanno gli affari tuoi, se ti sposi ti chiedono quando farai il primo figlio, se partorisci ti chiedono quando farai il secondo, se divorzi ti chiedono perché e quando conti di risposarti. Viviamo tutti sotto sorveglianza continua, non è per niente facile. In Cisgiordania i rapporti sono più allentati, forse perché lì lo spazio è meno ristretto, ma a Gaza la maggior pressione dà nonostante tutto l’impressione che le persone veglino le une sulle altre. Se vai in viaggio sentono la tua mancanza, e anche tu senti la loro. All’estero non c’è un calore del genere, nessuno si preoccupa davvero per te. Sono stata in America, Germania, Francia, Spagna, paesi pieni di buone intenzioni che però trasudano indifferenza. Chi mi conosce in quei luoghi? Chi potrebbe farmi del male? Tutto è normale e calmo. Gaza mi ferisce e mi fa soffrire, eppure mi attira ogni giorno di più. Gli stranieri che vengono da noi si stupiscono nel vedere la vicinanza, la generosità e la cordialità della gente, ma se devono viverci bisogna che stiano attenti, perché la stessa cosa che ti avvolge con calore finisce per soffocarti.

4

Stanno arrivando gli ebrei

La prima volta che ho incontrato da sola un israeliano, intendo dire un civile, avevo ventiquattro anni ed ero negli Stati Uniti. Almeno credo che fosse israeliano, aveva in testa la kippah, ma forse era soltanto ebreo. Avevo fatto domanda per uno stage alle Nazioni Unite aperto ai giornalisti palestinesi e mi ero miracolosamente ritrovata tra i fortunati prescelti. Non avevo mai viaggiato fuori dal mondo arabo e New York mi aveva lasciato senza fiato. Una giovane raccomandata che faceva parte del viaggio si era portata dietro tutta la ristrettezza mentale della gente di Gaza. Usciva con noi, passeggiava un po’ nelle strade e tornava a casa alle sei del pomeriggio dicendo: «Oddio, New York non è poi così diversa da Gaza». Io prendevo la metropolitana e andavo, certe volte senza neanche sapere dove. Imparavo ad ascoltare la musica, ad aprirmi all’arte, a conoscere persone… Ogni giorno era una vertigine. E mi chiedevo sempre: “Sono in pace con me stessa in un paese così libero o sono solo una persona che si limita a parlare di libertà?”. Avendo passato la maggior parte del mio tempo a Gaza o negli Emirati arabi uniti non avevo mai sperimentato tanta libertà prima di quel momento, ma a New York me la sono beccata in pieno e mi è piaciuta.


Insomma, a New York ho conosciuto quell’israeliano o ebreo che sia. Conosciuto è troppo dire, visto che non ci siamo nemmeno rivolti la parola. Siamo solo arrivati insieme all’uscita di un edificio, lui mi ha aperto il portone invitandomi con un gesto a passare prima di lui e io gli ho detto «Grazie». Tutto qui, ma quel gesto di educazione al quale non ero abituata mi ha commosso.


Nel corso dello stesso viaggio ho conosciuto un altro israeliano. Stavo partecipando a un seminario alla Columbia University sui nuovi media e Internet, ancora poco sviluppati. Al termine della lezione sono andata da lui a chiedergli se fosse di nazionalità israeliana. Mi ha risposto di sì, ma che per lui era soltanto un passaporto, dato che viveva stabilmente negli Stati Uniti. «È la prima volta che imparo qualcosa da un israeliano» ho detto, e lui si è messo a ridere.


Non ho un ricordo della mia infanzia senza soldati, stivali, armi e divise kaki. Anno dopo anno, le loro irruzioni a casa nostra mi sembravano talmente “normali” che la memoria non le distingue più. Era come se noi facessimo parte di una società e loro di un esercito di robot venuti dall’estero. Li vedevo come personaggi intercambiabili, senza una particolare faccia, che interpretavano sempre la stessa scena o scene simili impossibili da inserire in una cronologia.


Mio padre è tornato dagli Emirati per una breve vacanza. È mattina, sono sulle sue ginocchia, sorelle e fratelli più piccoli sono su quelle di mamma. Siamo tutti in camera dei nonni a fare colazione con i gharshalle, biscotti fabbricati a Gaza che inzuppiamo nel tè. Nonno Jomaa sta ascoltando la BBC in arabo, tutta la sua generazione è cresciuta con la celebre radio, «Qui Londra, BBC News». L’atmosfera è tranquilla. Di colpo i soldati attaccano e noi scappiamo abbandonando il tè fumante. Che volevano? Niente di speciale. Vengono continuamente, ci entrano in casa quando ne hanno voglia, ormai non chiediamo neanche più perché.


Mio padre è di nuovo a Gaza. La mattina presto veniamo svegliati da forti colpi alla porta: i soldati! Stavolta però sono alla porta davanti. Dalla finestra mio padre vede uno di loro sbattere la testa contro un muro su cui è scritto “Ci trattate come i nazisti hanno trattato voi”. Hanno occupato tutto il Blocco O per trovare l’autore del graffito, spingono la gente fuori dalle case… Trascinano fuori mio nonno ancora in pigiama. È vecchio, fa freddo. Gli gridano in arabo: «Sono stati i tuoi figli a scrivere questi slogan, tocca a te cancellarli!» e lo colpiscono davanti a noi. Il nonno, con un soldato alle spalle, ubbidisce. Non ce l’hanno con lui in particolare, è un lavoro che fanno fare a tutti i vecchi, perché i più giovani sono riusciti a svignarsela.


Altra immagine. Sono nascosta sotto il tavolo da pranzo, vedo le gambe dei soldati fare avanti e indietro, so che stanno cercando gli zii. Uno di loro mi sente, si china di scatto, vede che sono solo una bambina e, deluso, mi dà uno schiaffo.


È estate. Sto giocando per strada dietro il camion di mio zio. Passano i soldati, uno di loro mi dà una caramella. La rifiuto. «Perché?» mi chiede lui. Parla arabo, è un druso1. «Perché dentro c’è il veleno» rispondo. Mi è impossibile credere che sia una caramella vera. A forza di violenza cose del genere si sono impresse in maniera indelebile nei nostri cervelli di bambini. Ci sono molti drusi nell’esercito israeliano, li vedo sulla strada della rawda, certe volte si toccano e fanno gesti osceni quando passiamo, dicono “figli di puttana”, cose così.


L’intifada è in corso. L’esercito israeliano si mette a bombardarci con pietre affilate come coltelli che si riversano sui tetti di zinco riducendoli di colpo a colabrodi, merletti di latta. Appena sentiamo le esplosioni corriamo a nasconderci nell’unica stanza con un tetto vero, il bagno. Le pietre cadono fitte come un acquazzone.


Le porte di casa nostra sono aperte, la gente corre per venire a ripararsi. I soldati lanciano bombe nere di cuoio che sprigionano un gas lacrimogeno speciale. Una cade ai miei piedi, mi chino, svengo. Accorrono gli zii e mi gettano acqua sul viso finché non riprendo i sensi. Contro i lacrimogeni abbiamo le cipolle, il Nachader (una specie di sale chimico stimolante) e un’acqua di Colonia molto diffusa che si chiama 55555, cinque volte cinque. Mettiamo l’intera gamma a disposizione di quelli che vengono a rifugiarsi da noi. Se qualcuno è stato colpito da pallottole di gomma gli facciamo una fasciatura, ma quando sono pallottole vere è più difficile, quasi sempre muoiono.


Conosco tutti i vicoli che mi permettono di evitare i soldati sulla strada per la scuola. Ogni mattina penso “Che Dio ci protegga, speriamo che non succeda niente!”, ma quel giorno fanno un attacco a sorpresa. Sono talmente terrorizzata che corro a nascondermi nel pollaio dei vicini e altre bambine si nascondono con me. Guardiamo il mondo attraverso la sottile rete di ferro, tremiamo, ci risuonano in testa le raffiche dei mitra.


Siamo a scuola, sentiamo le macchine frenare bruscamente e i passi dei soldati che occupano il quartiere, poi gli spari. Piangiamo, ci raduniamo intorno alla maestra che è completamente smarrita, si sente responsabile dei bambini, ci sono soldati dappertutto. La maestra ci dice di rimanere in cortile, ma non la ascoltiamo più, usciamo per strada piangendo dalla paura. Cammino, vedo feriti a terra, penso che sia la fine, che morirò anch’io. Cerco un posto in cui nascondermi, ma è difficile, tutta la città ha chiuso in un batter d’occhio. Mi imbatto in un’altra scuola, è la prima volta in vita mia che la vedo, entro, mi guardo intorno, non conosco nessuno. Mi metto a recitare i versetti del Corano che so a memoria, lo faccio a lungo, fino a che i soldati non se ne sono andati. A casa trovo i miei genitori preoccupatissimi, mi avevano già dato per scomparsa.


I soldati attaccano casa nostra. Papà e gli zii fanno in tempo a correre dall’altro nonno, nella casa attigua, mentre noi, donne e bambine, comprese le due nonne, restiamo chiuse nel bagnetto dal tetto solido. In quello spazio minuscolo gridiamo e piangiamo, non riusciamo a respirare, tanto più che siamo in pieno digiuno del Ramadan e stiamo morendo di sete. Sentiamo gridare gli zii nella casa accanto, mia madre si preoccupa, sale su uno sgabello per guardare dalla finestra del bagno e inorridisce vedendo il pavimento del cortile del nonno coperto da macchie di sangue! Piangiamo come fontane, ma i soldati non vengono a vedere cosa stia succedendo, non ce l’hanno con le donne, vogliono solo gli uomini. Restano a casa nostra sperando nel ritorno di quelli che sono sfuggiti ai soldati. Quando finalmente se ne vanno ci precipitiamo nella casa accanto. Zio Murid ha il cranio spaccato e non fa che gridare: «Voglio morire da martire!». Lo infiliamo in una macchina che lo porta in ospedale. Anche mio padre è ferito, ma non in modo grave, così lo curiamo sul posto. Ci racconta quello che è successo. Quando hanno sferrato l’attacco, i soldati hanno trovato gli zii e hanno cominciato a pestarli, ma i vicini hanno circondato la casa e si sono messi a bombardarli di sassi. Vari soldati sono stati feriti e alcuni hanno staccato i panni stesi ad asciugare sui fili per pulirsi del sangue, quello stesso sangue che mia madre aveva visto dalla finestra. I soldati erano in trappola, poi sono arrivati rinforzi a tirarli fuori. Se ne sono andati lasciando i miei zii per terra insanguinati, abbiamo davvero creduto che zio Murid stesse per morire. È stato un giorno di paura, e anche il giorno in cui i miei zii sono diventati famosi, dato che l’esercito israeliano li aveva implicitamente designati in quanto militanti di rilievo. A partire da quel momento uno sceicco barbuto ha cominciato a venire in bicicletta con regolarità per portarci pane e yogurt, dono di Hamas ai suoi membri.

1 I drusi sono una popolazione montanara che vive tra Libano, Siria e Israele. Musulmani eterodossi, praticano una dottrina che è una sintesi di misticismo musulmano e religioni persiane e indiane. I drusi di Israele fanno il servizio militare nell’esercito israeliano. [Tutte le note sono degli Autori.]

5

Le tue bambole hanno un’anima

Isoldati mi facevano più paura degli zii, solo che non vivevo con loro dalla mattina alla sera. Ho avuto un’infanzia sfortunata a causa degli israeliani e ancora di più a causa degli zii che mi picchiavano. Allo stesso tempo avevo paura di perderli, perché volevo bene ai miei zii. Come orientarsi in quel guazzabuglio di sentimenti?


All’epoca Hamas era popolare, aveva conquistato il cuore della gente, anche perché i suoi primi comunicati erano notevoli: bella lingua araba, versi poetici, versetti del Corano… Erano molto bravi a fare comunicazione. Per esempio organizzavano spettacoli teatrali all’interno delle moschee per un pubblico esclusivamente femminile. Sul palcoscenico improvvisato donne e ragazze interpretavano indifferentemente ruoli femminili e maschili, compresi quelli dei soldati israeliani. Dovevo avere sei o sette anni quando ho assistito a una di quelle rappresentazioni. Mia zia faceva la parte di una militante che i soldati cercavano in tutti i modi di convincere a diventare una collaborazionista, lei resisteva quanto poteva e alla fine moriva. Ero scoppiata a piangere in mezzo alla moschea, urlavo «Zia! Zia!», nessuno riusciva a farmi smettere, si è dovuta rialzare lei per venire a tranquillizzarmi. Riuscite a immaginare donne in una moschea che recitano in una pièce organizzata da Hamas? Oggi non vedremmo mai una cosa del genere! All’epoca erano intelligenti, quelli di Hamas. In confronto al-Fatah, fondato da Yasser Arafat, faceva una magra figura. Sarà pure stata l’istituzione storica che aveva unificato i palestinesi permettendo loro di esistere agli occhi del mondo, ma faceva una propaganda ripetitiva e priva di immaginazione. Nello scontro tra l’esercito israeliano e Hamas, al-Fatah appariva sempre più fuori gioco. Ma a dividere la gente era l’introduzione del pensiero religioso nel cosiddetto “spirito di resistenza”, c’erano ormai i “veri musulmani” e gli altri, presto impegnati in una battaglia potenzialmente sanguinosa.


Un giorno casa nostra è stata assaltata da un gruppo di giovani. Dai capelli lunghi si capiva che appartenevano al Fronte popolare, una delle più vecchie organizzazioni del movimento palestinese, laica e di sinistra. Armati di catene e bottiglie Molotov, erano partiti all’attacco urlando che volevano ammazzare i miei zii. Terrorizzata, ero riuscita a pensare solo “Per fortuna papà è in viaggio!”. Hanno cercato di scavalcare la porta di ferro della casa, e mi sono ricordata di averli visti pochi mesi prima in compagnia dei miei zii, erano amici! Evidentemente le cose erano cambiate. In quel momento li ho sentiti assassini, era la prima volta che percepivo un sentimento del genere in qualcuno. Grazie a Dio è intervenuta altra gente che li ha fermati. Allora hanno detto che erano venuti a vendicare uno dei loro compagni ucciso da Hamas e che la madre della vittima – era il suo unico figlio – aveva maledetto la nostra famiglia. A un’estremità del nostro quartiere c’era una vecchia che aveva una piccola bottega di dolciumi dove andavo a comprare gomme, caramelle e un tipo di cioccolato che da allora non ho più rivisto. Credo che fosse lei la madre in questione, ma non ne sono sicura. Alla fine il caso era rientrato grazie a chissà quale accordo ed ero tornata dalla vecchia, che dal canto suo aveva continuato a vendermi dolciumi come se niente fosse.


I ritratti dei “martiri” affissi sui muri del campo profughi si erano fatti più rari, perché all’epoca Hamas proibiva la raffigurazione del volto umano. Mio padre, che sapeva disegnare, ne realizzava un bel po’. Diversamente dai fratelli non faceva parte di Hamas né di altre organizzazioni, si limitava a disegnare per chi glielo chiedeva, ma il calo delle commissioni dava in qualche modo la misura dell’avanzata del pensiero religioso. Ce ne accorgevamo pure a casa. Da quando si erano uniti a Hamas gli zii avevano smesso di ridere e anche di sorridere, zio Said era diventato assillante con le sorelle che andavano all’università, «Come sei tornata? Chi ti ha riaccompagnato?». Io avevo alcune Barbie, ovviamente non quelle originali, che a Gaza non esistono, ma copie di pezza esposte a terra di fronte all’ambulatorio e vendute per pochi centesimi. Certe volte, in occasione di qualche festività, ce le compravano, nonno Abdallah adorava farmi regali. Zio Said, che era molto devoto, mi ha detto: «È peccato, le tue bambole hanno un’anima». Le sue parole mi hanno colpito molto, l’idea che la bambola che tenevo in mano avesse un’anima mi faceva un po’ paura… Così le ho fatte tutte a pezzi, anche se nessuno me l’aveva chiesto. Nonno Abdallah si è arrabbiato: «Hai fatto male! Cosa c’entrano le bambole con la religione?». E io, che pensavo di aver agito bene, mi sono mangiata le mani per aver distrutto le mie bambole, ma era troppo tardi.


Lo stesso anno mamma ha dato alla luce mio fratello Abdallah. Ero fuori casa quando ho saputo la notizia. Mi sono messa a correre nei vicoli per arrivare il prima possibile, ho tagliato attraverso un quartiere veramente sporco, abitato da una famiglia in cui tutti facevano i loro bisogni per strada. Sono scivolata e caduta su una cacca sporcandomi disgustosamente mani e vestiti. Sempre di corsa sono passata a casa del nonno, dove mi sono lavata energicamente con acqua e sapone mentre mia nonna mi sgridava perché non ero stata attenta. Dopo essermi pulita mi sono annusata, ma puzzavo sempre di merda. Ho continuato verso casa, ma non avevo più lo stesso entusiasmo, guardavo a destra e a sinistra, diffidente. Ancora una volta avevo demolito la mia gioia.


Poi ha scritto papà per dirci che dovevamo raggiungerlo, saremmo andati a vivere tutti insieme negli Emirati. Era il 1990, ho capito che ci stavamo accingendo a lasciare per molto tempo la casa di Rafah in cui gli zii mi picchiavano e mia madre subiva quotidianamente le critiche della famiglia di mio padre. Eppure, nel momento di andarcene, siamo tutti scoppiati a piangere, sia quelli che partivano, sia quelli che restavano. Ho provato un dispiacere immenso, ci siamo tutti abbracciati, non immaginavo una separazione così lacerante… È arrivato il grande taxi, abbiamo caricato le valigie e ci siamo saliti dentro, mamma e noi sei. Il giorno prima avevo tagliuzzato un mazzo di carte da gioco in pezzetti piccolissimi e quando il taxi è partito ho lanciato dal finestrino quella specie di coriandoli sugli zii, le zie e tutti gli abitanti della casa. Era il mio modo di dire arrivederci.

Abdallah è stato l’ultimo dei sei figli ad aver vissuto l’intifada a Gaza, gli altri tre sono nati dopo, negli Emirati. Nella nostra famiglia ci sono i figli dell’intifada e i figli del Golfo, e gli uni non hanno niente a che vedere con gli altri.

6

Le sofferenze della tomba

Negli Emirati avevamo una maestra egiziana che una volta ci ha raccomandato di comprare audiocassette con storie preregistrate. Costavano troppo, così mio padre ha deciso di registrare una storia con la sua voce, ma in mezzo alla registrazione il piccolo Abdallah si è messo a strillare. Quando abbiamo ascoltato la cassetta in classe e si è sentita la voce di mio fratello tutte mi hanno preso in giro, ma la maestra ha detto: «Smettetela, Asmaa l’ha fatto da sola, è magnifico!».

La maestra d’inglese era tunisina, una donna non sposata talmente simpatica che siamo diventate bravissime in inglese. A un ispettore che mi interrogava ho detto senza riflettere che i tunisini non digiunavano durante il Ramadan. La maestra ha reagito: «E tu che ne sai?». In classe c’era un’alunna tunisina, Sayda, che si è arrabbiata: «È vero che non ci copriamo la testa, ma digiuniamo e preghiamo». «Anch’io digiuno al Ramadan e ho ottimi rapporti con Dio» le ho risposto, «gli dico sempre “buonanotte, Dio” prima di mettermi a dormire». Sayda è diventata mia amica.

La maestra di arabo era nativa degli Emirati. Le avevo consegnato il tema con un giorno di ritardo. Per me era una composizione di varie pagine, per lei soltanto un compito, e si era rifiutata di prenderlo. Per fortuna mio padre l’aveva letto e apprezzato. Nonostante tutto le volevo bene. Portava il velo e riconosceva di avere problemi con le altre confessioni, gli alauiti, gli sciiti… Era la prima volta che sentivo quelle parole, alauiti, sciiti, e non ci capivo niente. “Chissà cosa intende dire” mi chiedevo, “starà parlando degli ebrei?”.

Anche la maestra di disegno era egiziana, una donna piuttosto anziana che portava sulla testa una specie di cuffia decorata da perle. Avevo disegnato un cuore di cui ero abbastanza soddisfatta e gliel’ho dato, lei l’ha guardato e mi ha picchiato. «Maleducata! Un cuore, l’amore, solo parole vuote!». Mi ha obbligato a cancellarlo e ci sono rimasta malissimo, perché disegnare mi piaceva un sacco.


Centinaia di migliaia di egiziani, siriani, iracheni, palestinesi e libanesi lavoravano negli Emirati o in altri paesi del Golfo, e non soltanto come insegnanti! Imprenditori, uomini d’affari, ingegneri, medici, artigiani e operai venivano da ogni angolo del mondo arabo a guadagnarsi la vita o cercare di fare fortuna nei paesi dell’oro nero. Durante gli anni che trascorrevano lì molti adottavano i costumi locali, imponevano il velo alle mogli, andavano più spesso del solito in moschea e si abituavano al ruolo di maschio dominante nella famiglia. Il clima superstizioso e retrogrado in cui erano immersi era ben illustrato dalle storie di “sofferenze della tomba” che ci raccontavano a scuola, ovvero le punizioni che Dio ci avrebbe inflitto dopo la nostra morte se ci fossimo comportate male. “Hanno aperto la tomba di una donna che da viva indossava gonne corte” diceva una di quelle storie, “e hanno scoperto che aveva le gambe bruciate…”. Anche una predicatrice che veniva a parlarci di religione era fissata sulle “sofferenze della tomba” – era un termine di uso comune – e giurava che se ci piacevano cantanti e musicisti saremmo finite all’inferno. Ovviamente non ci credevo, ma erano comunque lezioni che avevano lo scopo di terrorizzare. Sentivamo parlare solo di un Dio terribile che impugnava un bastone per punirci. Era naturale che, una volta tornati a casa, gli immigrati arabi diffondessero quel modello oscurantista. Ecco il segreto dell’espansione quasi meccanica di un islam rigorista che ha fatto da terreno fertile all’islamismo, senza parlare della quantità di scuole coraniche finanziate dai paesi del Golfo. Per fortuna avevo mio padre a fare da contraltare. Ci raccontava storie fantastiche su Dio, ci faceva ridere e non ci obbligava a niente: «Dio non è come dicono, è il Clemente e il Misericordioso. Chi consegna il proprio cuore a Dio è musulmano qualunque sia la sua religione». Ma non tutti avevano la fortuna di avere un padre come il mio…

Non andavo tanto bene a scuola. Le compagne ridevano perché avevo scritto “Falastin” con la lettera sad invece che con la lettera sin. «Una palestinese che non sa scrivere il nome del proprio paese!» sghignazzavano. Mi vergognavo. Ero abituata a prendere brutti voti a Gaza, ma non fino a questo punto! Avevamo una casa talmente dimessa ed eravamo talmente tanti tra fratelli e sorelle che evitavo di invitare le mie compagne. Il giorno in cui a scuola mi hanno regalato dei vestiti e una cartella nuova sono tornata tutta contenta: «Guardate cosa mi ha dato la maestra!». «Carino» hanno detto papà e mamma, ma si sono scambiati un’occhiata. Solo in seguito ho capito che quei doni rientravano nel quadro degli aiuti assegnati a una bambina povera.

In quel concentrato di mondo arabo che erano gli Emirati avevo l’impressione di rappresentare “la palestinese” in versione “profuga”. Ogni volta che desideravo qualcosa mio padre rispondeva: «Se lo comprassi a te dovrei comprarne altri sei per i tuoi fratelli e sorelle». Il lavoro non gli andava molto bene, le commissioni di disegni di architettura si facevano rare. Vivevamo ad Al Ain, una città dell’interno a centosettanta chilometri da Abu Dhabi. In attesa che le cose si sistemassero abitavamo da certi parenti di un altro ramo della famiglia che vivevano in un condominio. Era stato deciso di dividere in due il loro appartamento. Siccome erano più ricchi di noi – il capofamiglia era imprenditore – dalla loro parte avevano l’aria condizionata mentre noi, nella nostra, pativamo un caldo che poteva arrivare anche a cinquanta gradi, un forno.

Il mio unico sfogo era la lettura. A Gaza avevo scoperto la biblioteca segreta di mio padre e cominciato a leggere. In realtà non era davvero segreta, è solo che i libri erano stati messi in una stanza che fungeva da sgabuzzino e lì dimenticati. Mio padre leggeva molto. La maggior parte dei libri erano opere sull’islam, ma c’era anche la traduzione in arabo del famoso L’outsider dello scrittore britannico Colin Wilson, che parlava di Camus, Sartre, Hemingway, Dostoevskij, Nižinskij, Van Gogh e altri. Negli Emirati ho scoperto che papà possedeva altri libri molto più interessanti, opere di Nagib Mahfuz, Ihsan Abdel Quddous o Fathi Yaken. Mi sono messa a leggere tutto. A scuola andavo malissimo, in ortografia avevo zero, ma divoravo libri.

Un giorno a scuola ci hanno convocato per una visita oculistica di routine. Il dottore ha detto: «Guarda qui, guarda là» e ha scoperto che ci vedevo soltanto da un occhio. Più o meno lo sapevo, ma credevo che fosse così per tutti. Da piccola, al campo profughi, cadevo sempre, camminavo e cadevo. Nonno Abdallah mi aveva portato dal medico dell’UNRWA, che però era una bestia. «Non ha niente» aveva dichiarato. Con migliaia di profughi da curare non stava certo a preoccuparsi di una bambina di quattro anni il cui nonno diceva «Cade molto». Tornando a casa, nonno si era lamentato del dottore, «Non è possibile» mormorava scuotendo la testa anche se era un semplice imam. Se avessero dato retta alla sua intuizione e diagnosticato il difetto avrebbero potuto curarmi l’occhio, ma passati i sei anni il cosiddetto “occhio pigro” non può più essere salvato, il nervo ottico è morto. Venendolo a sapere, i miei sono impazziti. Papà mi ha portato da vari dottori, in particolare da un medico indiano specialista degli occhi di passaggio ad Abu Dhabi. Ci siamo andati in autobus perché il taxi costava troppo e per strada abbiamo comprato dei panini. Il dottore mi ha dato da fare degli esercizi e mi ha detto di mettermi una benda sull’occhio buono per due ore al giorno, pensando così di rafforzare l’altro occhio. Io piangevo e strillavo perché non ci vedevo più, non potevo camminare, così mi spostavo un po’ la benda per vedere qualcosa in basso. Il medico sapeva che non c’erano speranze, ma ci provava comunque. Mi aveva anche prescritto un paio di occhiali che perdevo in continuazione, stavo sempre a cercarli finché non li ritrovavo sotto un divano. Tutti i medici consultati in seguito hanno detto la stessa cosa, che avrei dovuto essere presa in cura molto prima.

In mezzo a quell’agitazione è arrivata una notizia terribile: nonno Abdallah, a cui volevo un bene dell’anima, era morto di cancro allo stomaco. Abbiamo telefonato a Gaza, non abbiamo fatto che chiamare, sono rimasta quattro giorni a piangere al telefono, non potevamo essere presenti al funerale, avevamo gli occhi pieni di lacrime. Mamma si è ammalata, papà si è messo a cucinare. Era carinissimo, stava dietro ai sentimenti di tutti. Ogni tanto mamma si alzava, vedeva noi che piangevamo, soprattutto io, e papà impassibile che continuava a darci da mangiare e occuparsi di noi.

Come nonno Jomaa mi aveva insegnato la tolleranza nei confronti degli altri popoli, nonno Abdallah mi aveva insegnato la tolleranza religiosa. Gli abbiamo detto addio come abbiamo potuto, poi abbiamo cambiato casa.

7

Salvata dai libri

Nella nuova casa ho scoperto che papà aveva fatto costruire una camera solo per me. In linea di massima non si può fare in una casa in affitto, ma eravamo al pianterreno e c’era un cortiletto interno che non serviva a niente. L’aveva sistemato senza chiedere niente a nessuno in modo che avessi un luogo in cui tenere i libri e i giornali e soprattutto potessi leggere e scrivere in tranquillità, visto che il resto della casa era abbastanza sovraffollato. In quella stanza, la prima davvero mia, ho fatto conoscenza con molte persone appassionanti. Nei libri, intendo dire. Andavo a scuola e tornavo il prima possibile per ritrovarle. Da principio, troppo occupata a leggere, non ero presente nella vita reale di nessuno, poi ho cambiato scuola, sono andata in una in cui c’erano molte più alunne palestinesi, mentre quella di prima era frequentata più che altro da egiziane o native dei paesi del Golfo. Il mio livello scolastico è subito migliorato.


«Mamma, guarda quanto ho preso in ortografia!».


«Zero, come al solito» ha detto lei senza voltarsi, continuando a stendere i panni.


«Invece no. Nove e mezzo!».


Di colpo ho cominciato ad avere amiche, venivo cercata dalle vicine, stavo diventando quasi popolare. In città c’era un giardino pubblico riservato alle donne, il parco Al Jahili, dove ho fatto amicizia con varie ragazze. Ci andavamo il giovedì, e qualche volta pure il lunedì. Mi portavo dietro qualche libro, romanzi gialli o storie d’amore che avevo trovato nella biblioteca di papà. Le ragazze si mettevano intorno a me e mentre leggevo ad alta voce dimenticavano la condizione di povertà in cui vivevo, i vestiti che ricevevo dall’assistenza ai rifugiati e i pessimi voti che prendevo a scuola… Grazie alla letteratura non ero più una profuga palestinese. Le altre mi telefonavano in continuazione perché andassi a leggere le storie o farmi raccontare i loro problemi. Ormai avevo un volto e un nome.


Niente di tutto ciò piaceva a mia madre, né il fatto che avessi amici né che andassi al parco né che inforcassi la bicicletta che mi prestava un vicino. Ero ogni giorno più insofferente ai suoi divieti, non la ascoltavo più. Non sapevo che stavo diventando adolescente. Mamma non capiva bene cosa mi stesse succedendo, papà sì e mi lasciava fare. La prima volta che mi sono venute le mestruazioni mi trovavo al parco Al Jahili. Sono corsa a dirlo a mia madre, che non mi aveva minimamente messo in guardia! Per fortuna le mie amiche mi avevano già spiegato tutto, così non ho avuto troppa paura. Una notte mio padre si è svegliato e mi ha sorpreso a guardare una videocassetta in cui un uomo e una donna si baciavano. Era Eroe per caso, un film con Dustin Hoffman. Mi sono vergognata, ma lui non ha detto niente, è tornato a dormire. Il giorno dopo mia madre ha provato a parlarmi, ma con scarso successo. Cosa poteva dirmi? Ne sapevo già più di lei.


Quando papà mi ha regalato una sciarpa mi sono arrabbiata. Implicitamente era un invito a coprirmi la testa, dato che avevo raggiunto la pubertà, e non potevo accettarlo. Gli ho scritto una lettera per dirgli che mi rifiutavo e non gli ho più rivolto la parola. Qualche giorno dopo è venuto a dirmi: «Basta, non ne parliamo più. Non sei obbligata a coprirti la testa». Me la coprivo lo stesso, ma a metà, lasciando fuoriuscire i capelli. Tutte le ragazze la portavano così, almeno quelle che avevano genitori come i miei.


Il figlio dei vicini si chiamava Ali, ero amica delle sorelle. Avevamo entrambi tredici o quattordici anni e ci eravamo scambiati un pegno d’amore, due catenine con una mezzaluna da portare al collo. Sulla mia era scritto “Non c’è altro dio all’infuori di Dio” e sulla sua “E Maometto è il suo profeta”! Quando andavo a trovare le mie amiche, nonché sue sorelle, ci ritrovavamo seduti nello stesso salotto. Non scambiavamo una parola davanti agli altri, neppure le sue sorelle si accorgevano di niente, ci guardavamo da lontano, era una storia infantile. Non ci siamo mai baciati né tenuti la mano, eravamo pur sempre figli di due famiglie palestinesi del campo profughi di Rafah! L’unica cosa che facevamo era parlare di notte da una finestra all’altra. Dicevamo che ci saremmo messi insieme senza che i nostri genitori ne sapessero niente, ma alla fine non l’abbiamo fatto. Una volta mio padre mi ha sorpreso a parlare con lui dalla finestra, è rimasto un po’ in silenzio, poi ha detto: «Quel ragazzo non va bene per te, sei molto più intelligente di lui». Non ha gridato “Scandalo, stai parlando con un ragazzo nottetempo!”, non mi ha insultato né rivolto il minimo rimprovero, mi ha solo fatto pensare che Ali fosse un po’ stupido. Gli ho restituito la catenina… Papà ha sempre avuto una grossa influenza su di me. Ho ragionato sul fatto che nella mia balbettante vita sentimentale avevo lasciato a lui l’ultima parola, ho pensato al complesso di Elettra… poi ho dimenticato.


A scuola le ragazze erano attratte l’una dall’altra, si scrivevano lettere di nascosto. “Potrei fare come loro” ho pensato. Ne avevo notata una molto carina, si chiamava Meissa, era degli Emirati. Come nelle fiabe, lei era la principessa del posto e noi, le piccole straniere, eravamo in adorazione davanti a lei. Le ho scritto una lettera, mi ha subito risposto e abbiamo cominciato ad andare insieme al giardino delle donne, chiacchieravamo, ci dicevamo tutto. Non era una cima, ma era molto gentile. Ci raccontavamo storie di femmine, che ha fatto quella, cos’è successo a quell’altra, ci comportavamo esattamente come se fossimo state innamorate, solo che non lo eravamo. Due ragazze erano state sorprese chiuse insieme nei gabinetti della scuola. Era un costume diffuso nel Golfo, visto che non esistono rapporti naturali tra uomini e donne.


Non era però la mia priorità. Scrivevo già poesie. In una parlavo di cascate e montagne innevate benché non avessi mai visto una cascata né una montagna innevata, e non le avrei certo trovate negli Emirati! Scrivevo sempre di più. Poesie, novelle, storie. Scrivevo ovunque su un quaderno che portavo sempre con me, a casa, a scuola, al parco… A casa leggevo a mio padre quello che avevo scritto. Ho cominciato anche a tenere un diario in cui raccontavo tutto quello che mi succedeva e confessavo la mia ammirazione segreta per gli scrittori e gli artisti.

8

La valle dei fiori

La Palestina continuava a seguirci anche negli Emirati. Quando è scoppiata la prima guerra del Golfo, nel 1990, Yasser Arafat si è pronunciato a favore di Saddam Hussein che aveva invaso il Kuwait, gesto che ha provocato la collera delle autorità degli Emirati contro i palestinesi. Come rappresaglia ci è stato revocato l’accesso alla scuola pubblica gratuita, e le scuole private erano carissime. Mio padre aveva già perso l’impiego da ingegnere in comune per aver accettato un secondo lavoro, disegni d’architettura che faceva a casa, qualcuno l’aveva denunciato per pura cattiveria, e oltre all’affitto, alla vita quotidiana e a tutto il resto si ritrovava a dover pagare per l’istruzione di sei figli. Alla fine ha trovato un lavoro in cui guadagnava di più, ma ad Abu Dhabi, a due ore di strada da casa nostra. Restava lì cinque giorni a settimana, tornava ad Al Ain solo per il weekend. Certe volte, durante le vacanze scolastiche, mi permetteva di accompagnarlo.


Un’altra cosa che ci faceva restare sintonizzati sulla Palestina era l’intifada scoppiata nel 1987, la “rivolta delle pietre”, diventata famosa in tutto il mondo per via della sua quasi non violenza. La sera ci riunivamo davanti alla televisione per seguirne gli sviluppi, io anche con la segreta speranza di vedere la nostra casa di Rafah. Il giorno in cui, nel 1993, la sollevazione ha portato alla firma degli accordi di Oslo che prevedevano la risoluzione negoziata del conflitto israelo-palestinese, nessuno di noi riusciva a crederci. Ci siamo convinti solo quando abbiamo visto in televisione Yasser Arafat entrare a Gaza tra le acclamazioni della folla festante, nel luglio del 1994. Non c’era dubbio, il vecchio capo palestinese era riuscito a “liberare Gerusalemme”. Ci siamo fatti prendere da una gioia proporzionata alla precedente incredulità. Felici, ci siamo letteralmente messi a saltare, poi siamo scesi a gridare la nostra contentezza nelle strade di Al Ain. Quasi tutta la popolazione femminile palestinese della città si è ritrovata al parco Al Jahili ad abbracciarsi e lanciare striduli yu-yu. Tornati a casa, la televisione continuava a trasmettere a ciclo continuo la scena dell’arrivo di Arafat a Gaza. E noi non ci stancavamo di guardarla.


Più tardi nella stessa serata la televisione ha mostrato alcuni militanti di Hamas in passamontagna denunciare con violenza gli accordi di Oslo che avevano permesso il ritorno di Arafat. Nell’euforia li abbiamo tacciati di guastafeste, gente che non sa perdere. Era ancora troppo presto per capire che purtroppo il seguito degli eventi avrebbe dato loro ragione. L’assassinio del Premier israeliano Rabin avrebbe rimesso tutto in discussione, Arafat non aveva liberato un bel niente, le concessioni che aveva fatto non avrebbero portato da nessuna parte, gli accordi di Oslo sarebbero sfociati in un vicolo cieco e in divisioni terribili… Per il momento tuttavia la nostra speranza era intatta, avevamo troppa voglia di veder risolto il problema una volta per tutte!


Parallelamente si stava svolgendo un’altra vicenda. Qualche mese prima, telefonando a Gaza, mio padre era venuto a sapere che zio Said, ricercato dagli israeliani per la sua attività militare a Rafah, durante l’arresto era stato ferito da colpi d’arma da fuoco. In prigione non era stato curato, o male, la cosa era poco chiara. Un altro detenuto aveva raccontato di aver visto vermi uscire dalla sua ferita. Per poco non aveva perso la gamba, l’avevano salvata in extremis. Dopo una lunga permanenza dietro le sbarre aveva fatto parte di un gruppo di quattrocentodiciassette dirigenti e quadri di Hamas e del Jihad islamico che le autorità israeliane avevano messo in isolamento a Marj el-Zouhour (“Valle dei fiori”), un piccolo borgo all’estremo sud del Libano da loro occupato. I reclusi ne avevano approfittato per condurre un’efficace campagna di propaganda a favore delle loro tesi. Dal suo luogo d’esilio zio Said riusciva perfino a telefonarci, ma molto di rado. Sua sorella, mia zia, studiava farmacia in Yemen e papà ha cominciato a mandarle soldi perché potesse finire gli studi.

Anni dopo, quando ci siamo ritrovati, zio Said mi ha detto che aveva un bellissimo ricordo di quell’esilio nel sud del Libano. Era riuscito a comprarsi un cavallo, lui e i suoi compagni squagliavano la neve per farsi il tè, avevano organizzato una scuola di campagna, i contadini libanesi sciiti andavano a trovarli e i rapporti tra i quattrocentodiciassette detenuti erano diventati particolarmente stretti. Quand’è tornato a Gaza, la già insediata Autorità palestinese di Yasser Arafat diffidava giustappunto dei dirigenti e quadri di Hamas che erano stati liberati, era pronta addirittura a metterli in prigione, cosa che zio Said voleva evitare a tutti i costi. Di prigione ne aveva già fatta abbastanza. Tornato dall’esilio, quindi, ha preso le distanze dal movimento islamista ed è diventato professore d’inglese, assunto dal ministero dell’Educazione nazionale dell’Autorità palestinese. Inoltre ha ritrovato la moglie Nisrin, a cui voleva molto bene, e hanno avuto quattro figli, tre femmine e un maschio. Sembrava che avesse un po’ capito il senso e la bellezza della vita, ma nel 2007, quando Hamas ha preso il potere nel territorio, ha smesso di insegnare ed è entrato nei servizi di sicurezza del movimento islamista.

Molti dei dirigenti di Gaza che sono ancora oggi al potere erano suoi compagni di detenzione a Marj el-Zouhour.

9

Qualcosa che non prende

L’azienda per cui lavorava mio padre ha cominciato a pagargli lo stipendio in ritardo. A un certo punto è arrivata a dovergli una bella somma, quarantamila dirham, circa undicimila euro. Papà non riusciva a pagare le bollette. Ci hanno tagliato la corrente in un momento in cui la temperatura si aggirava sui cinquanta gradi. Per sfuggire al caldo di notte andavamo a dormire sotto gli alberi di un vicino giardino pubblico, e quando restavamo a casa lasciavamo tutte le porte aperte. Una notte ho aperto gli occhi e ho visto dei ladri ai piedi del mio letto! Ho cacciato un grido e sono svenuta, quando ho ripreso i sensi in casa c’era la polizia.


Non per questo la situazione è cambiata. Continuavamo a essere senza elettricità, ma mio padre non era tipo da arrendersi, era un combattivo. Ha riunito noi figli, eravamo ormai nove, e ci ha spiegato che saremmo andati a dormire con lui nei locali della società di Abu Dhabi per cui lavorava. Era la prima volta in vita mia che partecipavo a un’occupazione! Ci siamo andati. Siamo entrati e abbiamo posato i nostri fagotti. I pezzi grossi erano sbalorditi, non si aspettavano che una famiglia di profughi palestinesi venisse ad accamparsi nei loro uffici! Non pagavano mio padre solo per cattiveria e avarizia, ma anche per disprezzo! Giravano in Mercedes e abitavano in ville lussuose, se ne fregavano del misero ingegnere palestinese che aveva una famiglia da mantenere. Io dormivo sotto il grande tavolo della sala riunioni. Papà portava le provviste e mangiavamo su quello stesso tavolo. C’era l’aria condizionata, andavamo tutti i giorni nella spiaggia accanto, era diventata casa nostra! Ogni tanto passava il direttore e ci lanciava occhiate sgomente, ma ce ne infischiavamo. O quasi… Certe mattine faceva uno strano effetto svegliarsi tra gli impiegati che andavano al lavoro, ma mio padre era cocciuto e rispettavo la sua ostinazione. Si batteva per un suo diritto e mi insegnava a essere fiera di quello che facevamo. Se fosse rimasto fermo a lamentarsi e indebitarsi non sarei mai stata quella che sono oggi. A volte dall’umiliazione, quando viene rifiutata e affrontata, nasce la forza. Abbiamo bivaccato negli uffici per una settimana, e che settimana! Sono stati giorni bellissimi, nonostante i problemi e la povertà eravamo allegri, mi svegliavo di notte e vedevo papà e mamma che si baciavano.


Alla fine l’azienda ha ceduto, pur di vederci andare via ha pagato tutti gli stipendi arretrati. Eravamo talmente contenti che tiravamo in aria quelle banconote duramente conquistate. «Torniamo a Gaza!» ha annunciato mio padre. Ero felice, l’anno prima ci eravamo tornati per una breve visita e mi ero innamorata di un cugino che tornava dalla Libia. Mamma non era molto convinta, non aveva voglia di tornare a casa di nonno Jomaa, aveva paura di dover subire di nuovo le loro critiche, ma papà l’ha tranquillizzata: «Ogni mese ho mandato soldi a Rafah per far costruire una nuova casa, non è ancora finita, ma è già bella, abiteremo lì». Abbiamo salutato gli amici, le ragazze hanno organizzato per me una festicciola d’addio nel parco Al Jahili, i vicini si sono messi a piangere. Siamo partiti giurando di non tornare mai più.


Il Golfo è un mondo strano, abbastanza irreale. In quei paesi non esiste la natura, ci sono solo case addossate l’una all’altra. Per vedere il deserto bisognava fare un’escursione. Mio padre ci portava tutti e sei (gli ultimi tre erano ancora piccoli) a camminare lungo la strada, in fila indiana come anatroccoli, fino al confine con l’Oman e noi lo seguivamo perché gli volevamo bene, anche se sbuffavamo.


«Papà, non ne possiamo più, siamo stanchi!».


«Tranquilli, siamo quasi arrivati».


Non era vero, c’era ancora parecchia strada da fare. Ci andavamo a sedere nei giardini pubblici, aprivamo una scatola di formaggini e li mangiavamo all’aria aperta, che bei ricordi! Papà non ci faceva mai sentire che eravamo poveri. Arrivavamo sfiniti e affamati a Bremi, la città più vicina ad Al Ain, dove facevamo merenda con gli handal, una specie di piccoli cocomeri acidi e amari. Negli Emirati non siamo mai andati a mangiare da McDonald’s o Hardy’s, come facevano mio zio e sua figlia, per noi era troppo caro. In compenso a casa avevamo due videoregistratori e papà ci faceva vedere i film più belli del mondo, drammi, avventure, horror, film d’azione, cose di cui mia cugina non aveva idea. La nostra formazione è stata a base di libertà di pensiero, cinema, musica e lettura. Quasi tutti noi figli, tranne un fratello e una sorella che hanno studiato medicina e oculistica, ci siamo orientati verso discipline artistiche, pittura, cinema o letteratura, proprio perché ci eravamo stati abituati da papà fin da piccoli.


Capisco tutto ciò che viene scritto sugli Emirati, perché so come pensa la gente in quella società che si crede religiosa ma non lo è. In fondo cosa vuole il potere religioso? Vuole che Gaza diventi una società a immagine di quella del Golfo, che maschi e femmine siano separati in ogni luogo, che le ragazze non fumino il narghilè, che le donne portino il velo e siano sottomesse ai mariti, che i viali siano ampi e puliti e che si taglino gli alberi per allargare le strade, tutte cose che non hanno assolutamente niente a che fare con la religione. Sono società testarde, corrotte e piene di moschee in cui si opprimono i bambini per obbligarli a studiare il Corano.

Gli Emirati possono avere un’influenza su di te, ma non possono darti un’educazione, da quelle parti c’è qualcosa che non prende. Non è stato un paese che mi ha formato alla capacità di dire “Voglio questo, rifiuto quest’altro”. Per esempio quando mio padre mi ha regalato la sciarpa perché mi coprissi i capelli mi sono sottomessa a metà. No, a fare di me una ribelle è stata Gaza.

10

In riva al mare

Avevo otto anni quando sono partita per gli Emirati e sedici quando sono tornata. Forse mi ero illusa di poter riprendere la vita di prima, ma nel frattempo ero diventata una ragazza e a Gaza vigeva una maggior rigidità di costumi. Era il 1998. Ho ricominciato ad andare in giro con la testa coperta a metà e a chiacchierare con i miei cugini, e la gente non ha tardato a parlare male di me. «È quella che viene dall’estero e si veste in maniera indecente» commentavano vedendomi passare. Andavo in spiaggia con i miei fratelli, cosa che non si fa, il litorale ha una pessima reputazione, è considerato un luogo di malavita, sesso, hashish, perdizione. Quando di una ragazza si dice che il suo amico “l’ha portata in spiaggia” significa che si sono comportati male. Gli zii hanno telefonato a mio padre, che era rimasto negli Emirati per sistemare le ultime cose.


«Tua figlia è andata in spiaggia, Dio sa cos’è successo».


«Che volete insinuare? Se avete qualcosa da dirle, diteglielo direttamente».


Ci hanno provato, sia zio Fadi che zio Said, a turno. A entrambi ho risposto calmissima: «Non c’è niente di male, non corro rischi, mi conosco, so badare bene a me stessa». Non sapevano cosa rispondermi. Non era la prima volta che chiamavano papà per denunciare il mio comportamento o il modo in cui mi vestivo. Intervenivano anche ogni volta che mi facevo una nuova amica: «Quella ragazza non va bene, la madre ha una pessima reputazione» eccetera. Avevo appena conosciuto una ragazza fantastica, Imane, che si dichiarava atea. Apparteneva a una delle famiglie palestinesi espulse dall’Egitto e viveva in un campo profughi che si chiamava Canada. La gente guardava male anche lei perché portava i pantaloni e si comportava come le pareva: eravamo fatte per capirci. Passavamo la maggior parte del tempo insieme, a volte a casa mia e a volte a casa sua, ma ci vedevamo tutti i giorni. Compravamo patatine e cioccolato e restavamo a chiacchierare per ore. Aveva un modo di pensare particolare. Un giorno per strada le ho detto:


«Hai visto come la gente guarda con insistenza la coppia che cammina davanti a noi? È insopportabile!».


«Anche noi la stiamo guardando. Puoi dire quello che ti pare, ma restiamo figlie di quest’ambiente e di questa mentalità, i nostri occhi sono attratti nello stesso modo da qualunque cosa esca dall’ordinario. Non si tratta soltanto di cambiare lo sguardo della gente, dobbiamo cambiare anche il nostro».


Ho capito come usava il cervello. Sono stata zitta. Saremmo rimaste amiche a lungo. Imane non era la sola ad aiutarmi a trovare il mio posto a Rafah, c’era anche un fratello di mia madre, zio Ahmed, poeta e laureato in letteratura araba. Aveva una bellissima biblioteca che aveva riportato in scatole di cartone dalla Libia, dov’era stato a lavorare. Tra i suoi libri ho scoperto la scrittrice Ghada al-Samman, ex amante del famoso scrittore palestinese Ghassan Kanafani. Avevano avuto un rapporto particolarmente tumultuoso, lei lo respingeva continuamente e parlava del loro amore con una forza e una libertà impressionanti. Anche se era successo negli anni Settanta, epoca più liberale della nostra, il fatto stesso che fosse potuta esistere una passione del genere nel mondo arabo e palestinese mi dava coraggio. Mi sono messa a leggere tutto quello che riuscivo a trovare di Ghada al-Samman, in particolare gli Unfinished Works. Nella biblioteca di zio Ahmed ho anche scoperto Guerra e pace di Tolstoj, Lolita di Nabokov e poi Dostoevskij, Shakespeare, Tagore, tutti i libri importanti… Trovarmi davanti alla vera scrittura mi faceva tremare. Mi sono chiesta se non volessi diventare romanziera invece di poetessa, ma ne ero capace? Prendevo i libri uno dopo l’altro e li restituivo quando avevo finito di leggerli. Se non lo facevo mio zio protestava. Con lui parlavamo di filosofia e letteratura. Ogni tanto si stufava di me perché parlavo troppo. La sua biblioteca è bruciata nel corso dell’intervento israeliano del 2001, durante la seconda intifada. Ho camminato tra i volumi carbonizzati, zio Ahmed piangeva sui libri perduti. Siamo riusciti a salvare solo tre o quattro testi di psicologia.


Non mi faceva mai domande imbarazzanti e non ficcava il naso nei fatti miei. Un giorno, nel viale della scuola, il professore d’inglese di cui ero innamorata, Saleh, mi aveva fatto scivolare nella mano una poesia che descriveva l’amore come una “Karbala”. Non conoscendo il significato del termine l’ho fatta vedere a zio Ahmed. Seduto nella sua biblioteca, lui non mi ha chiesto chi fosse il professore che scriveva versi per me, si è limitato a spiegarmi meglio che poteva: «Ogni anno gli sciiti, flagellandosi a sangue, celebrano il martirio di Hussein, il nipote del Profeta, ucciso a Karbala». La poesia, quindi, citava quella sanguinosa cerimonia per paragonarla alle sofferenze dell’amore che imponiamo a noi stessi. Il paragone mi ha impressionato, ma non posso dire di averlo trovato molto sexy.


Molto prima che Saleh mi dedicasse la sua poesia ne avevo scritta una per lui, composta in modo che nessuno potesse capire chi fosse il destinatario, e l’avevo inviata per fax ad Al-Ayyam (“I Giorni”), un noto quotidiano di Ramallah. Nel campo profughi di Rafah, farsi pubblicare rappresentava il sogno assoluto. Qualche giorno dopo l’Al-Ayyam pubblicava la mia poesia nel supplemento culturale Yaraat (“Farfalline”): avevo solo sedici anni! L’indomani hanno bussato alla mia porta. Era zio Fadi con il giornale in mano. «Come hai potuto fare una cosa del genere? Sei impazzita? Mai, nella nostra famiglia, una ragazza ha pubblicato una poesia d’amore!». E io che pensavo che sarebbero stati orgogliosi di me! Per fortuna i miei genitori lo sono stati più di quanto sperassi. Erano felici che un giornale importante mi avesse pubblicato!


«Vieni, parliamo!» ha detto zio Fadi. Voleva portarmi in macchina fino alla spiaggia. Mentre cercava le chiavi mia madre si è messa a scalpitare esclamando: «Ti ucciderà e ti butterà in mare!», come se la spiaggia potesse anche essere il luogo del delitto, ma le ho risposto: «No, sono sicura che non farà niente, parleremo e basta». E così è andata. Camminavamo sulla spiaggia, io sicura che da un momento all’altro mi avrebbe attaccato per la poesia. Invece mi ha chiesto:


«Fai parte del Fronte popolare?».


«No, per niente».


«Ma le tue amiche ne fanno parte, sono tutte di sinistra!».


Ho capito quale fosse il suo problema. Avevo scritto una pièce teatrale che sarebbe stata rappresentata da una troupe di attori dilettanti e, dato che non disponevano di una sala prove, li avevo invitati a provare a casa mia. I vicini avevano gridato allo scandalo: come potevo ricevere a casa mia giovani di entrambi i sessi per recitare? Zio Fadi cercava di parlarmi del mio comportamento in generale collegando la poesia spedita ad Al-Ayyam allo spettacolo teatrale messo su con la mia complicità. Ho deciso di tenere un basso profilo.


«È possibile che i miei amici siano membri del Fronte popolare, ma io no».


Abbiamo continuato a parlare e camminare sulla spiaggia. Sapeva solo ripetere frasi fatte.


«Quelli del Fronte popolare sono perduti, saremo noi ad andare in paradiso, non loro! Noi siamo l’islam e dobbiamo servire l’islam, a questo devono contribuire il nostro pensiero e la nostra penna».


«E tu come sai che non sto servendo l’islam a modo mio?».


Cosa poteva rispondermi? Non leggeva né ragionava con la sua testa, sapeva solo dire ciò che è lecito e ciò che è peccato. A corto di argomenti, non ha potuto fare altro che riportarmi a casa, con gran sollievo di mia madre.


Alla fine lo spettacolo è stato montato. Consisteva in una successione di brevi sequenze che parlavano dell’infanzia. Una si svolgeva in famiglia, un’altra per strada e la terza a scuola. La nostra infanzia perduta, questo era il titolo, ha avuto un tale successo che ha vinto il primo premio di un concorso. Quando è stato annunciato il risultato mio padre e mia madre, che erano in sala, si sono alzati esultando, anche perché tra gli attori c’erano un mio fratello e una mia sorella. Tutta la famiglia che aveva criticato il teatro e mi aveva aspramente osteggiato si è ritrovata in sala a piangere traboccante d’orgoglio, tranne gli zii che hanno tenuto il muso per tutto lo spettacolo continuando a dire: «Siete dei miscredenti, state distruggendo il mondo». Il tempo in cui Hamas organizzava spettacoli nelle moschee era definitivamente passato.

11

La tentazione del velo

La mia amica Imane è arrabbiata con me e io con lei. Non è la prima volta, ultimamente abbiamo litigato molto per colpa di ragazze gelose, dei miei zii che le facevano sentire di non essere la benvenuta e altre stupidaggini, ma stavolta, non so perché, avevo la sensazione che fosse una cosa più seria. Mi sono rifugiata sul tetto e ho scritto una novella per lei, Io e te. Sembrava una dichiarazione d’amore a un ragazzo, non c’era niente da cui si potesse capire che mi stavo rivolgendo a una ragazza. Gliel’ho mandata e non è successo niente. Ho aspettato un giorno, poi un altro… Sono salita di nuovo sul tetto e ci sono rimasta, non avevo più voglia di scendere. Senza Imane avevo l’impressione di essere sola in un mondo cattivo. Il problema non riguardava soltanto l’Oriente. Mi è venuto in mente Kundera, anche lui ha descritto società chiuse che reprimono la bellezza in tutte le sue forme, quella del corpo, dell’anima e dell’arte, semplicemente perché non la capiscono. Mi trovavo ad affrontare un mondo simile e non c’era più nessuno ad aiutarmi. Nella mia vita non ho mai avuto tempo per la felicità, tutte le mie energie erano concentrate nel restare in piedi e andare avanti. Anche in amore non inseguivo la felicità, ma la capacità di reggere e continuare ad amare. Di colpo mi è piombato addosso uno scoraggiamento mai provato, e non più soltanto per via di Imane. Le pressioni che respingevo con forza da quando ero tornata dagli Emirati, sguardi ostili, parole offensive, maldicenze mormorate, sorda disapprovazione e malcelata ostilità, mi sono piombate addosso tutte insieme. Era un fatto fisico, il mio corpo non sopportava più la tensione in cui vivevo giorno dopo giorno. All’interno di me qualcosa si era rotto. Mi sono messa a piangere. Dopo tanti sacrifici mi ritrovavo completamente sola sul tetto. Mi sono avvicinata al bordo con la tentazione improvvisa di farla finita, invece sono scesa per le scale e ho rivisto Imane, che mi ha salvato dalla follia. Mi ha abbracciato, ha ricominciato a parlare con me come prima e ha ricostruito intorno a noi la bolla in cui eravamo sempre state benissimo. L’ho ritrovata. Ancora una volta si era servita della sua bella testolina per trasmettermi un po’ della sua forza. Il suo calore mi ha consolato e mi ha fatto riconciliare con lei.

Ma l’incrinatura era rimasta, nonostante il gran sollievo continuavo a percepirla. Era come un dolore nel cuore, un lutto impossibile da ignorare, non potevo ricominciare a vivere come se niente fosse. Allora ho capitolato. Ho indossato la grande gellaba che ricopre il corpo, mi sono messa il velo e sono andata alla moschea, ci sono addirittura tornata tutti i giorni. Credevo di aver trovato la soluzione: diventare come gli altri. Ho offerto alle autorità della moschea di occuparmi della formazione delle bambine, proposta che hanno accettato a condizione che mi limitassi a insegnare religione. Le bambine avevano undici o dodici anni e mi chiamavano zia Asmaa, le lezioni consistevano in un’interpretazione dei versetti del Corano. Per esempio raccontavo la storia di Giuseppe, sayyedna Yusuf, bello come la luna, e della moglie del governatore egiziano che lo accusava di averla aggredita portando come prova la tunica strappata del bel giovane. Non dicevo che la moglie del governatore aveva voluto portarselo a letto e che Yusuf era scappato abbandonando la tunica, dicevo soltanto «Le piaceva», perché le bambine capissero senza essere scioccate. Raccontavo anche dell’abissino Abraha, partito con i suoi elefanti per distruggere la Kaaba, specificando che la pietra sacra era in realtà anteriore all’islam. Può essere che il mio ruolo nella vita sia quello di raccontare storie, religiose o non religiose. Non mi sono fermata lì, ho proposto alle bambine di partecipare a una gara di cultura: «Chi è lo scrittore che ha scritto il tal libro? Qual è il poeta arabo più famoso?» eccetera. Si sono divertite un mondo! Durante la ricreazione un ragazzino veniva alla porta a vendere gomme da masticare che le bambine compravano. Le responsabili femminili della moschea non apprezzavano niente di quello che facevo, erano inorridite dalle mie interpretazioni del Corano, trovavano che la gara di cultura fosse poco halal e disapprovavano che dessi alle bambine il permesso di uscire e comprare dolciumi da un ragazzo di strada. Dovevo limitarmi al Corano e alle spiegazioni religiose, punto e basta. Ingenua com’ero, la loro reazione mi stupiva. Secondo me il mio comportamento e le mie spiegazioni non contraddicevano in niente la religione. Mi ero messa il velo e riavvicinata alla moschea, eppure quelle donne mi rifiutavano. In fondo non avevano niente a che vedere con l’islam! Quando andavo a pregare mi dicevano: «Non lo stai facendo bene, la posizione delle mani non è quella giusta, la mano destra dev’essere sopra la sinistra, i gomiti non devono toccare il pavimento…». Non capivano un accidente di come il mio cuore fosse arrivato a pregare, che per me era la cosa fondamentale. A loro importavano solo il rito e la pratica, non il sentimento. Non mi accorgevo nemmeno che mi rifiutavano. Per quanto indossassi gonne lunghe, camicie coprenti e hijab completo continuavano a guardarmi storto.

Un giorno che era in programma una gita, prima di unirmi al gruppo sono corsa a comprare dei biscotti. Ho telefonato per avvertire che ero in leggero ritardo e loro hanno risposto «Il pullman ti aspetterà», ma quando sono arrivata non c’era più nessuno. Solo in quel momento ho capito che non mi volevano con loro. Le bambine sul pullman ci sono rimaste malissimo, le responsabili per niente. È stato un brutto colpo, ma avevo finalmente recepito il messaggio e non sono più tornata alla moschea. Mi sono ripresa. In realtà avevo appena scoperto Mustafa Mahmud, uno scrittore egiziano marxista che si era avvicinato all’islam, un islam molto moderato. Mi sono messa a leggerlo e ho pensato che ero stata stupida, mi sono tolta i vestiti religiosi e ho ricominciato a vestirmi come prima.

Quando gli avevo annunciato «Papà, ho deciso di vestirmi da credente», mio padre si stava facendo la barba. Per poco non si era tagliato. «No!» aveva risposto, e io avevo ribattuto che la cosa non lo riguardava eccetera eccetera. Era rimasto zitto.

«Papà, ricomincio a vestirmi come prima» ho detto pescandolo ancora una volta in bagno.

«No!».

«Ascolta, conosco un poeta americano che ha detto: “Non mi vergogno di una verità alla quale sono arrivato, anche se contraddice la precedente”».

È stato zitto di nuovo. Io ho continuato a leggere Mustafa Mahmud, ho riletto Ghada al-Samman e ho consolidato il mio carattere. Quel periodo ha sicuramente segnato un punto di svolta nella mia vita. Gli zii non hanno tardato a darmi battaglia.

«Perché ti sei tolta gli abiti da credente? Che via hai intrapreso?».

«Se un ragazzo religioso cambia, nessuno se ne accorge perché è sempre vestito uguale, mentre se una ragazza cambia lo notano tutti perché si vede da quello che indossa».

L’argomentazione era un po’ debole e dubito che li avesse convinti, ma non mi importava, ero finalmente tornata me stessa.

12

Università islamica

Malgrado il bel voto preso all’esame di maturità, 76/100, le università tedesche non mi hanno voluto sostenendo che le ragazze palestinesi andavano in Germania per sposarsi e non per studiare. Di fronte a quel rifiuto sessista ho dovuto rassegnarmi a iscrivermi all’università islamica di Gaza, facoltà di Giornalismo e informazione. Era il 2001. A papà non dispiaceva la mia scelta, insegnava anche lui in quell’università nota per essere vicina a Hamas. Ho avuto presto buoni risultati, ma discutevo continuamente con quelli dell’università, fino a che sono stata convocata dal consiglio di disciplina. Il mio “giudice” era il presidente degli Affari studenteschi, Atallah Abu Sbeih, che poi diventerà ministro della Cultura nel governo di Hamas e in seguito ministro dei Prigionieri.


«Mi hanno detto che porti a lezione libri di Ghada al-Samman e Ghassan Kanafani, e che li leggi pubblicamente alle altre studentesse…».


«È vero».


«E ne parli con loro…».


«Sì, è così. Qual è il problema?».


«Lo sai bene».


«Ghassan è innamorato di Ghada che non lo ricambia e, arrabbiatissimo, le scrive “Sia maledetta la tua religione”. È questo che la disturba?».


«Proprio questo. Vedo che sei al corrente».


«Certo che sono al corrente, ma è letteratura!».


Ero ostinata, siamo rimasti ore a discutere senza raggiungere un risultato, poi ha cambiato discorso.


«Quando indossi l’abaya (una tunica lunga) ti restano le braccia scoperte… Sotto dovresti metterti una camicia a maniche lunghe».


Sono rimasta senza parole. Così era l’università islamica: bisognava come minimo avere una sciarpa sulla testa, maniche lunghe, pantaloni sotto il vestito e niente trucco, sennò non ti facevano entrare, e ovviamente maschi e femmine erano separati. Era la più grande università del territorio, annoverava migliaia di studentesse tutte simili e tutte consenzienti tranne me! Il “giudice” è andato da mio padre: «Non ho mai visto una mente come quella di tua figlia, legge e discute in continuazione. Posso venire a casa vostra a parlare con lei?». «Vieni!» gli ha risposto papà. Ci siamo seduti in salotto e ha cominciato:


«Quando vedi un ragazzo e una ragazza insieme credi che stiano parlando del processo di pace?».


«Perché no?».


Gli rispondevo punto su punto. In fondo il suo discorso si riduceva a un lungo elenco di ciò che bisognava o non bisognava fare.


«Sta a me dire quello che penso e quello che provo» ho detto, «a me e a nessun altro! Sta a me decidere dov’è il bene e dov’è il male, non agli Affari studenteschi! Dio stesso conta sul libero arbitrio dell’essere umano, sulla sua libera volontà. Non tocca all’università stabilire come devo vestirmi. O altrimenti decidete una divisa unica per tutti, come all’asilo!».


Se n’è andato senza fiatare. Poi ho litigato con il professore di letteratura araba perché sosteneva che avessi paura di discutere con lui. In seguito è stato il turno del professore di scienze politiche, che ci ha distribuito un testo in cui si trattava dei partiti islamici nella società musulmana. L’ho rifiutato perché preferivo fare una mia ricerca in biblioteca, dove mi sono imbattuta in un libro di Yusuf al-Qaradawi, un famoso sceicco membro dei Fratelli musulmani secondo il quale non esiste una “società musulmana”, ma solo una “società che annovera musulmani” in cui nessuno può considerare l’islam un suo monopolio. Aggiungeva che ogni Stato musulmano deve accettare i partiti politici, compresi i partiti cristiani o il partito comunista. Mi ha convinto. Ho terminato la ricerca e consegnato la mia relazione. Il professore è andato fuori di testa. Si è messo a discutere con me davanti alla classe come se fossimo soli. Affermava che uno Stato musulmano deve accettare solo il partito islamico, perché il potere risiede naturalmente nelle mani dell’emiro, e che se fosse esistito un altro partito avrebbe dovuto essere anch’esso islamico. Eravamo in disaccordo totale, ma mi ha dato un bel voto, 92/100. Mi sono sentita molto incoraggiata dal fatto che avesse rispettato la mia opinione anche se non la condivideva. Ciò nonostante, il clima che regnava in quell’università mi era insopportabile. Non ne potevo più. Ho retto un anno e mezzo, poi ho deciso di cambiare. Mio padre non voleva sentire ragioni.


«Se ti iscrivi in un’altra università non ti pago più gli studi».


«Non pagarmeli. Come dice lo scrittore Gamal al-Ghitani, “Meglio il mal di testa della libertà che il cancro dell’oppressione”».


Ha continuato a farmi pressioni, ma non ho ceduto e nel 2000 mi sono iscritta all’università laica di al-Azhar nella facoltà che zio Ahmed, il proprietario della biblioteca, aveva scelto prima di me, Lingua e letteratura araba. Ogni giorno dovevo fare un’ora e mezza di strada per andare da Rafah a Gaza, dove si trovava l’università. Dovevo anche trovarmi un lavoro retribuito, visto che mio padre aveva tenuto fede alla sua minaccia.


Nella nuova università il livello accademico non era granché, ma i professori erano formidabili. Parlavo con loro della storia e dei problemi della lingua, mi piaceva moltissimo. Nell’università coesistevano una tradizione conservatrice e una tradizione liberale che si confrontavano di continuo, e il fatto che avessero idee completamente opposte creava uno spazio di discussione, una differenza enorme rispetto al pensiero monolitico che vigeva nell’università islamica. Organizzavo circoli di formazione letteraria in cui parlavamo di forme e tecniche di scrittura con le altre studentesse, era appassionante. Per sopravvivere facevo la commessa in un negozio di vestiti. Insieme ad altre ragazze avevamo preso in affitto un appartamento, cosa che mi risparmiava di fare avanti e indietro con Rafah. L’esperienza della convivenza era bella e ci insegnava a essere indipendenti, inoltre vivevamo in riva al mare. Abbastanza presto ho lasciato il lavoro di commessa, perché il quotidiano Ramadan Daily mi ha offerto la mia prima esperienza come giornalista. Ho anche ottenuto di fare uno stage in un giornale sportivo per il quale scrivevo articoli che erano invariabilmente firmati con un nome maschile. Quando ne ho chiesto il motivo al direttore, lui mi ha risposto: «Perché c’è da vergognarsi a far firmare una donna in un giornale sportivo destinato esclusivamente agli uomini». Mi sono dimessa.


Purtroppo eravamo solo quattro studentesse iscritte a Lingua e letteratura araba e, giudicando il numero insufficiente, l’università ha deciso di sospendere il corso. Non sapevo più che fare. Mi sono messa a lavorare per il quotidiano Al-Quds, ma il direttore, a cui piaceva molto quello che scrivevo, non mi rimborsava nemmeno le spese di trasporto. Per tre anni ho avuto gli stessi pantaloni, mio padre continuava a non darmi un soldo. Ce l’avevo con lui senza rendermi conto che la sua ostinazione era salutare, perché mi insegnava l’autonomia materiale. Scrivevo novelle per vari giornali che mi pagavano cento shekel a pezzo, l’equivalente di venti euro. Ho praticato quella specie di equilibrismo fino al giorno in cui, nel 2001, sono capitata su una rivista degli Emirati abbastanza corretta, Donna oggi. Ho scritto loro una lettera di candidatura e mi hanno risposto che potevano assumermi nella rubrica Cultura e società. Avevo diciannove anni. Un anno dopo avevo i mezzi per aprire un ufficio: era la prima volta che una giornalista di Gaza tentava una cosa simile.


L’ufficio andava bene e presto ho guadagnato abbastanza da pagare l’affitto. Lo dividevo con due soci, uno lavorava per il giornale Il Golfo arabo, l’altro per Al-Quds, ed erano entrambi membri di Hamas. Con il primo discutevamo sempre di religione, discussioni affascinanti, mentre al secondo non piacevano né la mia indipendenza né la gente che ricevevo, tanto che aveva vietato ai suoi collaboratori di parlare con me. Ero isolata, ma me ne fregavo. Malgrado tutto avrei adorato che la mia famiglia lasciasse la casa di Rafah e venisse a sistemarsi a Gaza. Ne ho parlato con mio padre, che però nicchiava. Nel frattempo mia sorella Aicha era cresciuta e si era rivelata ancora più testarda di me, non solo rifiutava di coprirsi la testa, ma aveva adottato un cagnolino che la seguiva dappertutto, e a nessuno piacciono i cani dalle nostre parti. E non si trattava soltanto di Aicha, anche le altre sorelle stavano crescendo con un vicinato conservatore che cominciava a guardarle male. A un certo punto mio padre ne ha avuto abbastanza di quella società in cui si presuppone che le ragazze si sposino a quattordici anni: aveva sei figlie! Dall’oggi al domani ha deciso di trasferire tutti a Gaza.


Abbiamo preso in affitto una casa semplicissima nel quartiere di Zeitoun, poi un’altra nel quartiere di Tal al-Hawa in cui abbiamo ricominciato a vivere tutti insieme. Le cose erano cambiate. In assenza degli zii, papà si è sentito investito di non so quale potere su di me. Ficcava il naso nei miei affari, nel mio lavoro, voleva sapere dove andavo, e dal canto mio gli rimproveravo una mancanza di fiducia nei miei confronti… Tutto diventava motivo di discussione e frizione fra noi. Non lo riconoscevo più. Un giorno abbiamo litigato e si è messo a piangere. Io discuto sempre fino in fondo senza mai piangere, come del resto mi aveva insegnato lui. «Le tue lacrime non riusciranno a farmi cambiare parere» diceva. Così, in quel momento, non ho sopportato di vederlo piangere per strada. Liti, grida, difficoltà, sentivo troppa pressione su di me, dovevo assolutamente trovare il modo di liberarmene.


È stato allora che il mio giornale, Donna oggi, mi ha invitato a un meeting al Cairo in cui si sarebbero ritrovati vari collaboratori della rivista. Era la prima volta in vita mia che andavo da sola in Egitto. Lì ho conosciuto il direttore della redazione, Kamal, un egiziano affascinante, l’immagine stessa dell’uomo che potevo avere in testa, poeta, di sinistra, uno che se ne fregava di tutto e non dava giudizi… L’ho subito amato. Quando sono tornata a Gaza ha telefonato a mio padre per chiedergli la mia mano, ma né papà né il resto della famiglia approvavano, era divorziato e aveva diciassette anni più di me. A me non importava, stavo soffocando nella vita che facevo, con papà che mi controllava da vicino e cercava di limitare la mia libertà. Kamal mi offriva la possibilità di scappare, ero pronta a seguirlo negli Emirati, dato che abitava lì. Certi zii che vivevano nel Golfo hanno preso informazioni su di lui e sono venuti a sapere che era una persona molto perbene. Io lo amavo, o forse amavo soltanto il tipo d’uomo che corrispondeva alla mia fantasia, e poi volevo dimenticare Saleh, il professore d’inglese, rimuoverlo dal mio ricordo una volta per tutte.


Ci siamo fidanzati a Gaza. Mi sono rifiutata di ricevere il mahr (una dote che spetta alla fidanzata) perché non accettavo che una donna avesse un prezzo. Perfino lo sceicco che doveva sposarci era sorpreso del mio rifiuto. Ho citato il Profeta: “Maggiore è la loro virtù, minore sarà il loro mahr”, che interpretavo come: la migliore non prenderà nessun mahr. Lo sceicco però non era d’accordo, come non lo erano papà e gli zii. Il mahr può corrispondere a una cifra pari a tremila euro, alla quale bisogna aggiungerne tremila per il mu’akhar (una somma di riserva) e altri tremila per i mobili, ossia novemila euro in totale. Ho insistito ostinata che non volevo niente, finché mio padre si è lasciato convincere. Abbiamo organizzato un rinfresco senza musica, nient’altro, non credo molto a questo genere di cerimonie. Ci siamo sposati prima di partire per gli Emirati passando dall’Egitto. Era il 2003.

12

Università islamica

Malgrado il bel voto preso all’esame di maturità, 76/100, le università tedesche non mi hanno voluto sostenendo che le ragazze palestinesi andavano in Germania per sposarsi e non per studiare. Di fronte a quel rifiuto sessista ho dovuto rassegnarmi a iscrivermi all’università islamica di Gaza, facoltà di Giornalismo e informazione. Era il 2001. A papà non dispiaceva la mia scelta, insegnava anche lui in quell’università nota per essere vicina a Hamas. Ho avuto presto buoni risultati, ma discutevo continuamente con quelli dell’università, fino a che sono stata convocata dal consiglio di disciplina. Il mio “giudice” era il presidente degli Affari studenteschi, Atallah Abu Sbeih, che poi diventerà ministro della Cultura nel governo di Hamas e in seguito ministro dei Prigionieri.


«Mi hanno detto che porti a lezione libri di Ghada al-Samman e Ghassan Kanafani, e che li leggi pubblicamente alle altre studentesse…».


«È vero».


«E ne parli con loro…».


«Sì, è così. Qual è il problema?».


«Lo sai bene».


«Ghassan è innamorato di Ghada che non lo ricambia e, arrabbiatissimo, le scrive “Sia maledetta la tua religione”. È questo che la disturba?».


«Proprio questo. Vedo che sei al corrente».


«Certo che sono al corrente, ma è letteratura!».


Ero ostinata, siamo rimasti ore a discutere senza raggiungere un risultato, poi ha cambiato discorso.


«Quando indossi l’abaya (una tunica lunga) ti restano le braccia scoperte… Sotto dovresti metterti una camicia a maniche lunghe».


Sono rimasta senza parole. Così era l’università islamica: bisognava come minimo avere una sciarpa sulla testa, maniche lunghe, pantaloni sotto il vestito e niente trucco, sennò non ti facevano entrare, e ovviamente maschi e femmine erano separati. Era la più grande università del territorio, annoverava migliaia di studentesse tutte simili e tutte consenzienti tranne me! Il “giudice” è andato da mio padre: «Non ho mai visto una mente come quella di tua figlia, legge e discute in continuazione. Posso venire a casa vostra a parlare con lei?». «Vieni!» gli ha risposto papà. Ci siamo seduti in salotto e ha cominciato:


«Quando vedi un ragazzo e una ragazza insieme credi che stiano parlando del processo di pace?».


«Perché no?».


Gli rispondevo punto su punto. In fondo il suo discorso si riduceva a un lungo elenco di ciò che bisognava o non bisognava fare.


«Sta a me dire quello che penso e quello che provo» ho detto, «a me e a nessun altro! Sta a me decidere dov’è il bene e dov’è il male, non agli Affari studenteschi! Dio stesso conta sul libero arbitrio dell’essere umano, sulla sua libera volontà. Non tocca all’università stabilire come devo vestirmi. O altrimenti decidete una divisa unica per tutti, come all’asilo!».


Se n’è andato senza fiatare. Poi ho litigato con il professore di letteratura araba perché sosteneva che avessi paura di discutere con lui. In seguito è stato il turno del professore di scienze politiche, che ci ha distribuito un testo in cui si trattava dei partiti islamici nella società musulmana. L’ho rifiutato perché preferivo fare una mia ricerca in biblioteca, dove mi sono imbattuta in un libro di Yusuf al-Qaradawi, un famoso sceicco membro dei Fratelli musulmani secondo il quale non esiste una “società musulmana”, ma solo una “società che annovera musulmani” in cui nessuno può considerare l’islam un suo monopolio. Aggiungeva che ogni Stato musulmano deve accettare i partiti politici, compresi i partiti cristiani o il partito comunista. Mi ha convinto. Ho terminato la ricerca e consegnato la mia relazione. Il professore è andato fuori di testa. Si è messo a discutere con me davanti alla classe come se fossimo soli. Affermava che uno Stato musulmano deve accettare solo il partito islamico, perché il potere risiede naturalmente nelle mani dell’emiro, e che se fosse esistito un altro partito avrebbe dovuto essere anch’esso islamico. Eravamo in disaccordo totale, ma mi ha dato un bel voto, 92/100. Mi sono sentita molto incoraggiata dal fatto che avesse rispettato la mia opinione anche se non la condivideva. Ciò nonostante, il clima che regnava in quell’università mi era insopportabile. Non ne potevo più. Ho retto un anno e mezzo, poi ho deciso di cambiare. Mio padre non voleva sentire ragioni.


«Se ti iscrivi in un’altra università non ti pago più gli studi».


«Non pagarmeli. Come dice lo scrittore Gamal al-Ghitani, “Meglio il mal di testa della libertà che il cancro dell’oppressione”».


Ha continuato a farmi pressioni, ma non ho ceduto e nel 2000 mi sono iscritta all’università laica di al-Azhar nella facoltà che zio Ahmed, il proprietario della biblioteca, aveva scelto prima di me, Lingua e letteratura araba. Ogni giorno dovevo fare un’ora e mezza di strada per andare da Rafah a Gaza, dove si trovava l’università. Dovevo anche trovarmi un lavoro retribuito, visto che mio padre aveva tenuto fede alla sua minaccia.


Nella nuova università il livello accademico non era granché, ma i professori erano formidabili. Parlavo con loro della storia e dei problemi della lingua, mi piaceva moltissimo. Nell’università coesistevano una tradizione conservatrice e una tradizione liberale che si confrontavano di continuo, e il fatto che avessero idee completamente opposte creava uno spazio di discussione, una differenza enorme rispetto al pensiero monolitico che vigeva nell’università islamica. Organizzavo circoli di formazione letteraria in cui parlavamo di forme e tecniche di scrittura con le altre studentesse, era appassionante. Per sopravvivere facevo la commessa in un negozio di vestiti. Insieme ad altre ragazze avevamo preso in affitto un appartamento, cosa che mi risparmiava di fare avanti e indietro con Rafah. L’esperienza della convivenza era bella e ci insegnava a essere indipendenti, inoltre vivevamo in riva al mare. Abbastanza presto ho lasciato il lavoro di commessa, perché il quotidiano Ramadan Daily mi ha offerto la mia prima esperienza come giornalista. Ho anche ottenuto di fare uno stage in un giornale sportivo per il quale scrivevo articoli che erano invariabilmente firmati con un nome maschile. Quando ne ho chiesto il motivo al direttore, lui mi ha risposto: «Perché c’è da vergognarsi a far firmare una donna in un giornale sportivo destinato esclusivamente agli uomini». Mi sono dimessa.


Purtroppo eravamo solo quattro studentesse iscritte a Lingua e letteratura araba e, giudicando il numero insufficiente, l’università ha deciso di sospendere il corso. Non sapevo più che fare. Mi sono messa a lavorare per il quotidiano Al-Quds, ma il direttore, a cui piaceva molto quello che scrivevo, non mi rimborsava nemmeno le spese di trasporto. Per tre anni ho avuto gli stessi pantaloni, mio padre continuava a non darmi un soldo. Ce l’avevo con lui senza rendermi conto che la sua ostinazione era salutare, perché mi insegnava l’autonomia materiale. Scrivevo novelle per vari giornali che mi pagavano cento shekel a pezzo, l’equivalente di venti euro. Ho praticato quella specie di equilibrismo fino al giorno in cui, nel 2001, sono capitata su una rivista degli Emirati abbastanza corretta, Donna oggi. Ho scritto loro una lettera di candidatura e mi hanno risposto che potevano assumermi nella rubrica Cultura e società. Avevo diciannove anni. Un anno dopo avevo i mezzi per aprire un ufficio: era la prima volta che una giornalista di Gaza tentava una cosa simile.


L’ufficio andava bene e presto ho guadagnato abbastanza da pagare l’affitto. Lo dividevo con due soci, uno lavorava per il giornale Il Golfo arabo, l’altro per Al-Quds, ed erano entrambi membri di Hamas. Con il primo discutevamo sempre di religione, discussioni affascinanti, mentre al secondo non piacevano né la mia indipendenza né la gente che ricevevo, tanto che aveva vietato ai suoi collaboratori di parlare con me. Ero isolata, ma me ne fregavo. Malgrado tutto avrei adorato che la mia famiglia lasciasse la casa di Rafah e venisse a sistemarsi a Gaza. Ne ho parlato con mio padre, che però nicchiava. Nel frattempo mia sorella Aicha era cresciuta e si era rivelata ancora più testarda di me, non solo rifiutava di coprirsi la testa, ma aveva adottato un cagnolino che la seguiva dappertutto, e a nessuno piacciono i cani dalle nostre parti. E non si trattava soltanto di Aicha, anche le altre sorelle stavano crescendo con un vicinato conservatore che cominciava a guardarle male. A un certo punto mio padre ne ha avuto abbastanza di quella società in cui si presuppone che le ragazze si sposino a quattordici anni: aveva sei figlie! Dall’oggi al domani ha deciso di trasferire tutti a Gaza.


Abbiamo preso in affitto una casa semplicissima nel quartiere di Zeitoun, poi un’altra nel quartiere di Tal al-Hawa in cui abbiamo ricominciato a vivere tutti insieme. Le cose erano cambiate. In assenza degli zii, papà si è sentito investito di non so quale potere su di me. Ficcava il naso nei miei affari, nel mio lavoro, voleva sapere dove andavo, e dal canto mio gli rimproveravo una mancanza di fiducia nei miei confronti… Tutto diventava motivo di discussione e frizione fra noi. Non lo riconoscevo più. Un giorno abbiamo litigato e si è messo a piangere. Io discuto sempre fino in fondo senza mai piangere, come del resto mi aveva insegnato lui. «Le tue lacrime non riusciranno a farmi cambiare parere» diceva. Così, in quel momento, non ho sopportato di vederlo piangere per strada. Liti, grida, difficoltà, sentivo troppa pressione su di me, dovevo assolutamente trovare il modo di liberarmene.


È stato allora che il mio giornale, Donna oggi, mi ha invitato a un meeting al Cairo in cui si sarebbero ritrovati vari collaboratori della rivista. Era la prima volta in vita mia che andavo da sola in Egitto. Lì ho conosciuto il direttore della redazione, Kamal, un egiziano affascinante, l’immagine stessa dell’uomo che potevo avere in testa, poeta, di sinistra, uno che se ne fregava di tutto e non dava giudizi… L’ho subito amato. Quando sono tornata a Gaza ha telefonato a mio padre per chiedergli la mia mano, ma né papà né il resto della famiglia approvavano, era divorziato e aveva diciassette anni più di me. A me non importava, stavo soffocando nella vita che facevo, con papà che mi controllava da vicino e cercava di limitare la mia libertà. Kamal mi offriva la possibilità di scappare, ero pronta a seguirlo negli Emirati, dato che abitava lì. Certi zii che vivevano nel Golfo hanno preso informazioni su di lui e sono venuti a sapere che era una persona molto perbene. Io lo amavo, o forse amavo soltanto il tipo d’uomo che corrispondeva alla mia fantasia, e poi volevo dimenticare Saleh, il professore d’inglese, rimuoverlo dal mio ricordo una volta per tutte.


Ci siamo fidanzati a Gaza. Mi sono rifiutata di ricevere il mahr (una dote che spetta alla fidanzata) perché non accettavo che una donna avesse un prezzo. Perfino lo sceicco che doveva sposarci era sorpreso del mio rifiuto. Ho citato il Profeta: “Maggiore è la loro virtù, minore sarà il loro mahr”, che interpretavo come: la migliore non prenderà nessun mahr. Lo sceicco però non era d’accordo, come non lo erano papà e gli zii. Il mahr può corrispondere a una cifra pari a tremila euro, alla quale bisogna aggiungerne tremila per il mu’akhar (una somma di riserva) e altri tremila per i mobili, ossia novemila euro in totale. Ho insistito ostinata che non volevo niente, finché mio padre si è lasciato convincere. Abbiamo organizzato un rinfresco senza musica, nient’altro, non credo molto a questo genere di cerimonie. Ci siamo sposati prima di partire per gli Emirati passando dall’Egitto. Era il 2003.

13

Spalle allo schermo

Da quel secondo soggiorno negli Emirati sono tornata con un figlio e un libro, le uniche due cose belle che mi siano successe là. Per il resto è stata una catastrofe. Già al Cairo, in viaggio di nozze, mi sono svegliata che non sapevo più chi ero. La depressione mi batteva in testa. Kamal era un uomo irresponsabile. Non mi picchiava né mi insultava, si comportava da gentiluomo, ma non si preoccupava minimamente di ciò che mi faceva soffrire. Appena arrivati abbiamo saputo che Donna oggi vietava che marito e moglie lavorassero nella stessa redazione, così ho dato le dimissioni e mi sono ridotta a restare a casa mentre lui stava sempre fuori. Per fortuna aveva una grande biblioteca in cui ho scoperto Marcuse, lo scrittore turco Pamuk, Il profumo di Süskind, una magnifica biografia di T.S. Eliot tradotta da un iracheno… C’erano anche molti film, tutto il cinema iraniano, ma a volte Kamal tornava a casa a notte fonda…


«Papà, mamma, sono stupefatta dalla durezza di quest’uomo, è un estraneo, non ho sposato lui! Ho distrutto la mia vita, ho lasciato il lavoro e l’ufficio, sono scappata da una realtà per ritrovarmi in un’altra dieci volte peggiore, l’amore è una menzogna, sono una cretina, una bambina, ho solo ventun anni!». Compravo carte telefoniche a pacchi, i miei genitori mi ascoltavano piangendo e cercando di parlarmi con dolcezza, nessuno riusciva a calmarmi.


Presto sono rimasta incinta. Mi sono sentita presa in trappola, ma mi era impossibile accettare quella situazione e rassegnarmi. Al quarto mese di gravidanza ho preso un aereo per Gaza. Kamal ha cominciato a telefonare tutti i giorni a mio padre perché mi rispedisse indietro. Gli volevo bene, così sono tornata, ma era una situazione senza speranza. I suoi buoni propositi sono durati solo qualche giorno. Mia madre, venuta da me in previsione del parto, ha visto con i suoi occhi le tristi condizioni in cui vivevo. Una sera ha voluto portarmi al cinema per cercare di farmi svagare un po’ e, sorprendentemente, Kamal ha deciso di venire con noi. Era un film comico con il famoso attore egiziano Adel Imam. Durante la proiezione ho sentito che mi si erano rotte le acque. Mamma e Kamal non ci hanno creduto, volevano continuare a guardare il film, mi hanno suggerito di andare alla toilette. Non so cosa mi abbia preso, ma sono salita sul palcoscenico e sono rimasta in piedi spalle allo schermo, rivolta verso la sala. Avevo paura, non sapevo più cosa fare. Sono subito accorsi mamma e Kamal, uno mi ha preso per la mano destra, l’altra per la sinistra e mi hanno trascinato fuori. Alla luce abbiamo visto che avevo il vestito bianco tutto bagnato dalle acque del nascituro. Sono arrivata al reparto maternità alle nove di sera e un quarto d’ora dopo avevo accanto a me Nasser, nato con il parto cesareo per non mettere a rischio la sua vita. L’ostetrica africana me l’ha portato dicendo in inglese: «Your baby». Le infermiere si sono messe a scherzare.


«Tuo figlio diventerà un grande regista o un attore famoso, visto che è nato al cinema!».


«Sempre che non diventi l’uomo delle pulizie della sala» ho risposto, e tutti si sono messi a ridere.


Non si può dire che la nascita del bambino abbia sistemato le cose fra me e Kamal. Ho preso la penna e ho cominciato a scrivere la mia prima raccolta di novelle. Il racconto iniziale si intitola Your baby e tratta di quel momento, la venuta al mondo di Nasser e la separazione inevitabile da suo padre. Nonostante tutto continuavo a sforzarmi, ma non lui. Quando Nasser ha compiuto tre mesi ho radunato le mie cose, preso in braccio il bambino e sbattuto la porta. Sono rimasta negli Emirati, ma mi sono rifugiata dagli zii. Ogni mattina mi svegliavo e trovavo capelli sul cuscino. Ho detto che andavo a farmi visitare da un medico, ma in realtà sono andata da uno psichiatra iracheno che mi ha consigliato di ricominciare a fare la mia vita normale, cioè scrivere, allontanandomi quanto possibile dal mondo del bambino, allattamento, Pampers e compagnia bella. Secondo lui, dal punto di vista simbolico, dedicarmi interamente a mio figlio avrebbe significato che ai miei occhi la mia vita era finita. Gli ho ubbidito ciecamente.


Kamal si era tenuto il mio passaporto e quello di Nasser. Dopo sei mesi di ripetute richieste ho capito che non mi avrebbe mai lasciato libera. Sono passata a casa in un momento in cui ero sicura che non ci fosse e ho trovato Biti, una ragazza africana che lavorava per noi e con la quale avevo un bel rapporto, uscivamo spesso insieme per andare in un caffè che si chiamava La Brioche. Per inciso, Biti era dipendente dal suo “garante” degli Emirati, un individuo che le scuciva mille dirham al mese (circa duecentocinquanta euro) in cambio della sua “garanzia”. Pagava quell’uomo, che passava le giornate alla moschea, perché non la facesse buttare fuori dal paese! Per giunta, benché cristiana, doveva mettersi l’abaya ogni volta che si incontrava con quel devoto personaggio, altrimenti la insultava. Tale è il deprecabile regime dei paesi del Golfo. Insomma, Biti mi ha aperto la porta e le brillavano gli occhi. Ho preso i passaporti e sono scappata.


Prima di prendere l’aereo ho telefonato a Kamal per dirgli che me ne andavo. Si è messo a strillare. L’ho lasciato sfogare, poi gli ho chiesto se potevamo vederci un momento, prendere un caffè insieme. È venuto, ci siamo visti e gli ho letto la novella Separazione su una lavagna, che sarebbe stato anche il titolo della raccolta. È la storia di una donna che scrive tutti i giorni quel che le succede e alla fine lascia il marito poeta che la fa diventare pazza. Gli è piaciuta. Ci siamo messi a discutere da scrittori, dimenticando che eravamo marito e moglie e che io lo stavo lasciando. All’ora prevista mi sono alzata, ho preso Nasser in braccio e me ne sono andata. Sull’aereo ho pensato che forse anch’io avevo oppresso Kamal. Avevo vissuto nella depressione che mi era venuta durante il viaggio di nozze e non mi aveva più lasciato per il successivo anno e mezzo, ero sempre infelice, sempre sul chi vive. Gli avevo dato l’occasione di cambiare il nostro rapporto, ma non l’aveva colta. Diceva: «Asmaa, per te farei il giro del mondo a piedi nudi» ed è vero che mi amava, lo sentivo, ma non riusciva a cambiare. Nelle sue poesie si percepiva che era attratto dalla follia e dal nulla. Era maggio 2005. Due mesi dopo mi mandava tutti i documenti necessari per farmi ottenere il divorzio senza problemi. Un gentiluomo, ve l’ho detto.

14

Il sapore dei manghi

AGaza mio padre ha detto: «Ho sognato che ero io a crescere tuo figlio», ed effettivamente è quello che è successo. I nostri rapporti, che si erano fatti tesi quando mi ero sposata, si sono appianati grazie a Nasser. Prendevo le medicine che mi aveva prescritto lo psichiatra iracheno per calmare i battiti del cuore e vitamine per i capelli. Dopo un po’ papà mi ha chiesto: «Perché prendi quella roba? Tu sei più forte delle medicine!». Ho smesso tutto e mi sono tagliata i capelli.


Ho ripreso contatto con due cari amici che mi hanno accolto con amore, Salah, responsabile di un’organizzazione per i diritti umani, e Souhail, avvocato. Oggi litighiamo di continuo perché a mio parere chiudono un po’ troppo gli occhi sul modo di fare di Hamas, come del resto l’intero popolo, ma non dimenticherò mai come mi abbiano accolto a braccia aperte quando sono tornata dagli Emirati divorziata e disperata. Mi hanno restituito fiducia in me stessa in un momento in cui il mio nome non esisteva più. Salah mi ha proposto, nell’ambito della sua organizzazione, di dare vita a una rivista in difesa dei diritti umani, Al-Damir (“La coscienza”), che a distanza di dieci anni continua a essere pubblicata ed è sempre fedele al progetto originario. Souhail, che avevo conosciuto al posto di blocco israeliano di Abu Holi, tra Gaza e il Sud, mi ha presentato ai suoi numerosi amici. Ho ricominciato a lavorare, vedere gente e scrivere. Nello stesso anno, era il 2005, il giornale Al-Ayyam ha indetto un concorso per assumere un giornalista. Quel quotidiano era il mio sogno, mi piaceva già a sedici anni e aveva pubblicato la mia prima poesia. Sono risultata vincitrice! Il primo articolo che ho scritto verteva sul film del regista egiziano Yousry Nasrallah, La porta del sole. Da Ramallah il caporedattore che l’ha pubblicato mi ha mandato il seguente messaggio: “Non ci serve una che faccia critica cinematografica, ci serve una giornalista”. Allora ho cominciato ad andare sul campo.


Qualcuno aveva lanciato una bomba a un matrimonio uccidendo un ragazzino di quattordici anni, unico maschio tra nove femmine. Sono andata a trovare i genitori della vittima e ho saputo che la famiglia che aveva organizzato la cerimonia aveva commesso l’errore di far suonare musica per festeggiare le nozze, cosa che gli islamisti considerano peccato. Al-Fatah e l’Autorità palestinese erano ancora al potere a Gaza, ma Hamas, allora all’opposizione, esercitava un’influenza crescente sulla gente. L’ho raccontato nella prima parte dell’articolo dedicato al caso. Indagando avevo scoperto che a lanciare la bomba erano stati ragazzi giovanissimi che frequentavano una moschea tenuta da Hamas. Lo sceicco di cui seguivano gli insegnamenti era convinto che il resto della società fosse composto da miscredenti. Indossati vestito lungo e hijab, ho chiesto di parlare con l’imam e mi hanno portato da lui. Ho sentito che dovevo essere molto diretta.


«Era lei a fare lezione ai giovani che hanno tirato la bomba?».


«Frequentavano la moschea, sì, e seguivano le nostre lezioni…».


In quel momento è intervenuto brutalmente il khatib (quello che pronuncia i sermoni), voleva vedere il mio tesserino da giornalista, sapere chi fossi e cosa facessi lì, e di colpo ho capito che stava cercando di farmi passare per una “spia”. In un batter d’occhio intorno a me si è radunata una folla ostile e minacciosa. Morivo di paura, ma sono rimasta calma. Ho ripetuto che ero una giornalista, ho mostrato la tessera di Al-Ayyam e sono riuscita a filarmela. Beninteso, la scena ha costituito la seconda parte del mio articolo. L’indomani, era venerdì, qualcuno mi ha chiamato dalla moschea per avvertirmi che il khatib stava parlando di me nella sua predica. Me l’ha fatto ascoltare in diretta: “Una giornalista, donna indecente e corrotta, è venuta a farci la lezione…”. Ho scritto subito la terza parte del mio articolo, pubblicato già il giorno dopo, che citava parola per parola brani della predica. Il khatib è diventato pazzo, non immaginava che sarei stata avvertita così in fretta e con tanta precisione. Ha avuto paura. La storia rischiava di degenerare in un conflitto tra le nostre famiglie, la mia e la sua. Il mio status di donna aggredita pubblicamente mi permetteva di far valere i miei diritti, in particolare richiedendo la protezione della mia famiglia nei suoi confronti. Così si è presentato al giornale per provare a giustificarsi sostenendo che ero andata alla moschea con l’obiettivo di provocarlo. Io non c’ero, l’ha ricevuto il direttore amministrativo, nessuno della redazione. Quando me l’hanno riferito ho mandato a dire al khatib che non avevo niente da rispondergli e che non avevo nessuna intenzione di parlarne con la mia famiglia, perché ero l’unica responsabile delle mie azioni. Quelli di Hamas, accompagnati dal sindaco di famiglia, sono andati a bussare alla porta dei genitori del ragazzo ucciso, li hanno indennizzati con un po’ di soldi e la vicenda si è conclusa così. Il problema era diventato “familiare” e il partito aveva risolto il conflitto. La storia è tipica degli abitanti di Gaza, alla fine è quasi sempre il sindaco di famiglia ad avere l’incarico di risolvere i conflitti. Quando una donna picchiata dal marito sporge denuncia alla polizia, la polizia stessa prende contatto con il sindaco di famiglia, che la riporta a casa. Non ci sono leggi o regolamenti come in Occidente, non c’è niente di tutto ciò. Eletto dalle famiglie o designato dalle assemblee localmente elette, il sindaco di famiglia è responsabile di ognuno come se fosse il padre di tutti. Ti dice quello che devi fare e tu lo fai. Ma perché dobbiamo avere i sindaci di famiglia invece dei giudici? Perché questo regime tribale?


L’argomento del mio successivo articolo era molto più politico: Israele aveva annunciato il proprio ritiro unilaterale dalla striscia di Gaza. Incontravo finalmente i giornalisti che lavoravano sul campo, sia palestinesi che stranieri, una piccola truppa di redattori, fotografi, cameramen, autisti e interpreti che spesso si frequentavano da anni. In quell’ambiente nessuno mi conosceva ancora. Era l’estate del 2005. Ho voluto spingermi il più lontano possibile, fino ai piedi delle colonie israeliane, senza preoccuparmi di eventuali pericoli. Ci siamo andati e ho visto coloni saliti sul tetto con i figli per resistere all’evacuazione da parte dell’esercito, ho visto come gridavano e come avevano allineato bombole di gas minacciando di farsi saltare per aria. Non avevano la minima intenzione di lasciare la terra! La situazione sembrava pericolosa. “Perché sono arrabbiati?” mi sono domandata. “Cosa significa questa terra per loro?”.


Sembrava che avessero raggiunto il culmine della sofferenza e io sorridevo incredula. Non mi stavo prendendo gioco di loro, no, nessuno li insultava, ero solo stupita dalla stranezza della situazione. Era un momento storico che stavamo vivendo dall’interno della storia, ma c’era come un profumo di non vero. Non riuscivo a credere che i coloni si sarebbero davvero ritirati permettendoci di riprendere la nostra terra.


Eppure l’hanno fatto, e quasi senza opporre resistenza. Quel giorno mi sono ritrovata in macchina con altri giornalisti, procedevamo a zigzag tra le colonie vuote. Gli occupanti se n’erano andati senza lasciarsi dietro niente, tutto era a terra, tutto era distrutto, le case, gli edifici pubblici, le scuole… Restavano solo gli alberi di mango che avevano piantato, di cui abbiamo divorato gli ottimi frutti! La popolazione di Gaza si era preparata all’evento. Appena possibile centinaia di persone si sono riversate nel territorio evacuato dagli israeliani per recuperare tutto ciò che poteva essere recuperato, fili elettrici di rame, telefoni fissi abbandonati a terra, telai di porte, rubinetterie, elementi di bagni rotti… Ho scritto un articolo su quella razzia di poveri che era seguita all’evacuazione delle colonie, ma il caporedattore si è rifiutato di pubblicarlo. Lui voleva un’immagine fiorita, una liberazione dignitosa. Ho obiettato che quella da me descritta era esattamente la realtà, ma non ha voluto sentire ragioni. È stato il mio primo conflitto con il giornale.


Ben presto Hamas ha strombazzato: «Abbiamo liberato Gaza!» senza preoccuparsi del fatto che, stando al diritto internazionale, Gaza aveva sempre lo status di territorio occupato. Per giunta all’epoca il potere era in mano ad al-Fatah di Yasser Arafat. “Al-Fatah e Hamas ci hanno preso in giro” ho pensato, “né l’uno né l’altro hanno liberato un accidente”. Avevamo creduto che Arafat avesse ottenuto una vittoria, ma Gerusalemme non era stata liberata e il famoso “passaggio protetto” con la Cisgiordania, previsto dagli accordi di Oslo, non era mai stato aperto. A Gaza i contadini che erano in grado di esibire titoli di proprietà avevano recuperato i loro lotti, da allora tornati a essere terreni agricoli. Su molti altri lotti, in particolare sui terreni demaniali contrassegnati come “territori liberati”, Hamas impianterà campi d’addestramento militare dopo aver preso il potere a Gaza, nel 2007, come faranno anche il Jihad islamico e altri gruppi. Allora sorgeranno vere e proprie città nuove, Asda’ el-I’lamiyyé, Nur el-Tarfihiyyé, città molto belle, circondate di verde, ma vuote. Vi sarà costruita una succursale dell’università di al-Aqsa in cui gli studenti trascorreranno le giornate per poi tornare la sera a casa dei genitori. Alle donne senza velo sarà implicitamente vietato l’ingresso in quelle città, anche se nessuna legge palestinese obbliga formalmente a coprirsi i capelli.


Però avevamo di nuovo accesso alla spiaggia, molto più bella di quella che avevamo lasciato, visto che ovviamente i coloni si erano appropriati dei luoghi migliori, le zone più verdi e alberate, le terre più fertili, l’acqua più pura. Hamas al potere metterà le mani sulla maggior parte di tutto ciò. Un’altra novità era che tra il Nord e il Sud non c’erano più posti di blocco israeliani dove capitava di rimanere bloccati per ore, una vera liberazione! Gli innamorati avevano perso il loro alibi migliore: a Gaza non era possibile per una ragazza vedersi in un caffè con un ragazzo, così quando un padre accusava la figlia di aver parlato con qualcuno lei rispondeva «Eravamo tutti e due in attesa al posto di blocco!». Io, che non avevo spasimanti, mi accontentavo di guardare le coppiette da lontano. Il beneficio per me era limitato. Non avevo preso niente nelle colonie né avevo guadagnato qualcosa da quel ritiro. Anzi sì, avevo mangiato i manghi!

15

Gruppo speciale

Iseggi elettorali sono chiusi, è sera. Ci troviamo nella sede di un’organizzazione per i diritti umani a seguire in tempo reale lo spoglio delle schede delle elezioni legislative che si sono tenute in Cisgiordania e a Gaza. È il 2006. Ho passato il tempo per strada a fare domande per conto di Al-Ayyam. Le donne mi rispondevano: «Non vogliamo più al-Fatah, ne abbiamo abbastanza!». «E il Fronte popolare?» chiedevo. E loro: «Chi, quei miscredenti? Per carità!». Ogni volta che incrociavo qualcuno di Hamas gridavo: «Non vincerete!». Camminavo per la città e ripetevo ai miei amici: «Dio non voglia che Hamas ce la faccia! Se vincono loro mi tolgo il velo!» (perché da quando mi ero sposata con Kamal avevo ricominciato a portare il “mezzo hijab”, con i capelli che uscivano). Scherzavo, il mio velo non aveva niente a che vedere con Hamas, lo dicevo per provocare. Ero però preoccupata. Tutto intorno a me vedevo quanto la mobilitazione del partito islamista fosse ben orchestrata. I suoi militanti erano presenti ovunque, passavano a prendere gli elettori a casa o li accoglievano dietro i tavoli e le sedie che avevano disposto davanti ai seggi. Durante la campagna elettorale si erano rivolti principalmente ai più poveri, li avevano aiutati, si erano preoccupati della loro istruzione e avevano aperto loro le porte dell’università islamica. Avevano fatto lo stesso gioco degli iraniani e sembravano aver conquistato i cuori in maniera molto più intelligente dei Fratelli musulmani egiziani. Quelle stesse donne che non volevano più al-Fatah, durante la campagna elettorale affollavano le moschee, se c’era un corso di religione si precipitavano, ma se il molto laico Comitato per i diritti delle donne indiceva una riunione nessuno ci andava. Perché Hamas era risultato così convincente? Perché la gente, come del resto anch’io, era stufa della corruzione del regime al potere. Quand’ero all’università conoscevo i figli dei pezzi grossi di al-Fatah, figli di generali, alti funzionari e ufficiali che abitavano in ville sontuose e percepivano, a quindici o sedici anni, stipendi da mille o duemila dollari al mese per non fare niente! L’università laica di al-Azhar apparteneva ad al-Fatah, quindi a loro. Io, che provenivo dalla miserabile università islamica, mi vergognavo di andare a lezione insieme a quelle ragazze fresche di parrucchiere con il telefonino ultimo modello in mano e la macchina nel parcheggio. Pensavo che nel frattempo i loro padri si accanivano a sbattere in prigione militanti islamici e militanti di sinistra, li obbligavano a cantare canzoni contrarie al loro credo, li umiliavano, li torturavano, a volte li ammazzavano. Voglio essere ancora più precisa: Arafat non era un corrotto, ma aveva reso corrotti tutti quelli che gli stavano intorno. Di uno si diceva che avesse creato la società che aveva venduto a Israele i milioni di tonnellate di cemento necessari alla costruzione del muro di separazione tra Israele e la Cisgiordania. Di un altro, oggi miliardario, si diceva che su ogni litro di carburante venduto in tutte le pompe di benzina dei territori palestinesi percepisse una “commissione” che finiva direttamente sul suo conto corrente. Da dove era arrivato tutto quel denaro? Prima degli accordi di Oslo, quando eravate sparpagliati in Tunisia, Libia o altrove, quando Arafat era circondato, non riuscivate nemmeno a pagarci gli stipendi! I grandi commercianti, i palestinesi che possedevano società, avevano pietà di voi e vi davano qualche soldo per permettervi di sopravvivere, e all’improvviso dopo Oslo il denaro si è messo a scorrere a fiumi! L’Unione europea, imbecilli, e gli Stati Uniti, ancora più imbecilli, hanno tirato fuori miliardi per sostenere la vostra “Autorità” palestinese. Il popolo non ha ricevuto niente, a stento le briciole, tutto il resto è finito nelle vostre tasche!


Alla sede dell’organizzazione per i diritti umani cominciano ad affluire i primi risultati: Hamas sta crescendo, ma al-Fatah resiste più di quello che pensavamo, i suoi militanti escono per strada e cominciano a sparare in aria con i kalašnikov come per convincersi che hanno vinto, ma i risultati successivi sono una doccia fredda, Hamas è in testa ovunque! E noi, gente di sinistra, laici, liberali, musulmani moderati, ci disperiamo: «Stanno vincendo loro!». Non possiamo neanche mettere in dubbio la veridicità dei risultati, gli osservatori stranieri non hanno trovato niente da ridire, è presente anche l’ex presidente americano Carter, tutto sembra regolare. All’una di notte capiamo che non ci sono più speranze, torno a casa e mi addormento davanti alla televisione accesa. Vengo svegliata dalle telefonate degli amici: «Hanno vinto, siamo fottuti!». E io: «Maledizione! Stavolta ci distruggeranno!». Esco per strada come una pazza. Senza velo! Ma stavolta non lo faccio per scherzo. La gente che mi vede passare a capo scoperto si stupisce, rispondo: «Ma che credete, che Hamas vince e io rimango velata? Preferisco togliermi il velo prima di essere obbligata a portarlo!».


Conoscevo Hamas per esserci cresciuta insieme, per aver vissuto intimamente quella “morale” fatta di conservatorismo e regole di condotta cosiddette islamiche, ma in realtà estranee alla religione e a ogni autentica spiritualità. La corruzione di al-Fatah aveva agito da repellente e la rigidità di Hamas non valeva molto di più. La gente lo sentiva in maniera confusa, tanto che non ha esultato per la vittoria del movimento islamista, era solo contenta che al-Fatah avesse perso, ma quasi altrettanto preoccupata alla prospettiva di un dominio troppo forte di Hamas. Ben presto si è palesata una rivendicazione quasi unanime: «Vogliamo un governo di unità nazionale al-Fatah-Hamas». I dirigenti di entrambe le fazioni hanno fiutato il vento, si sono affrettati a formare un governo di unità nazionale e la gente ha tirato un sospiro di sollievo, ma era chiaro a tutti che il paese stava ballando su un vulcano.


Allora sono cadute le maschere. Certi funzionari che si supponeva fossero fedeli ad al-Fatah, fra i quali un mio cugino e alcuni vicini, gente che non avrei mai immaginato, si sono fatti crescere la barba. I sostenitori di Hamas si sono resi più visibili, rivelandosi molto più numerosi di quello che pensavamo. Peggio, è venuto fuori che i “servizi” dell’Autorità avevano votato per Hamas in proporzione molto maggiore della popolazione generale. I dirigenti di al-Fatah non potevano rimanere indifferenti, hanno subito scatenato una guerra più o meno aperta con l’obiettivo di soffocare Hamas. Non era un compito facile, perché l’ala militare del movimento islamista, le brigate al-Qassam, era ben consolidata. Al-Fatah ha quindi messo in piedi un “Gruppo speciale” di cui molti membri sono oggi in esilio. Mi chiedo perché certi governi europei abbiano concesso loro la cittadinanza. La loro missione a Gaza consisteva semplicemente nell’uccidere, torturare ed esercitare ogni tipo di pressioni sanguinose sulla gente di Hamas. Un membro di questo Gruppo speciale abitava vicino a casa nostra. La sede di Hamas sorgeva dall’altra parte, nel quartiere delle università. Lo stabile in cui vivevamo noi si è ritrovato così in mezzo a una battaglia che si svolgeva sopra le nostre teste e ai piedi delle nostre case a colpi di pistola, raffiche di kalašnikov e scambi di granate. Un giorno stavo lavorando in camera mia quando una bomba è caduta sul nostro balcone, per fortuna senza esplodere, altrimenti saremmo morti tutti.

Una mattina sul mio computer negli uffici di Al-Ayyam ricevo una mail dall’Istituto nazionale coreano per la traduzione: avevo ottenuto una residenza di scrittura di sei mesi in Corea del Sud, la mia candidatura era stata appoggiata dalla scrittrice palestinese Adania Shibli. Lì per lì mi sono detta che forse sei mesi erano un po’ tanti, ma subito dopo ho pensato: “Perché no? Cosa mi trattiene, in fondo?”. Così una mattina di aprile del 2007 mi sono presentata con la valigia alla frontiera di Rafah con l’obiettivo di passare in Egitto e da lì partire per la lontana Corea. Il confine era tenuto da alcuni europei in base ad accordi presi in precedenza, una folla immensa di palestinesi premeva senza molto successo per varcare quel maledetto confine. «Sono sola, fatemi uscire!» ho gridato, e non so per quale miracolo la sbarra si è alzata. Mi sono ritrovata dall’altra parte su un pullman in partenza per Il Cairo. La sbarra si è richiusa dietro di me e tale è rimasta per otto lunghi mesi. Ero uscita per un pelo!

L’indomani ho preso un aereo che ci ha messo sedici ore ad arrivare a destinazione dopo un breve scalo a Hong Kong. Le porte si sono aperte, mi sono guardata intorno, ero in Corea. Le persone si somigliavano tutte, una prima impressione idiota, ovviamente. Ricordo di aver pensato: “Che diavolo ci faccio qua? In quale strano paese sono capitata?”.

16

È la patria che desideriamo?

Non è un paese, è un giardino. Il settanta percento del territorio coreano è costituito da montagne verdi. Abito nello studentato dell’università Hankuk in una camera tranquilla, dalla finestra vedo alberi. Vivo in Corea da due mesi. A Gaza sono scoppiati tumulti, gli uomini di Hamas hanno attaccato le postazioni dell’Autorità palestinese in tutto il territorio, hanno lanciato un uomo dal quindicesimo piano e commesso delitti atroci, pare che abbiano fatto fuori quasi duecento membri di al-Fatah.


In pochissimo tempo ho imparato il coreano e mi sono immersa nella letteratura e nel cinema del paese. La lingua, la cucina, la gente: tutto è appassionante. Sono persa nella natura a ottomila chilometri da Gaza e due ore di strada da Seul. Quelli di al-Fatah avevano la propria parte di responsabilità visto che, spinti dagli americani, avevano cercato il confronto. Trovandosi attaccati, cercavano in qualche modo di reagire. La battaglia imperversava a colpi di armi automatiche e lanciamissili, nessuno controllava più niente. Nella residenza, tra i vari autori provenienti dal mondo intero, sono l’unica mediorientale. Parlo con tutti in inglese sempre con il dizionario a portata di mano. Faccio amicizia con Ketso, una scrittrice sudafricana leggermente più grande di me. Le domando se è vero che in Sudafrica l’AIDS è ovunque, mi risponde: «Come no, vola nell’aria» e si arrabbia. Mi sono scusata. Mi aveva fatto sentire il tanfo razzista che avevo dentro senza saperlo.


Allarmatissima, chiamo i miei genitori. Papà mi dice che i militanti di Hamas sono saliti due volte sul nostro tetto alla ricerca di uomini armati, che hanno occupato la casa del capo dell’Autorità palestinese, Abu Mazen, e si sono fatti fotografare trionfanti alla sua scrivania.


Sono stupefatta. Fino a quel momento Hamas era una formazione politica che esigeva il rispetto di una cosiddetta morale islamica, ancora non aveva mai versato sangue palestinese. Da dove sono, in Corea, sento che è un errore storico inaugurare un “regno” con un bagno di sangue contro il proprio popolo, dato che al-Fatah è anche il popolo. Abbas ha lanciato un appello per porre fine agli scontri, in realtà aveva già perso la battaglia, Hamas controllava tutta la striscia di Gaza. Le vaghe giustificazioni avanzate da Hamas parlando di “movimento decisivo” anziché di “colpo di Stato” non stanno in piedi. Hanno ricordato la loro vittoria alle elezioni amministrative del 2005 annullata dall’Autorità palestinese, hanno citato l’esempio dell’Algeria, in cui all’inizio degli anni Novanta il successo alle urne del FIS, Fronte islamico di salvezza, era stato frustrato nello stesso modo. A sentire loro, quindi, sarebbero passati all’azione “preventiva” per timore di farsi rubare la vittoria alle elezioni del 2006, motivo per cui hanno ucciso, espulso e umiliato, esibendo le centinaia di prigionieri di al-Fatah che avevano preso, alcuni dei quali sono tuttora in prigione. Tra le loro vittime vanno considerati anche quelli che sono emigrati, quelli che hanno perso la casa e quelli che si sono umiliati per avere il permesso di uscire dal territorio.


Avevo trovato lavoro come cameriera in un ristorante palestinese di Seul, ci andavo tutti i fine settimana. I proprietari, due fratelli, mi pagavano quattro won l’ora (circa quattro euro), meno del salario minimo coreano. Uno dei due si dichiarava religioso e pregava cinque volte al giorno. Diceva che facevo scappare i clienti perché attaccavo a parlare di politica con loro e mettevo CD della cantante libanese Fairuz invece della musica del Golfo apprezzata dalla ricca clientela saudita. Al telefono papà mi annuncia che zio Said, capo di quello che si chiama “l’Esecutivo”, cioè l’apparato di sicurezza di Hamas a Rafah, ha stoccato nella nostra casa di famiglia del materiale sequestrato nelle istituzioni dipendenti da al-Fatah. Ci ha fatto rinchiudere anche un certo numero di militanti che a quanto pare vengono maltrattati, visto che i vicini si sono lamentati con i miei delle urla che sentivano.


Vengo a sapere che il colpo di Stato ha determinato la chiusura di tutte le frontiere di Gaza, sia quelle con Israele che quelle con l’Egitto. Gli orrori perpetrati nella casa della mia adolescenza, costruita dai miei stessi zii, mi ronzano in testa e mi sconvolgono. Dopo varie notti insonni scrivo: “È questa la patria che desideriamo, zio?”. Indirizzo la lettera a mio zio Said Alghoul, capo dell’Esecutivo a Rafah. Gli parlo dei miei ricordi d’infanzia, della comune casa di famiglia, delle bambole distrutte per fargli piacere, dell’affetto profondo che nutro per lui nonostante le nostre divergenze d’opinione su quasi tutto. “Ma ciò che stanno facendo oggi Hamas e l’Esecutivo da te diretto a Rafah non l’ha fatto nemmeno il nemico, caro zio! In tre giorni avete ucciso lo stesso numero di militanti che Israele in vari mesi […]. Hai pensato al messaggio che ci state dando? Volete davvero proporci una patria o uno Stato islamico costruito sui cadaveri e le anime dei nostri? […] Cerco di trovarti scusanti perché ti voglio bene, ma non ne trovo […]. Hai ordinato ai tuoi uomini di vendicarsi e prendere il controllo di tutto, come se fossimo miscredenti […]. Sai qual è la cosa che mi fa più male, zio? È ciò che avete fatto alla nostra casa di famiglia di Rafah […]. Era una casa aperta a tutti […] e Gaza era la patria di al-Fatah come di Hamas o del Fronte popolare, era la patria dei credenti come dei laici, delle donne velate come di quelle a capo scoperto […]. Nonostante tutto continuo a pensare che tu non sia quell’uomo duro, sanguinario e spietato nei confronti delle vittime che stai cercando di diventare. Sei il mio caro zio e mi sarebbe piaciuto dirti arrivederci prima di imbarcarmi per il paese lontano in cui mi trovo oggi, ma ho avuto paura di vedere quanto sei cambiato, ho avuto paura che la mia semplice presenza al tuo fianco mi rendesse complice dell’Esecutivo criminale di cui sei a capo”.


La lettera è sotto i miei occhi, scritta a mano, ma come spedirla? Non possiedo un computer portatile. È il weekend, cammino per le strade di Seul chiedendo alla gente dove posso trovare un computer con la tastiera araba fino a che mi indicano un Internet caffè, il Casablanca. Cammino a lungo. Il gestore è un marocchino che ammira Israele e comincia a punzecchiarmi appena viene a sapere che sono palestinese. «Non sono venuta a parlare di politica, sto solo cercando un computer» dico. E lui: «Vedi quel tipo seduto là, quello con gli occhiali e la papalina? Chiedi a lui, dovrebbe saperlo». Mi presento all’uomo indicato e gli spiego il mio problema. Si chiama Souhaib. Dato che è anche lui marocchino siamo costretti a parlare in arabo letterario. Mi siedo accanto a lui, che non soltanto mi aiuta, ma mi corregge la lettera. Conosce il Corano a memoria e possiede una lingua mille volte migliore della mia, una lingua antica, classica, che tuttavia usa in modo molto moderno. Finiamo di scrivere, rileggiamo, lo ringrazio e spedisco subito la lettera a mio padre perché la stampi e la dia a zio Said. Ne mando anche copia a un amico. Papà mi chiama la mattina dopo.


«Tuo zio ha letto la lettera e si è messo a ridere. Ha detto che guardi troppo Falastin, il canale di al-Fatah».


«Ma sono in Corea, qui non prende di certo, guardo solo Al Jazeera. E comunque la mia lettera non riguarda al-Fatah».


Ventiquattr’ore dopo scopro che il mio testo è su Internet e che la lettera è già stata letta ventimila volte. Il mio telefono allo studentato non fa che squillare, richiamo i miei a Gaza, mi dicono che anche loro sono bombardati di telefonate: «Sua figlia ha espresso la nostra rabbia, ci ha permesso di ritrovare l’orgoglio», «Ha detto quello che tutti abbiamo nel cuore», «Ci ha dato sollievo», «Speravamo proprio che qualcuno avesse il coraggio di dire queste cose», perché fino a quel momento tutti erano stati zitti. Schiacciata dal ferro e dal fuoco di Hamas, Gaza ha abbozzato e io, dagli antipodi, ho lanciato la bomba. Su Internet i commenti si contano a migliaia.


Amici, vicini e semplici conoscenti mi fanno tutti la stessa domanda: «Chi ha postato la lettera su Internet?». Avevo già detto a mio padre che non ero stata io. Giorno dopo giorno la domanda si fa più insistente: «Diccelo! Vogliamo saperlo!». Non posso rispondere senza mettere in pericolo l’amico a cui avevo mandato una copia. Nel frattempo mio zio ha cambiato umore. Arrabbiatissimi, lui e i fratelli decidono di boicottare i miei genitori. Se li incontrano, voltano le spalle senza dire una parola. Un giorno mio padre riceve un SMS anonimo: “Di’ a tua figlia che è meglio per lei se rimane in Corea, perché qui la ammazziamo”. È la prima volta in vita mia che ricevo una minaccia del genere. In seguito zio Said posta un commento in rete che comincia così: “Awad Alghoul, i suoi figli e le sue figlie, le cui idee sono estranee all’islam…”. Awad Alghoul è mio padre. In altre parole si sta lavando le mani in anticipo da quello che potrebbe capitarci. La pressione è tale che finisco per chiamare il caporedattore del sito che ha postato la lettera, un palestinese che è fuggito da Hamas e si è stabilito a Londra.


«Ti prego, togli la mia lettera, i miei genitori sono minacciati…».


«Non posso, grazie alla tua lettera il sito è stato visitato da migliaia di persone. Non la tolgo».


«Almeno cancella i commenti che mi insultano».


Acconsente, ma la lettera resta sul sito. È ancora lì. Altre reazioni rivelano una certa ambivalenza. Per esempio vengo a sapere che l’imam della moschea di Rafah, Nazir el-Loka, sostenitore di Hamas, ha citato e commentato la mia lettera nel sermone del venerdì. Ha cominciato dicendone cose abbastanza positive e ha concluso in questi termini: «Ma il discorso d’amore appartiene solo alle donne». Mi sarebbe piaciuto incontrarlo e parlare con lui, ma è morto durante la guerra del 2008, quando l’esercito israeliano ha bombardato un edificio del comune di Gaza in cui si trovava per caso. Lo conoscevo un po’, quando insegnavo alla moschea ascoltavo i suoi sermoni, era un uomo aperto. In realtà non sono poche le persone aperte e illuminate come lui, ma da quando Hamas ha preso il potere la loro mente si è chiusa.


Quella lettera è diventata uno spartiacque nella mia vita, una linea di demarcazione tra l’Asmaa di prima e l’Asmaa di dopo. Ha instaurato una situazione di sfida permanente tra me e mio zio, lui con il potere militare e il terrore che ispira, io armata di penna. Le conoscenze che ho all’estero e il sostegno di varie associazioni per i diritti umani mi hanno permesso di stabilire un certo rapporto di forze con lui, cosa che lo rendeva pazzo di rabbia. Cominciavo a essere conosciuta, la gente che aveva difficoltà veniva a trovarmi perché esponessi i loro problemi. Ogni volta che mi presentavo mi chiedevano: «Sei parente di Said Alghoul?» ed ero sicura che anche a lui chiedessero se era mio parente. Ecco come siamo diventati le due celebrità della famiglia, lui per la sua durezza, io per la mia libertà.


Ho scritto a Souhaib per raccontargli dei problemi sollevati dalla lettera che mi aveva aiutato a scrivere. “Lei è proprio matta” mi ha risposto, proponendo anche che ci rivedessimo, cosa che abbiamo fatto. Nei fine settimana, quando andavo a lavorare nel ristorante a Seul, ci trovavamo dalle parti del quartiere di Itaewon, in cui abitava. Parlavamo per tutta la notte. Era l’esatto contrario di me: benché avesse adottato i costumi occidentali – mi capitava di incontrarlo in compagnia di ragazze coreane o cinesi – era un accanito musulmano sul piano intellettuale, figlio di un oppositore islamico famoso in Marocco. Discutevamo in continuazione, non eravamo d’accordo su niente, né sulla religione né sulla morale né sui nostri comportamenti quotidiani. Aveva preso un master in economia a Parigi ed era in Corea per preparare una tesi di laurea in comunicazione. Era un uomo intelligente, ma completamente sottomesso nelle questioni religiose. Anche lui mi parlava di “sofferenze della tomba” e giurava che sarei andata all’inferno. Poi, nel bel mezzo di una discussione, ci siamo innamorati, io ho scoperto che lo amavo e lui pure. Ciò posto non ci sedevamo insieme per dire “Ci amiamo”, ma per continuare ad affrontarci su tutto e il contrario di tutto. Ci sbattevamo in faccia: «Perché mi dice queste cose?», «E lei perché continua a fumare sigarette?», il tutto in arabo letterario nello sprofondo della Corea.


In realtà mi amava e nello stesso tempo mi odiava. Digiunavamo insieme al Ramadan, era bellissimo, ma anche se avevo un cervello molto più liberale del suo, i miei usi continuavano a essere mediorientali. «Perché non ci sposiamo?» ci siamo detti. «Potremmo andare a vivere insieme in Spagna». Si è messo in contatto con mio padre, che si è dichiarato d’accordo appena ha saputo che Souhaib conosceva il Corano a memoria. Invece mia madre si è opposta. «Sei impazzita? Vuoi abbandonare tuo figlio per andare a vivere in Spagna? Non ti è bastato un egiziano, ci porti pure un marocchino, adesso?». Ho capito che aveva ragione. Il modo di pensare, la forma mentis di Souhaib mi piacevano molto, ma non basta questo per sposarsi. Era più saggio separarci.


Una notte ho fatto un sogno. Ero con nonno Jomaa accanto a una cascata e mio padre diceva: «Tuo nonno sta morendo». È morto meno di due settimane dopo. Mi sono messa a piangere, sono stata male. Souhaib è venuto in taxi da Seul e ha trovato intorno a me i colleghi scrittori, la mia amica sudafricana Ketso, un poeta indiano di nome Anbar Ali, uno scrittore messicano che si chiamava León e anche un argentino di cui non ricordo il nome. Piangevo senza sosta, mi preparavano da mangiare e restavano in camera mia finché non mi ero addormentata. Ma con Souhaib era davvero finita. In seguito, quando mi sono rimessa in sesto, gli scrivevo lettere che andavo ad attaccare con una puntina sulla porta di casa sua a Seul. Lui rispondeva “Ho ricevuto la sua lettera” senza ulteriori commenti. Quando è arrivata l’ora di ripartire dalla Corea, era il 2008, ho sentito che lo amavo ancora. Gli ho chiesto di venire con me, avremmo potuto sposarci in Egitto, ma non ha voluto. A Gaza ho acceso il computer e ho trovato una sua lunga mail: “Da quando è partita il sole è tramontato. Non lo vedo più in Corea”.

17

La donna con il neo

Tra i ricordi che riportavo a casa c’era l’incontro con il nostro poeta nazionale, Mahmoud Darwish. Era l’ospite d’onore di un festival letterario asiatico, una grande manifestazione organizzata in una città fuori Seul. Appena arrivata l’ho visto nella hall dell’albergo in compagnia di due donne che gli facevano da interpreti dal coreano all’arabo. Ho mollato le valigie e sono andata a presentarmi. «Cosa ti porta qui?» mi ha chiesto un po’ seccamente. Non ho osato confessargli che ero stata invitata in quanto scrittrice, gli ho detto che ero una giornalista. Sapevo che era freddo e diffidente con le persone che non conosceva, in particolare con le ragazze carine che gli ronzavano intorno. Come avrebbe potuto capire che non ero così? Sapevo anche che amava poco Gaza, nei suoi libri la chiamava “Terra di forza e disperazione”. Il giorno dopo l’ho incontrato di nuovo nella hall, non sembrava molto in forma.


«Che gente sono, questi coreani?» mi ha detto. «Non sopporto il loro cibo, ma non ti lasciano scelta».


«Cosa vorresti?».


«Andarmene da qui».


«D’accordo, ma a condizione che ti faccia io da guida turistica».


Avendo presenziato all’apertura aveva assolto i suoi obblighi e poteva quindi allontanarsi dal festival. Ci siamo messi in strada con i due amici che lo accompagnavano.


Il festival aveva prenotato per noi alcune camere d’albergo a Seul. Quando ci hanno dato le chiavi mi ha chiesto: «Come mai camera tua è accanto alla mia e quelle dei miei amici sono a un altro piano?». Gli ho risposto che non ne avevo idea, ma ho visto che non mi credeva. Nonostante tutto siamo diventati amici. Uscivamo tutti i giorni, cercavamo i ristoranti che servissero il miglior cibo non coreano, passeggiavamo… Gli ho raccontato di Gaza e di Hamas, di cui non sapeva molto. Mi ha detto di aver letto le novelle della mia prima raccolta e mi ha regalato Una memoria per l’oblio, il suo libro sull’assedio di Beirut del 1982, con una bella dedica. Mi ha parlato dei giovani arabi che lo criticano e lo chiamano “il poeta del potere” perché ha scritto qualche discorso di Arafat, prima di rinunciare. Una sera che stavamo camminando insieme nel buio gli ho chiesto: «Non è la città più bella del mondo, Seul?». «No, la più bella è Parigi» ha detto lui.


Aveva mal di schiena, gli ho trovato una massaggiatrice. Un’ora dopo, nella hall, uno dei suoi amici gli ha chiesto com’era andata, e lui: «Molto strano. Era vecchia e cieca. Mi ha massaggiato come se niente fosse e ha usato il telefono senza vedere niente. Come ha fatto a distinguere il numero di camera mia?». Siamo subito andati a controllare, i numeri sulle porte non erano in rilievo. Mistero rimasto irrisolto. L’ho preso in giro: «Vieni in un paese pieno di coreane giovani e belle e finisci con una vecchia cieca?». Lui ha fatto un’alzata di spalle e ha detto: «Vedi?».


Di notte eravamo separati da una semplice parete.


«Ti ho sentito tossire» gli ho detto la mattina.


«Come sarebbe?».


«Il muro non è tanto spesso».


«E perché io non ti sento?».


Mi ha raccontato la storia di un milionario americano talmente innamorato di sé che conservava la propria cacca in appositi recipienti e si rifiutava di buttarla. Tutto era buffo e leggero con Mahmoud. Ho voluto portarlo a un festival di fiori, i coreani fanno meraviglie con i fiori, li trasformano in qualsiasi cosa, ma durante il tragitto gli ingorghi l’hanno fatto innervosire: «Chi ti ha detto che volevo andare a un festival? Non voglio andare da nessuna parte!». Sono rimasta zitta, poi gli ho raccontato che nelle nostre scuole si studiava la sua famosa poesia Scrivi! Sono arabo. Lui è saltato su: «Non mi piace quella poesia! Mi ha rinchiuso in una cornice che rifiuto! Io non sono così, non porto sulle spalle tutta quella sofferenza e quella pena!». Finalmente siamo arrivati al festival e ci siamo messi a camminare tra i vari percorsi floreali. A un certo punto, meravigliato, mi ha detto: «Devo ringraziarti… e scusarmi».


Scrivi! Sono arabo è un’orgogliosa affermazione di identità in reazione alle umiliazioni e alle sofferenze. Tutti i palestinesi vanno fieri di quella poesia tranne il poeta che l’ha scritta, perché presto ha sentito che c’era da esprimere qualcosa di diverso dalla posizione militante, qualcosa di meno chiaro e più difficile. Quando comincia, un poeta non definisce in anticipo l’identità della sua poesia, non sa dove arriverà, e come potrebbe? Mahmoud Darwish ha cominciato come poeta patriota e nazionalista che abbracciava la causa della Palestina, in seguito la sua identità si è rivelata più generalmente umanista, ha scritto addirittura sugli indiani d’America. Quelli che lo criticano dicono che ha cambiato posizioni, in particolare nei confronti di Israele. Non ci credo. Ha solo capito quanto la poesia e la letteratura siano più importanti di tutto. Perché dovrebbero veicolare un messaggio al servizio di un popolo, una patria, un villaggio o una famiglia? Quando gli hanno chiesto cosa fosse la pace Mahmoud Darwish ha risposto: «Pace significa coltivare il giardino dietro casa e amare la donna con il neo». Il suo obiettivo non era necessariamente lanciare pietre contro l’occupante.


Avevo un blog in cui ciò che mi succedeva e ciò che immaginavo, gli eventi della vita politica e quelli della mia vita privata (o fantasticata), si fondevano con naturalezza in testi che consideravo letterari. Ci mettevo molto di me stessa, ma è arrivato il giornalismo a imporre un rispetto scrupoloso dei fatti e ha rovinato un po’ la delicata costruzione. Ho rinunciato al blog, ho smesso di scrivere poesie e non scrivo più novelle, anche se non ho del tutto abbandonato il genere. So che qualcosa sta lavorando dentro di me, sempre. La mia mente non si interrompe e non si ferma mai.

Ho detto a Mahmoud che due mesi prima in Corea avevo conosciuto uno scrittore francese, Le Clézio, che mi aveva parlato di lui.

«Eravamo a un convegno letterario. Vedo quell’uomo alto e bello che viene verso di me, si presenta, io non conoscevo il suo nome, non sapevo che fosse famoso, mi ero solo accorta che era circondato da attenzioni. Molto elegante. Mi ha raccontato dell’isola in cui viveva, del suo amore per la Palestina e di aver conosciuto te, Mahmoud… Io gli ho parlato della contraddizione tra la mia vita a Gaza e la mia vita all’estero, e come mi sentissi due personalità diverse. “In che senso?” mi ha chiesto, e gliel’ho spiegato. Non faceva che chiedermi cose sul mio sdoppiamento di personalità».

«Si vede che stava cercando personaggi per il suo prossimo romanzo!».

Abbiamo riso. Quando è arrivato il momento di separarci siamo rimasti a lungo immobili prima di dirci arrivederci. Il giorno dopo gli ho mandato un messaggio per assicurarmi che fosse arrivato senza problemi in Giordania. Dopo la sua morte ho saputo che aveva cercato il mio numero di telefono, voleva solo salutarmi. Non l’aveva trovato. Quanto a me, non osavo chiamarlo. È morto così. Mi è dispiaciuto moltissimo.

18

La religione viene prima della terra

Tornando dalla Corea mi sono fermata in Egitto in attesa di vedere che piega avrebbe preso la faccenda della lettera. Ci sono rimasta due mesi. Nel frattempo mio padre ha chiesto a un deputato di Hamas relativamente aperto di tentare una mediazione. La risposta è stata positiva e sono potuta tornare a Rafah. Due o tre giorni dopo ho notato una macchina bianca ferma davanti a casa nostra, una jeep che è partita di colpo e per poco non mi ha messo sotto, ho fatto appena in tempo a ripararmi dietro un albero. Poi la macchina è scomparsa. Era un avvertimento, per spaventarmi e mettermi in guardia. Dopo quell’episodio non è successo altro.


Ho vissuto il ritorno con felicità, il mio paese mi era mancato tantissimo! A causa della lettera i miei genitori erano stati emarginati dal resto della famiglia, ma la loro popolarità all’esterno della cerchia familiare era cresciuta molto, come del resto la mia, perché avevo difeso il diritto, cosa che a Gaza non è così scontata. Ho ricominciato a lavorare ad Al-Ayyam, ho ritrovato i miei amici e ho ripreso a uscire a capo scoperto, non era cambiato niente. Mi accorgevo a stento di vivere per la prima volta sotto il regime di Hamas e con zio Said sempre responsabile della sicurezza a Rafah. Avevo osservato come in America o in Corea la gente si ammazzasse di lavoro e vedesse pochissimo i figli, e pensavo che a Gaza era mille volte meglio, non solo per me, per tutti! Gli stranieri che ci venivano per due settimane finivano per restarci sei mesi. C’è una magia in questo territorio, si diventa se stessi, si percepisce il valore della propria vita e non per il fatto di essere musulmani, cristiani o ebrei. Il centro del mondo non è la Kaaba della Mecca, come sostengono i sauditi, ma Gaza, il paese di Sansone e Dalila.


Non sono sfuggita a lungo agli islamisti e agli sceicchi che legiferano sulla condizione della donna, lo stile di vita o le libertà senza capirne niente. In linea generale l’islam politico stabilisce una separazione tra la vita e la religione e accusa l’odiata laicità di operare la separazione tra religione e Stato. Sono gli islamisti quelli che dividono, visto che traducono tutto in divieti. Il rispetto dei loro precetti comporterebbe il non uscire più di casa, astenersi dal guardare la televisione e passare il tempo a leggere il Corano: praticamente stare lì ad aspettare il giorno della fine. Sono contro ogni gioia, la loro è una cultura di morte, e non muori per i tuoi o per la patria, muori per andare in paradiso. Negli anni Settanta, al tempo della sinistra palestinese e del Fronte popolare, il dovere del militante era non morire, mantenersi vivo per continuare a combattere per la terra, la patria, la rivoluzione mondiale, la fine dello sfruttamento dell’uomo a opera dell’uomo, non so come dire. Sotto il regime islamista si impara ad amare la morte e, che lo voglia o no, la donna che perde il figlio si mette a credere che sia andato in paradiso, altrimenti sarebbe morto per niente. Ha bisogno di quella bugia per reggere. Al-Fatah è un partito populista senza un’ideologia precisa, motivo per cui chiunque può identificarsi in esso, mentre per Hamas c’è una separazione chiara tra chi prega e chi non prega, tra i musulmani e i cristiani, tra gli sciiti e i sunniti. Non liberi il tuo paese perché hai combattuto bene, ma perché sei musulmano e hai pregato. Il tipico membro di Hamas è un musulmano sunnita che si alza all’alba per andare in moschea e critica il vicino perché non è affiliato a Hamas. “La religione viene prima della terra”, questo è il principio. Come ha chiaramente detto in un’intervista uno dei principali dirigenti del movimento, Mahmoud al-Zahar: “La Umma al-islamiyya [Nazione islamica] ingloba molte nazionalità come malesi, bengalesi, cinesi, arabi, persiani, turchi, berberi o africani”. Al tempo di Nasser potevi essere musulmano, cristiano, druso e perfino ebreo, tutti erano uniti dal fatto di essere arabi, almeno in teoria. Hamas rifiuta il nazionalismo arabo e detesta Nasser. Con Hamas puoi essere francese, pachistano, afghano o sudafricano, l’importante è che tu sia musulmano sunnita. Per fortuna quand’ero piccola mio padre mi aveva insegnato un altro concetto di religione: «L’islam è ogni credente che consegna il proprio cuore a Dio».


Sulle colonne di Al-Ayyam le mie critiche a Hamas erano meno teoriche. Raccontavo per esempio che il movimento islamista aveva proibito la “festa dell’amore”, San Valentino, vietando i regali di colore rosso o avvolti in carta rossa, com’era tradizione. Gli uomini di Hamas avevano fatto il giro dei negozi: «Non vendete niente di rosso!» e i commercianti avevano ubbidito. Ne ho parlato con una donna che stava facendo spese.


«Per volere bene a tuo padre e tua madre non hai bisogno di una festa dell’amore» ha detto.


«È vero, ma ciò che ti fa amare tuo padre e tua madre è la stessa cosa che ti fa amare il figlio dei vicini».


«No».


«Perché no?».


«Perché San Valentino è una festa di miscredenti».


«Non è vero, è una festa che esisteva da prima della religione, era destinata a far sposare gli innamorati, non a spingerli su una brutta strada».


Non sapeva più cosa rispondere. L’ho raccontato in un articolo e sono stata accusata di essere permissiva, di favorire i rapporti tra ragazzi e ragazze, di predicare l’uguaglianza dei sessi. Mio padre mi aveva insegnato a dire “noi esseri umani” anziché “noi donne”, motivo per cui non ho mai sostenuto di essere femminista, ma nell’organizzazione femminista palestinese che mi aveva assunto ho scoperto che le mie colleghe in realtà non lo erano affatto. Più che altro avevano paura che Hamas chiudesse l’organizzazione e loro perdessero lo stipendio. Quando il potere islamico ha proibito alle donne di fumare il narghilè in pubblico non hanno neppure avuto il coraggio di emettere un comunicato, nessuna ha detto “Vado a fumare una chicha in un caffè perché nessuno ha il diritto di impedirmelo”, nessuna è andata in televisione a fare una dichiarazione. E quando i media internazionali sono andati da loro a chiedere spiegazioni hanno risposto che era un argomento delicato e preferivano non affrontarlo. Allora i giornalisti si sono rivolti a me, perché nessun altro se la sentiva di affermare che si trattasse di un’intollerabile misura sessista. Nell’entusiasmo ho proposto all’organizzazione di mettere in cantiere una ricerca, da condurre appoggiandosi a sceicchi e islamici attratti dalla modernità, tesa a dimostrare che l’islam in quanto tale non si opponeva ai diritti delle donne. Che avevo detto mai! «Sei impazzita? Vuoi che l’intera società si metta contro di noi?». A rispondermi così sono state le femministe di Gaza finanziate da Unione europea, Svezia e Svizzera, persone che non erano mai state sul campo prima del 2012 e si limitavano a redigere rapporti. La direttrice del consiglio d’amministrazione mi ha preso da parte: «Ti fai vedere troppo spesso nei caffè con i tuoi amici, ora lavori per noi, ci rappresenti. Cerca di andarci meno, in modo che la gente non si metta a parlare male della nostra organizzazione. Io stessa, per far progredire i diritti delle donne, sono pronta a coprirmi la testa e a dire ovunque che porto il velo». E quella era considerata una delle più eminenti femministe di Gaza! Mi avevano assunto e mi pagavano un principesco stipendio di ottocento dollari al mese perché avevano bisogno di un volto un po’ conosciuto che potesse essere mostrato, visto che la maggior parte di loro portava il velo. Venivano in ufficio per farsi da mangiare, noodles a cottura rapida, e parlare male l’una dell’altra. Ho capito come Hamas al potere, senza muovere un dito, intimidisse le persone e le spingesse a tradirsi. Dopo un po’ ho dato le dimissioni.

19
Svergognata?

Chi viene a Gaza vede subito quanto la nostra società sia complicata. Non si tratta soltanto del potere politico, l’intera società è immersa in un clima orribile per le donne. Al tempo di al-Fatah avevo fermato un poliziotto in mezzo alla strada per lamentarmi di un uomo che aveva fatto un commento sessista sul modo in cui ero vestita. Lui mi aveva guardato dall’alto in basso e aveva detto: «Quell’uomo ha ragione, sei bella vestita così». Con Hamas le cose non andavano meglio. Accompagnata dalla mia legale sono andata alla polizia per denunciare le minacce che avevo ricevuto sul blog.

«Che minacce?» ha chiesto il commissario.

«Mi hanno dato della puttana».

«Come osi pronunciare parole simili?».

«Sto solo ripetendo la minaccia nei termini in cui l’ho ricevuta» ho ribattuto tirando fuori la mail che avevo stampato.

«La cosa non ti riguarda» è intervenuta l’avvocata. «Sei un poliziotto, devi solo registrare la denuncia!».

Ha annuito. Siamo tornate da lui il giorno dopo.

«Ho letto il tuo blog» ha detto. «È fatto bene, ma sei troppo coraggiosa!».

Un commissario! Mi è piaciuto che l’avesse letto.

«Ci sono comunque cose che non dovresti scrivere» ha aggiunto.

«Tipo?».

«Racconti che durante uno dei tuoi viaggi una sera ti sei ritrovata che non sapevi dove dormire, allora sei andata in una residenza universitaria da un tuo amico che ti ha offerto un materasso ad acqua per passarci la notte».

«E che c’è di male? A tutti capitano storie simili in viaggio, siamo sempre pronti a dormire dove capita perché abbiamo pochi soldi, solo che la maggior parte della gente non lo dice, lo nasconde».

Non ha replicato, ma la mia denuncia non è mai stata accolta. Nel frattempo se un padre vede la figlia parlare con un uomo può ucciderla. Il fratello pure. Ho scritto un articolo su una ragazzina che aveva subìto quella sorte perché il padre aveva sorpreso il figlio del vicino saltare fuori da camera sua alle tre di notte. Il padre aveva picchiato il ragazzo e l’aveva gettato per strada, ma il giovane non era morto. La figlia sì. Nel vicinato l’omicidio è accettato, è una cosa da niente. Stanno sulla porta di casa e ridono, chiacchierano, passano il tempo come se niente fosse, come se una ragazza non fosse appena stata assassinata. Uomini, ovviamente. Solo la madre ci starà male, e anche i fratelli e le sorelle della vittima. Il padre si farà un po’ di prigione, meno di tre anni. Così è la legge: “In caso di legittima difesa o di difesa dell’onore la pena sarà ridotta”. Nella religione non esiste la “difesa dell’onore” e a promulgare la legge non è stato Hamas, ma al-Fatah! Non bisogna credere che uno sia più progressista dell’altro, appena si tratta di donne si trovano subito d’accordo. Nel 2014 tra la Cisgiordania e Gaza sono state uccise quattordici donne. Qualcuno ha pagato per quei delitti? Quasi tutte le ragazze assassinate in quei cosiddetti delitti d’onore erano vergini. Viene da piangere.

Un giorno mio fratello Yasser ha visto nel palazzo di fronte una ragazza splendida, bella come la luna, capelli biondi, occhi azzurri, una principessa di nome Imane. Ha saputo che veniva spesso a trovare la nonna, le cui finestre guardavano le nostre, così si sono visti, si sono piaciuti e hanno cominciato a parlare servendosi del citofono. Lo zio della ragazza ha scoperto la tresca e ha avvertito il padre, che a un certo punto si è presentato a casa nostra. Sapevo che era un membro di al-Fatah e godeva fama di essere un duro. Ha chiesto di parlare con papà. Io e le mie sorelle abbiamo teso l’orecchio.

«Ho picchiato mia figlia, le ho dato una scarica di botte e l’ho chiusa in camera».

«Perché?» ha detto papà. «Non fanno niente di male. Sono giovanissimi».

Sono entrata in salotto e sono andata dritta verso il padre di Imane.

«Tu sei come mio zio… Io ho amato, mio padre ha amato e sono sicura che anche tu hai amato… Perché vuoi impedire una cosa così naturale?».

Le mie parole hanno avuto il potere di tranquillizzarlo. Ha risposto che non era un retrogrado, poteva capire, con persone come noi l’onore della figlia non aveva certo bisogno di essere difeso... Papà l’ha interrotto.

«Verrò domani a casa tua a chiedere la mano di tua figlia per mio figlio».

Si sono stretti la mano e il padre è uscito contento. Come d’accordo i miei sono andati a trovarlo il giorno dopo, ma nel frattempo lui aveva cambiato idea: «Imane è stata promessa a un cugino in Arabia saudita…». La ragazza ha smesso di andare a trovare la nonna, Yasser ha accusato il colpo, ma si è mostrato forte: «È finita, voglio dimenticarla». Lei ha cominciato a chiamare me: «Sto soffocando, non ne posso più, vorrei continuare a studiare, andare all’università, ma papà vuole farmi sposare…». Cosa potevo fare? Il padre l’ha effettivamente fidanzata al cugino e non l’abbiamo più vista.

Due anni dopo, all’ora della rottura del digiuno durante il Ramadan, stavo tranquillamente seduta dopo aver mangiato e ho sentito mia madre che parlottava con le mie sorelle. Tra le parole che mi sono giunte all’orecchio ho captato: «È morta Imane». Sono saltata su. «Cosa?» ho esclamato. Non volevano che io e Yasser lo sapessimo, ma a quel punto sono state costrette a vuotare il sacco: Imane aveva litigato con il padre perché voleva andare all’università, lui aveva esercitato ogni tipo di pressioni su di lei senza riuscire a farle cambiare idea, per punirla l’aveva chiusa in bagno e lei aveva ingoiato veleno per gli scarafaggi. L’avevano portata in ospedale con la pancia tutta gonfia… I medici non avevano potuto fare niente, era riuscita a suicidarsi. Mi sono sentita ribollire il sangue. «Suicidarsi? Altro che suicidio, l’ha ammazzata il padre!». Non so come, mi sono ritrovata a correre per strada con Yasser davanti a me. Siamo arrivati a casa di Imane. La prima cosa che abbiamo visto è stata il padre in lacrime sostenuto da due uomini. Sono andata da lui.

«Che è successo?».

«Imane è morta, Asmaa!».

«È colpa tua! Sei stato tu! L’avete uccisa!».

Non ci ho visto più, sono esplosa, non riuscivo a sopportare quell’orrore. Le donne mi hanno portato in una camera e hanno cercato di giustificarsi.

«In nome di Dio, non l’abbiamo uccisa noi!».

«Bugiarde! Siete state voi!».

«Ma no, Imane stava preparando da mangiare per la rottura del digiuno e ha confuso l’hummus con il veleno per gli scarafaggi…».

«Mi state prendendo in giro? Se stava digiunando non poteva mangiare!».

«No, è che avendo le sue cose non era tenuta a digiunare…».

È arrivata un’altra zia dicendo che Imane aveva confuso il pepe con il veleno. Mi sentivo impazzire. In quel momento è entrata un’amica di Imane e siamo rimaste tutte e due a piangere, «Imane, bella come la luna… Una urì2 venuta sulla terra per morirci… Per questo suo padre era così geloso!». Nel momento di andarcene uno zio ha preso il braccio di Yasser.

«Vai sulla sua tomba e cantale le canzoni che amava…» ha detto.

Non credevo alle mie orecchie: di colpo non si vergognavano più dell’amore, diventato halal dal momento che Imane era morta!

Ho denunciato la famiglia di Imane a tutto il quartiere. Ho scritto la sua storia, un’amica mi ha aiutato a tradurla in inglese e l’ho mandata a un giornale europeo… che non l’ha mai pubblicata. Imane aveva sedici anni. Yasser è andato sulla sua tomba, mi ha fatto vedere le foto. «Dimentica, Yasser!» gli ho detto. «Sposati e prenditi l’appartamento in cui abito io», ma non ha voluto. Ha smesso di parlare, giocava a pallone e riparava computer, le cose che gli piacevano.

Mi sono pentita di non aver dato più ascolto a Imane quando mi telefonava. Devo però dire che gli uomini di Hamas al potere non hanno lasciato correre, hanno arrestato il padre per sapere se l’avesse uccisa o no. In realtà no, si era davvero suicidata, ma perché? Per quanto strano possa sembrare, Hamas reprime i delitti cosiddetti d’onore molto più di al-Fatah, un padre che uccide la figlia o un fratello che uccide la sorella restano in prigione. Hanno perfino creato una “Casa di sicurezza” in cui possono rifugiarsi le ragazze minacciate o incinte senza essere sposate. Al-Fatah non ha mai fatto una cosa del genere, le ragazze che si rivolgevano alla polizia potevano al massimo passare lì qualche notte con il rischio di essere importunate dagli stessi poliziotti, poi venivano restituite ai loro parenti che potevano farle fuori il minuto dopo. Hamas si profonde a spiegare quanto l’amore al difuori del matrimonio sia haram, ma in fin dei conti cerca di proteggere le ragazze dall’essere ammazzate!

La verità è che esiste una correlazione profonda tra “resistenza” e “onore”. I costumi “deviati” introdotti dagli occupanti sono considerati una fonte di corruzione permanente dalla nostra società che, come tutti sanno, è “decente, morale e timorata di Dio”. Più l’occupazione è dura e più la “resistenza” all’occupazione si esprime con un irrigidimento malsano del concetto di “onore”, in nome del quale tutti hanno esercitato un’oppressione terribile, OLP, al-Fatah, Fronte popolare e Hamas. Resistenza e onore sono una regressione che significa sempre oppressione delle donne. Il maggior numero di donne viene ucciso in Cisgiordania, dove i fatti d’armi sono più numerosi. Gaza, se non ci fosse stata l’occupazione, forse sarebbe una località turistica sul mare.

Tornata dalla Corea ho lavorato e scritto senza preoccuparmi di niente. La prima minaccia che ho ricevuto “in quanto donna” veniva da un responsabile del ministero dell’Informazione: “Sei carina e divorziata, quindi attenta a te”… In parole povere voleva dire che si stava accingendo ad attaccare la mia reputazione con qualunque mezzo. Non ci dormivo la notte. Un negoziante del quartiere, una brava persona, mi ha avvertito che “gente della sicurezza” era venuta a chiedere informazioni su di me, a che ora uscivo, a che ora tornavo, chi vedevo e così via. In ogni quartiere c’è qualcuno, di solito un membro di Hamas, incaricato di fornire informazioni sulla gente che abita dalle sue parti. Lo chiamano zannane, quello che fa zzzzz intorno a te, quello che ti vede e che tu non vedi. Chiamano nello stesso modo anche i droni israeliani. Ho subito cambiato casa. Un amico del Fronte popolare mi ha aiutato a trovare un appartamento in affitto in un quartiere lontano, ho smesso di fare giornalismo sul campo, hanno perso le mie tracce.

Era l’agosto del 2008. In quei giorni è morto Mahmoud Darwish. Quando l’ho saputo sono crollata. Una fondazione culturale che mi aveva assegnato un premio, la fondazione Kattan, mi ha chiesto un articolo su di lui, ma non avevo l’animo di scriverlo, volevo solo rinchiudermi nell’appartamento che avevo affittato per sfuggire a Hamas e non muovermi più. I miei genitori sono venuti a trovarmi e si sono messi a piangere perché non potevano fare niente per me, non c’era nessuno a proteggermi, nessuno a fare da intermediario per permettermi di ricominciare a vivere senza essere disturbata. Alla fine ho comunque scritto l’articolo su Mahmoud Darwish, ho raccontato com’eravamo stati felici insieme in Corea, quanto avevamo riso e quanto avevamo discusso. Per me non era stato né un poeta né un genio né un uomo elegante, ma una persona magnifica, nient’altro che una persona.

E di colpo ne ho avuto abbastanza, ho deciso di affrontare la situazione fregandomene di eventuali voci e sono tornata dai miei genitori. In seguito, quando Hamas mi ha messo in prigione e ricoperto di ingiurie, la gente ha scoperto che non avevano niente contro di me, che quindi ero stata diffamata. Chi aveva scommesso che ero una svergognata aveva perso.

Sono uscita sfinita da quella storia. Molti miei amici avevano deciso di lasciare il paese, si aspettavano che il potere attaccasse la società civile e preferivano giocare d’anticipo. Uno è andato in Spagna, un altro in Norvegia, un altro ancora in Svezia. Anch’io mi sono fatta convincere. Alla fine eravamo in dieci a procurarci i visti e comprare un biglietto di sola andata per una destinazione qualsiasi. All’ultimo momento mi sono tirata indietro, sono partiti tutti e io sono rimasta con un amico molto caro, anche lui pensava che non potevamo mollare Gaza così. Ci siamo ritrovati in due, un po’ soli, ma coerenti con noi stessi. Abbiamo continuato a lottare in seno alla società civile e ad arrabbiarci con parecchia gente. In seguito quest’amico ha messo su un istituto, cosa che l’ha obbligato a stare zitto: non poteva più criticare Hamas. È così. Chiunque acceda a una certa posizione sociale è tenuto a controllarsi, fare concessioni e uniformarsi a tutti gli altri. Io non avevo associazioni né posizione né soldi. Per poter continuare dovevo abbandonare certe cose, e ho rinunciato a molto, ma senza rimpianti!

 

 

2 Vergine del paradiso promessa ai credenti.

20

La guerra

Mi vesto e scendo» ho detto all’amico prima di riattaccare. Erano le 11.24 del 27 dicembre 2008. Neanche il tempo di mettermi in piedi e sono cominciate le esplosioni, fuoco di fila assordante, cadenza infernale, mia madre è corsa sul balcone urlando il nome delle tre figlie che erano a scuola, i balconi delle case tutto intorno le hanno fatto eco. Nessun segnale premonitore, nessun preavviso, di colpo l’intera città si è messa a tremare. Il nostro vicino pazzo, che si chiama Israele, ha attaccato Gaza senza avvertire. Era la guerra. Stravolta, senza pensare che ero vestita da casa, sono uscita per strada. Mia madre si sporgeva talmente dal balcone che ho avuto paura che cadesse. Anche mio fratello Yasser è sceso in strada. Superandomi con la velocità di una gazzella è partito di corsa verso la scuola delle sorelle, come per prevenire gli eventi. La loro scuola è accanto alla stazione di polizia Arafat, quella di mio figlio è vicina alla sede della Pubblica sicurezza di al-Fatah nonché a un grattacielo di quindici piani occupato da uffici di Stato, entrambi possibili bersagli del bombardamento intensivo. Ho corso a perdifiato, preoccupatissima. Prima di arrivare ho saputo che il grattacielo in questione era stato buttato giù da una bomba sganciata da un aereo e che un’altra bomba aveva distrutto la sede della Pubblica sicurezza. Era per l’appunto l’ora dell’uscita degli alunni. Da noi le scuole gestite dall’UNRWA osservano due turni, il primo termina alle undici e un quarto, il secondo comincia alle undici e mezzo, e il bombardamento è cominciato esattamente tra l’uno e l’altro, nel momento in cui i bambini si incrociano, donde il grosso numero di vittime. Strada facendo ho visto donne che piangevano, gente disperata, ambulanze a sirene spiegate… Ho corso finché un tipo in automobile che stava andando a recuperare i figli si è fermato e mi ha fatto salire. Sono scesa davanti alla scuola, tutti i vetri del quartiere erano andati in frantumi, in cortile alcuni bambini piangevano terrorizzati. Dio, dov’è mio figlio? Sono salita di corsa nella sua classe. La sua sedia era vuota e ricoperta di schegge di vetro, pezzi enormi. «Nasser? Dov’è Nasser?» ho gridato, ma nessuno ha risposto. Non c’era sangue sulla sedia. Poi ho sentito una vocina, «Mamma!»: mi aveva trovato lui! Era tutto rosso in viso dalla paura, ma non aveva pianto, sarebbe stato mille volte meglio se l’avesse fatto. L’ho preso in braccio e ho cominciato a calmarlo. Genitori sconvolti affluivano uno dopo l’altro a cercare i figli. Nasser continuava a non aprire bocca, inebetito. Siamo usciti per cercare una macchina e sulla porta della scuola ha finalmente parlato: «È stato Hamas, mamma?». «No, gli israeliani».


Abbiamo approfittato di una pausa nei bombardamenti per tornare a casa, dove abbiamo trovato le mie sorelle in lacrime. Yasser le aveva riportate, terrorizzate. Da quel momento, a parte io che dovevo andare a lavorare, tutti gli altri membri della famiglia sono rimasti tappati in casa per i ventiquattro giorni di bombardamenti quasi ininterrotti che sono seguiti, ventiquattro giorni di terrore. Ogni sera dormivano in un punto diverso, «Camera tua è più protetta», «No, quell’altra è più sicura», in funzione di dotti calcoli sull’asse di tiro e sulla maggiore o minore vicinanza ai bersagli potenziali. I vicini dei palazzoni intorno venivano a passare la notte nel nostro stabile di due piani, considerato meno esposto, e si stringevano l’uno all’altro nella tromba delle scale. Tale era la quotidianità della guerra del 2008, chiamata “Operazione Piombo fuso”.


Insomma, uscivo tutti i giorni per rifornire di articoli Al-Ayyam e un altro giornale, Al-Quds al-Arabi, nonché una fondazione per la difesa della libertà di stampa, Skeyes, intitolato alla memoria di un famoso giornalista libanese assassinato, Samir Kassir. Collaboravo anche con la televisione marocchina, lavoravo ventiquattr’ore su ventiquattro, tanto che a volte ero costretta a dormire in ufficio. Durante la guerra ho avuto paura solo della gente di Hamas. A parte i giornalisti nessuno usciva, così quando vedevano qualcuno camminare di notte chiedevano in tono minaccioso: «Da dove vieni? Che stai facendo?» perché di solito anche i collaborazionisti uscivano di notte. Certe volte Yasser veniva con me e si esponeva a quel genere di domande cariche di sospetto. «Chiedi a qualche collega del giornale di accompagnarti» ha detto mia madre, «perché tuo fratello è già stato arrestato due volte». Io dovevo andare a qualunque costo. Nelle strade deserte sentivo solo il ronzio ossessionante dei droni, zzzzz, che occupavano il cielo e vedevano tutto. Non c’era elettricità, al buio pesto non riuscivo neanche a vedermi le mani, mi orientavo solo perché conoscevo la strada, rischiando di morire in qualunque momento.


Non ho mai ben capito come sia scoppiata la guerra. Sei mesi prima l’Egitto di Mubarak aveva collaborato a negoziare una tregua tra Israele e Hamas che prevedeva in particolare la cessazione di lanci di missili contro il territorio israeliano e la fine del blocco della striscia di Gaza. I lanci dei missili non erano mai cessati del tutto e il blocco non era stato tolto, ma in linea di massima la tregua era stata rispettata per vari mesi prima che gli scontri conoscessero una nuova escalation. Stando a fonti governative, l’Egitto aveva garantito che non ci sarebbe stata nessuna guerra fino a pochi giorni prima che scoppiasse. Forte di quell’assicurazione, Hamas non aveva rimandato la cerimonia di consegna dei diplomi della scuola di polizia e la prima bomba era scoppiata nel bel mezzo dell’evento. Secondo Hamas, durante quella guerra la polizia avrebbe perso duecentotrenta uomini, tra cui un generale.


Colti di sorpresa, i dirigenti di Gaza intendevano nonostante tutto andare in televisione per spiegarsi pubblicamente, ma molti media rifiutavano di ospitarli con la scusa che gli israeliani li avevano minacciati di rappresaglie se avessero invitato i “terroristi” nei loro studi. Balmedia, una piccola società che accoglieva un certo numero di televisioni, ha deciso di correre il rischio. Balmedia occupava due spazi distinti in cima a un grattacielo. Appena i tre rappresentanti del potere islamista sono entrati in uno degli spazi, tutto il personale è corso a rifugiarsi nell’altro. Nello stesso momento gli Apache, gli elicotteri israeliani, giravano in tondo sull’edificio. Io sono rimasta seduta a pochi metri dal punto in cui si trovavano i delegati del potere di Hamas. Uno di loro si è avvicinato.


«Vai a metterti al riparo come gli altri».


«No. Se dovete morire, morirò con voi. Di fronte all’occupazione siamo sulla stessa barca».


Facevo la spavalda, ma dentro di me morivo di paura, tremavo come una foglia. Nello studio c’erano solo il direttore del canale, il cameraman e io. Naturalmente gli israeliani sapevano dove si trovassero i rappresentanti di Hamas, con tutta probabilità li stavano vedendo in diretta. Se avessero deciso di lanciare un missile “personale”, di quelli che entrano dalla finestra, tutto ciò che era nella stanza sarebbe stato polverizzato all’istante. Il comunicato letto da Hamas di fronte alla telecamera era ovviamente molto energico, “Affronteremo, resisteremo” e così via, esattamente il contrario della situazione reale, in cui tutti ce la stavamo facendo sotto. I missili non si sono autoinvitati e la registrazione si è conclusa senza danni.


La torre al-Chourouk, in cui avevo trascorso la notte e in cui lavoravano molti giornalisti, è stata bombardata pochi minuti dopo che ne sono uscita. Quasi nello stesso momento era stata colpita la torre Palestina, che ospitava gli uffici di Al-Ayyam, così come i lussuosi saloni da feste e matrimoni in riva al mare di proprietà di Hamas. Uno dei miei fratelli è uscito sul balcone per constatare i danni subiti dalla torre Daoud, di fronte a casa nostra, e si è preso due piccole schegge nel piede, niente di grave, solo un po’ di sangue. Quando sono arrivata a casa mamma lo stava medicando, mio figlio piangeva e papà non se la passava meglio. Guardando dalla finestra ho creduto di assistere alla ricostruzione di una scena del 1948 che non avevo mai vissuto, migliaia di rifugiati che si dirigevano verso di noi carichi di fagotti, materassi arrotolati e bambini in lacrime. In realtà stavano andando verso le scuole messe a loro disposizione dall’UNRWA, che nel quartiere erano numerose. «Facciamo come loro, rifugiamoci in una scuola» ha detto mio padre, ma mia madre ha replicato seccamente: «Non ci muoveremo da qui!». L’esercito israeliano continuava ad avvicinarsi, forse sarebbero entrati a Tal al-Hawa, il nostro quartiere. I miei non sapevano cosa fare, io mi chiedevo quale fosse la soluzione migliore, discutevamo, i bombardamenti continuavano, mamma medicava mio fratello, mio figlio piangeva… per giunta avevo del lavoro da fare. Dato che a casa non c’erano né elettricità né Internet ho preso una rapida decisione: ho piantato tutti in asso, ho preso Nasser in braccio e l’ho portato in ufficio con me. Da lì si è messo a guardare con curiosità disarmante l’avanzata dei blindati israeliani che si vedevano da lontano. Avevo paura per mio figlio, che da parte sua, dal momento che era con me, non ne aveva affatto.


Mentre la guerra continuava girava voce che Hamas ne approfittasse per liquidare alla chetichella i membri di al-Fatah che davano fastidio. Tali voci saranno confermate in seguito dal rapporto delle Nazioni Unite del giudice Goldstone, che condannerà sia Israele che Hamas e che poi ritratterà a proposito dei crimini commessi da Israele suscitando una protesta ufficiale da parte degli altri tre membri della sua commissione. Durante la guerra, comunque, nessuno aveva bisogno di quel rapporto per credere nella realtà della vendetta scatenata da Hamas. La loro campagna di omicidi risulterà nero su bianco nel rapporto Goldstone, che a sostegno delle sue affermazioni citerà testimoni oculari. In seguito Hamas se la prenderà con i suddetti testimoni nonché con le organizzazioni per i diritti umani che avevano collaborato a mettere insieme le informazioni: deplorevoli rappresaglie che non solo non sollevavano dubbi sulla veridicità dei fatti accertati dal rapporto, ma anzi la confermavano.


La guerra è finita il 18 gennaio 2009, il giorno dopo il mio compleanno. Mia madre si è messa a ridere. Per l’occasione ha fissato una candela accesa su una scatola di sardine aperta e io l’ho spenta con un soffio.

21

Rabbie

Aguerra finita è venuta fuori tutta la rabbia accumulata nei confronti degli uomini di Hamas, accusati né più né meno di aver abbandonato il popolo. Mentre i dirigenti del movimento stavano ben nascosti, nessun servizio di emergenza era stato attivato per proteggere la gente. Ancora più forte era la rabbia contro Israele, la cui operazione aveva provocato la morte di oltre millequattrocento persone. Era però una rabbia di un’altra natura: non potevi avercela col nemico nello stesso modo in cui ce l’avevi con quelli che avrebbero dovuto proteggerti. All’ospedale Al-Hilal ho incontrato i sopravvissuti della famiglia Samouni: ventuno di loro erano stati uccisi nella casa in cui i soldati israeliani li avevano raggruppati due giorni prima. Pensavano di essere al sicuro, erano riuniti nel cortile interno della casa, stavano cuocendo il pane in un forno tradizionale quando è caduta la bomba che li ha dilaniati. Un ragazzo mi ha raccontato di essere rimasto in mezzo ai cadaveri dei suoi per tre giorni a guardare gatti e polli che venivano a mangiucchiarli. Insieme alla nonna e ad altri due superstiti erano sopravvissuti mangiando riso crudo e pomodori marci. Soltanto dopo quei tre giorni gli israeliani avevano tolto i blocchi che impedivano l’arrivo dei soccorsi. I media palestinesi hanno dato ampio risalto a quello che sarà considerato dalle Nazioni Unite come “il peggior crimine” occorso durante l’Operazione Piombo fuso, ma secondo i giudici militari israeliani non c’erano elementi che consentissero di perseguirne gli autori.


Furiosi contro Hamas, nauseati dall’impunità di Israele e soffocati da una specie di collera impotente, come potevano reagire gli abitanti di Gaza? Prendendosela con se stessi, rivolgendo contro i loro cari la rabbia inutile che sentivano. Si sono detti in faccia cose orribili, si sono fatti del male, hanno divorziato, una regressione generale! Mio fratello Mustapha ha criticato il potere islamista, mio padre non era d’accordo, pensava che non fosse il momento di prendersela con Hamas e che bisognasse restare uniti a tutti i costi. Mia madre ha preso le parti di Mustapha, papà si è arrabbiato, ha fatto la valigia ed è andato a vivere nella casa di Rafah. Abbiamo provato a farlo tornare, l’abbiamo supplicato, mio figlio ci stava male perché era molto attaccato a lui… Non c’è stato niente da fare. Allora abbiamo accettato la situazione, ci siamo chiusi in noi stessi e abbiamo smesso di chiedere sue notizie. Era finita. Bisognava diventare più forti, dare inizio a qualcosa di nuovo. Non eravamo i soli, la guerra aveva lacerato tutti, non una famiglia era stata risparmiata. Mio padre veniva a Gaza tutti i giorni per andare a lavorare all’università e non passava mai a trovarci. Sapevamo che non era contento di stare a Rafah, ci restava perché era cocciuto. Per quasi un anno ha vissuto lì da solo.


Il che ha scatenato in me una serie di domande sul mio essere madre. Ero consapevole delle mie molte mancanze nei confronti di Nasser, non sopportavo suo padre e avevo divorziato senza preoccuparmi del bambino, avevo viaggiato alla ricerca di me stessa e, appena lo psichiatra iracheno mi aveva detto di prendere un po’ le distanze, l’avevo affidato ai miei genitori per poter partire. Non ricordavo neanche il giorno in cui aveva camminato per la prima volta. Mi sono messa a piangere pensando a ciò che gli avevo fatto: la mia sofferenza e lo shock del divorzio avevano minato pure l’affetto per mio figlio. Mio padre diceva sempre: «Sei madre nel cuore, non nella testa». La crisi mi ha fatto rendere conto che non avevo saputo prendermi davvero cura di mio figlio né avevo saputo guardarlo.


La guerra non è una cosa che passa, resta nei corpi. Eravamo invitati a un matrimonio. Mezz’ora prima di uscire mia madre si è messa la mano sul cuore: «Asmaa, ho un dolore al petto». Mi sono preoccupata, ma mi ha tranquillizzato, «Vai a farti il bagno» ha detto, «ora mi passa». Ho visto che stava malissimo, era un infarto. La scossa della guerra aveva spezzato i cuori. Ho telefonato a mio padre, che pur continuando a tenere il broncio è venuto in ospedale, direttamente dall’università. Mamma è stata ricoverata in terapia intensiva, il suo cuore si è calmato, le sono rimasta accanto, cosa che in quel reparto è vietata, e quando mi sono rifiutata di andarmene l’ospedale ha chiamato la polizia! Sono stata obbligata a scendere al pianterreno, ma non sono tornata a casa, ho passato la notte ad aggirarmi al freddo, davanti al posto di guardia degli armati di Hamas. Ho parlato con quegli uomini per la prima volta dalla fine della guerra. Uno di loro era una brava persona, mi ha permesso di restare nella sala infermiere, da cui scappavo regolarmente per salire a vedere come stava mia madre.


Un giorno d’inverno del 2009 ero su un tetto con il cameraman a riprendere per la televisione marocchina la sepoltura di Nizar Rayan, un dirigente di Hamas ucciso da un missile insieme alla moglie e ai quattro figli. A un certo punto dalla folla radunata sotto i nostri occhi si è sentito gridare «Allahou Akbar!»: sotto le macerie avevano appena scoperto il corpo di una figlia del dirigente. L’hanno tirato fuori mentre noi continuavamo a girare. Terminato il lavoro, abbiamo raccolto le nostre cose e ce ne siamo andati. Io indossavo pantaloni larghi, camicia a maniche lunghe e un ampio scialle che mi scendeva fin sotto la vita, e come al solito avevo i capelli scoperti. Un’ambulanza bianca e arancione è venuta verso di noi. L’autista, un barbuto con la divisa dei barellieri, ha urlato dal finestrino: «Copriti i capelli!». «Non mi va!» gli ho risposto continuando a camminare. L’ambulanza ha inchiodato, l’uomo è sceso. Ho capito che era un religioso violento. È venuto verso di me palesemente deciso a picchiarmi, il cameraman mi ha fatto da scudo, l’altro si è messo a gridare: «Sei senza vergogna! Non conosci Dio!». Io ho gridato più forte di lui: «Dio non è tua proprietà! Conosco Dio meglio di te! Sono qui a lavorare!». Non so da dove mi sia venuta quell’energia. Il cameraman ha preso lo scialle e mi ha coperto la testa. L’ho respinto con brutalità: «Non ti immischiare, lasciami in pace! Non sto facendo niente di male! Che questo signore si faccia gli affari suoi!». È sopraggiunto un uomo glabro che ha preso il barbuto per il braccio: «Che ti prende, sei impazzito? Sta facendo vedere al mondo quello che ci succede e te la prendi con lei perché è a capo scoperto?». Poi ha spinto il mio aggressore in una macchina e l’ha portato via. Io ero ancora arrabbiata con il cameraman: «Sei un retrogrado, non capisci niente! Dovresti stare al mio fianco e non cercare di coprirmi la testa! Ti pare che i miei capelli siano un problema, nella merda in cui ci troviamo?». Siamo arrivati in ufficio senza che avessi smesso di insolentirlo. Quando ha saputo cos’era successo, il direttore mi ha appoggiato. Non avrei potuto agire altrimenti. Per la mia dignità era meglio essere picchiata che farmi coprire i capelli contro la mia volontà.


Non riuscivo ad accettare la regressione che la guerra e le sue frustrazioni stavano imponendo. Più che un fatto di libertà, rifiutare il velo significava rifiutare di essere ipocrita. Un giorno, a una donna che mi rimproverava di indossare i pantaloni in moschea, ho risposto: «Dio accoglierebbe la mia preghiera anche se la facessi a capo scoperto!». La pretesa di coprire gli altri mi è intollerabile. I benpensanti vogliono immischiarsi anche nel tuo sentimento per Dio, nel tuo rapporto con Lui, e in quelle condizioni diventa difficile pure percepirne la presenza. Certo, potrei restare me stessa pur coprendomi la testa, ma perché? Se certe donne vogliono servirsi del velo per affermare un’identità sono liberissime di farlo! Io non ho nessuna inclinazione a sottolineare la mia identità religiosa, voglio solo essere me stessa!


Navigando in questo modo, controcorrente in un mare ostile, capita di sentirsi soli. Sennonché Dietro le quinte della guerra, una serie da me lanciata per parlare degli sconvolgimenti che il conflitto aveva causato nelle nostre vite quotidiane, ha vinto il prestigioso premio del Dubai Media Club per il giornalismo, e l’organizzazione per i diritti umani Human Rights Watch mi ha assegnato il sussidio Hellman/Hammett, pari a quattromila dollari, destinato a “sostenere gli scrittori perseguitati per aver espresso opinioni contrarie a quelle del loro governo”. Ho sentito che le persone di cui parlavo ogni giorno, i dimenticati, gli oppressi, le ombre, di colpo venivano riconosciuti.


22

Il caso della spiaggia

Era giugno, io e la mia amica May, entrambe in jeans e camicia, eravamo sedute sulla sabbia a chiacchierare. La caffetteria della spiaggia è di suo padre, quel giorno c’erano parecchi clienti. Siamo andate a nuotare vestite. Dopo il bagno abbiamo notato un tipo in borghese che ci girava vagamente intorno, ma non ci abbiamo fatto molto caso. Volevo cambiarmi, perché i miei vestiti erano troppo fradici, ma non c’erano stanze chiuse, solo due minuscoli box di zinco, uno dei quali fungeva da toilette e l’altro da angolo cottura per preparare tè e caffè. Sapevo che in uno dei capanni da spiaggia lì vicino c’era Taher, un collega di Al-Ayyam, con la moglie e i dieci figli, così l’ho chiamato. «Posso venire a cambiarmi da te e Zeina?». Mi ha risposto che non c’erano problemi. Stava scendendo la sera, May ha chiesto al fratello più giovane di accompagnarmi. Quando siamo arrivati Taher mi ha indicato il bagno in cui potevo cambiarmi mentre il fratello di May mi aspettava fuori. Uscendo ho trovato alcuni barbuti davanti al capanno. Appena mi hanno visto sono venuti a chiedermi il passaporto.


«Perché? Che c’è?».


«Vogliamo solo vedere il tuo passaporto» mi ha risposto uno di loro.


Ho chiesto a Taher cosa stesse succedendo, ma il barbuto mi ha interrotto.


«Che facevate sulla spiaggia?».


«Come, che facevamo? Eravamo sedute in mezzo alla gente, non abbiamo niente da nascondere. Sono venuta qui a cambiarmi. Questo è il mio collega Taher, del giornale Al-Ayyam, sua moglie, i suoi figli e il fratello della mia amica che mi ha accompagnato qui. Cosa volete?».


Dato che facevano chiaramente parte della sicurezza di Hamas ho comunque tirato fuori il passaporto e nello stesso movimento ho detto ai figli di Taher di nascondere il mio computer portatile.


«Chi è il muhrem che ti accompagna?».


Il muhrem è un padre, un marito o un fratello che dev’essere responsabile della donna.


«Quale muhrem? Ho ventotto anni e non ho bisogno di nessun muhrem! Sono una donna divorziata. Ecco il numero di mio padre, chiamalo e digli dove si trova sua figlia. Che ti succede, sei impazzito?».


Era furioso.


«Voi… voi…».


«Voi cosa? Non abbiamo fatto niente di male!».


Il fratello di May era scomparso, l’avevano arrestato senza che ce ne accorgessimo. È intervenuta Zeina, la moglie di Taher.


«Se avesse indossato un niqab l’avreste lasciata in pace! Avrebbe potuto imboscarsi con un uomo e non ve ne sareste neanche accorti. L’avete seguita solo perché ha il capo scoperto, questo è il suo grave delitto!».


Siamo rimasti un po’ a discutere con loro, poi Taher ha chiamato un amico comune che era diventato portavoce del governo.


«Qui c’è gente che vuole arrestare Asmaa».


«Sono matti?».


Ha chiesto di passarglieli, ci ha parlato, ma non è cambiato niente. Con il che è apparso chiaro lo slittamento in atto: su un caso del genere il portavoce in carica del governo di Hamas aveva meno potere di un modesto “guardiano dei costumi”. Mi è tornata in mente l’arroganza del barelliere, che se ne fregava di sapere chi fossi o quale fosse il mio ruolo in quel momento, per lui ero solo una donna indecente che doveva coprirsi. Un altro amico giornalista vicino a Hamas ha parlamentato a sua volta con il barbuto della spiaggia, anche lui senza risultato. Il tipo voleva assolutamente portarmi via e io non volevo assolutamente seguirlo. È arrivata la mia amica May, fuori di sé.


«Uomini armati hanno fatto irruzione nella caffetteria! Ci hanno minacciato con i mitra, hanno portato via i ragazzi, una follia!».


Il poliziotto mi ha restituito il passaporto, a quanto pareva aveva deciso di andarsene senza di me.


«Attenta a te» ha detto, «ti staremo alle costole».


«Non ti preoccupare, non dimenticherò quello che avete fatto!».


Siamo tornate a casa e abbiamo raccontato tutto ai nostri genitori, poi abbiamo cercato invano di dormire. I ragazzi sono stati rilasciati alle due di notte dopo essere stati abbondantemente picchiati e costretti a firmare un “impegno” in cui dichiaravano che non avrebbero più contravvenuto alle leggi islamiche. Era la prima volta che si sentiva parlare di una cosa del genere a Gaza. Ero stata un’ingenua. Nel 2007 Hamas aveva preso il potere con la violenza, nel 2008 Israele aveva scatenato una guerra che ci aveva spezzato, ma aveva rafforzato Hamas, e a quel punto il partito si era ritrovato unico padrone di un territorio distrutto e chiuso a chiave. In altre parole eravamo nelle sue mani. Hamas non voleva gestire la società prigioniera che controllava, ma realizzare il sogno di islamizzarla a tappe forzate, ed era ciò che stava facendo.


L’indomani con May, i suoi fratelli e i suoi parenti siamo andati a parlare con alcune organizzazioni per i diritti umani. Nel frattempo eravamo venuti a sapere le domande che i poliziotti avevano fatto ai giovani fermati. A uno avevano chiesto: «Sei stato a letto con Asmaa?», e a un altro, il fratello di May: «Te ne sei andato con Asmaa lasciando un tuo amico in compagnia di tua sorella. Come sai che non ne ha approfittato per andare a letto con lei a tua insaputa?». L’intero discorso di quei ritardati verteva sul sesso, una vera e propria ossessione! Lo consideravano l’unico rapporto possibile tra le persone. E di colpo ho scoperto che la nostra non era affatto una storia isolata, molti altri giovani avevano subìto come noi un trattamento degradante, ma non avevano osato lamentarsi. I divieti riguardanti i costumi erano stati interiorizzati e si diffondevano in silenzio! Nell’intervista che ho rilasciato al sito di Al-Arabiya ho spiegato come il governo di Hamas cercasse di servirsi del corpo femminile e dei rapporti tra maschi e femmine per suscitare vergogna nella gente. «Questo potere vuole farci credere che è all’opera per difenderci, preservare le nostre mogli e le nostre figlie, ma in realtà non ci protegge da niente, non fa altro che aggredire la nostra vita privata, e questa è una verità che dev’essere detta!».


Lì per lì non immaginavo l’eco che avrebbe avuto quell’intervista, più di trecento commenti sul sito di Al-Arabiya nelle ore immediatamente successive! Se n’è parlato in tutta Gaza, tanto che la gente mi riconosceva e mi fermava per strada. Alcuni si congratulavano per il mio coraggio, altri si indignavano e mi rimproveravano di aver parlato. Ragazze che si consideravano liberali mi hanno detto: «Non ti fa paura l’idea di aver suscitato reazioni negative?». Ma che volevano? All’estero quelle stesse ragazze si permettevano qualunque cosa, e appena tornate a Gaza facevano le brave conservatrici. Molto strano. Volevano che mi lasciassi opprimere senza aprire bocca per timore dello scandalo.


Lo scandalo era scoppiato, ma non quello che pensavano le ragazze. Il capo della polizia ha preso il telefono e mi ha domandato se tutto quello che avevo raccontato fosse vero.


«Credi che abbia mentito?» gli ho risposto.


«Se è vero ti presenteremo le nostre scuse».


«Indaga piuttosto sui tuoi poliziotti!».


«È quello che farò. Ti richiamo».


Ovviamente non si è più fatto vivo. Lo stesso Taher si è spaventato.


«Asmaa, non fare più il mio nome in relazione a questa faccenda».


Non credevo alle mie orecchie: proprio lui, il collega giornalista che mi aveva difeso spalleggiato dalla moglie!


«Dato che me lo chiedi, non farò più il tuo nome» gli ho risposto, «ma non puoi impedirmi di parlare di ciò che è successo, è un mio diritto e non ho paura di nessuno».


Fin dall’inizio ho avuto l’appoggio di mio padre, «Tieni duro, non hai fatto niente di male!», ma le pressioni nell’altro senso si moltiplicavano, «Perché parli tanto? Fai un passo indietro!». Più rifiutavo di smettere e più i giornali mi intervistavano! I media stranieri si erano impadroniti del caso. Oltre a istituire una polizia dei costumi in borghese che pattugliava le spiagge, il potere aveva imposto l’hijab alle alunne, alle avvocate, alle impiegate… Gente che fino a quel momento era stata zitta ha preso coraggio e si è messa a raccontare le proprie esperienze di repressione. Abbiamo cominciato a riunirci per organizzare la battaglia contro l’hijab obbligatorio, abbiamo promosso iniziative civili che vedevano riuniti avvocati, persone di sinistra, democratici… Ogni giorno spiegavo che Hamas interveniva nella vita privata esattamente come facevano i tribunali somali o il governo islamico del Sudan. Nello stesso momento una giovane giornalista sudanese di nome Lubna è stata condannata alla fustigazione nel suo paese per aver indossato pantaloni stretti e una campagna internazionale è stata organizzata in suo appoggio. Alcuni giornalisti hanno scritto articoli che ci associavano, “Lubna e Asmaa” sono diventate le due figure della resistenza ai poteri che si servivano dell’islam per controllare la società.


La gente ha creduto che avessi un conto in sospeso con quelli di Hamas e soltanto con loro, e per quanto mi sgolassi a dire che non era vero, che era una questione di principio, mi credevano a metà. Un giorno si è presentato nel mio ufficio di Al-Ayyam un tizio con le stampelle.


«Ho sentito dire che sei una che non ha paura».


«Ah sì?».


«Ho una grande storia che vorrei raccontarti».


«Racconta».


«Sono l’uomo che durante la seconda intifada è riuscito a issare la bandiera palestinese su Netzarim, la base militare israeliana che si trovava a Gaza, la foto ha fatto il giro del mondo, l’avrai vista di sicuro. Nel corso di quell’operazione mi sono beccato una pallottola nella gamba. Se non me l’avessero curata bene sarebbe potuta andare in cancrena, ed è quello che è successo. Rischiavo di perderla, ho ottenuto di essere trasferito da Gaza in Cisgiordania. Sulla strada per l’ospedale sono stato preso dai militari dei servizi di sicurezza dell’Autorità palestinese, che mi hanno sbattuto in prigione per un mese, trascorso il quale mi hanno rimandato a Gaza con la gamba completamente fottuta. Sei disposta a raccontare la mia storia?».


«Se riesco a verificarla, sì».


Mi ha detto tutto, come i servizi di sicurezza si erano comportati con lui, le cose che aveva visto, la gente torturata, i prigionieri privati dell’acqua, i vecchi il cui unico crimine era far parte di Hamas… Lui stesso era sospettato di essere una spia del movimento islamista mandato in missione in Cisgiordania. «Sono stato picchiato e umiliato, nessuno ha voluto ascoltare la mia storia. Così ho insegnato a mio figlio maggiore a odiarli, perché li uccida quando sarà grande…».


Proprio mentre denunciavo giorno per giorno i soprusi di Hamas, quell’uomo veniva a raccontarmi azioni simili perpetrate da al-Fatah. Per verificare la sua storia mi sono messa in contatto con un ufficiale dei servizi di sicurezza di al-Fatah.


«Quell’uomo non dice la verità, non gli abbiamo fatto niente!».


«Quindi ammettete che è stato da voi…».


«Sì».


«Mi basta questo. E quanto l’avete trattenuto?».


«Circa un mese».


Nel corso della conversazione l’ufficiale mi ha detto che l’uomo aveva tentato di suicidarsi in prigione con una lametta di rasoio. Ho mandato l’articolo ad Al-Ayyam. Il giornale non dipende da al-Fatah, ma da dopo la separazione tra Cisgiordania e Gaza ogni organo di stampa ha più o meno preso un orientamento a favore o contro. Il segretario dell’Associazione giornalisti nonché direttore editoriale di Al-Ayyam mi ha chiamato.


«Sei impazzita? Cosa ti salta in mente di mandarmi un articolo simile? Non l’ho neanche fatto vedere al caporedattore! Vuoi farti licenziare?».


Mi sono ripresa l’articolo e l’ho fatto pubblicare su Amine, un sito che postava testimonianze coraggiose contro al-Fatah e Hamas. Erano i primi tempi dei blog. Per la prima volta in vita sua (e in vita mia) Hamas ha ripreso il mio articolo e l’ha pubblicato sul proprio giornale, Felesteen. Era il 2009. Al-Ayyam ha cominciato a rifiutare i miei articoli e alcuni problemi personali con il direttore hanno peggiorato le cose. Ho chiesto un congedo che mi è stato negato, così ho preferito dimettermi.


Mi sono ritrovata senza soldi, senza lavoro e senza mezzi. La mia unica fonte di reddito era la fondazione per la libertà di stampa, la Skeyes, ma mi pagavano ad articolo e non potevo certo inventarmi attentati alla libertà per poter continuare a scrivere. Sono stata costretta a farmi prestare soldi dagli amici, che non ho ancora finito di restituire. Mi restava l’azione politica e il mio blog, in cui postavo tutto quello che sarebbe dovuto apparire su Al-Ayyam, ma non era il tipo di cose che la gente si aspetta di trovare in un blog, così ho ricominciato a scrivere barcamenandomi sul labile confine tra ciò che sapevo, ciò che pensavo e ciò che vivevo. In un certo senso ero tornata alla letteratura.

23

In bicicletta

Stavo andando a Rafah con tre amici stranieri quando abbiamo saputo che il ministero dell’Interno di Hamas aveva deciso di proibire alle donne di andare in bicicletta e guidare moto. A quanto pareva lo spettacolo di una donna che pedala aveva disturbato il ministro, che ci aveva visto una “particolare connotazione sessuale”. Ci siamo messi a ridere. Gli islamisti che dichiarano di detestare Freud sono quelli che gli danno più ragione, vedono il sesso dappertutto, lo vedono nel gesto di aspirare dal bocchino di un narghilè come nel movimento del sedere di una donna sul sellino di una bicicletta. La cosa più buffa era che i miei compagni, una coppia di italiani e un’americana, avevano pensato di tornare da Rafah a Gaza in bicicletta, tanto che avevano le bici fissate sul tetto della macchina. Un’altra amica che doveva essere della partita ci aveva dato buca all’ultimo momento, così c’era una bicicletta in più. «Perché non torni con noi in bici?» hanno chiesto. Ho detto di no, ma mentre procedevamo in silenzio l’idea mi ronzava in testa. La distanza tra le due città è di una quarantina di chilometri, non pochi, eravamo in pieno Ramadan, faceva caldissimo, sarei schiattata. Quando avevo sei anni papà mi aveva portato una bicicletta dagli Emirati e, prima di togliere le rotelline, mi aveva insegnato ad andarci. In seguito, quando vivevo anch’io nel Golfo, un vicino mi prestava regolarmente la bicicletta, ma era passato un bel po’ di tempo! Avevo paura di cadere e spaccarmi la faccia, di sicuro era per quello che avevo detto di no. C’era ovviamente un’altra ragione inconfessata, e cioè che non avevo nessuna voglia di avere ulteriori rogne con Hamas. Perché sempre io? Perché dovevo essere condannata alle luci della ribalta o, come si dice in arabo, alla “bocca del cannone”? Avevo il diritto di tirare il fiato. Eppure quando gli amici me l’hanno chiesto un’altra volta ho risposto «Okay, vengo con voi» senza esitare.


La linea di partenza era il confine tra Gaza e l’Egitto. Gli amici hanno cercato senza successo di abbassare il sellino della bicicletta, troppo alta per me, allora sono venuti dei vicini di casa di Rafah armati di chiavi inglesi e si sono messi a trafficare sulla bici come se ci stessimo preparando a una spedizione epica. Sono salita in sella, ho fatto qualche metro perdendo un po’ l’equilibrio, ho posato il piede a terra e ho detto che rinunciavo. I miei amici hanno insistito, non potevo gettare la spugna subito! Ho provato di nuovo e non mi sono più fermata, sono partita come un treno ed è toccato a loro raggiungermi. Ci siamo ritrovati sulla strada. Più volte abbiamo incontrato poliziotti, ma forse ci hanno scambiato per un gruppo di ciclisti stranieri che erano tenuti a proteggere, fatto sta che ci sono venuti dietro per un po’ prima di lasciarci continuare. Per strada la gente rideva, qualcuno ci faceva segnali amichevoli, altri ci insultavano… Probabilmente agli occhi di questi ultimi stavamo facendo qualcosa di scandaloso. A un certo punto due barbuti in moto ci hanno inseguito. Mentre ci superavano uno di loro mi ha sputato addosso e l’altro ha dato una manata sulla schiena alla mia amica americana. Abbiamo continuato.


Altri tipi in moto si sono messi sulla nostra scia, due giovani dagli sguardi antipatici che ci superavano, aspettavano che li raggiungessimo e ricominciavano a venirci dietro. Ho capito che non ce ne saremmo sbarazzati. Quando ho visto un furgone della polizia mi sono fermata e li ho denunciati spudoratamente. Nonostante stessimo infrangendo il divieto di bicicletta i poliziotti ci hanno aiutato volentieri. Hanno fermato i due giovani e li hanno trattenuti facendoci segno di ripartire. Mentre ci salutavano ho sollevato il braccio per rispondere al saluto e sono caduta. I poliziotti sono scoppiati a ridere.


Sono caduta altre tre volte lungo il tragitto. La strada era lunga come previsto, ero letteralmente sfinita, morta di caldo, inoltre ero a digiuno dalla sera prima e per due volte ho rischiato di svenire. Di quando in quando gli amici mi spruzzavano acqua in faccia. Ogni tanto ci fermavamo per riprendere fiato, fare una riparazione a una bicicletta o gonfiare una gomma. La gente ci chiedeva: «State digiunando? Siete musulmani?». Facevano la domanda più antipatica, «Cristiani o musulmani?», domanda che nel tempo era passata di moda, c’era da vergognarsi a farla, il tuo credo non riguardava nessuno. Ma la religione è diventata più importante della patria. Non si chiede più «Sei anche tu palestinese?», ma «Sei anche tu musulmano?». Il confessionalismo è disastroso.


Alla fine, pur con qualche difficoltà, siamo arrivati a Gaza. La nostra avventura in bicicletta, che ho raccontato sul blog, ha sollevato lo stesso polverone dell’episodio della spiaggia. C’era chi si congratulava e chi ce l’aveva con me e me lo faceva sapere, reazioni passionali di tutti i tipi, come se quella gita tra Rafah e Gaza che mi aveva fatto perdere qualche chilo fosse una questione di primaria importanza. Non nascondevo niente, dicevo che nessuno ce l’aveva impedito e nessun posto di blocco ci aveva fermato. Forse significava che le decisioni del ministero venivano prese da un tipo soddisfatto seduto in poltrona e circondato da quattro donne legittimamente sposate, «Che ne dite se vietassi la bicicletta? O se mettessi fuorilegge il narghilè?». Immaginavo la scena. In effetti il ministro dell’Interno aveva quattro mogli…


Ciò malgrado non ci sono mai state molte donne in bicicletta sulle strade di Gaza. Il testo che lo vietava non era una legge, ma una semplice “decisione” del ministro che nessuno aveva votato, così come non erano state votate le decisioni in base alle quali veniva raccomandato alle donne di coprirsi la testa o non mettersi camicie a maniche corte. Le donne si piegavano a quelle norme per essere come gli altri, evitare di farsi notare, essere “decenti”. L’islamizzazione sembra essere una mania generale. La guerra ha reso il regime islamista più puntiglioso – in realtà rende puntiglioso ogni regime – e il popolo gli è andato dietro. Sapete per esempio perché una donna tiene nella borsa il suo contratto di matrimonio? Perché potrebbe avere bisogno di esibirlo nel caso fosse sorpresa a camminare mano nella mano con il marito… La gente sembra più che disposta a ubbidire e farsi controllare, a volte anticipa addirittura la norma mostrandosi zelante anche se nessuno le ha chiesto niente. Un giorno la direttrice della scuola ha imposto alle mie sorelle di coprirsi la testa e, dato che loro si rifiutavano, le ha punite facendole stare in piedi sotto il sole a picco. Sono andata da lei a protestare.


«Volevo fare una buona azione gradita a Dio» ha risposto.


«Ma sei una direttrice di scuola o una missionaria?».


Mi sono rivolta allora al ministero dell’Educazione, un funzionario del quale mi ha accompagnato alla scuola e di fronte a me ha firmato una lettera in cui chiedeva ufficialmente alla direttrice di non impegnarsi più a far velare le alunne. Lei ha ubbidito, ma nel frattempo le mie sorelle avevano deciso di loro spontanea volontà di mettersi l’hijab. Avevano paura a dirmelo, così se n’è incaricata mamma. «Liberissime di farlo!» ho risposto, poi sono andata a chiudermi in camera e ho pianto tutta la notte. In realtà, con la scusa della “libera scelta”, avevano ceduto alla pressione.

24

La torcia tunisina

Io e i miei amici ci siamo detti che l’islamizzazione della società sarebbe continuata in maniera tacita e naturale se tutti continuavano a dormire, motivo per cui abbiamo deciso di chiamare il nostro movimento Isha! (“Svegliati!”). Era circa la metà del 2010, molto prima che scoppiasse la primavera araba. Eravamo una quindicina di giovani di entrambi i sessi e non avevamo idea di essere dei precursori. Il nostro primo comunicato è stato una protesta contro la chiusura di Sharek, un’istituzione molto attiva, finanziata dall’Unione europea e dall’ONU, che organizzava campi estivi con l’UNRWA e varie altre attività laiche che vedevano riuniti islamisti moderati, liberali e gente comune. Hamas l’ha accusata di favorire la promiscuità tra maschi e femmine e di incoraggiare “comportamenti moralmente riprovevoli”. Appena saputo della nostra dichiarazione Hamas ha preteso dal direttore di Sharek che ottenesse da parte nostra una ritrattazione ufficiale, in mancanza della quale non avrebbe autorizzato la riapertura dell’istituzione. Ovviamente ci siamo rifiutati di cedere al ricatto e abbiamo indetto una manifestazione a sostegno di Sharek, che a tutt’oggi è chiusa.


Il nostro secondo comunicato si scagliava contro la decisione di imporre l’hijab nelle scuole, riaffermando che l’identità laica era una delle componenti della società di Gaza e che andava assolutamente rispettata. A Hamas è mancata l’aria, hanno capito che ormai li avremmo marcati stretti. I servizi di sicurezza hanno cominciato a convocare e molestare, uno dopo l’altro, tutti i membri di Isha! Ma non eravamo soli. Per bilanciare un minimo le forze mantenevamo rapporti stretti con i media stranieri. Segno dei tempi, è sorto allora un altro movimento, il Raggruppamento dei giovani laici, insieme al quale abbiamo organizzato un certo numero di seminari. A Gaza stava emergendo il primo movimento d’opposizione al potere islamico.


In quel momento sono stata invitata in Danimarca. Avevo vinto un concorso indetto da Freedom House, una ONG americana che selezionava articoli a tema libertà. A Copenaghen ho conosciuto il caporedattore che aveva autorizzato la pubblicazione delle caricature del Profeta, quelle che avevano suscitato l’enorme scandalo noto a tutti. Non appoggiavo la pubblicazione di quelle caricature, ma ero favorevole alla libertà di pensiero e di espressione. È quello che ho scritto sul mio blog, aggiungendo che era più importante della libertà religiosa, perché se la libertà di pensiero è garantita lo è anche quella d’espressione, mentre, se domina, la libertà religiosa schiaccia tutte le altre.


Tornata a Gaza ho trovato sul mio blog una lettera rivolta direttamente a me, minacce di morte firmate Jaysh al-islam (“l’Esercito dell’Islam”)! Mi minacciavano perché mi ero battuta contro la chiusura di Sharek? Perché avevo parlato del giornalista danese dando la mia opinione sulle caricature del Profeta? Non lo sapevo. Nei giorni successivi le minacce sul blog si sono ripetute, poi sono cominciate quelle al telefono. Ho deciso di rivolgermi alla polizia, che come al solito ha rifiutato di registrare la mia denuncia. Spaventata, sono andata in Egitto in attesa che la situazione si calmasse.


Ero quindi al Cairo, seduta in un caffè con un amico, quando ho visto sui giornali le foto di un oscuro venditore ambulante tunisino, tale Mohamed Bouazizi, che si era dato fuoco nel sud della Tunisia. Era il 17 dicembre 2010. Nessuno immaginava allora che nel giro di due mesi quell’evento avrebbe scatenato l’inizio della primavera araba, la caduta del presidente tunisino Ben Ali e quella del presidente egiziano Hosni Mubarak. Al Cairo tenevo un seminario a cui partecipavano vari tunisini che mi hanno aiutato a seguire gli sviluppi della sollevazione. In Tunisia le manifestazioni che chiedevano la cacciata di Ben Ali erano ogni giorno più affollate. Il presidente faceva concessioni, ma troppo poche e troppo tardi. Alla fine è apparso in televisione e ha fatto il famoso discorso in cui ha detto: «Sì, vi ho capito!». I tunisini che stavano con me si sono messi a ridere: «È finita, questo è il discorso della fine». Io sono rimasta scettica fino a quando mia sorella non mi ha telefonato da Tunisi: «Ben Ali è scappato!». Quel giorno mi trovavo con lo stesso amico nello stesso caffè del Cairo. Mia sorella ha continuato: «È salito sull’aereo, ma il pilota si è rifiutato di decollare perché non voleva agevolargli la fuga, alla fine è riuscito a trovare un altro aereo e filarsela». Ho riattaccato e annunciato la notizia a tutto il caffè, ma nessuno mi ha creduto, era troppo improvviso, era passato neanche un mese da quando Bouazizi aveva cercato di immolarsi e neanche dieci giorni da quando era morto. La conferma ufficiale non ha tardato ad arrivare, allora ho chiamato i miei amici tunisini e ci siamo messi a ridere al telefono, eravamo contentissimi!


Carica al massimo, sono tornata a Gaza per partecipare alla manifestazione che avevamo organizzato con i Giovani laici contro la chiusura di Sharek. Il clima era particolarmente teso, c’era una moltitudine di poliziotti e i tafferugli sono cominciati prima ancora che il nostro scarno corteo si mettesse in moto. I poliziotti hanno subito arrestato dieci persone, tutti uomini (tra cui mio fratello Mustapha) e una donna che, per loro disgrazia, era la corrispondente di Al Jazeera International. Durante la notte, capito il madornale errore, le autorità hanno liberato alcuni giovani e la giornalista. Sottochiave restavano due dirigenti del movimento e Mustapha. Perché lui? Due agenti erano entrati nella cella collettiva e avevano chiesto: «Chi è il fratello di Asmaa Alghoul?» e lui aveva alzato il dito.


L’indomani era rimasto solo lui in prigione, anche gli ultimi due erano stati rilasciati. La polizia ha avuto la sfrontatezza di dire al suo avvocato:


«Che Asmaa si consegni, e libereremo il fratello».


«Perché dovrebbe consegnarsi?».


«Per aver picchiato un poliziotto».


Ero fuori di me: «Non ho picchiato nessun poliziotto, gli ho solo allontanato il braccio mentre cercava di filmarmi, non ho intenzione di consegnarmi!». Nel frattempo Mustapha veniva preso a schiaffi e picchiato. Gli agenti avevano cercato di umiliarlo in tutti i modi, in particolare hanno voluto costringerlo a pregare e siccome si rifiutava l’hanno accusato di “offesa alla religione”, delitto passibile di sei mesi di reclusione. Poi la Sicurezza interna l’ha trasferito alla polizia, dove sono potuta andare a trovarlo. Era seduto con i capelli ispidi e lo sguardo nel vuoto, inebetito a forza di botte e soprusi. Il procuratore generale che l’aveva convocato gli aveva chiesto: «Come puoi permettere a tua sorella di andare alle manifestazioni con altri giovani? Sei lassista in fatto di religione dal momento che le consenti di comportarsi male!». Ho riprodotto quella dichiarazione allucinante sul mio blog e invitato a solidarizzare con mio fratello, lo slogan “Libertà per Mustapha Alghoul” si è diffuso tra la gente e nelle strade sono cominciate ad apparire foto di Mustapha. Un parlamentare di Hamas leggermente più perspicace degli altri ha capito che gli uomini della Sicurezza cercavano di colpire me attraverso mio fratello e che tutta la faccenda era controproducente per il potere. È andato dal procuratore, che poco dopo ha ordinato di rimettere in libertà Mustapha. Alla fine non avevano ottenuto niente.


Conclusa la vicenda, sono venuta a sapere che un altro mio fratello, Abdallah, era stato arrestato in Egitto con l’accusa di aver fotografato una zona militare, quando invece stava soltanto facendo foto con la sua ragazza nella zona del canale di Suez. Mi sono precipitata al Cairo e con l’aiuto di varie persone sono riuscita a farlo liberare. Mentre tornavamo insieme verso il confine ho notato che, nelle strade della capitale, poliziotti e agenti dei servizi segreti egiziani erano particolarmente numerosi e agitati. Era il 24 gennaio 2011. L’indomani, a Gaza, ho aperto la mia pagina Facebook e scoperto che quello stesso giorno era scoppiata la rivoluzione in Egitto. Mi sono strappata i capelli. Perché non ero rimasta? Che razza di giornalista ero? Insieme a un collega americano siamo corsi al confine per tornare in Egitto. Troppo tardi, la porta si era chiusa! Il mio collega è subito partito per Israele e da lì ha raggiunto Il Cairo via Tel Aviv, cosa che a me non era consentita. Per motivi che ignoro, dal 2001 il mio nome figurava su una lista nera che mi proibiva l’accesso in Israele. Per grazia di Dio, le autorità di Hamas, al-Fatah e Israele si trovavano d’accordo su di me!

25

Generalessa Salwa

Di colpo tutto si è accelerato. Diciassette giorni prima il popolo tunisino ha cacciato il presidente Ben Ali, da sei giorni il popolo egiziano è accampato in piazza Tahrir e chiede a gran voce la caduta di Mubarak, sembra di sognare! Con uno slogan semplice, “Il popolo vuole la caduta del regime”, e un’ingiunzione limpida, “Vattene!”, la popolazione di quei due paesi ha vomitato decenni di oppressione e colto di sorpresa dittatori che si credevano eterni. Fremiti simili si sono fatti sentire in Bahrein, Siria, Libia, Yemen… Tremavamo. Quei giovani di Tunisi o del Cairo che stanno correndo rischi enormi perché sentono sulle labbra un assaggio di libertà sono noi, sono i nostri doppi! L’aspirazione insensata a un mondo libero, dignitoso e democratico aveva finalmente raggiunto le nostre sponde? Quel 31 gennaio 2011, giorno in cui Gaza esprime la propria solidarietà con la rivoluzione egiziana, ci credo ancora.


Nel momento in cui entro in piazza del Milite ignoto sento il mio nome sfrigolare nei walkie-talkie dei poliziotti in borghese di Hamas: «È arrivata Asmaa Alghoul!». Cerco con gli occhi la blogger palestinese che è stata la prima a indire la manifestazione, mi dicono che un appuntamento importante le ha impedito di venire, ma in seguito ci confesserà di aver ceduto alle minacce che le ingiungevano di non partecipare. A sostenere la gloriosa rivoluzione delle rive del Nilo siamo in tutto… otto dimostranti, tre uomini e cinque donne, di cui tre velate! Gli agenti dei servizi segreti di Hamas vengono lentamente verso di noi, ne riconosco le facce, l’automobile bianca e il pulmino senza contrassegni che avevo già visto quando hanno arrestato mio fratello. Arrivano e ci ordinano di disperderci. Rifiutiamo. I tre giovani vengono subito arrestati. Poi tocca a noi. Un agente afferra la mano di una ragazza velata e cerca di trascinarla via. Grido: «Non sei musulmano? Non ti è vietato toccare una donna? Perché la afferri così? Lasciala in pace!». Nello stesso momento due poliziotti mi arrivano alle spalle: «Dov’è Asmaa Alghoul? La stiamo cercando!». Per sottrarmi corro verso un uomo che fa parte di un’organizzazione per i diritti umani. «Vogliono arrestarmi!» gli dico, ma lui guarda da un’altra parte. Vigliacco! Vengo presa dalle poliziotte. Poco dopo ci ritroviamo tutte e cinque nel furgone. Ci sequestrano ogni cosa, documenti, telefonini eccetera. Un agente mi dice con un sorriso feroce: «Asmaa Alghoul, finalmente! Ahlan wa sahlan! Benvenuta!». Cominciano a insultarci e continuano per tutto il tragitto. «Vi faremo chiudere il becco!», «Non potrete più dire una parola!», il tutto condito da ingiurie disgustose.


«C’è fra voi l’ufficiale di polizia Badawi?» chiedo in tono calmo.


Mi risponde un tizio con gli occhiali.


«Badawi? Cosa vuoi da lui?».


«Niente, solo sapere se c’è».


Al commissariato veniamo separati, i ragazzi nella sezione uomini e noi nella sezione donne, spazio in cui operano le poliziotte di Hamas. Una delle dimostranti fermate è corrispondente di una ONG per i diritti umani, era venuta a seguire gli eventi e non a manifestare. Non la smette di piangere. Le dico in inglese che non dobbiamo mostrare segni di debolezza e che farebbe meglio a trattenersi. «Non parlate inglese!» ci intima una poliziotta, al che tutte ci mettiamo a parlare inglese. «Nessuna firmi il verbale!» dico alle ragazze. Più tardi un’agente viene da me.


«Sei tu la responsabile del gruppo?».


«No, non sono responsabile di nessuno».


«Allora perché le ragazze si rifiutano di firmare il verbale?».


«Sono libere di fare quello che vogliono, io non ho detto niente».


La donna sente che non è vero, ma non può dimostrarlo. Si rivolge a tutte: «Qual è la moschea più vicina alla vostra abitazione?». Il fatto è che purtroppo le moschee sono fonti di informazione dei servizi segreti di Hamas a Gaza. In ogni moschea l’imam scrive un rapporto sul quartiere che dipende da lui. I servizi chiederanno all’imam cosa sa di te e lui risponderà secondo uno schema in cui ovviamente lui rappresenta il bene mentre quelli che tiene d’occhio sono il male. Alla domanda ci mettiamo a ridere e le poliziotte si arrabbiano: «Non ridete!». Le militanti velate chiedono tappetini perché è l’ora della preghiera del crepuscolo, le agenti le sbeffeggiano come se la religione fosse di loro proprietà.


«Perché manifestate con queste ragazze che non portano nemmeno l’hijab?» domandano indicando noi.


«Perché quando vedono l’islam rappresentato da persone come voi si mettono a odiare qualunque religione, ma se vedono noi c’è ancora speranza».


Le poliziotte non sanno cosa rispondere, ma c’è da dire che non brillano per acume. Velate fino agli occhi, sarebbero tenute a non chiamarsi mai per nome per non farsi riconoscere, ma se lo scordano sempre. Ne individuo una, tale Salwa, che cerca di intimidire le ragazze: «Vi metteremo nella prigione delle donne di malaffare. Non illudetevi che sarete trattate come militanti!». Viene il mio turno, Salwa mi porta in una stanza lì accanto, mi fa mettere in piedi contro il muro e comincia a picchiarmi e tirarmi i capelli. «Sono appena stata operata, non colpire sulla cicatrice» le dico, e naturalmente lei si affretta a colpire proprio quel punto. Entra un’altra poliziotta, e nel tempo che la porta si apre una delle mie compagne velate vede Salwa picchiarmi, ho una testimone, aspetto fondamentale per le organizzazioni per i diritti umani. Salwa striglia la collega perché ha aperto la porta, poi si gira verso di me e mi rimprovera con violenza di criticare il governo e militare per una primavera araba a Gaza. Ricomincia a picchiarmi sulla faccia e sul collo urlando:


«Tu non sei musulmana!».


«Perché, tu lo sei? Mi stai tirando i capelli, mi prendi la testa nella piega del gomito e ti consideri musulmana? Ti credi più musulmana di me perché ho i capelli scoperti?».


«Sì, io sono musulmana!».


«Non è vero, mi stai picchiando ingiustamente!».


«No, ti sto correggendo, ti raddrizzo, come vuole l’islam!».


Continuo a risponderle con una forza che non so da dove mi venga.


«Te ne accorgerai» dico, «racconterò esattamente quello che mi stai facendo, tutto il mondo lo saprà…».


Lei torna dalle colleghe. La sento dire: «Sta minacciando di raccontare tutto, dice che mi trascinerà nel fango!». Poi tornano in gruppo e mi ordinano di parlare. Credono davvero che sia cambiata perché ho preso qualche pugno? «Si è preparata» mormora Salwa a una collega. Che intende dire? Come ci si prepara a essere picchiate senza aprire bocca?


Dati gli scarsi risultati ottenuti dalle poliziotte arriva un certo Youssef, un brutto ceffo. Prende una matita, me l’avvicina al viso e minaccia di infilarmela nella guancia. «Parla! Parla!». So cosa vuole sentire: chi sono le ragazze che stanno con me, chi c’è dietro di noi, se abbiamo rapporti con Ramallah… La grande accusa, infatti, è di aver fatto comunella con i rivali di al-Fatah. Dopo che Youssef se n’è andato a mani vuote dico a Salwa:


«Vuoi che parli?».


«Sì».


«Allora comincia a scusarti».


«Scusami» dice subito lei.


Sembrava una pièce di teatro russo.


«Va bene» acconsento, «fammi pure le domande».


«Hai organizzato tu la manifestazione?».


«No».


«Chi l’ha organizzata?».


«Non lo so».


«Come vi siete conosciute con le altre?».


«Su Facebook».


Diventa pazza.


«Ma non mi stai dicendo niente!».


Esce. La sento dire alle colleghe: «Vediamo di sbrigarci, perché sono invitata a un matrimonio». Aggiunge che il padre si rifiuta di mangiare finché lei non è tornata a casa. «Parlando di me, papà dice sempre “la Generalessa”» racconta. Entra un poliziotto un po’ più educato.


«Tuo padre e tuo figlio sono venuti a trovarti. Tuo figlio ti ha portato delle cose, ma tuo padre ha litigato con l’ufficiale, che alla fine l’ha cacciato via perché si era mostrato… irrispettoso».


Mi porta dall’ufficiale in questione, un certo Tayeb.


«Firma il verbale».


«Non firmo proprio niente».


«È venuto tuo padre, ma è un tuo sostenitore, perciò non abbiamo voluto affidarti a lui».


«Non importa, posso andarmene da sola. E non firmo».


«Le altre hanno firmato».


«Solo perché avete detto che Asmaa aveva firmato. A ognuna avete detto che le altre avevano firmato, vero?».


«No».


«Sì, invece. Sono i vostri metodi».


In realtà c’era stata una trattativa che aveva visto coinvolti avvocati, giornalisti e personalità che dall’esterno cercavano di ottenere la nostra liberazione e facevano pressioni perché i verbali delle ragazze fossero modificati in senso più favorevole, e in effetti gli elementi più negativi delle deposizioni sono stati cancellati, il che è una vittoria in sé. Tuttavia continuo a rifiutarmi di firmare anche la versione modificata.


«Perché quando sei arrivata hai fatto domande riguardo a un agente di nome Badawi?» mi chiede.


«All’ultima manifestazione, quando i nostri amici sono stati arrestati, questo Badawi ha visto i loro genitori e ha detto: “Asmaa è stata a letto con il capo del movimento dei giovani e anche con quello e quell’altro”. Secondo l’islam questa diffamazione costituisce un qadhef mohsanat, e infangare pubblicamente l’onore di una donna è un peccato punito con severità. Quello stesso Badawi ha sguainato la pistola per minacciare mio fratello in prigione. Tra me e lui ormai è una tha’r3 personale, lo denuncerò al Primo ministro in persona».


Incredibilmente, l’ometto con gli occhiali che era seduto in macchina con noi salta dalla sedia rivelandosi: Badawi è lui!


«Non è vero, non ho detto niente del genere!».


«L’hai detto eccome! Ho i testimoni. E ti starò col fiato sul collo finché non sarà fatta giustizia e ripristinato il mio diritto».


L’ufficiale è imbarazzato. Non si aspettava che una donna cosiddetta liberale si preoccupasse del proprio onore al punto da accusare specificamente un poliziotto di averla offesa. Probabilmente Badawi credeva di avere il diritto di insultarmi impunemente: vado in giro a capo scoperto, quindi sono “sporca” e indegna.


«Non vuoi firmare, d’accordo, ma bisogna che mi fai una firma su un foglio qualsiasi».


Stacco un foglietto da un taccuino, ne strappo un pezzetto in cui entra solo una firma, scrivo il mio nome e me ne vado senza dire una parola. Sono le otto o le nove di sera, c’è un vento freddo. «Vuoi che ti accompagni?» mi chiede un poliziotto in moto. Lo riconosco, è quello che mi aveva detto che papà e Nasser erano venuti a trovarmi. Rifiuto comunque il passaggio. È gentile. «Mia madre ha cucinato una cosa buona, il maftoul…» dice, poi parte e io torno a casa a piedi. Come mi è piaciuta quella camminata! L’aria fresca placava gradualmente il fuoco che sentivo dentro di me.


Tornata a casa ho scritto un post che è diventato famoso, “Generalessa Salwa”, in cui ho raccontato come, uscita per andare a manifestare la mia solidarietà alla rivoluzione egiziana, mi ero ritrovata con la testa stretta dal gomito di una poliziotta. Ho riferito tutti i dettagli del nostro arresto coprendo di ridicolo la Generalessa e garantendole una nomea che di sicuro avrebbe preferito evitare. La dirigente della polizia femminile è venuta in ufficio qualche giorno dopo a farmi le sue scuse. «Ho letto quello che hai scritto sul tuo blog. Mi dispiace, le agenti sono abituate a interrogare delinquenti comuni, non politiche». Abbiamo avuto una lunga conversazione. Lei era estremamente gentile, ma era accompagnata da una donna piuttosto ostile: «Leggo sempre il tuo blog e non sono affatto d’accordo con te. Quello che scrivi è contro l’islam!». «Al contrario» ho risposto, «sto restaurando l’immagine dell’islam che voi avete danneggiato. Mi pare una tragedia che tu o Hamas possiate rappresentare l’islam!».


Quando hanno saputo come la Generalessa mi avesse picchiato, alcuni miei amici si sono dichiarati pronti a restituirle lo stesso trattamento, ma a me bastava che la dirigente fosse venuta a scusarsi. Il che non mi ha impedito di continuare ad avere incubi per varie notti di seguito. Nel frattempo quella storia traumatica mi aveva fatto conoscere. Ero stata inserita nella lista delle “personalità più influenti del mondo arabo” stilata dalla versione spagnola della rivista Foreign Policy. Non dico che sia una grande consolazione, ma aiuta.

3 Vendetta, faida.


26

Uomini in pyjama

Il segnale di partenza della primavera palestinese sarà dato da una grande manifestazione che si svolgerà il 15 marzo 2011 in Cisgiordania e a Gaza. Così abbiamo deciso. Non possiamo gridare insieme agli altri popoli arabi che vogliamo la caduta del regime, perché abbiamo due regimi e non arriveremo da nessuna parte finché persisterà la divisione tra al-Fatah e Hamas. Grideremo invece “Il popolo vuole l’unità nazionale”, è lo slogan che abbiamo adottato. Ha aderito alla manifestazione anche un movimento chiamato I Giovani del 15 marzo. Il gruppo più audace è il GYBO (Gaza Youth Breaks Out), un collettivo di giovani militanti che si è fatto conoscere attraverso un manifesto incendiario: “Merda a Hamas. Merda a Israele. Merda ad al-Fatah… Noi giovani di Gaza ne abbiamo abbastanza. Siamo come pidocchi presi tra due unghie, viviamo un incubo dentro un altro incubo”. Da principio erano solo in tre, ma presto hanno ottenuto un sostegno incredibile. Anche il Raggruppamento dei giovani laici e Isha! fanno parte del collettivo che invita a manifestare.


La polizia di Hamas non ha tardato a reagire. Hanno fermato e interrogato tutti i militanti che sono riusciti a identificare. In un primo momento mi hanno lasciato in pace, ma hanno convocato mio padre perché facesse pressioni su di me e mi impedisse di scrivere.


«Come posso dire a una donna di ventinove anni di smettere di scrivere?» ha risposto papà.


«È tua figlia, ne sei responsabile».


«Questo lo dite voi. Ho smesso da un pezzo di essere responsabile di lei. Voi potete continuare a dare ordini ai vostri figli e a comandarli finché campano, a casa mia non funziona così, io li lascio liberi».


È tornato a casa discretamente seccato per la mancanza di rispetto con cui era stato trattato. «Il messaggio che vogliono farti arrivare è “Non scrivere più!”» ha detto, «ebbene, io ti dico “Scrivi! Non avere paura di nessuno!”». Poi ha sorriso e ha aggiunto: «Non immaginavo che avessero così tanta paura di te». In verità avevano paura del movimento nel suo insieme, e a giusto titolo: la gioventù era in ebollizione in tutto il mondo arabo e il tema dell’unità palestinese che avevamo scelto sembrava portante. I dirigenti di Hamas stavano capendo che non si sarebbero confrontati con la solita piccola dimostrazione, ma con un movimento di massa.


La mattina del 15 marzo cammino in direzione di piazza del Serraglio, punto di partenza della manifestazione, dove vengo accolta da una selva di bandiere di Hamas. La folla è notevole, ma non riconosco nessuno. Il movimento islamista al potere ha creato di sana pianta una sedicente “associazione di giovani” che ha strombazzato il proprio sostegno al 15 marzo. Hanno chiamato al raduno con larghezza di mezzi, affiggendo manifesti dappertutto, e al-Fatah ha fatto la stessa cosa in Cisgiordania, ha indetto una mobilitazione parallela che si è sovrapposta a quella dei nostri compagni di là. Hamas e al-Fatah, fratelli nemici, facevano finta di unirsi al movimento, dichiaravano addirittura di essere all’origine dell’idea, giurando con la mano sul cuore che erano contro le divisioni e per l’unità della Palestina.


Con la morte nell’anima io e i miei amici ci dirigiamo vivacemente verso un’altra grande piazza della città, piazza del Milite ignoto. Siamo seguiti da giovani di al-Fatah e del Jihad islamico. Ci stanno appiccicati. Lungo la strada ci imbattiamo in alcuni zannane, piccole spie di Hamas, ragazzini che cercano di attaccarci e picchiarci. Ce ne liberiamo con qualche calcio e proseguiamo. Anche piazza del Milite ignoto pullula di bandiere di Hamas, i loro uomini hanno già cominciato a parlare amplificati da un potente impianto sonoro. Ci stanno rubando la nostra giornata e le piazze importanti della città!


Mi viene in mente un punto al quale forse non hanno pensato, piazza Al-Katibé, uno spazio verde grande il quadruplo di quello in cui ci troviamo. «Tutti ad Al-Katibé!» grido. I militanti del Jihad e di al-Fatah mi mandano messaggi dicendomi che è una pessima idea, ma non prendo ordini da nessuno. In piazza Al-Katibé non c’è anima viva. Dal telefonino faccio partire messaggi a valanga: “Siamo già diecimila! Venite!”. È una spudorata menzogna, ma non ho scelta. Tutti gli amici rimasti incastrati nelle altre due piazze convergono verso di noi. Un’ora dopo siamo circa trentamila, o almeno così annuncio nei miei SMS. Istituzioni, sindacati, giornalisti, tutti si uniscono al movimento. Siamo euforici. Non avendo impianto di amplificazione ci tocca improvvisare. Intoniamo canti patriottici, gridiamo slogan, non possiamo fare altro. Arrivano quelli della Sicurezza e cominciano a filmarci, dalle loro facce vediamo quanto siano furiosi, siamo riusciti a ridicolizzarli. Mi dicono che la gente sta morendo di sete perché Hamas ha dato istruzioni di non fornirci acqua. Ci organizziamo per far rimorchiare due carri cisterna sulla piazza, la gente può servirsi dai rubinetti, fa troppo caldo!


Ora le persone affluiscono da tutte le parti, siamo sempre di più. Alcuni hanno portato le tende, decidiamo di dormire sul posto come i compagni di piazza Tahrir al Cairo. Il morale è alle stelle, lo stesso Primo ministro di Hamas, Isma’il Haniyeh, ha la sfacciataggine di fare un discorso in cui afferma di appoggiarci… Il nostro 15 marzo è un successone. Verso le cinque e mezzo del pomeriggio comincia a girare voce che il potere si accinga ad attaccarci, ma facciamo un’alzata di spalle e restiamo ottimisti. Nella folla incontro una mia amica, l’attrice e scrittrice Samah el-Sheikh. Benché incinta, è venuta alla manifestazione con il marito poeta e la figlia. A un certo punto dalla parte della moschea vedo uomini in pyjama armati di bastoni che si precipitano sulla folla urlando. Capisco che sono sbirri del regime che escono dalla preghiera e sono in pyjama per far credere di essere gente del quartiere. Il marito di Samah prende la figlia per mano e scappa, io mi metto a correre dal mio lato, vedo gente bastonata, ragazze picchiate, donne trascinate per terra e insultate pesantemente, «Puttane! Donnacce! Le vostre figlie sono troie come voi!». Riesco a uscire dalla piazza e cammino a grandi falcate verso una via in cui il traffico è maggiore, sperando di fuggire da quella parte, ma un uomo in pyjama armato di una sottile sbarra di ferro mi insegue fino a che mi intercetta su un marciapiede e si mette a picchiarmi. «Sei Asmaa Alghoul, vero? Sei tu, no?». «Basta! Lasciami!» grido. Anziché venire in mio aiuto la gente si allontana più che può, e pensare che fino a pochi minuti prima, sulla piazza, stavano tutti intorno a me! Riesco a sfuggire al mio aggressore e imbocco di corsa una stradina buia. In quel momento sento la voce della mia amica Samah dietro di me, una decina di uomini della Sicurezza l’hanno bloccata e le stanno dando addosso. Confesso di aver esitato un secondo prima di fare dietrofront. Samah è molto più grossa di me, non so come diavolo faccio a spingere via gli uomini, abbracciarla e farle interamente scudo col mio corpo. Oggi, quando racconta quell’episodio, dice: «Asmaa è riuscita a mettermi dentro di sé». Cominciano a piovermi colpi sulla testa e sulle spalle mentre gli uomini in pyjama gridano i nostri nomi. Nessuno viene in nostro soccorso, tranne la persona che non ti aspetti di vedere, un certo Ghassan, né militante né scrittore né poeta, di professione contabile… Stava partecipando al raduno e quando ha visto che venivamo selvaggiamente picchiate è semplicemente corso a darci una mano. A un certo punto Samah dice: «Sento qualcosa nella schiena». Una coltellata.


Arriva qualcuno che conosco, Youssef, l’uomo che aveva minacciato di infilarmi una matita nella guancia. «Ti diverti ancora a chiamarmi Aboul Zalaam [“il padre dell’oppressione”], eh?» mi dice. A quanto pare è un tipo che legge: così l’avevo chiamato sul mio blog. Fa arrestare me e Samah, e con l’occasione ordina di portare via anche il povero Ghassan.


Nell’edificio della Sicurezza vedo un mucchio di telecamere e registratori rotti dagli agenti in borghese, macchine fotografiche sequestrate e perfino merce confiscata ai poveri venditori ambulanti di succhi di frutta. Soprattutto assisto a un viavai di uomini in pyjama che vengono a riposarsi. Entrano ed escono come se fossero a casa loro, perché sono a casa loro! Una guardia mi dice di andare da Samah, seduta nella stanza accanto. È messa piuttosto male. Il coltello ha colpito grasso e muscoli, sembra che non abbia leso organi delicati, ma la ferita non è bella da vedere. Arriva un altro ufficiale che mi fa mettere in piedi contro il muro e si avvicina lentamente.


«Hai paura?».


«No».


«Picchiamo anche le donne, sai».


«Non ci credo».


Samah grida: «Lasciatela in pace!». L’uomo ci insulta entrambe e torna da me.


«Dov’è tuo figlio Nasser? Ieri era ai giardinetti con tua madre, vero? E oggi dov’è?».


Di colpo abbiamo molta paura, non diciamo più una parola. L’ufficiale è visibilmente soddisfatto.


«Puoi scrivere quello che vuoi su di me».


È il loro chiodo fisso: quello che posso scrivere. Rimango zitta. Lui continua.


«Se vedo una frase, anche una sola parola su di me, te la faccio pagare!».


Arriva un agente con alcol e ovatta e mi dice di disinfettare la ferita di Samah. Mi rifiuto. «È una ferita profonda» dico, «la mia amica rischia di perdere i sensi. Bisogna chiamare un’ambulanza e portarla in ospedale». Sono indispettiti, tergiversano un’ora abbondante prima di alzare il telefono e, quando lo fanno, invece di Samah forniscono un nome di fantasia. Chiedo di andare in bagno, l’ufficiale ordina ai suoi uomini di accompagnarmi. «Non portatela in quello con l’eucaliptus dietro la finestra!» grida. Non c’è dubbio, il tipo legge tutto quello che scrivo. L’ultima volta che ero stata arrestata avevo notato quell’albero dietro la finestrella. La strada che facevo da piccola per andare a scuola era fiancheggiata su entrambi i lati da eucaliptus e inspiegabilmente quel profumo mi dava un senso di sicurezza, così che l’eucaliptus della prigione mi aveva tranquillizzato e l’avevo raccontato nel mio articolo sulla Generalessa Salwa. Uscita dal bagno mi portano in una stanza e una donna interamente velata entra dietro di me.


«Siamo sole, non ci sono uomini» dico. «Perché ti tieni il niqab?».


Lei se lo toglie senza discutere.


«Per Allah, somigli a mia madre!» esclamo.


Ed è vero! Ci mettiamo a parlare, diventa quasi una conversazione amichevole.


«Perché avete manifestato?» domanda.


«Ma è chiaro, lo sapevano tutti fin dal giorno prima. Per piacere, fammi domande di cui non conosci già la risposta».


Un ufficiale fa irruzione nella stanza interrompendoci. Poco prima sul mio telefonino era arrivato un messaggio di un amico, Fathi: “Appuntamento alle otto all’Istituto”. «Siamo andati all’Istituto e non c’era nessuno» dice l’ufficiale. «Chiama il tuo amico e chiedigli qual è il nuovo luogo d’incontro, così ci andiamo anche noi». Crede davvero che mi metta a fare la spia per lui? «Va bene, rifai il numero» dico. Lui lo fa e si piazza con l’orecchio accanto al mio. Si avvicina un po’ troppo, per i miei gusti.


«Pronto?».


«Fathi?».


«Asmaa, dove sei? Ti stiamo cercando dappertutto!».


«Alla polizia. Mi hanno picchiato!».


L’ufficiale interrompe bruscamente la comunicazione, prende una sedia di metallo e la solleva sopra la mia testa. Mi proteggo e grido: «Mi dispiace, mi dispiace, non potevo fare altro!». Il fatto è che nessuno sapeva che mi avessero portato via e in quel modo ero riuscita a dare l’allarme. La donna velata mi sgrida con asprezza: «Sono stata buona con te perché ti mostravi gentile. È colpa mia, ti ho dato troppa confidenza!». Torna l’ufficiale Tayeb. Ha un tono leggermente più cortese.


«Deve dichiarare che i nostri uomini non vi hanno attaccato, che vi siete azzuffati tra voi!».


Me lo chiede perché all’esterno, ma io non lo so ancora, le cose stanno girando male per loro. I commenti su Facebook sono infiammati, “Hamas attacca le persone senza motivo, le picchia, le ricopre di insulti!”. La sinistra e i movimenti per i diritti umani non sono i soli a indignarsi, si aggiungono al coro anche alcuni dirigenti di Hamas più liberali. L’ufficiale e i suoi sbirri cercano di difendersi dicendo «Non siamo stati noi!».


«Certo che siete stati voi! Ho visto con i miei occhi gli aggressori in pyjama venire a trincerarsi qui, in quest’edificio. Posso testimoniarlo!».


«Non è vero, i responsabili siete voi!».


«Noi? Stai dicendo che ci siamo pugnalati l’un l’altro? Se non sbaglio, la coltellata alla mia amica gliel’avete data voi!».


Non sa cosa rispondere. Rimane un po’ zitto, poi dice:


«Ti avverto, tuo padre non verrà a prenderti. Abbiamo deciso che sarà il sindaco di famiglia a portarti fuori di qui».


Il sindaco di famiglia è un mio zio, fratello di mia madre, che deve venire da Rafah, un’ora e mezzo di strada. È un conservatore, ma mi vuole molto bene. Fisicamente somiglia a suo padre, nonno Abdallah, il che mi rende debole di fronte a lui, non riesco a rifiutargli niente. Non ho dimenticato come sia sempre stato buono con me. Arriva accompagnato da suo fratello, zio Ahmed, quello con la biblioteca che mi faceva sognare. Si siedono intorno a un tavolo e Tayeb comincia a far loro la lezioncina: «Se avessi scoperto che mia figlia fumava l’avrei uccisa!». Nessuno fa commenti. Poi mio zio dice:


«Vieni, andiamo via».


«Sì, ma non firmo niente».


L’ufficiale esce dai gangheri.


«Se continui a parlare così resti sotto chiave! Ci invecchierai, là dentro!».


«E io non voglio uscire, rimango in prigione!».


Zio Ahmed non dice niente, non riesce a chiedermi di fare questo o quell’altro, ma l’altro zio, il sindaco di famiglia, si mette a piangere. Ha addosso l’abaya di mio nonno e in testa la sua papalina. È a capo chino, fa scorrere le lacrime in silenzio, mi fa una pena terribile.


«Va bene» dico, «firmo quello che volete, voglio uscire da qui».


L’ufficiale sbotta.


«Non firmare più niente! Andatevene!».


Io e gli zii siamo usciti e ci siamo incamminati. Ricordo che per strada abbiamo parlato, ma non so più di cosa. A casa abbiamo continuato a parlare e anche a ridere. Ero distrutta, ma stranamente contenta. Papà diceva allo zio: «Ormai il tuo ruolo ufficiale sarà quello di tirare fuori di prigione Asmaa» e tutti si mettevano a ridere. L’indomani si sono presentati a casa giornalisti, il sindacato della stampa, stranieri, un sacco di gente! Ero pallida come un cencio, sentivo tutti i dolori del giorno prima, ero piegata in due. Quanto a Samah, era coricata su un divano di casa sua cercando di rimettersi dalla coltellata.


Mio zio materno mi ha trasmesso un messaggio di zio Said: “Se ti fossi ostinata a restare in prigione avrebbero potuto ucciderti. Lo faranno presto se scrivi ancora qualcosa”. Ho risposto al messaggero: «Che zio Said taccia se vuole evitare che pubblichi un altro articolo su di lui». So che il mio messaggio gli è arrivato, perché da quel momento è stato zitto.


I poliziotti di Hamas si sono insediati davanti a casa nostra, ho capito che non sarei più potuta uscire, ma la storia non era finita, la primavera palestinese aveva ancora qualche carta da giocare. Una decina di amici coraggiosi ha trovato il modo di introdursi nei locali dell’UNRWA e dare inizio a un sit-in. Dato che dovevo rimanere chiusa in casa sono salita sul tetto per vedere lo stabile, vicinissimo, che stavano occupando. Sono riuscita a mettermi in contatto con loro tramite gli account Twitter di amici comuni. Altri amici hanno messo in atto la stessa tattica e occupato la sede dell’UNDB, il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo. Vigliaccamente, l’ONU ha chiesto agli uni e agli altri di andarsene, e all’uscita quei giovani sono stati picchiati selvaggiamente dagli agenti di Hamas. Imbarazzati, quelli dell’UNRWA hanno pubblicato un comunicato in cui si protestavano neutrali. Allora mio padre ha reso pubblica una lettera, che ho riprodotto sul mio blog, indirizzata al fratello Said: “Cosa vuoi, insomma? Lascia in pace i miei figli!”. La lettera ha avuto un’eco considerevole, ma la primavera palestinese si è fermata lì, almeno per il momento.

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Perché farle i buchi alle orecchie?

Tornando dalla Serbia, dove avevo partecipato a un convegno, mi sono fermata una notte al Cairo. Era il 15 aprile 2011. Quando mi sono svegliata ho trovato un messaggio sul telefonino: “Le forze della resistenza palestinese denunciano l’assassinio di Vittorio Arrigoni!”. Sono rimasta sconvolta. Vittorio era un attivista italiano che viveva a Gaza dal 2008, un amico! Ho subito chiamato un collega giornalista e l’ho trovato in lacrime. «L’hanno rapito, Asmaa! L’hanno rapito e ammazzato!». Chi è stato? Una piccola organizzazione salafita chiamata al-Tawhid wa-l-Jihad (“Unità e Jihad”), che in cambio di Vittorio chiedeva la liberazione del suo capo arrestato da Hamas un mese prima. Islamisti dissidenti! Hamas continuava a monopolizzare tutti i poteri, ma qualcosa si era guastato nel pianeta islamista, c’era un fermento fratricida, una violenza interna di cui il mio amico italiano aveva fatto le spese. Oh, Vittorio! Io e lui discutevamo tutto il tempo, ma quanto ridevamo! Andava in giro per Gaza mettendo in mostra i suoi tatuaggi, fumava la pipa e certe volte si travestiva per farci ridere. A volte lo trovavo ingenuo quanto gli altri pacifisti di sinistra, che credevano di cogliere in Hamas una certa “purezza”. Diceva che le divergenze tra organizzazioni rivali non lo riguardavano, a lui interessava soltanto la Palestina in quanto tale, ma era venuto alla manifestazione del 15 marzo implicitamente diretta contro Hamas. Era uno di noi, non parlavo con lui come fosse uno straniero.


Al confine di Rafah ho incontrato Teresa, la sua fidanzata, anche lei ansiosa di tornare a Gaza al più presto. Le ho preso la mano, siamo salite insieme su un taxi e durante il tragitto non ha fatto che piangere. Il ministero degli Affari esteri aveva preparato un’accoglienza ufficiale per lei, perché Hamas voleva far vedere che non c’entrava niente con quella brutta faccenda. Quando siamo arrivate il delegato del ministero ci ha preso in macchina con sé, ha accompagnato me a casa e ha portato Teresa da amici presso i quali doveva passare la notte. Un’ora dopo ci siamo ritrovati tutti da lei per una veglia in memoria di Vittorio. Gli agenti di Hamas erano molto presenti e non ci staccavano gli occhi di dosso, del resto gli organizzatori della veglia erano gli stessi che avevano indetto la manifestazione del 15 marzo. L’indomani, durante il funerale, ci stavamo accingendo a lanciare il riso sulla bara, una tradizione libanese, quando un agente della sicurezza mi ha detto all’orecchio:


«Attenta, tu! Non tirare riso!».


«Perché?».


«Ti avverto, non tirare un solo chicco di riso!».


Ho letto nei suoi occhi quanto Hamas mi odiasse. Ad ogni buon conto ho distribuito tra varie persone il riso e i fiori che avevo preparato dicendo di lanciarli per me. L’obitorio era pieno di gente. In mezzo alle lacrime si è levato un clamore quando il corpo di Vittorio è stato tirato fuori dalla cella frigorifera.


Su quell’omicidio ho scritto un articolo che è stato tradotto in italiano e ha avuto molta risonanza, perché Vittorio era conosciuto in Italia. Ho parlato delle minacce che aveva ricevuto prima di essere rapito, delle quali non aveva voluto tenere conto. Dopo aver inviato l’articolo mi sono resa conto che tali minacce somigliavano molto a quelle che avevano rivolto a me, stessi termini, stesse ingiurie, stessa costruzione delle frasi. Di colpo ho avuto molta paura, e ancora una volta la polizia si è rifiutata di accogliere la mia denuncia. Allora ho deciso di denunciare la polizia alle organizzazioni per i diritti umani, iniziativa che mi ha fatto fare ben pochi passi avanti. Che le minacce provenissero dal gruppo che aveva assassinato Vittorio o da qualunque altro gruppo della nebulosa islamista, ero senza la minima protezione e non sarebbero certo stati i servizi di sicurezza a fornirmene una. Mi sentivo indifesa, non osavo più neppure presentarmi con il mio nome… Asmaa è il plurale di Ism, che significa “nome”. Mi chiamo dunque “nomi”. Ciò vuol dire che non ne ho uno particolare, ma una moltitudine. Il mio nome è stato a volte una benedizione e a volte una calamità. In realtà sono più coraggiosa di me stessa. «Basta, smetto con la militanza» dicevo a mio padre, a mia madre e perfino all’ufficiale di polizia, ma il giorno dopo mi ritrovavo in piazza. Non riuscivo a farne a meno. C’è qualcosa dentro di me che mi spinge a manifestare e mi fa scrivere come scrivo, ma fino a quel momento mi ero sentita libera di agire come mi pareva solo perché non avevo nessuno per cui tremare. Ormai avevo un figlio di sette anni. Mi sono detta che dovevo proteggerlo e dare un po’ di riposo ai miei genitori, così ho deciso di allontanarmi da Gaza e trasferirmi per qualche mese in Egitto.


Al Cairo avevo un ottimo amico, Mahmoud, una persona di una dolcezza non comune che esprimeva in ogni suo gesto. Una sera l’ho trovato al tavolo di un caffè con alcuni amici, mi sono seduta anch’io e abbiamo cominciato a chiacchierare. Dopo un po’ uno di loro si è alzato e se n’è andato.


«Toh, Tamer si è scordato le sigarette» ha notato Mahmoud.


«Era Tamer, quello?».


«Sì».


«La prossima volta presentamelo».


Il fatto è che già da un po’ sentivo parlare di quel Tamer, traduttore, poeta e militante della primavera egiziana. Il quale è tornato poco dopo a riprendere le sigarette.


«Sei tu Tamer?».


«Tu sei Asmaa?».


Ci siamo scambiati i numeri di telefono. Tre settimane dopo mi ha chiesto se volevo sposarlo, cosa che mi ha sbalordito perché di solito gli uomini hanno paura di me, mi vedono come sempre “troppo forte”, concetto che traduco con “difficile da dominare”. Gli ero quindi riconoscente per il suo coraggio, anche se diffidavo un po’ delle divergenze d’opinione che intuivo. Papà è venuto al Cairo e Tamer gli ha chiesto ufficialmente la mia mano. Ovviamente Mahmoud ha fatto da testimone di nozze. Sapevo già che Tamer disapprovava il mio modo di vestire e di parlare, ma con lui mi sentivo al sicuro, ai miei occhi rappresentava l’uomo tradizionale. A dire la verità ero stanca di Gaza, avevo bisogno di un rifugio, pensavo che il matrimonio mi avrebbe procurato la protezione necessaria e Tamer mi sembrava l’uomo giusto. È il mio paradosso: desidero un uomo che non mi tarpi le ali, ma che allo stesso tempo sia in grado di difendermi. Nel mondo arabo così com’è sognavo la rara avis che proteggesse sia me che la mia libertà, la quadratura del cerchio! Ben presto si sono presentati i problemi. Colpa mia. Il sogno di essere una donna “ordinaria” che faceva una vita “normale” con un uomo “normale” è crollato su se stesso. Ho deciso di chiudere il blog. Come messaggio d’addio ho postato un ultimo testo dal titolo “L’amore di Gaza”. Ho chiuso anche l’account Twitter e sono tornata a casa. Ero incinta. Il soggiorno egiziano era durato otto mesi.


A Gaza l’assassinio di Vittorio Arrigoni aveva cambiato molte cose. Tanto per cominciare Hamas aveva deciso che non potevamo più mischiarci agli stranieri, quindi vietate le feste, vietati gli incontri, tutto! Poi la repressione si era inasprita al punto da provocare nuove partenze tra i nostri. Un dirigente del movimento dei Giovani del 15 marzo e due fondatori del GYBO se n’erano andati, il primo in Egitto, il secondo in Qatar e il terzo non so dove… La mia amica May, quella con cui avevo vissuto “il caso della spiaggia”, aveva fatto le valigie per la Spagna, un altro amico aveva scelto il Belgio… Non rimaneva più nessuno! Ogni individuo soggetto a oppressione ha il diritto di andarsene. Ma perché lo fa? È stato una vittima perché ha voluto cambiare le cose, non per diventare un rifugiato politico! È il mio punto di vista, ma non sta a me giudicare gli altri.


Tamer è arrivato un mese dopo a Gaza e, diversamente da quello che mi aspettavo, ritrovarci è stato magnifico. Cominciavo ad avere la pancia un po’ rotonda, però il lavoro non andava tanto bene. Mamma aveva venduto a mia insaputa un braccialetto d’oro per pagare il parto. Ho portato Tamer in tutti i luoghi che amavo, a Rafah, nei ristoranti di pesce, sulla spiaggia, dappertutto! Era felice, le nostre giornate erano bellissime, parlavamo della gravidanza, di Zeina che presto sarebbe arrivata… Il giorno prima della sua partenza siamo andati per mercatini a comprare regali per i suoi genitori e anche olio d’oliva e datteri, molto più buoni che in Egitto! È tornato a Gaza quand’ero al settimo mese, ed è stato altrettanto piacevole. Qualunque cosa accadesse eravamo contenti, io lavoravo sodo, vivevamo in una stanza a casa dei miei genitori, ma non c’importava, andava tutto bene. È tornato a luglio 2012 per il parto, era la fine del Ramadan. Appena arrivato ci siamo messi a tavola per rompere il digiuno, poi lui è andato a pregare nella stanza accanto. Poco dopo è suonato il telefono.


«È morto Mahmoud» ha annunciato mio fratello Abdallah con voce spezzata.


«Com’è morto?».


«Facendo il bagno in mare. È affogato».


Sono andata da Tamer, gli ho detto di sedersi, gli ho tenuto le mani e gli ho dato la triste notizia. Mahmoud era il suo migliore amico, il nostro testimone di nozze… Ha gridato, ha pianto, ci siamo abbracciati e abbiamo singhiozzato insieme, ma da quel momento è diventato un’altra persona e, non ho mai capito perché, si è messo a guardarmi come se fossi stata io a uccidere Mahmoud! I problemi di soldi non contribuivano a sistemare le cose, reggevamo bene o male perché continuavo a lavorare per Skeyes. Per fortuna quando Zeina aveva quasi tre mesi mi è stato assegnato il Courage in Journalism Award, un premio americano per il coraggio in ambito giornalistico. Ero stata invitata negli Stati Uniti per ritirarlo, potevo portare mia figlia, ma ho insistito perché fosse invitato anche Tamer.


Siamo tornati in Egitto per prendere l’aereo. La sua famiglia era contenta per lui perché l’occasione gli avrebbe permesso di andare a trovare i fratelli, che vivevano lì. A tavola, del tutto incidentalmente, abbiamo detto che bisognava far bucare i lobi di Zeina perché potesse portare gli orecchini e un nipote di Tamer, che aveva quindici anni, ha domandato:


«Perché farle i buchi nelle orecchie? Tanto porterà il velo e le orecchie non si vedranno».


«E tu che ne sai se porterà il velo?» ho chiesto.


«Saranno suo padre e suo fratello a deciderlo!» ha risposto il ragazzo.


«Perché, pensi che lei non abbia voce in capitolo?».


Durante tutta la discussione Tamer mi ha guardato come se volesse strozzarmi. Lui, il poeta, il militante della primavera egiziana, si vergognava di quello che dicevo! E stavo parlando di sua figlia! Non dimenticherò mai quello sguardo terribile. Ho capito che ero finita in un disastro e che di sicuro Zeina avrebbe avuto un futuro difficile.


In America ho avuto modo di constatare quanto fossi regredita. Il mio livello intellettuale, la mia sicurezza, il mio coraggio… era tutto sparito. Ero diventata timorosa, mi sentivo a disagio, non vedevo l’ora che finisse. Ho smesso di amare gli Stati Uniti a causa di Tamer. Suo fratello Brahim non mi poteva vedere, si atteggiava a conoscitore di Gaza e dei suoi abitanti facendo osservazioni idiote alle quali non rispondevo neanche più. Un giorno ho detto a Tamer: «Ascolta, sento che sta per scoppiare un’altra guerra, tutto ciò che è successo prima del conflitto del 2008 sta succedendo di nuovo, dobbiamo tornare». Non mi ha creduto, è voluto restare. Quando ci siamo detti addio si è messo a piangere, ma sono tornata a Gaza da sola con la bambina. Quattro giorni dopo, il 14 novembre 2012, il capo delle operazioni militari di Hamas, Ahmed Jaabari, veniva ucciso da un raid israeliano. Era cominciata un’altra guerra.

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E la morte ti accompagni

Gli israeliani non hanno invaso il territorio, si sono limitati a bombardarlo da tutte le parti contemporaneamente, da terra, dal mare, dal cielo… Il frastuono non si fermava mai, era un rombo spaventoso che faceva scoppiare i timpani. Ero terrorizzata in particolare dagli F16 che sganciavano bombe e missili, non so perché: durante la guerra del 2008 avevo vissuto senza paura bombardamenti simili ed ecco che quattro anni dopo le esplosioni mi facevano sussultare di spavento, afferravo Zeina e pensavo “Mia figlia sta imparando cos’è la paura a soli quattro mesi!”. Sarebbe stato tutto più facile se avessi lavorato, perché la “missione” del giornalista ti dà come l’illusione di avere uno scudo, ma nessun organo di stampa voleva più i miei servigi. Colpa della mia reputazione di trouble maker? O il matrimonio, i problemi con Tamer e la gravidanza mi avevano fatto perdere i contatti? Fatto sta che mi ero proposta a vari giornali che non si erano nemmeno presi la briga di rispondermi.


Andavo sul campo e scrivevo ogni sera sulla mia pagina Facebook. Il numero dei follower continuava ad aumentare, ma non era la stessa cosa. Avevo sempre paura, per strada, in macchina, ovunque… paura della morte. Non era tanto il timore fisico di morire, quanto “l’idea” della morte che mi seguiva dappertutto. Due giornalisti erano stati uccisi nei primi giorni della guerra, facevano parte di Hamas, ma non importa, erano comunque giornalisti in borghese, una bomba li aveva fatti saltare in aria mentre erano in macchina. Cos’è l’istante della morte? Si diventa assenti di colpo, si muore senza sapere di essere morti? Mi ronzava in testa questo genere di domande e tremavo. Ero anch’io in macchina, incapace di controllare il tremito. Per tutta la vita papà non ha fatto che dirci «Sto morendo» in tono scherzoso. Da piccola avevo paura che morisse davvero, pensavo alla morte, ma neanche all’epoca l’avevo mai sentita così vicina. I due testi che ho scritto su Facebook su questo argomento, la morte, la sua vicinanza, il suo mistero e come tutto ciò mi rendesse pazza, hanno raccolto più di duecento commenti. Quando è stato ucciso Jaabari l’attenzione della stampa si è ovviamente focalizzata su quell’evento che aveva scatenato la guerra, mentre la mia era attratta da dettagli molto meno spettacolari, per esempio un dramma che si era svolto in quello stesso giorno: una bambina è seduta sulle ginocchia della madre in un salotto in cui alcuni ospiti stanno per andarsene. Appena escono comincia un bombardamento. La madre corre a mettere gli altri figli in un luogo meno esposto e torna a prendere la bambina. Nello stesso momento cade una bomba che distrugge il salotto. «Vedo mia figlia incolume seduta dove l’avevo lasciata, sembra che non abbia niente, non c’è una goccia di sangue… ma è morta». Quella storia mi ha colpito molto. Mi ha ricordato la vicenda di un ragazzino che doveva tornare da scuola durante la guerra del 2008 e che i genitori avevano aspettato invano. Avevano smosso mari e monti, avevano fatto il giro degli ospedali e degli obitori, ma non c’era traccia di lui. La sera l’avevano visto ai piedi di un muro, con lo zainetto sulla schiena, assolutamente integro. Una scheggia minuscola gli era entrata nel cuore, non si vedeva niente. In quei bambini morti, in quelle bambine tirate fuori dalla cella frigorifera con una targhetta tra i capelli, vedevo i miei figli e mi si gelava il sangue. Mi hanno raccontato la storia di un soccorritore che non si era accorto di avere una scheggia di granata piantata nella schiena, stava sollevando alcuni feriti e di colpo si era accasciato in mezzo a loro. Parole come “ferocia” o “massacro” suonano come cliché inadeguati a definire episodi del genere, è un livello di realtà che semplicemente non è possibile esprimere. Come descrivere quanto ci sia familiare la sensazione della morte che ci ossessiona, quanto sia intimo ciò che condividiamo con essa?


Mi ha telefonato un giornalista brasiliano, Fernando Eichenberg, era la prima volta che veniva a Gaza.


«Tutti gli alberghi sono pieni. Ho trovato solo una camera in affitto da una traduttrice, ma vuole trecento dollari».


Gli ho chiesto di aspettare un momento e sono andata da mio padre.


«Ho al telefono un giornalista straniero. Possiamo ospitarlo da noi?».


«Certo. L’ospitalità è benedetta dalla religione, anche il Corano la raccomanda».


Casa nostra era piena come un uovo: fratelli, sorelle, genitori, il figlio di mia sorella, i miei figli… Il giornalista è venuto ad abitare da noi e l’ho accompagnato ogni giorno sul campo. Gli facevo da interprete, ma non accettavo un soldo da lui. Non ha mai saputo quanto fossi al verde. Comprava dolci e giocattoli per i bambini. Nessuno aveva immaginato quanto la sua presenza ci avrebbe reso la guerra più leggera.


Mio figlio e mio nipote si sono affezionati a lui, lo chiamavano “zio”. Mangiavamo insieme e andavamo insieme a documentare la guerra, ben presto accompagnati anche da mia sorella, che studiava architettura e voleva perfezionare il suo inglese. Un amico ci portava in macchina e tutti e quattro morivamo di paura ogni giorno… La sera raccontavo su Facebook quello che ci succedeva, giornate magnifiche, ma talvolta anche notti terribili. Quando il bombardamento si avvicinava e il frastuono ci portava a stenderci per terra a pancia sotto il giornalista tremava di paura, allora papà diceva «Vieni, stai con noi» e ci ritrovavamo insieme sul pavimento, mio nipote con i capelli scarmigliati, mio figlio Nasser, Zeina nella culla e tutti noi, terrorizzati. Approfittando di una pausa li ho portati tutti al supermercato per rilassarsi un po’, abbiamo riempito il carrello fino all’orlo e siamo tornati a casa a rimpinzarci in maniera bulimica.


Un minuto prima che finisse la guerra, proprio il minuto prima, gli israeliani hanno bombardato un caseggiato così vicino a casa nostra che ho sentito il rumore dei vetri sulla strada. Subito una voce ha gridato: «Un martire! Un martire!» e io: «Un bombardamento! Un bombardamento!». Siamo usciti sul balcone per vedere. Intuendo ciò che stava per succedere mamma ha chiuso a chiave la porta per impedirci di uscire. Fernando doveva andare a lavorare, e io con lui. L’ha pregata di aprire la porta, ma si è rifiutata. Lui la supplicava, lei teneva la chiave dietro la schiena e non gliela faceva prendere. Nel frattempo ridevamo! Io andavo sul balcone per scattare foto con il telefonino, poi tornavo dentro dove mamma e Fernando continuavano ad affrontarsi. Alla fine mia madre ha acconsentito ad aprire e siamo scesi. Per strada abbiamo saputo che non si trattava di un bombardamento, ma di un missile “personale” entrato dalla finestra. Nello stesso momento un altro missile aveva eliminato un dirigente di Hamas in un altro punto della città: il morto dell’ultimo minuto. Dopo quell’ultimo sussulto la guerra è finita e Fernando è ripartito.

29

La riconciliazione con mio zio

Buongiorno, la chiamo dal giornale on line Al-Monitor, vorremmo che scrivesse per noi». «La sento male, mi mandi una mail» ho risposto per prudenza.


Così hanno fatto. Il loro sito, specializzato sul Medio Oriente, è gestito dagli Stati Uniti con corrispondenti nel mondo arabo, Israele, Turchia, Iran… Il giorno dopo ho scritto per loro un articolo sul Natale dei cristiani a Gaza, l’hanno pubblicato, poi un altro sul rap in territorio palestinese, e hanno pubblicato anche quello. Mi hanno soltanto chiesto di farli più brevi, avevo perso l’abitudine a limitarmi, ma tutto quel che mandavo veniva pubblicato subito in arabo e in inglese. Ho ricominciato a scrivere tutti i giorni. Fiera di me, per la prima volta da parecchio tempo sentivo di avere un certo valore giornalistico.


Tamer è arrivato al Cairo. Alla fine era rimasto quasi sei mesi negli Stati Uniti. L’ho supplicato di tornare a Gaza, non volevo più vivere senza di lui. Mi aveva fatto soffrire, è vero, ma che fare? Fin dall’inizio avevamo deciso di abitare a Gaza, era il nostro accordo, non l’avevo certo sposato per vivere da sola. L’ho raggiunto in Egitto e siamo andati insieme ad Alessandria. Per due giorni è stato simpatico e premuroso, sono partita felice per Oslo, dove dovevo partecipare a un convegno. Stranamente il discorso che ho fatto non mi è piaciuto, le mie parole avevano perso forza. Cos’era successo? Era colpa del desiderio più o meno inconfessato di essere una moglie che cerca di evitare rogne? Il mio nuovo lavoro mi stava forse spingendo a una maggior neutralità nei confronti di Hamas, al-Fatah e chiunque altro? O mi stavo allontanando da quelle decise prese di posizione che erano state le mie?


Nel dicembre del 2012 il direttore del giornale on line mi ha chiamato per offrirmi un contratto a tempo indeterminato, cosa che ho accettato con piacere. Ero ormai una cronista di Al-Monitor. In quella veste ho fatto una quantità di interviste a dirigenti di Hamas, che sono stati costretti a parlare con me anche se li avevo crudelmente “diffamati”! Sono perfino diventata amica di uno di loro, una persona il cui cervello girava a tutta velocità, forse perché proveniva dal Fronte popolare. Mi ha presentato la moglie, una donna notevole che lavorava per un’organizzazione internazionale e non faceva che criticare Hamas. Finché un giorno, mentre stavo facendo un’intervista ai piedi di un edificio di Rafah in compagnia di una troupe della televisione olandese, è passato da lì zio Said. Ci ha superato, poi si è bloccato, è tornato indietro, è venuto a salutarmi e inaspettatamente mi ha abbracciato. Ci siamo riconciliati così, senza dire una parola sul passato o sugli eventi che ci avevano allontanato. Mio padre è diverso, non è il tipo che si tira indietro, parla sempre, e del resto è la prima cosa che ha fatto quando è tornato dal suo lungo broncio a Rafah. Siamo una famiglia che parla in continuazione. A ogni compleanno, e ne abbiamo durante tutto l’anno visto quanti siamo, papà chiede al festeggiato o alla festeggiata di dire qualche parola. Zio Said è più silenzioso. Da quando ci siamo rivisti, lui ha continuato a ricoprire lo stesso ruolo all’interno di Hamas e io a scrivere quello che volevo. La nostra è stata una riconciliazione strettamente familiare, la politica è un’altra cosa. Eravamo rimasti sei anni senza scambiarci una parola! Durante quel periodo un giorno ero passata a casa senza preavviso e l’avevo trovato lì, era venuto a trovare mio padre. Era stato sorpreso di vedermi. Io l’avevo salutato educatamente, poi avevo detto:


«Allora, continuate a torturare i prigionieri?».


«Mica li torturiamo, li nutriamo con riso e pollo…».


«Oh, immagino che ve lo facciate portare da Maatouk [un famoso ristorante]».


L’atmosfera era elettrica, non avevamo detto altro. Al momento di andarsene si era voltato verso di me.


«Guarda che sono io a impedire che ti facciano del male… Volevano ucciderti».


«E perché lo fai? Ammazzatemi, è meglio, il mio messaggio sarà ancora più forte!».


Papà non sapeva più come fermarci. Tuttavia non vado orgogliosa della mia opposizione a zio Said e a Hamas. Guardando indietro mi accorgo di essere stata una catastrofe per me stessa, per i miei genitori, per i miei amici, e non so cosa diventeranno Nasser e Zeina dopo l’infanzia che hanno passato. Quale madre riceve in prigione la visita del figlio di cinque anni? Ogni volta che sente passare una manifestazione Nasser va nel panico e chiede: «Stai uscendo, mamma?», e quando vede gente di Hamas corre verso di me terrorizzato, «Mamma, c’è Hamas…», allora lo tranquillizzo, «Non ti preoccupare, non sono venuti per me…». Ciò nonostante, o forse proprio per questo, a nove anni mio figlio ha cominciato ad amare Hamas, diceva di volersi unire a loro, metteva foto di combattenti sullo schermo del computer, ascoltava le loro canzoni… Ho capito che una certa immagine si era formata davanti ai suoi occhi, esattamente com’era successo a me da piccola, l’immagine degli uomini della “resistenza” che erano lì a difenderci, gente che trasmetteva un’idea di forza e potenza nel momento in cui ci sentivamo miserabili e bisognosi… Del resto nella seconda guerra, quella del 2012, Hamas aveva imparato la lezione degli errori commessi nella precedente: stavolta si erano preoccupati della gente, avevano organizzato servizi d’emergenza e non se l’erano presa con i rivali di al-Fatah, riuscendo così a dare l’impressione che il missile lanciato contro Israele fosse proprio la cosa che ci difendeva, molto più dell’ONU, di Hillary Clinton, della Francia o dell’Europa. Agli occhi dei palestinesi Israele, nella sua idiozia, era riuscito a far apparire Hamas un movimento di resistenza anziché un regime oppressivo, e, malgrado le sofferenze e le distruzioni, quello stesso regime era uscito relativamente popolare dalla guerra.


Consapevole di ciò che avveniva nella testa di mio figlio non mi sono opposta, tutt’altro. «Nasser, se vuoi incontrare qualcuno di Hamas puoi farlo» gli ho detto. Mi ha chiesto di assistere a una sfilata militare di al-Qassam, e ce l’ho portato. Se anche avessi voluto dissuaderlo, cosa avrei potuto dirgli che non sapesse già? Mi aveva visto arrestata, incarcerata e picchiata da Hamas, cos’altro potevo aggiungere? Era necessario che pensasse con la sua testa e l’ho lasciato fare. L’attrazione per Hamas è scomparsa da sé abbastanza rapidamente. L’ho invitato a venire con me in Spagna, dove ha assistito a una partita del Barcellona al Camp Nou, uno dei più grandi stadi del mondo. Era affascinato, ma non per questo ha sognato di diventare calciatore. Forse quel giorno ha sentito che non c’era solo Hamas e che altri destini erano possibili.


«Mamma, perché devo imparare l’arabo?» mi ha chiesto.


«Ma… perché questa domanda?».


«Perché voglio studiare gli insetti in inglese».


Era la sua ultima idea, occuparsi di insetti, dedicare la sua vita a quello. Aveva trovato il modo di tornare a una tendenza che aveva sempre avuto, l’attrazione per la vita animale.

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La vita segreta di Gaza

Il 30 giugno 2013 il famoso slogan della primavera araba, “Il popolo vuole la caduta del regime!”, è di nuovo risuonato nelle strade egiziane. Milioni di dimostranti messi con le spalle al muro dalla miseria e dall’insicurezza si radunano per manifestare al Cairo e nelle grandi città del paese. Stavolta chiedono la destituzione di Mohamed Morsi, primo presidente eletto da una votazione democratica imposta dalla stessa primavera egiziana. Quel ribaltamento spettacolare non poteva non influire sulla situazione di Gaza, visto che Morsi governava in nome dei Fratelli musulmani, la confraternita che tra gli altri aveva dato origine a Hamas in Palestina.


Nonostante il mio odio per gli islamisti credo che un anno prima, se fossi stata egiziana, avrei votato per lui. Veniva comunque da una rivoluzione che aveva buttato giù la dittatura militare di Mubarak attraverso le urne. Tre settimane prima della grande manifestazione, a Gaza erano circolate voci persistenti secondo cui l’Egitto “si sarebbe sbarazzato di Morsi e dei Fratelli musulmani” entro la fine del mese. Avevo chiamato Tamer al Cairo per metterlo in guardia, ma aveva risposto «Sono solo chiacchiere, non succederà niente». In realtà il regime dei Fratelli musulmani si è dimostrato talmente incompetente da scatenare una sollevazione popolare, uno tsunami tale che avevo scritto sulla mia pagina Facebook “Mi inchino davanti a questa rivoluzione!”. Purtroppo non era una rivoluzione, ma una finzione molto ben orchestrata dal comando dell’esercito egiziano! Appena l’ho capito ho scritto che si trattava di un colpo di Stato camuffato che stava facendo centinaia di morti. Cosa avevo osato dire! Sono stata bersagliata da attacchi di rara violenza, ho perso di colpo molti amici, alcuni colleghi mi hanno voltato le spalle, gente con cui avevo ottimi rapporti non mi ha più rivolto la parola. Mi accusavano di fare il gioco di Hamas, erano pochissimi quelli la cui voce era in sintonia con la mia. E Tamer, che si era avvicinato agli islamisti, mi parlava dal Cairo in tono leggermente ironico.


«Ti sei sempre opposta a Hamas e ora è diventato “bene” stare con i Fratelli musulmani?».


«Non c’entra niente con l’essere “bene”. Non capisci. È tutta la vita che sono così, ma tu non ci hai mai fatto caso».


In realtà per la prima volta da parecchio tempo mi considerava con rispetto, ma si ingannava, non capiva che agivo per la democrazia e per l’odio dei massacri… Alcuni hanno pensato che fosse stato lui a influenzarmi, altri hanno sostenuto che avessi assunto quella posizione perché lavoravo per Al-Monitor, un sito americano che sosteneva la tesi del colpo di Stato… Ognuno si è dato la sua piccola spiegazione, ma in verità la mia era solo una posizione di principio, come del resto quella di mio padre. Mia sorella abbastanza comunista, che viveva in Egitto, aveva visto la maggior parte dei suoi amici di Facebook opporsi ai militari, come me e come ogni persona d’onore, ma a Gaza erano in pochi a capire che ci si potesse opporre sia a un regime militare che a un regime islamista. Gli stessi uomini di Hamas si sono messi a tessere le mie lodi, e non l’ho sopportato. Ho scritto sulla pagina Facebook di un amico che faceva parte di Hamas, uno con cui avevo condiviso il mio primo ufficio: «Tu e Hamas siete gli ultimi a potermi dire che sto dalla parte giusta… Sono sempre stata contro di voi e lo sono ancora, non è cambiato niente! Non dimentico che mi avete dato della venduta e della bugiarda… Ora mi trovate “bene” perché ho preso posizione a favore dei Fratelli musulmani? Ma non ho affatto preso posizione per loro! Sto dalla parte del diritto e basta, i Fratelli musulmani non c’entrano un accidente!».


La caduta di Morsi era stato un duro colpo per Hamas, che si era appoggiato sul “regime amico” dei Fratelli musulmani per mantenere aperte, sotto il confine egiziano, le migliaia di tunnel che assicuravano gli approvvigionamenti (comprese le proprie “importazioni” militari). Nello stesso momento si erano guastati i rapporti di Hamas con l’altro suo grande alleato, il regime iraniano, accusato di sostenere il regime siriano di Bashar al-Assad. In poche parole, la politica di Hamas aveva condotto Gaza sull’orlo del soffocamento. Con i prodotti israeliani sempre inabbordabili, la distruzione dei tunnel con l’Egitto ha fatto impennare i prezzi. Lo zucchero è passato da tre a sette shekel al chilo, abbiamo smesso di comprare formaggio e dimenticato il latte in polvere. Molto semplice: la spesa di drogheria costava ormai l’equivalente di quattrocento euro al mese. Gli affitti, che prima andavano dai centotrenta ai centosessanta euro al mese, erano schizzati a non meno di trecento! Abbiamo subìto interruzioni di corrente di dodici ore al giorno. Data la difficoltà di trovare alloggi sempre più persone abitavano insieme, tipo famiglie allargate. Lo facevano anche prima, ma non in queste proporzioni. Quando una coppia si sposava, la famiglia, se ne aveva la possibilità, le dava una camera nell’appartamento collettivo. All’università ogni corso doveva utilizzare gli stessi testi del corso precedente, perché a Gaza non entravano più libri. Bisognava vivere confinati nella promiscuità e nelle restrizioni, in una società intenta a divorare se stessa e immersa nello zzzzz perpetuo dei droni israeliani, ma bisognava anche alzarsi la mattina e portare i bambini a scuola, fare la spesa, cucinare, andare al lavoro, scrivere, essere testimoni della morte e imparare come si muore, un’amara realtà che genera ideologie terribili e fa decollare gli islamisti.


Eppure, in un certo senso, tutto continuava misteriosamente a reggersi in piedi. Anche se i dati ufficiali davano una disoccupazione altissima, era poca la gente senza lavoro. Insegnanti, professori, medici e simili venivano pagati direttamente dall’UNRWA. Lo stipendio di quelli che lavoravano nel settore privato, istituzioni, università, banche eccetera o nelle associazioni della società civile, veniva dall’estero. Trentaduemila impiegati si rifiutavano di lavorare con Hamas e restavano a casa mentre l’Autorità palestinese, al-Fatah, continuava a pagarli. Quella era la politica di Abu Mazen: pagava quelli che non lavoravano e non pagava più quelli che lavoravano, con la scusa che collaboravano con Hamas. Ma come chiedere a quegli impiegati di al-Fatah, uomini e donne con le braccia incrociate, abituati fin dal 2007 a restare nei loro salotti, a rimettersi al lavoro quando sarebbe arrivato il momento? Alcuni del resto sono emigrati e hanno chiesto asilo politico sostenendo che Hamas li aveva oppressi, in modo da farsi pagare da governi stranieri troppo ingenui e nello stesso tempo continuare a percepire lo stipendio a Gaza. Nel frattempo, su Facebook, gli impiegati di Hamas se la prendevano con il movimento islamista perché non aveva più soldi per pagarli e farli stare zitti.


I cittadini che non appartenevano a nessuna di queste categorie (operai, contadini, disoccupati, commercianti, artisti, laureati a spasso e simili) erano completamente persi. Il panino di falafel, il pasto più modesto di Gaza, che prima costava mezzo shekel, ormai ne costava due! Per non parlare degli altri danni, l’inquinamento, le costruzioni tirate su senza progetto e senza piano regolatore, la diffusione di malattie tipo il cancro, i cui casi sono aumentati vertiginosamente a causa delle bombe all’uranio impoverito utilizzate da Israele, come stabilirà il rapporto del giudice sudafricano Goldstone, inquirente ufficiale designato dalle Nazioni Unite.


Eppure a Gaza si continuava a ridere, per esempio quando i droni israeliani si avvicinavano troppo disturbando il segnale e impedendoci di vedere Al-Jazeera o una partita importante o una serie: in quei casi imprecavamo contro Israele e il nostro governo! La televisione è la cosa che procura più piacere a Gaza. Mancava l’acqua per farsi la doccia, i continui sbalzi di corrente impedivano una connessione Internet regolare, ma non importa, c’era la televisione! E se tagliavano l’elettricità bastava una batteria d’automobile per accenderla. Andavo spesso a trovare un bambino che aveva perso la vista nel bombardamento di casa sua, un bambino straordinario. Quella sera, entrando a casa sua, l’ho visto andare in bicicletta pur essendo cieco. Mi ha riconosciuto dalla voce. Non vedeva niente, aveva la casa mezza distrutta, i genitori non avevano da mangiare… e che facevano? Su uno schermo piatto che occupava metà della parete guardavano sognanti una serie turca il cui set era un salotto riccamente arredato!


Quelle serie hanno un successo incredibile. La gente ci vede personaggi che assomigliano a loro, musulmani che leggono il Corano, pregano e digiunano… e allo stesso tempo bevono alcolici, escono con ragazze in minigonna e ci vanno addirittura a letto. Sono come noi, ma non sono come noi! Le serie turche non rappresentano né un obiettivo né un modo di vita possibile, ma una specie di compensazione virtuale allo stato d’assedio intellettuale e religioso e all’assenza flagrante di libertà. Quale che sia la situazione, a Gaza la televisione non si spegne mai, come del resto il sesso. Tra marito e moglie, s’intende. Questo paese è straordinario. Le donne di qualunque condizione, comprese quelle velate fino agli occhi, non fanno che andare nelle boutique a comprare camicie da notte e perizoma. Questa è Gaza, la vita segreta di Gaza!

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L’idolo degli arabi

Mohamed Assaf aveva vent’anni, era cresciuto in un ambiente piuttosto modesto di Khan Yunis, nel sud della striscia di Gaza. Il padre era impiegato e la madre maestra di scuola. Aveva una bella voce e si faceva pagare seicento shekel, circa centotrenta euro, per animare serate, matrimoni e feste… Nel 2013 si è presentato ad Arab Idol, un talent show che vede in gara cantanti dell’intero mondo arabo, un evento annuale molto seguito. La popolazione di Gaza gonfiava il petto dalla fierezza, uno dei suoi figli era sotto le luci dei riflettori, un’ugola d’oro in grado di cantare sposando i diversi accenti del mondo arabo. Il principio del concorso era che bisognava votare per i concorrenti usando il telefonino, il che ovviamente fagocitava il credito delle carte telefoniche. Benché fossi senza un soldo ho speso l’equivalente di centinaia di euro per partecipare al voto, e anche per prestare il cellulare a quelli ancora più al verde di me. Sul territorio si è scatenato un incredibile movimento di solidarietà orchestrato tramite Facebook e gli altri social network. Mohamed Assaf doveva andare ad Alessandria per partecipare alle audizioni, ma eravamo a Gaza e il confine con l’Egitto era chiuso. Ci ha messo due giorni a varcarlo! Quando è arrivato davanti alle porte della dépendance del grande albergo di Alessandria in cui si svolgeva il concorso le ha trovate chiuse. Allora ha telefonato alla madre per raccontarle che era bloccato.


«Scavalca il muro!» gli ha risposto lei.


«Ma come faccio, mamma!».


«Scavalca, ti dico!».


Ha scavalcato, e dall’altra parte i cani si sono precipitati su di lui seguiti dagli agenti della sicurezza.


«Vengo da Gaza, sono qui per partecipare al concorso Arab Idol» ha spiegato.


«Troppo tardi. I numeri sono già stati tutti assegnati, non puoi più entrare».


Un altro giovane palestinese arrivato dagli Emirati ha sentito la conversazione e ha detto: «Tieni, prendi il mio numero». Ecco come Mohamed Assaf è potuto entrare nel salone del concorso. In seguito, dopo aver superato una serie di eliminatorie, si è ritrovato in finale con un cantante e una cantante, e tutta la Palestina ha trattenuto il fiato. Nel cuore del miserevole campo profughi di Nuseirat, al centro della striscia di Gaza, un centinaio di persone aspettava il risultato in un caffè della costa. Sullo schermo la presentatrice se la prendeva comoda: «E il vincitore è…». Uno degli avventori del caffè è sbottato: «E diccelo, maledetta!». Alla fine ha annunciato la vittoria di Mohamed Assaf! La scena, ripresa con un cellulare e postata su Facebook, è stata condivisa migliaia di volte. L’esplosione di gioia è stata indescrivibile, tutta la Palestina è scesa per strada. A Nablus gli spettatori riuniti in uno stadio di fronte a uno schermo gigante erano talmente contenti che hanno sfasciato tutti i sedili delle gradinate! In città Hamas aveva vietato i raduni, così la gente era assiepata intorno ai televisori degli alberghi e dei caffè. All’annuncio del risultato uomini e donne si sono alzati e si sono messi a ballare insieme per la prima volta in vita loro mentre le televisioni li riprendevano. Anch’io sono rimasta incollata davanti allo schermo, ma a casa con la famiglia. Credo di essere saltata sulla sedia più di venti volte ridendo e piangendo insieme. Sotto i riflettori, il vincitore ha teso la mano per invitare il giovane palestinese che gli aveva dato il numero a salire sul palco e cantare l’ultima canzone con lui. Non solo Mohamed Assaf era arrivato primo, ma aveva ottenuto ottanta milioni di voti laddove il secondo classificato ne aveva ricevuti quaranta! Erano la più ampia partecipazione e il più grande distacco mai registrati da quando esisteva il concorso Arab Idol!


Era bello, bruno e magro, le ragazze erano pazze di lui. Sapevamo che era liberale, vicino al Fronte popolare, Hamas l’aveva arrestato e picchiato quattro o cinque volte. Un fratello! All’annuncio del suo trionfo il governo non aveva fiatato. Tutti sapevano che molto prima di avere successo Mohamed Assaf aveva avuto noie per aver cantato una canzone “proibita”, Solleva in alto la kefiah, considerata favorevole ad al-Fatah. Il governo di Hamas ha però mandato una delegazione ufficiale ad accoglierlo al confine. C’erano centinaia di migliaia di persone sovreccitate ad aspettarlo, talmente tante che non è riuscito a scendere dalla macchina, cosa per cui è stato criticato. Io lo capisco, se fosse sceso Dio solo sa cosa gli sarebbe successo! Ciò non toglie che avrebbe potuto fare una deviazione e passare dal campo profughi in cui era nato, invece di andare direttamente nell’albergo a sette stelle in cui era atteso.


Nelle moschee di Gaza si sono cominciati a sentire sermoni negativi su di lui, dicevano che il suo comportamento fosse haram e lui stesso fosse un kafir (infedele)… ma la gente non ha sopportato di sentirlo denigrare. C’era un tale bisogno di un simbolo nazionale di cui poter andare orgogliosi che gli sceicchi sono stati ridotti al silenzio a forza di improperi. Mohamed Assaf è diventato un caso nazionale. Una volta tanto potevamo mostrare al mondo un uomo di talento, anziché le nostre guerre e la nostra miseria!


Ho letto una storia che mi ha colpito molto, quella di un giovane della Cisgiordania che aveva tirato una bottiglia Molotov contro una macchina che usciva da una colonia israeliana. L’ordigno artigianale era rimbalzato sul cofano senza prendere fuoco. L’automobile si era fermata e ne era scesa una donna, una docente universitaria inglese che si era diretta verso il giovane e gli aveva chiesto: «Perché mi hai lanciato una bottiglia Molotov?». Il ragazzo non aveva saputo cosa rispondere. Si erano scambiati gli indirizzi, e quando lui ha finito la scuola in Cisgiordania lei l’ha aiutato a iscriversi in un’università americana dove ha ottenuto risultati brillanti. In seguito le ha scritto: “Tu, mia madre, che ho conosciuto per caso e che mi ha salvato…”. Ecco il dramma dei palestinesi: o scelgono le bottiglie Molotov, o un evento a volte fortuito li mette su una strada che permette loro di scoprire i doni che hanno. Così è la storia di quel giovane e così è la storia di Mohamed Assaf. Purtroppo le nostre società sono costruite in modo da uccidere i talenti, mentre fabbricare una bottiglia Molotov è facilissimo!


 


Mio fratello Abdallah ha deciso di tornare a vivere per un po’ nella nostra casa di Rafah per finire di scrivere la sceneggiatura sulla quale stava lavorando. Lì ha ritrovato molti nostri cugini ai quali chiedeva sempre che obiettivo avessero nella vita. Un giorno ho ricevuto una telefonata da uno di quei cugini che mi detestava particolarmente. Non era un bambino, aveva ventisette anni. «Sono a Gaza e non so dove andare, posso venire da te?». Ero molto stupita, quel cugino faceva parte delle brigate al-Qassam. Gli ho detto comunque di venire.


«Asmaa, ho scoperto cose importanti».


«Quali?».


«Ho scoperto te, il tuo blog, perché agivi così, tutto un mondo nuovo. Prima, quando ascoltavo una canzone alla radio mia zia diceva a mia madre “Tuo figlio è un corrotto, è sporco”. Ora vedo film, leggo libri e ho capito che se mia sorella dice “Amo qualcuno” non ho bisogno di massacrarla di botte. Dov’eravamo tutto questo tempo?».


Non credevo alle mie orecchie. Lui ha continuato.


«Quando tuo fratello Abdallah è venuto a Rafah ci ho parlato e ho capito che non conoscevo il mondo».


«Hai ancora parecchio da imparare» ho riso, poi ho fatto il caffè e siamo rimasti a parlare. Quella storia mi ha fatto riflettere. Ho capito quanto cose importantissime come i libri, il cinema e la musica siano estranee ai figli di Gaza. Eppure sono le cose che trasformano la gente, le cose che hanno trasformato me! Come possiamo giudicare quelli che non hanno mai potuto usufruirne? Non c’è un solo cinema pubblico in tutta la striscia! In generale i giovani hanno la scelta tra drogarsi di Tramadol o unirsi alle brigate al-Qassam, diventare soldati. Possono avere un’altra scelta solo per caso, perché hanno una bella voce o una straniera li sgrida o parlano con un cugino, o anche perché hanno un padre diverso, ma è una possibilità che purtroppo Dio non fa scendere dal cielo. Allora ho capito che ci corre un niente tra il destino di essere professore, scrittore o poeta e quello di fare il combattente o ammazzare la sorella credendo di difendere l’onore della famiglia. Il conservatorismo criminale è interamente costruito su illusioni, fantasie, parole di partito, di moschea, di governo, ma se si guarda all’interno dell’individuo cosa si vede? L’unica cosa che gli manca è un buon libro. Di questo ha bisogno Gaza, di questo e nient’altro! Né di governo di unità nazionale né di riconciliazione né di merda né di Hamas né di guerra, questo territorio ha solo bisogno di aprirsi al mondo, e a vietarlo è l’assedio imposto da Israele, Hamas, al-Fatah ed Egitto mentre gli Stati Uniti e l’Europa guardano altrove.


Tutti i film proiettati a Gaza, tranne quelli presentati all’Institut français, vengono prima visionati da Hamas. In un festival del 2010 che aveva un nome grazioso, “Negli occhi delle donne”, l’organizzazione islamista aveva preteso e ottenuto che fosse tagliata una sequenza in cui si vedevano due uccellini che si accoppiavano… La moralità di Gaza l’aveva scampata bella!

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La morte viene senza salutare

Ricordo il momento preciso in cui le due guerre precedenti mi hanno colto di sorpresa, ma mi è impossibile ricordare come sia cominciata quella dell’estate 2014. È stata una tale follia che i giorni successivi ne hanno mascherato l’inizio. Abbiamo vissuto cinquantuno giorni di terrore, ognuno dei quali sembrava il primo. Come faccio a ricordare? La morte viene senza salutare, senza chiederti cosa ne pensi, in un secondo è finita. Sono andata verso la morte e la morte non ha voluto saperne di me.


Sono entrata in una stanza in cui era appena morto un bambino, un grazioso bambino di un anno con un vestitino rosa, senza una goccia di sangue, ne sentivo ancora la vita. Accanto c’erano altri corpi, donne pallidissime, calmissime, stranissime. Sono uscita. In un’altra stanza erano ammassate le famiglie delle vittime. Una donna mi ha afferrato il braccio gridando: «Mio figlio, mio figlio!».


«Chi è tuo figlio?» le ho domandato.


«Un bambino piccolo vestito di rosa».


E io, come un’idiota, le ho detto che l’avevo visto.


«Dov’è? Cos’ha?».


«È morto».


Allora si è presa i seni tra le mani e si è messa a gridare:


«E ora a chi lo do questo latte?».


Mi ha afferrato alla gola e si è messa a stringere come un’ossessa per strangolarmi, fino a che le persone presenti le hanno fatto mollare la presa. Una scena da incubo in cui io facevo la parte della cattiva. Avevo commesso l’errore più grande della mia vita. I medici le hanno somministrato un calmante e mi hanno severamente rimproverato. Mi sono scusata quanto ho potuto. Come madre avrei preferito sapere subito la verità, ma parlo solo per me. Era il suo unico figlio. Ho capito che non sarei morta quel giorno: a morire sono i buoni, gli altri vengono sempre risparmiati.


Il fracasso delle bombe era talmente brutale che una vicina è venuta a rifugiarsi da noi tremando di paura, ma mentre era lì si è messa a guardare le figlie di mio zio e a sondare la possibilità di un fidanzamento con il suo giovane nipote, era buffo…


Il bombardamento sembrava finito, sono uscita sul balcone seguita da mio padre. A sette metri di distanza c’era la torre tante volte bombardata. All’improvviso ho visto un missile passare tra i due edifici, entrare in un appartamento del settimo piano ed esplodere. L’onda d’urto bollente ci ha quasi fatto volare dal balcone. Come al rallentatore mi sono vista allungare la mano per tornare sulla terra mentre una forza superiore mi trascinava nel vuoto. Sono riuscita ad aggrapparmi al braccio di papà, non me lo dimentico, e non sono volata via. Un fischio acuto mi trapanava le orecchie, mi sembrava di avere i timpani sfondati. Siamo rientrati a tentoni, la casa era immersa nel buio, l’aria carica di fumo e polvere, non si vedeva niente. Abbiamo sentito chiamare da una stanza lontana, «Papà! Asmaa!» e ci siamo diretti verso le voci. Ho visto Nasser e Zeina immobili in un angolo, illuminati da una lucina. C’era anche parte della famiglia di mio zio, e mamma che piangeva. L’ho abbracciata. Ho guardato papà, aveva gli occhi fuori dalle orbite. Sul balcone, a un metro dal punto in cui ci trovavamo prima, si è abbattuto un palo di cemento. Se avesse trovato noi sulla sua strada ci avrebbe sfracellato. Quel giorno ci è stata regalata una nuova vita.


A volte, nell’ufficio stampa privo di elettricità che mi aveva ospitato, l’autista ci preparava il caffè. Quella mattina l’ho trovato seduto su un angolo del divano con le mani in mano. «Allora, Hamed?» ho detto. Si è alzato per mettere la caffettiera sul fuoco e ci ha guardato con una certa intensità. Dopo aver servito il caffè è uscito. Un’ora dopo ha telefonato il fotografo che Hamed doveva portare in ufficio. Singhiozzava. «Hamed è morto, la sua macchina è stata colpita da un missile!». Non ci abbiamo creduto, l’abbiamo trattato come se fosse un folle bugiardo. «Non è possibile» ho gridato, «sul tetto della macchina c’è scritto TV a lettere giganti!». All’altro capo del filo il fotografo aveva una voce da pazzo. «È lui, vi dico! L’ho visto! Tagliato in due!». Abbiamo urlato disperati.


Ho scritto il mio articolo sulla morte di Hamed e l’ho mandato. Antoun Issa, redattore di Al-Monitor, mi ha scritto di rimando “Il tuo testo mi ha sconvolto” e ho capito di essere riuscita a esprimere quello che sentivo. Nei commenti sotto l’articolo, pubblicato in arabo e inglese, si sono moltiplicate le minacce. Quasi tutti quelli che mi attaccavano pensavano che inventassi, che diffamassi Israele, che una ferocia simile non esistesse tra gli israeliani. Ma cosa credevano, che mentissi intenzionalmente? Mi chiamavano “George Orwell”, come se avessi scritto fiction! Una delle minacce diceva “Vogliamo vederti nella tomba!”. In realtà ogni volta che veniva pubblicata una critica a Israele, specialmente sui siti in lingua inglese che godevano di una certa reputazione, il contrattacco era massiccio e immediato, come se un battaglione di studenti israeliani fosse perennemente lì a vigilare. A Gaza, ogni volta che in un modo o nell’altro ce la prendevamo con il movimento islamista o invitavamo a manifestare, decine di persone si mobilitavano come un sol uomo per risponderci, insultarci e minacciarci. Era la stessa identica mentalità, quella dei poteri convinti di possedere la verità e intenzionati a far tacere ogni critica!


Ero per caso in un ospedale quando una macchina è stata polverizzata da un missile non lontano da dove mi trovavo. Ho visto arrivare le vittime, o meglio i resti umani… tra i quali una gamba con un sandalo nero. Siccome ero lì all’accoglienza gli uomini dell’ambulanza hanno scaricato tutto sotto il mio naso. Gli odori di sangue e benzina mischiati mi hanno attanagliato la gola, il mio corpo è stato preso da scosse del tutto involontarie che sono durate fino a quando è arrivato un medico e mi ha coperto gli occhi con la mano. Stavo perdendo i sensi e in quel momento mi sono come risvegliata. Era più di quanto potessi sopportare. Sono corsa fuori e ho chiamato mia madre, non riuscivo a smettere di piangere! Non sono neppure riuscita a parlare su Al-Monitor di quello che avevo visto. La morte davanti ai tuoi occhi è diversa dalla morte in televisione. Sullo schermo le immagini sono accompagnate da un’ottica ideologica o politica, da un “senso” che in fondo attenua l’evento e lo rende più sopportabile. Quando però si svolge sotto i tuoi occhi, l’evento ti riporta alle cose essenziali, la guerra e la pace, il bene e il male, la gente che muore perché la storia lo esige… Non si tratta più di Palestina né di altro, quello che hai sotto gli occhi è il fatto grezzo, la carne, il sangue, la morte, il sandalo e quelli che parlano ancora un secondo prima di morire… È molto più spaventoso, non c’è ringhiera, non c’è griglia interpretativa a cui reggersi. Vedi morire degli innocenti e i tuoi occhi credono quel che vedono, ma il cuore si rifiuta di accettarlo. È una cosa brutale, le persone non muoiono circondate dai propri cari, non dicono addio, non comunicano che stanno per morire, muoiono senza scelta, senza niente. Intorno a loro la gente si mette a gridare “Allahou Akbar!” come se quelle parole rendessero la morte più facile da sopportare, ma sono parole che non facilitano niente, non aggiungono niente, non hanno la minima influenza… La domanda che ti viene in mente è semmai “Dov’è Dio?”. Dico davvero. Se c’è una giustizia, dov’è? Gli israeliani sono nemici spietati che non dimostrano alcuna misericordia. Sostengono di uccidere solo quelli che vogliono uccidere, ma ho visto che potevano uccidere chiunque, sbagliarsi fregandosene di sbagliarsi. E in questa guerra si sono sbagliati parecchio! E intenzionalmente! Dov’è il Dio di Israele?


 


Il corpo di Hamed tagliato in due… Non so perché, quell’immagine mi tornerà in seguito, quando lo Stato islamico esibirà con orgoglio agli occhi del mondo gli orrori e le ignominie che commette senza vergogna. Che razza di regione, però! Tra il siriano Bashar al-Assad che massacra il proprio popolo a colpi di barili pieni di polvere da sparo sganciati dagli aerei, lo Stato islamico che passa indistintamente a fil di spada chiunque si discosti dalle norme e Israele che nella sua caccia a Hamas uccide per lo più civili, tra cui cinquecento bambini, direi che abbiamo il fatto nostro! Uno ammazza per mantenere al potere la propria famiglia, l’altro ammazza in nome di un’interpretazione distorta dell’islam, il terzo ammazza in nome di una terra cosiddetta promessa… E i missili cadono sempre sulla testa degli stessi, quelli che non hanno potere, quelli che dormono credendosi al sicuro, che hanno la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato, che non hanno la religione consona, che preparano il caffè prima di uscire… In fondo tutto diventa religioso in questa regione. E tutti quelli che hanno il potere di uccidere lo esercitano a loro piacimento. La guerra è guerra, porta via la gente come un’inondazione.

33

Protocollo Annibale

Abbiamo tutti provato un gran sollievo quando Israele ha annunciato una tregua per il primo agosto a partire dalle otto del mattino. Finalmente potevamo respirare un po’. Mio padre ha deciso di approfittarne per andare nella casa di Rafah, si è alzato presto e si è messo in viaggio alle sette e mezzo. Un’ora dopo è arrivata la notizia: un soldato israeliano era stato rapito in un tunnel, per l’appunto a Rafah. Alle nove e mezzo, ora in cui papà si trovava sul posto, a Rafah si sono spalancate le porte dell’inferno. Ingannate dall’annuncio della tregua, migliaia di persone che erano uscite per fare provviste sono state investite all’improvviso da uno dei bombardamenti più violenti della guerra: quaranta morti e duecentocinquanta feriti in una sola mattina.


Su Facebook tutti mi dicevano: “Non c’è un solo giornalista sul posto! Tu sei di Rafah, devi andarci!”. Non era la voglia che mi mancava, inoltre ero molto preoccupata per mio padre, ma sapevo anche che Israele aveva dato il via libera a quello che chiamano il Protocollo Annibale, una procedura che, in caso di rapimento di un militare, permette ai soldati di sparare più o meno a tutto ciò che si muove.


Con la scusa di evitare che si ripetesse il caso di Gilad Shalit, un soldato liberato dopo cinque anni di prigionia in cambio di mille prigionieri palestinesi, all’esercito israeliano è stato concesso di scatenare un diluvio di fuoco istantaneo, a costo di uccidere il soldato rapito e ogni essere vivente in un raggio abbastanza ampio. Molto criticato in particolare da Amnesty International, che ne denuncerà le “gravi violazioni del diritto umanitario internazionale assimilabili a crimini di guerra”, Israele abbandonerà il Protocollo Annibale nel giugno 2016, due anni dopo la fine della guerra, adducendo ipocritamente questioni di carattere “professionale, operativo ed etico”.


Non sapevo bene che fare. Ci ho pensato un po’, poi sono rimasta a casa. La mattina mi sono svegliata dopo aver avuto un incubo, ma non ricordavo in cosa consistesse. «Succederà una catastrofe, devo andare a Rafah a prendere papà» ho detto a mia madre. Esterrefatta, mi ha risposto che era una pazzia e che dovevo togliermi quell’idea dalla testa. Ha sospettato qualcosa quando mi ha visto uscire sulla soglia per telefonare, ma le ho giurato che sarei solo andata in ufficio. Per mettermi in viaggio con un minimo di sicurezza dovevo convincere qualche collega, un convoglio di corrispondenti esteri avrebbe corso meno rischi di essere attaccato, ma quando ho fatto l’annuncio nella hall dell’albergo dei giornalisti quasi tutti si sono defilati. Poi il corrispondente del New York Times e il suo fotografo si sono dichiarati d’accordo, allora altri si sono uniti a noi, per esempio la squadra di Al Jazeera International: non potevano certo permettere che la concorrenza ci andasse da sola!


Ci siamo stipati in quattro macchine. La strada era deserta, eravamo morti di paura. Bisognava scendere lungo la costa, poi deviare verso l’entroterra fino a Khan Yunis e da lì proseguire su una stradina interna. «Qualunque cosa succeda noi continuiamo, gli altri saranno costretti a seguirci» ho detto al collega del New York Times, ma lui non era di questo parere, così ci siamo fermati a bordo mare e abbiamo cominciato a parlamentare mentre gli aerei, che ovviamente ci avevano individuato, volteggiavano sopra le nostre teste. Arrivando a Khan Yunis ci siamo accorti che la macchina di Al Jazeera International era scomparsa, evidentemente avevano avuto troppa paura. L’autista del New York Times mi ha dato il suo giubbotto antiproiettile e il suo elmetto, un vero gentiluomo, solo che il giubbotto pesava una tonnellata! Siamo andati avanti con tre macchine, sei persone in tutto. Il tratto da Khan Yunis a Rafah era il più pericoloso. I colleghi hanno voluto fermarsi di nuovo: «Non possiamo proseguire sperando in Dio, chiediamo piuttosto informazioni a quelli che vengono da Rafah!».


Ma non c’era quasi nessuno! I pochi che passavano dicevano che eravamo pazzi furiosi e ci sconsigliavano decisamente di fare un metro di più. Alla fine abbiamo visto un giovanotto, era riuscito a tirare fuori le sorelle da Rafah e a portarle a Khan Yunis per una strada secondaria. Poco dopo è salito su una macchina ed è ripartito in direzione della città bombardata. Stufo di aspettare e tergiversare, senza chiedere niente a nessuno il mio autista ha deciso di andargli dietro! Gli altri ci hanno seguito.


Siamo riusciti ad arrivare a Rafah senza problemi, ma nel momento di entrare in città la casa davanti alla quale stavamo passando è stata colpita in pieno da una bomba. Il fotografo del New York Times è sceso a fare qualche foto, poi siamo andati a visitare un piccolo ospedale nei pressi. C’erano talmente tanti morti che li avevano allineati nel parcheggio. Comunque l’ospedale non poteva fare granché, troppa gente moriva con troppa facilità! Nel secondo ospedale in cui siamo andati i cadaveri erano nelle celle frigorifere di frutta e verdura, mentre altri aspettavano nel cortile interno. Ho visto un uomo venire avanti con la salma del figlio di nove anni in braccio, gli ho fatto qualche domanda, mi ha risposto con voce atona, poi non ho sopportato più il fetore della morte, non avevo più l’animo di parlare con i parenti delle vittime, avevo l’impressione che fossimo ladri di cimiteri. Ho preferito dedicarmi a cercare mio padre.


L’ho chiamato, ha risposto.


«Asmaa, non ho nessuna intenzione di muovermi, è troppo pericoloso!».


«Siamo un convoglio di giornalisti, è una protezione».


«Ti ho detto di no, voglio restare qui!».


Ho continuato a insistere fino a che non si è arreso. Mi ha detto di passare a prenderlo e siamo ripartiti con lui. Ho visto subito che era terrorizzato, allora mi sono messa a raccontargli storie, cose a caso, senza fermarmi. Appena ricominciava a parlare della morte e del pericolo che aleggiava su di noi gli dicevo «Almeno morirò con te, sempre meglio che da sola», poi riprendevo la storia senza capo né coda dove l’avevo lasciata: i miei zii, i dissapori tra noi, i conflitti familiari, i figli e così via fino al momento in cui ho potuto dirgli: «Guarda, papà, siamo fuori da Rafah!». In realtà siamo arrivati senza intoppi a Gaza, dove mamma ci ha accolto con immenso sollievo.

34

Una morte da un milione di dollari

La mattina dopo, il 3 agosto, mi sono svegliata alle sei e mezzo. Ho visto sul cellulare che il corrispondente del canale Al-Aqsa, la voce di Hamas, mi aveva telefonato sette volte. L’ho richiamato.


«Gli Alghoul che abitano nel quartiere Yibna a Rafah sono della tua famiglia?» mi ha domandato.


«Sì, perché?».


«Sono stati bombardati, ma non avere paura, solo quattro morti».


Sono diventata bianca come un lenzuolo. Abbiamo acceso la radio: si trattava effettivamente di miei familiari, stavano dormendo tutti nella casa della mia infanzia, ormai sbriciolata! Il numero delle vittime è salito a sei, poi a sette, a otto, alla fine a nove… Avevo i capelli dritti sulla testa. Io, mia madre e i miei fratelli ci siamo messi a piangere e gridare… E papà dormiva! Sono andata a svegliarlo e gli ho parlato con la maggior delicatezza possibile.


«Papà, la casa di zio Isma’il è stata bombardata…».


Ha aperto un occhio.


«Hanno sganciato una granata a salve sul tetto prima di bombardare?».


«No».


«Allora sono morti tutti».


Ci eravamo svegliati sulla catastrofe che avevo intuìto due giorni prima. Le vittime erano mio zio di sessant’anni, sua moglie, quattro dei loro figli e tre nipotini di cui il più piccolo, Mustapha, aveva solo ventiquattro giorni. Era uno dei due gemelli nati di recente nella famiglia. Chi aveva deciso che quello morto fosse Mustapha e quello rimasto vivo Ibrahim? Chi era riuscito a distinguerli l’uno dall’altro dopo che il padre era morto e la madre si trovava in ospedale in terapia intensiva? Quale dubbio il sopravvissuto avrebbe portato in sé per tutta la vita? Quella dei gemelli non era l’unica storia sconcertante visto che una delle mie cugine uccise, Asmaa Alghoul, si chiamava come me… Dov’erano andati i miei cugini e le mie cugine? Ci pensavo tutto il tempo. Sull’argomento ho scritto una novella intitolata “Dove sono?”. Avevano conosciuto ben pochi piaceri su questa terra, poveri com’erano! Nessuno di loro faceva parte di Hamas o di un’altra organizzazione politica. Zio Isma’il era un uomo molto pragmatico, faceva l’operaio e si procurava stock di vestiti da rivendere, aveva passato la vita a lavorare in Israele, parlava bene l’ebraico. Mi trovavo dietro il suo camion quando, da piccola, un soldato mi aveva offerto la caramella che avevo rifiutato… Due missili lanciati da un F16 avevano polverizzato casa loro. Pare che uno solo di quei missili costi mezzo milione di dollari. Sono vissuti poveri per tutta la vita in una misera casa senza fondamenta, senza cemento, senza arredi, senza niente, con un tetto di lamiera ondulata… e sono morti al costo di un milione di dollari. Che lugubre mascherata!


Tre settimane prima, al quarto giorno di guerra, ero andata a Rafah per fare ricerche su una famiglia distrutta da una granata, la famiglia Ghannam. Mi ero messa in tasca qualche cioccolatino che volevo dare a nonna Zakiyyé. Sulla strada ero passata davanti alla casa della mia infanzia e avevo visto zio Isma’il seduto davanti alla porta. L’avevo salutato e mi aveva invitato a entrare dicendo che c’era lì l’altra mia nonna, nonna Ghazalé. Avevo così incontrato per caso tutti quelli che sarebbero morti. Era Ramadan, si stavano preparando a rompere il digiuno. Si erano rifugiati lì anche un mio cugino con la moglie e i figli, perché casa loro era troppo vicina alla sempre bombardata zona dei tunnel. Ci eravamo abbracciati tutti, c’erano le cugine Asmaa e Hanadi, abbiamo riso molto… A un certo punto avevo cominciato a tirare i cioccolatini in aria e i bambini cercavano di prenderli al volo. La moglie di mio zio era uscita dalla cucina: «Ho sentito la voce di Asmaa!» aveva detto abbracciandomi. «Pazza che sei! Come hai fatto ad arrivare qui?» e mi aveva invitato a rompere il digiuno con loro, ma io avevo declinato: «Mia madre mi ucciderebbe, devo tornare subito a Gaza». Poi mi avevano annunciato una sorpresa e mi avevano portato in un’altra camera dove avevo scoperto i gemelli nati quarantott’ore prima, al secondo giorno di guerra. Non sapevo che stavo dicendo addio a loro, ai loro genitori, a tutti e anche a quella casa in cui ero cresciuta e avevo sentito per la prima volta la BBC in arabo che mio nonno ascoltava addormentandosi regolarmente… Che Dio abbia pietà di loro!


Ricordi e parole mi si accavallavano in testa e nella gola rischiando di soffocarmi! Non c’era collegamento Internet e dovevo assolutamente scrivere! Sono andata in un punto della spiaggia in cui sapevo che era possibile connettersi e ho cominciato: “Non starò zitta! Non piangerò! Scriverò, scriverò fino alla fine!”. La gente mi vedeva da lontano e veniva a farmi le condoglianze, io mi interrompevo, piangevo un po’ e mi rimettevo a scrivere. Alla fine mi è uscito l’articolo che sarà ampiamente ripreso dalla stampa estera: “Non parlatemi più di pace”. Non voleva essere uno slogan né una battuta. Ho sempre pensato che il conflitto potesse risolversi solo con la pace, ma dopo aver visto i miei parenti ammazzati in quel modo, un cugino che si era svegliato sentendo dolore alla pancia e toccandosi si era trovato con le viscere in mano, aveva chiamato il padre, poi il fratello, e non ricevendo risposta aveva capito che erano tutti morti… quando vieni a sapere particolari agghiaccianti sulla morte dei tuoi cari e continui a vederli sulle foto e sui video, di che pace puoi ancora parlare? Mi riferisco ai miei veri sentimenti, non a una posizione politica, qualunque essa sia. Di quale pace puoi parlare quando un missile cade su una famiglia addormentata che ignora di stare per morire, quando la loro casa, la mia casa che stava in piedi da sessantatré anni, quella in cui avevo letto il mio primo libro, viene distrutta in un istante? Non sarò mai favorevole alla guerra né alla violenza. Per quanto brutte, so che le guerre finiscono con una pace tra nemici, ma si tratta di una pace politica, mentre io sto parlando di una pace interiore.


Una cosa che non ho mai capito è come gli israeliani abbiano potuto approvare un governo che uccide esseri umani a sangue freddo, come abbiano potuto giustificarne l’operato. Sembra che siano diventati tutti ciechi, come se il bombardamento di Gaza e dei suoi abitanti semplicemente non ci fosse mai stato. Eppure alcuni hanno alzato la voce ed esercitato una grande influenza, per esempio Gideon Levy, giornalista del quotidiano Haaretz, un tipo formidabile. Nessun arabo ha scritto come lui! Alcuni fanatici palestinesi hanno chiesto di farlo tacere, convinti che fosse un ipocrita, solo perché non sono riusciti a credere che un israeliano potesse dire cose simili! Ho seguito giorno per giorno le cose che ha scritto e credo che purtroppo la sua voce non sia stata né abbastanza forte né abbastanza ascoltata. Ha ricevuto talmente tante minacce che è stato costretto a prendersi una guardia del corpo! Vista la sua situazione, sarei felice se venisse a vivere a Gaza! Ho sempre rifiutato di farmi intervistare da Radio Israele o da altri media israeliani, non riuscivo a parlarci, non ce la facevo e basta, ma se fosse stato Gideon Levy a chiedermi un’intervista non avrei certo detto di no.

35

Quelli che hanno vinto la guerra

Nelle prime settimane di guerra tutti sostenevano Hamas, anche gli oppositori, perfino io! “Che il diavolo si porti Israele e la finta pace che insiste a ventilarci!” pensavamo. Poi la situazione è cambiata, la gente si è messa a esprimere la stessa cosa nello stesso momento: «Ora basta, questa guerra è durata abbastanza, vogliamo vivere!». Tutti vedevano che il mondo arabo se ne fregava di Gaza e si coalizzava contro il potere islamista, il che suscitava una certa simpatia nei confronti di quest’ultimo, ma quand’è troppo è troppo. Ho postato sulla mia pagina Facebook: “È necessario che i dirigenti di Hamas prendano una decisione. Se gli israeliani sono pazzi, non è detto che dobbiamo esserlo anche noi. Non vogliamo più vedere le nostre famiglie uccise”. Le critiche che ho ricevuto per aver osato scrivere quelle parole! Anche alcuni miei amici mi hanno rimproverato. “Siete solo dei bugiardi” ho risposto, “e io non voglio mentire. Sto con la resistenza, ma sto anche con la gente e scrivo quello che sento dire: la gente non ne può più della guerra, ha bisogno di tornare a respirare!”.


Se tua figlia è in ritardo hai una stretta al cuore perché pensi che potrebbe esserle successo qualcosa. Qualsiasi genitore sa cosa vuol dire, no? Immaginate ora che quella stretta al cuore non vi lasci mai, né di giorno né di notte, per cinquanta giorni di seguito. Ecco cosa abbiamo vissuto con il fiato sospeso, i figli in pericolo, la bomba che sta per colpirli, Dio non voglia, il missile sganciato dall’aereo, la granata in quell’istante, nel successivo, fra poco, in qualunque momento… C’è una breve tregua? Nessuno crede che reggerà e la preoccupazione si decuplica. “Ci siamo, stavolta moriremo, è arrivata la nostra ora!” ci dice il cuore.


Il messaggio di Israele era: “Siamo in grado di distruggere Gaza e nessuno verrà ad aiutarvi, nessuno ci fermerà, siete alla nostra mercè”. E in effetti il mondo intero non muoveva un dito. Chi sosteneva Gaza? L’opinione pubblica egiziana e algerina, pur con moderazione, l’opinione pubblica mondiale un po’, l’ONU, le ONG, la Gran Bretagna… La più grande manifestazione in appoggio a Gaza si è svolta a Londra, nessuna nel mondo arabo, e a Parigi erano vietate! E quindi era vero, gli israeliani avevano le mani completamente libere.


Alcuni paesi arabi pensavano in cuor loro che la sconfitta di Hamas sarebbe stata la sconfitta dei Fratelli musulmani e che conveniva quindi lasciarlo sprofondare. All’interno di Hamas, invece, molti pensavano che la guerra avrebbe dato nuova forza ai Fratelli musulmani e li avrebbe fatti risorgere. In entrambi i casi era come se la gente che si prendeva le bombe non esistesse! Presi a tenaglia tra le due “opinioni”, correvamo verso la nostra rovina.


Io, che vivevo in quell’inferno, volevo solo che le bombe smettessero di caderci sulla testa, ma, quando gli israeliani sterminano un’intera famiglia nel bel mezzo di una tregua, come tutti mi viene da rispondere a suon di missili per dire “Non crediate che il nostro sangue non valga niente!”. I loro aviatori vedono le case dal cielo e neanche pensano che dentro ci sia gente che dorme! La famiglia di mio zio è solo un esempio. In una situazione del genere non riesci più a pensare in maniera logica, diventi pazzo, vedere civili innocenti uccisi così, all’improvviso, ti rivolta lo stomaco! E quando le forze di Hamas hanno cominciato a indebolirsi l’esercito israeliano è arretrato per bombardarci dall’esterno in maniera ancora più violenta. Alla fine erano solo bombardamenti aerei spaventosi.


Eppure quando le esplosioni sono cessate ho sentito una mancanza, tutti l’hanno sentita, era terribile. Come esiste un baby blues, una depressione post partum o una depressione per l’arrivo dell’inverno, così esiste una depressione postbellica. Finché infuria il conflitto la paura e il pericolo ti obbligano ad affrontarlo, a proteggerti e proteggere i tuoi cari, ma dopo? Dopo non c’è più niente da fare, e in quel momento ti assale la depressione. Allo stesso tempo la gente comincia ad avere paura che scoppi una quarta guerra, una paura profonda che dura ancora oggi.


Chi ha vinto e chi ha perso, in quell’estate del 2014? Hamas ha tirato un sasso contro Israele e Israele ha bruciato Gaza, ecco com’è andata! Cos’hanno vinto gli israeliani? La loro follia ha fatto sì che perdessero il sostegno dell’opinione pubblica mondiale per lungo tempo, ma se ne fregano, ritengono che gli Stati Uniti siano l’unico appoggio di cui hanno bisogno. Dall’altra parte, Hamas non ha ottenuto niente sul campo, la guerra è finita con Gaza in rovina e il blocco più ermetico che mai. D’altronde è possibile che Hamas non avesse alcun obiettivo “politico”. Parlo di Hamas in quanto tale, ma anche di ognuno dei suoi componenti, per il quale “resistere” significa “combattere sul campo” e ha quindi realizzato il suo obiettivo, missione compiuta! Alcuni di loro sono caduti, altri no, e i sopravvissuti hanno storie da raccontare, ricordi di lotta e di ardimento. Era la loro scelta, ma certamente non la scelta dei civili morti sotto le bombe! In sei anni abbiamo attraversato tre guerre contro Israele, è demenziale. Rispetto la “resistenza”, se vuole scatenare una quarta guerra faccia pure, ma non con il nostro sangue! Stavolta non ci sarò! Amo Gaza e amo anche i miei figli, mi rifiuto di farli vivere ancora nel pericolo costante. Il progetto di Hamas non ha niente a che vedere con me. Si è mantenuto al potere grazie alla sua tenacia politica, ma sta crollando in un altro modo, come un pallone che si sgonfia, perché la gente non lo segue più. Stiamo tutti assistendo allo spettacolo di Hamas che, malgrado l’ostinazione, perde la partita. Forse sarà triste per loro, ma noi non possiamo fare a meno di gioire di fronte al crollo di una dittatura. Tutto ha un termine. Ogni cosa che ha avuto un momento di gloria, a un certo punto non ce l’ha più. Come al-Fatah, che è finito… Così è il corso della storia. Ora Gaza aspetta il grande cambiamento, ma non sappiamo quale sarà.


Non servirà a niente continuare a giudicare Hamas secondo il metro del nostro credo liberale! Dire che sono degli assassini e fare blocco contro di loro avrà l’unico risultato di farli prosperare. Finché è libero di andare e venire, un gatto resta un gatto, ma se gli chiudi tutti le porte e le finestre diventerà una tigre furiosa! Solo con le frontiere aperte la gente può viaggiare, percorrere il mondo, conoscere donne, avere soldi e scoprire le cose meravigliose di questo pianeta. Un giorno un ex ministro dell’Interno di Hamas ha detto davanti a me: «Libereremo l’Europa dalla corruzione». Il tapino ci credeva davvero! Gli sarebbe bastato fare un salto in Europa per guarire dalla sua idiozia!


Insomma, hanno perso tutti? Non proprio. Da quando i cannoni hanno smesso di tuonare vedo di nuovo la gente uscire, le coppie camminare per strada e ridere, anche se non hanno più casa. Guardano in televisione il nuovo Arab Idol e cercano di dimenticare. Stanno bene! C’era una guerra ed è finita, ed è come se ogni guerra offrisse loro una nuova vita. La tempesta di fuoco ha insegnato loro cosa significhi sopravvivere e come convivere con il dolore e la morte fino al limite estremo. A vederli così sembrano calmi e tranquilli, ma è il loro modo di resistere. Né Israele né Hamas sono riusciti a rubare le loro vite. Siamo il popolo che subisce le avversità peggiori e cicatrizza le ferite più rapidamente di tutti. Pur piagati, il giorno dopo ci ritroviamo in piedi e pensiamo a uscire e a come truccarci, pensiamo all’amore… I conservatori ci criticano aspramente per questo, senza capire che è la reazione vitale di quelli che hanno visto la morte in faccia. Vogliamo vivere la vita come abbiamo vissuto la morte, all’estremo. Gaza è sempre stata ribelle, da Sansone in poi. Nessuno è mai riuscito a governarla per più di vent’anni. È una città folle, cocciuta, che dà dipendenza. Io ne sono la figlia e sono fatta come lei. L’ho vinta io questa guerra, l’hanno vinta i miei figli e i figli di Gaza, perché siamo ancora vivi e ho addosso un vestito rosso!