Mia mamma diceva, quando il chiasso vociante era al massimo in casa: "ma basta insoma" in dialetto mantovano.
mercoledì 26 febbraio 2025
TRUMP È IL SINTOMO NON LA CAUSA DI UNA DEMOCRAZIA MALATA Filippo Piperno
DONALD TRUMP È IL SINTOMO NON LA CAUSA DI UNA DEMOCRAZIA MALATA
Filippo Piperno
Si potrà mai perdonare gli americani per aver consegnato le chiavi della più potente e delicata carica del mondo a Donald J. Trump?
Per aver eletto come principale leader del cosiddetto mondo libero un signore che aveva già abbozzato un colpo di Stato, che aveva già provato a ribaltare con il dolo il risultato delle elezioni, che aveva dato prova di essere un pericoloso filibustiere “pronto a tutto”? Un re folle circondato da un gruppo di vassalli ancora più consapevoli di lui nell’idea di scardinare gli ingranaggi della più antica democrazia dell’era moderna.
E non mi sto riferendo agli elettori MAGA, naturale bacino di voti trumpiani che incarnano quella larga fetta di odiatori e risentiti di ogni epoca e ogni luogo, abusivi della democrazia che della democrazia sfruttano i diritti e le libertà, con l’intento dichiarato di comprimere e piegare a loro piacimento quei diritti e quelle libertà.
Una diffusa opinione pubblica criptofascista estesa a tutto l’Occidente che, anche grazie all’onda d’urto del ritorno di Trump, non ha più molte remore nel presentarsi sempre meno cripto e sempre più fascista. Con annessi saluti romani di qualche loro leader più esuberante.
Io mi riferisco a quell’elettorato moderato e di opinione – essenziale per vincere qualsiasi elezione – che si è accodato a questa orda di risentiti col forcone, baloccandosi nell’insofferenza per il politicamente corretto e per le altre dabbenaggini portate avanti da una sinistra, tanto snob nella difesa di diritti sempre più sofisticati e arzigogolati quanto sempre più lontana dalle istanze elementari della società contemporanea.
Un elettorato che, con la testa all’arroganza del woke, alle ridicole ma pervasive istanze della cancel culture, avrà deciso di votare Trump turandosi il naso e negandosi così la possibilità di avvertire il lezzo emanato da un aspirante autocrate che non aspettava altro che poter attuare il suo programma con il viatico di un mandato popolare.
Ovvero quello che, prima di lui, avevano già fatto altri autocrati a cominciare da Mussolini e Hitler che arrivarono al potere tramite il voto popolare. Anche in quei casi aiutati dalla litigiosa irresponsabilità di forze politiche che avrebbero dovuto vigilare sulla tenuta di società sempre più ipnotizzate dall’autoritarismo carismatico e che invece si votarono al suicidio.
D’accordo, Trump non è e non potrà mai essere un dittatore novecentesco (ma sospetto che non gli dispiacerebbe). E gli Stati Uniti non sono l’Italia e la Germania del primo dopoguerra. Ma, su scala diversa, i danni prodotti da questa imperdonabile leggerezza si stanno rivelando molto più gravi di quanto immaginato da questo incauto elettorato.
E dirò di più: aver concesso una seconda occasione a Donald Trump rappresenta una macchia indelebile per tutta la democrazia americana e non solo per chi lo ha votato. Perché una democrazia che dimostra di non avere più un sistema immunitario capace di rigettare soluzioni demagogiche, autoritarie e francamente pagliaccesche come quelle di Trump è una democrazia malata.
Una democrazia che consente a Elon Musk, un sudafricano suprematista divenuto l’uomo più ricco del mondo, di entrare da padrone nello studio ovale della Casa Bianca con un chiaro intento predatorio, che utilizza la sua posizione di “primo elettore” di Trump per minacciare non solo il sistema democratico degli Stati Uniti ma anche quello di altri stati sovrani è una democrazia che ha già perso il suo status democratico e liberale.
E la perdita di ogni bussola è tale da farmi sospettare che qualcuno tra le migliaia di impiegati pubblici che l’imprenditore Musk – divenuto grazie a Trump un boiardo di Stato – ha deciso di licenziare in tronco, abbia votato Trump.
L’americano che oggi si ritrova con un presidente che bullizza le democrazie sue alleate mentre flirta con i dittatori, disintegrando in pochi giorni un equilibrio di alleanze basato su valori comuni e lungo quasi un secolo, deve farsi più di una domanda.
E molte domande dovrebbe farsele anche il partito Repubblicano, il fu Great Old Party, che già nel 2016 si era opportunisticamente consegnato armi e bagagli ai successi elettorali di Donald Trump, dopo averlo troppo blandamente osteggiato.
Cosa immaginava il notabilato americano, che oggi per lo più tace per la vergogna, di fronte alla deliberata messa alla berlina dei principi costituzionali che avevano fatto degli Stati Uniti un modello per tutte le democrazie del mondo?
Cosa credevano? Che il mandante politico e morale dell’assalto al Campidoglio si fosse redento? Che Trump, obnubilato dal suo delirio autocratico, avrebbe lasciato correre dopo la sconfitta elettorale del 2020. Che ha continuato per quattro anni ad attribuire ad un complotto e ai brogli elettorali?
E poco importa, in questo frangente, quale sarà l’epilogo del progetto di “liberazione” che, espresso come ha fatto Trump alla convention dei conservatori americani: “Stiamo liberando il Paese. Ci è stato dato un mandato per cambiare le cose a Washington”, tradisce l’obiettivo di epurare in modo sistematico chi non si allinea alle parole d’ordine dell’amministrazione presidenziale. Come da consolidato modus operandi autoritario.
Anche se fallisse, per un auspicabile sussulto di buonsenso, gli americani dovrebbero comunque fare i conti con quest’incubo distopico che hanno consentito si trasformasse in realtà.
Perché il problema non è Donald J. Trump ma la bancarotta morale e politica che gli ha consentito di diventare – per la seconda volta – il presidente degli Stati Uniti d’America.