FURORE
John Steinbeck
Bompiani, Milano 1940
Titolo originale: THE GRAPES OF WRATH
Traduzione di CARLO COARDI
Copyright 1939 John Steinbeck
INDICE
FURORE: IL TEMPO, LA SOCIETA' 3
FURORE 10
JOHN STEINBECK: LA VITA, I LIBRI
FURORE: IL TEMPO, LA SOCIETA'.
"Il New Deal e lo stato dell'economia".
L'espressione New Deal, nuovo sistema, ha origine da una dichiarazione di Franklin Delano Roosevelt, durante la sua campagna elettorale per la presidenza: «... Io impegno voi, e impegno me stesso, a un nuovo sistema per il popolo americano.» Nel suo primo messaggio da presidente, disse ancora: «Lasciatemi proclamare la mia ferma convinzione che la sola cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura stessa. I mercanti sono fuggiti dal tempio della nostra civiltà. Possiamo adesso restituirlo alle antiche verità.»
La paura aveva tutti i motivi di regnare sugli Stati Uniti. Il giorno in cui Roosevelt si insediò alla presidenza, il 4 marzo 1933, si trovò di fronte una crisi disastrosa. Quella mattina le banche di Chicago e di New York, i centri gemelli del capitalismo americano, chiusero i battenti, seguendo l'esempio dato il mese prima da tutte le altre banche del paese. Il sistema bancario era completamente crollato sotto il peso del ritiro dei depositi da parte dei clienti presi dal panico. I disoccupati erano tra i 12 e i 15 milioni, un quarto dei lavoratori di tutta la nazione. Il commercio con l'estero era ridotto di un terzo. L'industria lavorava al 40% soltanto del suo potenziale. Le già gravi sperequazioni della società americana s'erano aggravate: il 60% delle famiglie aveva redditi inferiori ai 2000 dollari annui, un livello di stenta sopravvivenza; il 5% della popolazione, che godeva dei redditi più alti, incassava un terzo di tutto il reddito individuale. In tutte le regioni agricole stava per scoppiare la rivolta: in tre anni i contadini avevano visto il prezzo di mercato dei loro prodotti ridotto della metà e i loro redditi ridotti di due terzi, mentre le banche, cercando disperatamente di salvare qualcosa dall'incalzante naufragio, ostacolavano il riscatto delle ipoteche sulle terre. Le comunità agricole del West, già tormentate dalla siccità che aveva del tutto inaridito le Grandi Pianure, erano investite da gennaio da un fortissimo vento che, partito dal Texas occidentale e attraversando poi il Kansas, soffocava le regioni sotto un mare di sabbia. Nuvole di polvere bloccavano trasporti ferroviari e aerei, rendevano impraticabili le strade, annegavano le fattorie, si insinuavano in elettrodomestici, mobili e polmoni umani: nel 1935 avrebbero ridotto la zona a una deserta desolazione lunare. L'apparato dell'assistenza (dello Stato, delle città e dei privati) era venuto meno. Herbert Hoover, il presidente uscente, repubblicano come Coolidge e Harding che avevano per dieci anni governato l'America negli anni Venti logorandosi nel lungo esercizio del potere, s'era dimostrato incapace anche soltanto di affrontare i problemi. Lo spettro della lame si faceva concreto, Molti erano convinti che la rivoluzione fosse imminente.
«Il paese,» aveva dichiarato Roosevelt, «ha bisogno e, se non mi inganno sui suoi umori, chiede una coraggiosa e tenace sperimentazione.» Eletto presidente, iniziò a dargliela. Il Congresso venne convocato in una sessione speciale che durò cento giorni, e con grande rapidità trasformò in leggi tredici importanti provvedimenti tra cui una legge d'emergenza per le banche, un'altra legge di emergenza per i soccorsi federali, una legge per la ripresa dell'industria nazionale, una legge per il risanamento dell'agricoltura, una legge sulle ipoteche per la terra, e la ratifica della fine del proibizionismo («Penso sia arrivato il momento di bersi una birra», fu la battuta di Roosevelt). Usando appieno i poteri conferitigli in base a queste leggi, il presidente procedette a creare numerosi enti esecutivi per l'attuazione del programma d'emergenza. C'erano la National Recovery Administration, l'Agricoltural Adjustement Administration, la Public Work Administration, il Civilian Conservation Corps (che avrebbe provveduto a togliere due milioni e mezzo di ragazzi senza lavoro dalle strade delle città per realizzare un vasto programma di rimboschimento) e la Tennessee Valley Authority (che costruì e gestì per conto del governo federale numerose dighe, risanando un'area immensa di campi in rovina e generando energia elettrica a buon mercato). L'opera di salvataggio ebbe successo, e offrì l'occasione per realizzare riforme da tempo necessarie.
Il sistema bancario fu riorganizzato e il controllo della finanza nazionale passò da Wall Street a
Washington. Nel 1936 fu instaurato un sistema di assicurazioni contro la disoccupazione e di pensioni per la vecchiaia garantito dal governo federale. Venne preparata la legge che nel 1938 avrebbe stabilito i minimi salariali e i massimi di ore lavorative. Fu sancito il diritto dei lavoratori ad avere organizzazioni proprie e contratti collettivi: diritto che i lavoratori si conquistarono a prezzo di lotte sindacali durissime e scioperi violenti. Una Securities and Exchange Commission tentò di risanare il mercato borsistico. La disoccupazione diminuì, ma non scese mai al di sotto del 10% della forza-lavoro (toccando anzi nel 1938 livelli del 19%) e mai al di sotto dei 10 milioni di unità. Le spese del programma governativo contribuirono a far uscire il paese dalla depressione, ma nel 1937 la paura dell'inflazione suggerì provvedimenti deflazionistici e provocò una nuova recessione nel 1938: fu soltanto il livello delle spese imposte dal riarmo a riportare dopo il 1940 una certa base di prosperità. Dall'esperienza del primo periodo del New Deal, Roosevelt avrebbe potuto ricavare una linea politica. Non lo fece. Profondamente conservatore, egli aveva inteso come suo compito la salvezza del sistema americano, la lotta contro le sinistre portatrici di altri sistemi. Roosevelt cambiò e rafforzò assai notevolmente la funzione e il ruolo del Presidente, accentrando in quella figura la soluzione di tutti i problemi politici. L'attività torrenziale del primo periodo del New Deal e del suo primo mandato presidenziale gli giovò moltissimo in questo senso, ed egli la sfruttò con infinita ingegnosità. Il presidente faceva sempre notizia, era sempre sulla prima pagina dei giornali: e Roosevelt seppe tenersi amici i giornalisti alle conferenze stampa informali che si svolgevano due volte la settimana. Con le «chiacchierate accanto al caminetto», alla radio, portò se stesso e il suo messaggio in milioni di case. Quasi ogni anno, fino alla guerra, viaggiò in lungo e in largo attraverso l'America; centinaia di migliaia di persone videro coi propri occhi il suo gran sorriso, il bocchino tenuto elegantemente tra le dita, il pince-nez, il naso forte, la mascella sporgente che fotografie e vignette avevano già reso familiari. Nel 1936 venne rieletto da quella che era fino a quel momento la più alta maggioranza popolare nella storia americana (27.476.673 voti contro i 16.679.583 dell'avversario), assicurandosi tutti gli Stati tranne il Vermont e il Maine. La sua maggioranza al Congresso arrivò ad altezze record. La sua lotta accanita contro la Corte Suprema (che, baluardo dei conservatori della nazione, aveva in quegli anni annullato alcune tra le più importanti leggi emesse nell'ambito del New Deal) conobbe sconfitte cocenti, ma riaffermò la convenzione costituzionale secondo cui essa Corte Suprema doveva mostrare moderazione e non invalidare con disinvoltura le leggi approvate dal Congresso e dal Presidente. Il New Deal, ricordato oggi come una saga paragonabile soltanto a quella dei pionieri, salvò il sistema capitalistico americano e stabilì quel potere autocratico del Presidente, che soltanto nel caso di Nixon è stato rimesso in discussione.
"Letteratura della crisi".
Gli effetti disastrosi della crisi colpirono naturalmente anche la letteratura. Fu come un terremoto che sancisse la fine di un lungo tirocinio. Dal terremoto emerse la generazione della depressione convinta di avere ristabilito il senso della realtà e che tutta l'esperienza precedente, alla fosca luce dei terrori e dei doveri di quegli anni, fosse da giudicare insignificante. Il fatto stesso di scrivere, nel 1930 pareva imporre dei nuovi obblighi ed elargire dei nuovi diritti nei riguardi della storia. Il nuovo romanziere sociale si arrese incondizionatamente al naturalismo e, attraverso il naturalismo, arrivò spesso al comunismo.
«Fino al 1930, anno in cui gli scrittori cominciarono ad affluire verso il partito comunista e verso le sue numerose filiali con un ardore così impetuoso e insieme così sottomesso da stupire gli stessi dirigenti, la letteratura proletaria fu un'astrazione che aveva un significato solo in quanto era un'arma politica,» scrive Alfred Kazin ne "La Nuova Terra, storia della letteratura americana" (Longanesi editore). «La letteratura della classe lavoratrice, che in America era stata rappresentata un tempo dai canti dei "wobblies" composti da Joe Hill e dalle poesie di Arturo Giovannitti, nonché dai romanzi di Jack London e di Upton Sinclair, negli anni dopo il 1920 si era ridotta alla critica marxista di Michael Gold, di V. F. Calverton e di Joseph Freeman, divenendo apertamente un metodo dottrinario, piuttosto che un movimento letterario. Durante quegli anni, che in Russia corrisposero al periodo intercorso fra la morte di Lenin e il definitivo insediamento di Stalin al potere, anche in America lo stesso partito comunista fu alternativamente dominato da gruppi di tendenze opposte in lotta per il potere e in breve il nostalgico socialismo letterario del periodo di Greenwich Village non fu più che una dolce memoria. Nel 1918 era morta la rivista "The Masses", nel 1924 "The Liberator", e quando nel 1926 fu fondata "The New Masses", essa annoverò fra i suoi redattori ufficiali e collaboratori un gruppo di persone così disparate da comprendere Mickael Gold,
Louis Untermeyer, Freda Kirchwey, John Dos Passos ed Edmund Wilson...»
«... Furono troppi gli scrittori felici di sottomettersi, specialmente se, fino al momento della loro conversione, avevano pensato a Karl Marx come a un tedesco dell'Ottocento barbuto e noioso. Erano rimasti così storditi dalla crisi, erano così lamentosamente desiderosi d'un nuovo e solido concetto di cambiamento, che la povertà manifesta o la disperazione degli altri credi li conduceva direttamente al comunismo. Il bolscevismo era ferreo, aggressivo, energico, e aveva un programma, e la letteratura proletaria, anche se i proletari ben di rado ne sentivano parlare, né certo l'avrebbero mai gustata, conteneva la promessa di una nuova società, per non dire di una nuova letteratura, che avrebbe offuscato qualsiasi altro periodo della storia letteraria americana. Di fronte al crollo mondiale del capitalismo, perfino nell'ardore letterario del socialista della classe media risuonava potente il diapason della salvezza e le linee nette e profetiche della teoria marxista, che così inoppugnabilmente si applicavano a tutti i campi della demoralizzazione contemporanea, davano un inesauribile senso di certezza della vittoria. Una filosofia della classe lavoratrice stuzzicava tutti gli istinti democratici locali degli scrittori americani, rinforzandoli entro uno schema di idee che appariva logico e che aveva urgente importanza internazionale. Che cosa importava se H. L. Mencken sogghignava e se ben pochi buoni scrittori rimanevano a lungo nel campo comunista? In quegli anni subito dopo il 1930, il fatto che un autore fosse marxista conferiva alla sua opera una dignità nuova e una serietà che la nobilitava...»
«... Per tanti scrittori di quel periodo, l'attrattiva dell'avventura letteraria comunista derivava dalla confusione di due distinte entità: la speranza di una maggiore democrazia economica e sociale in patria, e l'influenza di un paese che non aveva mai conosciuto democrazia. Questo fatto che divenne tragico dopo il patto nazi-sovietico e la 'grande illusione', apparve chiaro dopo il 1935, quando il partito comunista, cercando di formare un fronte unico contro il fascismo, lasciò deperire la letteratura proletaria, interessandosi (come aveva fatto osservare Philip Rahv) piuttosto degli autori che dei libri. Ma chi fra questi scrittori avrebbe potuto prevederlo subito dopo il 1930, allorché i comunisti profetizzavano la rivoluzione imminente e lavoravano in suo favore, e lo zelo informe dei convertiti trovava la sua espressione in una letteratura a base di declamazione, di satira slacciata, d'intensa fiducia nell'avvenire e di copertine di "New Masses"? Allora non aveva importanza che il loro radicalismo consistesse soltanto in un populismo letterario; una sensibilità nuova e più calda era all'ordine del giorno, Lincoln Steffens aveva visto il futuro, ed era un futuro che 'lavorava'. La Russia, nel periodo del grande ottimismo, appariva qualcosa di più che un grande esperimento sociale: era una forma di terapia letteraria. Quando Ella Winter era in Russia, Steffens le scrisse: 'Prendi tutto: tutto fuorché i particolari. Lascia che la Russia ti elevi lo spirito e te lo purifichi. E' meglio essere una rivoluzione che vederla, e la Russia può farti avanzare di secoli nella civiltà. Può farti arrivare d'un balzo fin dove è arrivata lei, e poi mostrarti il futuro... La Russia è tutto quello di cui mancano Dorothy Parker, Hem, Dos Passos e tutta la scuola dei giovani. Loro lo cercano nell'alcool e lo trovano nel cinismo. Tu puoi trovarlo com'è nella forma viva di un popolo al lavoro, in una religione. Fede, speranza, libertà di che vivere: la Russia non ha bisogno dell'alcool...' Dos Passos, scrivendo in "New Masses" nel 1930, lanciò un appello commovente agli scrittori esortandoli a destarsi, a prender coscienza delle condizioni in cui si trovava l'umanità e a spogliarsi di quell'irresponsabilità cinica, che era stata così di moda nel decennio precedente...» E' indubbio che John Steinbeck accolse nel modo più convinto l'invito di Dos Passos, che non era un convertito dell'ultima ora e aveva un senso scrupoloso e passionale dei valori umani, per cui vedeva una letteratura sociale militante come conseguenza inevitabile e irrimandabile della depressione.
"Nelle campagne".
Leggiamo in "Roosevelt e il New Deal 1932-1940" di William E. Leuchtenburg (Laterza editore): «Roosevelt rivelò assai maggior entusiasmo per i piani chimerici miranti a trasferire in campagna gli abitanti dei quartieri malsani, che non per i progetti di risanamento urbano.» «Il presidente,» ha scritto Tugwell nel 1954 sulla rivista "Ethics", «era sempre stato convinto, e sempre lo sarebbe rimasto, che la gente stesse meglio in campagna, e che la situazione delle città fosse quasi senza speranza...» Roosevelt, che da governatore dello stato di New York aveva fatto esperimenti per associare l'agricoltura all'industria fondando un «gruppo agricolo-industriale», incaricò il senatore Bankhead di approntare una proposta di stanziamento di fondi, in base al NIRA, per la creazione di villaggi autosufficienti. Secondo il capo della "Subsistence Homestead Division", M. L. Wilson, questi programmi erano «un movimento di classe media, per gente selezionata, non per la crema e neppure per la feccia», e cioè per americani che non fossero dei «patiti della luce elettrica», e che si sentissero degli «isolati nell'èra dell'industria e del jazz». Il New Deal costruì circa un centinaio di comunità, per lo più colonie esclusivamente agricole come Penderlea Homesteads nella North Carolina, oppure villaggi operai autosufficienti come Austin Homesteads nel Minnesota. L'esperimento che più colpì l'opinione pubblica fu quello di Arthurdale presso Reedsville, nella zona depressa dei bacini carboniferi montani della West Virginia. Arthurdale fu una mania personale di L. Howe e della signora Roosevelt, la quale vi spese migliaia di dollari di tasca propria, e si risolse in un costoso fallimento. «Abbiamo gettato via il denaro laggiù come marinai ubriachi,» si lamentò Ickes. Sebbene i dirigenti del movimento fossero convinti di offrire alla gente l'agognata possibilità di fuggire i mali di una volgare società industriale, i villaggi che riuscirono meglio furono proprio quelli che - come El Monte presso Angeles e Longview nella valle del fiume Columbia - assunsero presto il carattere di una qualsiasi comunità suburbana. Appena scomparsa all'orizzonte la nube minacciosa dei primi anni della depressione, la gente si affrettò a tornare al suo «vero» mondo, all'animazione delle vie cittadine. Palesemente sperimentale e utopistico, il movimento dei villaggi autosufficienti si presentò ben presto come ricerca di un'arca in cui rifugiarsi, e cioè proprio come un residuo della disperazione dei primi anni '30.
«Ironia della sorte, proprio nel momento in cui il New Deal stava celebrando il suo idillio rurale, il paese cominciava a rendersi conto dello squallore della vita dei campi,» racconta Leuchtenburg nel volume già citato. «I romanzi di Erskine Caldwell (specialmente "Tobacco Road", che divenne, nella versione teatrale, uno dei grandi successi di Broadway), libri come "You Have Seen Their Faces", dello stesso Caldwell e di Margaret Bourke White, che mostrava le immagini del contadino con i suoi figli rachitici, i suoi cani rognosi, la moglie precocemente invecchiata, l'umano "Let Us Now Praise Famous Men" di James Agee, illustrato con fotografie di Walker Evans, e corrispondenze giornalistiche come quelle del 1935 di Frazier Hunt sul "World-Telegram" di New York, contribuirono ad aprire gli occhi della nazione sulle miserie dei lavoratori della terra. Hunt scrisse che i braccianti del Sud gli rammentavano i coolies cinesi da lui visti al lavoro lungo la ferrovia della Manciuria meridionale, con la differenza che in Cina non si vedevano bambini nei campi. Erano gente che 'sembrava appartenere a un paese diverso dall'America che conoscevo ed amavo'. Il New Deal non poteva essere biasimato per il sistema sociale che aveva ereditato, ma la sua politica peggiorò le cose. La riduzione delle colture di cotone promossa dall'A.A.A. cacciò dalla terra i fittavoli e i braccianti, mentre i proprietari, con la connivenza dei comitati locali dell'A.A.A., in cui dominavano, defraudavano i fittavoli della loro giusta quota di profitto. Quando Norman Thomas e altri richiamarono l'attenzione di Roosevelt su questi abusi, il presidente raccomandò di avere pazienza. Aveva già abbastanza da fare per dirigere quel vasto processo di mobilitazione con cui sperava di riportare la prosperità nelle campagne, e non aveva nessuna intenzione di rivoluzionare i rapporti sociali nel Sud. Persino gli spiriti più audaci del New Deal temevano di compromettere il resto del programma irritando potenti senatori conservatori come Joe Robinson dell'Arkansas. Fu nell'Arkansas che mezzadri e braccianti, esasperati dai metodi brutali dei proprietari e dei comitati dell'A.A.A., fondarono, nel luglio 1934, la "Southern Tenant Farmers' Union". Diretti da socialisti, i contadini, negri e bianchi (alcuni dei bianchi erano stati membri del Ku Klux Klan) si organizzarono sindacalmente nella regione intorno a Tyronza. I proprietari reagirono col terrorismo. 'Capoccia a cavallo' diedero la caccia ai sindacalisti come a schiavi fuggitivi; membri del sindacato vennero frustati, gettati in prigione, presi a fucilate, ed alcuni anche assassinati. La moglie di un mezzadro di Marked Tree scrisse: 'Abbiamo fatto la guardia alla casa e siamo stati all'erta fino all'esaurimento; non c'è una legge che ci protegga. Loro e i proprietari si sono tutti dati alle cavalcate notturne... hanno sparato contro alcune case e hanno minacciato il nostro sindacato e vogliono impedirci di riunirci nel municipio.' Interrogato da un giornalista sugli episodi di violenza, un tale rispose: 'Abbiamo avuto una situazione piuttosto seria, qui nell'Arkansas, per questa mania di dar del <signore> ai negri e di fargli credere che il governo gli darà quaranta acri di terra a testa.' Ancor più tragica era l'esperienza dei contadini costretti a emigrare. Abbandonando sui trattori, le loro terre, molti 'Arkies' e soprattutto 'Okies', le cui fattorie erano state spazzate via da tempeste di sabbia, si dirigevano ad Ovest verso gli aranceti e i campi d'insalata della costa del Pacifico. Alla fine del decennio, un milione di questi emigranti, nomadi senza un centesimo, in carovane interminabili di vecchie automobili zeppe fino a scoppiare di biondi bambini seminudi, erano dilagati nelle piccole città dell'Oregon e del Washington e si spingevano ora nelle vallate della California. Con le loro Hudson impolverate che procedevano traballando verso occidente lungo la Highway 66, i Joads descritti da John Steinbeck in "The Grapes of Wrath" simboleggiavano migliaia di americani sradicati dalle loro fattorie, in marcia verso le terre dei fiori di loto dell'Ovest dove una volta giunti al termine della loro sfibrante odissea, sarebbero affogati in un mare di manodopera a buon mercato, sfruttati dai grandi proprietari di frutteti, braccati dagli sceriffi, portandosi dietro la loro miseria come un marchio d'infamia.»
Negli uffici del dipartimento dell'Agricoltura Jerome Frank e i suoi alleati difesero la causa dei mezzadri e dei fittavoli privi di rappresentanza politica. Il direttore dell'A.A.A., Chester Davis, si dimostrò sensibile alle loro idee, anche se, come il suo predecessore Peek, era convinto che il principale scopo dell'ente fosse quello di rimettere in sesto l'agricoltura e non di rivoluzionare la struttura sociale delle campagne. Davis sostenne persino, nonostante le proteste dei piantatori, che il contratto del 1934-35 per l'industria del cotone dovesse fare obbligo al proprietario di tenere sui suoi terreni lo stesso numero di fittavoli che c'erano nel 1933. Ma per il gruppo di Frank non era ancora abbastanza. Lager Miss, dell'ufficio legale, stese una memoria, approvata da Frana, che imponeva ai piantatori di tenere i medesimi individui come fittavoli per tutta la durata del contratto, e Frana fece circolare la nuova direttiva mentre D'AVIS si trovava fuori città. Al suo ritorno, D'AVIS l'abrogò, e, inferocito contro i riformatori, chiese una resa dei conti. Con l'appoggio di Roosevelt e di Fallace, egli fece piazza pulita nell'ufficio legale ed estromise Frana, Garrendo Jackson, Lee Pressman, Frank Shea e Frederic Howe. Hiss, che stranamente non figurava sulla lista nera di Davis, si dimise. I liberali considerarono la «purga» della fazione di Frank come la fine di un'èra, il trionfo dei piantatori e delle industrie di trasformazione su coloro che auspicavano una l'apertura sociale nella politica agricola».
Nell'aprile 1935, poco dopo la cacciata del gruppo di Frank, il presidente Roosevelt creò la "Resettlement Administration" per rimediare alla miseria delle campagne, e chiamò a dirigerla il capo dei fautori di riforme agrarie, Rexford Tugwell. La R.A. riprese i programmi di risanamento agricolo che Harry Hopkins aveva iniziato con la FERA, come pure i programmi per la creazione di comunità agricole autosufficienti. Tugwell aveva scarsa simpatia per queste colonie, considerandole un anacronismo: il suo ideale erano le città lasciate da una «cintura verde». Ne costruì tre - presso Washington, D.C., Cincinnati e Milwaukee - interamente nuove, situate presso le fonti di occupazione e circondate da alberi e prati. Queste comunità cinte di verde, che rispecchiavano la concezione della città-giardino propugnata dall'inglese Ebenezer Howard, e l'esperimento compiuto dagli urbanisti americani a Radburn, nel New Jersey, fecero più colpo sui visitatori stranieri di qualsiasi altra realizzazione del New Deal, se si eccettua la T.V.A. Il principale compito di Tugwell non era quello di fondare comunità, ma di reinsediare la popolazione agricola; egli cercò di togliere gli agricoltori impoveriti dalle zone submarginali e di farli ricominciare daccapo su terra buona, con attrezzature adeguate e sotto la guida di esperti. Ma non poté mai disporre del denaro sufficiente per fare cose di un certo rilievo. La R.A., che progettava di trasferire 500 mila famiglie, in effetti ne reinsediò soltanto 4441. Procedendo su scala così esigua, era escluso che si potesse risolvere il problema dei mezzadri e dei fittavoli. Alcuni dirigenti del Sud, preoccupati anche dalla minaccia costituita da Huey Long, avevano cominciato a capire che occorreva un'azione più energica. Un gruppo di riformatori umanitari del Rosenwald Fund avanzò a un certo punto una proposta (redatta dal professor Frank Tannenbaum) che andava incontro ai fittavoli del Sud, e di cui il senatore Bankhead dell'Alabama si fece patrono. Il disegno di legge Bankhead, presentato per la prima volta nel 1935, si prefiggeva di aiutare fittavoli e braccianti a diventare proprietari; esso rifletteva la fede nel sogno jeffersoniano del piccolo coltivatore diretto e insieme la simpatia di Tannenbaum, uno specialista dell'America Latina, per l'esperimento messicano di trasformare i "peones" in contadini proprietari. I conservatori del Sud protestarono che la proposta era rivoluzionaria, e i radicali dissero che sarebbe servita soltanto a creare una casta contadina simile a quella dei "nobel Bauern" di Hitler. Ma quando nel 1937 essa ricevette la benedizione dello "Special Committee on Farm Tenancy" nominato dal presidente, il Congresso diede rapidamente la sua approvazione.
In base al "Farm Tenancy Act del 1937", un nuovo ente, la "Farm Security Administration", sostituì la R.A. e concesse agli agricoltori prestiti per il risanamento agricolo, accordò mutui a lunga scadenza e a basso interesse a famiglie scelte di fittavoli perché acquistassero poderi di congrue dimensioni, e venne in aiuto ai lavoratori stagionali creando una catena di accampamenti, igienici e bene amministrati, dove trovavano sistemazione te correnti migratorie. La F.S.A. fu il primo ente a fare qualcosa di concreto per i contadini: alla fine del 1941 aveva speso più di un miliardo di dollari, buona parte dei quali, tuttavia, in forma di mutui che dovevano essere restituiti. Dischiuse nuovi orizzonti contribuendo al lancio di cooperative per l'assistenza medica e attirò su di sé l'ira dei commercianti cerealicoli delle «città gemelle» prestando denaro a cooperative per l'acquisto di silos. Rischiando continuamente di rovinarsi sul piano politico, fu di un'equità scrupolosa nei confronti dei negri. Eppure, nonostante tutto, non fu all'altezza dei suoi compiti. A ben guardare, il principale vanto della F.S.A., e cioè la percentuale estremamente alta di mutui che le venivano restituiti, conferma che essa non intervenne veramente a fondo nel problema della miseria agricola. La F.S.A. non aveva un elettorato politico - braccianti e lavoratori stagionali erano spesso privi del diritto di voto o politicamente amorfi - mentre i suoi nemici (specialmente le grandi società agricole affamate di manodopera a buon mercato, i proprietari terrieri del Sud ostili agli aiuti forniti ai fittavoli) avevano una rappresentanza potente al Congresso. Gli avversari mantennero gli stanziamenti in favore della F.S.A. a un livello talmente basso, che essa non fu mai in grado di attuare un programma su vasta scala. «Nell'inverno 1939, sebbene le grandi peregrinazioni avessero già superato il loro momento culminante, si vedevano ancora famiglie che si stringevano intorno ai falò lungo le carrozzabili dell'Ovest. La stazione di servizio, punto d'incontro fra gente stabile e gente errabonda, faceva da palcoscenico all'epopea della depressione», scrive sempre Leuchtenburg in "Roosevelt e il New Deal". «Qui si fermavano i Joads nel loro cammino verso Occidente sulla Highway 66; qui facevano rifornimento i pullman transcontinentali in tutto un ciclo di film di solitari vagabondaggi. Se nel romanzo tipico degli anni '20 l'eroe va alla stazione ferroviaria della cittadina di provincia per salire sul treno che dovrà portarlo alla metropoli piena di promesse, nel romanzo tipico degli anni '30 egli è lasciato solo su una strada di grande comunicazione a chiedere un passaggio per una destinazione sconosciuta. Alla fine di "U.S.A.", di Dos Passos, il giovane Vag se ne sta, affamato e con i piedi doloranti, sul ciglio di una strada, senza speranza o meta alcuna salvo quella di andare 'un centinaio di miglia più avanti'. Man mano che gli anni della depressione passavano, il disoccupato si abituava ad una sorta di moto perpetuo senza scopo, come la musica ossessiva della più popolare canzone di quegli anni, come i ballerini delle gare di resistenza che si agitavano come automi sulla pedana, esausti e appena capaci di muovere le membra, come i ciclisti delle 'sei giorni' che pedalavano senza posa sulla pista ovale, ipnotizzando gli spettatori con la monotonia dei loro giri...»
"Tutto quello che vive è sacro".
«John Steinbeck è nato anche lui in California, e si è occupato della California più di ogni altro scrittore del gruppo. I suoi romanzi ci offrono della Salinas Valley una rappresentazione approfondita e rigorosa, che non ha l'uguale nella nostra letteratura recente, se si eccettua la vasta esauriente indagine dello stato del Mississippi compiuta da Faulkner. E che cosa ha trovato Steinbeck in questa regione che conosce così bene?» si domanda Edmund Wilson nel saggio «I californiani» ("Saggi letterari 1920-1950", Garzanti, Milano 1967) e si risponde. «Secondo me il suo virtuosismo tecnico mette un po' in ombra i suoi temi. Steinbeck ha pubblicato otto romanzi che, per il loro diverso impianto, danno come l'illusione d'essere stati scritti da vari punti di vista. "Tortilla Flat" è un idillio comico, con una semplicità quasi da racconto popolare; "In Dubious Battle" è un romanzo di lotte sindacali, che si svolge intorno a degli organizzatori comunisti secondo uno schema piuttosto tradizionale; "Of Mice and Men" è un piccolo intenso dramma, congegnato con fin troppa abilità, e una parabola che pone sotto accusa l'umanità da un angolo visuale non politico; "The Long Valley" è una serie di racconti, per la maggior parte su animali, nei quali i simboli poetici sono presentati in ambienti realistici ricostruiti con concretezza di particolari; "The Grapes of Wrath" è un romanzo di propaganda politica, pieno di prediche e interludi sociologici, condotto in chiave epica. Sicché ogni volta l'attenzione viene distratta dal contenuto dell'opera, perché ad ogni alzar di sipario Steinbeck presenta un genere nuovo di spettacolo. Eppure c'è nell'opera narrativa di questo scrittore un sostrato che rimane costante e che le conferisce un certo peso: in Steinbeck c'è una costante preoccupazione per l'aspetto biologico delle cose. Egli è un biologo nel senso letterale di uno che s'interessa di ricerche biologiche...»
«Steinbeck si occupa quasi sempre di animali inferiori o di esseri umani così primitivi da risultare quasi a un livello animalesco. In "The Grapes of Wrath", il viaggio dei Joad è paragonato all'inizio alla marcia di una tartaruga, ed è continuamente accompagnato e parodiato da animali, insetti e uccelli. Quando i mezzadri espropriati dell'Oklahoma sono costretti ad abbandonare la loro fattoria, l'autore descrive ampiamente l'invasione della casa ad opera di pipistrelli, donnole, civette, topi e gatti ridiventati selvatici...»
«Tema di fondo dell'opera di Steinbeck, non sono dunque gli aspetti dell'uomo nei quali più si rispecchiano capacità speculativa, immaginazione e spirito costruttivo, né gli aspetti delle bestie che attirano maggiormente l'uomo, ma piuttosto i processi della vita. Nella normale condizione della natura, organismi viventi subiscono una continua distruzione, e tra i principali fattori di distruzione si annoverano l'avidità di preda e l'istinto di competizione, che per le creature che mangiano e si riproducono sono condizioni necessarie di sopravvivenza...»
«I problemi morali di cui si occupa Steinbeck non vanno solitamente al di là di questo stadio primitivo: le virtù, e così i crimini, per lui non sono che una parte di questi processi quasi inconsci, senza programma né scopo. Il predicatore di "The Grapes of Wrath" non si fa più illusioni sulla morale degli uomini e il suo sermone sulla tomba di Nonno Joad, che era stato per tutta la vita un uomo lascivo e triviale, esprime chiaramente il punto di vista di Steinbeck: 'Questo vecchio qui ha vissuto la sua vita ed è morto. Non so se è stato buono o cattivo, ma questo ha poca importanza. Era vivo, ed è questo che conta. E adesso è morto, e questo non conta. Una volta ho sentito uno che recitava una poesia e diceva: <Tutto quello che vive è sacro>'.» E' significativo che questo appello alla sacralità della vita risuoni in America nell'anno 1939, proprio mentre in Europa si inaugura la guerra.
FURORE
CAPITOLO 1.
Nella regione rossa e in parte della regione grigia dell'Oklahoma le ultime piogge erano state benigne, e non avevano lasciato profonde incisioni sulla faccia della terra, già tutta solcata di cicatrici. Gli aratri avevano cancellato le superficiali impronte dei rivoletti di scolo. Le ultime piogge avevano fatto rialzare la testa al granturco e stabilito colonie d'erbacce e d'ortiche sulle prode dei fossi, così che il grigio e il rosso cupo cominciavano a scomparire sotto una coltre verdeggiante. Agli ultimi di maggio il cielo impallidì e perdette le nuvole che aveva ospitate per così lungo tempo al principio della primavera. Il sole prese a picchiare e continuò di giorno in giorno a picchiar sempre più sodo sul giovane granturco finché vide ingiallire gli orli d'ogni singola baionetta verde. Le nuvole tornarono, ma se ne andarono subito, e dopo qualche giorno non tentarono nemmeno più di ritornare. Le erbacce si vestirono d'un verde più scuro per mascherarsi alla vista, e smisero di moltiplicarsi. La terra si coprì d'una sottile crosta dura che impallidiva man mano che il cielo impallidiva, e risultava rosa nella regione rossa, bianca nella grigia.
Nei solchetti scavati dall'acqua la terra si sgretolò in rigagnoli di polvere minuta, tosto percorsi da innumerevoli processioni di formiche e formiconi. E sotto le sferzate ogni giorno più crudeli del sole le foglie del giovane granturco perdevano la loro baldanza e la loro durezza; s'inchinavano, dapprima, e poi, man mano che s'infiacchiva la loro colonna vertebrale, si prostravano. E venne il giugno, e il sole diventò selvaggio; le strisce brune, sulle foglie del granturco, si estesero dagli orli fino a toccare le colonne vertebrali. Le ortiche si sfrangiarono, si raggrinzirono, invecchiarono. L'aria era afosa e il cielo più pallido e di giorno in giorno la terra incanutiva.
Sulle strade, mulinate dalle ruote dei carri e trebbiate dai ferri dei cavalli, la crosta della massicciata andò in frantumi e creò la polvere. Le minime cose animate sollevavano questa polvere per aria: gli uomini camminando sollevavano nuvolette che s'alzavano fino alla loro cintola; i carri, nuvole più dense che raggiungevano le cime delle siepi; le automobili, nuvoloni che oscuravano il sole. E a tutta questa polvere occorreva molto tempo per ricadere e posare.
Verso la metà di giugno le nuvole dei cielo, alte, pesanti, gravide di pioggia, si mobilitarono nel Golfo ed iniziarono la loro marcia di invasione nel Texas. Gli uomini nei campi levavano gli occhi verso di esse e annusavano l'aria e rizzavano diti bagnati di saliva per ragguagliarsi sulla provenienza del vento. I cavalli diventavano inquieti. Le nuvole passando lasciarono precipitare parte del loro carico e s'affrettarono ad invadere altre contrade, lasciandosi alle spalle il cielo pallido come prima e il sole feroce, e nella polvere crateri pieni d'acqua, e nei campi di granturco chiazze rinverdite.
Passate le nuvole arrivò un venticello che, sospingendole verso settentrione, faceva mormorar sommesso il granturco annaffiato. Passò un giorno e il vento aumentò d'intensità e di costanza. La polvere s'alzò dalle strade e coprì le ortiche dei fossi e si spinse anche addentro nei campi di granturco. Il vento si fece impetuoso e si accanì nel rodere la crosta lasciata dall'acqua nei campi. A poco a poco il cielo si oscurò, per i turbini di polvere che il vento sprigionava dalla terra e trascinava via. Il vento si fece più impetuoso e sbriciolò la crosta formata dalla pioggia e la polvere turbinò per i campi trascinando nell'aria piume grigiastre, come spirali di fumo. Il granturco, flagellato dal vento, emetteva suoni secchi, rovinosi. La polvere impalpabile non ricadeva ormai più sulla terra, ora, ma si disperdeva nell'oscurità del cielo.
Il vento si fece ancor più impetuoso e guizzando di tra le pietre sollevava con violenza paglia e foglie morte e piccole zolle di terra, lasciando tracce al suo passaggio, al pari d'una nave tra i flutti. Il sole splendeva rosso nell'aria oscura e fredda. Una notte il vento impazzò, zappò furiosamente la terra attorno alle radici del granturco, e il granturco si mise a lottare per difesa contro il vento agitando le sue foglie indebolite, ma nella lotta le radici risultarono denudate delle zolle di terra protettrice ed ogni pianta risultò inclinata nella direzione del vento.
L'alba venne, ma non il giorno. Nel cielo grigio apparve un sole rosso, un fioco cerchio rosso che emanava una scialba luce crepuscolare, e col progredire delle ore il crepuscolo ripiombò nella tenebra e il vento fischiò ed urlò sul granturco abbattuto.
Uomini e donne stavano tappati in casa, e quando dovevano uscire si annodavano una pezzuola davanti alla faccia per filtrare la polvere e portavano occhiali da automobilista per proteggersi gli occhi.
La notte fu nera come l'inchiostro, perché le stelle non potevano penetrare attraverso la polvere per raggiungere la tetra, e le luci accese nell'interno delle case non arrivavano nemmeno sull'aia. Ora l'aria e la polvere erano mescolate insieme in parti uguali. Le case erano ermeticamente chiuse, con tutte le fessure delle porte e delle finestre otturate da stracci; ma la polvere penetrava ugualmente negli interni, così impalpabile che risultava invisibile, e si posava come polline sui tavoli, sulle seggiole, sui piatti, sulle pietanze. Gli esseri umani se la spazzolavano di dosso, mentre strati di polvere s'erano accumulati sulle soglie delle case.
A metà della notte il vento s'allontanò e lasciò il paese in pace, perché l'aria densa di polvere smorzava ancor più della nebbia ogni rumore d'intorno. Le creature umane, coricate nei loro letti, udirono che il vento era caduto: fu il cessare del vento a destarle. Ma non s'alzarono, continuarono a giacere immobili tendendo l'orecchio al silenzio. Poi i galli cantarono, ma con voci smorzate, e le creature umane si rivoltarono impazienti nei loro letti aspettando il mattino. Sapevano che occorreva molto tempo alla polvere per ridiscendere a terra e lasciar pura l'aria. Difatti, venuto il mattino, la polvere restava sospesa come nebbia, e il sole era di sangue. Per tutta la giornata e così per tutto il giorno seguente piovve polvere, ricoprendo in modo eguale tutta la terra. Si posò sul granturco, s'accumulò sulle filagne delle staccionate, sui fili di ferro, sui tetti, sulle ortiche, sugli alberi.
Gli esseri umani uscirono dalle case e annusarono l'aria pungente e calda proteggendosi le nari contro la polvere. E i piccoli, i bambini, uscirono anch'essi, ma senza gridare, senza correre come avrebbero fatto dopo un comune temporale. Gli uomini s'appoggiarono coi gomiti sulle staccionate e osservarono il granturco rovinato, quasi secco ormai, con solo qualche strisciolina di verde sotto la pellicola di polvere. Gli uomini non parlavano, e si muovevano appena. E le donne uscirono di casa e vennero a mettersi vicino ai loro uomini per sapere se era questa la volta che i loro uomini si sarebbero dati per vinti. Le donne senza farsi vedere studiavano i visi dei loro uomini; perché al granturco si poteva, alla fin fine, rinunciare, purché fosse salvo qualcos'altro. I piccoli, lì vicino, disegnavano figure nella polvere coi diti dei piedi, e anch'essi inconsciamente studiavano i visi dei genitori, per vedere se si sarebbero dati per vinti. Studiavano le facce dei genitori e disegnavano figure nella polvere. I cavalli all'abbeverata, prima di arrischiarsi a bere, col labbro superiore spazzavano il pelo dell'acqua. Dopo un poco, i visi degli uomini perdettero la loro stupefatta perplessità ma acquistarono un'espressione dura, collerica, ostile. Allora le donne capirono che erano salvi, che gli uomini non si davano per vinti, e allora ardirono domandare: Cosa facciamo? e gli uomini risposero: Chi lo sa, ma le donne capirono che erano salvi, e i piccoli capirono che erano salvi. Le donne e i piccoli avevano l'intima convinzione che nessun disastro era catastrofico se i loro uomini non si arrendevano. Le donne rientrarono in casa alle loro faccende, e i piccoli cominciarono a giocare, ma con discrezione, sulle prime. Col progredire del giorno il sole, meno rosso, ricominciò a scaldare la terra impolverata. Gli uomini, seduti sui gradini d'accesso alle loro case, s'occupavano a disegnar figure in terra servendosi di fuscelli o di sassolini. Non parlavano; meditavano, calcolavano.
CAPITOLO 2.
Un grosso autocarro rosso si era fermato davanti allo spaccio di bibite e commestibili, in aperta campagna. Il tubo di scappamento mormorava sommesso emanando un velo quasi invisibile di fumo cilestrino. Era un autocarro nuovo fiammante, e la vernice rossa scintillava nel sole, e sui fianchi portava scritto in lettere cubitali OKLAHOMA CITY TRANSPORT COMPANY. I doppi pneumatici erano nuovi, e i grandi sportelli posteriori, perché si trattava di un furgone coperto, erano chiusi da un massiccio lucchetto d'ottone. All'interno dello spaccio la radio suonava un ballabile in toni bassi, come è d'uso quando nessuno ascolta. Un piccolo ventilatore girava pigramente nel buco circolare praticato al di sopra dell'ingresso, e le mosche ronzavano eccitate attorno alle porte e alle finestre, cozzavano nelle reticelle. All'interno un unico cliente, il camionista, sedeva su un alto sgabello coi gomiti appoggiati sul banco, e al di sopra della sua tazza di caffè guardava l'unica e magra inserviente. Le parlava il pittoresco e spontaneo linguaggio della strada: «L'ho visto un tre mesi fa. Gli avevan fatta un'operazione. Tagliato non so più che cosa.» E l'altra: «Ma io l'ho visto solo una settimana fa, aveva l'aria di star bene. E' un bravo diavolo, quando non puzza.» Di quando in quando le mosche ronzavano più forte contro le reticelle della porta. La macchina del caffè eruttava vapore, e la ragazza senza guardare allungò un braccio dietro di sé e azionò la leva di chiusura.
Fuori, un viandante attraversò la strada e si avvicinò all'autocarro. Vi passò davanti, posò una mano sul parafango lucido e lesse appeso al parabrezza il DIVIETO DI TRASPORTARE PEDONI. Fu lì lì per riprendere il cammino a piedi, ma parve cambiare idea e si sedette sul predellino, quello che fronteggiava la strada, così da non esser visto dall'interno dello spaccio. Era sotto la trentina. Aveva occhi scurissimi, zigomi alti e larghi, e ai lati della bocca due pieghe già profonde; il labbro superiore era molto alto e pareva sforzarsi a coprire i denti sporgenti. Aveva mani dure, dita a spatola, unghie spesse e taglienti come conchiglie nere. Gli spazi tra pollice e indice, e le palme, erano lucidi di calli.
Portava abiti nuovi: tutto quello che aveva addosso era nuovo e di basso prezzo. Il berretto grigio conservava ancora il bottone originale ed inalterata la forma della visiera, a prova che non era stato ancora adoperato per nessuno dei vari usi (cencio da spalla per trasporto d'oggetti, asciugatoio, fazzoletto) cui è destinato solitamente un berretto. Il vestito era d'un orbace grigio di tipo corrente, ma così evidentemente nuovo che i pantaloni avevano ancora la piega. La camicia di tela azzurra conservava la rigidità delle stoffe nuove a buon mercato. La giacca, che penzolava sul davanti, era troppo grande, con maniche troppo corte, per quanto le spalline ricadessero liberamente sulle braccia, e anche i pantaloni erano troppo corti, perché l'individuo era di alta statura. Portava un paio di scarpe gialle nuove, di tipo militare, chiodate, e con lunette di ferro a protezione dei margini esterni dei tacchi. Quando fu seduto sul predellino, si tolse il berretto e con esso s'asciugò la faccia. Poi lo rimise in testa, e dando uno strattone alla visiera ne inaugurò l'inevitabile decadenza. I suoi piedi attrassero la sua attenzione. Si chinò, slacciò gli scarponi e non li riallacciò. Il tubo di scappamento del motore Diesel gli bisbigliava all'orecchio, mandando fuori sbuffi di fumo azzurrino.
La musica della radio all'interno del locale cessò e fu sostituita da una voce maschile, ma la ragazza non la fece tacere perché non s'era neanche accorta della fine del ballabile. Le sue dita esploratrici avevano trovato un brufoletto sotto l'orecchio, ed ella cercava di vederselo in uno specchio posto dietro il banco, senza farsi notare dal camionista, e a questo scopo fingeva di ravviarsi una ciocca di capelli. Il camionista diceva: «E' stata una gran festa da ballo, a Shawnee. Ma ho sentito dire che qualcuno ci ha rimesso la pelle, o qualche cosa del genere. Avete sentito dir niente, voi?» «No,» disse la ragazza, senza smettere di palpeggiarsi il brufolo dietro l'orecchio.
Fuori, l'uomo s'alzò e sporgendosi dinanzi al cofano del motore diede un'occhiata all'ingresso dello spaccio. Poi tornò ad accomodarsi sul predellino, e trasse di tasca un sacchetto di tabacco e un blocchetto di cartine. Si arrotolò un'impeccabile sigaretta con le mosse lente delle sue dita esperte, la osservò, la lisciò, e finalmente l'accese e gettò il fiammifero acceso nella polvere ai suoi piedi. Il sole, avvicinandosi al suo zenit, divorava l'ombra dell'autocarro.
Nello spaccio il camionista pagò il conto e introdusse i due nichelini di resto nella macchinetta a gettoni. I cilindri girarono e non gli diedero alcuna vincita. «Li mettono in modo che non si può mai vincere,» disse alla ragazza.
E lei, di rimando: «Neanche due ore fa uno s'è beccato il massimo: tre dollari e ottanta. Quando ripassate di qui?»
«Tra otto o dieci giorni,» disse l'altro tenendo socchiusa la porta. «Devo fare un salto a Tulsa; la strada è lunga, non finisce mai.»
La ragazza disse di malumore: «Non fate entrare le mosche. O dentro o fuori.»
«Arrivederci,» la salutò il camionista e se ne andò, sbattendosi la porta. alle spalle. Si fermò nel sole, intento a scartocciare una tavoletta di gomma da masticare. Era un omone, di spalle larghe, con la pancia. Aveva il viso rosso e gli occhi celesti, occhi che il gran sole aveva abituato a guardare tra le palpebre socchiuse. Portava pantaloni militari e stivaloni alti allacciati. Si cacciò la gomma in bocca e attraverso la reticella gridò alla ragazza: «Stai buona, mi raccomando.» La ragazza, continuando a guardarsi nello specchio, grugnì una risposta qualunque. Il camionista stritolò lentamente la gomma con un lento lavoro di mascelle a bocca interamente aperta. Incamminandosi verso il rosso autocarro, con la lingua ridusse la gomma in una pallottola.
Il viandante s'alzò, e si fece vedere dall'altra parte dei finestrini. «Potete darmi un passaggio?» domandò.
Il camionista lanciò una rapida occhiata alle spalle verso la porta dello spaccio. «Non avete visto il divieto sul parabrezza?»
«Sì, l'ho visto, ma alle volte un brav'uomo è sempre un brav'uomo anche se un bastardo d'un padrone lo obbliga a mettere in mostra il divieto.»
Il conducente prese lentamente posto al volante, considerando quella risposta da vari punti di vista. Se ora rifiutava, non solo non era un brav'uomo, ma dimostrava anche di aver paura del padrone che non gli permetteva di avere compagni di viaggio. Se invece lo prendeva a bordo era automaticamente un brav'uomo, non solo, ma un uomo che non si lasciava imporre da nessun bastardo d'un padrone. Aveva il sospetto di essere caduto in trappola, ma non vedeva una decorosa via d'uscita. E ci teneva ad essere un brav'uomo. Guardò di nuovo verso l'ingresso dello spaccio. «Aggrappatevi al predellino finché arriviamo alla svolta,» disse.
L'uomo scomparve dalla vista e si rannicchiò sul predellino afferrando la maniglia della portiera per reggersi. Il motore diede un rombo, la marcia fu ingranata e il grosso furgone si mise in moto, in prima, in seconda, in terza, e infine con un alto lamento entrò in quarta. Sotto l'uomo aggrappato la strada correva vertiginosamente. Alla svolta, distante un paio di chilometri, l'autocarro rallentò, l'uomo s'alzò in piedi, girò la maniglia, aprì la portiera e si introdusse nella cabina di guida. Il conducente lo guardò tra le palpebre, e, dal modo con cui masticava la gomma, pareva che avesse dato alle sue mascelle l'incarico di ordinare i pensieri nel proprio cervello. Ispezionò lo sconosciuto da capo a piedi, dal berretto nuovo, all'abito nuovo, giù giù fino alle scarpe nuove. Il passeggero s'accomodò con evidente soddisfazione, si tolse il berretto e con esso s'asciugò il sudore dal viso e dal mento. «Grazie, amico. Non ne potevo più.»
«Scarpe nuove,» osservò il conducente. La sua voce aveva lo stesso tono inquisitivo del suo sguardo. «Piuttosto scomode per viaggiare a piedi con questo caldo.»
Il passeggero si guardò le gialle scarpe impolverate. «Non ne avevo altre.» disse. «Quando non c'è altro, s'ha pur da portare quel che s'ha.»
Il conducente guardò avanti e accelerò un poco. «Andate lontano?»
«Eh, abbastanza. A piedi, era lunghetta.»
Le domande del conducente avevano un tono sottilmente inquisitorio. Pareva tender reti, ordir trappole.
«In cerca di lavoro?»
«No. Il mio vecchio ha un pezzetto di terra, quaranta acri. A mezzadria, ma siamo lì da tanto.» Il conducente diede uno sguardo, significativo, al granturco prostrato nei campi sotto il polverone, e brontolò, quasi parlasse tra sé:
«Un piccolo mezzadro? E come può lottare contro la trattrice e le intemperie?» «Veramente, è un pezzo che son senza notizie,» replicò il passeggero.
«Un pezzo?» Una vespa entrò nella cabina e si mise a passeggiare sul cristallo del parabrezza. Il conducente allungò una mano e con mosse prudenti la spinse verso l'orlo della corrente d'aria che la risucchiò fuori dal finestrino. «Al giorno d'oggi i mezzadri van scomparendo a tutto spiano. Arriva una trattrice e mette sul lastrico dieci famiglie. E arrivano dappertutto, ormai. E soppiantano i mezzadri. Come fa vostro padre a resistere?»
«Mah, com'ho detto non ho notizie da qualche tempo. Scrivere non è il nostro forte, né per me né per il mio vecchio.» E si affrettò ad aggiungere: «Ma se vogliamo sappiamo tutt'e due.»
«Avete lavorato fuori di casa?» Di nuovo il tono inquisitore. Con la lingua si rivoltò la gomma in bocca e sputò fuori dal finestrino.
«Sì,» disse il passeggero.
«L'avevo capito dalle mani. Zappa, vero, o scure, o maglio. Fan lucidi i calli. Io sono osservatore, e me ne vanto.»
L'altro voltò la testa per guardarlo in faccia. I pneumatici cantavano sulla strada liscia. «C'è altro che volete sapere? Domandate pure, ve lo dico subito, così non avete da indovinare.»
«Non vi scaldate. Mica volevo ficcare il naso.»
«Ma vi dico tutto. Non ho niente da nascondere.»
«Non è proprio il caso di scaldarsi. E' questione che ci provo gusto a osservare. Fa passare il tempo.»
«Vi dico tutto. Mi chiamo Joad. Tom Joad. E il mio vecchio si chiama pure Tom Joad.» E fissava lo sguardo risentito sul camionista.
«Calma, calma. Non volevo mica dir niente.»
«Neanch'io volevo dir niente,» disse Joad. «Cerco solo di andare per la mia strada senza che nessuno ci venga a ficcare il naso.» Tacque e lasciò vagare gli occhi lontano sui campi isteriliti disseminati di tronchi secchi. Trasse di tasca il tabacco e le cartine, e si arrotolò la sigaretta tra le ginocchia, al riparo dal vento.
Il conducente masticava ritmico e pensoso come una vacca, e lasciò passare qualche minuto perché si dissipasse l'imbarazzo creato dalle ultime parole. Quando, infine, gli parve che l'atmosfera fosse ritornata neutrale, disse: «Chi ha mai fatto il camionista, non ha idea di cos'è. Proibito dare un passaggio. Così siamo condannati a viaggiare sempre soli, a meno di correre il rischio, com'ho fatto io con voi, di rimetterci il posto.» «Obbligato,» borbottò Joad.
L'altro continuò: «Ho conosciuto più d'uno, nel nostro mestiere, che faceva cose da stupido quand'era alla guida. Ne ricordo uno che componeva delle poesie, per passatempo.» Guardò con la coda dell'occhio per leggere in viso al compagno l'interesse o la meraviglia. Silenzioso, Joad fissava lontano, innanzi a sé, il nastro bianco della strada che si srotolava dolcemente come massa levigata. E il conducente proseguì infine: «Ricordo una poesia che quel tipo aveva scritto. Parlava di tre camionisti (lui e altri due), che andavano insieme in giro pel mondo, facendo baracca e prendendo sbornie d'inferno. Non la so più tutta, ma c'erano delle parole che non le capiva neanche il padreterno. Una strofa diceva pressappoco così: "An' there we spied a nigger, with a trigger that was bigger than a elephant's proboscis, or the whanger of a whale" [E là trovammo un negro, che aveva un affare più grosso della proboscide d'un elefante o della coda d'una balena.]. Quel "proboscis" è il naso dell'elefante, il poeta me l'ha mostrato sul suo vocabolario. Si portava sempre il vocabolario in tasca, e se lo studiava nelle trattorie mentre faceva colazione.» Il camionista, sentendosi solo nel suo lungo discorso, fece una pausa. Senza voltare la testa sbirciò il compagno. Joad restava chiuso nel suo silenzio. Il camionista tentò nervosamente di farlo partecipare alla conversazione. «Avete mai conosciuto nessuno dire dei paroloni così?
«I predicatori,» disse Joad.
Il camionista si rassicurò. Adesso almeno sapeva che Joad lo stava ad ascoltare. Prese una curva alla brava e i pneumatici gemettero. «Coi predicatori è un'altra cosa,» osservò, «perché nessuno pensa a pigliarli in giro. Ma quel mio amico era impagabile. Come dicevo, a stare sempre alla guida si finisce per fare cose da stupidi. E' inevitabile. C'è da diventar matti a starsene sempre seduti qui e a veder scorrere la strada sotto le ruote. Ci fu un tizio una volta che disse che i camionisti passano tutto il loro tempo a tavola nelle trattorie lungo la strada.» «Già, pare che ci svernino nelle trattorie,» convenne Joad .
«Certo che si fermano, ma non è tanto per mangiare. Difficile che ci si fermi solo perché s'abbia fame: è che viene la nausea star sempre a guidare... finché non se ne può più. E la trattoria è l'unico posto dove ci si può fermare, e una volta fermatisi s'è costretti a ordinare qualcosa per poter scambiare quattro chiacchiere con chi sta dietro il banco. Così si prende un caffè, una pasta... E' sempre meglio che fare un riposino.» Continuando a masticare, rivoltò lentamente la gomma contro la lingua.
«Sì, dev'essere duro,» disse Joad, senza enfasi.
Il camionista gli scoccò una rapida occhiata, sospettoso d'esser preso in giro. «Certo non è rose e fiori,» disse con calore. «Sembra comodo, starsene seduti al volante, ma dopo otto o dieci o magari quattordici ore di strada, v'assicuro io che la strada dà al cervello. Si sente il bisogno assoluto di fare qualche cosa: fischiare, cantare... I padroni non ci lasciano avere la radio. C'è chi porta la fiaschetta in tasca, ma quelli lì durano poco. Io non bevo mai, fino alla tappa,» concluse come soddisfatto di sé.
«Davvero?» disse Joad.
«Già, se si vuole andare avanti. Adesso però penso di seguire uno di quei corsi per corrispondenza. Bisogna pure cercare d'istruirsi. Un corso di meccanica. E' facile. Son solo poche lezioni, da studiare a casa. Ci penso sul serio. Allora non avrò più bisogno di guidare autocarri e le vetture le farò guidare dagli altri.»
Joad trasse di tasca una fiaschetta di whisky. «Davvero non ne volete un goccio?» La sua voce aveva accento ironico.
«Assolutamente no. Non ne voglio. Non si può mettersi a bere quando s'ha da studiare, come ho in mente di fare io.»
Joad strappò la fiaschetta, bevve due brevi sorsi, la ritappò e la rimise in tasca. L'odore aromatico del whisky riempì la cabina di guida. «Non vi lasciate tentare. Cos'è? Avete una ragazza per le mani?»
«Certo. Comunque, conto di farmi un'istruzione. E' da un sacco di tempo che tengo il cervello in esercizio.»
Sotto l'effetto del whisky Joad parve rilassarsi; si fece un'altra sigaretta, l'accese.
Il camionista proseguì rapidamente: «E poi non ho neanche nessun bisogno di spinte,» disse. «Tengo continuamente in esercizio il cervello: ho seguito un corso apposito due anni fa.» Accarezzò il volante con una mano. «Supponete che incontri uno per strada: lo guardo da capo a piedi, e dopo provo a ricordare tutto quello che ho visto su di lui, che tipo di scarpe, vestito, cappello, e il modo come camminava, e la statura e il peso e se aveva qualche segno particolare, come una cicatrice, eccetera. Me la cavo davvero mica male. Posso ricostruirne nella mia mente un ritratto preciso con tutti i dettagli. Alle volte penso che dovrei seguire un corso per diventare un esperto nelle impronte digitali. Vi sorprenderebbe scoprire quante cose si possono ricordare.» Joad tracannò un altro sorso di whisky, più lungo. Trasse l'ultima boccata di fumo dalla sigaretta e poi ne schiacciò il mozzicone tra il pollice e l'indice, ne fece una pallottolina che tenne sulla mano fuori dal finestrino lasciando che il vento gliela risucchiasse via. I grossi pneumatici cantavano in toni alti. Gli scuri occhi tranquilli di Joad sorridevano divertiti mentr'egli fissava la strada dinanzi a sé. Il conducente aspettava, sforzandosi di guardarlo senza farsi scorgere. Finalmente il grosso labbro superiore di Joad si sollevò, scoprendo i denti in un largo sogghigno ed egli prese a ridacchiare fra sé, col petto che sussultava ritmicamente: «Vi c'è voluto davvero un sacco di tempo per arrivarci,» disse infine.
Il conducente non si voltò: «Arrivare a che? Cosa volete dire?»
Joad riabbassò per un istante le labbra sui denti sporgenti; si dette poi una leccatina, da una parte e dall'altra della bocca, come un cane. La voce era aspra, ora: «Lo sapete benissimo quel che voglio dire. Ho ben visto come m'avete squadrato da capo a piedi quando son salito.» Il conducente continuava a guardar fisso dinanzi a sé e stringeva il volante con tanta forza da far sbiancare il dorso delle mani e sì da produrre un rigonfiamento ai lati delle palme. Joad proseguì: «Avete capito di dove vengo.» L'altro rimaneva in silenzio. «Vero o no?» insistette Joad.
«Be'... sì. Almeno... credo di aver indovinato. Ma non sono affari miei. Io bado a me. Non mi riguarda.» Le parole scorrevano via, ora. «Non ficco il naso negli affari degli altri, io.» E d'improvviso tornò silenzioso, come in attesa, le mani, pallide, ancora avvinghiate al volante. Una cavalletta s'infilò dal finestrino e andò a posarsi sul cruscotto, dove prese a sfregarsi le ali con le angolose zampette saltellanti. Joad l'agguantò, ne schiacciò tra le dita la testa legnosa e la lasciò poi risucchiare dal vento, fuori dal finestrino. Quindi ridacchiò di nuovo, mentre si ripuliva le dita dai frammenti dell'insetto. «Non avete proprio capito niente su di me, amico,» disse. «Comunque, non ho niente da nascondere. Sicuro, vengo da McAlester. Quattro anni. E questi sono i vestiti che m'han dato all'uscita e non ho vergogna di dirlo, me ne frego. E torno dal mio vecchio, così non ho da raccontare frottole per cercare un posto.»
Il conducente disse: «Ripeto che non sono affari miei. Non sono un ficcanaso.»
«Lo sa il diavolo se non siete un ficcanaso,» disse Joad. «Con quel vostro nasone che vi sporge dalla faccia di dieci chilometri. Siete stato a frugarmi con quel nasone come una pecora al pascolo.» Il camionista impallidì visibilmente. «Avete frainteso su quel che...» cominciò esitante.
Joad scoppiò in una risata. «Siete stato un brav'uomo, ad ogni modo. M'avete preso su. Diavolo! Sono stato dentro. Ecco tutto! E adesso volete sapere perché mi hanno appioppato quattr'anni, vero?»
«Non mi riguarda.»
«Non vi riguarda, ma so che avete una voglia matta di saperlo. Be', vedete quel bivio laggiù?» «Sì.»
«Bene, io scendo là. Ma state tranquillo; so che smaniate dalla voglia di sapere quel che ho fatto e non voglio certo deludervi.» Il ronzio del motore s'affievolì e il sibilo dei pneumatici s'abbassò di tono. Joad trasse di tasca la fiaschetta e bevve un'altra sorsatina, mentre il camion rallentava gradatamente fino a giungere ad un incrocio dove si arrestò. Joad saltò giù, s'appoggiò allo sportello della cabina e rivolto al conducente che teneva ora il motore al minimo, col tubo di scappamento che mandava sbuffi di fumo azzurrino appena visibili: «Omicidio,» disse velocemente. «Parolona che vuol dire che ho ammazzato un uomo. Sette anni m'han dato, ma dopo quattro m'han messo in libertà per buona condotta.»
Gli occhi del conducente passarono sul viso di Joad per iinprimerselo nella memoria. «Io non v'ho mai chiesto niente. Io bado a me.»
«Ma io me ne frego anche se lo dite in tutte le trattorie da qui a Texola.» Sorrideva. «Arrivederci, amico. Siete un brav'uomo.» Dette un colpetto con la mano allo sportello. «Grazie del passaggio,» disse infine. «Salute.» Voltò le spalle e s'incamminò per la strada di campagna.
Per un istante il camionista lo guardò allontanarsi, poi gli gridò dietro: «Buona fortuna!» Joad senza voltarsi lo salutò con la mano. Poi il motore ruggì, la prima riattaccò e il grosso furgone rosso ripartì maestoso nella polvere.
CAPITOLO 3.
La strada asfaltata correva in rialzo sulla campagna brulla ed era fiancheggiata, ai margini, da due tappeti di erbaccia secca aggrovigliata, ricca di barbe che s'appigliano al pelo dei cani, di aculei che s'aggrovigliano ai pasturali dei cavalli, di raffii rovi roncigli che s'appiccano alla lana delle pecore: tutta una vita in letargo che attendeva di dispiegarsi all'intorno, ciascun seme fornito dei vari dispositivi di diffusione: dardi elicoidali e paracadute, piccoli rovi e pallottoline irte di minuscoli aculei, tutti in attesa di animali o dei vento, di pantaloni maschili o di gonne femminili, passivi tutti, ma ben dotati dei mezzi d'attacco, inerti, ma potenzialmente attivi.
Il sole a picco scaldava l'erbaccia, e nel fitto del groviglio brulicavano gli insetti: formiche e formichieri che tendevano trappole contro di esse, grilli che schizzavano per l'aria e lasciavano intravedere per un istante le gialle alette; onisci, simili a piccoli armadilli: tutti in moto, agitatissimi, solerti su esili zampette innumerevoli. E sul tappeto d'erba al margine della strada faticosamente procedeva una tartaruga, la testa voltata di lato in cerca di niente, trascinando l'alto guscio a cupola. Con i coriacei arti unghiati di giallo zampettava pigra per l'erba, non proprio con marcia regolare, ma a fatica trascinandosi col suo guscio sul quale steli d'avena e riccioli d'erba scivolavano e rotolavano per terra. Teneva parzialmente aperto il corneo grifo, e sotto le palpebre simili ad unghie umane i suoi occhietti ironici e feroci guardavano fisso innanzi. Avanzando lasciava dietro a sé una striscia di erba calpesta. D'un tratto si trovò ai piedi d'una montagna, ch'era l'argine della strada. Per un attimo si fermò, allungò il collo più che poté, alzò la testa, sbatté le palpebre, guardò in tutte le direzioni, e alfine decise di scalare l'argine. Protese in aria le zampe anteriori, ma senza toccarlo, mentre le posteriori badavano a sospingere la cupola d'un altro centimetro. Man mano che l'erta si faceva più ripida, gli sforzi della tartaruga diventavano sempre più frenetici. Gli arti posteriori puntavano, spingevano, scivolavano, e la cornea testa sporgeva fin dove le consentiva la massima lunghezza del collo. A poco a poco la cupola ascese fino a raggiungere un ripiano sul quale s'elevava a picco, tagliandole la strada, un muraglione di calcestruzzo, alto dieci centimetri, ch'era il gradino della massicciata. Quasi che lavorassero autonomamente, le zampe posteriori spinsero la cupola fin contro il bastione. Allora la testa si rizzò verticale, e gli occhi ispezionarono la vasta e liscia distesa di cemento; le zampe anteriori si posarono come mani sullo spigolo del muro, fecero un ultimo sforzo immane, e con incredibile lentezza la cupola sali fino a raggiungere con la parte anteriore la sommità dei muricciolo. Per un istante la tartaruga rimase immobile. Una formica rossa s'insinuò sotto il guscio e prese a solleticare la pelle nei punti più sensibili: istantaneamente testa e zampe si rannicchiarono e la coda squamosa otturò ogni altra apertura. La formica rossa rimase stritolata tra il corpo e le zampe. Un gambo d'avena selvatica rimase impigliato tra il guscio e una delle zampe anteriori. Per un lungo istante la tartaruga giacque inerte, poi il collo emerse di nuovo e gli occhietti accigliati e ironici da vecchia ripresero a guardare d'intorno, le zampe e la coda spuntarono fuori. Le zampe posteriori si rimisero al lavoro, puntando come zampe d'elefante, e la cupola risultò inclinata in modo che le anteriori non arrivavano a far presa sulla distesa di cemento. Ma le posteriori proseguirono instancabili nello sforzo finché la cupola raggiunse il punto d'equilibrio e cominciò ad inclinarsi in avanti, e le zampe anteriori graffiarono l'asfalto e vi si posarono. Ma il gambo d'avena continuava a rimanere impigliato tra le zampe anteriori.
Ora l'avanzata era facile, e le quattro zampe si misero alacremente al lavoro, e la cupola procedeva ch'era un piacere, ondeggiando attraverso la strada. Una vettura guidata da una quarantenne sopraggiunse. La donna vide la tartaruga e la scansò sulla destra, ma le ruote diedero uno strillo, e due di esse, le posteriori, si staccarono dal suolo per un secondo e ricaddero pesantemente sollevando una nuvola di polvere; poi la vettura riprese la marcia ma più lentamente. La tartaruga si era rintanata nel momento del pericolo, ma ora s'affrettò a traversare la strada, perché l'asfalto scottava.
Ed ecco arrivare un camioncino. Il conducente vide la tartaruga, e sterzò apposta per schiacciarla. Il pneumatico la sfiorò e la fece rotolare, come un piatto sul suo orlo, come una monetina, fin sul pendio estremo dell'argine opposto. Il camioncino proseguì la sua corsa sul lato destro della strada. Immobile sul dorso, la tartaruga rimase a lungo rannicchiata nel suo guscio. Finalmente le zampette presero ad agitarsi in aria come in cerca di qualche sostegno cui aggrapparsi. Una delle zampe anteriori trovò una pietruzza e a poco a poco la cupola si raddrizzò e tornò verticale. Il gambo d'avena scivolò via e tre semi caddero a terra. La tartaruga riprese a trascinarsi per l'argine, rimorchiando la sua cupola al di sopra dei semi caduti. Raggiunse un sentiero polveroso, ove avanzò a scatti, tracciando nella polvere, col guscio, un leggero solco ondeggiante. Gli ironici occhietti da vecchia si guardarono attorno, e il corneo grifo si aprì un poco, e le unghie gialle s'insinuarono leggermente nella polvere.
CAPITOLO 4.
Allorché udì il camion ripartire, ingranando le varie marce, e facendo tremare il terreno ceti pesanti copertoni, Joad si fermò e, voltatosi, lo guardò allontanarsi finché non scomparve alla vista. Ed ancora restò immobile a guardare in lontananza le nuvolette azzurrognole lasciate dallo scappamento. Immerso nei suoi pensieri, trasse di tasca la fiaschetta, ne svitò il tappo di metallo, e bevve qualche sorso con piglio delicato, passando la lingua sull'orlo della fiaschetta e poi sulle proprie labbra per degustarne al massimo il sapore dell'alcool. Si provò a ripetere: "There we spied a nigger", ma fu tutto quel che riuscì a ricordare. Poi si voltò e stette a contemplare la strada di campagna che si dipartiva ad angolo retto dallo stradone. Il sole era caldo e non spirava il minimo alito di vento. La strada era solcata da due rotaie incassate parallele e tortuose, piene di polvere, d'una polvere spessa che dopo pochi passi gli imbiancò le gialle scarpe nuove finché il giallo scomparve del tutto sotto quella grigia coltre.
Si fermò, slacciò le scarpe, poi le tolse deliberatamente l'una dopo l'altra, immergendo con sollievo i piedi sudati nella tiepida polvere asciutta che s'introdusse negli interstizi delle dita asciugandone completamente la pelle. Tolse anche la giacca, con essa avviluppò le scarpe e mise l'involto sotto il braccio. Finalmente s'inoltrò per la strada sollevando davanti a sé una nuvoletta di polvere, che rimaneva poi sospesa, bassa nell'aria, dietro di lui.
La strada correva tra due palizzate di filo di ferro spinato, fabbricate alla rustica: paletti di salice contorti e bilenchi ad intervalli disuguali, sulle cui gobbe s'appoggiava in tre ordini il filo di ferro spinato, se c'erano gobbe all'altezza voluta; e dove mancava la gobba il filo di ferro era assicurato mediante legature d'altro filo di ferro, rugginoso, comune, di quello che serve a legare le balle di fieno. Di là dalle palizzate giaceva il granturco prostrato dal vento e dalla siccità, e dove le foglie inguainavano i fusti c'era una crosta di polvere.
Joad procedeva a un buon passo di marcia, rimorchiandosi la nuvola di polvere. A poca distanza intravide il guscio a cupola di una tartaruga che si trascinava lenta e laboriosa nella polvere, sospinta dall'alterno moto meccanico delle zampette. Si fermò a guardarla, e la propria ombra cadde sulla tartaruga. Istantaneamente testa e zampe e coda si rintanarono sotto la cupola. Joad la raccolse e la rovesciò a zampe per aria. La cupola, grigioscura, aveva assunto la stessa tinta della polvere, ma la parte inferiore della corazza era d'un giallo crema, e liscia e pulita. Joad si sistemò meglio l'involto sotto il braccio e prese a palpare e a premere con le dita la parte inferiore del guscio, liscia e più morbida del dorso. Mentre palpava, la testa uscì, per rendersi conto delle dita che bussavano alla porta di casa, e uscirono le quattro zampe, e si agitarono smodatamente, e la tartaruga bagnò la mano di Joad, continuando a dibattersi inutilmente. Joad la rovesciò di nuovo sulle zampe e la introdusse nell'involto con le scarpe. La sentiva sotto l'ascella dimenarsi inquieta e agitarsi e premere. Riprese il cammino a passo più svelto, ora, strascicando un po' i calcagni nella polvere. A una certa distanza davanti a lui, sul margine della strada, un esile salice, ricoperto di polvere, gettava un'ombra indecisa. Joad poteva scorgerlo, in lontananza, gli scarni rami protesi sulla strada, il fogliame mingherlino e arido, simile a una gallina spennacchiata. Ora Joad sudava. La sua camicia azzurra presentava chiazze turchine sulla schiena e sotto le braccia. Diede una stratta alla visiera, una stratta così balorda che la fodera di cartone si piegò, e il berretto perdette per sempre l'aspetto di un berretto nuovo. Accelerò ancor più il passo nel desiderio di raggiungere l'ombra del salice. Sapeva che avrebbe trovato dell'ombra, sotto il salice, o quanto meno, adesso che il sole aveva passato lo zenit, una striscia sufficientemente larga di ombra refrigerante, proiettata dal tronco. Ora il sole gli sferzava la nuca e gli faceva ronzare gli orecchi. Non vedeva ancora il piede dell'albero, perché cresceva in una conchetta dove l'acqua si conservava più a lungo che nelle zone pianeggianti. Procedeva quasi di corsa, ora, sotto il sole implacabile, e prese a discendere il pendio. Istintivamente rallentò, allorché vide che la striscia d'ombra refrigerante era occupata. Un uomo vi stava seduto, con la schiena appoggiata al tronco. Le gambe teneva accavallate l'una sull'altra, e un piede nudo per aria quasi all'altezza della sua testa. Costui non udì Joad arrivare, perché fischiettava, non senza solennità, il motivo di "Yes, Sir, That's My Baby". Accompagnandosi col piede tenuto sollevato seguiva il ritmo del motivo zufolato, che non era certo un ballabile. Smise di fischiettare e prese a cantare con morbida ma debole voce di tenore:
"Yes, sir, that's my Saviour, Je...sus is my Saviour, Je...sus is my Saviour now.
On the level
'S not the devil,
Jesus is my Saviour now".
Joad s'era già inoltrato nell'ombra malcerta del fogliame mingherlino, prima che l'uomo s'accorgesse della sua presenza e, cessando di cantare, voltasse il capo. Aveva una testa lunga, ossuta, con la pelle tirata posata su un collo tutto tendini e nervi come il fusto del sedano. Gli occhi erano velati e sporgenti, e le palpebre, rosse, infiammate, stentavano a coprire l'iride. Le guance erano coriacee, lucide e glabre, e la bocca era nettamente disegnata: sensuale o sarcastica. Il naso, adunco e duro, tendeva la pelle così che sul ponte appariva bianca. Non una stilla di sudore su quella faccia; nemmeno sulla fronte: fronte eccezionalmente alta, istoriata di vene azzurre sulle tempie. I capelli grigi e duri erano stati evidentemente ravviati indietro con le mani poco prima. Indossava una tuta e una camicia blu. Al suo fianco giaceva in terra una giacca di fustagno con bottoni dorati e un cappello a cencio incredibilmente sformato; e un poco più discosto giacevano, là dove erano state scaraventate, miserabili e discordi, le scarpe di tela, scalcagnate e grigie di polvere. L'individuo guardò Joad a lungo. La luce pareva penetrare molto addentro nei suoi occhi scuri, accendendovi fiammelle d'oro. Il fascio di nervi e di tendini che gli stringeva il collo parve inturgidire.
Joad se ne stava immobile nell'ombra screziata; si levò il berretto e con esso s'asciugò il sudore dalla faccia, poi lo gettò a terra con l'involto.
L'uomo seduto nella striscia d'ombra refrigerante districò le gambe e prese a scavare in terra coi diti dei piedi.
Joad disse. «Dio, che caldo d'inferno sulla strada!»
L'altro lo guardò con aria interrogativa e disse: «O non sei Tom Joad, il figlio del vecchio Tom?» «Proprio lui. Che se ne torna a casa.»
«Non ti ricordi di me, scommetto,» disse l'altro, e sorrise. Il sorriso rivelò due file di denti da cavallo. «E come potresti ricordarti? Eri sempre dietro alle ragazzine, quando io ti cercavo per insegnarti la dottrina. Può darsi che tu non te ne ricordi, ma io sì. Eppure ti ho battezzato io, te e l'amorosa, v'ho proprio tuffati io nel fosso. Scalciavate e strillavate come una coppia di gattini.» Joad lo guardò con occhi socchiusi, poi si mise a ridere. «Ah! Siete il predicatore, il predicatore. Ne parlavo giusto con un amico, di predicatori, non sarà neanche un'ora fa.
«Ero un predicatore,» corresse l'altro, con faccia seria. «Ero il reverendo Jim Casy, il Roveto Ardente, che glorificava il nome di Gesù. E il mio Fonte Battesimale era sempre così pieno di peccatori contriti, che la metà di loro vi si sarebbero lasciati annegare pur di salvarsi l'anima. Ma adesso più,» sospirò, «adesso sono Jim Casy e basta. Ho perso la vocazione. Non ho che un mucchio di idee peccaminose in testa. Però sembran giuste, a modo loro.»
Joad disse: «Sono le idee che vengono a tutti, quando si comincia a pensare. Certo che mi ricordo di voi. Facevate proprio delle belle riunioni. Ricordo quella volta che avete fatto la predica camminando sulle mani con la testa in giù e i piedi in aria, e gridando a squarciagola. La mamma aveva molta stima di voi più che di chiunque altro. E la nonna diceva che avevate in voi più dogmi di fede che pidocchi.» Cercò nell'involto la tasca della giacca e, trovatala, ne trasse la fiaschetta. La tartaruga mosse una zampa, ma egli l'avviluppò stretta. Svitò il tappo e offrì da bere: «Un sorsetto?» Casy prese la fiaschetta e la guardò meditabondo. «Non predico più. Non c'è più religione negli uomini e, quel ch'è peggio, ce n'è ancora meno in me. Certo mi capita ancora, qualche rara volta, quando vado in giro, di pronunciare un sermone o di dire un benedicite alla mensa di qualcuno; ma senza convinzione. Lo faccio solo perché la gente sembra aspettarselo da me.»
Joad s'asciugò di nuovo la faccia col berretto. «Non siete troppo maledettamente santo per bere una goccia di whisky, eh?» chiese.
Casy parve vedere la fiaschetta per la prima volta. L'accostò alle labbra e tracannò tre generose sorsate.
«Veramente eccellente,» disse.
«Sfido, è genuino, costa un dollaro.»
Casy bevve un altro sorso prima di restituire la fiaschetta dicendo:
«Sissignore, sissignore!»
Joad, per compitezza, si astenne dal pulire con la manica la bocca della fiaschetta prima di bere a sua volta. Poi si accoccolò, e appoggiò la fiaschetta ritta contro l'involto. Le sue mani cercarono un fuscello con cui disegnare in terra i suoi pensieri. Spazzò via le foglie da un quadratino e ne spianò la polvere. E disegnò angoli e circoletti. «E' da tanto che non vi vedevo,» osservò.
«Non mi faccio vedere da nessuno,» disse il predicatore. «Dal giorno che ho deciso di andarmene, non faccio che nascondermi e meditare. Lo spirito è ancora forte in me, ma non è più lo stesso. Non sono più così sicuro di tante cose, com'ero prima.» Si rizzò a sedere più composto. La sua destra ossuta si insinuò come uno scoiattolo nella tasca anteriore della tuta e ne trasse un pezzo di tabacco da masticare. Lo pulì scrupolosamente con le dita per toglierne pagliuzze e la sporcizia della tasca, ne strappò coi denti un angoletto e con la lingua se lo cacciò tra gengiva e mascella. Quando porse il tabacco al compagno, Joad fece segno di no col fuscello. La tartaruga si agitava nell'involto. Casy notò il movimento. «Cos'hai lì dentro, un pollo? Lo soffochi, bada.»
Joad serrò più stretto l'involto. «No, è una tartaruga,» disse. «L'ho raccolta sulla strada. Pensavo di regalarla al mio fratellino. I bambini si divertono con le tartarughe.»
Il predicatore annuì lentamente. «Vero. Tutti i bambini hanno una tartaruga, prima o poi, ma è difficile tenerle. Il loro cervello è sempre al lavoro, finché un bel giorno taglian la corda e se ne scappano da qualche altra parte. Come me. Non mi contentavo più del vangelo bell'e fatto che avevo a portata di mano. Continuavo a scervellarmi per tagliuzzarlo finché non me lo son visto ridotto in pezzi. Lo spirito è ancora in me; ma non ho più niente da predicare. Sento piuttosto la vocazione di trascinare le folle dietro a me, di guidarle. Ma dove non so.»
«Portatevele in giro e basta,» disse Joad. «Tuffatele in quel fosso. Dite loro che bruceranno nell'inferno, se non la pensano come voi. Che bisogno avete di condurle in un posto piuttosto che in un altro? Guidatele e basta.» L'ombra del tronco si era allungata, Joad ne approfittò per trasferirvisi. S'accomodò alla turca e spianò un nuovo quadratino per disegnarci su i suoi pensieri col fuscello. Un cane da pastore arrivava trotterellando sulla strada, a testa bassa, lingua penzoloni e sgocciolante. Ansimava penosamente, la coda fra le gambe. Joad lo chiamò con un fischio, ma il cane si limitò a voltare la testa e ad accelerare l'andatura. «Quello sa dove vuol andare,» spiegò
Joad, quasi risentito. «A casa, forse.»
Pareva che il predicatore non potesse esser distolto dal corso delle sue riflessioni: «Sa dove vuol andare,» ripeté. «Proprio così: sa dove vuole andare. Io non l'ho mai saputo dov'è che voglio andare. Sai cosa facevo? Cantavo le glorie del Signore, stordivo i fedeli a furia di paroloni, e per farli rinvenire li battezzavo, e poi sai cosa facevo? Mi portavo una ragazza nell'erba e la coricavo. Tutte le volte così. Dopo, avevo rimorso, e pregavo e pregavo ma non serviva a niente. Alla prima occasione ricominciavo. Ho finito per convincermi che era un caso disperato, e che non ero altro che un impostore. Ma non lo facevo mica apposta.»
Joad sorrise scoprendo i lunghi denti e si passò la lingua sulle labbra. «Non c'è niente di meglio di una bella riunione di fedeli per stenderle, le ragazze,» ghignò. «L'ho fatto anch'io.»
Casy, eccitato, si sporse in avanti: «Ecco, vedi,» gridò. «Anche a me sembrava la strada giusta, così mi sono messo a pensarci sopra.» Agitava per l'aria l'enorme mano ossuta con gesti misurati. «Pensavo pressappoco così: 'Eccomi, qui ad invocare la grazia divina ed ecco qui tutti i miei fedeli che pure si sgolano e si dimenano per ottenere la grazia divina. E quelli che dicono che è opera del diavolo se si va a giacere con le ragazze. Proprio il contrario: quanto più una ragazza è piena di grazia, tanto più desidera farsi coricare sull'erba.' E mi domandavo come può il diavolo impossessarsi di una ragazza quando è così piena dello Spirito Santo che le esce fuori dal naso e dalle orecchie. Vien proprio fatto di pensare che forse era perché una volta il diavolo non sapeva come spassarsela, giù all'inferno.» I suoi occhi luccicavano per l'eccitazione. I muscoli delle sue labbra e delle sue mascelle adunarono la saliva e la sputarono fuori con violenza. Rotolando nella polvere lo sputo prese la forma di una pallottola. Il predicatore si guardò la palma di una mano come se leggesse in un libro. «E io qui,» proseguì sommesso, «io qui con tutte quelle anime in mano, responsabile della. loro salute eterna e conscio della mia responsabilità, a coricare ogni volta una di quelle ragazze». Guardò Joad con la disperazione negli occhi. L'espressione del suo viso chiedeva aiuto.
Joad era intento a disegnare nella polvere una donna nuda: seni, fianchi, cosce. Disse: «Io non ho mai fatto il predicatore, ma non mi son mai lasciato sfuggire niente, se lo potevo avere. E non ho mai avuto delle brutte idee in proposito, tranne che ero sempre maledettamente contento, dopo averlo avuto.»
«Ma è perché non facevi il predicatore, appunto,» insistette Casy. «Per te le ragazze erano ragazze e basta. Per me, invece, erano vasi spirituali. Io dovevo salvare le loro anime, e invece, con tutta quella responsabilità su di me, prima le rendevo piene di grazia, e poi le portavo fuori sull'erba.» «Avrei fatto bene a fare il predicatore anch'io,» opinò Joad, tirando fuori tabacco e cartine e facendosi una sigaretta. L'accese, e attraverso al fumo sbirciò il predicatore. «E' un pezzo che non tocco una donna. Ho bisogno di rifarmi.»
L'altro, senza badargli, seguiva il filo delle proprie idee: «Il rimorso non mi dava pace. Mentre predicavo, dentro di me facevo il voto, perdio stavolta non lo faccio! Ma sapevo già ch'era un voto da marinaio.»
«Avreste dovuto prender moglie,» suggerì Joad. «Una volta ne abbiamo ospitato uno in casa nostra ch'era ammogliato. Teneva le riunioni sull'aia. Geovita, era. Dormivano nella camera sopra a quella dove dormivamo noi ragazzi. Avresti dovuto sentire che galoppate subiva, la mogliettina, dopo le riunioni serali.»
«Hai fatto bene a dirmelo. Credevo d'esser io solo. Tanto che il rimorso ha finito per decidermi a vivere da eremita; per riflettere sulla singolarità del mio caso.» Piegò le gambe e si grattò tra le dita dei piedi. «E mi domandavo: Cos'è che ti tormenta? Una malattia? E rispondevo: No, è il peccato. Allora mi dicevo: Com'è che uno come te, pieno di Spirito Santo e resistente come un mulo e refrattario al peccato, com'è che si ritrova continuamente le dita tra i bottoni dei pantaloni?» E appoggiò due dita di una mano sul palmo dell'altra come a collocarvi ordinatamente le parole una accanto all'altra. «E mi dicevo: Forse non è peccato. Forse è proprio questo il destino dell'uomo. Forse ci stiamo fustigando e rimproverando per niente. E pensavo a quelle poveracce che si frustano da sé con un nerbo di peli di cavallo, pensando che forse ci provano gusto a flagellarsi, così poteva darsi che anch'io ci provassi gusto. Be', me ne stavo sdraiato sotto un albero pensando a tutte queste cose finché caddi addormentato. Si fece notte ed era buio quando mi risvegliai. Si sentiva un coyote ululare nei dintorni. Senza neanche accorgermene, mi ritrovai a urlare: Al diavolo! Non esiste né peccato, né virtù! Esiste solo quello che si fa e che è parte della realtà, e tutto ciò che si può dire con sicurezza è che la gente fa delle cose che sono simpatiche, altre che non sono simpatiche.» Fece pausa e alzò gli occhi dalla palma su cui aveva impresso le parole.
Joad lo guardava con un sorrisetto forzato in cui però l'interesse era palese. Joad disse: «Insomma, avete passato una revisione generale a tutta la baracca, avete scoperto tutte le magagne.»
Casy riprese a parlare, con voce afflitta, turbata: «Che è questa vocazione, questa grazia divina? mi domando, e rispondo: E' amore. Amo talmente il mio prossimo che alle volte finisco che faccio delle fesserie. Ma non ami Gesù? mi domando. Be', pensa e ripensa, finalmente rispondo: Mai conosciuto io uno che si chiami Gesù. So un mucchio di storie sulla faccenda, ma amo solo il mio simile. E qualche volta capita che mi salta il ticchio di volerli fare felici, così mi metto a invocare qualcosa che penso può farli felici. E poi... ma sto dicendo un sacco di stupidate. Forse ti meravigli che io uso di queste empie espressioni. Ti dirò, per me non sono più così empie. Sono solo parole che la gente usa e non vogliono dir niente di empio.»
Joad diede un'occhiata alla sua giacca e vide che la tartaruga s'era liberata e s'affrettava via nella direzione della strada. La osservò per qualche istante, poi s'alzò pigramente e la ricuperò e la riavvolse nella giacca. «Non ho nessun regalo da portare ai marmocchi.» disse, «tranne questa vecchia tartaruga.»
«E' bello da parte tua,» disse il predicatore. «Stavo pensando al vecchio Tom quando sei arrivato te.
L'ho sempre considerato un mezzo ateo. Come sta?»
«Come sta non lo so. E' da quattr'anni che manco da casa.»
«Ma non ti scriveva?»
Joad si sentì un po' in imbarazzo. «Oh, non è il tipo, lui, da scrivere per far bella figura, o così per il gusto di scrivere. Sa far la firma, come tutti, e leccare la matita, ma lettere non ne scrive mai. Dice sempre che quel che non si può dire a voce, è inutile farlo dire dalla matita.» «E tu dove sei stato? In viaggio?» chiese Casy.
Joad gli scoccò un'occhiata sospettosa. «Non avete saputo niente? Ero in tutti i giornali.»
«No. Cosa?» Cambiò posizione alle gambe e si mise a sedere più comodamente appoggiato all'albero. Il pomeriggio avanzava rapido e i raggi del sole assumevano un tono più intenso.
Joad disse allegramente: «Tanto vale dirvelo adesso e non pensarci più. Ma se faceste ancora il predicatore non ve lo direi, per paura che vi metteste a pregare per me.» Vuotò le ultime gocce di whisky e buttò via la fiaschetta che rotolò nella polvere. «Son stato a McAlester tutti questi quattr'anni.»
Casy sobbalzò, e voltò la testa verso di lui, con le ciglia aggrottate, tanto che la sua fronte spaziosa parve ancora più alta. «Ti secca parlarne, vero? Be', io non faccio domande. Se hai fatto qualcosa di male...»
«Lo rifarei diritto come un filo,» protestò Joad. «Ho ammazzato uno in rissa. S'era ubriachi tutt'e due e si venne a lite per una ragazza. Lui mi tira una coltellata, e io chiappo un badile ch'era li contro il muro e gli spacco la testa.»
Le ciglia di Casy risalirono al livello normale. «Allora non sei pentito di niente?»
«No, affatto. M'han dato sette anni, considerando che m'ero preso una coltellata. E dopo quattro m'han messo in libertà... sulla parola.»
«E allora son quattr'anni che non hai notizie di casa?»
«Oh no, qualcosa ho ricevuto: la mamma mi spedì una cartolina, due anni fa, e anche la nonna me ne mandò una, il Natale scorso. Cristo, le risate dei compagni di cella! C'era un albero e della roba tutta luccicante come neve. C'era anche una poesia:
"Buon Natale, bel bambino pace e gioia sul tuo cammino
Sotto l'albero che c'è? La sorpresa mia per te".
«Credo che la nonna non l'avesse neppure letta. Facile che l'ebbe da un viaggiatore e che scelse quella per via di tutte quelle cosine luccicanti. I miei compagni di cella si buttarono via dalle risate. Da quel giorno mi chiamarono Bel Bambino. La nonna non la vide certo come una cosa buffa: con tutti quei luccicori avrà pensato ch'era così graziosa, la cartolina, che non era necessario la leggesse. Tanto più che aveva perso gli occhiali sin da quando io andai dentro. Probabile che non li abbia neanche più ritrovati.»
«E come ti trattavano a McAlester?» chiese Casy.
«Mica male. Pasti regolari, biancheria di ricambio, ci sono perfino dei locali per fare il bagno. Per certi versi non si sta malaccio. L'unica cosa, si sente la mancanza di donne.» Scoppiò a ridere. «Ho conosciuto uno, anche lui in libertà vigilata, che s'è fatto rificcar dentro. Gli chiesero com'è che s'era lasciato beccare di nuovo. Cristo, diceva, non c'è proprio convenienza a stare a casa! Niente luce elettrica, niente docce, niente libri, e si mangia peggio di qui. Così aveva deciso di rientrare dentro dove almeno non c'era il rischio di saltare i pasti e dove c'erano anche certe comodità. Disse che fuori di lì si sentiva sperduto, dovendo oltretutto pensare sempre al domani. Cosi rubò un'auto e se ne tornò dentro.» Joad si fabbricò un'altra sigaretta. «Aveva perfettamente ragione. Ieri sera, pensando alla casa che m'aspetta, e al mio giaciglio, non ero niente entusiasta. Là, avevo degli amici, s'era messo su un'orchestrina, abbastanza buona, tanto che pensavamo di rimetterci insieme un giorno e di impiegarci alla radio... E stamattina, quando mi son svegliato, restavo lì sdraiato aspettando la campana.»
Casy ridacchiò. «La forza dell'abitudine.»
La luce del tardo pomeriggio spennellò d'oro la natura. Le canne del granturco parevano d'oro. Un gruppo di tordi passò frullando le ali, diretto a qualche stagno. La tartaruga prigioniera ricominciò a dibattersi. Joad accentuò la piega della visiera, così che ora sembrava il becco adunco d'un corvo. «Credo che è ormai ora di riprendere il cammino,» disse Joad. «Adesso il caldo è sopportabile.» Casy si rimise in piedi. «E' un pezzo che non vedo il vecchio Tom,» disse. «Avevo una mezza idea di passare a trovarlo. Una volta vi portavo Gesù in casa, e non ho mai fatto colletta, mi contentavo d'un boccone da mangiare.»
«Venite su,» invitò Joad. «Il babbo vi vedrà volentieri.» Raccolse la giacca, e rifece accuratamente l'involto infilandoci le scarpe e la tartaruga.
Casy raccolse le ciabatte di tela e vi introdusse i piedi nudi. «Io non ho la fiducia che hai te. Ho sempre paura di trovare dei chiodi, o dei pezzi di vetro nella polvere, e niente mi secca tanto come ferirmi un piede.»
Esitarono un momento sull'orlo dell'ombra del salice e poi si tuffarono coraggiosamente nel sole giallo come due nuotatori che s'affrettano a traversare un fiume. Ma dopo i primi passi svelti presero un'andatura più moderata. Le canne di granturco gettavano ombre oblique ora, e l'aria era pregna dell'odor caldo della polvere. Dopo il campo di granturco ne costeggiarono uno di cotone. Il verde scuro delle piantine traspariva sotto la pellicola di polvere; le piantine erano disseminate irregolarmente: più fitte nei luoghi bassi, dove l'acqua era rimasta più a lungo, e meno nei luoghi alti, ma tutte lottavano contro un terreno fortemente ondulato. L'orizzonte era invisibile nella foschia giallognola; solo a ponente si vedeva una lunga fila di pioppi seguire il corso del fiume. L'aria era così asciutta, che la mucosa del naso si seccava rapidamente, e gli occhi lagrimavano per ovviare al pericolo di restare essiccati.
Casy disse: «Dovevi vedere com'era bello il granturco prima del vento. Sarebbe stato un grasso raccolto.»
«Tutti gli anni così,» osservò Joad. «Da quando mi ricordo io, tutti gli anni la stessa storia: un grasso raccolto in vista, ma non arriva mai. Il nonno diceva che la terra era buona nei primi cinque anni di coltivazione, prima che scomparisse del tutto la gramigna.»
La strada costeggiava ora in discesa una piccola altura per risalire poi verso un'altra collinetta. «Di qui non mancherà che un paio di chilometri a casa vostra, vero?» disse Casy. «Non è là, subito dopo quell'altura?»
«Sì, a meno che non ce l'abbiano rubata; come la rubò il babbo, del resto.»
«Il vecchio Tom la rubò?»
«Certo. La trovò poco lontana di qui, un tre chilometri verso levante e se la portò via. Ci abitava una famiglia che poi era partita. Lui e il nonno e mio fratello Noè l'avrebbero voluta intera, ma era troppo grande; dovettero contentarsi della metà. E' per questo che è così buffa da un lato. Sicuro: la tagliarono in due, e se ne rimorchiarono una metà, con sei pariglie di cavalli e due mule. Poi tornarono indietro a prendere l'altra metà, e ricongiungerle insieme, e non la trovarono più. Wink Manley era arrivato sul posto prima di loro, e coi suoi figli s'era portato via l'altra metà. Il nonno e il babbo erano furiosi, ma qualche tempo dopo ci bevvero sopra, loro e Wink sghignazzandoci come matti. Wink sostiene che la sua è una casa da monta, così che se noi ci mettessimo vicino la nostra e le congiungessimo, è probabile che potremmo ottenere una figliata di casupole. Dopo che ha bevuto, Wink è proprio un gran compagnone. Comunque da allora lui, il babbo e il nonno divennero amiconi e prendevano le sbornie insieme tutte le volte che potevano.»
«Gran simpaticone il vecchio Tom,» convenne Casy. Accelerarono l'andatura nella discesa e la rallentarono di nuovo quando cominciò la salita. Respiravano polvere. Casy s'asciugò la fronte con la manica, e si rimise in testa il cappello a cencio. «Sì,» ripeté, «era un gran simpaticone. Per essere un ateo, era un gran bel tipo. L'ho visto qualche volta alle riunioni quando la grazia divina penetrava appena in lui ed allora faceva almeno una dozzina di salti».
Raggiunsero la sommità della collinetta di dove la strada, ora frastagliata e scoscesa, seguiva le tracce del vecchio letto d'un fiume ed era tuttora disseminata, ai margini, di rupi e scogliere, testimonianze delle antiche erosioni delle acque. Qua e là a mezzo del sentiero, alcuni massi e lastroni sui quali Joad, sempre a piedi nudi, prese a saltellare per procedere oltre. «Voi parlate di mio padre,» disse, «ma si vede che non avete mai saputo di quella volta in cui battezzarono zio John al Polk, quando si mise a tuffarsi e a saltare come un matto».
La strada correva ancora tra due palizzate di filo di ferro. Sulla destra una cinta di filo di ferro cingeva un campo di cotone e le verdi piantine, da entrambi i lati, presentavano sempre l'identico aspetto polveroso, arido, scuro.
Joad indicò la palizzata di confine. «Quella è la nostra,» disse. «Non che ce ne fosse proprio bisogno, di una cinta in questa zona, ma avevamo il fil di ferro, e poi al babbo piaceva avere una cinta nel suo podere. Diceva che gli dava la sensazione di avere veramente quaranta acri. Certo non l'avremmo avuta se zio John non fosse venuto una sera con sei rotoli di fil di ferro sul carretto. Li diede al babbo in cambio di un maiale. Non abbiamo mai saputo dove li avesse presi, quei rotoli.» Procedevano molto lentamente, ora, per via della salita e, coi piedi immersi nel soffice strato di polvere, tastavano il terreno in profondità. Gli occhi di Joad perlustravano i più oscuri recessi della sua memoria. Pareva ridere dentro di sé. «Zio John era un gran bel tipo. Come quella volta che ebbe quel maiale.» Ridacchiava fra sé continuando a camminare.
Casy aspettava con impazienza. Joad non pareva voler continuare il racconto. Casy lasciò passare un bel po' di tempo finché esplose e chiese, vagamente irritato: «Be', cose ne ha fatto del maiale?» «Eh? Oh, il maiale lo accoppò li sul posto, in casa nostra, e disse alla mamma di accendere il fornello. Poi ha tagliato via le costolette e le ha messe in padella, e nel forno ha messo un prosciutto intero. E prima s'è mangiato le costolette fino all'ultima, e poi il prosciutto fino all'ultima briciola. Noi bambini si stava tutti attorno a guardarlo stralunati, e ci gettava qualche boccone ogni tanto, ma al babbo non ha voluto offrire manco una briciola. Si fece una di quelle strippate che finì col vomitare, dopodiché se ne andò a dormire. Mentre lui dormiva, noi bambini e il babbo si fece fuori il prosciutto. Be', il mattino seguente, appena sveglio, zio John caccia un altro prosciutto nel forno. Gli fa il babbo: John, non hai mica intenzione di mangiarlo tutto da solo, quel maledetto maiale? E John: L'intenzione ci sarebbe, ma temo proprio che si guasti, prima che io possa finirlo, per quanto ci vada matto per la carne di porco. Che ne diresti di tenertene un pezzo e di ridarmi indietro un paio di quei rotoli? Ma il babbo non era mica scemo, così lasciò che zio John continuasse a ingozzarselo e, quando fu sazio fino alla nausea e decise finalmente di smettere, ne rimaneva ancora più di metà. Disse allora il babbo: Perché non lo sali? Ma zio John non era il tipo da conservare un maiale: quando ne vuole uno, lo vuole intero e quando se n'è saziato non gli piace vedersi penzolare intorno pezzi di carne dì maiale. Cosi, quando se ne fu andato, il babbo salò tutta la carne rimasta.» Disse Casy: «Quando ero ancora un predicatore, feci anch'io un'esperienza del genere, e te ne ho parlato, ma poi non mi capitò più. Come ti spieghi che zio John abbia fatto un cosa simile?»
«Chi lo sa,» replicò Joad. «Probabile che avesse una voglia matta di carne di porco. Me ne viene la voglia anche a me, solo a pensarci. In quattro anni io ne ho mangiato solo quattro fette... una ad ogni Natale.»
«Probabile che Tom ucciderà il vitello grasso come per il figliol prodigo della Scrittura,» osservò Casy con intenzione.
Joad rise di scherno: «Non conoscete il babbo. Se sgozza un pollo, urla più lui del pollo. Non imparerà mai. Tutti gli anni alleva un porco per scannarlo a Natale e poi gli muore di qualche malattia, così che non si può più mangiare. Zio John, invece, tutte le volte che gli è venuta la voglia del porco, se l'è preso e se l'è mangiato.»
Raggiunsero il culmine d'una piega del terreno e videro il podere dei Joad sotto di loro. E Tom Joad s'arrestò di botto. «Non è più lo stesso, disse. «Guardate la casa. E' successo qualcosa. E' impossibile che ci abiti qualcuno, lì dentro!»
Allibiti, i due rimasero immobili a contemplare i miseri resti dei casolari.
CAPITOLO 5.
I latifondisti arrivavano sul posto, o più spesso i loro rappresentanti. Arrivavano in macchina, e saggiavano con le dita la terra arida, e qualche volta facevano eseguire dei sondaggi in profondità. I mezzadri, sulle aie assolate, stavano inquieti a seguire con gli occhi le vetture fare il giro degli appezzamenti. E finito il giro i latifondisti, o i loro rappresentanti, venivano sull'aia e senza scendere dalle vetture parlavano ai mezzadri attraverso il finestrino. Per qualche tempo i mezzadri restavano in piedi al fianco delle vetture, poi s'accoccolavano per terra, e cercavano dei fuscelli per disegnare figure nella polvere.
Sulle soglie dei casolari le donne s'affacciavano a guardare, e dietro di loro i bambini: teste bionde, occhi dilatati, piedi nudi l'uno accavallato sull'altro, le dita nervosamente agitate dalla curiosità. Donne e bambini guardavano il capofamiglia conferire col latifondista. Immobili, silenziosi.
Taluno dei rappresentanti si mostrava umano perché odiava la parte ch'era costretto a recitare, e taluno era irritato di dover mostrarsi disumano, e taluno si mostrava freddo e insensibile perché da tempo aveva imparato che il padrone, per essere tale, deve necessariamente mostrarsi insensibile. E nel loro intimo tutti quanti si riconoscevano, a malincuore, strumenti d'una forza inesorabile. Alcuni di essi detestavano le cifre che li costringevano ad agire così, altri le temevano, altri ancora le veneravano perché offrivano loro un rifugio contro la ragione e il sentimento. Se il proprietario della terra era una banca, o una società finanziaria, i rappresentanti dicevano: La Banca (o la Società) intende... vuole... ha bisogno... esige... quasi che la Banca o la Società fosse un essere mostruoso, dotato di intelletto e sentimento, che li tenesse prigionieri tra i suoi tentacoli. Né s'assumevano alcuna responsabilità in nome della banca o della società, in quanto essi si ritenevano esseri umani e schiavi, laddove le banche erano al tempo stesso macchine e padroni. Alcuni rappresentanti erano orgogliosi d'essere schiavi di così possenti e inesorabili padroni. Sedevano sui cuscini della vettura e spiegavano: Lo sapete anche voi che la terra è povera. Dio solo sa quanto lavoro e sudore ci avete sprecato su.
I mezzadri accoccolati annuivano, sconcertati, e disegnavano figure nella polvere. Sì, lo sappiamo, Dio lo sa. Se solo la polvere non se ne volasse via, se solo la pianta resistesse radicata nel terreno, la situazione potrebbe essere diversa.
I rappresentanti insistevano nel loro punto di vista: Sapete anche voi che la terra diventa sempre più povera. Sapete anche voi cosa fa il cotone alla terra: la impoverisce, ne succhia tutto il sangue. Gli uomini accoccolati annuivano: Lo sappiamo, Dio lo sa. Se solo ci fosse consentita la rotazione delle colture, si potrebbe infonderle sangue nuovo.
Già, ma è troppo tardi. E i rappresentanti illustravano le necessità e il modo di ragionare del mostro che era più forte di loro. Se uno riesce a provvedere al suo sostentamento e a pagare le tasse, può conservarla, la terra, certo che può.
Sì, ma se un anno manca il raccolto, la banca deve venirci in aiuto, coi prestiti.
Oh, ma la banca o la società non può, diamine! Non è una creatura che respira aria, che mangia polenta. Respira dividendi, mangia interessi. Senza dividendi, senza interessi, muore, come morireste voi senz'aria o senza polenta. E' triste, ma è proprio così.
Gli uomini accoccolati alzavano gli occhi cercando di capire. Ma se ci lasciano stare, forse l'anno venturo avremo un buon raccolto. Dio sa quanto cotone l'anno venturo. Con tutte queste guerre, Dio sa come andrà su il prezzo. Non fanno gli esplosivi col cotone? Non fanno le uniformi dei soldati? Combinateci delle guerre, e vedrete come va su il cotone. L'anno venturo, forse. Guardavano in su, con occhi pieni di speranza.
Eh, ma non si può contare sulle guerre. La banca... il mostro ha bisogno di dividendi costanti, non può aspettare, altrimenti va a rotoli. No, le tasse vanno pagate. Se il mostro cessa di crescere, è perduto. Non può fermarsi.
E bianche morbide dita cominciavano a picchiettare sul riquadro del finestrino, e dure dita callose serravan più stretti i fuscelli irrequieti. Sulle soglie dei casolari assolati le donne sospiravano, poi cambiavano posizione ai piedi e l'agitazione dei pollici ora denotava apprensione. S'avvicinavano, guardinghi, i cani a fiutare la vettura e bagnavano i quattro pneumatici l'uno dopo l'altro. Razzolavano le galline nell'aia soleggiata e s'arruffavano le penne per infiltrarsi la polvere fin sulla pelle. Nei porcili grugnivano i maiali levando il muso, come a reclamare, dagli avanzi melmosi della brodaglia.
Gli uomini accoccolati riabbassavano gli occhi. E cosa volete che facciamo? Non possiamo rinunziare a una parte del raccolto, siamo già mezzi morti di fame. I piccoli non hanno abbastanza da mangiare. Siamo coperti di stracci. Se non fossimo tutti nelle stesse condizioni, avremmo vergogna di farci vedere in chiesa.
E alla fine i rappresentanti venivano al dunque. La mezzadria era un sistema che non funzionava più. Un uomo solo, sulla trattrice, ora sostituisce dodici, quattordici famiglie. Gli si dà un salario e si prende tutto il raccolto. Non c'è scampo. E' doloroso, ma è così, il mostro è malato: qualcosa gli è accaduto.
Ma a furia di cotone la fate morire, la terra.
Lo sappiamo, ma prima che muoia vogliamo tutto il cotone che può darci. Poi la venderemo. C'è un mucchio di famiglie, nell'Est, che non sognano altro che comprare un pezzo di terra.
I mezzadri alzavano gli occhi, pieni di spavento. E noialtri? Come si mangia?
Eh, a voi non resta che andarvene altrove. Viene la trattrice.
Ed ora gli uomini accoccolati si rizzavano in piedi, furenti. Ma questa terra l'ha presa mio nonno agli indiani, rischiando la pelle. E mio padre c'è nato e l'ha lavorata, lottando da disperato contro i serpenti e le erbacce. E' venuto un anno cattivo e ha dovuto ipotecare. E noialtri siamo tutti nati qui. Ecco là i nostri bambini... anche loro sono nati qui. Anche allora, quando mio padre ha fatto l'ipoteca, anche allora il padrone era la banca, ma ci ha lasciati stare, e ci spettava un tanto su ogni prodotto.
Tutto questo lo sappiamo, ma non siamo noi, è la banca. Una banca non è mica un uomo. E neanche è un uomo, il padrone di cinquantamila acri. Non è altro che il mostro.
Va bene, gridavano i mezzadri, ma la terra è nostra. L'abbiamo misurata noi, dissodata noi. Siamo nati qui, qui ci hanno ucciso, qui siamo morti. Anche se non è buona, è nostra lo stesso. E' l'esserci nati, l'averla lavorata, l'esserci morti, che la fa nostra. E' questo che ce ne dà il possesso, e non una carta con dei numeri sopra.
E' doloroso, ma noi non c'entriamo. E' il mostro. La banca non è un essere umano.
Va bene, ma è una società di esseri umani.
Niente affatto. Questo è il vostro errore. La banca è qualcosa di diverso da un essere umano. Capita che chiunque faccia parte di una banca non approvi l'operato della banca, eppure la banca lo fa lo stesso. Vi ripeto che la banca è qualcosa di più di un essere umano. E' il mostro. L'hanno fatta degli uomini, questo sì, ma gli uomini non la possono tenere sotto controllo.
I mezzadri gridavano: Per avere la terra mio nonno s'è battuto con gli indiani, mio padre s'è battuto coi serpenti, a noialtri ci toccherà di batterci contro le banche, che son peggio degli indiani e dei serpenti. Vuol dire che ci batteremo, per tenerci la nostra terra, come han fatto i nostri nonni e i nostri padri.
E adesso i rappresentanti montavano in collera. Dovrete andarvene.
Ma è nostra, urlavano i mezzadri. Noi...
No, è della banca, è del mostro. Dovete andarvene.
E se prendiamo ì fucili, come il nonno quando vennero gli indiani? E allora?
In questo caso ve la vedrete con lo sceriffo, prima, e poi con la truppa. Non capite che, se v'ostinate a restare, contravvenite alla legge sulla proprietà, e che se fate uso delle armi siete dei delinquenti?
Il mostro non è un essere umano, ma può servirsi degli uomini per ottenere quello che vuole.
E se andiamo via, dove andiamo? Come ce ne andiamo? Non abbiamo un centesimo.
E' doloroso, dicevano i rappresentanti, ma la banca, il padrone di cinquantamila acri, non è responsabile di questa situazione. Voialtri vi trovate su terreni che non vi appartengono. Fuori di qui, in un altro stato, adesso che viene l'autunno potete mettervi a coglier cotone. Potete magari ottenere il sussidio. Perché non andate in California? Là hanno bisogno di manodopera, il clima è ottimo, non fa mai freddo, basta allungare il braccio per cogliere un'arancia, c'è ogni sorta di lavoro; perché non ve ne andate là?
E i rappresentanti mettevano in moto e ripartivano.
E i mezzadri s'accoccolavano di nuovo a disegnare figure nella polvere, a calcolare, a considerare la situazione, brusche le facce abbronzate, minacciosi gli occhi riarsi dal sole. Dalle soglie dei casolari le donne si facevano avanti timorose verso i mariti, seguite dai bambini anch'essi timorosi e pronti a scappare al primo allarme. I ragazzi più alti s'accoccolavano vicino al padre, per sentirsi adulti. E dopo un poco le donne domandavano: Cosa voleva?
E i capifamiglia guardavano su per un attimo, con gli occhi dell'afflizione. S'ha da far fagotto. Viene la trattrice, e un sovrintendente, come nelle fabbriche.
E dove andremo? domandavano le donne.
Non lo sappiamo. Non lo sappiamo.
E le donne rincasavano in fretta e in silenzio, spingendosi innanzi i bambini. Sapevano che l'uomo, in tale stato di preoccupazione e di angustia, può facilmente montare in collera e prendersela anche coi suoi. Lasciavano i mariti soli a calcolare e deliberare nella polvere.
Di lì a poco forse gli uomini si guardavano attorno: guardavano la pompa, inaugurata dieci anni prima, col glicine in fiore attorcigliato attorno al collo d'oca, guardavano il ceppo di legno sul quale erano stati scannati i polli a centinaia, guardavano l'aratro a mano nel locale degli attrezzi, guardavano la culla appesa alla trave li dentro.
Nelle case i bambini facevano ressa attorno alle madri. Cosa andiamo a fare, mamma? Dove andiamo?
Non sappiamo ancora, rispondevano le donne, andate fuori a giocare, ma non andate vicino al babbo, potrebbe picchiarvi se gli andate d'intorno. E le donne tornavano alle loro faccende, lanciando continue occhiate ansiose agli uomini accoccolati nella polvere, preoccupati e intenti e pensierosi.
E arrivarono le trattrici. Strariparono dalle strade, invasero i campi, penetrarono dappertutto, strisciando come dinosauri dotati dell'incredibile forza degli insetti. Trattrici Diesel, frementi anche da ferme, tonanti in partenza, rombanti in azione. Mostri dal grifo appuntito che procedevano in linea retta sui loro cingoli entro nuvole di polvere, grufolando inesorabili, superando palizzate, cortili, avvallamenti, squarciando la terra, insinuandosi sotto gli atri delle case coloniche, dissodando le aie, scalando ripe, abbattendo cinte, ignorando ogni ostacolo.
Sul suo sedile in ferro il conducente non aveva aspetto umano. Inguantato, occhialuto, mascherati il naso e la bocca contro la polvere, era parte integrante del mostro, era un fantoccio meccanico. Lo strepito dei cilindri echeggiava su tutta la contrada, divenne un elemento come l'aria o la terra, e l'aria e la terra e lo strepito sussultavano all'unisono sotto le identiche vibrazioni. Il conducente non poteva impedire al mostro di avanzare e retrocedere in linea retta per la campagna e di travolgere nella sua marcia dozzine di fattorie. Azionando leve e comandi si sarebbe potuto deviarlo, ma il conducente non poteva perché un altro mostro, il mostro che aveva costruito la trattrice, che l'aveva inviato sul posto s'era immesso nelle mani, nel cervello, nei muscoli del conducente, lo teneva imbrigliato e imbavagliato... imbrigliata la mente, imbavagliata la bocca, imbrigliate le sue facoltà di percezione, soffocata ogni sua voce di protesta. Non poteva vedere la campagna così com'era, né assaporare l'odore genuino della terra, né calpestarne le zolle, né sentirne il calore e la forza. Sedeva su uno sgabello di ferro e premeva pedali di ferro. Non poteva apprezzare né comprimere, o maledire o incoraggiare il proprio potere nel confronti della terra e di conseguenza era incapace di provare gioia o tormento, furore o sollievo. Non conosceva la terra, non era sua, non aveva fede in lei, non la supplicava. Se un granello di seme non germinava, egli non se ne dava pensiero. Se i teneri sprocchi appassivano nella siccità o affogavano sotto la pioggia, egli rimaneva indifferente, come la trattrice.
Non amava la terra, non più di quanto l'amasse la banca; ma non amava nemmeno la trattrice. Si contentava di ammirarne le superfici lucenti, la potenza, il rombo dei suoi cilindri detonanti. A rimorchio rotavano i lucidi dischi che vivisezionavano la terra: non più col faticoso lavoro dell'aratro, ma con la fredda opera d'un chirurgo la terra smossa s'ammucchiava da un lato mentre il secondo ordine di dischi la incideva e l'ammucchiava dall'altro; rilucevano le lame taglienti per il costante lustramento della terra. E dietro ai dischi gli erpici rastrellavano le zolle con denti di ferro. E dietro agli erpici le lunghe seminatrici - dodici ferrei membri eretti - violentavano la terra, stuprando meccanicamente, senza passione, sputando il seme. Il conducente sul suo sgabello di ferro s'inorgogliva dell'impeccabile dirittura dei solchi che non tracciava lui, della trattrice che non era sua e ch'egli non amava, della potenza di cui si sapeva schiavo. E s'arrivava alla maturazione e alla mietitura senza che nessun essere umano avesse sbriciolato con le mani le tiepide zolle o setacciato la terra tra le dita, senza che nessuno avesse toccato il seme o ne avesse spiato con ansia la crescita. Gli uomini mangiavano ciò che essi non avevano coltivato, più nessun vincolo li legava al proprio cibo. La terra s'apriva sotto il ferro e sotto il ferro gradatamente inaridiva: nessuno c'era più ad amarla o a odiarla, nessuno più la supplicava o malediceva.
A mezzodì il conducente fermava la trattrice talora nei pressi d'una cascina e apriva il pacco della colazione: sandwich ravvolti in carta oleata, pane bianco, carne in scatola, sottaceti, formaggini, una fetta di torta marchiata come il pezzo di ricambio d'una macchina. Mangiava senza gustare il cibo. E i mezzadri che non si decidevano a far fagotto venivano fuori a guardarlo mentre si levava gli occhiali e la maschera che lasciavano impronte curiose attorno ai suoi occhi e al naso e alla bocca. Il tubo di scappamento della trattrice continuava a spetezzare, perché il prezzo della benzina era così basso che risultava più economico lasciare acceso il motore, anziché spegnerlo e poi doverlo scaldare di nuovo per riavviarlo. La curiosità sospingeva soprattutto i bambini, coperti di stracci, col pezzo di polenta in mano. Osservavano con dilatati occhi famelici il graduale apparire, fuor dalla carta oliata, dalla stagnola e dalle scatole di latta, dei prelibati cibi che costituivano la refezione del fantoccio meccanico convertitosi in uomo di carne e d'ossa. Non gli rivolgevano la parola. Guardavano la sua mano portare il cibo alla bocca. Non lo osservavano masticare; i loro occhi seguivano la mano che teneva il sandwich. Dopo un poco il mezzadro s'avvicinava anche lui, e s'accoccolava nell'ombra gettata dalla trattrice. «To', sei il figlio di Joe Davis, vero?» «Sì,» annuiva il conducente.
«E com'è che ti sei messo a fare questo lavoro, a danno dei tuoi?»
«Tre dollari al giorno. Non ne potevo più, sgobbare tutto il giorno per un tozzo di pane. Ho moglie e bambini e si deve pur mangiare. Tre dollari al giorno, e tutti i giorni...»
«Già, ma pei tuoi tre dollari al giorno quindici o venti famiglie non hanno neppure il pane. Un centinaio di persone sul lastrico, vagabonde, pei tuoi tre dollari al giorno. Ti pare giusto?»
«Come posso pensare agli altri! Io penso ai bambini miei. Tre dollari al giorno, tutti i giorni. I tempi cambiano, caro voi, non ve n'accorgete? La terra non rende più al giorno d'oggi, a meno che se n'abbia duemila, cinquemila, diecimila acri, e la trattrice. Ai pesci piccoli come noi non rende più. Non vi dà retta nessuno, oggi, se non siete un industriale d'automobili o la società telefonica. Eh, oggi è così, non c'è niente da fare. Provate anche voi a fare tre dollari al giorno, in qualche altro posto. E' l'unica.»
«E' proprio buffo,» rifletteva il mezzadro. «Se uno possiede un pezzettino di terra, egli è tutt'uno con la sua terra, ne è parte integrante. Se la terra che possiede può girarsela tutta e toccarla e causargli preoccupazioni se il tempo si mette al brutto e farlo felice quando arriva la pioggia, pure egli è tutt'uno con la sua terra e insomma si sente un signore per il fatto che quella terra è sua. E anche se l'annata non è buona, si sente un signore lo stesso. E' così.»
«Ma prendete ora,» proseguiva il mezzadro, «uno che abbia una proprietà che non vede neanche, o perché non riesce a trovare il tempo di andarla a vedere o perché non può andarci a risiedere, ecco che allora quell'uomo è schiavo della sua proprietà. Non può fare né pensare quello che vorrebbe. La proprietà è il vero padrone, è più forte dell'uomo. E lui si sente un poveraccio, non un signore. Solo i suoi possedimenti sono importanti mentre lui ne è solo lo schiavo. Non è vero anche questo?»
Il conducente scartocciava i formaggini, buttava via la stagnola e continuava a mangiucchiare. «Son cambiati i tempi, non lo vedete? A ragionar così, i marmocchi restano a pancia vuota. Fatevi i vostri tre dollari al giorno, e pensate a sfamare i bambini vostri. Quelli degli altri non vi riguardano. Continuate pure a ragionare così e vedrete che non li farete mai tre dollari al giorno. Non troverete nessuno che ve li darà, fintanto che continuerete a preoccuparvi di tutto fuorché di quei tre dollari al giorno.»
«Un centinaio di creature sul lastrico pei tuoi tre dollari al giorno. Ma mi dici dove s'ha da andare?» «Ora che mi viene in mente,» diceva il conducente, «sbrigatevi a sgombrare, sapete. Oggi stesso comincio a passarvi sull'aia.»
«Il pozzo me l'hai già distrutto stamattina.»
«Eh, lo so; dovevo tener la linea retta. E per la stessa ragione oggi devo passarvi sull'aia. Bisogna andare diritti. Oh, sentite, visto che conoscete Joe Davis, il mio vecchio, ho l'ordine, se ho da fare con una famiglia che non vuol sgombrare, ho l'ordine di non aver riguardi nemmeno per la casa, v'avverto. Son baracche di legno che basta toccarle, con la trattrice, per mandarle all'aria. Ci danno perfino un premio, in questi casi: due dollari di supplemento. Dei miei bambini, il più piccolo non ha ancora mai posseduto un paio di scarpe.»
«La casa? Ma l'ho fabbricata io con le mie mani. Io l'ho costruita, usando dei vecchi chiodi per fissare le tavole, legando i travetti alle longherine con del di ferro da imballaggio. E' mia. Provati a toccarla... Sto dietro alle finestre col fucile. Fa' tanto di avvicinarti e t'ammazzo come un cane.»
«Ma non son io, io non posso far niente, io perdo il posto se non eseguo gli ordini. Del resto, cosa credete di risolvere ammazzando me? Vi impiccheranno, certo, ma prima ancora d'impiccarvi ne manderanno un altro qui, con la trattrice, a buttarvi giù la casa. Come vedete, è inutile ammazzare me.»
«Vedo,» mormorava il mezzadro. «Ma questi ordini chi te li dà? Vuol dire che andrò a scovare lui. E' lui che ammazzo.»
«Non volete proprio capire: anche lui riceve degli ordini dalla banca. La banca gli dice: Sbatti fuori quella gente o ci rimetti il posto.»
«Ma ci sarà pure un presidente, una direzione; io prendo il fucile e vado alla banca a fare una carneficina.»
Diceva il conducente: «Anche la banca, da quello che so io, riceve ordini, dall'Est. Gli ordini dicono: O ci mostrate degli utili, o vi mettiamo in liquidazione.»
«Da chi si deve andare allora? Ci sarà pure un responsabile da far fuori. Io non ho nessuna intenzione di crepare di fame senza ammazzare chi mi assassina.»
«Non so cosa dirvi. Forse non esiste un responsabile da poter far fuori. Forse non ci sono neppure degli uomini a capo della faccenda. Probabile che, come dite voi, responsabile di tutto è la proprietà. Comunque, io v'ho detto i miei ordini.»
«Devo pensarci,» diceva il mezzadro, «tutti noi dobbiamo pensarci. Ci dev'essere un modo per risolvere questa faccenda! Non è come il fulmine, come il terremoto; è un sistema che l'ha fatto qualcuno, degli uomini come me e te, e dunque si può trovare il modo di correggerlo...» Il conducente faceva rombare il motore e partiva lasciando l'uomo accoccolato al sole. I cingoli si snodavano e scorrevano, gli erpici raschiavano il terreno e gli spunzoni della seminatrice slittavano per terra. La trattrice procedeva per l'aia coi dischi taglienti e la terra dura, battuta, si trasformava in terreno da semina. Avanti e indietro marciava la trattrice finché l'aia era ridotta a una striscia di tre metri. Di nuovo indietro e lo sperone di ferro urtava contro lo spigolo della baracca e la parete crollava e tutta quanta la baracca, divelta dalle fondamenta, rovinava al suolo, disintegrata. E il conducente portava gli occhiali e la maschera che gli proteggeva il naso e la bocca. La trattrice procedeva oltre in linea retta e l'aria e la terra vibravano all'unisono col suo ruggito. Il mezzadro, col fucile impugnato, la moglie al fianco e i bambini silenziosi dietro, osservavano immobili l'opera della trattrice.
CAPITOLO 6.
Il reverendo Casy e il giovane Tom si erano fermati sul ciglio dell'altura e stavano contemplando la proprietà dei Joad. La baracca di legno, sfondata in uno spigolo e divelta dalle fondamenta, era piegata su un fianco e puntava verso l'alto, molto sopra la linea dell'orizzonte, le finestre cieche della facciata. Le staccionate erano scomparse e il cotone cresceva sull'aia, fin sotto la casa, attorno al granaio e tra le rovine dei fabbricati annessi. Il duro terreno dell'aia, rassodato e battuto dai piedi nudi dei bambini, dagli zoccoli dei cavalli, dalle ruote dei carri, s'era trasformato in terreno da semina e vi cresceva ora il verde, polveroso cotone. Tom contemplò a lungo il salice scheletrito presso l'abbeveratoio asciutto, e il pozzo in cemento ora privo della pompa. «Gesù,» disse alfine, «è la fine del mondo. Impossibile che ci abiti qualcuno li.» Si mise a correre giù dalla china, seguito da Casy. In quella ch'era stata la stalla non rimaneva che un mucchietto di paglia trita, popolata da una famiglia di topi; nel ripostiglio degli attrezzi, un vomere rotto, un rotolo di vecchia corda da imballaggio, un rastrello di ferro tutto contorto, il collare del mulo rosicchiato dai topi, una latta di benzina vuota, e una tuta a brandelli appesa a un chiodo. «Non c'è rimasto più niente,» mormorò Joad. «Avevamo un bel po' d'attrezzi in discreto stato. Non c'è rimasto più niente ...»
Disse Casy: «Se fossi ancora predicatore, direi che il braccio di Dio ha colpito. Ma ora non so proprio cosa può esser successo. Io ero via, non ho saputo niente.»
Si avvicinarono al pozzo, camminando nel terreno ora coltivato, tra le piantine del cotone, che cominciavano a mettere i fiocchi.
«Qui non si piantava mai,» disse Tom, «l'abbiamo sempre tenuto sgombro il cortile, e adesso non ci passerebbe nemmeno un cavallo senza calpestare il cotone.» Si fermarono all'abbeveratoio, asciutto, e le erbe amiche dell'umidità che una volta vi crescevano non c'erano più, e il truogolo di rovere era secco e screpolato. Sul coperchio del pozzo emergevano ritti i bulloni di ritegno della pompa, arrugginiti e privi dei dadi. Tom si chinò sull'orifizio, sputò e tese l'orecchio; lasciò cadere nella cavità una zolla di terra e tese l'orecchio. «Era un buon pozzo,» disse, « non ha una goccia di acqua.» Pareva riluttante ad entrare in casa; continuava a lasciar cadere pezzi di terra nel pozzo.
«Che sian tutti morti? Ma mi avrebbero avvertito, qualcuno me lo avrebbe fatto sapere.»
«Chi sa che non abbiano lasciato uno scritto in casa; sapevano che venivi fuori?»
«Non so,» rispose Joad. «Ma non credo proprio, non lo sapevo nemmeno io fino a una settimana fa.»
«Diamo un'occhiata in casa. E' tutta sfondata e fuor di sesto. Chissà cosa diavolo l'avrà sfasciata così.» S'avviarono a passi lenti verso la rovina. Il tettuccio della veranda, privo del pilastro d'angolo, pendeva come un'ala rotta. Uno degli spigoli frontali era sfondato, e tra le schegge delle tavole rotte si vedeva la stanza d'angolo. La porta d'ingresso era spalancata verso l'interno e il basso, robusto sportello posto a protezione della porta, ancora sospeso sui suoi cardini di cuoio, s'apriva verso l'esterno.
Tom si fermò sul gradino d'ingresso, un ceppo d'un trenta centimetri di lato. «Il gradino c'è,» disse, «ma non c'è anima viva. Che sia morta la mamma?» Indicò il basso sportello di traverso la porta. «Se la mamma fosse qui d'attorno, quello sportello sarebbe ben chiuso. E' l'unica cosa che non ha mai dimenticato di fare... assicurarsi che quello sportello fosse chiuso.» Gli occhi gli scintillavano. «Da quella volta che il maiale entrò in casa dai Jacobs e si divorò il bambino. Mamma Jacobs era appena uscita per andare nella stalla e rientrò che il maiale stava ancora mangiandolo. Be', la signora Jacobs, che era di nuovo incinta, perse la ragione e non si riprese più. Da allora. E la mamma imparò la lezione, così non lo lasciava mai aperto, quello sportello, a meno che non fosse in casa lei stessa. Mai se l'è dimenticato. No... se ne sono andati... o sono morti.» Salì sulla veranda sconnessa e guardò nella cucina. Le finestre erano senza vetri e il pavimento era cosparso di sassi, le tavole del pavimento e delle pareti, ricoperte da un denso strato di polvere, non combaciavano più con gli infissi della porta. Joad indicò i vetri rotti e i sassi: «I ragazzi,» commentò. «Sono capaci di fare decine di chilometri per andare a spaccare una finestra. L'ho fatto anch'io. Lo sanno loro quando una casa è disabitata, lo sanno benissimo. E' la prima cosa che fanno i ragazzi quando la gente se ne va.» La cucina era completamente vuota: la stufa non esisteva, e per il buco nella parete onde una volta usciva il tubo si vedeva il cielo. Nell'acquaio, un cavaturaccioli e una forchetta priva del suo manico di legno. Tom, sentendo il pavimento scricchiolare, avanzava con cautela. Una vecchia copia del "Ledger" di Filadelfia giaceva per terra in un angolo, con le pagine ingiallite e arricciate. Joad s'affacciò alla camera da letto. Non un mobile: niente. Appesa alla parete l'oleografia di una ragazza indiana, soprannominata Ala Rossa, appoggiata al muro un'assicella del letto, e in un angolo una scarpa da donna, a bottoni, con la punta accartocciata e una spaccatura nell'incavo. Tom la raccolse e l'esaminò. «La riconosco,» disse, «era della mamma, era affezionata a questo paio di scarpe, l'aveva da tanti anni. No, saran proprio partiti, portandosi via ogni cosa.»
I raggi quasi orizzontali del sole ormai basso facevano scintillare i frammenti di vetro sul pavimento. Tom si decise a venir via, attraversò la veranda e si sedette sul gradino d'ingresso. Il salice scheletrito e le piante di cotone gettavano ombre lunghe sul terreno. Casy si sedette accanto a Tom. «E non t'avevano scritto niente?» domandò.
«No, ve l'ho già detto, non siamo gente che scrive, noi. Il babbo saprebbe anche scrivere, ma non ha mai voluto, non gli piace, gli fa venire la pelle d'oca. Per mandare un ordinativo alla bottega, copiandolo dal catalogo, valeva quanto un altro; ma di scriver lettere non ha mai voluto saperne.» Sedevano l'uno accanto all'altro, gli occhi nel vuoto. Joad lasciò cadere a terra l'involto della giacca e prese a farsi automaticamente una sigaretta; l'accese, aspirò una profonda boccata e mandò il fumo fuor dalle narici. «Cosa diavolo sarà successo? Non oso immaginarmelo, ma dev'essere qualcosa di grave. Tutti partiti, e la casa sfondata.»
Disse Casy: «Era proprio là quel fosso dove t'ho battezzato. Non eri mica cattivo, ma eri un bel monellaccio. Sempre attaccato come una sardina alle gonne di quella ragazza. Vi ho battezzato tutt'e due, nel nome dello Spirito Santo, e anche durante il battesimo ve ne stavate appiccicati. Mi disse il vecchio Tom: 'Tiencelo ben sotto, con la testa'. Cosi ti ho tenuto la testa sott'acqua finché non ti sei messo a gorgogliare e poi finalmente ti sei staccato da quella ragazzina. No, non eri cattivo, eri un monellaccio. Capita che un monellaccio alle volte vien su con una buona carica di grazia nell'animo.»
Un gatto grigio, magro come una sardella, uscì dal granaio e strisciando fra le piante di cotone raggiunse la casa e saltò sulla veranda. A passi felpati si diresse verso i due uomini e andò ad accovacciarsi dietro di loro dimenando la coda la cui estremità sfiorava alternativamente, ora da una parte, ora dall'altra, il pavimento. E rimase anch'esso a fissare nel vuoto, al pari dei due uomini. Tom lo vide con la coda dell'occhio. «To',» disse, «guardate chi c'è. Qualcuno è rimasto.» Fece per allungare la mano, ma il gatto balzò da parte andando ad accucciarsi di nuovo poco distante, fuori tiro e prendendo a grattarsi con la zampetta sollevata. Joad l'osservava assorto. «Ecco cos'è,» sbottò infine. «E' proprio questo gatto che mi dà modo di capire cos'è che non va mi tutta questa storia.» «A me pare che ce ne siano un sacco di cose che non vanno,» borbottò Casy.
«No,» prosegui Joad, «è solo qui che le cose non funzionano. Come spiegate che questo gatto non se l'è svignata dai vicini, dai Rance, per esempio? E perché non è venuto nessuno a saccheggiare la casa? Saran tre o quattro mesi che qui non viene nessuno e con tutto ciò nessuno è venuto a rubare il legname rimasto. E sì che ci sono delle discrete tavole nella stalla, un sacco di ottime tavole nella casa, i telai delle finestre, eppure nessuno è venuto a prendersele. No, non è normale. Ecco cos'è che mi ha colpito, e che non riuscivo ad afferrare.»
«Bene, ma cos'è che sei arrivato a concludere?» Casy si chinò in avanti e toltesi le scarpe di tela si stiracchiò le dita dei piedi.
«Non so ancora bene. Sembra proprio che non ci sia rimasto nessuno, di tutto il vicinato. Se ci fosse qualcuno, credete che ci sarebbero ancora tutte quelle belle tavole? Gesù. Ricordo quella volta che Albert Rance s'era portato tutta la famiglia, cani compresi, a Oklahoma per Natale. Erano andati a trovare il cugino, di Albert. Be', la gente qui attorno credette che Albert se ne fosse andato definitivamente senza dir niente a nessuno (per via che aveva fatto dei debiti o per qualche storia di donne, si credette) e così quando Albert tornò, una settimana dopo, trovò la casa completamente saccheggiata: letti, stufa, finestre, tutto sparito, perfino un tre metri di parete sul retro della baracca, così che ci si poteva guardare attraverso. Rincasò proprio mentre Muley Graves se ne sgattaiolava via con le porte e la pompa del pozzo. Gli ci son voluti quindici giorni per andare in giro a ricuperare la sua roba.»
Casy si grattava furiosamente le dita dei piedi. «E nessuno gli ha fornito delle spiegazioni? E gli hanno ridato indietro tutto?»
«Certo. Non l'avevano mica rubata. Avevano creduto che l'avesse abbandonata e così se l'erano solo presa. Lui si riprese tutto... salvo un cuscino, un cuscino di velluto con su una testa d'indiano. Rance accusava mio nonno d'averlo preso, diceva che mio nonno aveva sangue indiano nelle vene e perciò quel cuscino gli piaceva. Il bello è che l'aveva preso proprio il nonno, e non se ne staccava mai, se lo portava sempre appresso e lo posava dovunque si sedeva. E non voleva saperne di restituirlo. Diceva: Se Rance lo rivuole, venga a prenderselo, lo ricevo a schioppettate. Così che alla fine Rance s'è deciso a regalarglielo. Ma quel cuscino aveva dato alla testa al nonno. Si mise a far raccolta di piume, voleva farsi un materasso intero di piume, ma non riuscì mai ad averlo. Un giorno il babbo scovò una puzzola sotto casa e s'arrabbiò come un matto e la prese a calci, e la mamma finì col bruciare tutte le piume del nonno così finalmente si poté respirare di nuovo in casa.» Tom ridacchiava tra sé. «Un gran bastardaccio, il nonno. Si sedeva su quel cuscino con l'indiano e diceva: lascia che venga a riprenderselo, Albert, e prendo quella fistola e poi lo strizzo come un paio di mutandoni.»
Il gatto si insinuò di nuovo tra i due uomini seduti, a coda bassa, arricciando i baffi di tanto in tanto. Il sole tramontava e l'aria polverosa si tingeva d'oro rosso. Il gatto curioso allungò una zampa per toccare l'involto della giacca di Tom, e Tom notò il movimento. «To',» disse, «dimenticavo la tartaruga. Nessuna voglia di portarmela in giro.»
La liberò, e quella partì subito, senza sbagliarsi, nella direzione donde erano venuti. Il gatto spiccò un salto e sfoderò le unghie minacciandone la testa e le zampette storpie. La decrepita testa ironica scomparve sotto la corazza, e scomparvero le zampe e la coda, e solo quando il gatto stanco d'aspettare se ne andò, solo allora la tartaruga riprese flemmatica la sua fuga.
Tom Joad e il predicatore la guardarono allontanarsi, diretta verso sud-ovest, le zampette arrancanti e il pesante guscio a cupola a rimorchio. Il gatto la seguì per un po' a passi felpati ma dopo una decina di metri si stiracchiò in un grosso sbadiglio arcuando il dorso, poi ritornò furtivo verso i due uomini seduti.
«Dove diavolo andrà?» mormorò Tom. «Per tutta la vita ho visto delle tartarughe. Sempre dirette verso qualche luogo ben definito. Sembra che sappiano dove vogliono andare.»
Il gatto riprese il suo posto tra gli uomini, e ammiccava, e arricciava la pelle a causa d'una pulce, e alzava una zampa e s'ispezionava i polpastrelli esercitandosi a sfoderare le unghie, e se li leccava. Il sole rosso toccando l'orizzonte s'allargò a raggiera come una medusa infocata, e il cielo assunse una tinta più chiara e più viva di prima. Tom tirò fuori dalla giacca le sue scarpe gialle, ancora nuove, e si pulì accuratamente i piedi impolverati prima di infilarsele.
Il predicatore avvistò con la coda dell'occhio un movimento nei campi e voltò la testa in quella direzione. «Sta venendo qualcuno,» annunciò. «Guarda, laggiù dietro quel campo.»
Tom voltò la testa anche lui nella direzione indicata da Casy. «A piedi,» confermò. «E fa tanta polvere che non si vede se è uomo o donna. Chi diavolo sarà?» Osservarono lo sconosciuto venire avanti sotto i raggi del sole al tramonto che arrossavano la nube di polvere da lui sollevata. «Uomo,» disse Joad. Questi s'avvicinò ancora e quando ebbe oltrepassato la stalla Joad esclamò: «Ohe', ma lo conosco. Lo conoscete anche voi. E' Muley Graves.» Poi gridò: «Ehi, Muley, come va?»
Sorpreso dalla chiamata, l'uomo si fermò un attimo, poi affrettò il passo. Magro, piuttosto basso di statura, si muoveva rapido e con fare guardingo, tenendo in mano una sacca di tela. Indossava bluejeans scoloriti sui ginocchi e sul sedere e un vecchio giubbotto di pelle nera, anch'esso stinto e pieno di macchie, con le maniche sfilacciate dalle spalle in giù e i gomiti bucherellati. Lercio come il giubbotto era anche il cappello nero, col nastro mezzo slegato che ballonzolava su e giù al ritmo del suo passo. Il viso di Muley, imberbe e senza rughe, aveva l'espressione truculenta del bimbo cattivo, bocca piccola ermetica, occhietti torvi e petulanti.
«Vi ricordate di Muley?» disse Joad sottovoce al predicatore.
«Chi è là?» gridò l'uomo, nel venire avanti. Joad non rispose, e fu solo quando si fu avvicinato fin sotto la veranda che Muley distinse i due. «Diavolo, ma è Tommy Joad,» esclamò. «Quand'è che sei uscito, Tommy?»
«L'altro ieri,» disse Joad. «Mi c'è voluto un po' per venire fin qui, in autostop. E guarda qui cos'ho trovato. Dov'è che sono i miei, Muley? Com'è che la casa è sfasciata e che ci cresce il cotone, nell'aia?»
«Perdio, fortuna che son venuto,» fece Muley. «Aveva ragione il vecchio Tom di stare in pensiero. Ero seduto lì, in cucina, mentre loro facevano fagotto per partire e glielo dicevo, a Tom, che io non mi sarei mosso, perdio se glielo dicevo e Tom fa: 'Mi preoccupo per Tommy: se vien fuori e non ci trova nessuno, qui, cosa penserà?' Così io gli dico: 'Perché non gli lasci una lettera?' E lui fa: 'Probabile che la scrivo, ci penserò su, ma casomai non lo faccio, tienlo d'occhio te, Tommy, se rimani da queste parti.' 'Certo che rimango,' dico io, 'resto qui finché non gela l'inferno. Voglio proprio vedere chi è capace di far sloggiar di qui uno che si chiama Graves.' E infatti non c'è riuscito nessuno.»
Joad disse, impaziente: «Ma insomma, dove sono i miei? Di te e delle tue bravate ce ne parlerai dopo, ma dov'è che sono andati i miei?»
«Be', erano decisissimi a resistere fino all'ultimo, ma poi la banca ha mandato quella trattrice per coltivare tutta quanta la zona. Tuo nonno l'ha ricevuto con lo schioppo e ha sparato sui fari di quella trappola, ma la trattrice è venuta avanti lo stesso. Tuo nonno non voleva ammazzare il conducente, che era Willy Feely, e Willy questo lo sapeva bene, così ha continuato ad avanzare ed è andato a urtare contro la casa: uno di quegli scossoni che sembrava un gatto col topo. Be' Tom c'è rimasto quasi secco, come se la trattrice fosse andata a sbattere contro di lui. Da allora Tom non è più lo stesso.»
«Insomma, dove si trovano ora?» chiese di nuovo Joad con rabbia.
«E' quel che ti sto dicendo. Han fatto tre viaggi col carro di tuo zio John. Han preso la stufa, la pompa e i letti. Avresti dovuto vederli, mentre caricavano i letti, con tutti quei ragazzetti d'intorno, tua nonna e tuo nonno rannicchiati sul carro, contro la fiancata, e tuo fratello Noè anche lui seduto dentro a fumare e a sputacchiare oltre il bordo del carro.» Joad aprì la bocca per interromperlo. «Sono tutti da tuo zio John,» disse Muley in fretta.
« Oh! Tutti da John. Bene, e che ci fanno, là? Ora smettila per un momento di parlare a vanvera,
Muley. Solo un momento. Dimmi cosa ci fanno, da zio John, e poi continua pure con le tue ciance.» «Be', si son messi a cogliere cotone, tutti quanti, anche i ragazzi e tuo nonno. Mettono insieme un po' di quattrini per potersene andare nel West. Hanno in mente di comprarsi una macchina e poi via. La vita è facile, nel West. Qui non c'è più niente da fare. Mezzo dollaro l'acro, per cogliere cotone, ed è già una fortuna se ti prendono, perché bisogna star lì a supplicare...»
«E non sono ancora partiti?»
«No,» disse Muley. «No, ch'io sappia. L'ultima volta che ho saputo qualcosa è stato quattro giorni fa, quando ho incontrato tuo fratello Noè a caccia di conigli. Mi ha detto che contano di partire tra un paio di settimane. Anche John ha avuto l'ordine di sloggiare. Hai da fare una bella camminata, una quindicina di chilometri, per arrivare da John. Li troverai tutti ammucchiati in casa di John come formiche in un formicaio.»
«Okey,» disse Joad. «Ora puoi anche riprendere a parlare di te. Non sei proprio cambiato per niente, Muley: se ti metti a parlare di qualcosa che si trova a nord, tieni la testa voltata a sud.»
«Neanche tu sei cambiato,» ribatté Muley con aria aggressiva. «Facevi il saccente da ragazzo, e lo fai ancora. Non pretenderai mica di insegnarmi a vivere, per caso?»
«No, no,» ridacchiò Joad. «Se vuoi romperti la testa contro un muro, padronissimo. Ma non hai riconosciuto, qui, questo predicatore, il reverendo Casy?»
«Oh, certo, certo. Non avevo guardato bene. Sicuro che me lo ricordo.» Casy si alzò e i due si strinsero la mano. «Lieto di rivedervi,» disse Muley. «E' un pezzo che non vi si vede da queste parti.»
«Sono stato via per studiare certi problemi,» disse Casy. «Che è successo qui? Cos'è che fa scappare la gente?»
Di colpo Muley increspò le labbra così strettamente che la piccola unghia carnosa del labbro superiore s'incuneò in quello inferiore. «Quei figli di cani,» ringhiò, con espressione torva. «Quegli sporchi figli di cani. Ve l'ho già detto, io di qui non mi muovo. A me non me la fanno. Oh, se quelli fanno tanto di sbattermi fuori, io ci ritorno, qui, e se credono che me ne starò tranquillo, sottoterra, me ne trascino giù una mezza dozzina di quel figli di cani, a tenermi compagnia.» Si dette una pacca sulla tasca laterale del giubbotto. «Di qui non me ne vado. Il babbo è venuto qui cinquant'anni fa e io di qui non mi muovo.»
«Ma com'è che sbattono via tutti?» chiese Joad.
«Oh! Ci sanno fare, con le loro chiacchiere. Lo sai che brutte annate s'è avuto qui. Con la polvere che copre e secca tutto così che non si riesce a ricavare neppure di che sfamare una formica. Tu lo sai bene com'è. Be', i proprietari della terra dicono: 'Non ci possiamo più permettere di mantenere dei mezzadri. La quota che spetta al mezzadro rappresenta giusto il margine di profitto che non possiamo permetterci di perdere.' E ancora: 'Se riuniamo insieme tutte le nostre proprietà, forse riusciamo a farle rendere quel tanto che basta...' Così mandano le trattrici e buttano fuori i mezzadri. Tutti, fuorché me, e perdio io non mi muovo di qui. Tu mi conosci, Tommy, mi conosci da quando sei al mondo.»
«Diavolo se ti conosco,» fece Joad, «purtroppo.»
«Be', tu sai che io non sono uno sciocco. So che questa terra qui non vale molto. Al massimo potrebbe andar bene a pascolo. Comunque non la si sarebbe mai dovuta coltivare, mentre ora te la spremono così a cotone finché non varrà più niente. Se soltanto non m'avessero imposto di andarmene, probabile che ora sarei anch'io in California a mangiare uva e arance fino alla nausea. Ma quei figli di cani vengono a dirmi di sloggiare... e, Gesù, uno non può fare una cosa simile, quando gliel'ordinano!»
«Hai mica torto,» approvò Joad. «Mi domando com'è che il babbo se n'è andato così facilmente, com'è che il nonno non ha ammazzato nessuno. Nessuno gli ha mai mangiato la pappa in capo, al nonno. E neanche la mamma è mica di quelle che si lasciano menar per il naso. L'ho vista io una volta picchiare come una matta, con un pollo vivo, un venditore che le aveva trovato da ridire. Aveva il pollo in una mano e nell'altra il coltello, che le doveva servire per sgozzarlo. Voleva colpire quel venditore col coltello, ma siccome non si ricordava più in che mano lo teneva, così prese a dargli botte da orbi con il pollo. Alla fine quel pollo non era neanche più mangiabile. In mano le erano rimaste solo le zampe. Il nonno si teneva la pancia dalle risate. Com'è che se ne sono andati così tranquillamente?»
«Oh, dovevi sentire come parlava quello che venne qui: 'Dovete andarvene, non è mica colpa mia.'
'Se non è vostra,' dicevo allora, 'di chi è la colpa? Ditelo, che vado là e lo schiaccio come una noce.' 'E' responsabile la Shawnee Land & Cattle Co., io ricevo solo degli ordini.' 'E chi è la Shawnee Land & Cattle Co.?' 'Non è nessuno, è una società.' Insomma, c'era da diventar scemi.»
Un'enorme chiazza rossa di sole indugiava ancora sull'orizzonte, e d'un tratto sparì, lasciando il cielo terso come uno specchio, ma con uno straccio di nuvola, che pareva uno straccio insanguinato, nel punto dov'era scomparsa. E da levante il crepuscolo mosse alla conquista del cielo, e la tenebra mosse alla conquista della terra. Nella foschia s'accese, e luccicò subito, la stella della sera. Il gatto grigio s'allontanò strisciando verso il granaio e dileguò nell'ombra.
Tom disse: «Quel che è certo è che i dodici chilometri, di qui alla casa di zio John, non li faccio stasera. Se andassimo da te, Muley, son appena due chilometri?»
Muley parve imbarazzato. «Da me? Non c'è niente. La moglie e i bambini, e mio cognato, son tutti partiti per la California, non c'era più niente da mangiare, capirai. Eran meno furiosi di me e son partiti. Non c'era da mangiare.»
Il predicatore non approvò. «Avresti dovuto andare con loro. Non abbandonare la famiglia...»
«Non potevo, ecco tutto, c'era qualcosa che m'impediva, non potevo.»
Tom mutò discorso. «Perdio, ho fame. Per quattr'anni interi ho mangiato sempre così puntuale, che il mio stomaco è diventato esigente. Cos'hai da mangiare stasera, Muley, e dove pensi d'andare a mangiare?»
«Dove mi trovo. Per un po' di tempo ho dovuto nutrirmi di rane e di scoiattoli, e magari di qualche bistecca di cane, ma adesso ho in funzione tutto un sistema mio di trappole, e mi nutro di conigli, magari d'una quaglia, se ho fortuna.» Si chinò, raccattò il tascapane che aveva lasciato cadere a terra e lo rovesciò sulla veranda.
Alla vista inattesa di due conigli morti Tom esultò. «Gran Dio! Son quattr'anni che non mangio carne fresca. Ci inviti, Muley?» E senza aspettar risposta: «Chi ha un coltello?»
Muley tirò fuori un coltello da caccia dal manico di corno. Tom fece scattare la lama più grande, l'annusò e la conficcò varie volte in terra, annusandola ogni volta finché gli risultò inodora, poi se la pulì sui pantaloni e ne saggiò il filo col polpastrello del pollice. Muley tirò fuori anche una bottiglia d'acqua, raccomandando di usarne con parsimonia. «E' tutto quel che c'è. Il pozzo qui è asciutto.» Tom sollevò un coniglio. «Va' a trovare un po' di fil di ferro nella stalla, Muley, ci servirà da spiedo; e per legna ti autorizzo a servirti in casa mia: i pavimenti non servono più a nessuno. Niente di più facile che scuoiare un coniglio.»
Sollevò la pelle del dorso, vi incise un taglio con la punta del coltello, vi introdusse un dito e con un colpo netto la lacerò dal collo fino alle gambe. Venne via come una calza. Tom riprese il coltello ed amputò testa e piedi. Praticò un taglio nell'addome, ne trasse le interiora e le gettò nel coltivato. Poi squartò il cadavere. Muley tornò dalla stalla col filo di ferro. «Animo, Muley, accendi il fuoco, il cuoco è pronto.» E mentre Tom scuoiava il secondo coniglio, gli altri due prepararono un fuoco di legna stagionata manomettendo i pavimenti della casa abbandonata, e ai suoi lati rizzarono due paletti sui quali assicurarono i pezzi di carne che Tom aveva provveduto ad infilzare sul filo di ferro. Muley tirò fuori ancora un pacchetto di sale.
«Perfino il sale!» gridò Tom. «Piatti e posate non ce n'hai? Una tenda non l'avresti in tasca?»
Le fiamme danzavano gettando ombre sulla casa e il legno crepitava e scoppiettava. Il cielo era ormai quasi nero e le stelle spiccavano nette. Il gatto grigio proveniente dal granaio, arrivò al piccolo trotto miagolando, attratto dal fuoco, ma si fermò per strada, entrò nel coltivato e trovò le interiora dei conigli, se ne empì la bocca così che gli pendevano dalle labbra mentre masticava con ingordigia.
Casy, accoccolato, alimentava il fuoco, spingendo innanzi le tavole man mano che le fiamme ne consumavano le estremità. I pipistrelli volteggiavano a poca altezza. Il gatto si leccava le labbra per pulirsi i baffi. Tom badava a girare lo spiedo, in modo che i pezzi di carne non vi rimanessero appiccicati. Muley ragionava.
Diceva: «Voialtri mi credete tocco nel cervello, dal modo come vivo, ma è perché non capite. Quando m'hanno intimato lo sfratto, mi sentivo capace di accoppare chiunque mi venisse a tiro. Poi quando i miei m'hanno piantato solo, mi son messo a fare il vagabondo. Senza mai andar lontano. Dormo dove mi trovo. Stanotte avevo stabilito di dormire qui. E tutto il tempo mi figuro di far la guardia alle case abbandonate, nell'interesse degli sfrattati. Ma so che non è vero. Nessuno tornerà mai. Vado attorno come nei cimiteri le anime dei dannati.»
Casy commentava, per far mostra d'interesse. «Già. L'uomo è un animale che vive d'abitudini. Si affeziona ai luoghi, detesta i cambiamenti. Io, per esempio, non predico più, ma continuamente mi sorprendo a pregare, senza volerlo, senza neanche saperlo.»
Il sugo della carne cadeva a gocce nel fuoco ed ogni goccia suscitava una fiammella che nel rogo spiccava indipendente. I pezzi di carne cominciavano a raggrinzire e a rosolare. Tom annusava l'aria. «Senti l'odore, Muley? Senti il profumo?»
Muley continuava. «Come nei cimiteri le anime dei dannati. Vado a visitare i posti che conosco, dove mi son capitati dei fatti indimenticabili. Vicino a casa mia c'è una conca, tutta cespugli. E' lì dentro che m'ero sverginato, a quattordici anni. Be', tornavo lì, e mi coricavo a terra, e rivivevo tutto l'episodio. E il posto dietro la stalla dove mio padre è rimasto sbudellato dal toro. Il suo sangue è ancora lì, sotto la terra; nessuno può averlo levato via. Be', vado lì, e m'inginocchio sulla terra bagnata dal suo sangue. M credete proprio tocco nel cervello?»
Tom girava lo spiedo, e i suoi occhi guardavano dentro di lui. Casy s'abbracciava i ginocchi e guardava nel fuoco. Il gatto sedeva immobile, con la coda elegantemente avvolta attorno a sé. Un gufo passò sghignazzando, e il fuoco ne illuminò le penne bianche dell'addome.
«No,» disse Casy, «sei malato di solitudine, ma non pazzo.»
Tom si schiarì la gola. «Credo che è cotta. Possiamo mangiare.»
Muley si oppose, con violenza. «Falla abbrustolire, la voglio quasi nera. Voglio parlare. Da tanto non parlo con nessuno. Se son tocco, son tocco, e buonanotte. Vado errando come un'anima dannata nelle case abbandonate. Dai Rance, dai Peters, dai Jacobs, dai Joad; tutte rovine, adesso. Ma una volta erano abitate, e abitate da oneste persone, che raccoglievano gentilmente i vicini, per le riunioni religiose, per le feste da ballo sull'aia, per celebrare un matrimonio, o una nascita. E io penso a queste cose, e mi vien voglia d'andare in paese a far macello delle autorità. Danno lo sfratto a noi poveretti, ci sacrificano e ci mettono sul lastrico solo per salvare il loro margine di profitto.» Parlando si guardava le mani contro la luce delle fiamme.
L'aria della notte cominciando a raffreddarsi contraeva il legno della casa che ogni tanto mandava sinistri scricchiolii. Casy disse con voce pacata: «Bisogna che io assista i profughi. E' mio dovere. Han bisogno d'aiuto; ma non di prediche, d'aiuti materiali. Cosa può servirgli la speranza del cielo, se adesso sono all'inferno? Bisogna aiutarli a vivere, prima che possano concedersi il lusso di morire.»
Tom, che questi discorsi rendeva nervoso, esclamò: «Su, mangiamo questi conigli, prima che diventino piccoli come topi! La carne è cotta bene, guardatela, sentite l'odore!» Balzò in piedi e col coltello sfilò dallo spiedo un pezzo di carne. «Questo è per il predicatore.»
«T'ho detto che non faccio più il predicatore.»
«Per il filantropo, allora. E questo è per l'anima dannata. E questo per l'ergastolano in libertà.» Addentò un enorme boccone e prese a masticarlo con voracità.
Muley continuava a contemplare il fuoco. «Forse era meglio che non dicevo tutto questo. Son cose che è meglio tenersele in testa...»
Casy, con la bocca piena e coi muscoli della gola convulsi dal gran travaglio dell'inghiottire, lo contraddisse.
«Non è vero. Parlare fa bene. E' uno sfogo. Uno che medita un assassinio, se può sfogarsi in tempo, alle volte non lo commette più. Hai fatto bene, Muley, a parlare. Non assassinare, questo è l'essenziale.» E addentò un altro boccone.
Tom era già alla seconda portata. Muley s'era deciso anche lui, e masticava lentamente e i suoi occhietti inquieti andavano dall'uno all'altro dei suoi compagni. D'un tratto si posarono fissi sulla faccia di Tom. «Scusami, Tom, d'aver parlato d'assassinio. Non sei offeso?»
«Io offeso? Ma nemmeno per sogno.»
«Tutti sanno che non è stata colpa tua,» riprese Muley. «Il padre del morto giurava di farti la pelle quando venivi fuori, ma tutti gli davano contro.»
«Eravamo ubriachi tutt'e due,» disse tranquillamente Tom. «E quando mi son sentito la lama nella pancia, la prima cosa che vedo, lì contro il muro, è quel badile, e naturalmente l'ho preso e gli ho spaccato la testa. S'era amici; io non avevo niente contro di lui; da bambino faceva l'asino a mia sorella. Come dico, s'era piuttosto amici.»
«Apposta,» riprese Muley, «è quello che tutti dicevamo a suo padre, tanto che abbiamo finito per calmarlo. E' partito anche lui per la California con tutta la famiglia sei mesi fa.»
Tom offrì in giro gli ultimi avanzi dei conigli. Ora masticava più adagio, e s'asciugava la bocca sul dorso della mano, fissando il fuoco con occhi sognanti. «Tutto il mondo va in California,» disse, «io sono in libertà vigilata, non posso passare il confine.»
«Cos'è, dopotutto, questa libertà vigilata?» Muley ne aveva sentito parlare, ma non aveva idee chiare al riguardo.
«Be', m'hanno condonato tre anni, ma ho l'obbligo di fare certe cose, se no mi rificcano dentro.
Devo consegnarmi tutti i momenti alla polizia.»
«Come trattano a McAlester? Un cugino di mia moglie c'è stato, e dice che era un inferno.»
«Ma no. Più o meno come dappertutto. E' un inferno per chi si agita, ma se sei disciplinato ti lascian vivere. A meno di avere qualche nemico personale tra i custodi. Io per me badavo ai fatti miei. Ho imparato a scriver bene, non solo parole, ma uccelli, roba di questo genere. Mio, padre stupirà, quando mi vede scrivere così.» «Ma non ti picchiavano?»
«No, io badavo ai fatti miei. Certo è monotono, tutti i giorni sempre lo stesso, per quattro anni. S'impara a riflettere sul proprio delitto, a conoscere il rimorso. Ma se venisse di nuovo in mente a qualcuno di tirarmi una coltellata, io gli spacco di nuovo la testa.» «Sfido,» disse Muley.
Casy guardava nel fuoco, abbracciandosi i ginocchi e facendosi crocchiare le nocche delle dita. Tom s'alzò, andò a prendere la bottiglia sotto la veranda, ne bevve con parsimonia e la passò ai compagni prima di rimettersi a sedere. Riprese a parlare. «Quello che mi dava più fastidio era appunto di constatare che non c'era nessun senso in tutta la faccenda. Mi ficcano dentro, e mi mantengono quattr'anni a far niente. Dovrei uscirne pentito, o almeno spaventato di rifare la stessa cosa. Invece niente. Se mi ricapita, rifaccio tutto tale e quale. Senza nemmeno pensarci, automaticamente, soprattutto se sono ubriaco. E' questa insensibilità dell'uomo, che mi dà a riflettere.»
Muley osservò: «Appunto t'han dato poco, perché non era tutta colpa tua.»
Tom continuò: «Ce n'è uno là dentro, condannato a vita, che passa tutto il suo tempo a studiare. Gli fan fare da segretario in direzione. E' una testa buona, perché studia tanto, sa il codice, eccetera, e gli ho parlato di quello che dicevo prima, per sentire cosa ne pensava lui, e anche lui dice che l'idea del carcere è una stupidaggine. Vecchia come il mondo, e tutti sanno che è una stupidaggine, ma nessuno sa proporre qualcosa di meglio. Dice che a pensarci su, c'è da diventare sovversivi.»
«E chi può non essere sovversivo?» proruppe Muley. «Il governo invece d'appoggiarsi su noi, su noi che lavoriamo la terra per il bene di tutti, appoggia invece il margine di profitto. Io ho perso il lume degli occhi vedendo Willy Feeley, che è dei nostri, al volante della trattrice che ci mette tutti sul lastrico. Capirei un altro qualunque che vive nelle città, ma Willy è dei nostri. E lui si mette a strillare come un'aquila: 'Io ho due bambini. Io ho moglie e suocera sulle braccia. Prima ed unica cosa ho da pensare a dargli da mangiare. Degli altri me ne frego.' Gridava tanto perché aveva vergogna.»
Tom si arrotolava una sigaretta contemplando con occhi sognanti i tizzoni che venivano tingendosi d'un rosso più cupo. Non voleva permettere ai suoi pensieri di fermarsi sul discorso di Muley. Disse: «E io che mi domandavo, ultimamente, chissà come troverò le cose al mio ritorno. Potevano esser morti i nonni, o poteva esser nato qualche altro marmocchio; ma come potevo immaginare un simile cataclisma? Bah! Meglio pensare a dormire, e all'alba ce ne andiamo da zio John. Almeno, io vado. Venite, Casy?»
Senza togliere lo sguardo dal fuoco il predicatore disse: «Sì, vengo. E quando la famiglia partirà, vengo anch'io. D'ora innanzi il mio posto è sullo stradone; dovunque ci sono dei profughi da soccorrere.»
«Saranno contenti, a casa mia,» disse Tom. «Mia madre vi ricorda senza dubbio. Aveva fede in voi. Rosatè, mia sorella, era ancora bambina, allora.» Voltò la testa. «E te, Muley, vieni con noi da zio John?»
Muley guardava verso il sentiero donde era venuto. Tom ripeté la domanda, ma l'altro sembrava restio a rispondere. Finalmente disse: «Eh? Con voi? No. Io non m'allontano di qui. Vedete quel lume laggiù. E' probabilmente l'ispettore di ronda. Forse ha visto da lontano il nostro fuoco.» Gli altri due guardarono nella direzione indicata. Erano i fari d'un'automobile che cominciava a salire. «Che male facciamo?» disse Tom. «S'è seduti qui tranquillamente; si riposa, che male c'è?» «Già,» schernì Muley, «non facciamo nessun male, ma siamo su terreno che non è nostro. Non possiamo restar qui. A me danno la caccia da due mesi. Date retta: andiamo a nasconderci nel campo. Tra i filari del cotone non ci trovano.»
«Va' tu a nasconderti,» disse Tom. «Casy ed io li aspettiamo qui, quei bastardi.»
Il fascio di luce dei fari s'avvicinava, allungandosi o raccorciandosi a seconda della pendenza della strada. Muley disse: «Bada, Tom: se ti capita qualcosa ti rimandano dentro. Può essere proprio Willy Feeley, quello della trattrice, perché adesso fa anche l'agente dello sceriffo. Se venite a parole, e tu perdi la pazienza... Comunque, ascoltami, è meglio venire con me nel cotone; ed è più divertente, vedrai, perché vediamo e sentiamo senz'esser visti, e s'arrabbieranno perché non trovano nessuno e noi ci burleremo di loro.»
«Forse hai ragione,» ammise Tom, «ma mi piacerebbe fare una chiacchierata con quel Willy.»
«Porta la pistola, sai, come agente. Vieni via, prometto di farti divertire.» In quel momento il fascio di luce puntò al cielo e s'udì il ronzio del motore. «Vieni via, non si va lontano, basta una dozzina di file più in là.»
Tom saltò in piedi. «Perdio, hai ragione. Non ho niente da guadagnare a restar qui.»
«Da questa parte, venite.» Muley passò sul retro della casa e s'inoltrò d'una cinquantina di passi fra le piante di cotone, e gli altri due lo seguirono. «Qui ci corichiamo in terra. Basta alzar la testa per vedere, e abbassarla quando rivolta il riflettore nella nostra direzione.»
I fari raggiunsero il sommo della salita e cominciarono a scendere verso la casa.
«E se vengono qui a perlustrare col riflettore?» domandò Tom.
«Non osano. Willy l'ha fatto, una volta. Era a due passi da me, e io ho aspettato che voltasse la schiena, e gli son volato addosso col bastone e l'ho lasciato mezzo morto. Poi andava a raccontare d'essere stato assalito da cinque individui armati.»
La vettura s'era fermata davanti alla casa, e subito il riflettore entrò in azione. «Giù la testa,» ordinò Muley. Il fascio di luce fredda passò su di loro e spazzò il campo in varie direzioni, «Ho già sparato un paio di volte contro i fari,» continuò Muley, «ora Willy s'è fatto più prudente, stanotte ha un compagno.» S'udiva infatti più d'una voce, e parecchi passi sul pavimento della veranda. Dall'interno della casa i tre uomini nascosti nel cotone videro uscire un altro fascio di luce proiettata. «Mi vien voglia di sparare alla cieca sulla casa,» disse Muley.
«Spara,» istigò Tom.
«Meglio no,» suggerì Casy, «non serve a niente, puro spreco.»
Udirono un rumore simile a uno scalpiccio di piedi e capirono che gli agenti stavano spegnendo il fuoco. Poi udirono sbattere le porte della vettura, e rividero i fasci di luce diretti nuovamente sulla strada. «Se ne vanno,» disse Muley. «Aspettate qui ancora un momento, vado ad assicurarmi che non hanno lasciato uno di guardia.»
Lasciò i compagni, s'incamminò senza far rumore nella direzione della casa e non tardò a tornare. «Non hanno lasciato nessuno, stavolta; venite.» Gli altri lo raggiunsero. «Comunque, io non dormo vicino alle case, non voglio sorprese. Ora vi porto io in un posto sicuro,» e s'incamminò attraverso un altro campo finché raggiunse una roggia incassata, e si lasciò calare giù dalla scarpata e proseguì a valle costeggiandola. Tom riconobbe il posto. Disse: «Perdio, so dove ci porti. In una grotta, vero?» «Come lo sai?»
«L'ho scavata io da bambino con mio fratello Noè. Si faceva gli scopritori d'oro. Non dev'esser lontano.»
«E' qui,» confermò Muley. «Ho nascosto l'ingresso con le frasche.» Praticò un'apertura e vi s'introdusse per primo. Il terreno era sabbioso.
«Ma io sto fuori,» dichiarò Tom, «non mi piace sentirmi in una tana. Qui si sta benone.» Si sdraiò a terra e usò la giacca per cuscino. Casy lo imitò. Muley invece si ritirò nel suo covo.
«Ora dormite, reverendo,» disse Tom. «Si parte presto per andare da zio John.»
«Non credo che dormirò,» rispose l'altro mettendosi a sedere e abbracciandosi i ginocchi, «ho troppe cose da pensare.»
Tom sbadigliò e si portò una mano sotto la testa. Non dissero più una parola. Casy contemplava le stelle, ma sentiva tutt'intorno brulicare l'invisibile vita notturna degli insetti attivi ed operosi nelle loro tane.
CAPITOLO 7.
Le aree fabbricabili sulla periferia d'ogni centro abitato in tutta la regione erano state convertite in parchi d'automobili di seconda mano, stipate alla rinfusa in capannoni provvisori sormontati da fiammeggianti insegne:
Automobili Usate In Ottimo Stato di Servizio. Camion di Tutte Le Portate. Tre Rimorchi Pesanti. Ford 1927 Ottimo Affare. Tutte Le Garanzie. Radio Gratis. Cento Galloni Benzina Compresi Nel Prezzo. Entrata Libera. Nessun Extra.
Un'area fabbricabile, e uno sgabuzzino: nient'altro. Ma l'area ingombra di catenacci, e lo sgabuzzino di contratti. Sul tavolo la stilografica, conficcata obliqua nel suo zoccoletto di marmo recante la scritta: Tenerla Piena, Tenerla Attiva. Penna Vuota Affari Magri.
Quei figli di cani laggiù non comprano. Tutti i parchi ne son pieni. Curiosi che perdono il loro tempo curiosando, senza la minima intenzione di comprare, e mi fan perdere il mio. Laggiù, quei coniugi, con la marmaglia appresso; andiamo, Joe, schiaffali in qualche vettura, parti da duecento dollari e cala: clienti da 125, a occhio e croce. Schiaffali in un catenaccio, parti a tutta velocità e vedi di sbolognarglielo. Mi rubano il tempo.
Acquirenti con maniche rimboccate. Produttori agghindati, con occhietti vigilanti in cerca di debolezze.
Guardar sempre la faccia della moglie: se alla moglie la vettura piace, è facile infinocchiare il marito. Comincia a metterli nella Cadillac, poi passa alla Buick 1926. Se cominci dalla Buick, ti chiedono una Ford. Tirati su le maniche e mettiti all'opera, la cuccagna dura poco. Fagli vedere la Nash, mentre io gonfio la Dodge '25.
Non è un autocarro che volete? E dunque. Certo la tappezzeria è andata, ma avete bisogno d'un salone? Non sono mica i cuscini che fan girare le ruote.
File e file di catenacci parcati, tutti col muso nella stessa direzione, musi arrugginiti, pneumatici sgonfi. Allineati a contatto di parafanghi ammaccati.
V'interessa quella? Niente disturbo, ve la tiro fuori subito. Senza impegno, s'intende.
Impegnare il cliente, metterlo sotto obbligazione, fargli sentire che vi ruba il tempo. E' gente timida, per lo più; non vogliono dar disturbo per niente. Fargli sentire che ti disturbano; e poi fregali. Modelli T, alti, antidiluviani, volanti reumatizzati, copertoni che mostrano la corda. Buick, Nash, De Soto.
Sissignore, Dodge '22. Dodge non ha mai più fabbricato un tipo così. Va per l'eternità. Bassa compressione, sì. L'alta compressione dà più ripresa, al principio, ma non è ancora inventato l'acciaio che regga al logorio dell'alta compressione. Plymouth, Rockney, Star, di tutti i tipi. Cristo quell'Apperson, vien fuori dall'arca? E quella Chalmery, quella Chandler, cos'è, il Vecchio Testamento? Non son vetture che vendiamo, vendiamo rottami. Viva i rottami, porca mattina. Il massimo che pago è 25, 30 dollari; e rivendo per 50 e 75. Il profitto c'è, no? Non è meglio che vendere roba nuova? Viva i rottami. Vendo a tutto andare. Joe, acciuffami quel bastardo laggiù sul marciapiede, quel bifolco che ha l'aria d'un imbecille, provalo nella Apperson. Dov'è la Apperson?
Venduta la Apperson? Perdio, non lo dicevo, io? I rottami si vendono come noci.
Gagliardetti, rossi e bianchi, bianchi e blu, tutt'attorno all'area. Vetture Usate. Tutte Le Garanzie. L'occasione del giorno, intronata sul palco. Catenaccio assolutamente invendibile. Non importa; fai venir gente, questo è l'essenziale. E' in mostra, dunque vengano a vederlo. Dire a tutti che è già venduto, e se offrono di più e lo vogliono provare, cambia la batteria. Sacramento, devo darlo via per un pezzo di pane? Rimboccati le maniche, Joe. La cuccagna dura poco. Avessi cinquecento di questi catenacci, nel giro di sei mesi mi ritiro a vita privata.
Senti qua, Joe, ho ascoltato il differenziale di quella Chevrolet. E' come un thermos col vetro in frammenti. Schiaffaci dentro della segatura. Metticene un poco anche nel cambio. Voglio farne 35 dollari al minimo. Mi han fregato, in quell'affare, ho offerto dieci, e l'imbroglione m'ha fatto pagar quindici e per giunta s'è portato via gli utensili, il bastardo. S'ha da rimediare. Che? Critica le gomme? Digli che han fatto diecimila chilometri e scontagli un dollaro e mezzo.
Cumuli di rugginose rovine nei luoghi meno accessibili del parco, parafanghi, monoblocchi tra le ortiche, leve del freno e tubi di scappamento aggrovigliati come serpenti. Lubrificante, benzina.
Vedi se mi riesci a trovare una valvola che non sia spaccata. Dio, avessi cinquanta camioncini sotto i cento dollari mi ritiro dagli affari. Cos'ha da gridare quel bifolco? Consegna a domicilio, eh? Io vendo automobili, diamine, non sono un'impresa di trasporti. Secondo te non compra? E allora buttalo fuori a calci nel sedere. C'è anche troppo da fare, qui, per dar retta a un cretino qualsiasi che non sa manco quello che vuole. Cambia l'anteriore destro a quella Grabam, e vedi di togliere l'ammaccatura alla portiera. Pel resto va.
Non dubitate, fa ancora cinquantamila chilometri. Olio, però, olio in abbondanza. Salute a voi. Buona fortuna.
Volete una macchina? Avete preferenze? Visto qualcosa che vi piace? Voglio mostrarvi un piccolo gioiello, venite di qui, mentre la signora esamina la La Salle. A voi la La Salle non serve: cuscinetti andati, consuma tropp'olio. Vi consiglio una Lincoln '24. Questa è la vettura per voi. Va come una sposa. La trasformate in camion.
Ferri rugginosi bollenti nel sole, macchie d'olio dappertutto, formicolio di acquirenti timidi e sospettosi assillati dalla necessità di comperare.
Pulirsi la suola delle scarpe prima d'entrare in questa berlina. Non appoggiarsi al radiatore: è sporco. I bambini leggono tutti i cartelli, con occhi pieni di meraviglia. Cosa costerà questa Chrysler?
Domandiamo, non costa niente domandare.
Dio! Aver cento catenacci da vendere. Del buon ordine di marcia chi se ne frega?
Colonne, alte due metri, di copertoni logori, feriti e contusi. Camere d'aria rosse e grigie pendenti come colossali salsicce.
Hai fatto bene, Joe. Adesso me li prendo io, li schiaffo in questa qui e li finisco. I perditempo tientili te, anzi mandali all'inferno. Io son qui per far affari.
Sissignore, provatela. Occasione unica. Per ottanta dollari è regalata.
Ottanta? L'impiegato là ha detto cinquanta. Non posso spendere più di cinquanta.
"Cinquanta?" Misericordia, siete pazzo. Ho pagato io settantacinque e mezzo. Senti qua, Joe, sei rimbecillito? O hai giurato di rovinarmi? Pezzo d'asino, mo' ti sbalestro io. Comunque, signore, perché siete voi faremo settanta, va bene? Abbiate pazienza, non posso darvi tutta la mia giornata.
Son uomo d'affari, ma non intendo ìmpiccar nessuno; che cosa m'offrite in parte merce?
Ho una pariglia di mule.
"Mule!" Senti questa, Joe. Il cliente m'offre due mule. Non v'ha mai detto nessuno che questa è l'età della macchina? A cosa servono i muli?
Un'ottima pariglia. Da tiro pesante. Cinque e sette anni. Sarà bene che io cerchi altrove.
Già, cercare altrove! Venite qui mentre sono occupato fin sopra i capelli, mi fate perdere un tempo prezioso e poi ve ne andate. Joe, non hai capito che era un perditempo?
Non sono un perditempo, ho bisogno assoluto d'una macchina, partiamo per la California.
Be', sentite, io non strozzo nessuno. Tutti mi conoscono per uno capace di dar via la camicia per aiutare il prossimo. I muli li prendo, ma il massimo che posso farne, al mattatoio, è cinque dollari l'uno, come carne pei cani.
No. Se vanno al mattatoio non li vendo.
Voglio esser generoso. Offro sette, va bene? No? Vado fino a dieci. Accettato? Venti, dollari per la pariglia, compreso il carro, naturale. Voi sborsate cinquanta, e firmate una carta per pagare il resto a dieci dollari al mese.
Ma voi avete detto ottanta.
Avete mai sentito parlare degli extra: assicurazione, tassa di bollo, eccetera? Comportano sempre qualche diecina in più, si sa. Ma in quattro o cinque mesi saldate. Firmate qui. Pensiamo noi a tutto.
Ma, un momento...
Oh sentite, vi do perfino la camicia e mi prendete tutto il mio tempo. Avrei potuto concludere tre vendite, senza di voi. Son cose che non si fanno, signore. Ah, lo capite anche voi, vero? Sissignore, firmate qui. Così va bene, signore. Joe, riempigli il serbatoio a questo signore, gratis, s'intende.
Accidenti, Joe, era duro, eh? Cosa l'avevo pagato quel catenaccio? Trenta, vero, o trentacinque? In più ho la pariglia, e se non ne faccio 75 sono un bel povero affarista. Senza contare i 50 in contanti e il contratto per altri 40. Questi 40 non sono del tutto sicuri, ma quel tipo lì mi sembrava onesto. Porco cane, potessi avere cinquecento catenacci. Rimboccati le maniche, Joe, portami dei clienti, hai guadagnato venti dollari, sai, su questo affare. Vai benino.
Gagliardetti pendenti immobili nel sole pomeridiano. L'Occasione del Giorno. Furgoncino Ford, Ottimo Stato. E per cinquanta dollari cosa volete? una Zephyr?
Imbottiture di crine traboccante dagli strappi nei cuscini, parafanghi sfondati raddrizzati col martello, paraurti bilenchi. Spider Fantasia Ford, due fanalini colorati sui parafanghi anteriori, tre retro, artistico tappo radiatore, cristallo di Boemia sull'impugnatura leva cambio, artistica figura di donna sul copertone e chiamata Cora. Sole pomeridiano sui parabrezza polverosi.
Perdio, già passata l'ora di colazione; Joe, vammi a prendere due etti di prosciutto.
Sinistri boati di decrepiti motori.
Oh, vedi quel pesce che esamina la Chrysler. Cerca di capire se ha soldi in tasca. Di quelle gattemorte di contadini ce n'è qualcuna col portafoglio ben fornito. Va' a lavorarmelo, su, fa' a modino, poi mandalo da me, Joe. Interesse tuo.
Certo, ricordo benone, ve l'ho venduto io. Garanzia? Che garanzia? Ve l'ho garantito per un'automobile, mica per una balia. L'avete comperato per un'automobile, cos'avete adesso da gridare? Me ne frego se non pagate; ho il contratto in mano, lo passo alla società, pensa lei a riscuotere. Come? Piano, piano, non alzate la voce o chiamo le guardie. Joe, liberami da questo seccatore. Ha comprato una vettura e adesso viene a dirmi che non è soddisfatto. E' come ordinare una bistecca, mangiarne la metà e rifiutare di pagarla. Io faccio affari, non sono un istituto di beneficenza.
Musi quadrangolari, musi ricurvi, musi arrugginiti, musi concavi, qualche aerodinamica, ma quasi dovunque i comodini anteriori all'invenzione dell'aerodinamica. Occasionissime. Vecchi mostri aristocratici con tappezzerie di lusso, facilmente convertibili in camion. Rimorchi a due ruote, alberi di trasmissione bollenti nel sole pomeridiano. Vetture di seconda mano. Perfetto Ordine di Marcia. Cadillac, La Salle, Buick, Plymouth, Packard, Chevrolet, Ford, Pontiac, file interminabili, fari sfavillanti nel sole pomeridiano. Affaroni.
Lavoramelo, Joe. Incretiniscimelo, Joe, lo finisco io.
Partite per la California? Proprio quello che ci vuole per voi. Sembra finita, eh?, ma questa qui vi fa ancora centomila chilometri come ridere.
File e file di rottami. Occasioni Imbattibili. Piena Garanzia. Nessun Extra. Pronto Servizio.
CAPITOLO 8.
Le stelle impallidivano, e perdeva consistenza il logoro ultimo quarto della luna. Tom e il predicatore camminavano svelti traverso i campi seguendo le peste impressevi dalla trattrice. Solo un debole chiarore a levante annunciava l'approssimarsi dell'alba. I due uomini s'affrettavano in silenzio respirando la polvere sollevata dai loro piedi.
«Sei proprio certo che è questa la strada?» disse Jim Casy. «Sarebbe seccante, adesso che viene il sole, trovare che ci siamo sbagliati.» Il campo di cotone s'animava per il risveglio della natura, il frullo rapido degli uccelli mattinieri in cerca di nutrimento tra le piante, lo zampettio di conigli disturbati tra le zolle. Il molle trapestio dei due uomini sulla polvere, lo sgretolio delle zolle calpestate contrappuntavano i segreti rumori dell'alba.
«So la strada a occhi chiusi,» rispose Tom. «Diavolo, son nato qui, conosco ogni piega del terreno, ogni albero. Ce n'è uno là, vedete laggiù, comincia proprio adesso a mostrarsi, dove mio padre una volta ha impalato un coyote e ce l'ha lasciato finché s'è sfatto ed è crollato... Diavolo, speriamo di trovare la colazione pronta, ho una fame da lupo.»
«Anch'io. Vuoi del tabacco? Calma la fame.» Stracciò coi denti un pezzo dalla compressa di foglie di tabacco. «Siamo partiti troppo presto, dormivo così bene.»
«Colpa di quel mattoide, Mi sveglia per salutarmi, perché dice che doveva andar via, che aveva da fare, e meglio se sparite anche voialtri, mi fa, per non farvi sorprendere qui. E' pieno di paure, a vivere come vive. Come perseguitato dagli indiani, direste. Non credete ch'è matto?»
«Mah, non so che dirti. Quella macchina iersera venuta a ispezionare, la vostra casa sfondata, son cose che danno da pensare, sai; brutti segni. Tocco lo è, senza dubbio. Va in giro che pare un coyote; finirà per dare i numeri. Capace un giorno o l'altro d'accoppare qualcuno. Mi pare già di vederlo inseguito dai cani poliziotti. E' un predestinato, non c'è che dire. Non sei riuscito a persuaderlo a venire con noi?»
«No, non vuol vedere nessuno. E' già molto che non è scappato quando ci ha visti. Tra poco siamo arrivati.»
Procedettero in silenzio. Gli ultimi gufi si ritiravano nei covi per difendersi dalla luce. Il cielo a oriente si schiariva e già si cominciavano a distinguere le piantine di cotone.
«Come diavolo faranno a star tutti da zio John?» osservò Tom. «Ha una camera sola oltre una tettoia che gli fa da cucina e uno sgabuzzino per stalla.»
«Non lo ricordo bene, quel tuo zio. Scapolo?»
«Vive completamente solo. Mezzo matto anche lui come Muley. E' più vecchio del babbo. Magro come un chiodo, più magro del nonno.»
«Ecco il giorno. Sembra d'argento. Ma questo John, non aveva moglie?»
«Sì, sì, e anzi questo vi farà capire che razza di testardo è. Il babbo ne parla qualche volta. Aveva sposato una bella figliola, e dopo quattro mesi di matrimonio una notte le viene un dolore di visceri e grida, John, John, va' a chiamare il medico! Ma lui no, il medico per un mal di pancia? dice, prendi un'aspirina. Mangi troppo e poi ti fa male la pancia. Ma a mezzogiorno dell'indomani lei ha cominciato a delirare e alle quattro era morta.»
«Cos'era?» chiese Casy. «Avvelenata da qualcosa che aveva mangiato?»
«No, qualcosa che le è scoppiato dentro. App... appendicite, come dicono. Comunque. Zio John, che fin allora era stato un uomo normale, perde la testa, è preso dal rimorso, e da quel momento non si fa più vedere, e passa il tempo a pregare. C'è voluto due anni a calmarlo. E dopo era pieno di manie. Tutte le volte che noi bambini s'aveva i vermi, lui ci portava il medico in casa, e il babbo finì per perdere la pazienza e dirgli che i bambini hanno sempre mal di pancia. Lui dice che è tutta colpa sua se sua moglie è morta. Strano tipo... Fa penitenza facendo del bene agli altri, regala roba ai bambini, lascia sacchi di farina sotto il portico di qualcuno. Dà via quasi tutto quello che ha, ma senza mai trovar pace. A volte va in giro da solo di notte. E' un bravo coltivatore, però, sapete; la sua terra la tien bene.»
«Povero diavolo. Malato di solitudine anche lui. Gli era venuta la mania religiosa quand'ha perduto la moglie?»
«Non proprio. Faceva del bene, ma in chiesa ci andava poco, perché non voleva farsi vedere. Per noialtri bambini era come il buon mago. Alle volte svegliandoci si sapeva ch'era venuto di notte a vederci perché trovavamo sotto il cuscino i pacchetti di gomma.»
Il predicatore camminava a testa bassa. Non diede replica. E il giorno nascente illuminandogli l'ampia fronte pareva cingerla di un'aureola. Anche Tom mantenne il silenzio, quasi vergognoso della sentimentalità dei suoi ricordi infantili. Affrettò il passo. «Cosa c'è laggiù?»
Un gruppo di cani teneva riunione in onore d'una cagna. Erano cinque bastardoni, i cui segni distintivi di razza erano stati cancellati da una soverchia libertà d'incrocio, e facevano la corte alla cagna. Ciascuno annusava delicatamente, alzava una gamba e pisciava cerimonioso su una pianta di cotone, poi tornava ad annusare. Tom e il suo compagno si fermarono ad osservare la scena; lui rideva, ma il predicatore conservava l'aria solenne. Finalmente il più ardito dei cani montò, e gli altri stettero a guardare con interesse, lingue pendenti e bavose. Tom riconobbe il cane conquistatore, e lo chiamò per nome, e quello voltò la testa ma non accorse alla chiamata. Tom rise forte. «Al suo posto nemmeno io mi sarei disturbato,» disse, e riprendendo il cammino aggiunse: «Mi fa venire in mente quel ch'è capitato una volta a Willy Feeley quand'era ancora un ragazzo. Willy era molto timido, mai visto uno timido come lui. Be', una volta suo babbo gli dà una mucca da portare al toro dei Graves. Dai Graves, c'era soltanto la figliola, l'Elsie, che timida non era, perdio. Willy si fa tutto rosso e se ne sta lì senza manco riuscire a spiccicare una parola e allora Elsie gli fa: Ho capito perché vieni; il toro è nel prato dietro la stalla; e andò con lui ad assistere e si misero a sedere sulla staccionata. A un certo punto Willy si schiarisce la gola e s'agita e si fa rosso, e Elsie lo guarda e gli fa: Cos'hai, Willy? e lui: Dio, Elsie, chissà come gode! E lei, tranquilla: E perché non provi? La mucca è tua.»
Il predicatore si degnò di sorridere e disse: «Quando facevo il predicatore nessuno mi raccontava di queste storielle divertenti, e ad ogni modo non avrei potuto riderne. E ridere fa bene. Come anche bestemmiare; è uno sfogo.»
L'oriente si tinse di rosso, e gli uccelli cominciarono a cinguettare. «Ecco là,» disse Tom, «il serbatoio di zio John; il mulino a vento non si vede, ma vedo la vasca.» Affrettò il passo. «Possibile che li trovi tutti lì?» Ora la vasca era tutta in vista. «Chi sa se la mamma...» Ora si vedevano anche i supporti della vasca, e tra il fogliame appariva il tetto della casetta, uno scatolino di legno, e anche quello della stalla. Il comignolo mandava fumo.
Nel cortile regnava un'indescrivibile confusione: mobili ammucchiati, le pale del mulino a vento, i letti. «Gesù! Arriviamo in pieno trasloco,» disse Tom. C'era fra l'altro un autocarro, con le fiancate singolarmente alte, ma un autocarro strano, perché sul davanti pareva una berlina. Il resto della carrozzeria era stato tagliato via, e in sua vece era stato allestito alla rustica il cassone del camion. E avvicinandosi i due uomini cominciarono a sentire colpi di martello, e quando il primo raggio del sole cadde sul camion videro, su di esso, in piedi, un uomo che martellava alacremente. Il sole accese le poche finestre della casa e la luce riflessa infiammò le penne di due galline rosse che razzolavano sull'aia.
«Zitti,» disse Tom, «avviciniamoci senza farci sentire,» e proseguì, ma più lento, quasi temesse di inoltrarsi. Il predicatore rallentò anche lui, per non sopravanzarlo. Tom, per l'imbarazzo, s'avvicinò quasi furtivo al fianco dell'autocarro. Era una berlina Hudson Supersix, trasformata. Il babbo era in piedi sull'impalcatura, e lavorava alle tavole delle fiancate, la barbuta faccia piena di rughe e una mezza dozzina di chiodi tra le labbra. Dalla casa uscì il rumore d'un coperchio di marmitta sulla stufa, e lo strillare d'un bambino. Tom s'appoggiò al fianco del camion. Il babbo gli diede un'occhiata distratta, senza notarlo, conficcò un altro chiodo e prese a martellare. Uno stormo di colombi si levò dalla sommità del serbatoio, eseguì un rapido giro di ricognizione e tornò a posarsi: bianchi, grigi, azzurrognoli, con l'ali iridescenti. Tom introdusse una mano tra le tavole della fiancata e guardò il babbo in faccia, notando i segni degli anni sul suo viso travagliato; si passò la lingua sulle labbra e mormorò, con dolcezza: «Babbo.»
«Cosa c'è,» bofonchiò il babbo tra i chiodi, voltando la testa. Sulla camicia di grossa tela blu portava un vecchio panciotto privo di bottoni. Una cinghia di cuoio, munita d'una grossa fibbia quadrata in ottone reso lucido dal lungo uso, cercava di adempiere alla sua funzione, ch'era di tener su i pantaloni. Non era a piedi nudi, ma le sue scarpe scalcagnate sbadigliavano in vari punti, incredibilmente deformate dal sole, dalla pioggia e dalla polvere di tanti anni. Era un uomo muscoloso, ma stretto di torace e corto di gambe. Il viso, inquadrato da una brizzolata barbetta incolta, consisteva quasi tutto nella prominenza della mandibola inferiore.
Sentendosi chiamare, s'era voltato nella direzione della voce, col martello sospeso in aria, e irritato di venir disturbato nel lavoro. Quando i suoi occhi videro la faccia di Tom, solo allora il suo cervello divenne a poco a poco consapevole della realtà che lo fronteggiava. Protese ancor più la bazza, abbassò lentamente il martello e con la sinistra si tolse i chiodi dalla bocca. E disse, stupito, come parlando tra sé: «E' Tommy.» E aggiunse, come per informarsi ulteriormente: «E' Tommy che torna a casa.» Aprì una terza volta la bocca per parlare e i suoi occhi espressero paura. «Tommy,» disse quasi in tono di implorazione, «non sei mica scappato? Non devi mica nasconderti?» E tese inquieto l'orecchio per ascoltare la risposta.
«No, no,» disse Tom. «Sulla parola, ma libero; ho le carte.»
Il babbo posò delicatamente il martello sull'impiantito e si mise i chiodi in tasca, poi scavalcò la sponda del camion e si calò a tetra. Ma quando fu accanto al figliuolo, parve imbarazzato. Disse: «Tommy, partiamo per la California. Volevo sempre scrivertelo.» E aggiunse, ancora incredulo. «Ma sei tornato. Puoi venire con noi, puoi venire con noi!» Dalla cucina s'udì un rumore di piatti, ed egli si guardò indietro al di sopra della spalla. «Ora andiamo a fare la sorpresa agli altri,» e gli occhi gli scintillavano d'eccitazione. «La mamma aveva il presentimento di non vederti più: prendeva quell'aria assente, sai, come quando pensa a qualcuno che è morto. Non voleva nemmeno partire, per paura di non vederti mai più. Andiamo a farle la sorpresa,» ripeté. «Entriamo come se tu non fossi mai andato via. Voglio vedere cosa dice, cosa fa.» Solo allora osò toccare il figlio, ma solo sulla spalla, timidamente, e ritirò subito la mano. Guardò Casy.
Tom disse: «Ricordi il predicatore, vero? Siam venuti insieme.»
«Era in prigione anche lui?»
«No. L'ho incontrato per strada. E' stato via.»
Il babbo gli strinse la mano con gravità. «Benvenuto in casa mia.»
Casy disse: «Lieto di ritrovarmi qui. E' bello assistere al ritorno della pecora all'ovile.»
«Vedete che ovile,» mormorò il babbo. Cacciò la bazza avanti, si guardò attorno senza vedere, poi si rivolse nuovamente a Tom. «Come la facciamo?» Poi, con voce eccitata: «Entro io e dico: Mamma, ti porto due ospiti che hanno appetito... oppure è meglio entrare senza dir niente e aspettare finché ti veda lei?» I suoi occhietti neri scintillavano.
«No, è meglio prepararla, evitarle un'emozione brusca.»
Due cani rognosi arrivarono di trotto allegro finché colsero l'odore degli estranei, e allora si fermarono e indietreggiarono per prudenza, sospettosi, agitando ancora la coda, ma più lentamente, ancora ospitali, ma pronti alle ostilità in caso di pericolo. Il più ardito dei due accostò Tom e ne annusò rumorosamente i pantaloni, poi guardò il babbo in attesa di un qualche segnale. L'altro invece, più giovane e inesperto, cercò attorno qualcosa che servisse a distogliere onorevolmente la sua attenzione, scoprì una delle galline rosse e si lanciò a inseguirla. S'udì la clamorosa protesta della gallina oltraggiata, e il cane si voltò orgoglioso a guardare gli uomini, poi si accucciò battendo allegramente la coda a terra.
«Vieni, Tom,» ripeté il babbo, «entriamo adesso. Ho una voglia matta di vedere la sua faccia quando ti vede. La colazione dev'essere pronta a momenti.» S'incamminò vispo verso la casa. Non v'era portico d'ingresso: solo un gradino addossato alla porta chiusa. Il babbo l'aprì e si fermò, mascherando con la sua persona i due che lo seguivano. Disse: «Ho con me due viaggiatori, mamma, c'è un boccone per tutti?»
Tom udì la voce della mamma, la voce che ricordava, serena, umile, amichevole: «Falli entrare, da mangiare ce n'è. Portali a lavarsi le mani.» S'udiva il grasso crepitare irascibile nella padella.
Il babbo si fece avanti, facendo segno agli altri di seguirlo. Allora Tom poté vedere la mamma. Con la forchetta stava sollevando dalla padella le incartocciate fette di pancetta. Lo sportello del forno era aperto e lasciava vedere un vassoio ricolmo di ciambelle pronte. La mamma voltò la testa verso la porta, ma il sole era dietro a Tom, così ch'ella non ne vide che la figura, senza riconoscerlo. Fece con la testa un cenno di saluto. «Avanti, avanti,» disse, «la colazione è pronta.»
Tom ristette sulla soglia, a guardare. La mamma s'era fatta, non grassa, ma pesante, materiale. Portava una vestaglia di flanella a fiori, ma il colore dei fiori era sbiadito, così che risultavano solo un poco più chiari del fondo, e la veste le scendeva fino alle caviglie. I piedi, larghi e nudi, si muovevano tuttavia con agilità, e senza rumore. I capelli grigi erano raccolti in un misero nodo sulla nuca. Mostrava nude fino al gomito le forti braccia lentigginose, ma le mani apparivano bianche, tondette, delicate, come d'una bimba grassoccia. Guardava nel sole. La sua faccia carnosa, senza esprimere dolcezza, era affabile, e disciplinata. Gli occhi marroni sembravano aver sperimentato tutte le tragedie, scalando a grado a grado il dolore fino alla vetta, per spaziare nelle supreme sfere d'una comprensione e d'una tranquillità sovrumane. Sembrava conoscere, accettare, gradire la sua posizione: era la cittadella della famiglia, la roccaforte inespugnabile. E siccome i mali e le paure potevano offendere il babbo e i bambini solo quand'ella ne avesse ammesso la sussistenza, aveva adottato il sistema di negarla. E poiché in ogni ricorrenza il babbo e i bambini guardavano lei per leggerle in volto i segni della gioia, ella s'era avvezza a crearla fuor da un nonnulla. Ma più balsamica che la gioia era la calma che palesava. La famiglia sapeva di poter contare sull'imperturbabilità della mamma. E dall'alta, umile posizione che occupava in casa, ella aveva derivato dignità, e una nitida, calma bellezza. Dalle loro funzioni risanatrici le sue mani avevano derivato sicurezza, freschezza ed efficienza. Nelle sue funzioni di arbitro ella era diventata remota ed infallibile come una dea. Si rendeva conto che se vacillava lei, la famiglia tremava; se lei tentennava o disperava, la famiglia crollava.
Guardava contro il sole la sagoma scura dell'uomo apparso sulla soglia. Lì vicino, il babbo friggeva d'eccitazione, ripetendo: «Fatevi avanti, fatevi avanti!» E Tom, un poco imbarazzato, varcò la soglia.
E allora la mano con cui la mamma teneva la forchetta in aria s'abbassò lentamente e lasciò cadere la forchetta. Spalancò gli occhi, le si dilatarono le pupille, respirò rumorosa tra le labbra socchiuse, chiuse gli occhi. «Dio sia lodato, oh, Dio sia lodato!» Il suo viso espresse una subita paura.
«Tommy, non sei scappato? Non t'inseguono?»
«No, mamma, libero sulla parola, ho le carte.» Accennò con la mano alla tasca interna della giacca. Ella avanzò verso di lui, e il suo volto era pieno di meraviglia. Con una delle sue piccole mani gli palpò la solidità dei muscoli del braccio, e poi alzò la mano per toccargli la guancia con le dita, come avrebbe potuto fare una cieca. E la sua gioia aveva un'espressione quasi dolorosa. Tom si morse forte il labbro, e lo sguardo materno notò il gesto. Allora la mamma riacquistò subito la padronanza di sé e abbassando la mano gridò gioiosa: «Si stava per partire senza di te, e non si sapeva come fartelo sapere; non ci avresti mai più ritrovati.» Raccattò la forchetta e rimestò il grasso che bolliva e ne trasse una fetta di pancetta abbrustolita e rimosse la caffettiera dal fornello. Il babbo sogghignava. «Te l'abbiamo fatta, eh? L'avevamo combinata ed è riuscita benone. Peccato che il nonno non t'abbia visto. Avevi l'aria d'un bue sotto la mazza. Il nonno si sarebbe slogata
l'anca di nuovo, a furia di ridere, come quando Al sparò contro il dirigibile della marina.»
La mamma sorrise e dié di piglio ad una colonna di piatti in ferro ammucchiati sulla mensola.
Tom domandò: «Dov'è il nonno?»
La mamma ordinava i piatti sulla tavola, ciascuno accompagnato da una tazza. «Lui e la nonna dormono nella stalla. S'alzano così spesso di notte; inciampavano sempre nei giacigli dei piccoli.» «Tutte le notti erano scenate,» intervenne il babbo. «Al buio il nonno inciampava in Winfield, e Winfield strillava e il nonno s'arrabbiava e se la faceva addosso, e allora perdeva il lume degli occhi ed era un putiferio in tutta la casa. Una notte tuo fratello Al s'impazientisce e lo manda all'inferno. Avresti dovuto vedere il vecchio! E' corso a prendere il fucile, e Al se l'è data a gambe. Ha finito la notte fuori, quella volta. Ma adesso il nonno e la nonna dormono nella stalla.»
«Son più liberi di muoversi senza disturbar nessuno,» commentò la mamma. «Papà, va' a dirgli che è arrivato Tom. Il nonno gli vuol bene.»
«Oh, è vero, avrei dovuto pensarci prima.» Il babbo s'affrettò fuori, a lunghi passi, esagerando il moto alterno delle braccia.
Tom lo guardò allontanarsi. La mamma, versando il caffè nelle tazze, lo chiamò senza guardarlo:
«Tommy, dimmi, non ce l'hai con nessuno, dimmi?»
«Con chi vuoi che ce l'abbia?»
«Sì, dico, la prigione non t'ha fatto cattivo, vendicatore?»
Tom la guardò di fianco, studiandone il volto, domandandosi come facesse a nutrire un così fondato sospetto. La rassicurò: «No, no. Lo son stato, per un po'. Ma non sono ribelle come certuni, lascio correre. Perché m'hai domandato?»
Ora ella io fissava, tendendo l'orecchio, frugando il volto del figlio cogli occhi, per accertarsi di leggervi bene quello che vi stava scritto. Un po' confusa, rispose: «Ricordo cos'han fatto del figlio della Floyd. Un bel ragazzo, e mica cattivo, in fondo. Ma alla prima che fa lo pigliano e lo trattano così che ne fanno una vipera. E appena fuori ne fa un'altra e lo ripigliano e ne fanno una iena. Dopo la terza condanna s'è dato tutto alla delinquenza. Non era più un uomo, era una belva resa sempre più feroce dalla necessità di difendersi dagli inseguitori. Uccideva per non farsi uccidere. Ma con chi lo conosceva era buono. Andò a finire che gli han sparato. Ma, i giornali dicano quel che vogliono, non era cattivo, no.» Si passò la lingua sulle labbra, e tutto il suo volto era penosa domanda. «Era questo che volevo sapere, Tommy. T'han fatto male come a lui? T'han fatto cattivo?»
Tom guardando sua madre teneva compresse le labbra carnose. Abbassò gli occhi e si ispezionò i calli sulle palme. No, no,» disse, contemplandosi le unghie rotte, slabbrate come orli di conchiglie. «No, no; mi sono sempre fatto forza per restare dalla parte della ragione. Non son ribelle a quel punto.»
Ella tirò un sospiro. «Dio sia lodato!» mormorò, con un accento di così compassionevole gratitudine che Tom le si fece più vicino, e le disse:
«Mamma, quando ho visto cos'han fatto alla tua casa...»
Ella non lo lasciò finire. «Tommy, non pensare a vendette, per carità. Ti daran la caccia come a un cane arrabbiato. Ho già penato tanto. Siamo più di centomila. dicono, sfrattati. Se si fosse tutti uniti a reagire, allora nessuno penserebbe a darci la caccia, ma...»
«Non capisco perché non si uniscono...»
«Non so. Sono come intontiti, come fossero mezzo addormentati.»
Udirono sull'aia echeggiare lo stridulo belato d'una giaculatoria che risuonava familiare ai loro orecchi:
«Lode al Dio della Vittoria! Lode al Dio della Vittoria!»
Tom voltò la testa e sogghignò. «Nonna ha sentito finalmente che son tornato. Ma senti, mamma, non t'ho mai vista così.»
«Ma è la prima volta che mi sfondano la casa, è la prima volta che buttano la famiglia sul lastrico, è la prima volta che sono stata costretta a vendere... tutto... ma eccoli.»
Arrivarono in quattro, capeggiati dal nonno, un arzillo vecchietto, scarno, in cenci, che camminava leggermente zoppo a piccoli passi saltellanti, abbottonandosi il panciotto di maglia con mani impacciate, perché aveva infilato il primo bottone della seconda asola e ciò bastava a sconvolgere l'ordine delle operazioni. Anche i pantaloni erano sbottonati e dall'apertura usciva un lembo della camicia di grossa tela blu, che era totalmente aperta sul petto e lasciava vedere una selva di peli grigi. Rinunciò al panciotto e si arrovellò coi bottoni dei pantaloni, ma abbandonò presto anche questo tentativo e si contentò di dare una stratta alle bretelle per assicurarsi della loro solidità. Aveva una faccia magra e irascibile, e due occhietti chiari maligni e petulanti come quelli d'un bimbo insolente: nel complesso l'aspetto di un omino sarcastico, brontolone e maligno, svelto di mano come di lingua, pronto alla disputa così con gli atti come con le parole. Raccontava barzellette sporche. Era scurrile adesso come una volta, vizioso, impaziente, prepotente come un bambino capriccioso; ma sempre rumorosamente allegro. Beveva troppo, quando poteva, e mangiava troppo, quando c'era abbondanza sulla tavola; e parlava troppo sempre.
Dietro a lui veniva saltellando la nonna, che aveva resistito alla vita coniugale solo perché era maligna e aggressiva quanto suo marito. Era sempre riuscita a difendere le proprie posizioni per virtù di una stridula religiosità feroce, che era non meno scurrile e selvaggia di qualunque cosa il nonno fosse capace di produrre. Una volta, dopo il servizio divino, aveva dato di piglio al fucile e aveva sparato i due colpi contro di lui che fuggiva come una spia, ficcandogli anche un dozzina di pallini nelle natiche. Da quel giorno il nonno l'aveva sempre rispettata. Ora, saltellando, sollevava la vestaglia fin sopra i ginocchi, blaterando il suo stridulo grido di guerra: «Lode al Dio della Vittoria! Lode al Dio della Vittoria!»
I due vecchietti andavano a gara per sopravanzarsi a vicenda e arrivar primi da Tom. Dietro a loro, ad andatura pacata ma sostenuta, venivano il babbo e Noè il primogenito: un giovane d'alta statura e di carattere strano, dall'espressione sempre sconcertata e meditabonda. Non era mai andato in collera in vita sua. Guardava con meraviglia e con imbarazzo, come una persona normale guarda un demente, chiunque montasse sulle furie. Noè era lento negli atti, e parco di parole; e parlava così adagio che chi non lo conosceva lo credeva stupido; ma non lo era. Non aveva ambizioni, non sentiva stimoli sessuali. Lavorava e dormiva con un ritmo irregolare che tuttavia lo contentava. Voleva bene alla famiglia ma senza mai dimostrarlo. Un osservatore non avrebbe saputo spiegarsene il perché, ma Noè lasciava in tutti l'impressione che fosse per qualche verso deforme, sebbene il suo fisico non svelasse difetti. L'unico che fosse in grado di spiegarsene il perché, era il babbo; ma per vergogna non lo diceva a nessuno. Quando Noè era venuto al mondo, il babbo, sconvolto alla vista delle cosce divaricate della partoriente, solo in casa e terrorizzato dalle grida della moglie, aveva usato delle proprie dita come d'un forcipe: aveva estratto lui la renitente creatura fuor dal suo immondo ricettacolo. La levatrice, arrivata tardi, aveva trovato il pupo con la testa deforme, il collo stralungo e il corpo bilenco; e l'aveva riplasmato lei alla meglio con le sue mani. Ma il babbo non aveva mai dimenticata la macabra circostanza, e tutte le volte che ci pensava sentiva onta. Ed era verso Noè più indulgente che verso gli altri figli. Noè era capace di fare tutto quello che il babbo s'aspettava da lui: leggere e scrivere, lavorare la terra e far di conto, ma nulla sembrava interessarlo, mostrava un'assoluta indifferenza per tutto quanto ogni altra persona considerava necessario o desiderabile. Viveva in una strana dimora silenziosa dalle cui finestre s'affacciava per contemplare il mondo con tranquilli occhi grigi. Si sentiva estraneo al mondo, ma non soffriva di solitudine.
Fu primo il nonno ad affacciarsi alla cucina, sempre con una mano inquieta tra i bottoni dei pantaloni, e gridava: «Dov'è quella faccia di pipa, dov'è?» e appena scorse Tom, gridò, con gli occhi scintillanti di malizia: «Eccolo là, l'ergastolano! Nessun Joad è mai stato in gattabuia, porco d'un cane. Ma è stata un'ingiustizia, quei bastardacci l'han condannato a torto, io avrei fatto preciso come lui. E quel buggerone d'un vecchio puzzolente che andava sbraitando di volerti far la pelle appena veniva fuori. Ma badi ai casi suoi, o lo concio io per le feste!»
La nonna, senza seguire la filastrocca, continuava a belare: «Lode al Dio della Vittoria!»
Raggiunto Tom, il nonno gli tirò un pugno nello stomaco e, con un sogghigno in cui ora prevaleva l'affetto e l'orgoglio, gli domandò: «Come va, Tommy?»
«Si vivacchia, e te come ti mantieni?»
«Pieno di piscio e d'aceto,» ribatté il vecchio, e riprese a motteggiare: «Lo dicevo sempre, io, che un Joad non lo tenevano un pezzo in prigione. Un giorno o l'altro, dicevo, Tommy prende il volo. E avevo ragione, perdio, eccoti qua. Fuori dai piedi, ora, ho una fame da lupo.» Si fece largo coi gomiti, sedette a tavola, si servì abbondantemente di pancetta, scelse le due più grosse ciambelle, inondò il tutto sotto una cascata di sugo e prima ancora che gli altri potessero prender posto aveva la bocca piena.
Tom lo guardava con un sorriso d'ammirazione, borbottando: «Sempre il solito vecchio puttaniere, eh?» e l'altro aveva la bocca troppo piena per poter replicare, ma sorrideva con gli occhietti maligni e annuiva con veemenza.
La nonna disse, in tono di sfida: «Mai visto un individuo più gramo di quel vecchio bestemmiatore. Va all'inferno diritto come un fuso, com'è vero Dio. Ora non s'è messo in testa di voler condurre il camion lui? Ma ha da fare i conti con me.»
Al nonno il boccone andò di traverso e lo fece tossire. Tossendo mandò fuori uno spruzzo di frammenti di cibo masticato. «Vecchio sporcaccione,» disse la nonna, strizzando l'occhio a Tom.
Noè continuava a restare intontito sulla soglia, il volto privo d'espressione. Tom lo interpellò: «Come va, Noè?»
«Bene, e te?»
Nient'altro: ma bastò, al due fratelli.
La mamma scacciava le mosche dalla salsiera. «Non c'è posto per tutti. Chi non può sedere si prenda la sua razione e vada a mangiarsela fuori.»
D'improvviso Tom si ricordò del predicatore. «Dove sarà andato? Siamo venuti insieme.»
«Difatti,» disse il babbo, «dove s'è cacciato?»
«Predicatore?» strillò la nonna. «Avete un predicatore? Devo vederlo. Lo voglio subito per dirci il benedicite.» Accennò con la testa al nonno: «Troppo tardi per quel mangione, ma fa niente, andate a cercarmi il predicatore.»
Tom s'affacciò sull'aia e lo chiamò ripetutamente a voce sempre più alta. Lo vide sbucar fuori di sotto al serbatoio. «Che facevate là sotto?»
Casy aspettò d'esser vicino per rispondere dignitosamente: «Non volevo far da intruso nella riunione della famiglia.»
«Entrate, entrate, la nonna vuole un benedicite.» «Ma non faccio più il predicatore,» protestò Casy.
«Fa niente, dateglielo lo stesso. A voi non fa nessun male, e a lei fa piacere.»
Entrarono insieme. La mamma disse affabilmente: «Siate il benvenuto.» E il babbo: «Siate il benvenuto, sedete alla nostra mensa.»
«Prima il benedicite,» esclamò la nonna, «prima il benedicite.»
Il nonno lo squadrò con aria feroce, finché lo riconobbe. «Oh, lo ricordo; è un brav'uomo,» e sottovoce bofonchiò: «Non ho mai avuto niente contro di lui.» Ma allo stesso tempo strizzò l'occhio con un fare così insolente, che la nonna lo sospettò di voler spiattellare qualche arguta oscenità contro il reverendo e gli impose silenzio: «Zitto te, vecchio becco peccatore!»
Casy si passava nervosamente le dita tra i capelli. «Devo premettere che non faccio più il predicatore. Se è per manifestare la mia gratitudine a chi m'accoglie in casa, e la mia contentezza di trovarmici, io volentieri aderisco all'invito di invocare sulla famiglia la benedizione dell'Onnipotente; ma non faccio più il predicatore.»
«Fa niente, fa niente,» disse la nonna, «invocate, invocate lo stesso, e metteteci dentro una parola per rammentargli che si parte per la California.»
Il predicatore chinò il capo e gli altri lo imitarono: la mamma, giungendo le mani davanti al petto; la nonna, prostrandosi così che la punta del suo naso risultò a due dita dalla ciambella sul piatto; Tom, stando in piedi appoggiato al muro col suo piatto in mano. Anche il nonno chinò il capo, ma per traverso, così da poter tener un occhio, burlone e malizioso, sul predicatore.
«Ho meditato molto,» cominciò l'ex predicatore, «nella solitudine, come Gesù errante pel deserto in cerca della soluzione di gravi problemi.»
«Lode al Dio della Vittoria!» balbettò la nonna.
L'oratore le scoccò un'occhiata di sorpresa ma continuò: «Anche Gesù s'era trovato di fronte a un mucchio di difficoltà e di dubbi, e non riuscendo a risolverli aveva finito per dirsi che non c'era niente da fare; la meditazione, la lotta, tutto era inutile, non c'era più religione, mancava la fede, e sentiva lui stesso vacillare il suo spirito. E così partì pel deserto.»
«Amen,» belò la nonna. Era stata avvezza tutta la vita a formulare una risposta durante le pause dell'officiante.
«Io non pretendo di essere Gesù,» rispose l'altro, «ma ho perso coraggio anch'io, e mi son dato alla campagna, e senza arnesi da campeggio. La sera mi coricavo sulla schiena e contemplavo le stelle.
Al mattino contemplavo il levar del sole; a mezzogiorno contemplavo la pianura dalla sommità d'un poggio; al tramonto osservavo il sole sparire. Ogni tanto continuavo a pregare come prima, ma non riuscivo più a capire a chi rivolgevo le mie preghiere, ed a qual fine le pronunciavo. C'era il sole, c'eran le stelle, la pianura e le colline, e tutto era parte di me: si era una cosa sola. Ma questa cosa era sacra.»
«Alleluja!» mormorò la nonna, e si mise a beccheggiare con la testa, con la speranza di andare in estasi.
«E meditavo profondamente, e mi pareva venire alla conclusione che tutta l'umanità doveva per forza risultare santificata se riusciva a fondersi in una sola grande corporazione. Poi ho cominciato a pensare che non sapevo nemmeno il significato della parola santo, santità, santificare. Non sono più capace di dire il benedicite come una volta. Tutto quel che posso dire è che la santità del desco familiare mi rallegra perché è segno che in questa casa regna l'amore. Ma intanto la colazione diventa fredda.» Poi ricordò e aggiunse: «Amen,» e tutti risollevarono la testa.
«Amen,» ripeté la nonna e attaccò la sua razione, masticando con le sue vecchie gengive dure prive di denti. Tom smaltì la sua in pochi bocconi, e il babbo si riempì le fauci. La mamma osservava il predicatore rifocillarsi, e il suo sguardo sebbene sorpreso tuttavia pareva approvare l'invitato e capirne l'atteggiamento mentale. Lo guardava come se fosse uno spirito, non più un essere umano: una voce esalata di sotterra.
Finito il pasto, gli uomini uscirono, dirigendosi, nella confusione dei mobili e degli arnesi sparsi sull'aia, all'autocarro. Tom aprì il cofano ed esaminò il grosso motore unto di grasso, e il babbo gli venne accanto. «E' Al che ha passato l'ispezione generale, prima che lo comprassimo. Dice che è un buon affare.»
«Com'è che se ne intende? E' ancora un bamboccio.»
«Ha lavorato in rimessa. Tutto l'anno scorso ha guidato autocarri. Se ne intende abbastanza, è in gamba, sa trafficare nei motori.» «Dove s'è cacciato ora?»
«Sarà in giro a far l'asino alle ragazze. Non pensa ad altro; ha sedici anni. Ragazze e automobili. E' in gamba. E' una settimana che non rientra la sera.»
Il nonno, con le mani sempre irrequiete, era riuscito ad abbottonarsi la camicia nelle asole della maglia. Sentiva, con le dita, che qualcosa non andava, ma non se ne interessava abbastanza per rendersene conto. «Io ero peggio di lui,» disse calorosamente, «molto peggio, alla sua età. Un galletto come ne ho visti pochi.» «E lo sei ancora,» disse Tom.
«Oh, ma niente al confronto di quello che ero. Ma adesso che arrivo in California, vi faccio vedere io. Là basta allungar la mano per cogliere un'arancia, o un grappolo d'uva. E' sempre stato il sogno di tutta la mia vita. Voglio farmene una scorpacciata, impiastricciarmi la faccia col succo d'uva e d'arance.»
Tom domandò: «E zio John dov'è? E Rosatè? E Ruth e Winfield? Nessuno me n'ha ancora parlato.» «Perché non hai domandato. John è andato a Sallisaw, con un mucchio di cose da vendere: la pompa, arnesi, polli, roba sua e nostra. E s'è portato Ruth e Winfield. Son partiti prima di giorno.»
«Strano che non li ho incontrati per strada.»
«Avrà preso la scorciatoia. Rosatè è dai suoceri. Perdio, non sai, ma è sposata. Ha sposato Connie Rivers, sicuro. E aspetta già un bambino, fra tre quattro mesi; comincia appunto a ingrossare. S'è fatta bella donna.»
«Perbacco, l'ho lasciata ch'era una bambina e sta per esser madre. Quante cose in quattr'anni, quando s'è via! E quando pensi che sarete pronti a partire?»
«Mah, dobbiamo vendere tutta questa roba. Se Al si degna di mettersi a nostra disposizione, si fa presto: in due tre giorni s'è pronti. Saran tremila chilometri, dicono, di qui fino in California; più presto si parte e meglio è. Denaro ne abbiam poco, e fonde a vista d'occhio. Te hai qualcosa?»
«Due dollari, in tutto e per tutto. Come avete racimolato quattrini? «
«S'è venduto tutto quel che s'è potuto, e in più ci siam messi tutti a coglier cotone, nonno compreso.»
«Sicuro,» confermò il nonno.
«Tutt'insieme abbiam fatto duecento dollari. La macchina c'è costata settantacinque, e io e Al l'abbiamo trasformata in autocarro. Al deve ancora smerigliare le valvole, ma pare che pensi ad altro. Insomma si partirà sì e no con centocinquanta dollari in tasca, e ho ben paura che i copertoni dureranno poco; ne ho un paio di ricambio, ma usati. Certo è che in viaggio sarò sempre con la mano alla borsa.»
Il sole, alto, cominciava a scottare. L'autocarro emergeva nel sole fuor dalla propria ombra e al puzzo caldo della vernice e del lubrificante si mesceva quello del telone impermeabile. I pochi polli avevano disertato per ripararsi nel ripostiglio degli attrezzi. Ammassati nell'ombra della stia i porci ansavano e grugnivano di tanto in tanto. I due cani facevano la cuccia nella polvere, bocche aperte e lingue penzoloni. Il babbo si tirò la tesa del cappello a cencio sugli occhi e s'accoccolò nella posizione che gli era abituale quando voleva osservare o riflettere. Squadrò Tom con occhio critico, ne notò il berretto nuovo, l'abito, le scarpe.
«L'hai comprata, quella roba lì? Poco adatta per viaggiare.»
«No, me l'han data all'uscita.» Si tolse il berretto per ammirarselo ironicamente, se ne servì come sempre per asciugarsi il sudore dalla faccia e se lo rimise dando una stratta alla visiera per farla restare inclinata.
«Le scarpe son buone,» osservò il babbo.
«Sì, ma con questo caldo!» S'accoccolò anche lui vicino al babbo.
Noè disse, adagio: «Se le fiancate sono a posto, si potrebbe cominciare a caricare. Così, quando Al viene...»
«Anche senza Al,» disse Tom, «io so guidare. Ho imparato a McAlester.»
«Buona cosa,» disse il babbo, e guardò verso la strada. «Se non sbaglio, ecco là il galletto che arriva. E ha l'aria stanca, per giunta.»
Tom e il predicatore guardarono nella direzione indicata, e Al, vedendosi osservato, rizzò la persona, cacciò il petto in fuori e adottò un'andatura più vivace. Fu solo a pochi passi che riconobbe Tom; e allora smise l'aria da bravaccio che aveva assunta e il suo viso espresse ammirazione e venerazione. Con i suoi vistosi blue-jeans, rivoltati tre volte alle estremità per mettere in mostra le scarpe alte, con la sua cintura di cuoio lucido costellata di targhe in ottone, con gli elastici rossi che servivano a raccorciargli le maniche della camicia, Al non poteva sentirsi della statura del fratello; perché il fratello aveva ucciso un uomo, e nessuno poteva dimenticare questo suo atto così glorioso. Al sapeva d'esser egli stesso ammirato dai compagni solo perché era fratello di uno che aveva ucciso un uomo; quando passava per il centro di Sallisaw si vedeva guardato e sapeva che qualcuno, mostrandolo a dito, diceva: « Quello è Al Joad. Suo fratello ha accoppato uno con un badile.»
Ed ora Al, avvicinatosi, vide che suo fratello non era quel bravaccio che egli si immaginava. Al notò gli scuri occhi sognanti del fratello, e l'imperturbabilità appresa nel carcere, e la dura espressione della faccia che i reclusi assumono per non tradirsi mai se osservati dal custode. E Al automaticamente cercò di imitarne l'aspetto e l'atteggiamento.
Tom disse: «Cresci come un fagiolo.. non t'avrei riconosciuto.»
Al, pronto a tender la mano al minimo cenno di Tom, ghignò di imbarazzo. Tom offrì la mano e Al gliela afferrò cordialmente. I due fratelli si capivano.
Tom disse: «Mi dicono che t'intendi di meccanica.»
E Al, intuendo che a Tom non piacevano gli spacconi, rispose modestamente: «Un pochino.»
«Hai fatto il galletto in tutti i pollai della regione, vero?» disse il babbo, «e hai l'aria stanca. Ma devi lo stesso andare a Sallisaw a vendere quella partita di arnesi.»
Al guardò Tom. «Vieni con me?»
«No,» disse Tom, «resto qui ad aiutare. Avremo tutto il tempo di stare insieme durante il viaggio.» Al, curioso, voleva porgli una domanda, ma si studiava di formularla con garbo. «Tom, sei scapp...
hai tagliato la corda?»
«No,» rispose Tom. «Libero sulla parola.» «Oh.» E Al provò un vago senso di delusione.
CAPITOLO 10.
Nelle baracche i mezzadri vagliavano la loro roba e quella dei genitori, e quella tramandata dagli avi; sceglievano le cose indispensabili al lungo viaggio imminente. Gli uomini non manifestavano debolezze sentimentali perché troppo esulcerati dalla rovina del loro passato, ma le donne presentivano l'accento nostalgico dei richiami del passato nel prossimo avvenire. Gli uomini frugavano nelle stalle e nei ripostigli degli attrezzi.
Quest'aratro, quell'erpice, ricordi la senape che avevamo piantata durante la guerra? Doveva arricchirci, dicevano. Gli attrezzi piccoli, fanne dei fasci, d'una mezza dozzina ciascuno, cavane quel che puoi, qualche dollaro, quel che danno. Diciotto dollari m'è costato l'aratro a mano, oltre al porto. Finimenti, carrettini, seminatrici, zappette di tutte le dimensioni, tutto nel carro, portale al paese, vendi tutto per quel che ti danno, sbologna via tutto, carro e pariglia compresi. Tanto non servono più.
Come? Mezzo dollaro per l'aratro? E la seminatrice costava trentotto, me n'offrite due? Approfittate, perché sapete che non me la riporto via. Bah, prendetela, con le mie maledizioni. Ma sì!, prendetevi la pompa, e i finimenti, collare, firelle, frontale, quel gioiello d'un frontale a roselline rosse che avevo comprato pel baio, ricordi come steppava al trotto?
Cianfrusaglie ammucchiate sull'aia.
Aratri a mano non ne vuole più nessuno, mezzo dollaro vi do, per il peso del ferro. Dischi e trattrici: oggi non si vuol altro.
E allora prendete tutto il mucchio e datemi i cinque dollari, prendetevelo con le mie maledizioni per giunta. Ma cinque, avete detto, e non quattro! Be', allora datemi quei quattro, se non li prendo subito me n'offrirete tre. E adesso vediamo, quanto per il carro e la pariglia? Quegli splendidi bai, una pariglia perfetta, ricordi come luccicavano al sole del mattino? E come al sentirci venire voltavano insieme le teste per guardarci rizzando le orecchie? e le trecce alle criniere che la Rosa faceva così bene con la fettuccia rossa. Otto anni il destro, dieci il sinistro, ma sembran gemelli, tanto precisi lavorano insieme; vedete i denti. Polmoni di ferro, zampe sane... Quanto? Dieci dollari carro compreso? Gesù Cristo, piuttosto li accoppo e li do ai cani da mangiare. Alla malora, comunque, prendeteli! S'è preso nel prezzo anche la Rosa che li baciava nel morbido tra le nari, e tutte le mie maledizioni.
E i mezzadri tornavano a piedi, mani in tasca, cappelli abbassati sugli occhi. Compravano un litro e se lo bevevan per strada, per stordirsi, per render meno cocente il ricordo della disfatta. E il vino non li faceva né ridere né cantare né pizzicar la chitarra. Tornavano mogi alle case devastate, mani in tasca e teste basse.
Si tratta di ricominciare. California, paese ricco, dove la frutta cresce da sé; si tratta di ricominciare. Ma alla nostra età? Un bimbo può ma noi? Io e te, vedi, siamo quel ch'è stato: non potremo mai essere quel che sarà. Siamo le scene che abbiam vissute: siamo questa terra, questa terra rossa: siamo gli anni d'inondazione e gli anni di polvere creata dal vento e gli anni di siccità. Noi non si può ricominciare. Lo strozzino s'è preso con la roba anche le nostre maledizioni, ma l'amarezza ce l'ha lasciata dentro, l'amarezza che continuerà a roderci per tutta la vita. Dovunque si vada, in California o in inferno o in paradiso, ciascuno di noi è un tamburmaggiore alla testa d'un corteo di torti e di ingiustizie. E tutti questi cortei un giorno s'incontreranno, s'uniranno, e dalla loro unione nascerà il terrore.
I mezzadri tornavano mogi strascicando i piedi nella polvere rossa.
Quando tutto il vendibile risultò venduto, letti e cucine, sedie e tavole, mensolette cantoniere, secchie, vasche e mastelli, avanzava ancora ogni sorta di roba minuta, e sui loro superstiti sgabelli le donne si rivoltolavano gli oggetti tra le mani, guardando nel passato con occhi sognanti, leggendo le scritte sotto o dietro le fotografie sbiadite, soppesando un ninnolo da comò, un vaso, un libro.
Ora sai perfettamente quel che si può e quel che non si può portar via; ci toccherà pernottare all'aperto. Mezza dozzina di padelle e paioli, i materassi, i cuscini, la lanterna, due secchie... Ah sì, il telone sì, servirà da tenda. E la latta di petrolio sì; sì, vuota, servirà da fornello. E i vestiti sì, tutto quel che c'è. E il fucile si capisce! Non si può andar senza fucile. Scalzi e nudi e disperati e magari digiuni, ma senza fucile no. Il nonno quand'è venuto non aveva che sale e pepe in tasca, ma il fucile lo portava a tracolla. Il fucile ci vuole. Prendi anche quella caraffa. Ma nient'altro, non c'è posto, il camion sarà pieno, la nonna e i piccoli sul materasso. Arnesi? Be', una pala, una sega, le tenaglie e la chiave inglese. E beninteso la scure, l'abbiamo da quarant'anni. E corde, corde quante ce n'è. E il resto... del resto cosa vuoi farne? Si lascia. Se s'ha tempo si brucia.
E arrivavano i bambini. Se Mary prende la bambola, io voglio il mio arco indiano, perché lei sì e io no? E il bastone me lo son fatto io, da tanto, da un mese, o da un anno. E' bello dove si va? Com'è la California?
Le mamme si rivoltolavano tra le mani le reliquie del passato condannato all'oblio. Questo era il libro di papà mio, gli piaceva, c'è dentro il suo nome. Questa pipa anche era sua. E questo quadro... un angelo, lo guardavo sempre prima di mettere al mondo i miei. Oh, quel cane di porcellana, l'aveva portato zia Sadie dalla fiera di Saint Louis. Cosa serve? perché portarselo appresso? La lettera scritta da mio fratello la vigilia della morte. Questo cappello; fuori moda, ma le piume son ben conservate. No, non c'è posto.
Com'è possibile vivere senza le cose che sono la nostra vita? Spogli del nostro passato non ci riconosciamo. Fa niente, non c'è posto, bisogna lasciarlo, bruciarlo.
E sugli sgabelli superstiti le donne guardavano il loro passato con occhi sognanti e lo bruciavano nella loro memoria. Poi si riscuotevano di soprassalto, e ammucchiavano la roba sull'aia e v'appiccavano il fuoco, ma restavano a guardare con occhi sognanti le fiamme distruggere la loro vita. Poi, frenetiche, aiutavano gli uomini a caricare l'autocarro, e l'autocarro partiva sollevando una nuvola di polvere.
CAPITOLO 10.
Dopo che l'autocarro fu partito, carico di roba destinata al rigattiere del paese, Tom andò in giro curiosando per i luoghi che ricordava. Visitò la stalla vuota, il ripostiglio degli attrezzi, che conteneva, in tutto e per tutto, i rottami d'una falciatrice a mano fuori uso. Visitò la ripa rossa, dove una volta i passeri facevano il nido, e rimase a lungo a contemplare dietro la stia il salice piangente. Due maiali, neri, pigri e beati nel sole, sembravano chiamarlo coi loro brevi grugniti. Compiuto il suo pellegrinaggio, andò a sedersi sul gradino d'ingresso della casa, a quell'ora già all'ombra. Dietro le sue spalle, la mamma era affaccendata nella cucina. Faceva il bucato in un mastello, e le sue robuste braccia lentigginose colavano d'acqua insaponata. Vedendo Tom sedersi sullo scalino, ella sospese un momento il lavoro, per osservare i particolari della figura del figlio reduce dal carcere, poi, riprendendo a sciacquare i cenci, si decise a conversare. «Tom, speriamo che le cose in California sian meglio che qui.»
Tom voltò solo la testa: «E perché non dovrebbero esser meglio?»
«Non saprei. Ma sembra troppo bello. Ho visto quei fogli stampati, sai, la propaganda, i prospettini gialli, e c'è scritto che c'è lavoro per tutti, e paghe alte; e ho letto sul giornale che hanno bisogno di lavoratori, per cogliere arance e pesche, e per la vendemmia. Lavoro pulito, non ti pare? E anche se è proibito mangiar frutta, non diran niente se si dà un morso almeno a quella guasta. E poi è un lavoro che si fa all'ombra, al fresco. Alle volte mi viene il dubbio perché mi pare esagerato tutto il bene che se ne dice.»
Tom recitò: «Non costruire case troppo grandiose, se non vuoi vederle crollare.»
«Ho ben paura che è così, infatti. La Bibbia, vero?»
«Credo, ma non ricordo bene. Faccio confusioni, da quando ho letto un libro intitolato "Le
Conquiste di Barbara Worth".»
La mamma sorrise senza chiedere spiegazioni e raddoppiò d'energia nel torcere i cenci bagnati; e i suoi muscoli risaltavano come su braccia d'uomo. «Anche il babbo di tuo babbo citava sempre la Bibbia, ma da quando s'era messo a leggere l'"Almanacco del Medico" faceva confusioni anche lui. Nell'almanacco c'erano tante lettere, scritte da gente che non poteva dormire o aveva la lombaggine o qualche altro male. E alle volte il vecchio ripeteva qualche cosa dell'almanacco e poi diceva tranquillamente che era una parabola della Scrittura. E s'arrabbiava se vedeva ridere il babbo o zio John.» Veniva ammucchiando sulla tavola i cenci torti e duri come corde mostruose. «Son più di tremila chilometri, dicono, fino in California. Son molti tremila chilometri? Quanto ci vorrà? Ho visto le montagne sulle cartoline, e ci tocca arrampicarci su fino in cima e scendere dall'altra parte.
Quanto ci vorrà, Tommy?»
«Chissà. Due settimane, forse dieci giorni se abbiamo fortuna. Ma senti, mamma, non tormentarti. C'è una cosa che in prigione s'impara: mai pensare al momento della liberazione, altrimenti c'è da spaccarsi la testa nel muro.
Pensare all'oggi, al domani, tutt'al più alla partita di calcio del sabato; ma mai più in là. Prendere il giorno come viene.»
«Sì. Buon consiglio,» disse la mamma, e tornò a riempire d'acqua calda il suo mastello, e vi rituffò i cenci, e riprese a sciorinarli sott'acqua e a strofinare e a premere e a torcere. «Sì. Buon consiglio. Ma non posso fare a meno di pensare a come si deve star bene, laggiù, in California. Mai freddo, e frutti dappertutto. E la gente vive in casine bianche tra gli aranci. Chi sa se potremo procurarcene una anche noi; e perché no, se troviamo tutti lavoro? Anche i bambini possono fare la loro parte laggiù, ci vuol poco a staccare gli aranci dal ramo: è un divertimento.»
Tom notava il sorriso nei suoi occhi mentre lavorava. «Ti fa piacere solo a pensarci. Ho conosciuto uno, che era giusto della California. Mica parlava come noi: solo a sentirlo parlare capivi subito che veniva da uno di quei posti laggiù. Questione che lui diceva che c'è già troppa gente, ormai, che cerca lavoro proprio là. E dice che quelli che colgono la frutta vivono in campeggi miserabili e hanno appena da mangiare. A sentir lui le paghe sono basse.»
Un'ombra passò sulla faccia della mamma. «Oh, mica può essere vero, Tommy. Il babbo ha quel prospettino giallo dove dice che han bisogno di manodopera. Se non fosse vero, non li stamperebbero mica, perché costa. Chi glielo fa fare di raccontar frottole e di spenderci anche tutti quei quattrini?»
«Cosa ne so, io, ma'. Difficile dire perché lo fanno. Probabile che...» Teneva lo sguardo fisso lontano, contro il sole che illuminava la terra rossa.
«Probabile che cosa, Tommy?»
«Probabile che è come dici te. Dove credi che s'è cacciato il nonno? E il predicatore dove si sarà nascosto?»
La mamma s'avviò all'uscita con le braccia cariche di panni bagnati e Tom si scansò per lasciarla passare. «Il predicatore ha detto che andava a spasso, il nonno dorme, qui in casa; di giorno viene qui a riposare.» Arrivò alla corda e cominciò ad appendervi camicie, blue-jeans e mutande.
Tom udì alle spalle un passo strascicato e voltando la testa vide il nonno uscire dalla camera da letto, di nuovo alle prese, come al mattino, con i bottoni ribelli. «V'ho sentito blaterare,» bofonchiò. «Figli di cani, non volete manco lasciare dormire in pace un povero vecchio.» Le sue dita impazienti riuscirono a sbottonare i due soli bottoni che avevano abbottonato e, già dimentiche del loro primo intento, si introdussero nell'apertura e grattarono con brio sotto i testicoli.
La mamma rientrava, con le mani rosse e gonfie. «Si credeva che dormivi. Lascia qui che t'abbottoni io,» e con rapide mosse precise gli abbottonò i pantaloni e il panciotto: «Mai visto nessuno disordinato come te.»
Il vecchio ritorse, stizzoso: «Vuol far tutto lei, qui dentro; perfino abbottonarmi le brache.»
E lei, scherzosa: «Te n'accorgerai in California se ti lasciano andare in giro sbottonato.»
«Non mi lasciano, eh? Gliela faccio vedere io. Se voglio vado in giro con tutte le batterie allo scoperto; gli faccio veder io.»
La mamma scosse la testa sogghignando: «Da un anno all'altro si fa sempre più sconcio nel parlare. Un esibizionista, ecco cos'è.»
Il vecchio cacciò avanti il mento setoloso sfidando la nuora con lo sguardo derisorio dei suoi occhietti petulanti. «Sissignore. Non aspetto che il momento di partire per la terra promessa. Sapete cosa voglio fare appena arrivato? M'empio un mastello di grappoli d'uva, e mi faccio un bagno nel vino.» Dié di piglio a una cassetta vuota, se la rimorchiò fuori, la posò contro il muro accanto a Tom e ci si lasciò cader seduto su. «Ma laggiù lavoro anch'io nelle frutta.»
«Capacissimo,» confermò la mamma, «ha sempre lavorato tutta la vita fino a tre mesi fa quando s'è slogata l'anca.»
«Sicuro,» corroborò il vecchio, «e perché no?»
Tom annunciò l'avvicinarsi del predicatore, reduce dalla passeggiata. «Curioso,» disse la mamma, «il sermone che ci ha fatto stamattina. Non è stato nemmeno un sermone, è stata una ciancia, ma il tono era quello d'una predica.»
«E' un originale,» disse Tom, «parla strano sempre, come se parlasse tra sé. Ma non è uno che la vuol dare a intendere.»
«Hai visto il suo sguardo?» disse la mamma, «ha lo sguardo d'un uomo battezzato, che ti va fino in fondo all'anima. E' sempre con la testa bassa quando cammina, pare che guardi in terra senza vedere. Quello è veramente battezzato.» E smise di parlare perché Casy era ormai a pochi passi.
«A capo scoperto vi rischiate un'insolazione,» gli disse Tom.
«Pazienza,» rispose il battezzato, «se è destino è destino. Ma ho deciso una cosa.» I tre ascoltatori avvertirono subito il fascino che esercitava appena si metteva a parlare.
«Ho deciso che vengo anch'io nel West,» annunciò Casy. «E' mio dovere. Chi sa se posso venire con voialtri, brava gente.» E ammutolì, imbarazzato dall'indiscrezione della propria domanda.
La mamma guardò Tom augurandosi che rispondesse lui, ma quando vide ch'egli non intendeva valersi di questo privilegio che gli spettava, perché uomo, parlò lei: «Ci onorate. Non posso decidere io, si sa. Gli uomini si consultano stasera, ha detto il babbo, per i preparativi della partenza. Saran tutti qua: lui, il nonno, John, Noè, Tom, Al e Connie. Ma, se abbiam posto, siamo felici di prendervi con noi.»
Il predicatore sospirò. «Vengo ad ogni modo. La situazione è grave. Son stato in giro a vedere, e ho visto le case abbandonate, i poderi abbandonati, tutto il paese è un deserto. Non posso restare. Sento il dovere e il bisogno di andare dove va il popolo. Lavorerò la terra, e forse troverò pace.» «E predicare, più niente?» domandò Tom.
«Predicare no.»
«E battezzare?» domandò la mamma.
«Nemmeno. Vado a lavorare la terra, ho bisogno di sentirmi prossimo ai miei simili. Non voglio insegnare niente, voglio imparare da loro; ascoltare cosa dicono, ascoltarli quando cantano e quando imprecano e quando fanno all'amore, e sentire la poesia di quel che fanno, e far come loro. Perché tutto quel che fanno, e che prima non capivo, tutto quel che fanno è santo.» «Amen,» disse la mamma.
Verso sera l'autocarro tornò dal paese sobbalzando nella polvere tra un rumore di ferraglie, e la polvere rossa era alta un dito sui fari e sul fondo del cassone e sul telone impermeabile. Nella luce sanguigna del tramonto tutta la terra pareva sanguinare. Al guidava, col busto sporto innanzi, fiero, serio, vigile, e accanto a lui sedevano il babbo e zio John, ai posti d'onore cui avevan diritto come capi della tribù.
Dietro, in piedi, aggrappati alle tavole delle sponde, stavano gli altri quattro: Ruth dodicenne e Winfield non ancor decenne, con sudici visi da piccoli selvaggi, con mani e labbra rese appiccicose dai bastoncini di liquirizia che avevano estorto supplicando dalla generosità del babbo, con occhi stanchi ma eccitati. Ruth portava un vero vestitino di percalle rosa che le arrivava più basso dei ginocchi, ed era consapevole del suo aspetto da signorina; ma Winfield era ancora uno straccetto di marmocchio moccioso, inveterato collezionista di mozziconi di sigaro che fumava senza nascondersi. E mentre Ruth avvertiva già il potere, la responsabilità e la dignità delle sue tette nascenti, Winfield invece era ancora un bamboccio vero e proprio.
Accanto a loro stava Rosa Tea, reggendosi con una mano a un montante del tetto, intenta ad equilibrare sui piedi il peso del corpo ed a neutralizzare mediante l'elasticità delle ginocchia e delle anche le scosse causate dalle disuguaglianze del fondo stradale. Perché Rosa Tea era gravida, e cautelosa. I capelli avvolti a treccia le incorniciavano il capo con una corona d'oro pallido. La sua dolce faccia tondetta, ancor pochi mesi prima così sbarazzina ed allettante, aveva già messo su la barriera della maternità, cioè il sorriso della donna che si sa importante, l'aspetto da saputella; e il seno fiorente, l'addome proteso, i fianchi sodi, le natiche che ancor pochi mesi prima sculettavano così provocatorie invitando carezze o sculacciate, tutto il suo fisico insomma s'era fatto grave, modesto, e serio... In lei, atti e pensieri miravano unicamente al frutto che le maturava nel grembo: era per questo, per riguardo al bambino in formazione, che ora badava ad equilibrare sui piedi il peso del corpo e a neutralizzare le scosse. Per lei, il mondo intero era gravido: pensava solo in termini di riproduzione e di maternità. Connie, il suo sposo diciannovenne, che aveva impalmato una libidinosa puledra brada, era ancora sconcertato dal cambiamento avvenuto in lei; perché in letto non s'azzuffavano più come gattini, non si mordevano più, non si graffiavano più tra risa soffocate e lagrime conclusive. Vedeva al proprio fianco una savia prudente equilibrata creatura che gli sorrideva remissiva ma con inquietante fermezza. Connie era fiero e insieme pavido di Rosa Tea. Se appena poteva, la toccava con la mano, o le si accostava così da toccarla col corpo, perché gli pareva che questo contatto fisico fosse ormai il solo vincolo che li tenesse uniti. Era un giovane snello, dai lineamenti netti, oriundo del Texas, dagli occhi chiari ora affabili ora minacciosi ora impauriti. Buon lavoratore, e marito di tipo comune. Beveva abbastanza ma non troppo, era pronto a menar le mani se necessario, ma senza iattanza. In compagnia stava garbato al suo posto, ma riusciva a farsi sentire e riconoscere.
Nella cabina di guida, zio John sedeva sulle spine. I cinquant'anni compiuti gli davano diritto a quel posto d'onore, accanto al conducente, ma in cuor suo avrebbe voluto poterlo cedere a Rosa Tea: cosa inaudita, perché donna e giovane. Quindi non si sentiva a suo agio; sedeva rigido, coi suoi occhi da cane randagio inseguito. Parco, morigerato e sobrio per quasi tutto il tempo in cui il muro della solitudine lo proteggeva da ogni richiamo esterno, era nell'intimo combattuto da voglie e brame che talora sfuggivano al suo controllo e prorompevano fuori con violenza. In quelle occasioni zio John si impinzava fino all'indigestione, beveva fino al delirio, s'infognava nel postribolo di Sallisaw fino all'inebetimento. Una volta s'era preso in letto tre disgraziate, e tutta la notte aveva grugnito e grufolato e rantolato facendo scempio dei loro corpi irresponsabili, compiendo le più sozze sconcezze. Ma, saziate le voglie, sedata l'insurrezione degli appetiti, zio John ripiombava negli scrupoli, nella malinconia, nella vergogna e nella solitudine. Per scontare le sue colpe, entrava furtivo nelle case e nascondeva pacchetti di gomma sotto i guanciali dei bambini; spaccava legna gratuitamente; dava via la roba: un nuovo paio di scarpe, una sella, un cavallo. Non lui solo, ma anche i suoi due compagni della cabina di guida sedevano corrucciati e pensierosi. Al, chino sul volante, distoglieva via via lo sguardo dalla strada per tener d'occhio il cruscotto, sorvegliando l'ago dell'amperometro che oscillava minacciosamente, il livello dell'olio, la temperatura del motore, e passava mentalmente in rassegna tutte le debolezze della macchina, tendeva l'orecchio per cogliere i minimi rumori anormali e spiegarsene la causa, posava la mano sulla leva del cambio per dedurne, attraverso le vibrazioni, il funzionamento degli ingranaggi, staccava la frizione e l'innestava di nuovo per assicurarsi che non slittava. Sentiva insomma tutto il peso della propria responsabilità, perché l'aveva scelta lui, la macchina, la doveva guidar lui, mantenere lui. Se qualcosa non andava, era colpa sua, e anche se nessuno lo diceva, ognuno sapeva, e Al più di tutti, che sarebbe stata colpa sua. Perciò vigilava, palpava, ascoltava, con la faccia seria. E in famiglia tutti lo rispettavano nelle sue funzioni; il babbo stesso, capotribù, era pronto e disposto a tenere in mano una chiave agli ordini di Al.
Erano tutti stanchi, nell'autocarro; Ruth e Winfield per aver visto troppo movimento, troppe facce, per aver speso troppa energia nel disputarsi i bastoncini di liquirizia e troppa emozione ogni volta che si scoprivano in tasca un pacchetto di gomma insinuatovi da zio John.
E i tre uomini nella cabina erano stanchi e mesti e risentiti perché avevano realizzato diciotto dollari soli dalla vendita di tutto il vendibile: mobili, attrezzi, carro e pariglia. Diciotto dollari. Avevano mercanteggiato fino al massimo della loro capacità e pazienza, ma quando avevano visto afflosciarsi l'interesse del compratore, e quando lo avevano sentito dire che non voleva saperne della roba a nessun costo, avevano ceduto, e gliel'avevano data via a un prezzo inferiore di due dollari alla sua prima offerta. Ed ora si sentivano avviliti ed esacerbati per l'essersi scontrati con un sistema ch'era al di sopra della loro capacità di comprensione e che li aveva buggerati. Erano persuasi che la sola pariglia valeva molto di più; erano più che persuasi che il commerciante l'avrebbe rivenduta per molto, molto di più, ma non riuscivano a capacitarsi di come avrebbe fatto.
Rimaneva un mistero per loro, quello strano mondo del commercio.
Al, senza mai allentare la sua vigilanza, osservò: «Mica di queste parti, quel tizio. Parlava diverso da noi. Anche il vestito era diverso.»
E il babbo spiegava: «Nel negozio di ferramenta ho parlato con uno che conosco. Dice che vengono apposta di fuori, quelli lì, perché sanno che siamo in tanti sfrattati e costretti a sbarazzarci della roba. Gente del mestiere, che sa comprare; noi non sappiamo difenderci. Avremmo dovuto prenderci Tom, forse avrebbe saputo far meglio.»
Zio John disse: «E sì che l'hai visto anche te che non voleva saperne della roba. Non potevamo mica riportarcela a casa.»
«Quel tizio che conosco me l'ha spiegato: dice che fan tutti così, i commercianti. Lo fanno apposta per fregarti. Il fatto è che noi non s'è pratici, non si sa trattare... Chissà la mamma come ci rimane male!»
Al disse: «Quando credi che si potrà partire?»
«Non so. Stasera parliamo e si decide. Fortuna che Tom è tornato. Mi sento più sicuro con lui. E' in gamba.»
Al disse: «C'era un tizio che parlava di Tom, poco fa, e diceva che è in libertà vigilata. E dice che quando si è in libertà vigilata non si può passare il confine, e se si va via lo stesso t'acciuffano e ti rificcano dentro per tre anni.»
Il babbo trasalì. «Chi te l'ha detto? Come credi che facciano a saperlo? Non era uno sbruffone?» «Non lo conosco. Si parlava, ma io non ho detto che ero fratello di Tom. Ho detto niente; ho solo ascoltato.»
«Gesù, spero che non sia vero. Abbiamo bisogno di Tom. Bisogna che gliene parli. Anche questa
adesso, come se non bastasse! Spero che non sia vero. Dobbiamo parlargli subito.» Zio John disse: «Tom lo saprà di certo.»
Tacquero di nuovo tutti e tre mentre il camion proseguiva la sua corsa. Il motore era rumoroso, d'ogni sorta di piccoli inspiegabili rumori, e anche i tiranti dei freni sbattevano, e le ruote mandavano uno scricchiolio come fossero di legno, e dal buco nel tappo del radiatore usciva un sottile getto di vapore. L'autocarro si rimorchiava un'altissima colonna di polvere rossa. Attaccò l'ultima salita quando il sole era già per metà sotto l'orizzonte, e arrivò sull'aia che il sole era sparito del tutto; fermando, mandò un fischio, che rimase impresso nella mente di Al: i freni senza più guarnizioni.
Ruth e Winfield, gridando: «Dov'è Tom? Dov'è?» scavalcarono le sponde dell'autocarro, si lasciarono cadere a terra, e presero la corsa verso casa, ma quando lo videro in piedi presso la porta s'arrestarono imbarazzati, poi ripresero pian piano ad avvicinarglisi guardandolo timidamente. E quando egli disse: «Ciao, come va, marmocchi?» risposero esitanti: «Ciao! Bene,» restando immobili sul posto a osservare sottecchi il fratello grande che aveva accoppato un uomo ed era stato in prigione. Pensavano alle volte che avevano giocato ai prigionieri nel pollaio contendendosi il privilegio d'essere il recluso.
Connie Rivers rimosse la tramezza posteriore di chiusura del camion, scese e porse la mano a Rosa Tea, che l'accettò graziosamente, affettando il suo fatuo sorrisetto di prammatica.
Tom disse: «Ehi, Rosatè! Non sapevo che venivate con gli altri.»
«Si veniva a piedi,» spiegò Rosa Tea, «e l'autocarro passando ci ha presi su.» Poi disse: «Ti presento Connie, mio marito.» E lo disse con stile.
I due si scambiarono una stretta di mano, squadrandosi, scrutandosi negli occhi, subito soddisfatti entrambi, e Tom disse: «Vedo che non avete perso tempo.»
Rosa Tea si guardò il grembo di sfuggita: «Non si vede ancora,» mormorò.
«Mamma m'ha detto. Per quando è in, arrivo?»
«Oh, c'è tempo; non prima dell'inverno.»
Tom ridacchiò: «Lo vuoi mettere al mondo in una di quelle casette bianche tra gli aranci, vero?» Rosa Tea si tastò la pancia con le due mani. «Non si vede ancora niente,» ripeté, e col suo sorriso di compiacenza si ritirò in casa.
La sera era calda nella luce riverberata del tramonto. Senz'alcun segnale, la famiglia si riunì a consiglio attorno all'autocarro e aprì la seduta. Il crepuscolo dava risalto alle cose: ogni albero, ogni piantina, la casa e l'autocarro, le persone gli animali e le pietre parevano disegnate all'acquaforte assumendo un più alto grado di individualità. Il mutamento d'aspetto era notevole soprattutto nelle persone: avevano l'aria più posata, più calma; parevano parti staccate d'un complesso incosciente; reagivano ad impulsi che toccavano solo la superficie delle loro menti ragionanti; i loro occhi introspettivi e tranquilli riflettevano la lucentezza della sera.
La famiglia s'era adunata nel luogo più importante, attorno all'autocarro. La casa, i campi, erano cose morte, cose del passato: l'unica cosa viva, attiva, era la macchina, emblema del presente e del prossimo futuro. La veneranda Hudson, col suo radiatore ammaccato, imbrattata di grasso e di polvere, mezza carro e mezza berlina, era questo ormai il nuovo focolare, il fulcro vivente della famiglia.
Il babbo fece il giro dell'autocarro, esaminandolo con attenzione, poi s'accoccolò per terra, e si cercò un fuscello per disegnare nella polvere. Il peso del suo corpo gravava quasi tutto sul piede sinistro, il cui tallone era sollevato, mentre il piede destro posava piatto a terra, e sul ginocchio destro che risultava più alto il babbo appoggiava il gomito, e sulla mano il mento; e i suoi occhi ispezionavano il camion. Zio John s'accoccolò vicino a lui. Il nonno, affacciatosi sulla soglia, vide i due accoccolati e s'affrettò a raggiungerli e prese posto di fronte a loro seduto sul predellino del camion. I tre costituivano il gabinetto del governo. Noè, Tom, Al e Connie s'accoccolarono alle ali dei primi due formando semicerchio al cospetto del nonno. E poi comparve la mamma con la nonna, e dietro a loro Rosa Tea, che procedeva con andatura aggraziata. Le tre donne, mani sui fianchi, presero posto in piedi alle spalle degli uomini accoccolati. Infine arrivarono Ruth e Winfield saltellando su un piede solo e cercarono rifugio tra le gonnelle. Solo il predicatore, per delicatezza, non assisteva alla seduta: se n'era rimasto a sedere sul retro della casa.
Il babbo, senza rivolgersi a nessuno in particolare, iniziò il suo rapporto. «Ci han pelato in paese. Sapevano che avevamo fretta. S'è incassato diciotto dollari in tutto.» La mamma accennò un moto di protesta ma non fiatò.
Noè, il primogenito, domandò: «Tutto sommato, quanto abbiamo?»
Il babbo disegnò figure nella polvere col fuscello che teneva nella sinistra, emise due o tre suoni inintelligibili, poi rispose: «Centocinquantaquattro. Ma Al ci dice che avremo presto bisogno di gomme di ricambio; queste son quasi andate.»
Era la prima volta che Al prendeva parte alla discussione in un consiglio di famiglia. Fin allora era sempre rimasto schierato con le donne. Si espresse con una certa solennità. «E' una baracca,» esordì. «Ho passata una visita a fondo, prima di decidermi a comprarla, senza dar retta a quel buffone che giurava che era un ottimo affare. Ho messo il dito dappertutto. Nel differenziale ho visto che non c'era segatura. Ho aperto la scatola del cambio, e non c'era segatura. Ho provato la frizione. Mi son messo sulla schiena, sotto, e ho visto che lo chassis non ha ceduto. L'accumulatore era difettoso e l'ho fatto cambiare. Le gomme sono andate, ma di buone dimensioni, facili da procurarsi. Olio non ne perde. Quel che m'ha deciso a comprarla è che è una marca popolare. Tutti i depositi di vetture di seconda mano son pieni di Hudson Supersix, ed è facile ottener pezzi di ricambio. Si sarebbe potuto avere una macchina più grossa e più elegante per lo stesso prezzo, ma più difficile avere i pezzi di ricambio, e più cari. Questo almeno è quello che ho pensato io.» La chiusa voleva indicare la sua remissività al responso del consiglio di famiglia. Tacque, in attesa di esso.
Il nonno non governava più, ma era ancora il capo titolare del governo; ricopriva una carica onoraria consacrata dalla consuetudine. Ma ci teneva al suo diritto di precedenza nella discussione. E gli uomini accoccolati e le donne in piedi aspettarono che enunciasse il suo parere. Il nonno disse: «Io dico che Al ha fatto bene. Alla sua età spetezzavo anch'io come un lupetto ma quando avevo un lavoro da fare lo facevo con coscienza. Bravo, Al, te la sei cavata bene.» Pronunciò la chiusa in tono di benedizione, e Al si fece rosso.
Il babbo disse: «Approvo anch'io. Al è il solo qui che s'intende di macchine: se erano cavalli, non avremmo avuto bisogno del suo aiuto.»
Tom disse: «Ne so qualcosa anch'io. Fatto pratica a McAlester. Al ha scelto bene. Con criterio.» Al si fece ancora più rosso. Tom continuò: «Vorrei dire una cosa. Quel predicatore, sì, insomma... il reverendo Casy... vorrebbe venire con noi.» Aveva detto quello che voleva dire; la proposta adesso era nelle mani del gruppo, della collettività; la caldeggiò: «E' un bravo diavolo, lo conosciamo da tanto. Parla un po' strano, qualche volta, ma ragionevole.» E rimise la questione alla famiglia.
La luce si spegneva gradatamente. La mamma lasciò il gruppo, rientrò in casa, e la si udì sfaccendare al fornello; ma dopo un minuto ricomparve.
Il nonno disse: «C'è due modi di considerare la cosa. Chi dice che i predicatori portano iella, e chi dice...»
Tom interruppe: «Ma questo non fa più il predicatore.
Il nonno agitò la mano come per scacciare una mosca importuna e ritorse: «Un predicatore è sempre un predicatore anche se non predica più. Ma dicevo che c'è anche chi dice che invece portan fortuna, o almeno possono esser utili; se muore uno, il predicatore è lì per sotterrarlo; se uno decide di sposarsi, prima o poi, ecco lì pronto il pastore; se nasce uno, è lì per battezzarlo. Quanto a me ho sempre detto che c'è predicatore e predicatore. La questione è di saperli scegliere. Questo qui m'ha l'aria d'un cristiano. Mica sembra un fanatico.»
Il babbo faceva rotolare il fuscello tra i polpastrelli e disegnava buchi simmetrici nella polvere. «Non si tratta soltanto di sapere se porta bene o se è un buon diavolo, bisogna fare i conti da vicino, purtroppo. Vediamo: il nonno e la nonna fan due; io, John e mamma, cinque; Noè, Tommy e Al, otto; Rosa Tea e Connie, dieci; e Ruth e Winfield, dodici. I cani dobbiamo prenderli, non si sa a chi lasciarli, e ammazzarli non si può; e fanno quattordici.»
«Senza contare,» osservò Noè, i polli rimasti e due maiali.»
E babbo disse: «I maiali bisogna salarli, li mangiamo in viaggio. Ma il problema è, c'è posto per tutti sulla macchina? E siamo in grado di nutrire una bocca in più?» Senza voltate la testa, ripeté la domanda: «Mamma, siamo in grado?»
La mamma si schiarì la gola. «Quanto a 'essere in grado', siamo in grado di niente; né partire per la California, né niente. La questione è di sapere se 'vogliamo' prenderlo con noi, o no. Per conto mio non ho mai sentito che un Joad abbia rifiutato assistenza a chi la chiede sulla strada. Di Joad cattivi ne ho conosciuti; ma meschini così, no.»
E babbo ribatté: «Ma supponi che il posto non c'è.» Aveva provato vergogna al tono della risposta della moglie, e s'era voltato in su a guardarla torcendo il collo in modo aggressivo. «Supponi che non c'entriamo tutti sul camion.»
«Posto non ce n'è neanche per noi dodici,» ritorse lei. «Non ci sarebbe posto per più di sei, figuriamoci per dodici. Uno più uno meno è lo stesso, e un uomo forte e robusto non è mai d'impaccio. E' proprio quando s'ha due maiali e più di cento dollari che si deve aver paura d'una bocca in più?»
Punto sul vivo, il babbo riportò gli occhi sui suoi disegni nella polvere.
La nonna disse: «E' una buona cosa avere con noi il predicatore. M'è piaciuto il benedicite di stamattina.»
Il babbo guardò in giro in cerca di pareri dissenzienti e non scoprendone alcuno disse a Tom: «Va' a chiamarlo. Se viene con noi, il suo posto è qui.»
Tom s'alzò, passò dietro alla casa, e chiamò ripetutamente: «Casy! O Casy!» e udendo mormorii soffocati dietro al ripostiglio degli attrezzi, vi si diresse e trovò il predicatore seduto contro il muro in contemplazione della stella della sera.
«Mi chiamavi?» domandò Casy.
«Sì. Poiché venite con noi, dovete prender parte al consulto.»
Casy s'alzò. Sapeva che cosa fosse il governo della famiglia, e sapeva d'essere stato accolto in seno alla famiglia. S'accorse, anzi, che la posizione che gli veniva riconosciuta era eminente, perché zio John si scostò per cedergli il suo posto vicino al babbo. S'accoccolò anche lui di fronte al nonno intronato sul predellino nel seggio della presidenza.
La mamma s'assentò di nuovo. S'udì stridere lo sportello della lanterna e una luce gialla inondò la cucina. Quand'ella sollevò il coperchio della marmitta, l'odore del bollito pervenne fino alle nari dei partecipanti al dibattito, i quali però avevano sospeso la discussione in attesa del ritorno della mamma: perché la voce della mamma contava, nel gruppo.
Il babbo disse: «Dunque decidiamo quando si parte. Più presto che si può, direi. Prima cosa è
macellare i maiali, e salarli. E poi si fa bagaglio. Ormai, più presto si va, meglio è.»
Noè assentì. «Se ci sbrighiamo, si fa tutto domani e dopodomani si parte.»
Zio John obiettò. «Non è la stagione per macellare. Con 'sto caldo la carne non si raffredda di giorno, e se non si raffredda è molle e non sala.»
«Allora macelliamo stanotte,» propose il babbo. «Di notte si raffredda. Dopo cena si macella. Sale ce n'è?»
La mamma disse: «Sì, finché ne vuoi. E ho anche due barilotti buoni.» «Allora è deciso, macelliamo stasera,» concluse Tom.
Il nonno cominciò a guardarsi attorno in cerca d'un pretesto per sciogliere la seduta. «Comincia a far scuro,» borbottò, «e io comincio ad aver fame. Appena arrivato in California terrò sempre un grappolone d'uva a portata di mano, da piluccare tutte le volte che mi piglia la voglia, diavolo!» E s'alzò, e gli altri lo imitarono.
Ruth e Winfield per l'eccitazione sgambettavano come forsennati. Ruth bisbigliò rauca e Winfield:
«Ammazzano i maiali e si parte per la California. Ammazzano i maiali e si parte... tutto insieme.» Winfield andò in smanie: si cacciò un dito in gola, fece smorfiacce orribili, si contorse come preso dalle convulsioni, e strillava, debolmente: «Sono, un maiale, guarda, Ruth, guarda, sono un maiale, vedi il sangue?» E barcollava in tondo, finché stramazzò nel suo sangue, e giacque, ancora in preda a convulsioni, ma sempre più deboli.
Ma Ruth ripeteva: «E si parte per la California!»Alla sua età capiva che la seconda parte del programma era la più importante; sentiva di trovarsi di fronte al primo grande evento della sua vita. Gli adulti, muovendo come ombre nel crepuscolo, si trasferirono in cucina, e la mamma servì loro la cena in piatti di stagno; ma prima di sedersi tra loro, ella collocò sulla stufa il grosso mastello del bucato e rattizzò energicamente il fuoco. Poi riempì d'acqua il mastello, servendosi di tre secchie, e finalmente collocò anche le secchie, piene, sulla stufa accanto al mastello. In breve la cucina fu un forno, e gli uomini s'affrettarono a finir di mangiare e ad uscire per andare a sedersi fuori, sulla soglia, in attesa che l'acqua fosse bollente. Stavano lì sulla soglia, accoccolati o in piedi o seduti, senza parlare, guardando la notte, o il quadrato di luce che la lanterna della cucina gettava per la porta nella polvere. Noè si stuzzicava i denti con una paglia della scopa. La mamma e Rosa Tea lavarono i piatti e li accostarono sulla tavola.
Poi d'improvviso tutta la famiglia entrò in funzione. Il babbo s'alzò e accese un'altra lanterna. Noè trasse da un cassetto il coltellaccio da macello e lo affilò sull'apposita pietra; trasse la striglia con cui raschiar via le setole dalla pelle dei maiali, e la posò, col coltellaccio, sul ceppo su cui spaccavano le legne. L'acqua bolliva e mandava nuvole di vapore.
Noè domandò: «Si porta l'acqua là, o i maiali qui?» «Maiali qui,» ordinò il babbo. «Pronta l'acqua?» «Quasi,» rispose la mamma.
«Bene. Noè, te, Tommy e Al venite con me. Io porto la lanterna. Li scanniamo laggiù, poi li portiamo qui.»
Noè dié di piglio al coltello, Al alla scure, e i quattro uomini si recarono nella stia, e nella luce della lanterna le loro gambe sembravano tremare. Ruth e Winfield seguivano saltellando. Alla stia, il babbo tenne la lanterna sollevata sopra lo steccato. I maiali disturbati si rizzarono pigramente su, grugnendo sospettosi. Zio John e il predicatore erano pronti a dare aiuto se necessario.
«Animo, ragazzi,» disse il babbo, «spacciateli, e poi li portiamo a bollire.»
Noè e Tom scavalcarono lo steccato. Macellarono svelti e precisi. Tom menò due colpi soli col rovescio della scure, e Noè, chino sulle bestie stordite, non tardò a trovare la grande arteria e col suo coltellaccio ne liberò flotti di tumultuoso sangue quasi nero. Il predicatore e zio John afferrarono per le zampe posteriori uno dei maiali e lo trascinarono fino in cucina; e Noè e Tom trascinarono l'altro. Il babbo chiudeva il corteo portando la lanterna che illuminava la traccia tortuosa del sangue sulla polvere.
In casa, Noè insinuò il coltello tra i tendini e le ossa delle zampe posteriori e appese le carogne ai ganci fissati nella trave del soffitto. Quindi le squartò, e ne lasciò cadere a terra le interiora. Allora gli uomini portarono l'acqua bollente e la versarono sulle pelli. Tom con la striglia e la mamma con un coltello raschiarono via le setole. Al portò un secchio vuoto e vi raccolse gli intestini e andò a gettarli nel campo a qualche distanza dalla casa, seguito da due gatti che miagolavano aggressivamente, e da due cani che ringhiavano contro i gatti.
Il nonno e la nonna si ritirarono a dormire nella stalla, il nonno reggendo la candela accesa. Gli uomini si sedettero in silenzio nei pressi della porta, all'esterno, Connie, Al e Tom in terra, appoggiati contro il muro della casa, zio John su una cassetta, il babbo sul gradino d'ingresso, Noè e il predicatore accoccolati sui talloni, di fronte alla casa. I bambini lottavano contro il sonno. Solo la mamma e Rosa Tea continuavano in faccende.
Il babbo si tolse il cappello, si grattò energicamente tra i capelli e disse: «Domattina presto si sala, nel pomeriggio si fa bagaglio, tutto tranne i letti, e posdomani mattina si parte. Anche troppo un giorno per far tutto.»
Tom disse: «S'avrà ben poco da fare, domani; tutta una giornata persa.» Il gruppo ondeggiò a
disagio. «Possiamo benissimo salare adesso, far fagotto stanotte, e partire domattina.» Il babbo si grattò un ginocchio. E la smania di partire si comunicò a tutti.
Noè disse: «A salarla subito, la carne ci guadagna. Ad ogni modo io comincio a tagliarla a pezzi; raffredda più presto.»
Fu zio John a rompere gl'indugi, smanioso com'era di partire al più presto: «Cosa stiamo a perdere altro tempo qui? Meglio farla finita subito. Ora che s'è deciso di partire, meglio partire subito.» E l'ansia di cominciare il viaggio s'impadronì degli altri. «Partiamo domani. Sbrighiamo tutto stanotte e col giorno si va. Si dormirà per strada.»
Il babbo disse: «Son tremila chilometri, dicono. Un sacco di strada. Conviene partire subito. Noè, io e te tagliamo la carne e gli altri tutt'insieme pensano ai bagagli.»
La mamma s'affacciò alla porta. «E se dimentichiamo qualcosa, di notte al buio...»
«Prima di partire sarà giorno e guarderemo dappertutto,» disse Noè. E mentre gli altri stavano ancora a riflettere sull'importanza di quella decisione, Noè s'alzò e prese ad affilare il coltello sulla pietra, pregò la mamma di sgombrare la tavola e si recò senz'altro alle carogne appese al gancio e cominciò a staccare una spalla.
Il babbo s'alzò, con piglio deciso. «Animo, ragazzi, se ci sbrighiamo, ce la facciamo.»
Risoluti ormai al gran passo, la fretta li prese tutti come una febbre. Noè affettava la carne in pezzi di dimensioni pressoché uguali, la mamma salava i pezzi ad uno ad uno e li riponeva nei barilotti in file simmetriche, lasciando un piccolo intervallo tra l'uno e l'altro e riempiendo di sale gli interstizi.
Nei mobili cerchi di luce che la lanterna gettava qua e là sull'aia e nei pressi della stalla gli uomini s'affaccendavano, intenti a radunare le masserizie da caricare sull'autocarro.
Rosa Tea portò fuori tutti gli indumenti che la famiglia possedeva: tute da lavoro, scarpe chiodate, stivali di gomma, i logori abiti da festa, i farsetti a maglia, i giubbotti foderati di pelo di pecora. Accatastò il tutto in un cassone, salendo spesso sul mucchio per spianarlo coi piedi. Poi portò fuori gli oggetti femminili, gli scialli, le calze di cotone nere, le robe dei bambini, le posò in cima al mucchio, ci salì sopra e le pestò.
Tom andò nel ripostiglio e radunò il resto degli attrezzi che potevano servire, una sega a mano, una mezza dozzina di morse di vario tipo, il martello, una scatola di chiodi assortiti, le tenaglie, una lima piatta e varie lime cilindriche.
E Rosa Tea portò fuori il grosso telone impermeabile e lo distese a terra dietro all'autocarro; portò i materassi, stentando a passare nelle porte, tre a due piazze ed uno singolo, li posò l'uno sull'altro, sul copertone; portò fuori le coperte, tutte lacere, e le posò sul mucchio.
La mamma e Noè lavoravano con impegno con la carne dei maiali e ben presto un odore di arrosto si diffuse per la cucina. I bambini s'erano dati per vinti: Winfield giaceva raggomitolato nella polvere contro la casa presso il gradino d'ingresso, e Ruth s'era addormentata sulla cassetta su cui s'era messa a sedere in un angolo della cucina per osservare Noè nelle sue funzioni di macellaio.
Appoggiava la nuca al muro, mostrava i dentini tra le labbra socchiuse e respirava tranquilla.
Tom con la lanterna rientrò in cucina dal ripostiglio accompagnato dal predicatore. La mamma continuava a salare i pezzi di carne che Noè continuava a tagliare. Il predicatore le si fece vicino e si
offrì di sostituirla in quel lavoro. «Voi avete altro da fare. Io so far questo.»
Ella lo guardò sorpresa. «Ma è un lavoro da donna.»
«E' un lavoro come un altro,» insiste il predicatore, «lasciate che lo faccia io.»
La mamma, ancora incredula, s'astenne tuttavia dal rifiutare la sua offerta e andò a lavarsi le mani nella secchia, ma fu solo dopo essere rimasta a sorvegliare il predicatore mentre posava un nuovo strato di carne nel barilotto, ch'ella si decise a lasciarlo continuare.
Tom chiedeva istruzioni: «Mamma, cosa si porta via dalla cucina?»
Ella si guardò rapidamente attorno. «Il secchio,» disse. «Tutti i piatti, e le tazze, e le posate: metti tutto in quel cassetto e porta fuori il cassetto. La padella grande, e la marmitta grande, e la caffettiera. Appena il forno è freddo, tira fuori la graticola. Vorrei anche il mastello del bucato, ma è troppo grosso, dovrò contentarmi del secchio. Lascia pure tutte le pentole piccole e i tegamini: si può cucinare per due in un paiolo ma non si potrà mai cucinare per dodici in un pentolino. Tutte le teglie entrano l'una nell'altra.» Continuava a guardare attorno. «Comincia a prendere quel che ho detto, al resto penso io, lo metto via all'ultimo momento.» Prese la lanterna e s'avviò pesantemente nella stanza da letto, senza fare il minimo rumore coi piedi nudi sul pavimento. Il predicatore disse: «Ha l'aria stanca.» «Le donne son sempre stanche,» disse Tom.
«Ma lei ha diritto d'esserlo. Non dice niente, ma è più stanca di quelle che si lamentano.»
La mamma udì le ultime parole, e ricompose subito la faccia in un aspetto di serenità, facendo scomparire le rughe della preoccupazione. Raddrizzò le spalle, cacciò il petto in fuori, ravvivò lo sguardo. Diede un'occhiata circolare alla stanza sguernita. Non c'era più niente. I materassi, che dopo la vendita dei letti erano rimasti a terra, erano già stati portati via da Rosa Tea. I due comò, venduti. Sul pavimento c'era un pettine rotto, un barattolo di talco vuoto e la scatola di cartone dove tenevano la polvere pei topi. Posò la lanterna a terra. Da una delle cassette che serviva anche da sgabello trasse una cartella, di quelle che servono alla corrispondenza; decrepita, sudicia, slabbrata negli angoli. Si sedette e l'aprì. Conteneva vecchie lettere, fotografie, cartoline illustrate, un paio d'orecchini, un sigillo d'oro e una catenina d'orologio. Palpò leggermente le lettere ad una ad una, e lisciò un ritaglio di giornale che dava il resoconto del processo di Tom. Per vari minuti continuò a toccare quelle reliquie, con occhi sognanti, mordicchiandosi il labbro inferiore, immersa nei ricordi. Alfine si scosse, prese il sigillo, la catenella e gli orecchini, e razzolò tra le carte finché trovò un gemello da polsini. Mise questi oggetti in una busta, la piegò e la ripose nella tasca del vestito. Poi chiuse la cartella e la lisciò ancora una volta con tenerezza. Finalmente s'alzò, riprese la lanterna e tornò in cucina. Aprì lo sportello della stufa e posò dolcemente la cartella sui tizzoni ardenti. Subito il calore annerì la carta e una fiamma si sprigionò per lambirla. Richiuse lo sportello, e distinse chiaramente il sospiro e il respiro del fuoco.
Sull'aia avvolta nelle tenebre il babbo e Al caricavano l'autocarro alla luce della lanterna. Tutti gli arnesi sul fondo, ma a portata di mano. Poi i cassoni e i sacchi, il cassetto degli utensili da cucina, e il secchio dietro, vicino alla tramezza posteriore. Il fondo doveva risultare il più piano possibile, imbottendo a tal uopo con le coperte gli interstizi fra le casse. Sopra posarono i materassi, e sopra i materassi il telone impermeabile.
«Alla prima fermata,» disse Al, «provvederò due archi da fissare ai fianchi, e ci stenderò su il telone, non solo contro la pioggia ma anche contro il sole.»
E il babbo approvò. «Buona idea. Peccato che non ti sia venuta prima.»
«Mancava il tempo.»
«Per fare il galletto il tempo l'avevi. Lo sa il cielo dove te la sei spassata queste ultime due settimane.»
«Macché. Son stato in giro a salutare gli amici. Papà, sei contento di partire?»
«Come? Be', sì. Almeno... Sì, la vita qui era diventata impossibile. Là è diverso: lavoro per tutti, bei posti, vegetazione tropicale, casette bianche tra gli aranci...»
«Aranci dappertutto?»
« Be', non dappertutto, ma quasi.»
Cominciava ad albeggiare. Tutto era pronto. Ruth si svegliò, cambiò posizione e si riaddormentò. Gli adulti stavano in gruppo sulla porta, scossi da piccoli brividi, sbocconcellando le frattaglie di carne fritta che tenevano tra le dita. «Ora di chiamare i nonni,» disse Tom.
«Lasciamoli dormire fino all'ultimo minuto,» suggerì la mamma. «Loro han più bisogno di dormire.
Anche i bambini non han dormito abbastanza.»
«Dormiranno in viaggio. Staran meglio sui materassi che lì,» disse il babbo.
D'un tratto i cani, accucciati nella polvere, scattarono in piedi rizzando le orecchie, poi saettarono via nell'oscurità abbaiando. «E ora che diavolo c'è?» disse il babbo. Non tardarono a udire una voce che rassicurava i cani, e i latrati si fecero meno feroci. Poi udirono i passi e videro la figura di un uomo. Era Muley Graves, col cappello abbassato sugli occhi.
S'avvicinò con passo esitante. «Buongiorno a tutti,» disse.
«Oh, Muley,» disse il babbo, facendogli un cenno di saluto con l'osso che teneva in mano. «Vieni, c'è un boccone anche per te.» «Grazie no, non ho fame.»
«E piantala, Muley, su, vieni.» Rientrò in cucina e riapparve subito con una manciata di costolette. «Non son venuto per fare colazione, passavo di qua e ho pensato che forse partivate e son venuto a salutare.»
«Infatti si parte tra poco. Se tardavi un'ora, non ci trovavi più. Siamo pronti, vedi?»
Muley guardò l'autocarro carico. «Vedo. Alle volte vien voglia anche a me d'andare a raggiungere i miei.»
La mamma domandò: «Avete notizie dalla California?»
«No, niente. Ma non sono ancora stato alla posta. Mi sa che ci devo andare, un giorno o l'altro.» Il babbo disse ad Al: «Su, va' a svegliare i nonni. Digli che vengano a mangiare perché si parte.» Al si diresse verso la stalla. «Muley, non ti senti di venire con noi? Facciamo un posto per te.»
Muley stracciò coi denti un pezzo di carne dall'osso. «Alle volte mi pare che vorrei, ma so che non posso venir via. So perfettamente che all'ultimo minuto andrei a nascondermi, per continuare a girare qui come un fantasma.»
Noè disse: «Un giorno o l'altro ti fari la pelle, Muley.»
«Probabile. Ci ho pensato, ma non posso staccarmi di qui. Non m'importa più niente. Se vi capita d'incontrare i miei, ed ero solo venuto per dirvi questo, se li vedete in California, ditegli che sto bene. Non ditegli che vivo come un cane. Ditegli che vengo appena ho i soldi.»
La mamma domandò: «Ma verrete davvero?»
«No,» confessò Muley con aria rassegnata. «So solo che adesso non posso più venir via. Tempo fa, avrei potuto, ma non ho voluto. Adesso. anche volendo, non potrei.»
Era quasi giorno ormai, la luce delle lanterne impallidiva. Videro arrivare Al col nonno. Il nonno zoppicava più del solito e pareva seguire Al con riluttanza. «Mica dormiva,» disse Al. «L'ho trovato seduto dietro la stalla. C'è qualcosa che non gli va.»
Il nonno aveva l'aspetto intontito e nei suoi occhi non appariva traccia della vecchia malizia. «Ho niente che non mi va,» protestò. «Son io che non vado.»
«Non vieni via?» domandò il babbo. «Cosa vuoi dire? Abbiamo finito il bagaglio, dobbiam andar via per forza, come e dove vuoi restare?»
«Mica vi dico a voi di restare. Voi andate, andate pure io... io resto,» dichiarò il vecchio. «Ci ho pensato bene, tutta la notte. Questo è il mio paese. Io son di qui. Me ne frego degli aranci e dell'uva. Io non vado via. Questa terra non è più buona, lo so, ma è la mia terra. Voialtri andate pure, io resto.»
Tutti fecero crocchio attorno a lui. Il babbo disse: «Non puoi restare, via, viene la trattrice, e chi ti fa da mangiare? Come vuoi vivere da solo? Non puoi restare qui, no, no, nessuno che si prende cura di te... moriresti di fame.»
Il nonno gridò: «Maledizione! son vecchio ma so ancora badare a me. Come vive Muley? Se può lui, perché io no? Vi dico che non parto. Prendetevi la nonna, ma me non mi portate via, e basta.»
Il babbo disse, in tono supplichevole: «Ascolta, nonno, ascoltami solo un momento...»
«Non ascolto niente, non voglio saper niente, ho detto che non vado via, e via non vado.»
Tom toccò il babbo sulla spalla e gli fece segno di entrare in casa. «Voglio dirti una cosa,» bisbigliò, ed entrando in cucina fece segno anche alla mamma di avvicinarsi, e parlò a voce bassa: «Sentite. E' chiaro che il nonno ha diritto di restare, se vuole, ma è impossibile. Discutere non serve. L'unica è di legarlo e portarlo via come un fagotto, ma se resiste, se si difende, possiamo fargli male. Bisogna prima ubriacarlo. Whisky ce n'è?»
«Non una goccia in tutta la casa. John quando ne aveva se lo beveva tutto in una volta,» disse il babbo.
La mamma propose. «Tommy, ho ancora una mezza bottiglia di sciroppo, di quello che davamo a Winfield quando aveva il mal d'orecchi. Credi che potrebbe andar bene? Io l'usavo per far dormire
Winfield quando il dolore era più forte.»
«Possiamo provare,» disse Tom, «portamela un po'.»
«L'ho gettata nella spazzatura,» si ricordò la mamma, ma uscì subito con la lanterna e in mezzo minuto tornò con una bottiglia piena a metà di un liquido nerastro.
Tom prese la bottiglia, l'annusò, assaggiò il contenuto e disse: «Mica cattiva. Fa' una tazza di caffè forte. Cosa dice qui? un cucchiaino; mettiamocene due cucchiai da minestra.»
La mamma posò il pentolino del caffè direttamente sul fuoco, e vi aggiunse una manciata di caffè fresco. Tom e il babbo raggiunsero il nonno. «Ho diritto di restare, pienamente diritto,» continuava a ripetere. Annusò l'aria, strizzò un occhio e aggiunse: «Sento odore di fritto.»
«Noi s'è già mangiato,» disse il babbo, «mamma sta giusto preparandoti la costoletta e una tazza di caffè.»
Il nonno entrò in cucina e mangiò la carne e bevve il caffè. Di fuori, il gruppo lo osservava di sottecchi. Lo videro che sbadigliava, metteva gli avambracci sul tavolo e ci appoggiava su la testa. « Si vede che era proprio stanco,» commentò Tom.
Ormai erano pronti. Arrivò la nonna, anche lei mezzo intontita, e ripeteva: «Cos'è che fate? Perché tanta furia? Quando avete deciso la partenza?» ma ormai era vestita e non fece più obiezioni. Ruth e Winfield erano svegli, ma ancora insonnoliti e forse ancora immersi nei sogni. Il giorno cresceva a vista d'occhio.
E adesso che erano pronti tutti, nessuno osava dare il segnale della partenza. Avevano paura, esattamente come il nonno. Stavano tutti in piedi come sonnambuli, e i loro occhi non vedevano i particolari, percepivano solo la vista all'ingrosso della terra che stavano per abbandonare.
L'unico che si agitava intorno era Muley. Venne da Tom e gli domandò: «Passi il confine anche te?
E la vigilanza?»
Tom alzò le spalle e non gli diede risposta, ma ad alta voce annunciò: «Ehi, tutti, il sole sta per nascere, è l'ora di partire.» E con queste parole dissipò l'intontimento che si era impadronito di tutti. Cominciarono ad avviarsi al camion. «Venite,» disse Tom, «datemi una mano a caricare il nonno.» Il babbo, zio John, Tom e Al rientrarono in cucina dove il nonno era profondamente addormentato. Passandogli le braccia sotto le ascelle, lo misero in piedi, e sostenendolo, tirandolo, spingendolo come si fa con gli ubriachi, lo fecero camminare fino all'autocarro. Tom e Al vi s'arrampicarono e sporgendosi afferrarono il vecchio sotto le braccia, lo sollevarono e lo misero sdraiato sul materasso. Il nonno grugniva, irritato di sentirsi disturbare nel sonno, e appena lo lasciarono ricadde nel sonno più profondo.
Il babbo disse: «Mamma, te e la nonna prendete posto vicino ad Al, per cominciare. Poi faremo un turno.»
Le donne ubbidirono andando a sedersi nella cabina di guida e il resto sciamò in tumulto sul retro dell'autocarro. Al passò la rivista alla macchina. Lo stato delle molle sotto il greve carico lo impensierì. Noè disse; «Babbo, e i cani?»
«Li avevo dimenticati;» rispose il babbo, e fischiò. Erano tre, ma uno solo rispose alla chiamata. Noè lo prese e lo lanciò in cima al carico, dove la povera bestia rimase a sedere rigida, spaventata dell'altezza. «Gli altri due peggio per loro,» disse il babbo. «Muley, vuoi darci un'occhiata te, ogni tanto, vedere, che non muoiano di fame?»
«Sta' tranquillo,» disse Muley, «li terrò con me. Sì, mi faranno compagnia.» «Prenditi anche i polli,» disse il babbo.
Al prese posto al volante. Il motorino d'avviamento ronzò, attecchì, riperdette la presa e ronzò di nuovo, subito seguito dal rombo improvviso dei sei cilindri e dallo sbuffo di fumo cilestrino dello scappamento. «Arrivederci, Muley,» disse Al, e tutti nel carro ripeterono: «Arrivederci, Muley.» Al ingranò la prima e innestò la frizione. La macchina sussultò e cominciò a muoversi pesantemente verso l'aia. Al ingranò la seconda e l'autocarro accelerò alla volta della collinetta rimorchiandosi una nuvola di polvere rossa. La mamma guardò indietro ma l'ammasso del carico le ostruiva la vista. Voltò di nuovo la testa di fronte e non staccò più gli occhi dal fondo della strada. E nei suoi occhi era una mestizia mortale.
Gli altri ammucchiati in cima al carico, invece, potevano vedere, guardando indietro. Videro la casa sparire a poco a poco mentre i primi raggi del sole ne illuminavano le finestre. Videro Muley immobile sulla soglia rimpicciolire finché fu ridotto a un puntino. Quando non videro più niente, guardarono i campi di cotone che costeggiavano la strada, mentre l'autocarro procedeva pesantemente nella polvere verso la grande arteria e il lontano West.
CAPITOLO 11.
Le case abbandonate rimasero vuote nella campagna, e per questa ragione la campagna risultò vuota. Di vivo rimase solo la lamiera ondulata, lucida come argento, delle rimesse per trattrici. Le trattrici erano munite di fari perché per loro non esiste differenza fra notte e giorno, mentre i dischi dissodanti luccicano nel sole e smuovono la terra nella tenebra.
Nelle stalle, a sera, quando il cavallo sospende il lavoro, la vita persiste: c'è fiato, c'è calore, c'è moto e rumore: moto d'occhi e orecchi vivi, moto e rumore di zoccoli nella paglia, di ganasce che masticano il fieno. Nelle stalle è calore di vita, odore di vita. Ma quando si spegne il motore, nella rimessa la trattrice è morta, morta come il minerale ond'esce il ferro che le dà vita. Il calore l'abbandona come abbandona i corpi dei morti. Allora il conducente chiude le serrande di lamiera ondulata e se ne ritorna al paese, forse a trenta chilometri di distanza, e può per settimane e mesi non tornare sul campo, perché la trattrice è morta. Il sistema è pratico, è efficiente. Tanto pratico, che spoglia il lavoro umano del suo sacro fascino; tanto efficiente, che irride al portentoso sforzo della fatica umana. E nel conducente suscita quel disprezzo ch'è proprio del turista che visita un paese senza capirne gli usi. Perché nitrati e fosfati non sono la terra: la lunghezza di fibra del cotone non è la terra. Carbonio sale acqua e calcio non fanno l'essere umano. L'uomo è sì tutte queste cose, ma è qualcosa di più, è molto di più; e la terra è infinitamente di più che l'insieme dei suoi elementi. L'uomo che è più delle sue componenti, che calca la zolla coi piedi nudi, che fa deviare il vomere per scansare una pietra, che sosta nei solchi per consumare il suo pasto; quest'uomo che è più dei suoi propri elementi conosce e capisce questa terra che è più delle proprie componenti. Ma l'uomo della trattrice, che guida una macchina morta su un suolo ch'egli non conosce e non ama, capisce solo la chimica, e disprezza la terra e se stesso. Quando chiude la serranda di lamiera ondulata, se ne fa ritorno a casa e la sua casa è in città, non in campagna.
Nei casolari abbandonati le porte aperte sbattevano ad ogni spirare di vento. Dal paese vennero gruppi di monelli a prendere a sassate i vetri delle finestre e a scoprir tesori fra i rottami. Ecco un coltello con la lama rotta che serve ancora. Puzzo di topi morti, qua dentro. Guarda cos'ha scritto Whitey sul muro. L'aveva scritto anche a scuola nel cesso, e il maestro gliel'ha fatto cancellare.
La prima sera i gatti abbandonati arrivarono dai campi e miagolarono sull'ingresso e non vedendo apparire nessuno entrarono e miagolarono forte errando per le stanze deserte. Poi tornarono nei campi e diventarono selvatici, cacciando conigli e ratti e dormendo di giorno nei fossi. Al tramonto, i pipistrelli che prima la lampada escludeva dagli interni, ora vi penetrarono, e svolazzavano tutta la notte da padroni nelle stanze vuote, e in breve tempo vi si stabilirono anche il giorno, negli angoli più bui, ali piegate, appesi con l'unghie alle travi, e il tanfo dei loro escrementi riempiva le case deserte.
E si mobilitarono i topi e invasero le case e accumularono scorte di semi negli angoli e nelle scatole di cartone e in fondo ai cassetti. E sopraggiunsero le faine a caccia dei topi, e i gufi volavano dentro e fuori sghignazzando.
Cadeva uno spruzzo di pioggia, e subito l'erbaccia nasceva e cresceva attorno al gradino d'ingresso dove non era mai stata tollerata prima. E i chiodi che fissavano ai pilastri le lastrelle di legno della facciata arrugginivano, e la ruggine rodeva anche il legno dolce della lastrella e dava origine ad una screpolatura. Veniva il vento e soffiando nella screpolatura smuoveva e staccava la lastrella. Una seconda raffica di vento spirava nel buco fatto dalla prima e rimuoveva altre tre lastrelle; la terza, una dozzina. Il sole allora penetrava attraverso lo squarcio e gettava sul pavimento una sbarra di luce cruda. I gatti inselvatichiti tornavano a caccia dei topi e vagavano nelle case come ombre di nuvole sulla faccia della luna. E nelle notti di vento le porte sbattevano lugubri e le tendine lacere svolazzavano nelle sgangherate finestre.
CAPITOLO 12.
L'arteria 66 è il grande itinerario dei popoli nomadi. Infinito nastro d'asfalto gettato sul continente per allacciare regioni grigie e regioni rosse, si adatta a tutte le pieghe del terreno, serpeggia su pei fianchi delle catene montane, valica i crinali e si precipita in basso nel terribile deserto, divora il deserto e si lancia all'assalto di altre montagne, le conquista e irrompe nelle ricche vallate della California.
L'arteria 66 è il calvario dei popoli in fuga, di gente che migra per salvarsi dalla polvere e dall'isterilimento della terra, dal rombo della trattrice e dall'avarizia dei latifondisti, dai venti devastatori che nascono nel Texas e dalle inondazioni che invece d'arricchire il suolo lo defraudano della poca ricchezza che ancora possiede. Son questi i malanni che i nomadi fuggono confluendo da ogni dove per strade secondarie e tratturi e sentieri sull'arteria 66, la strada maestra, la direttrice di fuga.
Clarksville, Ozark, Van Buren e Fort Smith, e qui finisce l'Arkansas, Tulsa, McAlester, Wichita
Falls, Enid, Edmond, McLoud, Purcell, Oklahoma City, El Reno, Clinton, Hydro, Elk City e
Texola, e qui finisce l'Oklahoma. Shamrock, McLean, Conway, Amarillo la gialla, Wildorado, Vega e Boise, e qui finisce il Texas. Tucumcari, Santa Rosa, Albuquerque dove immette la strada di Santa Fe, e sul Rio Grande Los Lunas, e di nuovo a ponente Gallup, e qui finisce il Nuovo Messico.
Ed ecco le montagne gigantesche. Holbrook, Winslow, Flagstaff sull'altopiano dell'Arizona, Ashfork, Kingman, dove l'acqua si trasporta a braccia e si vende, poi le verdi sponde del Colorado, e qui finisce l'Arizona. L'altra sponda è già California al cui confine s'incontra la graziosa cittadina di Needles, sul fiume. Ma il fiume è ostile, in queste zone. Da Needles ha inizio una distesa assolata, ed ecco il deserto, il deserto rosseggiante di bagliori lontani e disseminato di gigantesche scure rupi, che la 66 divora fino a raggiungere Barstow, per poi scavalcare serpeggiando altre montagne, oneste, su su fino al passo che s'apre inatteso e mostra, sotto, le valli benedette, cosparse di orti di vigne e di casette bianche e, all'estremo orizzonte, una città. Grazie a Dio il viaggio è finito!
I profughi sciamavano sulla 66 in automobili isolate, talora, ma più spesso raggruppate in carovane. Durante il giorno intero rotolavano adagio, e a sera sostavano vicino all'acqua. Durante il giorno interi radiatori sconquassati eruttavano getti di vapore, e bielle matte martellavano e ponzavano instancabilmente. E i conducenti degli autocarri e delle vetture sovraccariche ascoltavano intenti e pieni di apprensione i rumori sospetti. Che distanza di qui all'abitato? Nei tratti lunghi tra un luogo abitato e un altro imperava il terrore. Se capita un guasto? Be', se capita un guasto si fa tappa dove si è, e Jim fa una corsa fin nel più vicino luogo abitato e torna col pezzo di ricambio... ma da mangiare ce n'è? Per quanti giorni?
Orecchio al motore. Orecchio alle ruote. Ma ascoltare oltre che con gli orecchi, con le mani sul volante, ascoltare con la palma posata sulla leva del cambio e con le piante dei piedi che premono i pedali. Con tutti i sensi vigilare: un mutamento di tono, una variazione di ritmo può significare, quanto? tre giorni, una settimana, forse più, di sosta obbligatoria nel più completo isolamento. Quello? Bah, solo un pistone che batte in testa, non fa nessun male; ma quell'altro stridore piuttosto, lo senti?, quello si mi fa paura, può esser la distribuzione dell'olio; forse una bronzina logora. Dio, se è una bronzina cosa si fa? I soldi vanno ch'è un piacere.
E perché scalda così, oggi, quel bastardo d'un radiatore? Non s'è in salita. Vado a dare un'occhiata. Puttana della miseria, saltata la cinghia del ventilatore. Qua, Jim, facciamo una cinghia con questo pezzo di corda. Misuriamo la lunghezza... così. Ora aggiuntare i due capi. Mah, mi sa che non regge per molto. Se si va piano, pianissimo, probabile che si riesca ad arrivare fino al prossimo paese. Oh, se solo ce la facessimo ad arrivare in California, dove ci sono tutti quegli aranci, con questa vecchia carretta, prima che si sfasci del tutto! Se solo ce la facessimo!
E i copertoni. Due strati di tela già consumati; e son quattro strati soli, in questo tipo. Attento a scansare i sassi, dannazione, se vogliamo fare i centocinquanta chilometri di qui al rifornimento. Che dici, conviene tirare avanti e fare tutti quei chilometri e rischiare di far scoppiare la camera d'aria? Cosa? Centocinquanta chilometri, c'è proprio da stare allegri. Tutte rattoppate quelle camere d'aria della malora!
Capace che appena ci si muove, scoppia. Perché non la cambiamo subito? No, si possono far altri sette ottocento chilometri. Meglio andare avanti finché scoppia. Certo è che i copertoni bisogna cambiarli, se non tutti almeno uno. Solo che ti chiedono una valanga di quattrini, ti squadrano da capo a piedi, e vedono subito che devi tirar avanti a ogni costo, che non puoi aspettare, e ti chiedono un occhio della testa.
Prendere o lasciare, caro voi. Son mica qui per ordine del medico. Le gomme io le vendo, mica le do via. Mica posso farci niente se vi capitano questi guai. Ho da pensare agli affari miei, io.
Quanto c'è di qui al prossimo rifornimento?
Ieri ho contato fino a quarantadue autocarri del genere del vostro qui. Da dove diavolo venite tutti? E dov'è che ve ne andate?
Ah, la California è grande, certo, ma se credete ci sia posto per tutti sbagliate. Se credete ci sia posto per ricchi e poveri, grassi e magri, galantuomini e delinquenti, sbagliate di grosso. Perché non ve ne tornate a casa vostra?
Ma questo é un paese libero e uno non può forse andare dove gli pare e piace?
Già, questo è quanto credete voi. Mai sentito parlare della guardia di frontiera ai confini della California? Della polizia di Los Angeles? Vi fermano, sapete; son capaci di farvi tornare indietro. Vi chiedono la licenza di guida, e se non l'avete, se l'avete persa, non vi ci vogliono. Se non siete in grado di comperare terreni, vi dicono, non vi ci vogliamo. Un paese libero! Certo lo è, ma solo per chi può pagarsela, la libertà.
Però le paghe sono alte. C'è scritto qui sul volantino della propaganda.
Buggerate. Ne ho visti parecchi, tornare indietro, e ho le mie idee sulle paghe alte della California.
Comunque, il copertone lo prendete o no?
Per forza lo devo prendere, ma, signore, mi portate via tutto quel che ho. Mi resta quasi niente.
Eh, questo è mica un istituto di beneficenza. Salute a voi e buon viaggio.
Un momento, un momento, fatelo vedere. Figlio d'un cane! E questo strappo, largo come la mia mano?
Strappo, dove? To', non l'avevo visto.
Ah, non l'avevate visto, eh? Sicuro, non l'aveva visto, l'imbroglione! Ma i miei quattro dollari, quelli volevate vederli, eh? Meritereste che vi spaccassi il muso.
Ohilà, badate come parlate, sapete. Vi ripeto che non l'avevo visto. Vuol dire che ve lo do a meno, ve lo do a tre e cinquanta.
Ma va' al diavolo! Vieni via, Jim, si va al prossimo rifornimento.
Con quel copertone? Non ce la facciamo.
Andiamo, andiamo. A costo d'andare sul cerchione, pur di non dare una lira a quel figlio di puttana.
Farabutti tutti dal primo all'ultimo! Assistenza Automobilistica. Ottima Accoglienza ai Viaggiatori. Servizio Di Tutto Punto a Macchine e Persone. Tutti ladri. L'essenziale per loro è rubare. Ma se io rubo un copertone mi metton dentro, mentre se lui mi ruba i quattro dollari è un uomo che sa fare i suoi affari. Girala come vuoi, fregati siamo sempre noi.
Il piccolo ha sete. C'è modo d'avere un bicchiere d'acqua?
Qui no, bisogna aspettare.
Maledizione! E' partita! Era inevitabile. Be', rattoppiamo; non c'è altro da fare.
Vetture e autocarri fermi, cofani alzati, gomme a terra. Bruchi feriti striscianti sulla 66 a venti chilometri l'ora, ansanti, traballanti, radiatori bollenti, bielle ubriache, bronzine logore, carrozzerie rumorose.
Il piccolo vuole un bicchier d'acqua.
I profughi confluiscono sulla 66 e il nastro d'asfalto splende nel sole come uno specchio. Duecentocinquantamila sventurati sulla strada. Cinquantamila decrepiti catenacci, feriti, fumanti. Relitti, macchine abbandonate lungo il cammino, macchine morte. Che ne sarà dei loro passeggeri? Avranno continuato il viaggio a piedi? Dove saranno ora? Dove avranno trovato il coraggio di proseguire? Dove la fede?
E c'è una storiella che pare incredibile, ma è vera. E' divertente, e bella. C'era una famiglia di dodici, sfrattata dalla trattrice. Non poteva comprarsi l'automobile. Han caricato la roba sul carro, han tirato o spinto a braccia il carro sulla 66, si sono arrampicati tutti e dodici in cima al carico, e hanno aspettato. Passa una berlina, e li piglia a rimorchio, e in quattro salti li porta fino in California. Il padrone della berlina badò lui alle spese di mantenimento di tutta la famiglia durante il viaggio.
E' storia vera, e riconforta. Perché risolleva la nostra fiducia nella carità umana.
CAPITOLO 13,
La vecchia Hudson sovraccarica scricchiolava e grugniva sulla polverosa strada di campagna diretta all'arteria 66. Quando finalmente vi confluì, Al accelerò l'andatura, perché sull'asfalto le molle non correvano più pericolo: intendeva fare una media di sessanta. Da Sallisaw a Gore 33 chilometri; da Gore a Warner 31; da Warner a Checotah 23; poi il tratto lungo, 56 chilometri, fino a Henrietta, ma Henrietta è una vera città. Da Henrietta a Castle altri 30; e il sole era a perpendicolo e faceva vibrare l'aria.
Chino sul volante, il viso serio animato da un fermo proposito, tutto il corpo teso nello sforzo della vigilanza, ogni nervo all'erta in cerca di debolezze, del minimo indizio sospetto, gli occhi unicamente intenti alla strada e al quadro degli strumenti, Al era diventato parte integrante della macchina: ne era anzi propriamente l'anima.
Accanto a lui la nonna sonnecchiava, ogni tanto emetteva un gemito, socchiudeva le palpebre per sbirciare avanti e si riaddormentava. E accanto alla nonna sedeva la mamma, col gomito fuori dal finestrino, guardando fisso innanzi, ma con occhi spenti, senza vedere né la strada né i campi né le pompe della benzina né i piccoli spacci di bibite e commestibili.
Scomodato da una molla rotta nel sedile, Al mutò assetto e la posizione delle mani sul volante e disse: «L'abbiamo pagata salata ma va. Resta a vedere cosa farà in salita, carica com'è. Mamma, saranno molte le salite serie di qui in California?»
La mamma voltò lentamente la testa e i suoi occhi tornarono in vita. «Ho paura di sì,» disse. «Non son sicura, ma m'hanno detto che ce n'è. Perfino montagne, alte.» La nonna diede un gemito nel sonno.
Al disse: «Scalderà come un inferno se la salita è dura. S'avrà da scaricare parte della roba. Si poteva fare a meno di quel predicatore, intanto.»
«Vedrai che prima della fine ci sarà utile,» profetizzò la mamma. E riprese a guardare innanzi a sé sulla strada assolata.
Al guidò con una mano sola per posare l'altra sulla leva del cambio che vibrava. Parlava con difficoltà; labbreggiava le parole prima di pronunciarle. «Mamma...» La donna voltò di nuovo la testa, lentamente, lasciandola oscillare nel moto ondulatorio della macchina. «Mamma, non hai dei brutti presentimenti? Non ti fa paura, andare in un posto che non conosci?»
Gli occhi della mamma si fecero pensosi ma dolci. «Paura? Un poco. Ma poco. Non voglio pensare, preferisco aspettare. Quel che ci sarà da fare lo farò...»
«Ma come credi che sarà la vita, laggiù? Non credi che potrebbe anche essere meno bella di quel che ci aspettiamo?»
«No,» rispose la donna prontamente. «Non credo. Ma non bisogna pensarci. Vedremo quando saremo là. Di qui possiamo immaginarci tante cose, ma è inutile pensarci, perché là avremo da fare i conti con quel che troviamo. Alla vostra età si pensa sempre all'avvenire, lontano, ma io penso alla giornata. Al pane quotidiano che devo preparare io per tutta la famiglia. Per me l'essenziale è questo.»
La nonna sbadigliò rumorosamente e aprì gli occhi e si guardò attorno inquieta. «Dio mio, ho bisogno di scendere,» disse.
«Al primo boschetto,» disse Al, «ce n'è uno là, a pochi passi.»
«Boschetto o no, non posso aspettare,» e prese a gemere: «Ho bisogno di scendere, ho bisogno di scendere!»
Al accelerò, e raggiunto il boschetto fermò la macchina. La mamma aprì la portiera, scese, con mosse bruschette aiutò la vecchia a disincagliarsi e la accompagnò nei cespugli. Dovette reggerla per un braccio, perché non cadesse, quando s'accovacciò.
Nell'autocarro il resto della tribù cominciò a dar segni di vita. Tom, Casy, Noè e zio John furono i primi a scendere per sgranchirsi. Ruth e Winfield scavalcarono le sponde, si lasciarono cadere a terra e partirono di corsa per esplorare i cespugli. Connie porse garbatamente la mano a Rosa Tea. Il nonno tirò fuori la testa di sotto al telone, ma con lo sguardo ancora intontito e acquoso. Guardava gli altri, ma stentava a riconoscerli.
Tom lo chiamò: «Vuoi scendere, nonno?»
Il vecchio gli scoccò un'occhiata distratta e fece segno di no, poi i suoi occhi mandarono un lampo di ferocia. «Non parto, vi dico. Io resto, come Muley.» Ma riperdette subito interesse in quel che diceva.
La mamma tornava, aiutando la vecchia a scalare l'argine della strada. Disse a Tom: «Tira fuori la padella col resto delle costolette. E' ora di mangiare qualcosa.»
Tom ubbidì e porse la padella in giro e ognuno si prese un osso da rosicchiare. «Buona idea che ce le siamo portate dietro,» disse il babbo. «Si sta così pigiati, là sopra, che non ci si può manco muovere. Dov'è l'acqua?»
«Non l'avete là sopra con voi?» rispose la mamma. «Quella damigianetta.»
Il babbo andò a cercarla sotto il telone. «Non la trovo. Dobbiamo averla dimenticata.»
Immediatamente tutti ebbero sete. Winfield piagnucolava: «Voglio bere, voglio bere.» Gli uomini si leccarono le labbra improvvisamente consci di essere assetati e cominciarono ad essere presi dal panico. Al, per calmarli, disse: «Ne troviamo al primo posto di rifornimento. Devo anche fare il pieno.»
La tribù si riaccostò al camion. La mamma aiutò la vecchia a salire e riprese posto vicino a lei. Al avviò il motore e ripartirono.
Durante i 40 chilometri da Castle a Paden il sole toccò lo zenit e cominciò la discesa, e il tappo del radiatore si mise a ballare sputando vapore. A. poca distanza da Paden trovarono una baracca con due pompe di benzina e una pompa d'acqua munita del suo lungo tubo di gomma. Al accostò, fermando il naso della Hudson presso la pompa dell'acqua. L'esercente, grande e grosso, rosso in faccia, stava seduto dietro alle pompe di benzina; s'alzò e venne incontro ai clienti. Portava calzonacci di fustagno con le bretelle, e un farsetto col bavero e le maniche corte. In testa aveva un elmetto di cartone argentato. Il sudore gli imperlava il naso rosso e le guance, e sul collo gli scendeva in due rigagnoli. Diede un'occhiata alla Hudson con aria tracotante e chiese, con tono brusco: «Fate acquisti? Benzina o altro?»
Al era già sceso e stava svitando il tappo del radiatore, pronto a ritirar la mano al primo spruzzo, per non scottarsi. «Benzina sì,» rispose.
«Soldi ne avete?»
«Certo. Per chi ci avete preso, per accattoni?»
Ogni tracotanza sparì dalla faccia dell'esercente. «Fate, fate, servitevi pure da voi dell'acqua.» E s'affrettò e spiegare. «Tanta gente, in questi giorni. Vengono, prendono l'acqua, mi sporcano la latrina, comprano niente e perdio rubano, se non li tengo d'occhio. Senza un soldo in tasca, s'aspettano che gli dia la benzina per carità.»
Tom gli s'avvicinò con aria minacciosa. «Noi si paga, non si vuol niente gratis.»
«Certo, certo, ho capito subito,» s'affrettò a ribattere l'esercente. «Servitevi d'acqua, usate pure la latrina.»
Winfield s'era impadronito del tubo, aveva aperto la chiavetta del beccuccio e s'era irrorata la faccia e la testa, e ora sgocciolava tutto contento. «Niente fredda,» diceva.
L'esercente diede un tono confidenziale alla sua conversazione. «Cinquantasei macchine ho contato ieri; cinquanta, sessanta al giorno. Di questo passo dove si va? Tutti profughi. Tutta gente che trasloca verso ovest coi bambini e tutte le masserizie. Dove vanno? Cosa vanno a fare?»
«Quel che facciamo noi,» brontolò Tom. «Si cerca un posto dove vivere; si tenta. Si fa quel che si può.»
«Ma di questo passo, dove si va, domando io, dove si va? Anch'io sono in difficoltà. I ricchi qui non si fermano. Non uno. Van tutti a servirsi nei posti eleganti in città. Da me si ferma solo chi non può spendere.»
Al era finalmente riuscito a svitare il tappo del radiatore, che partì come il sughero d'una bottiglia di spumante, e col vapore uscì dal radiatore anche il sordo brontolio dell'acqua bollente. Nell'autocarro, dall'alto della sua precaria posizione in sommo al carico, il cane malaticcio annaspava timido sull'orlo dell'abisso, gemendo, sospirando l'acqua. Zio John s'inerpicò fino ad agguantarlo per la collottola e lo posò delicatamente a terra. Sulle prime la povera bestia barcollò sulle zampe irrigidite, poi s'accostò a leccare il fango attorno alla pompa. Sulla strada le vetture dei ricchi passavano sibilando come bolidi scintillanti, e il caldo vento della loro corsa si traduceva in un freddo insulto ai profughi, costretti dalle avarie dei loro catenacci a fermarsi ad ogni posto di rifornimento. Al riempì d'acqua il radiatore.
«Solo chi non può spendere,» ripeteva l'esercente in tono sconsolato. «Dovreste vedere, qua nel retro, la roba che mi danno in cambio di benzina e di olio: letti, carrozzelle per bambini, pentole e padelle. L'altro giorno mi han lasciata una bambola, per una latta da quattro litri. Cosa n'ho da fare, di tutta questa roba? Metter su un negozio di rigattiere? Oggi uno voleva darmi le sue scarpe! Se fossi un uomo senza scrupoli, credo potrei persino farmi dare...» Ma l'occhiata che diede alla mamma lo consigliò a non finire la frase.
Il predicatore s'era bagnata la testa, che sgocciolava ancora, e le gocce gli infradiciavano la camicia. S'avvicinò all'esercente e prese posizione accanto a Tom. Disse: «Mica è colpa degli sfrattati. Vi piacerebbe, a voi, dover vendere il vostro letto per fare il pieno?»
«Lo so, lo so che non è loro la colpa,» s'affrettò ad ammettere in tono conciliante. «So che hanno tutti le loro buone ragioni di mettersi in viaggio. Ma di questo passo dove si va? E' questo che vorrei sapere. Non c'è più modo di guadagnarsi onestamente la vita. A lavorar la terra si va in malora. Ve lo chiedo a voi: dove si va a finire? Nessuno sa darmi una risposta. Ma esser ridotti al punto da dar via le scarpe per poter continuare il viaggio...!»
Si tolse l'elmetto di cartone argentato per asciugarsi il sudore della fronte. E Tom si tolse il berretto allo stesso scopo, poi lo tuffò nell'acqua, lo torse ben bene e se lo rimise in testa.
La mamma, introducendo una mano tra le tavole delle sponde dell'autocarro, riuscì a trovare una tazza di latta, la riempì d'acqua e la portò al nonno, che v'inumidì le labbra, poi scosse la testa e rifiutò di bere. Per alcuni secondi guardò la nuora con occhi attoniti ed afflitti, ma riperse quasi subito la lucidità di mente.
Al avviò il motore e fece retrocedere il camion per accostarlo alla pompa della benzina. «Il pieno,» disse poi. «Ce ne sta un trenta litri, ma ce ne metto sempre venticinque, per non sciuparne una goccia.
Il grassone introdusse il becco del tubo nel bocchettone del serbatoio. «Proprio così, non si sa dove si va a finire,» continuava a brontolare. «Io dico che è il paese che va in rovina, sussidi o no.»
Il predicatore disse: «Io ho girato molto. Dappertutto è la stessa storia. Non si sente altro: dove si va, dove si va? Ma perché voler sapere dove, dico io. L'essenziale è di andare. Di muoversi. Dove, non importa. Adesso si direbbe che tutto il mondo stia traslocando. Perché trasloca la gente? Perché va in cerca di condizioni migliori di quelle in cui è. Per trovarle, è costretta a traslocare, a muoversi; a muoversi finché le trova. I torti che riceve, le ingiustizie che subisce, tutto questo è tollerabile, finché conserva la speranza di sistemarsi altrove.»
Il grassone azionava ritmicamente la pompa e l'ago si spostava sul quadrante registrando l'efflusso. «Sì, sì, capisco,» ripeteva cocciuto, «ma di questo passo dove si va, domando io, dove si va? E' questo che vorrei sapere.»
Tom perdette la pazienza. «E questo non lo saprete mai. Il mio amico qui cercava appunto di spiegarvi, e voi continuate a insistere nel vostro ritornello. Li conosco i tipi come voi. Non fanno che lagnarsi, piagnucolare, ma non muoverebbero un dito per studiare un rimedio. La gente crepa di fame e nessuno si ribella. Tra poco vai in malora anche te, sta' tranquillo, col tuo 'dove si va, dove si va'. Tutti una massa di vigliacchi, che per calmare la paura canta la stessa nenia per addormentarsi.» Diede una occhiata significativa alla pompa, vecchia e arrugginita, allo sgabuzzino di legno che le stava dietro, mostrando solamente le tracce del giallo con cui aveva audacemente tentato di emulare la vistosità dei grandi posti di rifornimento delle città. Il tentativo era miseramente fallito; e l'esercente lo sapeva, ne era persuaso. E per la porta aperta dello sgabuzzino Tom notò la presenza di due soli barilotti d'olio, e lo scaffalato dei dolciumi conteneva solo qualche sbiadita caramella e pochi bastoncini di liquirizia incanutita e un mucchietto disordinato di pacchetti di sigarette popolari. Notò la seggiola sgangherata e il buco rugginoso nella reticella paramosche. E dietro lo sgabuzzino vide la misera scorta di copertoni riparati. E notò ora, per la prima volta, il miserando stato dei calzoni di fustagno del grasso esercente, e delle bretelle che li sostenevano, e il comico aspetto dell'elmetto di cartone. Disse: «Non volevo mica offendervi, ma... mi sembra che correte rischio anche voi di trovarvi sul lastrico, un giorno o l'altro. E, non per colpa della trattrice, ma piuttosto dei grossi posti di rifornimento in città. Vero o no? Credo che anche a voi toccherà di traslocare, tra poco. Mi sbaglio?»
Mentre Tom parlava il grasso esercente aveva rallentato la manovra della pompa fino a fermarsi, e aveva preso a guardarlo con un'espressione man mano sempre più sgomenta. «Com'è che lo sapete?» domandò debolmente. «Come fate a sapere che se n'è già parlato di far bagaglio e andare anche noi nel West?»
Gli rispose Casy. «Lo fanno tutti.» disse. «Prendete me, per esempio, che lottavo con tutte le mie forze contro il demonio perché credevo che il demonio fosse il nemico. Ma c'è qualcosa di peggio del demonio che ha messo le grinfie sul paese, e non mollerà finché non sarà distrutto. Non avete mai visto uno di quei lucertoloni velenosi afferrare la preda? Afferra la preda, e lo tagliate in due e la testa continua a tenere. Gli tagliate il collo e la testa continua a tenere. Ci vuole un cacciavite e bisogna staccargli la testa perché molli. E mentre se ne giace lì, il veleno seguita a gocciare nel buco che ha fatto coi denti.» Tacque e sbirciò Tom.
Il grassone guardò lontano, con occhi pieni d'afflizione, e la sua mano riprese ad azionare la leva della pompa. «Chissà dove si va a finire,» disse ancora una volta, ma con un accento meno petulante.
Rosa Tea era rimasta col marito presso la pompa dell'acqua, in appartato colloquio. Connie, prima di riempire la tazza di latta, la sciacquava ogni volta ben bene, e v'immergeva la punta del dito per sentirne la temperatura, Rosa Tea seguiva con gli occhi le vetture dei ricchi che saettavano sulla strada. «Non si può dir fredda,» le disse Connie porgendole la tazza, «ma se non altro bagna.» Ella sorrise e gli scoccò un'occhiata piena di sottintesi. Nella sua gravidanza era tutta segreti sorrisi e silenzi carichi di reconditi significati. Orgogliosa del suo stato, era incline a lagnarsi delle minime difficoltà. Esigeva da Connie i più futili servizi e della loro futilità erano entrambi consapevoli. Orgoglioso anche lui dello stato di sua moglie, si sentiva lusingato dalla confidenza con cui ella lo metteva a parte dei suoi piccoli segreti. Quando Rosa Tea gli sorrideva timidamente con aria maliziosa, egli le restituiva un sorriso furbesco, ed entrambi si scambiavano sommessamente le loro confidenze. Il mondo si era ristretto attorno a loro due, ed essi ne erano il centro; o piuttosto Rosa Tea ne era il centro, con Connie che da buon satellite disegnava la sua orbita attorno a lei. Tutto quello che si dicevano racchiudeva un significato misterioso, noto solo a loro due. Ora ella distolse gli occhi dalla strada e replicò leziosetta: «Non ho molta sete, ma... forse "dovrei" bere lo stesso.» E Connie annuì cordialmente, perché aveva capito a volo. Rosa Tea accettò la tazza, vi si sciacquò la bocca, sputò, e bevve fino all'ultima goccia l'acqua tiepida.
«Ancora un poco?» domandò Connie premuroso.
«Solo metà.»
E Connie la riempì solo a metà e gliela porse di nuovo.
Passò come un fulmine una Lincoln Zephyr: bassa, argentea. Rosa Tea s'assicurò che gli altri non fossero a portata di voce e con un cenno del capo alla Lincoln domandò: «Ti piacerebbe una così?» Connie sospirò. «Più tardi, chissà.» Rosa Tea capì a volo. «Se in California abbiamo fortuna, facciamo presto a comprarci la macchina. Ma quelle,» accennò con la testa alla Lincoln già scomparsa, «costano più d'una casa. Prima la casa.»
«Sì,» ammise Rosa Tea, «ma mi piacerebbe "anche" una di quelle. Ma hai ragione te: prima la casa perché...» ed entrambi sapevano quel che lei voleva significare. Entrambi si sentivano terribilmente eccitati all'idea della gravidanza. «Come ti senti?» le domandò Connie.
«Stanca. Viaggiare così al sole.»
«Ma "dovevamo" farlo. Altrimenti non si sarebbe mai partiti.» «Lo so,» convenne lei.
Il cane errava annusando attorno e tornava ripetutamente a dissetarsi nella pozzetta di fango. Dopo un po' si decise a riprender posto sull'autocarro, scalò l'arginello della strada, si fermò sul ciglio guardando a destra e a sinistra e non vedendo pericoli avanzò. Un bolide sopraggiunse in quel momento, Rosa Tea lasciò sfuggire uno strillo, il cane tentò di salvarsi, ma invano. Il bolide rallentò un momento, e i suoi occupanti voltarono indietro le teste, ma riacquistò subito velocità e scomparve. E il cane, ridotto a una sanguinosa poltiglia di intestini, non dava più segno di vita.
Rosa Tea aveva gli occhi spalancati. «"Gli" farà male, credi, "gli" farà male?» gemette. Connie le posò un braccio attorno alle spalle. «Non è niente, vieni, siediti.»
«Eppure l'ho sentito muoversi quando ho gridato.»
«Non è niente, niente, vieni a sederti.» La condusse dietro all'autocarro, fuor dalla vista del cane macellato, e la fece sedere sul predellino.
Tom e zio John si avvicinarono ai resti del cane. Tom lo afferrò per le zampe e lo trascinò al margine della strada. Zio John aveva l'aria contrita, come se fosse stata colpa sua. «Avrei dovuto legarlo,» ripeteva.
Il babbo diede solo un'occhiata al groviglio di intestini, voltò di nuovo la testa per il disgusto e disse: «Andiamo via di qui. Meglio così, ad ogni modo; era un problema mantenerlo.»
L'esercente si fece avanti, da dietro il camion: «Mi dispiace ragazzi,» disse. «Non fanno vita lunga i cani sulla strada. Me ne son morti tre in un anno. Non ne tengo più.» E aggiunse: «State tranquilli, penso io a interrarlo nel granturco.»
La mamma avvicinò Rosa Tea sul predellino e la vide ancora in preda ai brividi: «Come ti senti? T'ho sentita gridare. E' niente, riallacciati.»
«Gli avrà fatto male?»
«Ma no. Ridicolo, tante paure. Su, levati, aiutami a metter la nonna sul sedile. Smetti di pensare al piccolo, bada lui a sé.»
«Dov'è la nonna? «
«Non so. Era qui. Sarà alla latrina.»
Rosa Tea si diresse a quella volta, e non tardò a ricomparire in compagnia della nonna. «S'era addormentata là dentro,» annunciò.
«E' bello là dentro,» ghignava la vecchia. «Tiri una corda e vien giù l'acqua. Si sta ben seduti, e ci avrei schiacciato un bel sonnellino se non venivate a svegliarmi.»
«Bel posto da dormirci,» disse Rosa Tea aiutandola ad accomodarsi sul sedile.
La nonna s'accomodò beata, ripetendo: «Proprio bello là dentro, si stava bene.»
Tom disse: «Andiamo, partenza! Abbiamo un sacco di chilometri da fare.»
Il babbo diede un fischio acuto. «Dove si saranno cacciati i bambini?» Ripeté il fischio, con l'indice e il pollice in bocca.
I bambini sbucarono fuori dal granoturco, Ruth in testa. Gridava: «Ho trovato delle uova.» Arrivò ansante. «Guarda, mamma!» Le mostrava nella palma una dozzina di ovuletti grigi, di chissà qual rettile oscuro; e mentre li mostrava adocchiò il cane maciullato sul margine della strada. «Oh,» disse, e insieme a Winfield si avvicinò, adagio, per ispezionarne i resti. Il babbo li richiamò energicamente: «Su, bambini, venite via, o vi lasciamo qua!»
Ubbidirono, ma vennero al passo, e camminando con una certa solennità. Ruth contemplò ancora una volta le sue uova, poi le buttò via. Arrampicandosi su per i fianchi dell'autocarro, disse a Winfield: «Aveva ancora gli occhi aperti, hai visto?» Winfield sapeva di aver visto una cosa grandiosa: illustrò la scena con abbondanza di gesti. «Visto gli intestini? Schizz... schizzati dappertutto, schizz...» Non poté finire: fece appena in tempo a sporgersi all'infuori e vomitò. Ma si ricompose subito, e cogli occhi ancor lagrimosi e il naso gocciolante cercò di giustificarsi dicendo:
«Non è come ammazzare il maiale.»
Al misurò il livello dell'olio, ne aggiunse un poco, e misurò di nuovo. Tom lo accostò: «Guido io per un po'?»
«Non sono stanco,» disse Al.
«Non hai dormito stanotte, io ho sonnecchiato un poco stamattina. Monta dietro, guido io per un po'.»
«Va bene,» disse Al con riluttanza, «ma tieni d'occhio l'olio, e non sforzarla. Occhio anche all'amperometro, se balla è segno che qualcosa non va. Ma soprattutto non sforzarla, è troppo carica.»
Tom rise. «Non aver paura, bado io, sta' tranquillo.»
La tribù si riaccatastò sul retro del camion. La mamma si accomodò di nuovo vicino alla nonna sul sedile, Tom prese posto al volante e avviò il motore. «Diavolo, è proprio un catorcio!» disse, mollò la frizione e l'autocarro s'avviò.
Il motore ronzava uniformemente e il sole volgeva al tramonto. La nonna dormiva profondamente e la mamma sonnecchiava, rialzando la testa ogni volta che il mento veniva a poggiarle sul petto. Tom abbagliato dal sole si calcò sugli occhi la visiera del berretto.
Da Paden a Meeker 21 chilometri, da Meeker a Harrah 23. Poi Oklahoma City, l'enorme città, che Tom attraversò senza fermarsi. La mamma, destatasi, osservò con interesse il movimento nelle vie, e nell'interno del carro tutta la tribù guardava con meraviglia, al di sopra dei fianchi, i negozi, le case monumentali. Poi la mole degli edifici e dei negozi andò man mano diminuendo, finché apparvero le aree fabbricabili della periferia e le popolari sale da ballo in aperta campagna.
Ruth e Winfield osservavano tutto, imbarazzati dalla grandiosità e dalla stranezza delle cose che vedevano. sconcertati dall'eleganza degli abiti dei cittadini. Non si scambiavano impressioni: era troppo presto, più tardi, forse; ma adesso erano ammutoliti. Videro i pozzi di petrolio, tutti neri, sentirono nell'aria il puzzo di petrolio e di benzina, ma non si lasciarono sfuggire neanche una esclamazione. La rarità e l'imponenza dello spettacolo li sbalordivano.
La zona suburbana sembrava estendersi all'infinito. Tom nel traffico guidava adagio e con prudenza. Finalmente si ritrovò sull'arteria 66 che correva diritta a ponente. Il parabrezza era coperto di polvere. Tom abbassò ancor più la visiera, così che per vedere doveva tener rovesciata la testa all'indietro. La nonna continuava a dormire, e il sole dava risalto alle venette azzurre che le istoriavano le palpebre e le tempie e tingeva d'un bruno più cupo i nei che aveva sulle guance. Tom disse: «Facciamo tutto il viaggio su questa medesima strada.»
La mamma non aveva ancor aperto bocca da quando avevano lasciato il posto di rifornimento. Ora
disse: «Bisognerà cercare un posto per la notte. Devo cucinare, ci vorrà del tempo.» Tom fu del suo parere. «Sta' sicura che non ti porto d'un salto solo fino in California.» Da Oklahoma a Bethany 24 chilometri.
Tom disse: «Meglio fermarci prima che il sole tramonti. Al ha da rizzare gli archi per quel telone. Col caldo che c'è si rischia di farli cadere stecchiti, là sopra.»
«Tom,» disse la mamma, «il babbo m'ha detto di te, di quel che ti può succedere se passi il confine.»
Tom non replicò subito. Rifletteva. Poi disse: «Ebbene, cos'ha detto?»
«Son preoccupata, Tom. Crederanno che vuoi scappare. Possono ripigliarti.»
Tom si protesse gli occhi con la mano contro il sole. «Non aver paura. Ci ho pensato. Ce n'è un sacco come me, liberi sulla parola, e se la spassano dove vogliono. Ne facessi qualcuna, grossa, allora sì mi riprendono, hanno le mie impronte digitali, laggiù a Washington, e mi riprendono certo; ma se non faccio niente di male, cosa vuoi che gliene importi, a loro.»
«Ma io sono preoccupata lo stesso. Ti può capitare di far male senza nemmeno saperlo che è male.
Non conosci mica le leggi della California. Là possono punire per cose che da noi non sono delitti.» «Questo sarebbe lo stesso anche se non fossi libero sulla parola. No, no, non stare a preoccuparti.
Abbiamo già tante cose da pensare, che non dobbiamo crearci altri fastidi.»
«Non so, ma ho paura che per te, solo passare il confine è già un delitto.»
«Eh, ma cosa vuoi, dovevo restare a Sallisaw a morire di fame?» insistette: «Meglio cercare un posto per fermarci.»
Oltrepassato Bethany, trovarono un vecchia vettura da turismo ferma, fuori strada, davanti a una tenda, donde sporgeva un tubo di stufa che mandava fumo. Tom la indicò: «Ecco lì una tenda. Sembra bello, per fermarsi, no?»
Rallentò e fermò l'autocarro all'altezza della vecchia auto. Presso il cofano alzato, un uomo di mezza età ne stava esplorando il motore. Portava un vecchio cappello di paglia sfondato, l'inevitabile camicia di cotonata blu, e i pantaloni di grossa tela lucida d'unto. Era magrissimo, la faccia tutta zigomi e mento. Diede all'autocarro un'occhiata sorpresa e un po' rabbiosa.
Tom si sporse fuori dal finestrino. «C'è mica divieto di accamparsi qui per la notte?»
L'uomo piantò gli occhi in faccia a Tom. «Che ne so. Io mi son fermato perché non potevo più tirare avanti.»
«C'è acqua?»
L'altro accennò con la mano verso ponente. «C'è un posto di rifornimento a mezzo chilometro. Vi lasciano prendere un secchio d'acqua, se volete.»
Tom esitò: «Allora è permesso far tappa qui vicino a voialtri?»
L'altro sembrò sorpreso dalla domanda. «Non l'ho mica affittato il posto. Ci siam fermati perché questa maledetta baracca non vuol saperne d'andare avanti.»
Tom insisté: «Comunque, siete arrivati prima. Avete diritto di dirci se ci volete o no.»
L'appello rivolto al senso dell'ospitalità produsse immediatamente il suo effetto. L'uomo magro sorrise affabilmente. «Venite, venite, fortunato d'avervi per vicini di casa.» E chiamò la moglie: «Sairy, abbiamo dei coinquilini. Vieni fuori a salutare. Non sta tanto bene,» aggiunse.
Il telo d'ingresso della tenda s'aprì e comparve una donna macilenta, con un viso che pareva una foglia secca, e due occhi febbricitanti, che sembravano guardar su dal fondo d'un pozzo d'orrori. Si vedeva che stentava a reggersi in piedi, aggrappata alla tenda con una mano che pareva quella d'uno scheletro. Ma quando parlò, la sua voce diede un bel suono grave, morbido e modulato.
Disse: «Siate i benvenuti. Lieti d'avervi con noi.»
Tom uscì di strada e parcheggiò l'autocarro accanto alla vettura. La tribù si riversò tumultuosa fuori dall'autocarro. La mamma si mise alla svelta in faccende. Prese la secchia dal camion e chiamò a rapporto i bambini che sgambettavano festosi attorno gridando. «Ora andate insieme a prendere acqua, là al rifornimento. Chiedete per piacere, e dite grazie, e aiutatevi a portarla e badate a non versarne per strada. E se vedete in giro qualche stecco di legno secco, portatene.» I bambini afferrarono la secchia e partirono d'un passo deciso e dignitoso.
Presso la tenda le presentazioni procedevano in un'atmosfera d'imbarazzo. Il babbo disse: «Non siete di queste parti, vero? Mica d'Oklahoma?»
Rispose Al, che ispezionando la vettura ne aveva notata la targa. «Kansas,» disse.
L'uomo magro confermò: «Di Galena, o dintorni.» E si presentò: «Wilson.»
«Dei dintorni di
«Joad,» disse a sua volta il babbo. «Dei dintorni di Sallisaw.»
«Fortunato di fare la vostra conoscenza. Sairy, ti presento il signor Joad.»
«Avevo capito che non eravate dell'Oklahoma,» disse il babbo. «Dal parlare.»
«Già, si parla diverso,» ammise l'altro. «E' così dappertutto. Nell'Arkansas si parla a un modo, nell'Oklahoma in un altro, e ho conosciuto una signora del Massachusetts che non si capiva più niente quel che diceva.»
Noè, zio John e il predicatore cominciarono a scaricare. Aiutarono il nonno a scendere e lo misero a sedere in terra. Il vecchio era totalmente inciocchito, privo di forze, e guardava fisso innanzi a sé, con occhi tetri imbambolati. «Non va bene, nonno?» domandò Noè.
«Va da cani, porca miseria,» ribatté debolmente il vecchio, «vita d'inferno.»
Sairy Wilson lo avvicinò e lo esaminò con sguardo preoccupato. «Non volete entrare nella nostra tenda?» gli domandò: «V'allungate sul materasso e fate un riposino.» Il vecchio, attratto dalla dolcezza della voce, alzò gli occhi, e la donna insisté, con accento persuasivo: «Venite a fare un riposino, vi aiutiamo noi.»
Improvvisamente il nonno si mise a piangere, con labbra compresse, col mento che gli tremava, finché scoppiò in rauchi singhiozzi. La mamma accorse, gli passò le braccia sotto le ascelle, con visibile sforzo lo sollevò in piedi e sorreggendolo lo condusse nella tenda.
«Dev'esser grave,» mormorò zio John, «ha mai fatto così in vita sua, l'ho mai visto piangere.» S'arrampicò sull'autocarro e buttò giù un materasso.
La mamma uscendo dalla tenda andò dal predicatore. «Voi siete pratico coi malati,» gli disse, «il nonno sta male, dategli un'occhiata, vi prego.»
Casy aderì con premura all'invito ed entrò sotto la tenda. Il materasso a due piazze posava direttamente sull'erba. Nella piccola stufa di ferro ardeva un tisico fuoco. Tutto il mobilio consisteva in una cassetta di commestibili, una secchia d'acqua, e una cassetta vuota che serviva da tavolino. La luce del tramonto penetrava rosea attraverso i teli. Sairy Wilson era in ginocchio presso il materasso e il nonno giaceva sulla schiena, gli occhi spalancati, fissi al soffitto, le guance paonazze, il respiro affannoso. Casy gli tastò il polso, «Vi sentite stanco?» Gli occhi imbambolati si diressero nella direzione donde veniva la voce ma non trovarono nessuno. Le labbra cartilaginose formularono parole senza suono. Casy abbandonò il polso e posò la mano sulla fronte del malato. Le estremità del decrepito scheletro accennarono scomposti moti convulsi. Dalle labbra uscì una filastrocca di suoni confusi che non erano parole. Sotto l'ispida barba bianca il rosso delle guance si faceva sempre più cupo.
«Cosa sarà? Avete idea?» domandò Sairy Wilson con la sua voce carezzevole.
«E voi?» rispose Casy, guardandola negli occhi febbricitanti.
«Ho paura di sì.»
«Cos'è secondo voi?»
«Vorrei sbagliarmi, ma...»
Casy guardò i lineamenti, contorti del viso paonazzo. «Volete dite... forse... che è un colpo?»
«Già,» confermò la donna. «Ne ho già visti tre così.»
Di fuori giungevano i suoni prodotti dai preparativi dell'accampamento: spaccar di legne, rumori di padelle.
La mamma s'affacciò sulla soglia e disse: «La nonna vuol venire, dobbiamo lasciarla entrare?» Casy rispose: «Sarà meglio, se no capace che s'arrabbia.» «Vi pare grave?» chiese ancora la mamma.
Il predicatore annuì lentamente. La mamma diede un rapido sguardo al vecchio volto alterato e soffuso di sangue e si ritirò. S'udì la sua voce, che diceva alla nonna: «Sta bene, nonna. Sta facendo un riposino.»
La nonna rispose, petulante: «Voglio vederlo coi miei occhi. Non dice mai la verità, quel vecchio impostore.» Entrò di volata tra i teli d'ingresso e restò in piedi accanto al giaciglio guardando in basso. «Be', cos'hai?» domandò burbera al marito, e vedendo gli occhi voltarsi nella sua direzione e le labbra muoversi senza parlare: «Fa il muso,» disse, «è fatto così, lo conosco. Non voleva partire, l'hanno obbligato e adesso fa il muso.»
Casy disse con dolcezza: «Non è muso, nonna. Sta proprio male.»
«Male?» La vecchia guardò in basso con maggiore attenzione. «Male grave, credete?»
«Purtroppo, nonna.»
Ella rimase sconcertata, ma solo un attimo; poi ritrovò la sua vivacità e disse: «Allora perché non dite le preghiere? Non siete un predicatore?»
Le dita dure di Casy agguantarono il polso della nonna: «V'ho già detto, nonna, che non faccio più il predicatore.»
«Dite lo stesso le preghiere,» ordinò lei, «è roba che sapete a memoria.»
«Non posso,» mormorò Casy, «non so chi pregare né per che cosa.»
Gli occhi della nonna si distolsero da lui e si posarono su Sairy. «Non sa pregare,» borbottò. «Non v'ho mai detto come pregava Ruthie quand'era piccola? Così: 'Adesso mi metto giù a dormire. Prego il Signore di conservare l'anima mia. Ambarabà ciccìcoccò, tre civette sul comò, Amen.' Proprio così diceva.» Il sole proiettò sulla tenda, come su uno schermo, l'ombra di qualcuno che passava all'esterno.
Il nonno sembrò fare uno sforzo, trasalì e sbarrò gli occhi e spalancò la bocca e fu preso da soffocazione. Sairy Wilson toccò Casy sulla spalla bisbigliando: «La lingua, la lingua, la lingua!» Casy annuì, si mise in posizione da ostruire col proprio corpo la vista alla nonna, affondò una mano fino in gola al morente, riuscì ad afferrargli la lingua e la tirò fuori. Con la lingua uscì un rantolo che si ruppe in un singhiozzo. Casy trovò uno stecco di legno con cui tener fuori la lingua, mentre i rantoli continuavano ad alternarsi coi singulti. La nonna saltellava come un pollo spaventato e ripeteva furiosa: «Pregate, vi dico, pregate.» Sairy cercava di trattenerla indietro. «Pregate, che Dio vi maledica!»
Casy le scoccò un'occhiata molto risentita e mentre i rantoli s'andavano affievolendo cominciò: «Padre nostro che sei nei Cieli, sia santificato il Tuo nome..» «Gloria al Dio della Vittoria!» urlò la nonna.
«... venga il Tuo regno, sia fatta la Tua volontà così in Cielo come in tetra ...»
«Amen, alleluja!»
Il nonno inspirò affannosamente con la bocca spalancata ed esalò di nuovo l'aria con un rantolo. « Dacci oggi il nostro pane quotidiano e rimetti a noi...» Singhiozzi e rantoli cessati. Casy guardò il nonno e ne notò lo sguardo velato e penetrante ma sereno. «Alleluja,» disse ancora la nonna, «avanti, avanti!» «Amen,» disse Casy.
Solo allora la nonna tacque. E nello stesso momento cessò come per incanto ogni rumore esterno. Il silenzio fu rotto dal sibilare d'un bolide sulla strada. Casy continuava a restare immobile in ginocchio. Sairy prese la nonna per un braccio e la condusse fuori. La vecchia si muoveva con dignità, la testa alta, per l'onore della tribù. Sairy la condusse presso il materasso che zio John aveva tolto dall'autocarro e ve la fece sedere. E la nonna sedette ritta e composta, perché adesso era in mostra. Nella tenda tutto era silenzio e finalmente anche Casy uscì fuori.
Il babbo lo accostò e domandò sottovoce: «Cos'è stato?»
«Un colpo. Un buon colpo spiccio, sbrigativo.»
La vita riprese a scorrere di nuovo. Il sole toccò l'orizzonte e vi s'appiattò. Sulla strada arrivava in lunga colonna un convoglio di autocarri pesanti. Passò rombando, facendo sussultare la terra, emanando i fumi celesti dell'olio Diesel. Ogni camion era guidato da un uomo al cui fianco dormiva il sostituto. Perché il convoglio non si fermava mai: tuonava giorno e notte facendo tremare la terra sotto il suo pesante carico.
La tribù si raggruppò. Il babbo ora ne era il capo assoluto. Si accoccolò, con zio John al suo fianco, e la mamma rimase in piedi dietro a lui. Noè, Tom ed Al s'accoccolarono ai lati dei maggiori. Il predicatore si sdraiò a mezzo su un fianco sostenendosi su un gomito. Connie e Rosa Tea stavano in piedi un pochino appartati. Ruth e Winfield stavano venendo con la secchia piena e avvertirono subito il mutamento della situazione: posarono la secchia a terra e vennero, seri e zitti, a prender posto vicino alla mamma. La nonna continuò a sedere fredda solenne finché il gruppo risultò al completo, finché nessuno la guardò più e allora si sdraiò sul materasso coprendosi il viso con un braccio. Il sole scomparendo aveva lasciato in cielo una luce diafana che faceva scintillare gli occhi e pareva riflettersi sulla pelle lucida dei volti. La sera cercava di valersi di tutta la luce che poteva ancora trovare.
Il babbo disse: «E' stato nella tenda del signor Wilson.»
Zio John assentì. «Ha messo la sua tenda a nostra disposizione.»
«Gesto d'amico,» riprese il babbo, «brava gente.» Adocchiò l'uomo allampanato che armeggiava attorno alla sua vettura in avaria, e lo chiamò: «Signor Wilson?»
Wilson venne, s'accoccolò accanto al babbo, e sua moglie, che era andata a sedersi accanto alla nonna, pur evitando di toccarla, venne a mettersi in piedi dietro a lui. Il babbo disse: «Vi siamo molto obbligati.»
Wilson rispose: «Siamo fortunati d'avervi potuto aiutare.»
Il babbo ripeté: «Vi siamo obbligati.»
«Non c'è obbligazione davanti alla morte,» replicò Wilson, e sua moglie fece eco: «Non c'è obbligazione.»
Al disse: «Io v'aggiusto la vettura, mi faccio aiutare da Tom.» E parve orgoglioso di sentirsi in grado di disobbligare la tribù.
«Accettiamo volentieri l'offerta,» disse Wilson.
«Ora abbiamo da discutere sul da farsi,» disse il babbo. «C'è la legge. Bisogna denunciare la morte.
E alla denuncia, se non s'han quaranta dollari per i funerali, ti prendono per un pezzente.»
Zio John intervenne: «Mai avuto un pezzente nella nostra famiglia.»
Tom disse: «Ma, prima di noi, nessuno è neanche mai stato sfrattato.»
Il babbo disse: «Ci siamo sempre regolati bene. Abbiamo sempre saldato i nostri debiti. Non abbiamo mai mendicato favori. Quando a Tommy qui capitò la disgrazia, abbiamo potuto tener alte le teste. Lui ha fatto quel che avrebbe fatto chiunque altro.» «Allora cosa si fa?» domandò zio John.
«Se facciamo come vuole la legge, vengono a prendere il cadavere. Ci restano solo centocinquanta dollari. Se ce ne prendono quaranta per seppellire il nonno, non ce la facciamo ad arrivare in California... Altrimenti lo ficcano sotto terra come un pezzente.» Gli uomini diedero segni di disagio e piantarono gli occhi in terra tra i ginocchi. Il babbo riprese con dolcezza: «Il nonno seppellì il babbo suo con le proprie mani, fatto le cose con molta dignità, sulla sua terra. A quei tempi s'aveva il diritto il seppellire il babbo.»
«Ma adesso la legge è cambiata,» disse zio John.
«Alle volte non si può osservare la legge,» replicò il babbo. «Molte volte è così. Quando Floyd s'era dato al brigantaggio, la legge ci ordinava di denunciarlo; ma nessuno lo ha mai denunciato. Alle volte si ha il dovere di eludere la legge. Io dico che adesso ho il diritto di seppellire io il nonno. C'è qualcuno che ha qualche obiezione da fare?»
Il predicatore si sollevò un po' sul gomito: «Le leggi cambiano,» disse, «ma le necessità sono
sempre necessità. Voi avete pienamente diritto di fare quello che è necessario.»
Il babbo si voltò verso il fratello. «Fa' sentire la tua opinione. Hai qualcosa in contrario?»
«No,» disse zio John, «ma è come far le cose di nascosto. Il nonno non sarebbe contento.»
«Non possiamo interpellarlo al riguardo» disse il babbo. «Dobbiamo arrivare in California prima che ci finiscano i soldi.»
Tom interloquì: «Pare che il governo s'interessa più ai morti che ai vivi. Capace di dissotterrare un cadavere, se trova una tomba fuori dal cimitero, e fa l'inchiesta per sapere come è morto. Io propongo di lasciare una nota scritta, in una bottiglia, vicino al nonno, che spieghi chi è, come è morto, e perché l'abbiamo sepolto lì.»
Il babbo fece segno d'approvare la proposta. «Buona idea. Scrivila con bella calligrafia. C'è anche il vantaggio che si sentirà meno solo, sapendo che c'è il suo nome lì con lui, e non è uno sconosciuto qualsiasi abbandonato sotto terra. C'è nessun altro che ha da dire qualcosa?» Nessuno aprì bocca. Il babbo guardò la mamma. «Lo prepari te il nonno?»
«Sì, certo,» replicò la mamma, «ma chi pensa alla cena?»
«Penso io,» propose Sairy Wilson, «non vi preoccupate, ci penso io con l'aiuto della vostra ragazzona.»
«Grazie, grazie di cuore,» disse la mamma. «Noè, porta i barilotti e tira fuori un po' di carne. Non sarà completamente salata ancora, ma sempre buona da mangiare.» «E noi abbiamo ancora un mezzo sacco di patate,» disse Sairy.
La mamma disse al babbo: «Dammi due mezzi dollari.» Il babbo si frugò in tasca e le diede le due monete d'argento. Ella andò all'autocarro, trovò la bacinella, la riempì d'acqua ed entrò sotto la tenda. Era quasi buio là dentro. Sairy la raggiunse, accese una candela, l'appiccicò ritta sulla cassetta-tavolino e uscì di nuovo. La mamma ristette un momento a guardare il viso del morto. Poi, presa da compassione, lacerò una striscia dall'orlo del suo grembiale e se ne servì per tener chiusa la mandibola del cadavere. Gli distese le gambe e gli piegò le braccia in croce sul petto. Gli chiuse le palpebre e su ciascuna posò una delle monete d'argento. Gli abbottonò la camicia e gli lavò la faccia.
Sairy rientrando domandò se non le occorreva niente. La mamma la guardò e disse: «Venite dentro, mi fa piacere parlare con voi.»
Sairy disse: «Gran brava donnina, la vostra Ruth. Sbuccia le patate che è un piacere vederla. Avete bisogno d'aiuto?»
«Volevo lavarlo tutto, ma non ha roba pulita di ricambio. Mi spiace per la vostra coperta. Impossibile levar via da una coperta l'odor della morte. Ricordo un cane che avevamo che, perfino due anni dopo la morte di mia madre, non voleva saperne di fare la cuccia sul materasso dov'era morta. Dovreste lasciarmi questa coperta per avvolgervi il nonno, ve ne do un'altra. Ce n'ho una da darvi.»
«Non parlate così. Siamo contenti d'aver potuto esservi d'aiuto. E' da tanto che non mi sento così bene, s'ha sempre bisogno d'aiutarsi l'un l'altro.»
«E' vero,» convenne la mamma. Guardava il morto, con la mandibola fasciata e le palpebre d'argento che luccicavano alla luce della candela. «Non sembra naturale,» disse, «è per questo che voglio avvolgerlo nella coperta.»
«La nonna l'ha presa abbastanza bene.»
«Sì, è tanto vecchia, che forse non si rende pienamente conto. Ma è anche per fierezza che s'è mostrata coraggiosa. Il babbo diceva sempre: chiunque è buono d'accasciarsi, solo i forti stanno in piedi sotto il colpo.» Stava avvolgendo la coperta attorno alle gambe e alle spalle del nonno e ne ripiegò il lembo d'un angolo sulla faccia a mo' di cappuccio. Sairy le porse una dozzina di spilli di sicurezza per assicurare accuratamente i lembi della coperta. Alla fine si alzò e disse: «Sarà un discreto funerale, date le circostanze. Abbiamo un predicatore, e tutta la famiglia riunita.» Barcollò improvvisamente e dovette appoggiarsi sulla spalla di Sairy. «Non è debolezza,» disse, quasi che sentisse vergogna di sé, «è sonno. Non s'è dormito tutta la notte, causa i preparativi.» «Venite fuori all'aperto.»
«Sì, qui ho finito.»
Sairy soffiò sulla candela e le due donne uscirono.
Un grosso fuoco ardeva nel fondo della cucina da campo, e Tom aveva fabbricato, mediante picchetti e filo di ferro, due supporti donde pendevano le marmitte brontolando furiose e lasciando sfuggire di sotto ai coperchi nutriti getti di vapore. Rosa Tea in ginocchio brandiva un cucchiaione di legno, ma vedendo la mamma uscire dalla tenda s'alzò e le andò incontro. «Mamma, devo domandarti una cosa.»
«Di nuovo le tue paure? Animo, Rosatè, non puoi mica sperare di fare i tuoi nove mesi senza guai.»
«Ma il piccolo tira calci e mi balla dentro.»
«S'è tutti in ballo, e non per divertimento. Su, tiemmi d'occhio le marmitte.»
Gli uomini si erano riuniti a poca distanza dal fuoco per scavare la fossa. Poiché disponevano solo di un piccone e d'un badile, si alternarono in coppie, e il lavoro procedette spedito. Quando la fossa, larga un'ottantina di centimetri e lunga un paio di metri, risultò profonda un metro e mezzo, Tom, ch'era di turno al piccone, domandò al babbo: «Quanto ancora?»
«Un altro po'. Un altro mezzo metro. Tu vieni fuori, adesso, e va' a scrivere il biglietto.»
Tom uscì dalla buca e Noè lo sostituì. Tom andò dalla mamma, affaccendata intorno al fuoco: «Mamma, c'è della carta, e una penna?»
La mamma scosse lentamente la testa. «No, è la sola cosa che ci manca.» Diede un'occhiata a Sairy Wilson, e la donnetta si diresse subito verso la tenda, e ne tornò con una Bibbia e una mezza matita, le porse a Tom e disse: «C'è una pagina bianca al principio; scrivete, e poi la staccate.»
Tom si sedette in terra per scrivere alla luce del fuoco. Aggrottò la fronte per concentrare l'attenzione e finalmente cominciò a scrivere, lentamente, a grandi caratteri: «Qui giace William James Joad, morto d'un colpo, in età avanzata. La famiglia lo ha sepolto qui perché priva di mezzi per il funerale. Non è stato un assassinio. E' morto d'un colpo.» Smise di scrivere. «Mamma, senti.» E lesse adagio.
La mamma disse: «E' bello. Perché non ci metti anche un versetto per farlo religioso? Apri la Bibbia e trova qualcosa.»
«Ha da esser corto,» disse Tom, «c'è rimasto poco spazio.»
Sairy suggerì: «Perché non mettete 'Dio abbia pietà dell'anima sua'?»
Tom fece una smorfia. «Oh, no; come agli impiccati. Adesso cerco io qualche cosa.» Sfogliò le pagine, leggendo qua e là tra le labbra. «Questa può andare, è corta, sentite: 'E Lot disse loro: Oh, non così, Signor mio!»
«Vuol dir niente,» disse la mamma. «Già che ci sei, trovane una che abbia senso.»
Sairy propose: «Cercate nei Salmi, più avanti. Nei Salmi si trova sempre qualcosa.»
Tom voltò molte pagine con mossa impaziente e arrivò ai versetti: «Eccone qui uno,» disse. «Questo qui mi pare proprio che vada, è anche pieno di religione: 'Beato il peccatore al quale sono stati rimessi i peccati.' Cosa ne dite?»
«Sì,» approvò la mamma, «scrivi quello.»
Tom lo trascrisse con meticolosa attenzione. La mamma sciacquò e asciugò ben bene un barattolo di marmellata, Tom v'introdusse il biglietto e avvitò il tappo con cura. «Forse meglio che lo scriveva il predicatore,» osservò.
«No,» disse la mamma, «il predicatore è mica un parente.» Prese il barattolo ed entrò sotto la tenda al buio. Rimosse uno spillo dalla coperta, introdusse per lo spiraglio il barattolo fin sotto le fredde mani scheletriche, e riappuntò lo spillo. Poi tornò a sorvegliare la cottura.
Gli uomini ritornavano dalla fossa, le facce lucide di sudore. «Pronto,» disse il babbo, e con zio John si diresse alla tenda, seguito da Al e Noè. Ne uscirono portando a braccia la salma avviluppata nella coperta e tornarono alla fossa. Il babbo si calò nella buca, ricevette l'involto fra le braccia e lo posò delicatamente sul fondo. Zio John gli porse la mano per aiutarlo a uscire. Il babbo disse: «Si avverte la nonna?»
«Vado a vedere,» replicò la mamma. Andò al materasso, diede un'occhiata in basso alla vecchia, poi
tornò dicendo: «Dorme. L'avrà con me, ma io non la sveglio. E' stanca.»
Il babbo domandò: «Il predicatore dov'è? Un predicatore ci vuole.» Tom disse: «L'ho visto in giro. Lo sai che ha smesso di pregare.»
«Ha smesso di pregare?»
«Già, non fa più il predicatore. Dice che non è giusto fregare la gente facendosi passare per predicatore quando non lo è. Scommetto che se l'è svignata perché così nessuno gli chiedeva niente.»
Casy s'era silenziosamente avvicinato e aveva sentito le parole di Tom. «Non me la sono svignata,» protestò, «e neanche frego nessuno. Se posso tendermi utile, eccomi qua.»
Il babbo disse: «Allora diteci due parole. Nessuno in casa nostra è mai stato sepolto senza il prete.» Casy acconsentì. Connie arrivò accompagnando Rosa Tea riluttante. «Bisogna, Rosatè, mica sta bene non andare,» ripeteva Connie. «Solo questione di poco.»
Gli astanti si scoprirono. Il chiarore delle fiamme danzava attorno al gruppo rendendo lividi i volti. Casy disse: «Sarò breve.» Chinò la testa e tutti lo imitarono. Cominciò in tono solenne: «Questa umana creatura ha vissuto la sua vita fino alla morte. Non sta a me giudicare se fu onesta o disonesta, e d'altronde questo non ha importanza. L'importante è che è stata viva, e tutto quello che vive è sacro, e il nonno ha dimostrato di saper vivere la sua vita fino alla morte. Perché ci sono mille modi di vivere la vita, e i vivi non sanno quale scegliere. Il nonno qui è stato felice nella sua scelta e ha percorso tutto il suo viaggio senza incidenti gravi. Adesso che è arrivato alla meta, può riposare. Copritelo, e riposi in pace.» Rialzò la testa e il babbo disse: «Amen,» e gli altri borbottarono: «Amen.»
Poi il babbo afferrò il badile e versò la prima palata di terra spargendola delicatamente su tutta la salma. Passò il badile a zio John, il quale lasciò cadere la sua palata. Poi il badile passò di mano in mano finché ognuno degli astanti ebbe versato la sua parte di terra ed ebbe compiuto il proprio dovere e diritto. Le donne poi si ritirarono a preparare la cena mentre gli uomini finivano di riempire la fossa. Ruth e Winfield restarono assorti ad osservarli. Ruth disse solennemente: «Il nonno è lì sotto.» E Winfield la guardò con occhi terrorizzati, scappò di corsa e presso il fuoco si appartò a singhiozzare in segreto.
Tom disse: «Meglio non fare il tumulo. Lo trovano, scavano, e possiamo avere seccature. Lo sapete tutti cosa mi capita se scoprono che ho violato la legge.»
«Giusto,» disse il babbo, «non ci avevo pensato, è vero. Allora colmiamo fino all'orlo, poi si sparge la terra tutt'attorno e quest'inverno la prima pioggia l'appiattisce e non si vede più niente.»
Quando la cena fu pronta, le due famiglie sedettero in circolo attorno al fuoco e mangiarono in silenzio, gli sguardi intenti alle fiamme. Wilson, continuando a masticare un pezzo di carne, sospirò soddisfatto e osservò: «Un sacco di tempo che non mangiavo maiale.»
Il babbo spiegò: «Se n'aveva due e non potendo venderli tanto valeva mangiarli per strada. Quanto è che siete in viaggio voialtri?»
Wilson si stuzzicò i denti con la lingua, inghiottì e rispose: «Siamo stati sfortunati. Son già tre settimane che siamo per strada.»
«Diavolo! Noi si spera d'arrivare in meno di dieci giorni,» disse il babbo.
«Mi sa che non ci si fa,» intervenne Al. «Col carico che ci ritroviamo è difficile. Con tutte quelle montagne da superare...»
Tutti ammutolirono guardando le fiamme che davano un risalto straordinario alle fronti chine. Al di sopra della cupola di chiarore scintillavano sparse nel firmamento le miriadi di stelle d'estate, e il calore del giorno scemava gradatamente. Sul suo materasso appartato dal fuoco la nonna emise gemiti simili a quelli d'un cucciolo che sogna. Tutte le teste si voltarono in quella direzione. La mamma disse a Rosa Tea: «Va' a tenerle compagnia. Ha bisogno di qualcuno vicino. Comincia a rendersi conto, ormai.»
Rosa Tea si alzò e andò a sedersi accanto alla vecchia, e il mormorio delle loro voci arrivava fino al fuoco.
Noè disse: «Strano, però. La morte del nonno mi ha lasciato preciso com'ero prima. Manco mi sento più triste di quel che ero.»
«Lui e la sua terra,» disse Casy, «erano la stessa cosa, erano tutt'uno.»
Al disse: «Poveraccio. Diceva sempre quel che avrebbe fatto, che voleva farsi scorpacciate di frutta, impiastricciarsene la barba e tutta quella roba lì.»
«Era tutta una finta,» disse Casy. «Credo che lo sapeva anche lui. Mica è morto adesso il nonno; è morto il momento che l'avete strappato via di casa sua.» «Davvero?» esclamò il babbo.
«Be', respirare, respirava ancora,» spiegò Casy, «ma era già morto. Era una cosa sola col suo podere; e lui lo sapeva benissimo.»
Zio John domandò: «E voi lo sapevate che stava per morire?» «Lo sapevo sì,» disse Casy.
Zio John lo guardò con stupore, quasi con paura. «E non l'avete detto a nessuno?» «A cosa serviva?» domandò Casy.
«Be', forse si poteva fare qualche cosa.»
«Che cosa?»
«Non so, ma...»
«No,» ribatté il predicatore. «C'era proprio niente da fare. Voi dovevate venir via, era destino. Ma lui non aveva niente da spartire con voi. E poi mica ha sofferto: è da stamattina che ha smesso di soffrire. Avete portato via il suo corpo di là; ma lui ha lasciato la sua anima sul posto, è rimasto là.» Zio John trasse un lungo sospiro.
Wilson disse: «Noialtri s'è dovuto lasciare a casa mio fratello.» Gli sguardi di tutti si rivolsero a lui. «S'aveva i poderi contigui. Era più vecchio di me. Anche lui aveva venduto tutto come noi per comprarsi la macchina. Aveva mai guidato e ha dovuto imparare e... all'esercizio... è andato a finire in un fosso e ha sfasciato la macchina. Non ha potuto venir via. Chissà cosa farà. Noi non si poteva aspettarlo perché s'aveva solo ottantacinque dollari in tutto. Così s'è partiti, e, prima cosa, si rompe un dente nel differenziale, e m'è costato trenta dollari. Poi ho dovuto cambiare un copertone, e poi s'è spaccata una valvola e poi Sairy è stata malata; tutt'insieme s'è perso dieci giorni. E adesso siamo di nuovo a terra e i soldi vanno ch'è un piacere, ho ben paura che non s'arriverà mai a vedere la
California. Io di macchine non m'intendo.»
Al domandò, con accento d'importanza: «Adesso cos'ha che non va?»
«Boh? so soltanto che non si vuol muovere. Il motore parte, starnuta, pernacchia e si ferma. Dopo un secondo gli ridai la via e stai per ingranare la marcia che si spegne di nuovo.»
«Gira un minuto o due e poi si spegne, eh?»
«Già. E non so cosa farci. Era già così al principio ma ha peggiorato sempre, non riesco nemmeno più a farlo partire.»
«Sarà qualche ingorgo nel tubo della benzina. Vi ci do un'occhiata io.» Al si sentiva molto fiero di sé e importante.
Anche il babbo si sentì fiero: «Se n'intende lui di motori,» disse.
«Non so come ringraziarvi se mi date una mano. Io mi sento come un bambino di fronte al suo
giocattolo rotto. Appena in California compro un'altra macchina, ma in ordine.»
«Se ci arriviamo,» disse il babbo. «Questo è il guaio.»
«Già. Ma una volta là stiamo bene. Ho visto i volantini, hanno bisogno di manodopera, e pagano bene. La frutta è tanta che i padroni non badano se se ne mangia durante il raccolto. E coi salari alti si può metter da parte, e chissà in un paio d'anni si è in grado di comprarsi un pezzo di terra.»
Il babbo disse: «Ho letto anch'io quei volantini. Ne ho uno qui.» Lo trasse dal portafoglio. Era un foglietto arancione ripiegato in tre. Lo spiegò. Spiccava in grossi caratteri la scritta: OFFERTA D'IMPIEGO A 800 LAVORATORI IN CALIFORNIA. PAGHE OTTIME TUTTA LA STAGIONE.
Wilson guardò il foglietto con curiosità. «E' lo stesso che ho visto io. Proprio uguale. Non ci sarà pericolo che abbiano già trovato gli ottocento?»
«Oh,» disse il babbo, «questo riguarda solo una piccola parte della California. La California è grande. Per grandezza è il secondo degli Stati Uniti. Può anche darsi che li abbiano già trovati. Ma c'è un sacco di altri posti. E coglier la frutta è un lavoro pulito, anche i bambini possono farlo.» Al s'alzò e si diresse alla vettura dei 'Wilson. Di lì a poco tornò indietro e si rimise a sedere. «Niente da fare stanotte,» osservò Wilson.
«Visto. Mi ci metto domattina.»
Tom scrutava attentamente il fratello. «Stavo giusto pensando anch'io qualcosa del genere,» disse infine.
Noè chiese: «Ma cos'è che avete da dire, voi due?»
Tom e Al se ne rimasero in silenzio, aspettando ciascuno che si facesse avanti l'altro per primo. «Parla tu,» disse infine Al.
«Ecco, può darsi che non è una buona idea. Probabile anche che non è la stessa cosa che pensa Al. Fatto è che noi siamo sovraccarichi, mentre invece i signori Wilson non lo sono. Ora, se qualcuno di noi monta su con loro, magari si mette sull'autocarro un po' della loro roba, che è più leggera, si potrebbe salvare le molle e anche fare bene le salite. Io e Al c'intendiamo di motori, e probabile che si riesce a mettere in sesto quella macchina. Si farebbe il viaggio insieme e così meglio per tutti.»
Wilson saltò su: «Ehi, perché no? Per noi andrebbe benissimo. Sicuro che ci staremmo. Hai sentito, Sairy?»
«Proprio una buona cosa,» convenne Sairy. «Ma non saremo di disturbo?»
«Manco per idea,» disse il babbo. «Ci mancherebbe altro. Anzi, è un piacere che fate a noi.» Ora Wilson fu preso da uno scrupolo. «C'è una difficoltà. Ci rimane sì e no una trentina di dollari e non vorrei approfittare...»
«Storie,» disse la mamma. «Sairy m'ha assistita, col nonno, si è quasi una famiglia sola...»
Al alzò la voce. «Ci si sta tranquillamente in sei, nella macchina. E il bagaglio dei Wilson, che è leggero, lo mettiamo sull'autocarro. E ci si darà il cambio. Più vario.»
Gli altri, notando il suo entusiasmo, annuirono con timidi sorrisi. Il babbo col dito disegnava figure nella polvere. Mormorò, bonario: «La mamma sogna già la bianca casetta fra gli aranci. Ha visto una bella veduta su un almanacco.»
Sairy disse: «Se però m'ammalo un'altra volta, voi continuate e ci lasciate lì. Non voglio esservi di peso.»
La mamma la guardò con attenzione e parve notare solo allora l'espressione dolorosa del suo sguardo e l'aspetto martoriato del viso. Disse: «A voi penso io. L'avete detto voi stessa: bisogna aiutarsi l'un l'altro.»
Sairy s'alzò e prese a guardarsi le mani rugose alla luce della fiamma. «Ora bisognerebbe andarcene un po' a dormire,» disse.
«Sembra,» disse la mamma, «che il nonno sia morto da un anno.»
CAPITOLO 14.
Il West, inquieto per il nuovo stato di cose. Gli stati del West inquieti come cavalli prima del temporale. I grossi latifondisti, inquieti, consapevoli d'un mutamento in atto, totalmente ignari della sua natura: quei grossi latifondisti che brontolano contro la cosa immediata, sia questa il rimpasto ministeriale o il continuo minaccioso incremento dell'unità operaia; che brontolano contro l'aumento delle imposte, contro i nuovi progetti di legge, completamente ignari del fatto che tutte queste cose sono effetti, non cause. Effetti, non cause. Le cause giacciono più in fondo, e sono semplici: sono la fame d'uno stomaco moltiplicata un milione di volte; la sete d'un singolo spirito, sete di sicurezza, sete di tranquillità, moltiplicata un milione di volte; l'ansia di muscoli e cervelli che aspirano a crescere a lavorare a creare, moltiplicata un milione di volte. Son questi muscoli tesi nello sforzo della fatica, questi cervelli ansiosi di produrre in eccedenza ai bisogni individuali, che rappresentano la funzione suprema dell'umanità, il significato dell'uomo. Erigere un muro, costruire una casa, alzare una diga, e nel muro nella casa nella diga infondere qualche molecola d'Umanità, e dal muro dalla casa dalla diga prelevare qualche molecola d'utile a favore dell'Umanità: questa è la funzione suprema dell'essere umano. Perché l'uomo, a differenza d'ogni altra cosa organica o inorganica, si solleva più in alto del suo lavoro e delle sue concezioni; l'uomo sovrasta le proprie conquiste. Le teorie possono mutare e crollare, le scuole, le filosofie, i vicoli del pensiero nazionale o religioso o economico possono farsi man mano sempre più tortuosi ed oscuri, maturare e poi disintegrarsi, ma l'uomo va avanti inesorabile; inciampando, sia pure ferendosi, sbagliando, ma va avanti. E può anche dover sostare, retrocedere talora, ma solo d'un mezzo passo; mai d'un passo intero. Di questa realtà, è pur lecito dichiararsi convinti. Anzi, è dovere riconoscerla. E' un dovere confortante riconoscerla, quando le bombe addobbano di pennacchietti bianchi il cielo delle piazze dei mercati, quando i prigionieri sono trapassati come maiali, quando i cadaveri calpestati versano sangue nella polvere. Se l'umanità non eseguisse un passo avanti, se l'ansia di progredire sia pure inciampando non fosse ostinatamente viva, le bombe non precipiterebbero dal cielo, i patiboli non funzionerebbero. Sconfortante, invece, anzi raccapricciante sarebbe notare che le bombe non precipitano più, che i capestri restano inattivi; perché ogni singola bomba che cade e continuerà a cadere finché esista il bombardiere, ogni singolo capestro attivo finché esista il boia, è evidenza del sopravvivere dello spirito, è testimonianza di un effettivo passo in avanti. Sconfortante sarebbe il tramonto degli scioperi mentre i padroni continuano a durare; perché ogni sciopero anche fallito è evidenza del sopravvivere dello spirito. Sconfortante sarebbe notare che l'Umanità rinuncia a soffrire e morire per un'idea; perché è questa la qualità fondamentale che è alla base dell'Umanità, questa la prerogativa che distingue l'uomo dalle altre creature dell'universo.
Gli stati del West, inquieti per il nuovo stato di cose. Texas e Oklahoma, Kansas ed Arkansas, Nuovo Messico, Arizona, California. Una famiglia è sfrattata. Il babbo aveva fatto un'ipoteca, e ora la banca esige la terra. La società immobiliare, ossia l'ipotecaria banca usuraia, ha bisogno di trattrici, non di coloni. La trattrice è un male? E' ingiusta, illegittima, la forza meccanica che coltiva la terra? Dipende. Se la trattrice è nostra, non mia, ma nostra, è un bene. Se la nostra trattrice coltiva la terra, non la mia terra, ma la nostra, è un bene. La potremmo amare come prima amavamo la terra quando era nostra. Ma la trattrice fa due cose: coltiva la terra, e a noi dà lo sfratto. C'è ben poca differenza tra questa trattrice e il carro armato. Entrambi spaventano ledono calpestano le masse. E questo è un pensiero che merita riflessione.
Un uomo spodestato, una famiglia sul lastrico, un catenaccio rugginoso che scricchiola sullo stradone che conduce nel West. Io ho perso il mio pezzo di terra; me l'ha preso la trattrice. Sono rovinato, solo, esterrefatto. E la notte la famiglia s'attenda sulla proda del fosso; e un'altra famiglia arriva e rizza la tenda. I due uomini s'accoccolano sui talloni, e le donne e i bambini stanno ad ascoltare. Il nodo è qui, o voi che avete paura del mutamento in atto, che tremate all'idea d'una rivoluzione! Impedire, impedire dovete a tutti i costi, che i due spodestati s'accoccolino l'uno accanto all'altro. Instillare in ciascuno di loro l'odio reciproco, la paura, la diffidenza. Perché allora non si tratta più di «Io ho perso il mio pezzo di terra.» La cellula si biparte e genera quel «Noi abbiamo perso il nostro pezzo di terra» che v'illividisce. Qui è il pericolo: perché due uomini insieme sono sempre meno perplessi di un individuo solo. E da questo primo «noi» trae origine un altro, e maggiore, pericolo, che è rappresentato dalla somma dei due termini «Ho qualcosa da mangiare» e «Non ho da mangiare.» Se il totale dà «Abbiamo qualcosa da mangiare,» la valanga si avvia, il movimento prende una direzione. Ora basta una piccola moltiplicazione per far sì che questa terra e questa trattrice diventino nostre. Questo il quadro: due uomini accoccolati sull'orlo della strada, il miserabile fuoco sotto la pentola comune, la pancetta che frigge in una padella sola, le tacite donne dagli sguardi pietrificati, e i marmocchi intenti a parole che i loro cervelli non intendono. Si fa notte, il bambino ha freddo: ecco, prendi questa coperta, è di lana, era di mia madre, tienla per il bambino. Questo l'obiettivo che dovete bombardare: questa transizione dall'io» al «noi».
Se voi, che possedete le cose che le masse hanno bisogno assoluto di detenere, poteste rendervi conto di questa realtà, allora sareste in grado di salvarvi. Se foste capaci di distinguere le cause dagli effetti, di persuadervi che Paine, Marx, Jefferson, Lenin furono effetti e non cause, allora potreste sopravvivere. Ma non ne siete assolutamente capaci. Perché il possesso vi congela in altrettanti «io» e vi aliena i «noi».
Gli stati del West sono nervosi sotto il mutamento in atto. Il bisogno origina l'idea, e l'idea stimola l'azione. Mezzo milione di persone erranti per il paese; un altro milione ancora ferme ma pronte a muoversi; altri dieci milioni che cominciano ad agitarsi. E le trattrici insensibili coltivano le terre deserte.
CAPITOLO 15.
Sulla 66, gli spacci di bibite e commestibili: AL & SUSY'S - KARL'S LUNCH - JOE & MINNIE WILL'S EATS; veri baraccamenti in cui alloggiano i proprietari. Due pompe di benzina sul piazzale, la porta munita di reticella contro le mosche, il banco lungo lungo, con la sua spranga d'ottone per appoggiarvi i piedi, gli altri sgabelli. Presso l'entrata le macchinette a gettone sfoggianti sotto vetro l'opulenza in nichelini che il numero o la figura vincente procurerà ai fortunati. Accanto alle macchinette il fonografo, tra due alte colonne di dischi, pronto a girare per un nichelino e a suonare ballabili e canzonette: "Ti-pi-ti-pi-tin", "Thanks for the Memory", Bing Crosby, Benny Goodman. A un capo del banco la vetrinetta che contiene i dolciumi, le pastiglie per la tosse e l'insonnia, sigarette, lamette da barba, i tubetti d'aspirina, di bromo-seltzer, d'alka-seltzer. I muri tappezzati di cartelloni pubblicitari, splendide figliole in costume da bagno, seni provocanti, snelle di fianchi e con facce da bambole. Han tutte in mano la bottiglietta della Coca-Cola e sorridono come per dire Ecco i mirabili effetti della Coca-Cola. Al centro del banco i barattoli della mostarda, del sale, del pepe e le salviette di carta. Dietro il banco i rubinetti della birra e la macchina del caffè, fumante e luccicante, col recipiente di vetro che mostra il livello del caffè in grani; ai suoi lati, piramidi d'arance. All'altra estremità del banco la tavola calda: bollito, arrosto, patate in camicia. Dietro al banco Minnie, o Susy, o Mae, sulla trentina, capelli inanellati, ciprie e belletti sui visi lucidi di sudore. Chiedono a bassa voce, voce morbida, le ordinazioni ai clienti e le trasmettono al cuoco con strilli da pavone. Strofinano il banco con mosse circolari dell'avambraccio e lucidano la luccicante cromatura della macchina del caffè. Il cuoco è Joe, o Al, o Carl, accaldato nel suo grembiule bianco, fronte imperlata di sudore e sormontata dall'inamidato berrettone di prammatica: flemmatico, taciturno, gli occhi vigili sulla porta all'apparir d'ogni avventore. Ripete in sordina gli ordini trasmessi da Mae, raschia ed unge la graticola su cui mette le fette di pane a tostare.
Mae, sia che sorrida o faccia il broncio o francamente monti sulle furie, rappresenta il collegamento: il collegamento con la clientela d'ogni tipo; ma ai camionisti sorride sempre, perché sono il midollo spinale della clientela. Dove si ferma l'autocarro, il grosso dei clienti accorre. Gente da tener da conto, quei camionisti. Non si possono mettere di mezzo i camionisti, si sa: sono loro che portano i clienti. Dategli una volta una tazza di caffè stantio, e non vengono più. Trattateli bene e la prossima volta ritornano di sicuro. Quindi nel sorriso che serba per loro Mae mostra tutti i denti. Civetta un tantino, nel ravviarsi i capelli alza ben bene i gomiti facendo risaltare il seno, piglia allegramente il tempo come viene e dispone di un vasto repertorio di trite barzellette.
Al invece non parla mai. Non è tipo da collegamento. Talora si degna di abbozzare un sorriso, se la storiella è di suo gusto, ma una vera e propria risata non la fa mai. Talora rizza gli orecchi, se coglie nella voce di Mae una nota di eccessiva vivacità, ma subito si rimette a raschiare la graticola o ad appiattire un hamburger con la sua spatoletta di legno. Prepara i toast, rastrella nel tegame le disperse bucce di cipolla, le ammucchia sull'hamburger, ve le comprime ben bene con la spatoletta spalmata di burro e irrora il tutto con qualche goccia di salsa piccante.
Vetture di lusso che saettano sulla 66 senza fermarsi. Osservare le targhe: Mass., Tenn., R.I., N.Y., Vt., Ohio; tutte dirette a occidente; belle vetture, vetture di classe, da cento all'ora.
Ecco una Cord, non pare una bara su ruote? Ma viaggiano come fulmini.
Io preferisco le La Salle.
Ah, grazie, perché non le Cadillac allora? Più grosse e più veloci.
Io per me trovo che niente batte la Zephyr. Non costano un patrimonio, ma son vetture di classe e anche veloci.
Vi farà ridere, ma io mi contenterei d'una Buick-Puick.
Buick-Puick? Costano come le Zephyr e valgon meno.
Macché, macché Zephyr! Da quando le fa Ford, non c'è più da fidarsi. Non mi piace e non m'è mai piaciuto. Avevo un fratello, io, che lavorava alla Ford. Bisogna sentirlo parlare.
Maestose, le berline sulla 66. Matrone languide, disfatte dal caldo, bambolone di lusso munite di creme unguenti coloranti in fiale, rosso rosa nero bianco verde argento, con cui alterar la tinta di capelli occhi labbra unghie palpebre cigli e sopraccigli; provviste di sali olii pillole destinate a smuovere gli intestini; dotate di tutta una farmacia di boccette siringhe polveri vaseline atte a rendere inodoro innocuo improduttivo il loro rapporto sessuale.
Grinze di noia attorno agli occhi, grinze di malcontento ai lati della bocca, grevi poppe cadenti costrette in amache redentrici, epe e cosce costrette in guaine di caucciù. Fiati corti, sguardi ostili, sguardi risentiti a causa del sole, del vento, del paesaggio, del vitto, del tedio, sguardi che odiano il tempo perché raramente le fa parer belle e sempre le fa parer vecchie.
Con loro, ometti panciuti in panamino e candide tenute di tela, rosei e puliti, dai mobili occhi preoccupati. Preoccupati perché le nuove formule in esperimento non danno i risultati previsti; preoccupati perché hanno sete di tranquillità e ne costatano la scomparsa dalla terra. Nell'asola del bavero il distintivo della loggia, o del club: oasi di rifugio in cui s'adunano per convincersi, confortati dal numero dei convenuti, che ogni attività affaristica è un titolo di nobiltà, e non già la ladreria qualificata che effettivamente è; per persuadersi che l'uomo d'affari è una persona in gamba a dispetto di tutte le statistiche che ne registrano le stupidità commesse, e che è caritatevole e filantropo nonostante le massime in contrario della dottrina che professa, e che è capace di godersi pienamente la vita che invece sa intollerabilmente monotona, e meccanica; per persuadersi, soprattutto, che sta per spuntare l'alba del giorno in cui non avrà più paura.
Vedi questa coppia, diretta in California. Andranno a sedersi sui divani del Beverly-Wilshire Hotel, per veder passare le personalità che invidiano. Andranno a vedere le montagne, oh maestose!, e gli alberi, oh secolari!, lui coi suoi occhietti preoccupati e lei pensando al sole che le secca la pelle. Andranno a vedere il Pacifico, il Grande Oceano, e lui dirà, cento contro uno: «To', è meno grande di quel che credevo,» e lei invidierà i giovani corpi sodi che vedrà abbronzarsi sulla spiaggia. Vanno in California solo per poi tornarsene a casa in modo che lei potrà dire: «Al Trocadero la Taldei-Tali era proprio al tavolo accanto al nostro. E' una rovina, poveretta, ma i vestiti li porta ancora bene.» E lui: «Ho parlato con gente d'affari; persone serie. Dicono tutti che c'è niente da fare finché non ci liberiamo di quel burattino della Casa Bianca.» E ancora: «Giuro, me l'ha detto uno che sa, s'è presa la sifilide. Quella che lavora in quel film della Warner. S'è fatta strada nel cinema andando a letto con tutti. Be', ha ottenuto quel che voleva.» Ma gli occhietti preoccupati non trovano serenità, le bocche imbronciate non si distendono.
Imponenti, le berline sulla 66, sfrecciano a cento all'ora.
Dio, cosa pagherei una bibita in ghiaccio.
Laggiù c'è uno spaccio, vuoi che ci fermiamo?
Sarà pulito?
Chiedi troppo, in questo sporco paese.
Ci sarà pure una bibita confezionata, no?
La grossa vettura rallenta, si ferma. Il panciuto ometto dallo sguardo preoccupato scende e porge la mano alla moglie.
Mae li guarda entrare, e i suoi occhi vanno oltre, osservano la vettura. Al scocca una sola occhiata furtiva e riabbassa subito gli occhi sulla sua graticola. Mae lo sa già: chiederanno una bibita da cinque cents e si lagneranno che non è abbastanza fresca. La donna userà sei salviette e le getterà in terra. L'uomo inghiottirà per traverso e cercherà di darne la colpa a Mae. La donna annuserà il locale quasi sentisse odore di carne marcia, e dopo se ne andranno e d'allora in poi non perderanno occasione per dire in giro che nel West sono tutti straccioni. E Mae, quando è sola con Al, usa un vocabolo per designare i clienti di questa categoria. Li chiama stronzi.
Meglio mille volte i camionisti. Ecco qui un grosso autotreno che arriva; speriamo si fermi, per toglierci dal palato il gusto di quegli stronzi. Dovevi vedere, Al, quando lavoravo in albergo ad Albuquerque, dovevi vedere come rubano. Più è grossa la macchina, e più rubano: posate, tovaglioli, sapone, portacenere. Proprio non riesco a capire.
E Al, burbero: E come credi che le prendano quelle grosse vetture e tutto il resto? Credi che ci nascano insieme? Tu non riuscirai mai ad avere niente.
Arriva l'autotreno, con due camionisti.
Che ne dici di fermarci a prendere un caffè? Conosco il buco.
Come stiamo a chilometri?
Oh, siamo in anticipo.
E allora fermiamoci. C'è una bruna che è niente male. E anche il caffè è ottimo.
L'autotreno si ferma. Entrano i due, pantalonacci di tela kaki, stivaloni, giubbotti, berretti militari dalle visiere lucide.
Come va, Mae?
Guarda chi si vede! Quel farabutto di Big Bill! Quand'è che siete passato di qui andando in su?
Sarà otto giorni.
Il compagno di Bill introduce una monetina nel fonografo, osserva il disco nero liberarsi dal sostegno e posarsi sul piatto di panno verde che si solleva automaticamente per riceverlo. La voce di Bing Crosby: voce d'oro. E il camionista, per divertire Mae, canticchia anche lui, parodiando oscenamente le parole della canzone.
Mae ride. Bill, chi è l'amico? Nuovo, eh?
L'altro mette una moneta nella macchinetta a gettoni vince quattro monete e le rimette dentro. Poi Bill si dirige al banco.
Be', che prendete?
Caffè. Di dolci, cos'avete?
Crema banana, crema ananas, crema cioccolato, torta di mele.
Mele. Momento, quella cos'è?
Mae solleva una torta all'altezza del viso e l'annusa. Crema banana.
Proviamola; ma una buona porzione.
Due! grida il compagno dalla macchinetta a gettoni.
Pronti. Qualche nuova battuta, Bill?
Certo. Eccola.
Mi raccomando, c'è una signora.
Oh, è mica sporca. Un ragazzetto arriva a scuola in ritardo. Il maestro fa: Che t'è successo? E il ragazzo: M'han dato la mucca da portare al toro. E non poteva farlo tuo babbo? domanda il maestro. Certo, fa il ragazzo, ma mica così bene come il toro.
Mae si butta via dalle risate senza neanche cercare di trattenersi. Al, che sta sbucciando scrupolosamente delle cipolle, si volta, sorride, e riabbassa subito gli occhi sul suo lavoro. I camionisti, gente in gamba. Capaci di lasciare mezzo dollaro sul banco. Quindici cents per il dolce, il caffè e il resto di mancia per Mae. E senza neanche cercare di metterle le mani addosso.
Se ne stanno tranquillamente appollaiati sugli alti sgabelli sorbendosi il loro caffè e divertendosi a raccontare storielle. Al ascolta, medita, e non fa commenti. La voce d'oro si tace. Il piatto verde s'abbassa, il disco scatta al proprio posto nella colonna, la lampadina rossa si spegne, e la monetina - la monetina che ha messo in moto tutto questo meccanismo, fatto cantare Bing Crosby e suonare un'intera orchestra - cade nella cassettina degli incassi.
Il vapore sprizza dalla valvola della macchina da caffè. Il compressore del frigorifero ronza per qualche istante e smette. Il ventilatore elettrico nell'angolo ruota lentamente provocando nel locale una tiepida brezzolina. Sulla 66 le vetture sfrecciano sibilando.
«Pochi giorni fa s'è fermata un'auto con la targa del Massachusetts,» dice Mae.
Big Bill, con la tazza in mano, e il cucchiaino immerso tenuto tra indice e medio, soffia sul caffè per raffreddarlo.
«Mai visto tante macchine sulla strada. Vengono da tutte le direzioni, ma van tutte nel West. Si vedono certe fuoriserie!»
«Che frittata stamattina!» dice il compagno. «Una Cadillac, grossa come una casa, carrozzeria speciale, bassa, color panna, una fuoriserie, va a sbattere dritta in un camion. Avrà fatto i 140. Il radiatore s'è sfondato come fosse di cartone. Il volante ha infilzato il guidatore da parte a parte; sembrava un pollo sullo spiedo. Una macchina formidabile, una cannonata. Ora la puoi avere per niente. Era solo, al volante.»
Al solleva gli occhi dalle cipolle. «E il camion?»
«Cribbio! Manco era un camion, quello. Uno di quei trabiccoli, rimessi in sesto alla meglio, carico di materassi e stufe e masserizie e polli e marmocchi. Di quelli che vanno nel West. Arriva quel pazzo nella Cadillac a 140, ci supera come un bolide mentre arriva una macchina in senso contrario e lui fa per rientrare e va a sbatter contro quel camion lì. Guidava che sembrava ubriaco fradicio. Una botta che ti manda tutto all'aria: coperte, polli, bambini. Un bambino morto. Mai visto una rovina così. Ci siamo fermati. Il vecchio che guidava quel trabiccolo, povero cristo, stava lì come un fesso a guardare quel cadaverino, impossibile cavargli una parola di bocca. Eh, santo cielo, non si circola più, sulla strada; piena di profughi, ed è sempre peggio. Chi lo sa da dove diavolo vengono.» «Ma dov'è che vanno,» domanda Mae. «Alle volte si fermano qui, per benzina, ma non comprano mai niente, quasi mai. Dicono che rubano, così non lasciamo mai niente in giro. A noi però non hanno mai rubato niente.»
Big Bill, sbocconcellando il dolce, dà un'occhiata sulla strada. «Eccoli che arrivano. Occhio ai valori, Mae!»
Una berlina Nash '26, antidiluviana, si ferma stanca sul lato della strada. La parte posteriore è zeppa quasi fino al tetto di sacchi e stoviglie, e in cima al mucchio stanno accoccolati due ragazzi. Sul tetto una tenda, e un materasso arrotolato; sul predellino i picchetti da tenda. Si ferma davanti alla pompa della benzina. Ne esce, con mosse stentate, un uomo dal profilo aquilino, i capelli scuri. I due ragazzetti si lasciano scivolare a terra dal mucchio.
Mae si trasferisce dal banco sulla soglia. L'uomo indossa un paio di pantalonacci di flanella grigia e la solita camicia di grossa cotonata blu, nera di sudore sotto le ascelle e sulla schiena. I ragazzi sono in tuta, tutte lacere, e nient'altro sulla pelle. Hanno i cranii tosati a macchina, le facce impiastricciate di polvere e sudore. Vanno difilato a tuffare i piedi nella pozzanghera davanti alla pompa.
L'uomo domanda: «Si può avere un po' d'acqua, signora?»
Mae prende l'aria seccata. «Fate pure, fate pure.» E voltando la testa indietro per tre quarti, mormora: «Io tengo d'occhio la pompa.» E rimane a guardare l'uomo che, svitato il tappo dal radiatore, introduce nel bocchettone il becco del tubo.
Dal camion una donna, dai capelli chiarissimi, dice: «Vedi se lo trovi qui.»
L'uomo toglie il tubo e riavvita il tappo. I bambini agguantano il tubo per dissetarsi golosamente al becco sgocciolante. L'uomo si leva il cappello, si fa sulla soglia e vi si ferma in atteggiamento di curiosa umiltà. Si schiarisce la gola e dice a Mae: «Scusate, signora, non avreste modo di venderci un po' di pane?»
«Mica è una drogheria, questa,» risponde Mae. «Il pane l'abbiamo solo per i sandwich.»
«Sì, signora.» L'uomo conserva il suo atteggiamento dimesso. «Ma noi avremmo bisogno solo d'un
po' di pane, vedete, e ho sentito che negozi non ce n'è per un bel pezzo.» «Se ve lo do a voi, poi resto senza io.» Ma il tono di Mae è già meno severo.
«Abbiamo proprio fame,» dice l'uomo.
«Perché non prendete dei sandwich? Ne abbiamo di speciali, e anche ottimi hamburger.»
«Magari, ma... non si può. Ho da rimediare per tutt'e quattro con una moneta da dieci cents.» E aggiunge, imbarazzato, sottovoce: «Abbiamo pochi quattrini.»
«Pani da 10 cents non ne ho. Minimo 15.»
Dal banco, Al grugnisce: «Al diavolo, Mae, dagli 'sto pane!»
«Sì, poi si resta senza noi. Il fornitore passa solo domani.»
«E chi se ne frega, maledizione!»
E Al riabbassa in fretta gli occhi sull'insalata che sta rimestando.
Mae alza una spalla e guarda i camionisti come a dimostrar che lei è contraria. Tiene aperta la porta per far entrar l'uomo, il quale si porta appresso nel locale un tanfo di sudore. Nella scia del babbo s'introducono anche i ragazzini, che si dirigono immediatamente alla vetrinetta dei dolciumi, divorandoli con occhi che esprimono più meraviglia che desiderio o speranza. Paiono gemelli; l'uno si gratta una caviglia con le unghie dell'altro piede; l'altro gli bisbiglia chi sa che, e tutt'e due stringono i pugni irrigidendo le braccia pendenti, per tenere le mani sotto controllo.
Mae apre un cassetto e ne trae un pane lungo mezzo metro. «Questo è da 15,» dice.
L'uomo si gratta dietro l'orecchio e chiede, con inflessibile umiltà: «Non si potrebbe tagliarne via un pezzo, così che resti da dieci?»
Al brontola tra i denti: «E daglielo tutto, Mae, daglielo tutto!»
L'uomo si volta verso di lui. «Grazie, ma noi se ne vuole 10 cents. S'ha da starci attenti, capite, se vogliamo arrivare in California.»
Mae, rassegnata, conclude: «Ve lo do intero per 10.»
«Ma sarebbe un ladrocinio, signora.»
«Andiamo... Al dice di darvelo tutto.» E porge il pane attraverso il banco.
L'uomo trae dalla tasca posteriore un grosso portamonete, ne scioglie la chiusura lampo, lo apre e lo posa aperto sul banco. Contiene vari biglietti di banca, incredibilmente sudici, e un gruzzoletto di monete d'argento. «Vi sembrerà strano,» dice, «che si sia cosi tirchi, ma,» aggiunge come scusandosi, «s'ha da fare un migliaio e mezzo di chilometri, e chi sa se ci si fa.» Fruga con l'indice in cerca d'una moneta da 10 cents, la trova e la posa sul banco. Allora vede che un penny è rimasto appiccicato sotto la moneta. Sta per riporlo quando scorge i figlioletti congelati davanti alla vetrinetta dei dolciumi. Si avvicina con passo lento, indica due lunghi bastoncini di zucchero alla
menta, striati di verde e di rosso e domanda: «Un penny l'uno, signora?»
Mae viene e guarda dentro. «Quali?»
«Lì, quelli striati.»
I ragazzetti sono in punta di piedi, trattengono il fiato, bocche socchiuse, irrigiditi nell'attesa. «Oh, quelli... be', no... quelli son due per un penny.»
«Allora datemene due.» E posa delicatamente la moneta sul banco.
I ragazzi riprendono fiato. Mae porge un bastoncino a ciascuno di loro. «Su, prendetelo,» dice il babbo. Lo prendono timidamente, e abbassano subito la mano che tiene il bastoncino, senza osare di guardarlo; ma si guardano a vicenda, e si sorridono impacciati, e solo con gli angoli della bocca. «Grazie infinite, signora.» L'uomo prende il pane ed esce, seguito dai ragazzetti che camminano rigidi coi bastoncini sempre tenuti bassi, quasi a nasconderli. Appena fuori, corrono alla Nash, s'arrampicano come due talpe fino in cima alla montagna del carico, e lassù si rintanano, per succhiare al riparo dalla vista. L'uomo si siede al volante, e con un rombo spaventoso la sgangherata Nash riprende la strada in un'oleosa nuvola di fumo celeste.
Dall'interno dello spaccio i quattro rimasti la guardano scomparire. Big Bill, dall'alto del suo sgabello: «Quei canditi, due pezzi al penny, eh?» osserva ironico.
«Cosa ne sapete voi?» ribatte Mae, aggressiva.
«Quelli erano un penny l'uno,» insiste Big Bill.
«Ora d'andare,» interviene il compagno. «Il tempo passa.»
Si frugano in tasca. Bill posa sul banco una moneta, il suo compagno le dà un'occhiata e ne posa un'altra uguale. S'alzano, e s'avviano alla porta. «Arrivederci,» saluta Big Bill.
Mae li richiama: «Ehi, momento, il resto.»
«Va' all'inferno,» dice Big Bill ridendo, e si sbatte la porta alle spalle.
Mae resta a guardarli salire sul grosso autotreno che parte di lì a poco con un rombo sordo.
«Al,» mormora.
Lui la guarda sollevando gli occhi dal piatto che sta preparando. «Che c'è?»
«Guarda.» Indica le monete posate sul banco, monete di mezzo dollaro. Al s'avvicina a guardare, poi ritorna al suo lavoro.
«Camionisti,» mormora Mae con rispetto. «Altro che quegli stronzi.»
Al si pulisce le mani sul grembiule e consulta una tabella, appesa al muro, dietro il forno elettrico e sulla quale registra i numeri uscenti nella macchinetta a gettoni, poi va al registratore di cassa, preme il tasto zero, estrae dal cassetto una manciata di monetine.
«Che fai?» dice Mae.
«La numero 3 ormai dovrebbe sganciare,» borbotta Al in risposta. S'avvicina alla terza delle macchinette e comincia a introdurre metodicamente monetine; al quinto tentativo azzecca la combinazione e una cascatella di monete precipita nel raccoglitore. Al le prende e va a schiaffarle nel cassetto del registratore. Poi torna al suo posto e controlla la tabella. «La tre frutta più delle altre,» osserva. «Forse farei bene a cambiarle.» Solleva un coperchio e rimescola lo spezzatino che bolle lentamente.
«Chi sa cosa andranno a fare in California? « dice Mae.
«Chi?»
«Quei poveracci di poco fa.»
«Dio solo lo sa.»
«Credi che troveranno lavoro?» «Come vuoi che lo sappia io?»
Mae perlustra la strada con gli occhi. «Ecco che viene un altro camion. Due. Chi sa se fermeranno? Speriamo.» E come vede i furgoni rallentare e fermare sul lato della strada, si rassetta l'abito e dà di piglio allo strofinaccio sfregando energicamente su tutta la lunghezza del banco. Al tira fuori una manciata di raperonzoli e prende a sbucciarli. Mae ha il viso raggiante quando s'apre la porta e i due camionisti si fanno avanti. «Oilà! Sorellina!»
«Non sono la sorella di nessuno, furboni!» Mae ride. Gli uomini ridono. «Che prendete, ragazzi?»
«Oh, un caffè. Di dolci cos'avete?»
«Crema banana, crema ananas, crema cioccolata, torta di mele.» «A me una fetta di torta. No, un momento, quella cos'è?» Mae solleva il piatto e l'annusa. «Crema ananas,» dice.
«Proviamola, ma una buona porzione.»
Sulla 66 le vetture sfrecciano via malignamente.
CAPITOLO 16.
A passo di lumaca, i Joad e i Wilson, ora una sola tribù, strisciavano verso ponente. El Reno, Bridgeport, Clinton, Elk City, Sayre, Texola: ecco il confine, e l'Oklahoma ormai alle spalle. Interminabile, la prima tappa nel Texas: Shamrock, Alanreed, Groom, Yarnell, Amarillo, e oltre. S'accamparono ch'era già tardi: stanchi, accaldati, coperti di polvere. La nonna, presa da convulsioni, diede in ismanie. La cena consisté unicamente di ciambelle, indurite, avanzate dalla prima colazione. I Wilson non rizzarono la tenda. Nessuno pensò a svestirsi. Si lasciarono tutti cadere come sassi sui materassi gettati per terra.
I Joad e i Wilson correvano per il Panhandle, grigio paese ondulato, fiancheggiato e inciso da antiche cicatrici di inondazioni. S'erano lasciati alle spalle l'Oklahoma e correvano per il Texas. Le tartarughe strisciavano nella polvere e il sole sferzava la terra e alla sera la calura abbandonava il cielo e la terra emanava verso l'alto un'ondata di calore. Il terzo giorno cominciarono, insensibilmente, ad adattarsi alle nuove condizioni di vita: la strada diventò la loro casa, e il moto il loro modo di espressione. Ruth e Winfield vi s'adattarono per primi, poi Al, poi Connie e Rosa Tea, e per ultimi gli anziani. Le ondulazioni del terreno parevano svolgersi all'infinito. Wildorado, Vega, Bosie, Glenrio. Lì finiva il Texas e cominciava il Nuovo Messico. Lontano, profilate contro il cielo, torreggiavano le montagne. Le ruote scricchiolavano, i motori bollivano, e il vapore sprizzava dai tappi dei radiatori. Faticosamente strisciarono verso il fiume Pecos che attraversarono a Santa Rosa. Poi proseguirono per altri trenta chilometri.
Al guidava la vettura dei Wilson, con la mamma seduta al suo fianco, e Rosa Tea al fianco della mamma. L'autocarro era in testa, guidato da Tom. Al, mezzo sdraiato sul sedile, la destra quasi abbandonata su una traversa del volante, l'informe visiera calata su un occhio, guidava distratto, voltando ogni tanto la testa per sputar fuori. La mamma, le mani abbandonate in grembo, si era ritirata in un'inespugnabile resistenza passiva contro la noia, lasciandosi cullare dal rullio del veicolo che le faceva ondeggiare la testa e il corpo, ma non distoglieva gli occhi dalle montagne lontane. Rosa Tea invece era tutta nervi e muscoli tesi contro il rullio, i piedi puntati m avanti, la schiena rigidamente addossata allo schienale, e s'aggrappava allo sportello che teneva come in una morsa sotto l'ascella. Irrigidiva tutto il corpo per risparmiare le scosse alla creatura che portava in grembo.
Rosa Tea voltò la testa verso la mamma e mormorò: «Mamma.» Gli occhi della mamma, subitamente accesi, diressero la loro attenzione sul volto di Rosa Tea, e la sua bocca sorrideva benigna. «Mamma, quando siamo là, voi vi stabilite tutti in campagna, vero, a raccoglier la frutta, vero?»
Il sorriso della mamma si fece un tantino scettico. «Non siamo ancora arrivati,» mormorò, «e neanche sappiamo com'è laggiù, bisognerà vedere.»
«Io e Connie non vogliamo più stare in campagna, riprese la ragazza. «Abbiamo già deciso cosa fare.»
Un'ombra di preoccupazione passò rapidamente sul volto della mamma. «Non volete più stare con noi... con la famiglia?»
«Be', sai, se n'è parlato, io e Connie. E' che noi si vuol andare a stare in città.» E proseguì, concitata: «Connie vuol cercare un posto in qualche negozio o anche in una fabbrica... E la sera vuole studiare, in casa; radiotecnica, per esempio... per imparare il mestiere e poi magari metter su negozio per conto suo. Si andrà al cinema tutte le volte che si vuole. E Connie dice... che farà venire un "medico" quando nasce il bambino, anzi dice che se le cose van bene mi fa andare all'ospedale e... prende l'automobile; una vetturetta, si sa... E poi studia di notte perché... è mica difficile... ha già staccato il tagliando dall'avviso del giornale e... adesso lo spedisce, perché dice che tanto non costa niente, tutto gratis, e dice che ... a chi fa i corsi possono persino procurare un impiego ... Radiotecnica, è un lavoro pulito, no? E c'è un avvenire. E si vivrà in città e s'andrà al cinema quando si vuole e... io avrò il ferro elettrico, e Connie dice che per il bambino mi compra un corredo tutto nuovo, tante belle cose, sapessi, che m'ha mostrato sul catalogo... Dice che al principio studiare sarà un sacrificio, ma... be', quando nasce il piccolo probabile che avrà già finito gli studi e potremo avere una casetta nostra; mica si vuole niente di strano, una casetta per il bambino.» Ora la sua faccia era lucida di eccitazione. «E io pensavo che... più tardi, potreste venire anche voi a stare con noi ... e Connie avrà negozio... e Al potrebbe anche lavorare per lui.»
La mamma non aveva mai distolto gli occhi dal viso raggiante della figlia, aveva anzi seguito con la massima attenzione il processo con cui era venuta edificando il suo bel sogno. «Mica siamo contenti che ve ne andate a stare da soli,» disse. «Non sta mica bene che la famiglia si divida.»
Al sbuffò: «Io lavorare per Connie? To'! E perché non lui per me? Si crede solo lui capace di studiare di notte?»
La mamma sembrò all'improvviso scoprire che era tutto un sogno. Si rimise a guardare le montagne, ma con occhi socchiusi e l'espressione ancora un po' scettica: «Speriamo che la nonna stia meglio quest'oggi,» mormorò.
D'un tratto Al trasalì, tese l'orecchio e si sporse in avanti. Aveva avvertito un rumore sospetto nel motore. Accelerò e il rumore si fece più forte. Rallentò e stette ad ascoltare, poi accelerò di nuovo sempre con l'orecchio teso. Ora distinse un rumore sferragliante. Suonò il claxon ripetutamente e accostò la vettura al lato della strada. Tom fermò immediatamente, poi venne lentamente a marcia indietro, smontò e s'avvicinò inquieto, domandando: «Cosa c'è?» Al accelerò il motore. «Ascolta.» Il rumore era aumentato.
Tom stette ad ascoltare. «Tieni in moto e gira piano,» ordinò. Alzò il cofano e cacciò dentro la testa. «Ora più presto.» Ascoltò per qualche attimo, poi riabbassò il cofano. «Eh sì, c'è qualcosa,» disse.
«Una bronzina, eh?» disse Al.
«Dal rumore sembrerebbe,» confermò Tom.
«E sì che ci ho messo un sacco di olio,» osservò Al.
«Può darsi che non ci arrivi, certo è che ora non ce n'è. L'unica è buttar giù il motore. Senti, io vado avanti in cerca d'un posto dove fermarci. Tu segui, piano; capito?»
Wilson domandò: «E' grave?»
«Piuttosto,» rispose Tom, e ripreso posto alla guida dell'autocarro ripartì.
Al, sentendo il peso della propria responsabilità, pensava solo a giustificarsi. «Chi sa com'è successo. Io olio ce n'ho sempre dato.»
«Non è colpa tua, Al,» lo confortò la mamma. «Sappiamo che fai tutto quello che si deve.» E, più timidamente: «E' molto grave?»
«Be', il peggio è arrivare al guasto. E poi bisogna trovare una biella o una bronzina di ricambio. Fortuna che c'è Tom. Io non ho mai montato una bronzina. Speriamo che lui sia capace.»
Arrivando ad un gigantesco cartellone rosso, che stava fuori della strada e gettava una vasta zona di ombra, Tom rallentò e portò l'autocarro sull'orlo della strada, lo fece scendere pianino nel fosso largo e poco fondo, risalì l'altra sponda e lo fermò nell'ombra del cartellone. Poi smontò e si portò sulla strada ad attendere Al.
«Piano, ora, attento al fosso! Sennò va a finire che spezzi anche una balestra.»
Al si fece rosso di collera: «E va' al diavolo!» urlò. «Come sarebbe a dire che spezzo anche una balestra? E' forse colpa mia se s'è rotta la biella? «
Tom sogghignò: «Come siamo permalosi! Mica volevo dirti niente... solo sta' attento a scendere piano, per quel fosso!»
Al eseguì la manovra con attenzione, ma senza cessare di brontolare: «Come se fosse colpa mia!» e portò la vettura nell'ombra del cartellone al fianco dell'autocarro. Anch'egli spense il motore.
Tom alzò il cofano e lo assicurò sul sostegno.
«Niente da fare finché non s'è raffreddato,» disse. Tutti smontarono dai due veicoli e si adunarono attorno alla vettura. Il babbo domandò: «Grave sul serio?» e si accoccolò. Tom disse. «Be', s'ha da smontare il motore, levare la biella, trovare una bronzina nuova, adattarla e piazzarla e rimontare tutto. Non meno d'una giornata di lavoro. S'avrà da tornare indietro, a Santa Rosa, per cercare il pezzo di ricambio. Albuquerque è a più di cento chilometri... Perdio, domani è domenica, niente da fare.» Gli altri ascoltavano preoccupati, senza fiatare. Ruth si avvicinò e curiosò dentro il cofano aperto, con la speranza di vedere il pezzo rotto. Tom continuò: «Domani è domenica. Lunedì troviamo il pezzo, sempre che lo troviamo, e probabilmente non riusciamo a montarlo prima di martedì. Senza i ferri, senza comodità... sarà un lavoro da cani.» Passò sul suolo l'ombra d'un avvoltoio, e tutti alzarono le teste per vedere il nero uccellaccio del malaugurio.
Il babbo disse: «La mia paura è che i soldi finiscano prima che s'arrivi là. Tutte queste bocche da sfamare, e olio e gomme e benzina... Se finiscono i soldi cosa si fa?»
Wilson disse: «E' tutta colpa mia. Questa vecchia carretta non ha fatto che procurarci guai. Voialtri siete stati anche troppo buoni con noi. Ora però dovreste piantarci qui e tirare avanti. Io e Sairy si vedrà di cavarcela in un modo o in un altro, ma non vogliamo mettere anche voi nei pasticci.» Il babbo replicò solenne: «Questo mai. Siamo quasi parenti adesso. Il nonno è morto nella vostra tenda.»
Sairy Wilson mormorò con un sospiro: «Non v'abbiamo portato altro che guai, altro che guai...» Tom stava facendosi una sigaretta e pareva non prestare orecchio a questi discorsi. Si asciugò col berretto il sudore dalla faccia e disse: «Avrei un'idea. Probabile che non vi sfagioli, ma ecco qui. Prima s'arriva in California, e più presto si fa la grana. Ora ecco qui la mia idea. Si carica tutto sul camion e voi andate avanti, mentre il predicatore e io restiamo qui con la macchina. Fatta la riparazione si riparte e, viaggiando giorno e notte, vi si riprende, perché cammina più svelta del camion. E se per caso vi succede un guasto, v'accampate e ci aspettate. Se invece non vi succede niente, e nel caso che non vi raggiungiamo appena arrivate trovate lavoro, e tutto è risolto.
La famiglia riunita prese a considerare la proposta. Zio John s'accoccolò accanto al babbo. Al disse:
«Non credi d'aver bisogno di me per montare la biella?»
«Hai detto te stesso che non ne hai mai montata una.»
«Sì, certo,» riconobbe Al, «ma è un lavoraccio. E poi probabile che il predicatore non vuol rimanere.»
«Be', senti, uno o l'altro, cosa vuoi che m'importi,» disse Tom.
Il babbo si grattò dietro l'orecchio. «Penso che Tom ha ragione. A cosa serve se si resta tutti?
Possiamo ancora fare un centinaio di chilometri prima di notte.»
La mamma, preoccupata, domandò a Tom: «E come fai, poi, a ritrovarci?»
«Oh, si resta sempre sulla 66, non c'è da sbagliare.»
«Sì, ma dopo? Quando s'è in California. Supponi che non ci raggiungi.»
«Non preoccuparti,» la rassicurò Tom. Vi troveremo, sta' tranquilla. La California è mica un mondo.»
«Ho visto la carta, m'è sembrata immensa.»
Il babbo volle conoscere il parere di zio John. «John, vedi qualche ragione per cui si dovrebbe respingere l'idea di Tom?» «No,» disse John.
«E voi, signor Wilson, la macchina è vostra, avete niente in contrario che Tom la ripari e poi ci raggiunga?»
«Tutt'altro,» rispose Wilson, «vorrei anzi restare a dargli una mano.»
Tom lo dissuase: «E' meglio se voi continuate il viaggio. Più presto arrivate, più presto cominciate a far quattrini. Comunque, restar qui tutti è una fesseria. Non c'è acqua, non c'è niente. Casy, voi che ne dite di restare qui a darmi una mano?»
«Io,» rispose il predicatore, «faccio tutto quello che è meglio per tutti; m'avete accettato fra voi, son pronto a fare quel che volete.»
«Vi toccherà di mettervi sulla schiena sotto la macchina e d'impiastricciarvi tutta la faccia d'olio,» disse Tom.
«Oh, per me, va benissimo.»
Il babbo concluse: «Allora, se s'ha da far così è meglio decidersi ad alzare i tacchi. Si può ancora fare un centinaio di chilometri prima di notte.»
La mamma s'avvicinò e venne a mettersi di fronte al marito. «Io non vengo» dichiarò.
«Non vieni? E perché mai? Tu devi venire. Hai da badare alla famiglia.» Il babbo era sbalordito per quella ribellione.
La mamma s'avvicinò alla macchina, si sporse all'interno frugando sotto i sedili posteriori e ritirò il braccio brandendo la manovella d'avviamento. «Io non vengo,» ripeté.
«E io ti ordino di venire. Ormai abbiamo deciso.»
Allora la mamma assunse un'espressione di ostinatezza che nessuno le aveva mai visto in volto, ma disse con la massima calma: «E io ti dico che l'unico modo per farmi venire è di picchiarmi. Ma son pronta a difendermi. E senza lagrime, senza implorazioni.» Continuava a stringere la manovella facendola ruotare minacciosamente. «Giuro a Dio che rompo la testa al primo che mi mette le mani addosso.»
Il babbo si guardò sgomento attorno. «E' ammattita, disse, «non l'ho mai vista così.» Ruth sghignazzò nervosamente. «E non è una bambina,» concluse il babbo.
Tutta la famiglia assisteva immobile alla ribellione della mamma. Gli occhi di tutti si posarono sul babbo, aspettandosi di vederlo montare in bestia, di veder le sue mani inerti serrarsi a pugno. Ma l'ira non traboccò, le mani restarono inerti. E di colpo il gruppo capì che la mamma aveva vinto. La mamma anche lo capì. Perché parlò a Tom, con dolcezza, ma con gli occhi ancora duri: «E' un'idea che t'è venuta senza riflettere. Non ci resta più niente al mondo, salvo l'unione della famiglia.
Appena partiti, il nonno si fa seppellire...»
Tom la interruppe esclamando: «Ma mamma, noi vi si raggiunge, mica vogliamo svignarcela.»
La mamma continuava a brandire la manovella. «Supponi che non ci trovi. Supponi che siamo accampati e che passando non ci vedi, supponi che non ci raggiungi, come facciamo a farti sapere dove siamo, e a chi l'andresti a chiedere per saperlo? La strada è dura,» proseguì. «La nonna è malata. Pare che voglia farsi seppellire anche lei. Il viaggio è lungo. Un calvario...»
Lo zio John intervenne: «Ma si potrebbe intanto mettere insieme un po' di quattrini. E risparmiarne, anche, di quattrini e di tempo, prima che Tom ci raggiungesse.»
Tutti gli occhi conversero di nuovo sulla mamma. Era lei che deteneva i poteri, che aveva preso il controllo della situazione. «Non sarebbe denaro che porta bene,» sentenziò. «L'unica cosa che ci resta è l'unione della famiglia. Come un branco di vacche assalite dai lupi, dobbiamo serrarci l'uno contro l'altro. I Wilson, il predicatore, sono padroni di fare quel che vogliono, ma se la mia famiglia si sbanda io perdo la testa e ricorro a questa spranga di ferro.» Lo disse in un gelido tono definitivo. Tom fece ancora un tentativo. «Mamma, via!, non ci si può fermare qui, non c'è acqua, non c'è ombra. La nonna, il sole le fa male...»
«Va bene,» ribatté la mamma, «se qui non si può stare, allora muoviamoci, andiamo a cercare l'acqua e l'ombra, ma poi il camion torna a prenderti e a portarti a Santa Rosa per trovare il pezzo di ricambio. Mica vorresti andarci a piedi con questo sole, tutto solo, e se ti capita qualcosa, nessuno della famiglia per darti una mano.
Tom si sentì cadere le braccia. «Hai vinto, mamma,» disse. «Ma ora metti via quella manovella sennò va a finire che colpisci qualcuno...»
La mamma guardò con meraviglia l'arma che teneva in mano, e vide che la sua mano tremava. Lasciò cadere la manovella e Tom la raccolse, con comiche mosse di finta paura, e la rimise nella macchina. Disse: «Babbo, faresti meglio a rimetterti in piedi, ormai. Al, tu mettiti al volante del camion e portali tutti dove possono attendarsi, e poi torna qui col camion. Intanto io e Casy smontiamo il motore. Poi, se ce la facciamo, andiamo a Santa Rosa stasera stessa. Al sabato sera chiudono più tardi, e può darsi che troviamo ancora qualcuno. Lasciami solo la chiave inglese e le pinze del camion.» Si cacciò sotto la vettura e individuò la coppa dell'olio: «Lasciami anche una bacinella, o la secchia, per coglier l'olio.» E come Al gliela porse coi ferri, Tom la spinse sotto la macchina, e con la chiave inglese cominciò ad allentare il bocchettone dell'olio. Mari mano che svitava, l'olio nero gli scendeva giù dal braccio raccogliendosi silenziosamente nella secchia.
Quando la secchia fu piena a metà, Al aveva già caricato tutta la famiglia sul camion e stava avviandosi. Tom gli gridò tra le razze della ruota, la faccia già tutta impiastricciata: «Torna presto!» E prese a svitare i dadi del blocco motore, metodicamente e secondo le regole, allentandoli ad uno ad uno d'un sol giro per volta, per non danneggiare la guarnizione.
Il predicatore s'inginocchiò presso le ruote e chiese: «Cos'è che devo fare?»
«Niente, adesso. Dopo che l'olio è uscito tutto, e ho svitato tutti i bulloni, mi aiuterai a smuovere la base.» Lavorava senza sosta. «Ancora caldo il terreno, qua sotto.» E, dopo un po': «Com'è, Casy, che non ti si sente più, da un po' di giorni a questa parte? Puttana della miseria! Quando t'ho incontrato l'altro giorno, non c'era modo di farti star zitto un momento. E ora sono due giorni che avrai messo insieme sì e no dieci parole. Che diavolo t'è preso?»
Casy si allungò bocconi, per vedere sotto la macchina, col setoloso mento appoggiato sul dorso d'una mano, il cappello sulla nuca. «Ho parlato tanto, quando facevo il predicatore, che mi basta pel resto della vita,» disse.
«Già, però t'ho anche sentito fare dei discorsi sensati...»
«Eh, ho un sacco di problemi. Quand'ero predicatore, mica me n'accorgevo, ma facevo proprio una bella vita, capisci. Penso che dovrei prender moglie, ora che non faccio più il predicatore. Vedi, è la libidine che mi perseguita.»
«Anche a me. La sera che son venuto via da McAlester, ero fuori dai gangheri, e mi capita tra i piedi una troia. Non ti dico quel ch'è successo. Non lo direi a nessuno.»
Casy rise. «Me lo immagino. Una volta ch'ero stato a far l'eremita, al ritorno m'è successo la stessa cosa.»
«Sì, anche te, vero? Adesso, guarda qui, stai attento, io levo questo dado, tu chiappa quel bullone, e portiamo giù la base pian piano. Bada alla guarnizione. Viene via d'un sol pezzo. Son solo quattro cilindri in questo vecchio tipo. Ne ho già smontato uno tempo fa. Grossi come meloni. Giù, adesso, giù; così, allunga il braccio e stacca la guarnizione dove s'è incagliata; così, piano. Fatto.» La testata era finalmente a terra, con ancora un po' d'olio nelle coppette. Tom immerse le dita in una delle anteriori e ne cavò alcune schegge di metallo antifrizione. «Eccola.» Le esaminava rivoltandole tra
le dita. «L'albero è in su. Prendi la manovella, e giralo finché dico basta.»
Casy s'alzò, trovò la manovella e l'innestò. «Pronto?»
«Pronto. Gira. Piano. Ancora un po'. Un altro po'. Basta.»
Casy si rimise in ginocchio per guardar sotto. Tom scuoteva la biella contro l'albero. «Eccola.» «Cosa credi sia stato?» domandò Casy.
«Chi lo sa. Son tredici anni che lavora, capisci. Il contachilometri segna 90000, il che vuol dire 190000, e Dio solo sa quante volte l'hanno azzerato. Si scalda, capisci, qualcuno ha lasciato mancar l'olio, e s'è fusa.» Levò le coppiglie e applicò la chiave inglese sul dado d'una biella, fece forza per svitarlo e la chiave scivolò via. Una lunga ferita apparve sul dorso della sua mano. Tom se la guardò: il sangue sgorgava copioso e unendosi ai rigagnoli d'olio stillava nella secchia.
«Brutto taglio,» osservò Casy. «Vuoi che provo io mentre tu ti fasci la mano?»
«Macché! Son mai riuscito a smontare un motore senza tagliarmi. Ora ch'è fatta non l'aspetto più.» Riapplicò la chiave. «Potessi avere una chiave a rullini,» mormorava, martellando la chiave col pugno finché riuscì ad allentare i bulloni. Li svitò completamente e li lasciò cadere nella base insieme con gli altri e con le coppiglie. Svitò poi i bulloni della biella e levò il pistone. Depose biella e pistone nella base. «Fatto perdio!» Venne via di sotto alla macchina, rimorchiandosi dietro la base. S'asciugò la ferita con un pezzo di tela e la esaminò. «Sanguina come un figlio di puttana,» osservò, «ma faccio presto a fermarla.» Orinò in terra e fece un impacco sulla ferita col fango che ne risultò. L'efflusso cessò quasi subito. «Niente di meglio, per far cessare il sangue,» disse.
«Anche la ragnatela è un ottimo rimedio,» disse Casy.
«Sì, ma la ragnatela l'hai mica sempre sotto mano, mentre una pisciata la puoi sempre fare.» Si sedette sul predellino e ispezionò il cuscinetto rotto. «Se adesso riusciamo a trovare una Dodge dello stesso modello con una biella usata è probabile che ce la facciamo. Chissà diavolo dove s'è cacciato, Al.»
L'ombra del cartellone misurava ormai una ventina di metri. Il giorno languiva. Casy s'accomodò anche lui sul predellino, lo sguardo volto a ponente.
«Tra poco avremo le montagne,» disse, e dopo qualche secondo di silenzio: «Tom!» «Che c'è?»
«Tom, tutte quelle macchine per la strada, quelle che ci sorpassavano e quelle che sorpassavamo noi: ho fatto il conto.» «Che conto?»
«Tom, sono centinaia, le famiglie come noi che vanno nel West. Ho osservato bene. Nessuna che vada ad est, centinaia. Te ne sei accorto?»
«Sì, sì.»
«Bene, è come... è come un esercito in fuga... Come un paese intero che trasloca...!»
«Già. E' un paese intero. Si trasloca anche noi.»
«Ora supponi che tutta 'sta gente... tutti noi, insomma... supponi che non si trovi impiego quando s'è là...»
«Ma va' all'inferno,» sbottò Tom. «Cosa vuoi che ne sappia io? Io non suppongo niente, io metto un piede davanti all'altro e basta. Come ho fatto per quattr'anni a McAlester, dalla cella alla mensa, dalla mensa all'officina, dall'officina al cortile. Diavolo! pensavo ch'era diverso fuori di lì. Fin che sei dentro, meglio non pensare a niente, sennò ti ci fai una malattia. Ma anche adesso conviene pensare a niente.» Si voltò verso il compagno. «Questo cuscinetto qui è partito. Non lo prevedevamo e perciò non ci dava noie. Ora è partito e noi ne mettiamo un altro. Così per tutto il resto. Figurati se voglio tormentarmi per quel che ha da venire. Adesso c'è questo maledetto guasto. Lo vedi? Lo vedi? Bene, ora come ora è l'unica cosa al mondo che mi preoccupa, puttana della miseria! Ma quell'Al, dove diavolo si sarà cacciato?»
Casy disse: «Senti, Tom... Oh, al diavolo! E' così maledettamente difficile dire qualcosa!»
Tom tolse l'impiastro dalla mano e lo buttò via. Il labbro della ferita era orlato di sporco. Scoccò un'occhiata di fianco al compagno. «Stai preparando una predica, no? Sfogati pure, mi piacciono le prediche. Il guardiano a McAlester non faceva altro. Lui si sfogava, perché aveva anche lui bisogno di sfogo, e a noi non ci dava nessuna noia. Cos'è che stai cercando di dire?»
Casy fece scricchiolare le nocche della mano. «E' difficile dire. Ma è certo che sta succedendo qualcosa di grave, nel paese; tutta 'sta gente che... come dici te, mette un piede davanti all'altro, non pensa mica dove va, non pensa a quello che troverà eppure continua ad andare, tutti nella stessa direzione... Se ti metti ad ascoltare, senti il fruscio, il ronzio, il del traslocare di tutta 'sta gente. E nessuno sembra rendersi conto che sta succedendo qualcosa di grave... Tutti questi mezzadri gettati sul lastrico... Ma sta succedendo una cosa che cambierà la faccia a tutto il paese.»
«E lascia che cambi, io continuo a mettere un piede davanti all'altro.»
«Già. E quando trovi un muro?»
«Se ho da scalarlo lo scalo.»
Casy trasse un sospiro. «Il sistema è buono, non dico di no, ma... non tutti i muri...» Tom lo interruppe: «Oh, finalmente, non è Al laggiù che viene?» «Pare.»
Tom s'alzò e avvolse la biella e i pezzi del cuscinetto nello strofinaccio. «Voglio assicurarmi che i pezzi siano identici.»
Il camion arrivò e Al si sporse dal finestrino.
«Dove diavolo t'eri cacciato? C'hai messo un sacco di tempo!» l'accolse Tom.
Al sbuffò: «Hai levata la biella?»
Tom gli mostrò l'involto. «Fusa la bronzina.»
«Mica colpa mia.»
«No, d'accordo. Dov'è che li hai lasciati, gli altri?»
«Che canaio! La nonna s'è messa a gridare come una indemoniata, e Rosatè che prende paura e si mette a gridare anche lei, con la testa sotto il materasso. Ma la nonna! A bocca spalancata ululava come un cane alla luna. Pare che non capisce più niente. Come un bambino. Non riconosce nessuno, non rivolge la parola a nessuno...»
«Dove li hai lasciati?» insisté Tom.
«Oh, in un camping. C'è ombra, e c'è l'acqua, in condotti. Costa mezzo dollaro al giorno fermarsi lì. Ma erano tutti così stanchi, e affranti e sfiniti, che han voluto fermarsi lo stesso; è soprattutto mamma che ha voluto, a causa della nonna. Han messo su la tenda dei Wilson e s'è fatta una tenda anche col nostro telone. Io credo che la nonna sia spacciata.»
Tom guardò il sole e disse: «Casy, qualcuno deve restare a guardia della vettura, sennò va a finire che ce la fregano. Non ti secca?» «Che, che! Resto io.»
Al tirò fuori un involto. «Ecco qui del pane e della carne che manda la mamma, e io ho pensato a portare una bottiglia d'acqua.»
«La mamma non dimentica mai nessuno,» osservò Casy.
Tom prese posto accanto ad Al, dicendo al predicatore: «Senti, torniamo appena possibile, ma non so dire quando.»
«Mi troverete qua.»
«Bene. Non stare a farti delle prediche. Su, Al, partenza.» Il camion si mosse. «Buon diavolo, quel Casy,» osservò Tom, «sempre a ragionare dentro la sua testa.»
«All'inferno,» commentò Al. «Probabile che lo faresti anche te, se fossi un predicatore. Il babbo è furioso d'aver dovuto sborsare il mezzo dollaro, solo per stare all'ombra d'un albero. Non si dà pace. Brontola e impreca che dovresti sentirlo. Dice che a momenti ci toccherà di pagare anche l'aria che si respira. Ma la mamma dice che si doveva aver ombra e acqua per via della nonna.» Il camion, ora che era scarico, scuoteva in tutte le sue parti, con grande frastuono. Al lo portò a sessanta, e il motore prese a ciottolare rumorosamente, e i fumi dell'olio bruciato a filtrare attraverso le tavole del pavimento.
«Non spingerlo tanto,» raccomandò Tom, «bada che scalda. Ma cos'è successo alla nonna?»
«Non so. Avevi notato anche te che da un paio di giorni era intontita, vero, stava lì senza dir niente a nessuno; adesso invece strilla e chiacchiera come una matta, e pare che creda di parlare col nonno. Urlando, per farsi sentire. Fa perfino paura. Ci sembra di vederlo lì fra noi, quel poveraccio, a ghignare, strizzando l'occhio alla nonna, come faceva sempre quando litigavano, ricordi? Ah, senti, il babbo m'ha dato venti dollari da consegnarti, per il pezzo di ricambio. Non sapeva quanto poteva costare. Visto che roba la mamma oggi? L'hai mai vista scagliarsi contro come oggi?»
«Mai. E' certo che ho scelto un momento buono per venir via da McAlester. M'immaginavo di far la vita tranquilla e d'alzarmi tardi, e di farmi chi sa che scorpacciate, e d'andare in giro a ballare, a spassarmela con le ragazze... Invece, guarda qui che roba!»
Dopo un silenzio, Al riprese: «Dimenticavo. Mamma m'ha detto di dirti un mucchio di cose. Dice di non bere, di non attaccar briga con nessuno, e tenere le mani a posto. Perché dice che ha paura che ti tiri addosso qualche altro guaio.»
«Con tutte le noie che ha, non c'è pericolo che gliene procuri io dell'altre,» disse Tom.
«Be', si potrebbe anche prendere una birra, che ne dici? E' un pezzo che ho voglia di una birra.»
«Mah. Il babbo è capace di montare in bestia, se ci paghiamo da bere.»
«Lo so, lo so, ma senti, Tom, io ho sei dollari, nessuno lo sa. Nessun male se ci divertiamo un po', ti pare?»
«Meglio serbarli, i tuoi sei dollari. La prima volta che andremo insieme sulla costa, in California, andremo a spassarcela. Allora sarà un'altra cosa, avremo lavoro. Ma finché non s'è sicuri del domani, meglio tenerli in tasca i dollari, chi ne ha.»
«Senti, quando hai ammazzato quel tale... hai mai... hai mai avuto degli incubi, non hai avuto paura?»
«No.»
«Ma come, non ci pensavi neanche?»
«Certo. Mi dispiaceva che era morto.»
«E non sentivi rimorsi?»
«No. Ormai l'ho scontata, ho pagato.» «Ma è proprio... proprio brutto... là dentro?
«Senti Al,» tagliò corto Tom innervosito. «Ho scontata la mia pena, e non voglio più saperne. Là c'è il ponte, poi c'è Santa Rosa, e dobbiamo trovare la biella, io non penso ad altro. Al diavolo tutto il resto.»
Passato il ponte, trovarono sulla destra della strada un deposito di vetture fuori uso: un acro di terreno circondato da un'alta siepe di filo spinato, al centro del quale si elevava una modesta baracca di lamiera. Dietro a questa baracca c'era un casotto costruito esclusivamente con vecchie cassette e con latte di benzina, che aveva per finestre dei parabrezza d'auto. Tutto il resto dell'area era occupato dagli avanzi di veicoli sfondati, telai contorti, spesso privi di ruote, motori arrugginiti, parafanghi ammaccati, ruote, carrozzerie, assi posteriori, alberi a gomito. Un mare di rottami; un putridume di relitti.
Al fermò il camion davanti alla baracca. Tom smontò e guardò dentro, nel buio. «Non si vede nessuno,» brontolò, e chiamò: «C'è nessuno? Gesù, speriamo che abbiano un Dodge del '25.»
Udendo sbattere la porta posteriore del casotto, guardò da quella parte e vide avvicinarsi il fantasma d'un uomo. Sulle ossa scheletrite e sui muscoli che parevano corde, non aveva che la pelle, sporca, unta. Un occhio era partito, e l'orbita vuota, scoperta, mostrava il contrarsi dei nervetti ad ogni movimento dell'occhio superstite. La lurida tuta che indossava era come inamidata dal fradiciume dei lubrificanti. Le mani callose erano istoriate di tagli e screpolature. Della bocca, si vedeva solo il labbro inferiore, pesante, carnoso, che sporgeva arrogante in una permanente smorfia di scherno.
«Siete voi il padrone?» domandò Tom.
L'occhio si animò. «Sono un dipendente. Cosa volete?»
«Avete una Dodge del '25? S'ha bisogno d'una biella.»
«Non so. Se ci fosse il padrone, potrebbe dirvelo; ma non c'è, è andato a casa.» «Possiamo dare un'occhiata in giro?»
Il fantasma si soffiò il naso in una mano e asciugò la mano sui pantaloni. «Siete di queste parti?»
«No. Si viene dall'est, andiamo nel West.»
«Guardate pure, per quel che me ne importa!»
«Non t'è molto simpatico, eh, il padrone?»
L'occhio mandò un lampo di odio. «E' un lavativo porco. Mi sfotte. Ha una figlia, una smorfiosa; e mi fa, ti piacerebbe sposarla, eh? Stasera prima d'andar via mi fa, non vai al ballo stasera?» Una lagrima gli velò l'occhio, e un'altra sgorgò dall'angolo del rosso alveolo vuoto. «Mi sfotte sempre. Un giorno o l'altro, perdio, un giorno o l'altro ho deciso di portarmi addosso una chiave inglese e quando dice così, mi guarda fisso l'occhio. E gliela spacco, la testa, oh se gliela spacco, gliela faccio rotolar via dal collo con un colpo solo.»
Al stava già eseguendo una ricognizione tra i rottami. «Ecco là, Tom, quella sembra una Dodge del '25 o del '26.»
Tom disse al guercio: «Allora possiamo dare un'occhiata?»
«Fate, fate, e portatevi via tutti i sacramenti che volete.»
Tom raggiunse Al, che s'era già cacciato sotto il telaio, e trovò che si trattava effettivamente d'una Dodge del '25, e che il motore era già smontato, e che una delle bielle era già stata asportata. «Prendi la manovella, Al. Fallo girare, piano. C'è una crosta di grasso dura come pietra. « Trovò un pezzo di legno e grattò via la crosta dal cuscinetto e dai bulloni. «Il gioco com'è? « domandò Al.
«Un po' ce n'è, ma non è male.»
«Non è troppo logora?»
«C'è un sacco di zeppe, ma sembra passabile. Dai un mezzo giro; piano. Sì. Credo può andare. Va' a prendere i ferri del camion.»
Il guercio disse: «Ve li do io.» Errò qualche momento nel labirinto dei rottami e non tardò ad arrivare coi ferri. Tom scelse una chiave a tubo e la passò ad Al. «Comincia, su. Vedi dove metti i dadi, le zeppe e le coppiglie; non perderle. Svelto, che si fa buio.»
Al si mise alacremente al lavoro. «Dovremmo procurarci tutta una serie di queste chiavi. Con quelle che abbiamo non si fa niente.»
«Se vuoi che ti dia una mano, dillo.»
Il guercio stava ozioso a guardarli. «Se volete, vi aiuto anch'io. Sapete cosa m'ha detto l'altro giorno quel figlio di puttana? Aveva i pantaloni bianchi, e mi fa, t'invito a una crociera sul mio yacht. Uno di questi giorni gli spacco la testa. Sfottermi così perché mi manca un occhio! Da quando ho perso l'occhio non sono mai più stato con una donna...» E grosse lacrime gli calavano giù per il naso. Tom s'impazientì. «Perché non lo pianti? Chi ti tiene qui?»
«Eh, piantarlo. Facile a dire. Ma non è facile trovare lavoro, con un occhio solo.»
«Sfido io, se lo tieni solo per piangere. Scuotiti, schiaffati una toppa su quel buco, e soprattutto lavati, che puzzi come un cesso; e smetti di frignare su di te. Cosa ti credi, di trovare una ragazza con quel buco nella fronte? Coprilo, diavolo, e lavati il muso. Inutile star lì a gemere, tanto non spaccherai mai la testa a nessuno.»
«Sapeste cos'è, avere un occhio solo. Non vedo mica come gli altri, io; vedo tutto piatto.»
«Piatto o tondo, contentati di vederci. Conoscevo una volta una troia, che le mancava una gamba. Credi che si rassegnasse a far la marchetta nei vicoli? Perdio non lei! Ti prendeva mezzo dollaro extra. Diceva: non a tutti capita d'andare a letto con una che ha una gamba sola, è una rarità che bisogna pagare, e che ti costa mezzo dollaro extra. E glielo davano, eccome se glielo davano, e se ne andavano convinti d'aver fatto un affare. Perché lei diceva che portava fortuna. Come un gobbo, che ho conosciuto; si metteva all'uscita dei cinema, e si lasciava toccare la gobba da chiunque, per
dieci cents. E' così che si fa. Un occhio di meno non è mica una catastrofe. Ti resta l'altro.» L'uomo disse, esitante: «La gente mi sfugge, le continue umiliazioni rendono cattivo.»
«E schiaffaci su una toppa, t'ho detto, invece di metterlo in mostra come una vacca il deretano. Comprati anche un paio di pantaloni bianchi. Vai a ballare, invece di prender sbornie da solo e pianger su di te grattandoti i pidocchi... Bisogno d'aiuto, Al?»
«No. Ho tolto il cuscinetto. Ora lavoro al pistone.»
«Bada a non ferirti.»
Il guercio disse: «Si può sapere dove andate?»
«California. Tutta la famiglia. A cercar lavoro.»
«Credete che uno come me, con la toppa nera sull'occhio, potrebbe trovar lavoro laggiù?»
«Perché no? Non sei mica un invalido.»
«E... pensavo, potreste prendermi con voi?»
«Eh no, siam già stretti come acciughe. Trova un altro modo. Metti insieme uno di questi rottami, e vattene per conto tuo.»
«Sì, forse lo farò, perdio,» dichiarò il guercio.
S'udì un rumore metallico. «Eccola finalmente!» annunciò Al.
«Portala fuori,» disse Tom, «fammela vedere.» Al gli consegnò il pistone, la biella e la parte inferiore del cuscinetto. Tom esaminò le parti con attenzione. «Mi sembra che vadano. Dio, avessimo una lampadina, potrei già montarla stasera. Ne avresti una, per caso?» domandò al guercio.
«Sì. Vecchia, ma ho cambiato la pila ch'è poco. Ho speso quindici cents. Ve la do com'è per trentacinque.»
«Va bene. E per questa biella e pistone cosa ti dobbiamo?»
Il guercio si grattò la fronte e ne staccò una crosta di sporco che contemplò con l'occhio superstite tra le unghie del pollice e dell'indice. «Non saprei. Il padrone, se fosse qui, guarderebbe nel catalogo dei pezzi di ricambio, e se dice per esempio otto dollari quando son nuovi, ve li metterebbe a cinque. E se protestate, li otterreste per tre. E' un porco figlio di puttana. L'ho visto incassare, per una ruota, più di quello che aveva sborsato per tutto il rottame.»
«Capito, ma quanto vuoi per questa roba qui?»
«Diciamo un dollaro. Va bene?»
«Va bene. E ti do venticinque cents in più per questa chiave a tubo.» Gli contò le monete nella mano. «Grazie, e schiaffaci la toppa su quel maledetto occhio.»
Tom e Al risalirono nel camion. Era buio fitto. Al avviò il motore e accese i fari e raggiunse la strada. Tom disse: «Chi m'avesse detto che trovavo la roba stasera, gli avrei dato del matto.» «Probabile che riusciamo perfino a montarla,» disse Al. «Ma devi farlo te, perché io ho paura di stringere troppo, e allora fonde; o troppo poco e allora sciagatta.»
«Faccio io, faccio io,» assicurò Tom. «Alla peggio si sfascia di nuovo, e la riaccomodiamo.»
Al non replicò. Guardava intento la strada. Il camion procedeva traballando e faceva ogni sorta di rumori. Un gatto saltò sulla strada e Al sterzò per metterlo sotto, ma fece fiasco, e il gatto tornò d'un salto nell'erba. «C'è mancato poco,» commentò Al. «Senti una cosa, Tom. Connie dice che vuole studiare in casa la sera. Potrei farlo anch'io, cosa dici? Radiotecnica, o televisione, o motori Diesel; roba del genere. Si può far strada, non credi?»
«Probabile,» disse Tom. «Ma prima guarda quanto ti scuciono per le lezioni; e secondo bisogna vedere se intendi fare tutto il corso. Ce n'erano dieci o dodici, a McAlester, che avevano cominciato quei corsi per corrispondenza; non uno che li abbia finiti. Si stufavano tutti presto e lasciavano perdere.»
«Perdio, ci siamo dimenticati di prendere qualcosa da mangiare,» disse Al, d'un tratto.
«Oh, Casy non avrà mica mangiato tutto. Qualcosa ci avrà lasciato. Mamma ha mandato tanta di quella roba. Chi sa quanto c'impiegheremo per arrivare in California.»
«Dio solo sa.»
Cadde il silenzio. Nella buia volta del cielo le stelle luccicavano bianche come teste di spillo.
Quando raggiunsero la Dodge, Casy ne uscì e venne loro incontro. «Non v'aspettavo così presto,» disse.
Raccogliendo i pezzi di ricambio, Tom rispose: «S'ha avuto fortuna. Ho perfino trovato una lampadina. Mi metto subito al lavoro.» «Ma prima mangiate,» consigliò Casy.
«Mangerò dopo. Su, Al, vieni a tenermi la lampadina. Si avviò direttamente alla Dodge e s'infilò, di schiena, sotto la macchina. Al si distese sulla pancia e orientò la luce della lampadina. «Non ficcarmela negli occhi,» protestò Tom, «più su.» Introdusse il pistone nel cilindro, facendo voltare e rivoltare. «Credo che andrà benone.» E chiamò: «Casy!»
«Che c'è?»
«Ora metto su il cuscinetto; prendi la manovella, e quando te lo dico gira piano.» Strinse i bulloni. «Su, ora, gira.» E mentre l'albero a gomiti girava, Tom cercava di adattarvi il cuscinetto. «Troppa morchia,» brontolò Tom. «Ferma, Casy.» Tolse i bulloni, ne rimosse il grasso e li rimise. «Prova di nuovo, Casy.» E saggiò il gioco della biella. «Ancora un po' lenta. Devo serrare un po' di più i dadi. Purché poi non resti troppo stretta.» Serrò i dadi. «Prova un po' ora, Casy.» «Mi pare che va bene,» disse Al.
«E' più duro a girare, Casy?»
«No, non mi pare.»
«Sì, credo che ormai qui va bene. Speriamo che resista. Fortuna che ho questa chiave a tubo.»
Al disse: «Chissà la rabbia del padrone del deposito quando vede che non c'è più.»
«Peggio per lui. Mica l'ho rubata.» Batté le coppiglie a posto e ne ripiegò le estremità. «Credo che vada. Ehi, Casy, ora tieni tu la lampadina, mentre io e Al rimettiamo la testata.»
Casy si mise in ginocchio e diresse la luce sulle quattro mani che lavoravano solerti, efficienti, robuste. Posarono delicatamente la guarnizione, stringendo i dadi a turno un giro per volta. «Ci siamo,» disse Tom. Serrò ben chiuso il bocchettone di scarico dell'olio. «Ora rimettiamo l'olio.» Vennero via tutt'e due di sotto alla vettura e cominciarono a versare l'olio. Tom passò un'accurata ispezione alla guarnizione per assicurarsi che non ci fossero perdite d'olio.
«Su, Al, dagli la via.» Al si sedette al volante e mise in moto. Il motore partì, con un rombo, emettendo una nuvola di fumo dallo scappamento. «Da' gas e poi molla.» Ascoltò attentamente. «Va bene. Spegni. Credo che ce l'abbiamo fatta. Dov'è la cena?» «Sei un buon meccanico,» disse Al.
«Ho lavorato in officina un anno. Meglio andar pianino, per i primi trecento chilometri; la biella deve adattarsi, capisci?»
Usarono lo strofinaccio per pulirsi le mani e se le asciugarono sui pantaloni. Poi diedero l'assalto all'arrosto e smaltirono tutta l'acqua della bottiglia.
«E ora cosa si fa?» domandò Al. «Si va a dormire al camping?»
«Mah, capaci di farci pagare mezzo dollaro anche a noi. Però si potrebbe andare lo stesso, solo per parlare con gli altri.... dirgli che s'è aggiustata la macchina. Se poi ci vogliono far pagare veniamo via. Vorranno sapere cosa s'è fatto. Son proprio contento che la mamma oggi ci ha fatto fermare tutti. Da' un'occhiata attorno con la lampadina, Al, vedi se non s'è dimenticato niente. La chiave a tubo ci può ancora servire. Allora si va. Guido io la Dodge, tu prendi il camion.»
Tom avviò il motore. Casy prese posto accanto a lui. Tom partì adagio, seguito dal camion. Attraversarono il largo fosso di prima. Anche sull'asfalto della strada Tom procedette a bassa velocità. Casy gli disse: «Buffo come voialtri sapete smontare e rimontare le macchine. Io potrei stare a guardarvi un mese di seguito, non imparerei mai.»
«Dovevi imparare da piccolo,» disse Tom. «Ma neanche basta imparare, bisogna nascerci. I bambini oggi ti smontano una macchina senza neanche pensarci.»
Un coniglio si trovò prigioniero nella luce dei fari e galoppava innanzi sbattendo le orecchie, incapace di sottrarsi al fascino del chiarore che lo accecava. Apparvero in lontananza i fari di un altro veicolo che procedeva nell'inversa direzione. Il coniglio rimase indeciso, poi si voltò e si slanciò contro i meno potenti fari della Dodge. Tom e Casy avvertirono la scossa morbida. «L'abbiamo schiacciato di certo,» disse Casy.
«Ci son tanti che sterzano apposta per metterli sotto,» disse Tom. «Ma a me tutte le volte mi fa effetto... La macchina va bene. Fuma anche poco.» «Hai fatto un buon lavoro,» dichiarò Casy.
Ai margini del camping s'ergeva una piccola casa in legno, la cui veranda era illuminata da una lampada ad acetilene appesa al soffitto. Attorno alla casa una mezza dozzina di tende, e accanto alle tende, le automobili. Le donne avevano finito di cucinare da un pezzo, e i fuochi andavano esaurendosi. Alcuni uomini s'erano raggruppati presso il portico nel cerchio di luce della lampada, luce bianca e cruda, che gettava sui cupi visi setolosi l'ombra nera delle tese dei cappelli e dava un curioso risalto ai loro profili. Chi sedeva sui gradini e chi in terra, i gomiti appoggiati al bordo del portico. Il padrone di casa, un ometto torvo e segalino, sedeva sotto il portico su una sedia con lo schienale appoggiato al muro e si tamburellava il ginocchio con le dita. Nell'interno della casa ardeva una lampada a petrolio, la cui luce risultava fioca al confronto di quella della lampada ad acetilene del portico.
Arrivando, Al entrò con l'autocarro nell'accampamento, mentre Tom fermò la Dodge sul lato della strada e si diresse a piedi con Casy verso gli uomini adunati attorno al padrone di casa. Questi si sporse in avanti riportando la sedia in posizione normale sulle quattro gambe. «Volete fermarvi qui?» chiese.
«No,» disse Tom, «ci sono i miei qui,» e con la testa fece un cenno di saluto al babbo, seduto sul primo gradino.
Il babbo disse: «Avevo paura che ci voleva una settimana. Riparata?»
«S'ha avuto una fortuna del diavolo. Ho trovato la biella prima di buio. Si può anche partire appena fa giorno.»
«Meno male. Mamma è preoccupata. Nonna sragiona.»
«Al m'ha detto. Sta meglio, adesso?»
«Se non altro dorme.»
Il padrone disse: «Se preferite fermarvi, avete acqua e legna, vi costa mezzo dollaro e nessuno vi secca.»
«All'inferno,» disse Tom. «Se m'accomodo nel fosso non mi costa niente.»
Il padrone di casa si tamburellava il ginocchio. «Il vice-sceriffo passa la ronda, di notte. Potete aver grane. In questo stato c'è la legge contro il vagabondaggio.»
«Se vi do mezzo dollaro non sono un vagabondo, vero?»
«Proprio così.»
Gli occhi di Tom mandarono un lampo. «Il vice-sceriffo è mica vostro cognato, per caso?»
Il padrone si protese verso di lui. «Nossignore. E vi dico allora che qui non si ha neanche l'abitudine di attaccar discorso con degli sporchi bifolchi come voi.»
«Però i nostri dollari, quelli non vi fanno schifo, eh? Così, siamo tutti bifolchi noialtri, vero? Bifolchi però che si vergognerebbero di accettare da voi un nichelino.»
Gli uomini attorno s'erano irrigiditi, e se ne stavano silenziosi, immobili. Solo i loro occhi muovevano, nell'ombra delle tese dei cappelli, dall'uno all'altro dei due contendenti. Il padrone si grattò tra i peli del petto, guardando in giro le facce cupe e prive d'espressione. Dopo una lunga pausa eloquente, Tom credette opportuno lasciar correre, e disse: «Sentirmi dare del bifolco è una cosa che non mi va giù, ma lasciamo andare.»
Il padrone si sentì rassicurato. Aveva vinto. Poteva concedersi il lusso di ferire. Domandò: «Non avete mezzo dollaro in tasca?»
«Sì, l'ho. Ma posso averne bisogno. Non posso spenderlo solo per dormire.»
«Dio mio, dobbiamo tutti guadagnarci da vivere.»
«Già, soprattutto a spese dei bifolchi, vero?»
Il babbo disse: «Molla, Tom.» E al padrone: «Sentite, io ho pagato per la famiglia. Questo è mio figlio, perché non può stare?»
«Mezzo dollaro per veicolo,» disse il padrone.
«Ma lui il suo l'ha lasciato sulla strada.»
«Fa niente, è arrivato in macchina. Allora potrebbero tutti lasciar la macchina fuori e venire a dormire qui gratis.»
Tom propose al babbo: «Al può restare, al posto di zio John, che può venire con me e Casy a dormire in macchina.» Guardò il padrone: «Niente in contrario?»
Il padrone rifletté un istante ma s'affrettò a consentire, e disse, con un'aria di concessione: «Se resta a dormire lo stesso numero di persone che erano nel camion, non ho niente in contrario.»
Tom si fabbricò l'ultima sigaretta col residuo del tabacco e gettò via il pacchetto. Disse, accendendola: «Più presto si va via di qui, meglio è.»
Il babbo parlò genericamente, rivolto agli astanti: «Però è una vergogna. Gente come noi, che
s'aveva la terra nostra, la casa, e la famiglia riunita, adesso tutti sul lastrico, e vagabondi.» Un giovanotto magro, coi sopraccigli rossi, voltò la testa adagio e domandò: «Mezzadri?» «Sicuro. Ma una volta s'era padroni noi.» «Noi lo stesso,» mormorò il giovanotto.
«Fortuna che non durerà molto questa vitaccia,» riprese il babbo. «Appena in California troviamo lavoro e poi si riavrà un pezzo di terra nostro, con l'acqua.»
Un uomo maturo, che stava lì in piedi appoggiato al pilastro del portico, disse, rivolto al babbo: «Per parlare così, dovete avere un bel gruzzolo di quattrini.» Era vestito di stracci, e sporco da far paura.
«No,» disse il babbo, «ma siamo in molti a lavorare, e il lavoro non ci sgomenta. Le paghe là son buone, troveremo bene il modo di cavarcela.»
Lo straccione proruppe in una risata ironica. Tutte le teste si voltarono nella sua direzione, ed egli prese a tossire, spasmodicamente, con gli occhi rossi, e lucidi di lagrime. Quando riuscì a dominare la tosse, riprese a sghignazzare: «Le paghe della California, eh? Cristo, che paghe! Andate a coglier le arance, vero, le pesche, eh?»
Il babbo rispose dignitosamente: «Andiamo a cogliere quello che c'è. Hanno bisogno di manodopera.»
L'altro continuava a ridacchiare tra sé con voce soffocata.
Tom s'irritò. «Cosa c'è tanto da ridere?» gli domandò brusco.
Lo straccione abbassò lo sguardo in terra e disse, come parlando tra sé: «Io son stato là.»
Tutte le facce si voltarono verso di lui. La fiamma ad acetilene si abbassò, e il padrone s'alzò per ravvivarla mediante la pompetta. Lo straccione continuò: «E preferisco tornare al mio paese a morir di fame.»
Il babbo disse: «Cosa diavolo dite? Ho qui i prospettini, dove sta scritto che i salari sono alti. E ho letto sul giornale che han bisogno di manodopera per il raccolto della frutta.» Lo straccione si rivolse al babbo: «Non avete più casa al vostro paese?»
«No. La trattrice ci ha messo fuori.»
«Non avete più un buco qualunque dove rintanarvi se in California trovate che le cose non vanno?» «Perché non dovrebbero andare? Se fan tutta quella pubblicità, è segno che han bisogno di manodopera. Non ne avessero bisogno, spenderebbero mica tutti quei soldi per la pubblicità.»
«Sì, sì; la pubblicità ha ragione. Han bisogno di manodopera.»
«E allora perché sghignazzate?»
«Perché voi non avete idea di che razza di manodopera hanno bisogno.»
«Come sarebbe a dire?»
«Sentite qua. Su quel prospettino che dite voi, quanti uomini cercano?»
«Ottocento, dice il volantino. E soltanto in una zona sola. Ma hanno scarsità di manodopera dappertutto.»
«Cos'è, un foglietto arancione, per caso?»
«Proprio. Perché?»
«Perché lo conosco. Be', ora sentite. Quell'individuo, che ha bisogno di ottocento uomini, fa stampare cinquemila prospettini, e ventimila coloni nelle vostre condizioni li leggono. Voi arrivate sul posto, e v'attendate in un fosso, tra un centinaio di altre famiglie come voi. L'individuo viene a vedervi sotto la tenda, si guarda attorno e se vede che non avete più niente da mangiare vi fa: 'Cercate lavoro?' E voi dite: 'Sì,' e lui dice: 'Posso impiegarvi io,' e voi dite, 'Grazie, veniamo domani?' E vi dirà dove dovete presentarvi e a che ora. Ora cosa succede? Lui ha bisogno, poniamo, di duecento uomini. Offre lavoro a cinquecento, e questi ne parlano ai compagni, ai parenti, e l'indomani si presentano in mille, all'ora fissata. Allora il padrone dice: 'Pago venti cents all'ora.' La metà degli aspiranti si squaglia subito, naturalmente; ma gli altri cinquecento sono così affamati che lavorerebbero per un pezzo di pane. Al padrone conviene che siano in tanti, e il più possibile affamati. Cerca soprattutto le famiglie con molti bambini. Se date retta a me, non accettate lavoro senza prima far mettere le condizioni per iscritto. Altrimenti siete tutti fregati.»
Il padrone si sporse in avanti per meglio vedere lo straccione in faccia, si grattò tra i peli del petto e disse: «Mica siete per caso uno di quei... disfattisti, che seminano il panico tra la povera gente?...»
L'altro gridò: «No, giuro a Dio che non lo sono!»
«Il paese ne è pieno,» brontolò il padrone, «vanno in giro e spargono false notizie e fanno arrabbiare così i poveri come i ricchi... E' ora che si cominci sul serio a mandarli via. Noi vogliamo gente che lavora, non i sovversivi che vengono qui solo a combinare guai.»
Lo straccione si guatò intorno, si staccò dal pilastro e all'improvviso si allontanò, senza salutare nessuno, a passi rapidi, e scomparve nell'oscurità. Gli uomini adunati attorno al padrone di casa rimasero senza muoversi e senza parlare, imbarazzati.
Dopo un po', uno disse: «Si fa tardi, meglio andare a dormire.» Ma nessuno si mosse. Il padrone osservò: «E' probabilmente un vagabondo. Il paese ne è pieno.» Nessuno replicò. Tom disse: «Vado a dire due parole alla mamma, e poi me ne vado.»
La tribù dei Joad venne via con lui, diretta alla tenda. Il babbo disse: «E se diceva la verità, quel poveraccio?»
Casy disse: «Io son certo che diceva la verità. Quella che aveva vista lui. Resta da vedere se le condizioni che ha viste lui sono uguali dappertutto.» La mamma li sentì venire e venne loro incontro.
«Dormono tutti,» disse, «anche la nonna.» Poi riconobbe Tom nel buio e subito gli domandò, ansiosa: «Non hai avuto seccature? Come sei venuto?»
«Abbiamo riparato la macchina. Siamo pronti a ripartire con voi.»
«Dio sia lodato,» sospirò la mamma. «Partiamo il più presto possibile, questi son posti che mi fan paura; se non altro in California, il paesaggio...»
Il babbo la interruppe: «Mi diceva uno adesso che...»
Tom lo agguantò per il braccio. «Diceva che c'è una infinità di gente sulla strada.»
La mamma, sospettosa, scrutò in viso il figlio e il marito. Nell'interno della tenda, Ruth tossì nel sonno. La mamma disse: «Ho finalmente potuto lavare i bambini. Ho lasciato i secchi pieni per voi, se volete lavarvi.»
«Son tutti rientrati?» domandò il babbo.
«Tutti, tranne Connie e Rosatè. Dormono fuori, all'aperto. Dicono che fa troppo caldo sotto la tenda.»
Quella Rosatè si fa una smorfiosa,» osservò il babbo. «E' da compatire,» disse la mamma, «è per la prima volta in quello stato.»
Tom annunciò che andava a raggiungere la vettura. «Ci allontaniamo solo di due o trecento metri, e domattina quando passate voi, vi seguiamo.» «Al resta?» domandò il babbo.
«Sì. Zio John viene con me e Casy, vero zio John? Buonanotte, mamma.»
I tre vennero via, camminando incerti tra le tende nel buio della notte. Passando davanti alla casa, videro il padrone ancora seduto sotto il portico, nuovamente con la sedia su due gambe, sotto la lampada ad acetilene che si andava spegnendo. Nel sentirli passare, egli voltò la testa. Tom gli disse, in tono insolente: «Quasi esaurita, la scorta di gas.» L'altro replicò: «E' comunque ora d'andare a letto.» «Più niente mezzi dollari, per stasera,» motteggiò Tom.
La sedia riprese rumorosamente la sua posizione normale su quattro gambe. Il padrone ritorse, alzando la voce: «Smettete di stuzzicare, voi! Capace d'essere un disfattista anche voi.»
«Capacissimo,» ribatté Tom, «son bolscevico.» E ridendo forte trascinò i compagni fuori dall'accampamento. Trovarono la Dodge e vi presero posto. Ma prima di allontanarsi in vettura, Tom ridiscese, cercò un sasso e lo lanciò contro la lampada ad acetilene. Udirono il sasso colpire la casa e videro il padrone balzare in piedi e sporgersi in fuori e scrutare l'oscurità. Tom avviò il motore e si allontanò rapidamente, tendendo l'orecchio al pistone, per sentire se batteva in testa. La strada correva grigia sotto la debole luce dei fari.
CAPITOLO 17.
Da tutte le direzioni i profughi confluivano per strade secondarie sulla 66, diretti a occidente. Di giorno, i loro veicoli sgangherati formicolavano sull'asfalto, e sull'imbrunire si raggruppavano dove c'era acqua. Si raggruppavano perché sgomenti di sentirsi soli e spodestati; e facevano vita in comune, spartendo il vitto, le ansie e le speranze. Così accadeva che una famiglia a sera faceva sosta in un dato punto solo perché c'era l'acqua, e la seconda che sopraggiungeva vi si fermava solo perché trovava compagnia; e la terza si fermava perché le prime due avevano trovato acqua e compagnia. E prima di notte la nuova comunità poteva risultare di una ventina di famiglie, che venivano curiosamente a fondersi in una sola tribù. I bimbi delle singole famiglie diventavano bimbi di tutti, la perdita delle singole case diventava una perdita sola, le dorate illusioni sul West diventavano un solo sogno comune. E poteva accadere che un bimbo ammalato, costernasse venti famiglie, o che l'arrivo di un neonato rallegrasse cento persone. Attorno ai fuochi serali le cento persone formavano una unità. Qualcuno tirava fuori una chitarra, l'accordava, accennava un motivo, e subito qualche altro cantava le parole e le donne gorgheggiavano l'accompagnamento.
Ogni sera si creava un mondo, si fondavano amicizie, sorgevano ostilità; un mondo fatto di animosi e vigliacchi, umili e superbi, buoni e cattivi; e ogni mattina quel mondo veniva smontato, come un circo.
A tutta prima, la presa di contatto tra sconosciuti generava un certo imbarazzo; le parole erano poche e non si facevano sentire se non dopo accurata riflessione da parte di chi doveva proferirle; ma a poco a poco ognuno acquistava la tecnica della costruzione di una comunità. E i capi non tardavano a venire in evidenza, e si formulavano leggi, entravano in vigore codici. E man mano che questi piccoli mondi di saltimbanchi procedevano verso occidente, le loro attrezzature andavano sempre migliorando, perché i singoli acquistavano ogni giorno un più alto grado di esperienza.
Così le famiglie imparavano gradatamente quali fossero i diritti che esigevano rispetto: il diritto di riservatezza d'ogni singola tenda, il diritto di tener celato in cuore il fosco passato, il diritto di ascoltare e di parlare, il diritto di rifiutare o di accettare aiuto, il diritto maschile di corteggiare e quello femminile di farsi corteggiare, il diritto d'avere appetito e di soddisfarlo; e imparavano, soprattutto, che i diritti delle donne incinte e delle persone ammalate trascendevano tutti gli altri diritti.
E imparavano ancora, senza che nessuno glielo insegnasse, quali fossero i diritti mostruosi che occorreva calpestare: il diritto di ingerirsi nelle cose private del vicino, il diritto di schiamazzare di notte, il diritto di sedurre e di fornicare, il diritto di rubare o di assassinare. Tutti cotesti diritti non erano riconosciuti, perché evidentemente il loro esercizio avrebbe impedito ai piccoli mondi di esistere per la sola durata d'una notte.
E man mano che i mondi procedevano verso ponente, le regole tacitamente adottate diventavano automaticamente leggi. Era illecito, quindi vietato, deporre immondizie nei pressi del campo; illecito, quindi vietato, orinare nella roggia; illecito, quindi rigorosamente vietato, consumar cibi delicati alla presenza di chi era affamato senza invitarlo a spartirli. E, come le leggi, così s'applicavano le sanzioni; che d'altronde s'esprimevano sotto due forme sole: l'ostracismo, o le botte. Quello assai più penoso di queste.
Così in seno ad ognuno di questi piccoli mondi veniva ad instaurarsi una specie di governo, coi suoi ministri consiglieri, coi suoi capi esecutivi, e al contempo una forma speciale di società d'assicurazione. Chi aveva da mangiare nutriva chi non ne aveva, e così assicurava contro la fame. E se un bimbo moriva, un mucchietto di monete non tardava ad apparire come per miracolo sull'ingresso della tenda della sua famiglia, perché il bimbo che muore, avendo ottenuto così poco dalla vita, ha almeno diritto ad una onesta sepoltura: un vecchio, lo si può sotterrare alla meno peggio, ma il bimbo no.
Alla creazione di ogni singolo mondo occorrevano certi indispensabili ingredienti di base: l'acqua, anzitutto, di fiume o ruscello, di fonte o stagno; un pezzo di terreno pianeggiante, sufficiente a rizzarvi tutte le tende; e un boschetto, per alimentare i fuochi; e se possibile un fosso pei rifiuti. E i mondi venivano allestiti la sera e smontati la mattina, e man mano che si spostavano verso occidente, la tecnica del loro montaggio e smontaggio progrediva. Ogni singolo membro della grossa famiglia cresceva, maturando, nel posto che il codice del campo gli assegnava, e di propria iniziativa sbrigava i doveri che gli competevano: i piccoli andavano per legne e per acqua, gli uomini rizzavano le tende, le donne preparavano la cena. Tutta quella gente, che nel passato aveva avuto per confine diurno il campo e per confine notturno il casolare, ora viveva giorno e notte sulla strada; di giorno, corazzata nel silenzio della meditazione e cullata con le sue speranze dagli ondeggiamenti dei veicoli, ma di sera propensa alla socievolezza e alle ciarle.
Così la vita sociale dei profughi si veniva trasformando radicalmente, e i singoli si adattavano al mutamento con quella facilità che è una prerogativa assoluta dell'essere umano. Non erano più coloni; erano nomadi. E la somma dei pensieri, progetti, silenzi che prima erano tutti rivolti al podere, ora puntava sulla strada, sulle distanze da coprire, sul West. Le menti già delimitate da ettari ora spaziavano in miglia. Le preoccupazioni non dipendevano più dalle tempeste, dai venti o dalla polvere, nemici giurati dei raccolti, ma dai pneumatici, da battiti sospetti dei pistoni, dalle idiosincrasie della distribuzione dell'olio. Un ingranaggio rotto era una tragedia. L'acqua serale era la più alta aspirazione delle comodità. Le volontà di tutti puntavano ad occidente, e le paure che una volta s'originavano solo dalla siccità o dall'inondazione, ora si concretavano di fronte a qualsiasi cosa potesse arrestare il moto di traslazione verso ponente.
E sulla strada il panico, spesso, si faceva così imperioso che alcune famiglie decidevano di non più far sosta, ma di viaggiare senza interruzione giorno e notte; per arrivare più presto, per sottrarsi al tormento della strada, alla schiavitù della fuga. Così avide erano di fermarsi, che forzavano la velocità, pericolosamente.
Ma queste famiglie rappresentavano l'eccezione alla regola. Le più si adattavano alla trasformazione. Appena il sole tramontava... E' ora di cercare un posto per attendarsi, To', ecco proprio là un camping.
Il veicolo rallentava, usciva dalla strada pian piano, e il capofamiglia si sporgeva dalla finestra: gli attendati, giunti prima, avevano diritto a certi riguardi.
E' permesso fermarci con voi per la notte?
Come no? Ci fate un piacere. Da che parte venite?
Dall'Arkansas, direttamente.
Troverete dei compaesani nella tenda n. 4.
Che fortuna! L'acqua com'è?
Poh, un po' cattiva di sapore ma è abbondante.
Grazie.
Prego.
I riguardi erano di rigore. Il veicolo avanzava, traballando, fino all'estremità del campo, e rigettava i suoi esseri animati, che appena a terra si stiravano le membra irrigidite. E una nuova tenda s'aggiungeva alle altre, i piccolini andavano per acqua, i più grandicelli per legne, il fuoco crepitava e la pentola si metteva a brontolare. Sopravvenivano subito i vicini, tra cui spesso qualche conoscente, talora un parente:
Oklahoma? Che contea?
Cherokee.
Oh, ci ho dei parenti, da quelle parti. Non conoscete gli Allen? Conoscete i Willis?
Sì, i Willis, sicuro! (Ed ecco che il campo si arricchiva subito di un elemento ritenuto desiderabile. La voce passava di tenda in tenda. Buona gente, si sa chi sono.) E conosco anche il vecchio Simon Allen. Quello che aveva sposato in prime nozze una mezza forestiera, sicuro. Non era stata una scelta molto felice, eh?
Già, povero vecchio. Suo figlio, Simon anche lui, sposò una Rudolph, ho sentito dire, vero? S'è trasferito a Enid, ho sentito, e se la passa bene, pare.
Infatti. E' il solo Allen che sia mai riuscito a fare qualcosa di buono.
Portata l'acqua e spezzate le fascine i bambini si avventuravano cauti e curiosi tra le tende vicine, ricorrendo a complicate manovre d'approccio per introdursi presso i coetanei. Uno, ad esempio, si chinava a raccogliere un sasso, lo esaminava attentamente, ci sputava su, se lo strofinava sui pantaloni e lo ispezionava di nuovo fino a che lo sconosciuto coetaneo non poteva astenersi dal domandare:
Cos'hai trovato?
Oh, niente. Solo una pietra.
E perché la guardi tanto?
Mi pareva d'averci visto dell'oro.
Storie. Sulla pietra l'oro non è d'oro, ma nero.
So anch'io... e un'alzata di spalle, per non compromettersi oltre.
Sarà oro finto, e l'ha preso per buono.
Macché, mio padre ha trovato tanto di quell'oro, e m'ha insegnato a guardare.
Sarebbe bello, eh, trovare un grosso pezzo d'oro?
Io l'ho trovato, sai. Un bastardone d'un pezzo enorme così, un puttanone con tutti i sacramenti. Uh, parolacce. Le so anch'io, sai. Non mi lasciano, ma io le dico lo stesso.
Anch'io. Andiamo alla fonte, vieni.
E le bambine incontrandosi si vantavano della propria popolarità e delle proprie speranze.
Le donne s'affaccendavano sul fuoco, intente a provvedere nutrimento alla famiglia: maiale arrosto con patate e cipolle se c'era denaro in casa, polenta e fagioli in caso contrario, ma in ogni caso con abbondanza di sugo per intingervi il pane. Quei pochi che potevano spendere con una certa larghezza si concedevano qualche barattolo di frutta in conserva col panettone, ma in segreto, nella propria tenda, perché apertamente sarebbe stata una grave mancanza di tatto. Anche con questi riguardi, i bimbi razionati a polenta si sentivano infelici se coglievano il profumo dell'arrosto. Finita la cena e lavati i piatti, gli uomini s'accoccolavano a conversare, rievocando la terra che avevano dovuto abbandonare.
Di questo passo dove si va? E' la rovina del paese.
Finirà che le cose si raddrizzeranno un giorno, ma noi non saremo più qui.
E parlavano, con tenerezza, dei casolari. Avevo un amore di ghiacciaia, sotto il mulino. Ci tenevo il latte, e i meloni. A mezzogiorno era fresca come una grotta. I meloni, così gelati che scottavano la lingua. Ci pioveva dentro; l'acqua di sopra filtrava.
E parlavano con solennità delle loro tragedie. Avevo un fratello, caro ragazzo, biondo come un angelo. Suonava tanto bene la fisarmonica. Un giorno arava, ed ecco trova un serpente a sonagli, e il cavallo si inalbera per lo spavento e il poveretto va sotto l'aratro e il vomere gli taglia netto la testa.
E parlavano, dubitativamente, dell'avvenire. Chi sa mai cosa troviamo laggiù.
Mali, dalle cartoline par bello. Ne ho vista una che si capiva subito che son paesi dove fa caldo, alberi tropicali, fiori di tutti i colori, e lì a due passi una grossa montagna tutta coperta di neve. Bello.
Se si trova lavoro, certo che dev'esser bello. Inverni caldi, i bambini possono continuare le scuole. Io ci tengo che finiscano le scuole. Per conto mio non sono un professore, ma leggo correntemente, e voglio che finiscano gli studi.
E uno tirava fuori la chitarra, si sedeva su una cassetta davanti alla sua tenda, e alle prime note i vicini gli si adunavano attorno, come falene attratte dalla fiamma di un lume. Son tanti che pizzicano la chitarra, ma questo qui è bravo: un artista. Senti come martella l'accompagnamento sulle corde basse, mentre la melodia corre lieve in punta di piedi su quelle alte.
L'uomo sonava e la gente gli si stringeva addosso e allora l'uomo prendeva a cantare "Cotone a dieci cents e Carne a quaranta". E gli spettatori facevano coro. E cantava "Perché vi tagliate i capelli, ragazze?" e gli spettatori cantavano con lui. E cantava "Addio vecchio Texas", la vecchia canzone che già gli indiani cantavano prima degli spagnoli.
Ed ecco il gruppo fuso in un monoblocco, così che al buio gli sguardi diventavano introspettivi e le menti spaziavano in tempi tramontati. L'uomo cantava "McAlester Blues", e poi, per compiacere i vecchi, cantava "Gesù mi ha chiamato al suo fianco". Cullati dalla musica i bambini sonnecchiavano e le mamme li portavano sotto le tende a dormire e a sognare di musiche celesti. E dopo un poco il suonatore s'alzava, e sbadigliando dava la buonanotte alla compagnia. E la compagnia mormorava: Buonanotte a voi, e grazie.
E ognuno avrebbe in cuor suo voluto saper suonare la chitarra, perché è una cosa graziosa che richiede garbo. Poi tutti si sdraiavano sui giacigli e l'accampamento piombava nel silenzio. E le civette prendevano possesso della scena e in lontananza guaivano i coyotes e tra le tende le faine, petulanti, arroganti, paurose di nulla, furettavano in cerca di avanzi di cibo.
La notte passava e alla prima luce dell'alba le donne sbucavano fuori delle tende e accendevano il fuoco e mettevano il caffè a bollire. E poi uscivano gli uomini, e parlavano a voce bassa.
Passato il Colorado troviamo il deserto. Un inferno, dicono. Bisogna pensare alla provvista dell'acqua.
Io ho deciso di farlo di notte.
Anche noi. Di giorno c'è da prendersi un'insolazione.
Le famiglie facevano colazione in fretta, e le donne lavavano e asciugavano le stoviglie. Le tende si afflosciavano. Subentrava la frenesia della partenza. E il sole sorgendo trovava il campo deserto, in attesa di ripopolarsi al tramonto, ma sulla stretta striscia d'asfalto che continuava all'infinito vedeva i veicoli dei profughi trascinarsi come scarafaggi in processione.
CAPITOLO 18.
Continuando a strascicare verso occidente, i Joad si addentrarono tra le guglie dell'altopiano del Nuovo Messico, finché s'affacciarono all'indentatura che domina il policromo deserto dell'Arizona. Lì furono fermati da una guardia di frontiera.
«Dove andate?»
«In California,» rispose Tom.
«Quanto tempo contate di fermarvi in Arizona?»
«Solo il tempo che occorre per attraversarla.»
«Niente da dichiarare? Piante? Semi?»
«Niente.»
«Devo passare la visita.»
«Vi dico che non abbiamo niente.»
«Niente? Be'.» La guardia appiccicò un'etichetta sul parabrezza. «Ma vi consiglio di tirar via alla svelta.»
«Più che si può, state tranquillo.»
E continuarono a inerpicarsi su e giù per i versanti delle montagne ricoperte d'una contorta vegetazione nana. Holbrook, Joseph City, Winslow. Poi gli alberi ingigantirono, e i veicoli s'arrampicarono faticosamente per i pendii, sbuffando vapore dai radiatori. E raggiunsero Flagstaff, il punto culminante della regione, e si lasciarono calar giù dall'altra parte, verso i grandi pianori che la 66 percorre a perdita d'occhio. L'acqua si faceva sempre più scarsa, bisognava pagarla cinque; dieci, quindici cents il gallone. E finalmente apparvero all'orizzonte le guglie frastagliate della muraglia occidentale dell'Arizona. Ansiosi di fuggire la siccità, non si fermarono quella sera; strascicarono tutta la notte per arrivare alle montagne e per scalarle con l'aiuto dei fari; e quando venne il giorno, i Joad videro finalmente, nella sottostante pianura, il fiume Colorado. Al ponte di Topock una guardia di frontiera staccò con una spugna l'etichetta dal parabrezza. Passarono il ponte e s'addentrarono nella rotta desolazione pietrosa. Ma la stanchezza e la calura ebbero il sopravvento, e si fermarono. Il babbo esclamò: «Eccoci! Ci siamo! Siamo in California!»
Tutti si voltarono indietro per guardare i maestosi bastioni dell'Arizona che si lasciavano alle spalle. Tom disse: «E adesso avremo il deserto. Cerchiamo prima un posto per riposare, sul fiume.»
La strada correva lungo il fiume, e fu solo a mattino avanzato che i motori bollenti arrivarono a Needles, dove il fiume corre rapido tra le canne. I Joad non tardarono a scoprire un campeggio in riva al fiume: undici tende sull'erba. Tom si sporse dal finestrino: «Possiamo fermarci qui con voi?» «Se volete,» rispose una donna grassa che lavava panni in una secchia, «mica siamo padroni noi.
Riceverete subito una visita da una guardia.»
I due veicoli si affiancarono nell'erba. I Wilson alzarono la tenda e i Joad il telone impermeabile. Ruth e Winfield si diressero lentamente tra i salici verso le canne. Ruth ripeteva, con vellutata veemenza: «California. Questa è la California, e noi ci siamo.»
Winfield spezzò un ramo di sambuco, ne tolse il midollo bianco e prese a masticarlo. Entrarono nell'acqua finché arrivò loro ai ginocchi e non s'avventurarono oltre. Ruth disse: «Abbiamo ancora il deserto.»
Winfield domandò: «Com'è il deserto?»
«Non so, ma ho visto una cartolina, dove c'erano ossa dappertutto.»
«Ossa umane?»
«Anche, ma specialmente di buoi.»
«E noi le vedremo, le ossa?»
«Forse. Non so, perché viaggiamo di notte, ho sentito Tom che lo diceva. Diceva che il deserto vi fa spirar l'anima, di giorno.»
«Bello, qui, al fresco,» concluse Winfield, affondando le dita dei piedi nella sabbia.
Udirono la mamma che li chiamava e fecero lentamente ritorno alla tenda. Nelle altre tende, nessuno si faceva vivo. Solo all'arrivo dei nuovi venuti, alcune teste si erano affacciate qui e là, ma per ritirarsi subito di nuovo. Tom disse: «Io vado a fare il bagno, prima di mettermi a dormire. La nonna come sta?»
«Non so,» rispose il babbo. «Non s'è svegliata.» Tese l'orecchio verso la tenda dei Wilson, dove avevano adagiata la vecchia, e donde ora veniva una specie di gemito. La mamma s'affrettò ad andare a vedere.
«S'è svegliata,» disse Noè. «Ricomincia a strillare. Non capisce più niente.»
«Stanchezza,» disse Tom. «Se non le diamo un po' di riposo, ho paura che dura più poco. Non ne può più. Io vado a fare il bagno, chi viene con me? Poi cerco un posto all'ombra e dormo fino a stasera.»
Si allontanò, e gli altri uomini lo seguirono. Si svestirono tra le canne, scesero in acqua e si misero a sedere. Stettero immobili per molto tempo, puntando i talloni nella sabbia per resistere alla corrente, solo con le teste fuor d'acqua.
«S'aveva bisogno d'un buon bagno,» disse Al. Per pulirsi si serviva della sabbia in luogo di sapone. Il babbo continuava a contemplare il baluardo dell'Arizona che avevano scalato. «Pensare che arriviamo di lassù,» diceva, meravigliato.
«Ora che siamo qui,» osservò zio John, «questa famosa California non sembra mica quella terra promessa delle cartoline.»
«C'è ancora il deserto,» disse Tom, «e pare che è un inferno.» «Lo tentiamo proprio stasera?» domandò Noè.
«Cosa ne dici, babbo?» domandò Tom.
«Sono indeciso. Un po' di riposo ci farebbe bene, specialmente alla nonna. D'altra parte, è bene sbrigarsi, per trovar lavoro al più presto. Ci restano sì e no quaranta dollari.»
Ognuno restava immobile sott'acqua a godersi le stratte della corrente. Solo il predicatore ogni tanto galleggiava facendo il morto. La pelle dei corpi era bianca fino al collo e ai gomiti, e tutti se la raschiavano con la sabbia. Noè disse: «Bello, star qui. Io vorrei restarci per sempre. Si pesca, non s'avrebbe mai fame, non si sarebbe mai tristi. Bello, oziare nell'acqua, come scrofe nel fango.» Tom disse: «Ma le arance e le casine bianche delle cartoline ho ancora da vederle.» «Aspetta che siamo in California,» disse il babbo.
«To', e non siamo in California?»
Il babbo non rispose perché apparvero in quel momento due uomini, in tuta e camicia blu, tra le
canne, e vedendo i bagnanti uno di essi domandò: «Sì può nuotare, qui?» Tom rispose: «Non abbiamo ancora provato, si sta bene così.» «Possiamo venire anche noi?
«Non l'abbiamo mica affittata. Ve ne cediamo un pezzetto.»
I due si, svestirono ed entrarono nell'acqua. Sembravano padre e figlio. Erano molto sudici. Il babbo domandò, affabilmente: «Diretti anche voi nel West?»
«No. Si ritorna dal West. Noi si torna a casa. Non c'è modo di guadagnarsi la vita laggiù.»
«A casa? Dove?»
«Florida. Vicino a Pampa.»
«Non avete trovato lavoro?»
«No.»
«E a casa vostra potete trovarne?»
«No. Ma almeno si può morire tra i nostri. Perché soffrire la fame tra gente che ci odia?»
Il babbo rifletté e disse: «Strano. Siete il secondo individuo che incontro e che parla così. Perché dovrebbero odiarci?»
«Chi sa.»
«E' un discorso che m'interessa,» borbottò il babbo.
«Anche a me,» disse Tom. «Perché dovrebbero odiarci, qui nel West?» Lo sconosciuto guardò Tom con un piglio curioso.
«E' la prima volta che ci venite?»
«Sì.»
«Mai stato in California?»
«Mai.»
«E allora non date retta a me. Andate a vedere coi vostri occhi.»
«E' quello che intendiamo fare,» confermò Tom, «ma questo non impedisce che si sia curiosi di sapere quello che si troverà.»
«Già. Ero curioso anch'io, se volete saperlo, quindi vi dirò quello che ne penso. E' un bel paese, non c'è che dire. Passato il deserto, s'arriva nei dintorni di Bakersfield, un paradiso, tutto orti e vigneti. Acqua in abbondanza, e una grande estensione di terreno che non è coltivato da nessuno. Ma non se ne può avere nemmeno un pezzettino da coltivare. Tutto terreno che appartiene alle società. E se le società non vogliono coltivarlo, il terreno deve restare sterile. Provatevi a piantarci un poco di granturco: vi schiaffano in prigione.»
«Possibile? Terreno buono, dite? E nessuno lo lavora?»
«Proprio cosi. Terra buona e nessuno la lavora. Ma questo è ancora nulla. La gente viene a piantarvi gli occhi in faccia, e sembra dire: Figli di cani, qui non vi ci vogliamo. Vengono gli agenti dello sceriffo, e vi pedinano. Fate la tenda in un prato, e vi fanno sloggiare. State sicuri che vedrete coi vostri occhi fino a qual punto ci odiano da queste parti. E sapete perché ci odiano? Perché hanno paura di noi. Sanno che gli affamati alla lunga nessuno li tiene. Sono persuasi che tutta quella terra incolta è un sacrilegio, e sanno benissimo che un giorno o l'altro qualcuno gliela porterà via. A proposito: nessuno v'ha ancora mai chiamati Okies?»
Tom disse: «Okies? Cosa vuol dire?»
«Una volta voleva dire gli abitanti dell'Oklahoma, adesso significa figli di cani, significa la feccia della popolazione. Ma questo è niente: è il modo come lo dicono, che offende. Vedrete, vedrete. Pare che siamo trecentomila, noialtri profughi. E vivono tutti come maiali. Non c'è un pezzo di terra che non sia proprietà di qualcuno, e i proprietari continueranno a restare attaccati alla loro terra, e senza lavorarla, anche a costo di dover diventare assassini per conservarla incolta. E hanno paura, e la paura li rende furibondi. Vedrete, vedrete. Il più bel paese del mondo, sì, sì; ma un covo di briganti.»
Tom guardava sott'acqua i suoi talloni scavare la sabbia. Disse: «Ma se uno lavora, e mette da parte, quando s'è fatto un po' d'economie non può comprare un pezzo di terra?»
Lo sconosciuto diede in una risata e guardò suo figlio, che senza parlare sghignazzò quasi con un'aria di trionfo. E il vecchio disse: «Lavoro permanente non ne trovate. Vi toccherà giorno per giorno cercare di guadagnarvi il pane come potete. E in mezzo ad altri braccianti che vi guardano storto. E contro padroni che tentano di sfruttarvi. Se vi mettete a coglier cotone, potete star certi che le pese non segnano giusto. Ma c'è niente da fare: impossibile far valere le proprie ragioni.»
Il babbo domandò, esitando: «Ma il paese è bello, no?»
«Oh, bellissimo; per chi può stare a guardarlo. C'è per esempio un boschetto d'aranci, e nascosto dentro c'è uno col fucile e ha diritto di spararvi se cogliete un frutto. C'è, sulla costa, un giornalista, che tutti conoscono; ebbene, possiede un milione di acri...»
Casy sobbalzò: «Un milione di acri? Cosa ne fa? Cosa diavolo può farsene d'un milione di acri?» «Chi lo sa. Certo è che è padrone di un milione di acri. Ha un esercito di guardiani, stipendiati da lui, solo per difendersi da chi entra nelle sue proprietà anche senza saperlo, per sbaglio. Va in giro in automobili blindate. Ho visto la sua fotografia. Grasso, delicato, due occhietti cattivi e una bocca a culo di gallina. Ha paura che lo ammazzino. Ha un milione di acri, e invece d'esser felice trema per la paura di morire.»
«Ha paura di morire?» domandò Casy.
«Così ho sentito,» rispose lo sconosciuto.
Il babbo insisté: «Ma se uno è deciso a lavorar duro, dite che non ce la fa?»
«Io dico di no. Ma se non mi credete, andate a vedere.»
Il babbo interpellò zio John. «Te non dici mai niente. Cosa ne pensi?»
Zio John aggrottò la fronte: «Cosa vuoi che ne pensi. Andare ci andiamo, sì o no? Non sono questi discorsi che ci faranno cambiare idea. Quando siamo là vediamo. Se si trova lavoro si lavora, e quando s'è senza lavoro si riposa. Tutti questi discorsi servono a niente.»
Tom che s'era riempito d'acqua la bocca, la sputò fuori, ridendo. «Zio John parla poco, ma ragiona bene. Non ti pare, babbo? Si parte stasera?» «Tanto vale,» disse il babbo.
«Allora: io vado a cercarmi un posticino all'ombra per dormire.» Tom s'alzò e raggiunse la riva, e si vestì senza asciugarsi. Gli altri lo imitarono.
Quando fu vestito, Tom si addentrò tra le canne, trovò l'ombra che cercava e si sdraiò per riposare. Noè lo raggiunse. «Tom, ho da parlarti.»
«Cosa c'è?»
«Tom, io ho deciso che non vengo via.»
Tom scattò su a sedere. «Non vieni via?»
«No. Io resto qui sul fiume. Mi faccio una lenza e pesco. In riva al fiume nessuno muore di fame.» «E non pensi alla famiglia? Non pensi a mamma?»
«Sì, mi dispiace, ma non so che farci. Sai anche te come sono le cose; tutti mi trattano bene, ma nessuno è davvero affezionato a me.»
«Ma tu sei matto!»
«No, no. Mi rendo benissimo conto della situazione. E ho deciso. Non parto di qui. Spiegherai te alla mamma.»
«Ma senti, Noè...»
«Inutile, tutto inutile. Ho provato quest'acqua e non la lascio più. Anzi, m'allontano subito, senza salutare nessuno, per non dover spiegare. Spiega te a mamma. Addio, Tom.» E si allontanò in fretta.
Tom gli corse dietro. «Senti, Noè, senti...»
«Inutile, Tom, non voglio sentire niente. Sono triste, ma ho deciso, e niente mi farà cambiare d'idea.» E accelerò l'andatura così che Tom si sentì scoraggiato e rinunciò a seguirlo; si fermò, e stette a guardarlo finché scomparve tra le canne. Allora si levò il berretto e si grattò furiosamente la testa; poi tornò all'ombra e si sdraiò per dormire.
Sotto il telone impermeabile la nonna giaceva sul materasso, assistita dalla mamma e da Rosa Tea; giaceva completamente nuda sotto la lunga pezza di tela che le avevano disteso addosso per proteggerla dalle mosche... Il caldo era soffocante. La povera vecchia respirava con difficoltà, e dimenava la testa in grande agitazione, emettendo gemiti; la mamma, seduta in terra, le faceva vento con un pezzo di cartone, anche per scacciare le mosche, e Rosa Tea, dall'altra parte del materasso, non faceva niente, guardava sua madre. D'un tratto la malata sgranò gli occhi feroci e chiamò imperiosamente il defunto marito: «Will! Will! Vieni qua subito! Se no, ti piglio, e allora senti che musica!» Poi richiuse gli occhi e riprese a dimenare la testa sconsolatamente.
La mamma non smetteva di farle vento col pezzo di cartone.
Con la fronte aggrottata e senza riaprire gli occhi, la nonna ricominciava: «Will! Sei sporco! Non c'è mezzo di tenerti pulito!» Si grattò una guancia, con mossa impaziente. La mamma scoprì una formica rossa che le camminava tra le pieghe della pelle del collo; allungò la mano, l'acchiappò e la stritolò tra i polpastrelli e s'asciugò le dita sul vestito. Passò a Rosa Tea il pezzo di cartone. «Fa' un po' te.» Rosa Tea ubbidì. «Pulisciti le scarpe, vecchio sporcaccione!»
Apparve sull'ingresso un donnone, tutto vestito di nero. Aveva gli occhi infiammati, dallo sguardo torbido. La flaccidezza del viso dava ai suoi lineamenti un aspetto di salsiccette; il labbro superiore pareva una cortina calata sui denti, mentre quello inferiore pendeva rovesciato scoprendo la gengiva. «Dio sia lodato,» disse entrando.
La mamma voltò la testa e mormorò: «Buon giorno.»
Il donnone s'appressò al giaciglio ed osservò la malata. «Abbiamo sentito che avevate qui un'anima pronta a volare in grembo al suo Gesù. Dio sia lodato.»
La mamma esclamò: «No, non è vero!»
L'altra invece annuì, adagio, e pose una mano paffuta sulla fronte della nonna. La mamma allungò la propria per scacciare quella mano indiscreta, ma si trattenne; e il donnone confermò la sua diagnosi: «Sì, un'anima benedetta che va a raggiungere il suo Signore. Siamo in sei, in Sanità, nella nostra tenda. Tutte Geovite. Le vado a chiamare e veniamo a dire le preghiere.»
La mamma si oppose. «No, no. La nonna... solo stanchezza... ha bisogno di riposo... le preghiere la stancherebbero...»
«Le preghiere? Come può stancare il soffio divino di Gesù? Che cosa state dicendo, sorella?»
La mamma insisté: «No, no; non qui; è tanto stanca.»
L'altra le scoccò uno sguardo di rimprovero: «Non siete credenti?»
«Sì, siamo tutti credenti, ma la nonna è stanca, ha viaggiato tutta la notte. Non vogliamo che vi disturbiate.»
«Nessun disturbo. E se anche fosse, lo faremmo volentieri per un'Anima che aspira a ricongiungersi con l'Agnello.
La mamma s'alzò. «Vi ringraziamo,» disse freddamente, «ma non voglio preghiere sotto questa tenda.»
La donna la guardò a lungo. «Pazienza, ma non possiamo lasciare che una sorella parta senza perghiere. Le diremo nella nostra tenda, e chiederemo a Dio di non punirvi, per tanta crudeltà di cuore.»
La mamma si rimise a guardare la nonna, con l'espressione ancora dura e decisa. «E' stanca,» ripeté, «solo stanchezza.» La malata continuava a dimenare la testa in cerca di fiato.
Il donnone uscì con passo dignitoso. Rosatè, senza smettere di fare aria col pezzo di cartone, domandò:
«Mamma, perché non hai voluto che venissero a pregare?»
«Non so perché. I Geoviti son brava gente. Non so cosa m'ha preso. Non avrei potuto sopportarlo.» Dopo qualche minuto pervenne da poca distanza il suono dell'inizio delle preghiere: la nenia d'esortazione. Non si distinguevano le parole; solo il tono. La voce saliva e scendeva, e ogni volta saliva più alta. Fece una pausa, riempita dalle voci che proferivano la risposta. Poi l'esortazione riprese in tono trionfale: la voce sembrò un potente ruggito. Nella pausa successiva, ruggirono anche le voci di risposta. E in seguito le antifone dell'esortazione si fecero sempre più brevi e più secche, come comandi militari; e nelle risposte si distinse una nota lamentevole. Il ritmo si fece più rapido. Fino a quel momento le voci maschili e femminili avevano avuto un solo tono, ma adesso nel mezzo d'una risposta una voce femminile s'alzò gradatamente in un grido di dolore, feroce, selvaggio, come il grido di una fiera; e un'altra voce femminile, profonda, le fece eco, mentre una voce maschile percorreva su e giù la scala con ululi di lupo. L'esortazione cessò, e si udì solo l'ululo lugubre, con uno scalpiccio di piedi. La mamma era scossa da brividi. Rosatè respirava con affanno, e il coro di ululati durò così a lungo che pareva dovesse lacerare i polmoni dei cantori.
La mamma disse: «Cose che fan paura. Chi sa cosa m'ha preso.»
Allora la voce femminile riprese e diventò isterica, come il grido della iena, e il calpestio aumentò di intensità. Ora le voci scoppiettavano come un tiro di fucileria, e a poco a poco i singhiozzi andarono morendo in gemiti, sommessi come quelli d'un cucciolo goloso che lecca la scodella.
Rosatè lagrimava zitta, per lo sgomento. La nonna respinse con le gambe la pezza di tela che la copriva, esibendo le sue nocchiute estremità scheletrite. La mamma la ricoperse. Poi la nonna respirò più facilmente, e le sue palpebre cessarono di tremare. Si addormentò profondamente, russando tra le labbra socchiuse. Rosatè levò gli occhi lacrimosi sulla mamma e disse: «Le preghiere le han fatto bene. Dorme tranquilla.»
La mamma abbassò il capo, come contrita, e mormorò: «Forse ho fatto torto a quella brava gente.» «Dovresti domandare al predicatore se hai fatto peccato,» suggerì Rosa Tea.
«Sì; ma è un uomo così strano. Forse è lui che m'ha fatto rispondere a quel modo a quella donna. Dice sempre che tutto quello che si fa è ben fatto; a dargli retta non s'han più scrupoli.» Si guardò la mani e poi disse: «Rosatè, dobbiamo dormire. Si viaggia tutta la notte; dobbiamo dormire.» «E chi fa aria alla nonna?»
«Ora dorme.» Si sdraiò accanto alla nonna. «Dormi anche te.»
«Dove sarà Connie? E' un pezzo che non lo vedo.»
«Zitta, ora. Dormi.»
«Mamma, Connie dice che vuol mettersi a studiare per diventare qualcuno...»
«Sì, me l'hai già detto; ora dormi.»
Rosatè si sdraiò dall'altra parte della nonna, sull'orlo del materasso. «Connie ha un altro progetto.
Pensa tutto il tempo. Quando ha studiato l'elettricità mette su negozio, e indovina cosa avremo?» «Cosa?»
«Ghiaccio à volontà. Ghiaccio fatto in casa da noi, per conservare tutta la roba da mangiare.»
«Be', Connie pensa lui, tu dormi.»
Rosa Tea chiuse gli occhi. La mamma si passò le mani intrecciate dietro la nuca e stette ad ascoltare il respiro della suocera e il respiro della figlia. Mosse una mano per scacciare una mosca. Il campo era immerso nel più profondo silenzio, ed anche i minimi rumori degli insetti nell'erba riarsa dal sole parevano ovattati nel silenzio.
La mamma tirò un profondo respiro, sbadigliò e chiuse gli occhi. Nel dormiveglia udì passi avvicinarsi, e una voce maschile la. fece trasalire. «Qui dentro chi c'è?»
La mamma scattò su a sedere, e vide affacciarsi un uomo in uniforme kaki, stivaloni, cintura di cuoio con la fondina della pistola, una grande stella argentata sul petto, il cappello spinto indietro sulla nuca. La mamma disse: «Cosa volete, signore?»
«Cosa credete che voglio? Voglio sapere chi è qui dentro.»
«Be, siamo noialtri tre. Io, mia suocera e mia figlia.»
«I vostri uomini dove sono?»
«Al bagno nel fiume. S'è viaggiato tutta la notte.»
«Da dove venite?»
«Da Sallisaw, Oklahoma.»
«Be', non potete star qui.»
«Si parte stasera, signore, per traversare il deserto.»
«Fate bene. Se vi ritrovo qui domattina, vi arresto. Non ce li vogliamo qui, i vagabondi.»
Il volto della mamma si oscurò di collera. Ella si levò, adagio, in piedi; poi si chinò di nuovo per afferrare la grossa padella di ferro. «Signore,» disse, «voi siete armato, ma non alzate la voce: dalle mie parti non si usa. Fortuna che gli uomini non sono qui. Dalle mie parti si tiene la lingua a posto.» L'agente indietreggiò di due passi. «Be', adesso non siete dalle vostre parti. Siete in California, e noi non vogliamo saperne di voialtri maledetti Okies.»
La mamma rimase sconcertata. «Okies?» ripeté sottovoce, e poi a voce alta: «Okies?»
«Sì, Okies. E se vi ritrovo qui domattina vi metto dentro.» Se ne andò, s'affacciò alla tenda attigua e domandò: «Qui dentro chi c'è?»
La mamma tornò a sdraiarsi sul giaciglio comune. Rosa Tea la stava osservando di sottecchi, e quando vide che lottava contro il pianto, finse di dormire.
Il sole era già vicino al tramonto, ma il caldo non pareva diminuire. Quando Tom si svegliò tra le canne, aveva la bocca arida e il corpo madido di sudore. S'alzò barcollando e s'avviò verso l'acqua. Si svestì, e nel momento stesso in cui entrò nel fiume, sentì svanire la sete. Rimase sdraiato dove l'acqua era poco profonda, sostenendosi sui gomiti e contemplandosi i diti dei piedi che galleggiavano.
Un pallido e scarno ragazzetto sbucò fuor dalle canne e si svestì. Saltò in acqua come un talpone e girellò nuotando rapido, con solo il naso e gli occhi sopra il pelo dell'acqua. Quando scoprì Tom che lo osservava, smise di nuotare e si levò in piedi. Tom gli disse: «Ohilà, sei un bravo nuotatore.» Il ragazzetto annuì senza sorridere, saltò sulla riva, raccolse i suoi stracci e sparì tra le canne.
Tom rideva ancora tra sé, quando si sentì chiamare dalla vocina acuta di Ruth. Ruth lo cercava gridando: «Tom! O Tom!» Tom le rispose con un fischio per rivelarle dove si trovava, e Ruth non tardò ad apparire. «Mamma ti vuole, subito subito.»
«Vengo.» Si levò in piedi e s'avviò verso la riva, e Ruth guardò con interesse e meraviglia il suo corpo nudo. Tom, notando la direzione dei suoi sguardi, le disse: «Scappa via ora!» e Ruth ubbidì, ma Tom la udì, mentre correva, chiamare Winfield a gran voce in tono concitato. Si rivestì senza asciugarsi e si diresse verso l'accampamento.
La mamma aveva acceso un fuoco di ramoscelli secchi e faceva scaldare una pentola d'acqua. Vedendolo parve sollevata. «Cosa c'è, mamma?»
«E' venuto un agente della polizia. Ho avuto paura. Ha detto che non possiamo restare qui. Avevo paura, se lo incontravi, che veniste alle mani.»
«E perché dovrei picchiare un agente?»
La mamma sorrise. «Lo avessi sentito parlare! M'era venuta persino a me la voglia di picchiarlo.» Tom la afferrò per un braccio e le diede uno strattone per scherzo, e ridendo si sedette a terra e
disse: «Cosa ti succede, mamma? Una volta eri così tranquilla. Cos'hai?»
Ella rispose senza ridere. «Non so, figliolo.»
«Pochi giorni fa ci hai minacciati tutti con la manovella, e adesso attacchi briga con le guardie.» Allungò un braccio e le carezzò teneramente un piede nudo.
«Sai come ci ha chiamati, la guardia? Okies. Maledetti Okies, ha detto.» Tom cessò di ridere, ma continuò a carezzarle il piede.
«Già, ho sentito che ci chiamano così da queste parti. Be', m'hai chiamato perché io vada a chiedergli soddisfazione, per caso?»
«Oh, no. Volevo solo farti sapere che ha detto che se siamo qui domattina, ci fa arrestare.»
«Buono da sapersi. Senti, mamma, ho anch'io una cosa da dirti.» Si tolse il berretto e si grattò la testa. «Noè, Noè non continua il viaggio, ha detto che resta qui.» La mamma non capì subito. Poi, con voce querula:
«Perché?»
«Non so. Dice che non si sente, dice che deve restare. M'ha detto di dirtelo.»
«Come fa a mangiare?»
«Non so. Dice che pesca.»
La mamma stette silenziosa vari momenti. «E' la famiglia che si sfascia,» disse. «E' troppo. Non sono più capace di pensare.»
Per consolarla, Tom disse: «E' sempre stato un po' strano, Noè. Ma non c'è da preoccuparsi, è in gamba.»
La mamma guardò verso il fiume e ripeté: «Non sono più capace di pensare.»
Tom vide in distanza davanti a una tenda Ruth e Winfield in solenne conversazione con qualche persona invisibile all'interno della tenda. Ruth, parlando, si lisciava il gonnellino con le mani, mentre Winfield scavava la sabbia col dito grosso d'un piede. Tom chiamò Ruth. La bimba si voltò di scatto, vide Tom e partì di corsa verso di lui, seguita da Winfield. «Ruth, va' in giro a cercare tutti. Li troverai che dormono tra le canne. Di' che si parte. E te, Winfield, va' ad avvertire i Wilson.» I bambini fecero dietro front, e partirono ognuno nella sua direzione.
Tom disse: «E come sta la nonna adesso?»
«Ha fatto una buona dormita, forse le ha fatto bene. Dorme ancora.»
«Meno male. Quanto maiale ci rimane?»
«Non molto. Un quarto circa.»
«Dammi il barilotto vuoto, da riempire d'acqua. Dobbiamo portarcene una provvista.» Sentivano gli acuti gridi di Ruth che chiamava gli uomini fra le canne.
La mamma aggiunse ramoscelli al fuoco. «Preghiamo il Signore che ci conceda un poco di riposo! Preghiamo il Signore che ci faccia arrivare in porto!»
Il sole tramontò, la pentola prese a bollire. La mamma rientrò sotto la tenda e ne uscì con una grembiulata di patate, e le gettò senza sbucciare nell'acqua. «Preghiamo il Signore che mi dia tempo di fare un po' di bucato! Non siamo mai stati così sporchi. Non lavo neppure più le patate prima di metterle a bollire. Perché? questione che si perde coraggio.»
Gli uomini arrivarono in piccoli gruppi dal canneto, gli occhi imbambolati dal sonno e le facce rosse. Il babbo disse: «Cosa c'è?»
«Si parte,» disse Tom. «C'è stata una guardia e ha detto che dobbiamo andarcene. Più presto si va e meglio è. S'ha circa cinquecento chilometri da fare.»
Il babbo disse: «Credevo che ci prendevamo un po' di riposo prima di rimetterci in viaggio.»
«No, non si può, dobbiamo andarcene. Senti, babbo, Noè non viene.»
«Non viene? Cos'è 'sta storia?» Ma capì a volo, e chinò la testa e mormorò: «Tutta colpa mia, quel ragazzo; tutta colpa mia.»
«Ma no, babbo, colpa di nessuno, e del resto è inutile parlare, perché adesso si tratta di partire.» Wilson arrivando colse le ultime parole. «Noi non possiamo partire,» annunciò. «Sairy è sfinita. Deve riposare a tutti i costi, altrimenti non arriva viva al di là del deserto.»
L'annuncio cadde nel più profondo silenzio. Lo ruppe Tom, per spiegare: «C'è stata una guardia, che ci arresta tutti se ci trova ancora qui domattina.»
Wilson scosse la testa. La sua preoccupazione faceva pena a vedere. Ripeté: «Sairy è sfinita. Se ci
arrestano, andremo in prigione. Sairy ha bisogno di riposo, se ha da riprendere forze.»
Il babbo propose: «Forse è meglio aspettare, e partire poi tutti insieme.»
«No,» disse Wilson, «ci avete coperti di gentilezze, ma non potete restare, ora; dovete continuare il viaggio e trovare lavoro. Non vi permetto di restare.»
Il babbo disse, con un gesto di impazienza: «Ma non avete un centesimo!»
Wilson sorrise mestamente. «Avevamo ben poco quando ci accoglieste tra voi. E poi non vi deve importare. Date retta, partite; o mi fate ammattire.» Poi si rivolse a Casy: «Mia moglie vuole vedere voi.»
«Vado subito,» disse il predicatore, e si avviò verso la tenda dei Wilson, piccola, tetra, spartì i teli d'ingresso ed entrò. Sairy giaceva sul materasso, gli occhi febbricitanti. Casy si levò il cappello e lo tenne tra le mani e rimase in piedi a capo chino. Sairy disse: «V'ha detto mio marito che non possiamo continuare il viaggio?» «Sì, ho sentito.»
Ella proseguì, nella sua bella voce grave: «Io avrei voluto continuare ugualmente, ma lui non vuole, ed è testardo. Vi ho chiamato per dirmi una preghiera.»
«Le mie preghiere, cara signora, valgono poco; non faccio più il predicatore.»
Ella s'inumidì le labbra. «Ero presente alla morte del nonno Joad. V'ho sentito pregare.»
«Non è stata una preghiera.»
«Sì, è stata una preghiera.»
«Non è stata una preghiera da predicatore.»
«E' stata una preghiera buona. Desidererei che la ripeteste per me.» E chiuse gli occhi, ma poiché l'altro non cominciava, li aprì di nuovo e disse: «Allora pregate solo col pensiero, senza parole. E' ancora meglio.»
Il predicatore abbassò la testa. Ella lo osservava con apprensione, e quand'egli risollevò la testa, Sairy riprese: «M'ha fatto bene. Avevo bisogno di sentirmi qualcuno abbastanza vicino da poter pregare con lui.»
«Se vi sentite meglio, speriamo che tra qualche giorno sarete in grado di continuare il viaggio.»
Ella scosse lentamente la testa. «No. Tutto il mio corpo è una piaga. Io so che cos'è, ma non lo dico a mio marito, per non rattristarlo. Tanto, non potrebbe far niente. Forse di notte, mentre dorme... se svegliandosi non mi trova più, sarà meno doloroso...»
«Desiderereste che anch'io rinunciassi al viaggio e restassi con voi?»
«Oh, no. Quando ero bambina, cantavo benino. I vicini venivano a sentirmi. E quando cantavo, e li sentivo assorti nell'ascoltare, provavo una consolazione che non so dirvi. Si era in comunione. In fondo, è la stessa cosa, cantare o pregare, quando si è uniti nello spirito.» E con un lento cenno di testa lo congedò.
«Addio,» disse il predicatore, e uscendo dal buio gli sembrò che il sole volesse accecarlo.
Gli uomini stavano caricando l'autocarro. Zio John stava in cima al mucchio, e gli altri gli porgevano le masserizie.
La mamma raccolse tutti gli avanzi del maiale in una pentola e diede i due barilotti a Tom e ad Al che li portarono al fiume per lavarli. Li legarono poi sul predellino e portarono parecchie secchie d'acqua per riempirli. La mamma passò in giro le patate bollite. La famiglia mangiò in piedi, sballottandosi le patate tra le mani per farle raffreddare.
La mamma si recò nella tenda dei Wilson e vi rimase una diecina di minuti e tornando disse tranquillamente: «E' ora di partire.»
Gli uomini andarono a prendere la nonna. Sollevarono il materasso, lo portarono presso l'autocarro e lo issarono con molte precauzioni. La nonna rattrappì le gambe durante la manovra, ma senza svegliarsi. Zio John e il babbo distesero il telone impermeabile sopra il carico, e lo assicurarono ai montanti laterali. La famiglia era pronta. Il babbo trasse la borsa, ne tolse due biglietti di banca, s'avvicinò a Wilson e glieli porse: «Vi prego di accettare questo,» e indicando il resto della carne e delle patate, «e quello.»
Wilson rifiutò energicamente con cenni di testa. «Assolutamente no. Avete così poco.»
«Ci basta per arrivare. E ci mettiamo subito al lavoro.»
«Assolutamente no. Non insistete.»
La mamma tolse i biglietti dalla mano del babbo, li piegò nitidamente e li posò a terra, e su di essi posò la pentola della carne. Disse a Wilson: «Noi li lasciamo lì. Se non li prendete voi, li prenderà qualcun altro.» Wilson s'allontanò a testa bassa e scomparve sotto la propria tenda.
La famiglia restò indecisa per qualche attimo, poi Tom disse: «Dobbiamo andare, saranno le quattro.» La famiglia prese posto nel veicolo. La mamma accanto alla nonna, Tom, Al e il babbo sul sedile anteriore, e Winfield sulle ginocchia del babbo. Connie e Rosa Tea si costruirono un nido a ridosso della cabina di guida. Il predicatore, zio John e Ruth si accomodarono qua e là dove trovarono posto.
Il babbo alzò la voce per salutare i Wilson. «Arrivederci, signor Wilson e signora Wilson!» Non ebbe risposta. Tom avviò il motore e il veicolo avanzò traballando. Quando sboccò sulla strada, la mamma si voltò indietro a guardare, e vide Wilson davanti alla sua tenda, tutto illuminato dal sole. La mamma agitò la mano in segno di saluto, ma egli non rispose.
Tom tenne la seconda, per riguardo alle balestre. A Needles si fermò al posto di rifornimento e verificò la pressione dei pneumatici, anche di quelli di ricambio. Oltre a fare il pieno, comprò due latte di benzina e una latta d'olio. Riempì il radiatore, si fece prestare una carta e la studiò. L'assistente, un bel ragazzo in divisa, sembrò inquieto finché non fu pagato il conto. Dopo che ebbe incassato, parlò affabilmente: «Avete un bel coraggio, voialtri.»
Tom alzò gli occhi dalla carta. «Perché?»
«Tentare il deserto in quella baracca.»
«Tu l'hai tentato mai?»
«Sì, ma non in una baracca così.»
«Oh, se ci succede qualcosa, troveremo bene qualcuno che ci dà una mano.»
«Ve lo auguro, ma, di notte, nessuno si ferma volentieri per aiutare il prossimo. Io non avrei il coraggio.»
Tom sogghignò: «Non è questione di coraggio, quando non si può farne a meno. Be', si va.» Prese posto al volante e ripartì.
Il ragazzetto entrò nello sgabuzzino, dove il contabile scarabocchiava sul suo registro. Esclamò:
«Dio, che aria di miseria!»
L'altro guardò su. «Quegli Okies? Son tutti miserabili.»
«Sì, ma in una baracca di quel genere io avrei paura di tentare il deserto.»
«Ah, capisco. Io e te siamo gente raffinata. Quei maledetti Okies non hanno né buon senso né sensibilità. Son come bestie. Nessun essere umano s'adatterebbe a vivere come vivono loro, in
quella sporcizia, in quella miseria! Non credere che siano molto più civilizzati dei gorilla.»
«Ad ogni modo son contento di non avere da tentare il deserto in quella trebbiatrice.»
«Forse sarebbero anche loro come noi, se conoscessero qualcosa di meglio. Ma non hanno idea che possa esistere qualcosa di meglio di quello che hanno; è per questo che si adattano a tutto.»
L'autocarro attaccò la salita tra gli anfratti della brulla zona rocciosa. Il motore non tardò a scaldarsi e Tom rallentò l'andatura. La strada serpeggiava interminabile guadagnando costantemente quota, e il paesaggio non offriva il minimo indizio di vita. Una volta Tom fermò la macchina per lasciar raffreddare il motore, poi riprese la marcia. Arrivarono al valico prima del tramonto e si fermarono a contemplare in basso il grigio deserto che riverberava la luce giallastra del sole cadente. L'arida vegetazione nana gettava sul suolo petroso ombre audaci. Tom portò una mano alla fronte per proteggersi gli occhi avidi di prendere nota di tutti i particolari. Ripreso il cammino per valicare il passo, spense il motore appena cominciò la discesa, per lasciare che il ventilatore raffreddasse l'acqua nel radiatore. I tre uomini seduti davanti, e anche Winfield sui ginocchi del babbo, non potevano distogliere gli occhi dal disco rosseggiante del sole che si preparava a dar fuoco al deserto. Al disse: «Dio, che inferno! Ti piacerebbe farlo a piedi?»
«C'è chi l'ha fatto,» rispose Tom. «Tanti l'han fatto a piedi, e lo faremmo anche noi, se necessario.» «Chi sa quanti ci han lasciata la pelle.»
«Be',» osservò Tom, a voce bassa, «non possiamo mica dire d'averla completamente scansata, la morte, da quando s'è partiti.»
Al non replicò subito, ma poi disse: «Credi che li rivedremo mai, i Wilson?»
Tom, dando un'occhiata alla livella dell'olio, mormorò: «Lei, credo che tra poco nessuno la rivedrà.»
Winfield disse: «Babbo, ho bisogno di scendere.»
Tom gli scoccò uno sguardo di fianco. «Sarà bene scendere tutti, prima di cominciare la traversata.» Rallentò e fermò l'autocarro sul ciglio della strada. Winfield saltò giù per fare pipì. Tom si sporse all'indietro:
«Nessun altro?
Rispose zio John: «Quassù la serbiamo, l'acqua che abbiamo.»
Il babbo disse a Winfield: «Ora vai lassù anche te, m'hai addormentato le gambe.»
Winfield abbottonandosi i pantaloni s'arrampicò ubbidiente su per i fianchi dell'autocarro, strisciò carponi sul materasso della nonna e raggiunse Ruth. L'autocarro ripartì, e l'orlo del sole toccando l'orizzonte fece scoppiare l'incendio su tutto il deserto. Ruth disse a Winfield: «Non ti ci volevano più sui ginocchi, eh?»
Winfield rispose: «Sono io che non volevo. Si sta meglio seduti qui.»
«Ma adesso non seccarmi, perché voglio dormire, e quando mi sveglio saremo arrivati. L'ha detto Tom!»
Il sole sparì, lasciando il giorno morire nel cielo. E sotto il telone s'insinuò la notte. Sembrava essere in una galleria, con un arco di luce a ciascuna estremità. Connie e Rosa Tea sedevano addossati alla cabina di guida, e il risucchio del vento caldo sferzava le loro nuche. Parlottavano sotto voce, l'uno nell'orecchio dell'altra. Rosa Tea disse: «Ho paura che non ci si ferma mai più. Son così stanca!»
«Speriamo di fermarci domattina. Rosatè, senti, ti piacerebbe essere sola con me?» Nel buio la sua mano le carezzava un fianco.
«No, Connie, lasciami stare, mi fai venir voglia. No, Connie, sta' buono.»
«Forse più tardi, eh? Quando dormono tutti.»
«Forse. Ma aspetta che s'addormentino. Smetti adesso, mi fai venir voglia.»
«Ma io non posso tenermi.»
«Capisco, io son lo stesso, ma parliamo d'altro, e spostati, altrimenti mi fai andar pazza.» Connie si scostò un pochino.
«Appena arrivato mi metto a studiare,» disse. Rosa Tea tirò un profondo sospiro. «Prendo uno di quegli opuscoletti dove c'è il tagliando, e lo mando via subito.»
«E quanto tempo credi che dovrai studiare?»
«Non so, ma...»
«Quanto tempo t'occorre per cominciare a far quattrini e comprarmi il frigorifero?»
Connie ghignò. «Pensi sempre al frigorifero, perché adesso fa caldo, ma verso Natale, quando avrò finito gli studi, forse non ci penserai più.»
«Oh, ma sarà bello avere sempre il ghiaccio a nostra disposizione. No, non toccarmi, smetti, mi fai venir voglia!»
Ormai era calata la notte, e il cielo del deserto aveva indossato il suo manto di velluto trapunto di fittissime stelle, e il caldo del deserto, non più alimentato dal sole ma riverberato dal suolo, era afoso. I fari illuminavano un breve tratto di strada dinanzi all'autocarro e sui lati due esigue strisce di deserto, e nella poca luce che proiettavano talora scintillavano gli occhi di animali invisibili.
Sotto il telone era buio pesto. Zio John e il predicatore stavano mezzo sdraiati al centro dell'autocarro l'uno accanto all'altro appoggiati su un gomito.
Zio John era d'umore loquace. Diceva: «Casy, voi dovreste sapere cos'ha da fare uno nelle mie condizioni.» «A che riguardo?»
«A riguardo di tutto.»
«E' un po' vago.»
«Ma, facevate il predicatore.»
«E cosa credete che i predicatori non siano uomini come gli altri?»
«Sì, ma con una differenza: altrimenti non farebbero i predicatori. Volevo domandare: secondo voi, è ammissibile che uno possa portar sfortuna al prossimo?»
«Cosa posso saperne io? Non so, non so.»
«Perché io, capite, avevo sposato una bella e buona ragazza, e una notte si sveglia con un terribile dolore nella pancia e mi dice di andare a chiamare il medico. E io le faccio, oh, sarà niente, avrai mangiato troppo.» Zio John posò una mano sul ginocchio di Casy e aguzzò gli occhi per poterlo vedere in faccia. «E lei m'ha guardato, ma è stato uno sguardo che non dimenticherò mai. E ha sofferto tutta la notte, dolori orribili, e morì l'indomani.» Il predicatore mormorò suoni indistinti in tono di condoglianza. «Dunque è chiaro, capite, che l'ho uccisa io. Dopo, ho cercato in tutti i modi di scontare la mia colpa, e di essere virtuoso, ma non ci riesco. Mi ubriaco, vado a donne...»
«Capita a tutti, anche a me.»
«Ma voi non avete un peccato sulla coscienza.»
«Come no? Ne ho anch'io come tutti. D'altra parte cos'è che chiamate peccato? Il peccato è una cosa che non si sa se è bene o male. Quelli che sono sempre sicuri di far bene, non hanno scrupoli, non sanno che cosa sia il peccato; e se io fossi il padreterno li scaccerei dal cielo a calci nel sedere.»
«Io, vedete, ho la sensazione che porto sfortuna al prossimo. E questo mi rattrista. Penso che per non far male a nessuno dovrei ritirarmi in solitudine.»
«Capisco quel che dite, perché l'ho provato anch'io. Ma ho finito per persuadermi che un uomo deve lasciarsi vivere. Prendere la vita come viene, e non cercare di modificarla. Quanto a portar fortuna o sfortuna, io non ci credo. Di una sola cosa sono convinto, ed è che nessuno ha il diritto di criticare il prossimo; aiutarlo, sì, ma non pretendere di dirgli quello che ha da fare. Ognuno deve badare a sé.» Zio John disse, in tono di disappunto: «Allora non sapete dirmi cosa devo fare?» «No, non lo so.»
«Non pensate anche voi che ho peccato, lasciando morire mia moglie a quel modo?»
«Io penso che avete sbagliato, ma se voi preferite pensare di aver peccato, padronissimo. Ciascuno crea i propri peccati nella propria immaginazione.»
«Questo è un pensiero sul quale devo riflettere,» concluse John sdraiandosi sulla schiena.»
L'autocarro avanzava nell'afa ad andatura costante. Ruth e Winfield dormivano profondamente. Connie spiegò una coperta, vi si nascose sotto accanto a Rosa Tea, e nell'afa i due sposini si congiunsero, trattenendo il respiro. Dopo pochi istanti Connie respinse la coperta, e ai loro corpi sudati parve fresca l'aria calda che s'ingolfava sotto il telone.
All'estremità posteriore la mamma era sdraiata accanto alla nonna, e se non poteva vederla ne sentiva il respiro affannoso e sporgendo la mano ne avvertiva i flebili battiti del cuore che lottava contro la morte. E tutto il tempo ripeteva a se stessa: «Non può essere! Non può essere!» E una volta mormorò: «Sapete bene che la famiglia deve traversare il deserto: per forza!» Zio John la interrogò: «Hai detto qualcosa?
La mamma non rispose subito, poi borbottò: «Dovevo essermi addormentata.» E un momento dopo, la nonna non diede più segno di vita, e la mamma continuò a giacere immobile, rigida.
Le ore passavano monotone nel buio. Di quando in quando l'autocarro veniva sorpassato da qualche vettura, oppure incrociava qualche grosso autotreno. Sull'orizzonte a ponente continuava ininterrotta la lenta cascata di stelle. Era mezzanotte quando arrivarono a Dagget, il posto di dogana. La strada, in quel punto, era illuminata a giorno, e spiccava un cartello con la scritta FERMARSI
SULLA DESTRA. I funzionari sonnecchiavano in ufficio, ma uscirono sotto la lunga tettoia quando Tom fermò l'autocarro. Uno di essi prese il numero della targa e s'avvicinò al finestrino della cabina.
Tom domandò: «Che c'è?»
«Controllo doganale agricolo. Semi o piante da dichiarare?» «No.»
«Dobbiamo dare un'occhiata alla vostra roba. Scaricate.»
Prima che Tom potesse replicare, la mamma si era lasciata pesantemente scivolare giù dal carico, e affrontò lei il funzionario. «Sentite, signore. Abbiamo una vecchia ammalata. Dobbiamo farla vedere al più presto da un medico. Non possiamo aspettare.» Si sforzava di conservare la calma.
«Non dovete trattenerci.»
«No eh? Dobbiamo fare il controllo.»
«Giuro che non abbiamo niente,» gridò la mamma. «Lo giuro. E la nonna è molto malata.» Si portò in coda all'autocarro, si issò con tutta la forza che aveva, e sollevando la coperta chiamò il funzionario: «Venite a vedere.»
L'uomo illuminò con la lampadina tascabile il viso della vecchia, e con le labbra fece un gesto che esprimeva il suo raccapriccio. «Giurate di non avere frutta o verdura, granoturco, arance?» «Niente, niente, giuro.»
«Allora andate pure. Troverete un medico a Barstow, a dodici chilometri. Andate pure.» Tom ripartì.
Il funzionario si rivolse a un collega: «Non ho avuto il coraggio di trattenerli,» disse.
«Te la sei lasciata fare,» disse l'altro.
«No, no. Dovevi vederla quella faccia!»
Tom accelerò per raggiungere Barstow, e arrivatovi fermò, scese e venne in coda per parlare con la mamma. La mamma si sporse e lo rassicurò. «Non volevo fermarmi alla dogana, per non ritardare...»
«Ho capito, ma come sta la nonna?»
«Bene, bene. Non volevo fermare, perché ho fretta di finire questo deserto.»
Tom scosse la testa, venne da Al e gli disse: «Faccio il pieno, poi guidi un po' tu.» Avanzò finché trovò il posto di rifornimento, e riempì il serbatoio e il radiatore. Poi Al si mise al volante, e Tom lo sostituì accanto al babbo. Ripartirono. Tom disse: «Non capisco mamma cosa le prende ogni tanto. Salta su come un cane che abbia una pulce in un orecchio. Avrebbero fatto presto a passare la visita. Nossignore, la nonna è malata; e adesso mi dice che sta bene. Non la capisco. Saranno i nervi, la stanchezza.»
Il babbo disse: «Dovevi vederla quand'era ragazza. Impulsiva come tutto, non aveva paura di niente. Pensavo che con l'età, coi fastidi, si sarebbe calmata, ma m'ero sbagliato. Ricordi l'altro giorno, con quella manovella? Non avrei voluto dover essere io a togliergliela di mano.»
«E' strano,» ripeté Tom. «Sarà la stanchezza.»
Tutta la notte avanzarono trapanando la calda oscurità, e l'alba apparve alle loro spalle quando videro di fronte i lumi di Mojave e all'orizzonte le montagne. A Mojave si rifornirono d'acqua e di olio, e attaccarono la salita che era già giorno. «Il deserto è finito,» annunciò Tom. «Al, babbo, se Dio vuole il deserto è finito.»
«Me ne frego,» disse Al, «son stanco morto.»
«Guido io?»
«No, aspetta un altro po'.»
Passato Techachapi, all'improvviso videro l'ampia vallata aprirsi sotto di loro. Al serrò bruscamente il freno e fermò l'autocarro in mezzo alla strada e il babbo disse: «Dio onnipotente!» Gli orti, le vigne, le file interminabili di alberi fruttiferi, le sparse casette bianche dei coltivatori, e, più lontano nella pianura, i centri abitati. Il babbo disse: «Non m'ero mai immaginato uno spettacolo simile!»
Chiamò: «Mamma, vieni a vedere! Siamo arrivati.»
Ruth e Winfield furono i primi a lasciarsi calar giù dal sommo del carico e rimasero ammutoliti allo splendore di quel panorama. Alfine Ruth bisbigliò: «E' la California.»
Winfield labbreggiò le sillabe senza pronunciarle, poi ad alta voce dichiarò: «C'è tanta frutta.»
Casy e zio John, Connie e Rosa Tea erano scesi anch'essi e restavano ad ammirare la vista in silenzio. Rosa Tea aveva incominciato a ravviarsi i capelli, ma vedendo improvvisamente l'incantevole vallata, aveva lasciato lentamente ricadere le braccia.
Tom diceva: «Mamma dov'è? Voglio vedere che faccia farà. Mamma, vieni a vedere!» E vedendola finalmente scendere, con difficoltà, dall'autocarro, disse: «Dio, mamma, cos'hai? sei malata?» Aveva infatti l'aria sofferente, gli occhi infossati; quando toccò il suolo coi piedi, barcollò, e si resse con una mano ai fianchi del veicolo.
La sua voce era rauca, quando disse: «Dite che siamo arrivati?»
Tom le indicò la vallata. «Guarda!»
Ella guardò e rimase a bocca aperta. Si portò una mano alla gola e mormorò: «Sia ringraziato il cielo. La famiglia è arrivata.» I ginocchi le si piegarono, e dovette sedersi sul predellino. «Non ti senti bene, mamma?»
«Solo stanca.»
«Non hai dormito?»
«No.»
«E la nonna?»
Ella si guardò le mani abbandonate sul grembo, e non rispose. Allora il babbo domandò: «Sta peggio?»
La mamma rivolse gli occhi alla vallata e disse: «E' morta.»
Tutti la guardarono sbigottiti e il babbo domandò: «Quando?»
«Un momento prima che ci fermassimo alla dogana.»
«E' per questo che li hai scongiurati di lasciarci proseguire subito?»
«Sì. E anche perché non potevamo fermarci nel deserto a seppellirla. Gliel'ho detto, alla nonna, che non si poteva fare diversamente. C'erano i piccoli, e Rosatè in quello stato; gliel'ho detto, alla nonna, e son certa che mi perdonerà. Ora possiamo seppellirla in un bel posto... tanti alberi... è meglio metterla a riposare qui in California.»
Tutta la famiglia rimase come sbalordita dinanzi a questa manifestazione di forza da parte della mamma. Tom disse: «Gesù! Pensare che sei rimasta sdraiata tutta la notte accanto a lei!» «Non ho detto niente perché c'era il deserto, e volevo che la famiglia passasse al di qua.»
Il babbo disse: «Muoviamoci. Sbrighiamoci, adesso.»
La mamma lo guardò e disse: «Posso sedermi davanti? Non mi sento di tornare lassù. Sono così stanca.»
Gli altri si arrampicarono di nuovo in cima al carico, evitando la salma, che la mamma aveva avvolto in una coperta. Raggiunsero i loro posti senza guardarla e si accomodarono in modo da non doverla vedere. Ruth e Winfield, rannicchiatisi il più lontano possibile dal cadavere, non potevano astenersi dall'occhieggiarlo. Ruth bisbigliò: «Quello è la nonna, è morta.» Winfield annuì solennemente e confermò la diagnosi. «Proprio morta. Non respira più.» E Rosa Tea mormorò nell'orecchio di Connie: «Stava morendo quando noi...» Connie la rassicurò: «Come potevamo sapere?»
Al cedette il proprio posto alla mamma e andò a insinuarsi tra Casy e zio John. Tom sedette al volante accanto alla mamma e al babbo, partì, e al principio della discesa spense il motore. La mamma si lasciava cullare dagli ondeggiamenti del veicolo. Ogni tanto mormorava: «E' bello. Le sarebbe piaciuto vederlo. Anche al nonno.»
Tom disse: «Non l'avrebbero visto come noi. Troppo vecchi. Il nonno si sarebbe immaginato di rivedere le praterie con gli indiani, come quando era giovane; e la nonna avrebbe ripensato alla casa della sua fanciullezza. Troppo vecchi. Chi può veramente godere dello spettacolo, sai chi è? Ruth e Winfield.»
Il babbo disse: «Ecco il nostro Tom che parla come un libro, quasi come un predicatore.»
La mamma sorrise: «Tom s'è fatto uomo. Tanto che alle volte mi sento piccola vicino a lui.»
L'autocarro continuava a rotolare giù dalle montagne, perdendo la vallata di quando in quando, e poi ritrovandola daccapo. E il fiato caldo della valle carezzava i volti dei profughi e metteva, nelle loro nari, dolci aromi di miele e pungenti profumi di resina. I grilli davano concerto ai lati della strada. Una serpe traversò la strada e Tom la mise sotto e la lasciò in contorsioni. Tom disse: «Prima cosa, si va dal "coroner". Dobbiamo darle un bel funerale. Quanto ti resta, babbo?» «Una quarantina.»
Tom rise. «Si può dire che arriviamo puliti. E' certo che non portiamo niente con noi.» Ghignò per alcuni attimi, poi si calò la visiera sugli occhi.
CAPITOLO 19.
Una volta la California apparteneva al Messico, e le terre ai messicani; ma orde di straccioni americani irruppero nel paese. E così imperiosa era la loro fame di terra, che si impossessarono della terra di Sutter, della terra di Guerrero, la spezzettarono, si azzuffarono a vicenda per disputarsene le briciole, e munirono di cannoni i poderi così conquistati. Fabbricarono stalle e casolari, ararono i campi e procedettero alle semine. Così, stalle e casolari, campi e raccolti, costituirono titolo di possesso; e il possesso diventò proprietà.
I messicani, deboli e sazi, non avevano potuto opporsi all'invasione perché non v'era nulla al mondo che essi desiderassero con quella frenesia con cui gli invasori americani desideravano la terra. Poi, col tempo, i predoni non più considerati tali, si dichiararono padroni, e i loro figlioli crebbero nel paese e procrearono altri figlioli. E non sentirono più la fame selvaggia, la fame mordente e lacerante della terra, dell'acqua e del buon cielo sovrastante, dell'erba che sboccia, delle radici che si gonfiano. Possedevano tutte queste cose così completamente, che non le desideravano più. Non conoscevano più la bellezza d'un acro fertile e del lucente vomere che incide solchi in esso, non si commuovevano più dinanzi al mistero della fruttificazione del seme, dinanzi al miracolo del mulino a vento che cava l'acqua dalle profondità della terra. Non sentivano più la poesia di alzarsi prima dell'alba per ascoltare il cinguettio degli uccelli e la melodia della brezza mattutina, in attesa che il primo raggio del sole inondi le zolle ancora addormentate. Queste cose andarono perdute, e i raccolti cominciarono a venire valutati in termini di dollari, e la terra in termini di capitale più interessi. E i prodotti cominciarono a venir comprati e venduti prima delle semine. E allora le annate cattive, la siccità, l'inondazione, non furono più considerate come catastrofi, ma semplicemente come diminuzioni di profitto. E l'amore di quegli esseri umani risultò come intisichito dalla febbre del denaro, e la fierezza della stirpe si sgretolò in interessi; così che tutta quella popolazione risultò di individui che non erano più coloni, ma piccoli commercianti, o piccoli industriali, obbligati a vendere prima di produrre. E quelli fra essi che non si rivelarono bravi commercianti, perdettero i loro poderi che vennero assorbiti da chi invece si rivelò bravo commerciante. Per quanto bravo coltivatore, per quanto affezionato al suo campo, chi non era bravo commerciante non poteva mantenere le proprie posizioni. Così, col passare del tempo, i poderi passarono tutti in mano ad uomini d'affari, e andarono sempre aumentando di proporzioni, ma diminuendo di numero.
Allora l'agricoltura stessa si trasformò in industria. E i proprietari imitarono, senza volerlo, Roma antica: importarono schiavi, pur senza chiamarli così: cinesi, giapponesi, messicani, filippini. Vivono di riso e fagioli, dicevano; hanno pochi bisogni. Di paghe alte, non saprebbero che farsene. Vedi come vivono, vedi cosa mangiano. E se si agitano, si fa presto a deportarli.
E incessantemente i poderi aumentavano di proporzioni e diminuivano di numero; e per conseguenza diminuivano di numero anche i padroni. E i padroni picchiavano, terrorizzavano, affamavano i servi importati; sicché molti di questi tornarono donde erano venuti, ed altri si ribellarono e furono uccisi o scacciati. I raccolti stessi subirono una metamorfosi. Il grano si vide soppiantare dagli alberi da frutta, le biade da ortaggi destinati ad alimentare l'universo intero: lattuga, cavolfiore, carciofo, patata; tutti prodotti che costringono l'essere umano a curvare la schiena. Per maneggiare la falce, l'aratro, il forcone, l'uomo sta in piedi; ma tra i filari dell'insalata o del cotone deve prostrarsi, o strisciare come un insetto, o camminare sui ginocchi come un penitente.
E accadde che i proprietari non lavorarono più le loro terre. Coltivavano sulla carta; e dimenticarono l'odore della terra, il gusto tattile della zolla sbriciolata tra le mani; ricordarono solo che la possedevano, tennero presente solo la cifra dei guadagni che ne traevano o delle perdite che a causa di essa dovevano subire. E i latifondi presero proporzioni tali che il padrone non poteva nemmeno concepirne le dimensioni; erano così vasti che occorrevano battaglioni di contabili per rintracciare perdite e profitti, reggimenti di chimici per fecondare il terreno, brigate di intendenti per sorvegliare i servi proni tra i filari.
E allora davvero l'agricoltore si mutò in bottegaio, fino al punto da tenere effettivamente bottega: pagava i suoi servi, e per rimborsarsi vendeva loro il cibo. E di lì a poco smise persino di pagarli, per risparmiare la spesa della contabilità. Il podere dava, a chi lo lavorava, il vitto a credito; e poteva accadere che un servo, il quale lavorava solo per sostentarsi, alla fine del lavoro scoprisse di essere in debito verso chi gli dava lavoro. E il padrone non solo non lavorava più la sua terra, ma molti di essi non avevano mai nemmeno vista la terra che possedevano.
Ed ecco che, d'un tratto, nel Kansas e nell'Oklahoma, nel Texas e nel Nuovo Messico, nel Nevada e nell'Arkansas, le trattrici e la polvere si alleano per spodestare i coloni e cacciarli nel West. Ed ecco formarsi ed apparire le carovane dei nomadi: ventimila, centomila, duecentomila. Varcando le montagne si riversano nelle ricche vallate: tutti affamati, inquieti come formiche in cerca di cibo, avidi di lavoro, di qualunque lavoro: sollevar pesi, spingere o tirare carichi, raccogliere, tagliare; qualunque cosa, per sostentarsi. I bambini hanno fame. Non abbiamo dove vivere. No, non siamo forestieri, no! Da sette generazioni siamo americani; e prima si era irlandesi, scozzesi, inglesi, tedeschi, italiani. Uno dei nostri antenati ha combattuto nella rivoluzione, e tanti nella guerra civile. Americani, siamo, americani al cento per cento!
Affamati; e risoluti. Avevano carezzato la speranza di trovare una casa, in California, ed ecco che trovano, dappertutto, solo odio. Okies: i padroni li odiano perché sanno di essere deboli al confronto degli Okies, d'essere ben nutriti al confronto degli Okies; e han tutti sentito dire dal nonno quanto sia facile, a chi è affamato e risoluto ed armato, sottrarre la terra a chi è debole e sazio. E nelle città i negozianti odiano gli Okies perché gli Okies non hanno denaro da spendere; i banchieri odiano gli Okies perché sanno che non possono estorcerne nulla; e gli operai odiano gli Okies perché, affamati come sono, offrono i loro servizi per niente, e automaticamente il salario scende per tutti.
E gli spodestati, nomadi, confluiscono e continuano a confluire in California: duecentocinquantamila, trecentomila. Dietro alle prime ondate, altre si formano e si accavallano, perché le trattrici non cessano di dilagare nei campi. Altre ondate di spodestati senza tetto: gente indurita, accanita, pericolosa.
E se da una parte i californiani ambiscono molte cose, come accumular sostanze, ascendere la scala sociale, concedersi svaghi e oggetti di lusso, dall'altra i nuovi barbari chiedono due cose sole: terra e nutrimento, che per loro sono una cosa sola. E mentre le ambizioni dei californiani sono nebulose e indefinite, le esigenze degli Okies si concretano ai lati della strada, sotto la forma di acri di terreno incolto, di terra buona, con acqua a poca profondità. Ad un Okie basta guardare uno di questi campi incolti per capire, per vedere, con gli occhi della mente, se stesso chino nei solchi, con tutti i muscoli tesi nello sforzo della produzione. Al nomade spodestato e affamato che avanza sul suo trabiccolo, con la moglie al fianco e i bambini in sommo al mucchio delle masserizie, il campo incolto si rivela a prima vista capace di produrre, di produrre non profitto ma nutrimento; e quel nomade affamato fa presto a convincersi che lasciare incolto il campo è un peccato mortale, e trascurare la terra è un crimine contro le proprie creature affamate. E durante il cammino egli subisce la costante tentazione di impadronirsi di questa terra, solo per renderla fertile. E in tutto il paese le arance dorate pendono dal ramo tra il fogliame verde scuro degli alberi, e nascosti tra gli alberi i custodi armati di fucili sono autorizzati a sparare contro il primo straccione che si lasci tentare a staccare un frutto per darlo alla sua affamata creatura.
Il nomade, dopo aver perlustrato la campagna tutto il giorno in cerca di lavoro, raggiunge a sera un piccolo paese. Dove si può passare la notte?
Andate a Hooverville, in riva al fiume. E' già piena di Okies.
C'è una Hooverville alla periferia di ogni singolo luogo abitato. Il rione riservato agli straccioni vagabondi è ammassato sulla sponda d'un corso d'acqua, e le case sono tende, o capanne di cartone e di paglia. Il nomade scende dal suo trabiccolo e diventa un cittadino di Hooverville. Si chiamano tutte Hooverville. Il nomade rizza la sua tenda il più possibile vicino all'acqua, o se non ha tenda va dove si scaricano i rifiuti, a cercarvi pezzi di cartone o di lamiera per fabbricarsi la capanna. Si stabilisce a Hooverville, e continua a perlustrare la campagna in automobile, in cerca d'un lavoro, e i pochi soldi che gli rimangono vanno in benzina.
La sera gli uomini si riuniscono, e, accoccolati, discorrono dei terreni che hanno visitato.
La tenuta che ho vista io, sarà forse di trentamila acri, tutti incolti. Dio, cosa potrei farne! Cinque soli basterebbero a dar da mangiare a tutta la mia famiglia.
Avete notato? Niente ortaggi, niente polli, niente maiali. Dappertutto, coltivano un solo prodotto: cotone, o peschi, o aranci. Preferiscono comprare il necessario, invece di produrlo. Chi s'è mai sognato una cosa simile?
Dio, cosa si potrebbe fare con una coppia di maiali?
Inutile pensarci. La terra non è vostra; non lo sarà mai.
Talora, tra le tende e le capanne di Hooverville, serpeggia in un bisbiglio la notizia: a Shafter offrono lavoro. E subito, nel cuore della notte, tutti s'affannano a caricare le masserizie sui trabiccoli, e sulla strada ha luogo una tumultuosa corsa al lavoro; e al mattino, a Shafter, la folla degli aspiranti è cinque volte più numerosa del bisogno. No, questo appezzamento è proprietà privata.
Ma non potete cedermene una pertica sola, da lavorare? Qui, proprio qui, questo pezzetto mi basterebbe. E' tutto ortiche. Potrei cavarne patate a sufficienza per tutta la famiglia.
Macché. Il padrone non vuol saperne. Intende tenerla e ortiche.
Di quando in quando qualcuno, più animoso, fa il tentativo. Alla chetichella dissoda un pezzetto di terra, per rubarne, come un vero ladro, la poca ricchezza che può offrire. E tra le ortiche ecco nascere un orto segreto: basta un pacchettino di semi di carota, pochi tuberi di rapa, qualche frammento di patata. La sarchiatura viene fatta di notte. L'audace lascia le ortiche tutt'attorno al suo orticello, perché nessuno possa vederlo dalla strada; vi lascia anche i ciuffi più folti nel centro. Per annaffiare le piantine si serve d'una vecchia latta di benzina.
Poi un giorno arriva l'agente dello sceriffo. Dite un po', voi, cosa state facendo qui?
Niente di male.
E' da un po' che vi tengo d'occhio. Credete d'essere in casa vostra?
Era incolto, qui; non faccio torto a nessuno.
Contravvenite alla legge. Credete di essere in casa vostra? Ma guarda un po', si credono padroni loro, questi Okies! Sgombrate subito! E l'agente calpesta i verdi sprocchetti di carota, e l'ortica non tarda a riprende il sopravvento.
Ma l'agente ha ragione. Un raccolto mietuto costituisce un titolo al possesso della terra, e conferisce a chi l'ha lavorata il diritto di difendersela con le armi in pugno. Scacciarli, bisogna, questi intrusi; e subito, e senza pietà; altrimenti si crederanno di possederla davvero, e son capaci di rischiar la pelle per salvarsi l'orticello tra le ortiche. Hai visto la sua faccia quando gli ho pestato le rape? Quello è più che capace di far la pelle a chiunque osi guardarlo. Se non li teniamo a bada, questi straccioni, s'impadroniscono di tutto il paese. Tutto il paese. Porci di forestieri. Va bene, parlano la nostra lingua, ma non sono come noi. Basta vedere come vivono, chi di noi si adatterebbe a vivere così? E a Hooverville, la sera, gli straccioni accoccolati. Sai cos'è che si dovrebbe fare? Metterci in una ventina, e dare l'assalto a un appezzamento. Siamo armati. Lo conquistiamo, e a chi viene per mandarci via, diciamo tranquillamente: mandateci via, se vi riuscite. Perché non facciamo così?
Ci sparerebbero come a cani arrabbiati.
E non è meglio la morte che questa miseria? Non è meglio per i tuoi bambini morire subito, piuttosto che crepar di fame tra sei mesi? Sai cosa s'è mangiato noi, tutta la settimana? Verdura d'ortiche, e pane di segatura. Dov'ho preso la segatura? In un carro bestiame alla stazione.
E, per contro, gli arroganti discorsi dei poliziotti ben pasciuti: Trattarli senza pietà, dico io; o Dio sa cosa ci combinano. Gente più pericolosa dei negri del Sud. Se si mettono d'accordo, nessuno li tiene più. Hai ben sentito quel che è successo a Lawrenceville. A Lawrenceville un poliziotto ha dovuto ricorrere alla forza per scacciare un abusivo, e il ragazzo undicenne di questo straccione ha sparato, col fucile del babbo, e ha ucciso il poliziotto. Peggio dei serpenti, ti dico. Non bisogna lasciarli parlare, e se insistono, sparare senz'altro, sparare noi per primi. Se un marmocchio è capace di uccidere, cosa faranno gli adulti? L'unica è di mostrarsi più forti di loro. Trattarli da cani. Spaventarli.
E se non si lasciano impressionare? Se si ribellano in tanti, e si mettono a sparare anche loro? Son tutti avvezzi ad usare il fucile fin da bambini. Se non si lasciano impressionare? Se si organizzano in bande, chi li ferma più? Son tutti disperati, capisci; disperati che hanno provato la paura della fame, che è superiore a ogni altra.
E di quando in quando, qua e là in tutta la California, le razzie: le irruzioni di agenti armati negli attendamenti degli abusivi. Via di qui! Ordine del Dipartimento dell'Igiene. Questo accampamento rappresenta un pericolo per la sanità pubblica.
Dove possiamo andare?
All'inferno, non ci riguarda. Abbiamo ordine di scacciarvi di qui. Tra mezz'ora appicchiamo il fuoco all'accampamento. Avete il tifo, qui; volete propagarlo? Abbiamo ordine di scacciarvi. Via di qui! Tra mezz'ora appicchiamo il fuoco.
Mezz'ora dopo il fumo delle case di cartone e delle capanne di paglia s'innalza nel cielo e le famiglie sono di nuovo in viaggio alla disperata ricerca di un'altra Hooverville. E nel Kansas e nell'Arkansas, nell'Oklahoma, nel Texas e nel Nuovo Messico le trattrici continuano inesorabili a sfrattare altri coloni.
Trecentomila già in California, e nuove ondate in cammino. Tutte le strade ingombre di gente frenetica, che formicola inquieta in cerca di pesi da alzare, carichi da spingere o da tirare; in cerca di lavoro. Per ogni offerta di lavoro, cinque paia di braccia levate; per ogni singola razione di cibo, cinque bocche aperte.
E i latifondisti, che si sanno destinati a perdere la terra in caso di rivolta organizzata, i grossi latifondisti che conoscono la storia, che hanno occhi per leggere la storia e intelligenza per capirla, sanno, conoscono benissimo il fatto fondamentale che quando la proprietà terriera si accumula nelle mani di pochi, va inesorabilmente perduta. E sanno anche quest'altro fatto, concomitante, che quando una maggioranza ha fame e freddo, essa finisce sempre col prendersi con la violenza ciò che le occorre. E sanno infine questo terzo fatto, meno evidente forse, ma sempre presente nel corso della storia: che cioè le repressioni servono solo a rinvigorire e a riunire tra loro i perseguitati.
Ma i latifondisti preferiscono ignorare questi tre ammaestramenti della storia. La terra s'accumula sempre più nelle mani di pochi, il numero degli sfrattati continua ad aumentare, e tutti gli sforzi dei latifondisti continuano ad orientarsi verso la repressione. Il denaro pubblico va speso in armamenti e in gas lacrimogeni per salvare la pelle dei latifondisti, e in spie, spie che hanno l'incarico di captare ogni minimo rumore di rivolta per poterlo soffocare in tempo. I latifondisti preferiscono ignorare l'evoluzione dell'economia, e le premesse di tale evoluzione; considerano solo i mezzi atti a reprimere le rivolte, senza curarsi di sopprimere le cause determinanti.
Le trattrici che gettano i coloni sul lastrico, le mastodontiche imprese di trasporto, le macchine che producono, tutto questo merita l'incondizionato appoggio dei latifondisti; e non importa se aumenta in modo spaventoso il numero delle famiglie sul lastrico, avide di qualche briciola degli sconfinati latifondi. I latifondisti formano associazioni per proteggersi, si riuniscono a discutere sui mezzi più efficaci per intimidire, soffocare, uccidere. E si persuadono di non dover temere il pericolo principale, costituito dall'eventualità che i trecentomila trovino, tra di essi, un capo che sappia guidarli. Se ai trecentomila miserabili consentite la possibilità di contarsi, è inevitabile che essi conquisteranno la terra; e non v'è gas o mitragliatrice che possa fermarli.
Così i latifondisti, che a causa del possesso dei loro latifondi divengono sempre più superuomini e al contempo sempre più disumani, corrono verso la propria distruzione, e senza avvedersene usano di ogni mezzo che a lungo andare finirà inesorabilmente col sopprimerli. Ogni espediente, ogni atto di violenza, ogni scorribanda in una Hooverville qualsiasi, ogni singolo sceriffo spaccone in un accampamento di straccioni, non fanno che procrastinare di qualche giorno l'alba fatale, rendendola inevitabile.
I coloni, tutti uomini dai lineamenti scarni e duri, scarni per la fame, e duri per la perseveranza con cui la combattono, tutta gente dagli occhi torvi e dalle mandibole d'acciaio, discorrono nei miserabili attendamenti circondati dalla fertile terra incolta.
Hai sentito di quel bambino della tenda numero quattro?
No. Sono appena arrivato ieri.
Poverino. Piangeva sempre nel sonno, si dibatteva. I parenti credevano che fossero i vermi, e gli fanno un clistere, e il piccolo muore. S'è scoperto ch'era la lingua nera, come la chiamano; è una peste, che viene a chi mangia cose marce.
Povero piccino.
E i parenti non possono nemmeno dargli sepoltura, non hanno un soldo.
E le mani frugano in tasca e ne traggono monete e davanti alla tenda numero quattro si forma un mucchietto d'argento.
La nostra popolazione è brava gente, gente in gamba. Voglia il cielo che non vada tutta in miseria! Ma le associazioni dei latifondisti dovrebbero sapere che il cielo un bel giorno smetterà di volerlo. E dovrebbero sapere che quel giorno sarà la loro fine.
CAPITOLO 20.
Dinanzi all'ufficio del "coroner" di Bakersfield, i bambini, il predicatore, Connie e Rosa Tea aspettavano acciocchiti e raggranchiti sotto la canicola in sommo al carico delle masserizie. Il babbo, la mamma e zio John erano entrati nell'ufficio per denunciare la morte della nonna, e poco dopo veniva portato un lungo cesto, nel quale venne deposta la salma tolta dall'autocarro, perché si potesse procedere agli accertamenti di legge.
Al e Tom s'erano allontanati a zonzo lungo la via guardando con curiosità la gente sui marciapiedi e le vetrine.
E finalmente il babbo, la mamma e zio John erano riapparsi, l'aria mesta e rassegnata; zio John s'arrampicò in cima al carico, e il babbo e la mamma presero posto sul sedile anteriore. Tom ed Al non si fecero aspettare, e Tom si sedette al volante, senza dire una parola, in attesa di istruzioni dal babbo. Ma il babbo, immobile, guardava fisso innanzi a sé, la tesa del cappello abbassata sugli occhi, e anche la mamma guardava lontano con aria smarrita, grattandosi con due dita gli angoli della bocca.
Il babbo tirò un profondo respiro. «Non si poteva far altro,» disse.
«Lo so,» disse la mamma, «ma l'aveva sempre desiderato un bel funerale.»
Tom scoccò un'occhiata ai genitori e mormorò: «Fossa comune?»
«Purtroppo,» disse il babbo; poi, scuotendo la testa come per rientrare nella realtà, aggiunse: «Non s'aveva abbastanza, non si poteva fare diversamente.» E rivolgendosi alla mamma: «Non rattristarti, non c'era altro da fare: l'imbalsamazione, la bara, il prete, la fossa privata ci avrebbero preso dieci volte di più di quello che abbiamo. S'è fatto il massimo che s'è potuto.»
«Lo so,» ripeté la mamma, «ma non posso fare a meno di pensare che lei ci teneva tanto a un bel funerale.» Sospirò, e si grattò più vivacemente gli angoli della bocca. «Andiamo, su. Cerchiamoci un posto dove fermarci. I bambini hanno fame. La nonna non lo faceva mai, non c'era pericolo che trascurasse la colazione, un giorno di funerale.» «Dove si va?» domandò Tom.
Il babbo sollevò il cappello e si grattò energicamente tra i capelli. «Cerchiamo un posto dove accamparci. Non dobbiamo mica spendere quel poco che ci resta prima di trovar lavoro. Portaci fuori di qua, in campagna.»
Tom avviò il motore e attraversarono la città, uscendo poi in aperta campagna. Oltrepassato un ponte, scorsero un raggruppamento di tende e capanne. Tom disse: «Tanto vale fermarci qui, informarci dove si può trovar lavoro.» Accostò sul margine dello stradone, e dopo un ripido tratto in discesa raggiunsero il limite del campo.
Le tende, le capanne, le automobili erano sparse per l'accampamento nella massima confusione. La baracca più vicina all'entrata era quanto di più miserabile si potesse immaginare: la facciata risultava di sei grandi teli di sacco, il lato est, di vari pezzi di cartone, il lato opposto, di stuoie, e il rovescio, di lamiera ondulata; il tetto era di paglia, ammucchiata alla meglio sopra un'intelaiatura di rami di salice. Per entrare bisognava introdursi tra i teli della facciata, che pendevano come un sipario aperto nel mezzo. Nell'interno, una latta di petrolio serviva da fornello, ed era munita d'un pezzo di tubo di stufa che usciva dal tetto. Vicino al fornello stava un mastello per il bucato. Il resto del mobilio consisteva di cassette di legno. All'esterno parcheggiata era una berlina Ford modello T con un rimorchio su due ruote.
La tenda più vicina al tugurio aveva un'aria un poco più civile: l'ingresso era stato spazzato e innaffiato, le cassette erano ben allineate, e su una di esse era posata una secchia ricolma di biancheria già lavata e strizzata. Nei pressi della tenda una vettura da turismo modello A e una piccola roulotte fatta in casa.
Più in là ancora una tenda di grandi dimensioni incredibilmente logora e disseminata di toppe e rammendi fatti con filo di ferro. Dai lembi sollevati dell'apertura si intravedevano per terra quattro ampi materassi. Sulla corda del bucato tesa all'esterno erano appese ad asciugare diverse tute maschili e una mezza dozzina di vestiti femminili di tela rosa.
Erano forse una quarantina in tutto, le tende e le capanne, e ciascuna aveva la propria automobile. All'arrivo dei Joad, s'adunò un gruppetto di bambini, sporchi, e piedi nudi, i capelli grigi di polvere; seri, curiosi. Tom fermò il camion e guardò il babbo: «Un postaccio d'inferno,» osservò. «S'ha da provare da qualche altra parte?»
«Inutile provare altrove, se non sappiamo dove siamo. L'essenziale è di trovare lavoro. Qui intanto possiamo informarci.»
Tom aprì la portiera, scese, e tutti gli altri lo imitarono, lasciandosi scivolare giù dal carico e guardandosi attorno con curiosità. Solo Ruth e Winfield, ormai rotti alla disciplina della strada, si dettero subito da fare: presa la secchia, si diressero immediatamente verso la fila dei salici che indicava la presenza dell'acqua.
Il sipario del primo tugurio si aprì nel mezzo, e una donna si affacciò. Aveva i capelli grigi, ravvolti in trecce, e indossava una sudicia vestaglia a fiorami. La pelle del viso era avvizzita, incartapecorita; gli occhi spenti, cerchiati di nero; la bocca flaccida, volgare.
Il babbo le domandò: «Possiamo fermarci dove vogliamo in questo accampamento?»
La donna si ritirò lasciando ricadere la tenda, che dopo un momento si riaprì, e apparve un uomo barbuto in maniche di camicia. Bofonchiò: «Salve, gente,» e i suoi neri occhietti inquieti passarono in rapida rassegna ogni singolo individuo della famiglia e si fermarono sulle masserizie accatastate sul camion.
Il babbo disse: «Ho domandato a vostra moglie se è permesso fermarsi dove si vuole, qui.» Il barbuto guardò il babbo con occhi intenti, come se avesse detto qualche cosa di grave che
richiedesse molta riflessione. Disse: «Se è permesso fermarsi dove si vuole, qui?»
«Sì, voglio sapere se c'è un padrone per chiedergli il permesso di fermarci.»
L'altro chiuse un occhio per riflettere meglio, ma non smise di esaminare il babbo con quello aperto.
«Volete fermarvi qui?»
Il babbo ebbe uno scatto. «E cos'altro credete che vogliamo?»
«Be', se volete fermarvi, chi v'impedisce? Io no.»
Tom rise. «Be', meno male l'ha capita.»
Il babbo si sforzò di mantenere la calma. «Volevo solo sapere se c'è un padrone. C'è da pagare qualcosa?»
Il barbuto protese il mento. «Se c'è un padrone?»
Il babbo gli voltò la schiena borbottando: «Va' all'inferno.»
L'altro fece due passi innanzi, con piglio minaccioso. «Un padrone?» ripeté. «Voglio un po' vedere chi ci manda via. Fatemelo un po' vedere voi!»
Tom s'interpose: «Fareste meglio ad andare a farvi una bella dormita,» gli disse.
Il barbuto si voltò a guardarlo, con aria sospettosa e meditabonda, poi fece dietro front e sparì dentro alla baracca.
Tom guardò il babbo: «Ma da dove è uscito?» disse. Il babbo scrollò le spalle; stava guardando un giovanotto che, poche tende più in là, era intento a smerigliare le valvole della sua vecchia Buick, che era lì parcheggiata col cofano sollevato. Senza cessare di lavorare, il giovanotto ridacchiava tra sé. Appena il barbuto si fu ritirato nel tugurio, il giovanotto smise il lavoro e si avvicinò ai nuovi arrivati. «Benvenuti,» disse, con espressione ancora divertita. «Ho visto che eravate a colloquio col nostro decano.»
«Ma che diavolo gli era preso?» domandò Tom.
«Oh, è solo un po' tocco,» fece l'altro, toccandosi la fronte, e sorridendo aggiunge: «Ma siamo tutti più o meno nelle stesse condizioni.»
«Gli ho solo domandato,» spiegò il babbo, «se potevamo fermarci qui.»
«Sì, sì, perché no? Appena arrivati, eh?»
«Già,» disse Tom, «stamattina.»
«Mai stati a Hooverville?» «Dove? Hooverville?»
«Sì. Un posto come questo.
«Oh,» disse Tom. «Certo che ci siamo stati.»
La mamma vide Ruth e Winfield tornare con la secchia piena e disse: «Allora scarichiamo.» Il babbo e zio John salirono sull'autocarro e cominciarono a scaricare. Tom si unì al giovanotto, che tornava verso la sua Buick. Gli domandò: «Ma si può sapere cosa diavolo aveva quel tizio con la barba?»
Il giovanotto riprese a smerigliare le sue valvole. «Il decano? E chi lo sa. Suppongo che è un po' svitato.»
«Svitato?»
«Con tutte le girate che ha avuto dai poliziotti, suppongo che sta ancora ruotando.»
«E perché ce l'hanno con un poveraccio come lui, i poliziotti?»
Il giovanotto sospese il lavoro e piantò gli occhi in faccia a Tom: «Il perché lo capirete presto. Vi
basterà fermarvi qualche giorno nello stesso posto, per far conoscenza con i poliziotti.» Riprese una valvola e ne spalmò la testa con la pasta da smeriglio.
«E che cosa vogliono i poliziotti da noi?»
«Chi cavolo lo sa. C'è chi dice che non vogliono che votiamo. Altri dicono che vogliono impedirci di richiedere il sussidio, o che hanno paura che ci organizziamo. Io non so chi ha ragione. Certo è che ci danno la caccia. Ve ne accorgerete presto.»
«Non siam mica vagabondi,» osservò Tom, «s'è tutti in cerca di lavoro, e tutti disposti a fare qualunque lavoro. Ma la questione è: lavoro ce n'è, o no?»
«Ce ne dev'essere; io non so. Non è proprio la stagione per i raccolti. L'uva, e il cotone, più tardi. Io, appena ho finito di smerigliare queste valvole, me ne vado via di qui, con la famiglia. Andiamo più a nord. Abbiamo sentito che lassù c'è lavoro.»
Dal punto in cui era, Tom poteva vedere zio John e il babbo e Casy stendere il telone impermeabile sui picchetti, e la mamma, in ginocchio, intenta a spazzolare i materassi a terra. I bambini dell'accampamento, una quindicina in tutto, s'erano avvicinati per osservare lo scarico delle masserizie della nuova famiglia. Tom disse: «Quando eravamo ancora a casa nostra, son capitati di là dei tali con dei prospettini di propaganda, dove c'era scritto che qui avevano bisogno d'una quantità di lavoratori per i raccolti.»
Il giovanotto rise. «Saremo trecentomila qui, tutti venuti di fuori apposta per via di quei prospettini.
Non c'è una persona fra noi che non li ha letti.»
«Ma se non ne avevano bisogno di lavoranti, chi gliel'ha fatto fare di stampare tutti quei volantini?» Il giovanotto smise di lavorare per spiegarsi meglio.
«Mettiamo il caso che avete bisogno d'un uomo per fare un lavoro. Se si presenta uno solo, dovete pagarlo quel che vi chiede, vero o no? Ma se si presentano in cento, tutti affamati, tutti ammogliati con prole, la cosa cambia, vero, lo capite anche voi. Volete sapere quanto mi davano, l'ultima volta che ho lavorato? Quindici cents all'ora. Dieci ore di lavoro al giorno per un dollaro e mezzo. E siccome non si poteva vivere sul posto, ci rimettevo anche la benzina. Capite adesso perché stampano i volantini? Miliardi, ne possono stampare, con tutto quel che risparmiano pagando quindici cents l'ora quelli che lavorano nei campi.»
«Ma è una disonestà.»
L'altro rise. «Fate tanto di fermarvi qui una settimana e ve n'accorgerete benissimo anche voi e parlerete preciso come me.»
«Ma lavoro ce ne dev'essere,» insistette Tom, «è impossibile che non ce n'è, con tutti gli orti, le vigne, i frutteti, i campi di cotone...»
«Sì, sì. Ma statemi a sentire. Ho lavorato in un frutteto. Una grossa proprietà che però a coltivarla bastano nove uomini per tutta l'annata. E' solo al momento del raccolto che il padrone ha bisogno di tremila lavoratori durante due settimane. Allora manda fuori diecimila volantini, e sfrutta la concorrenza, e paga quel che gli pare. Finito il raccolto delle frutta, tutti i lavoratori sono sul lastrico di nuovo, e nessuno ce li vuole qui, gli straccioni, che coi loro miserabili accampamenti guastano la bellezza del paesaggio. Nessuno li vuole, perciò vi pregano di traslocare. Ecco com'è.»
Tom teneva d'occhio la mamma che aveva acceso il fuoco e metteva su la pentola. I bambini si erano disposti in circolo e osservavano con calmi occhi spalancati ogni mossa delle mani della mamma. Ruth e Winfield stavano a prestar man forte alla mamma e lanciavano occhiate bellicose ai bambini sconosciuti. Tom disse: «Ma non è adesso la stagione delle pesche?» «Sì, e allora?»
«Ebbene, poniamo il caso che i lavoratori s'accordino e dicano: o ci pagano tanto, o le lasciamo marcire. Il padrone non sarebbe obbligato a pagare di più?»
«Già. Questo è quello che pensano tutti, sulle prime. Ma non dubitate che il padrone ci ha già pensato lui per conto suo. Capite anche voi che, se i lavoratori si organizzano, è segno che c'è un organizzatore, un caporione, che li comanda, che discute coi padroni. Be', se c'è, la prima volta che apre bocca per discutere, lo abbrancano e lo schiaffano in prigione. E se salta su un altro per sostituirlo, ebbene abbrancano anche quest'altro che fa la stessa fine.».
«In prigione se non altro non si muore di fame,» osservò Tom.
«Vero. Ma se avete bambini, mica ve li mettono in prigione assieme a voi. E non fa piacere, in prigione, pensare che, fuori, i bambini vi muoiono di fame. E poi c'è un'altra cosa. Mai sentito parlare della lista nera?» «No. Cos'è?»
«Be', Provatevi solo ad aprire il becco sulla necessità di organizzarsi e poi ve n'accorgerete. Vi prendono la fotografia e la mandano in tutto il paese; e non trovate più lavoro mi nessun posto.»
Tom si levò il berretto e lo torse fra le mani. «Così ci si deve contentare di quello che ci offrono, ed è proibito protestare. Non credo che la California faccia per me, in questo caso. E nemmeno per la mia famiglia. Non siamo mica delle pecore.»
«Date retta, pensateci su due volte prima di ribellarvi. Avete visto il decano, vero? Bisogna fare come lui, se viene la polizia: fare il tonto; non rispondere a nessuna domanda. Guai se vi sospettano d'esser un agitatore.» E il giovanotto si rimise alacremente al lavoro.
Tom lo lasciò. Immerso in pensieri, a passi lenti e svogliati, e mormorando tra sé: «Fare il tonto,» fece ritorno alla tenda. Il babbo e zio John arrivavano portando grosse fascine di legna secca; le gettarono a terra vicino al fuoco e si accoccolarono a discorrere. «Ne abbiamo una buona provvista, se non altro,» disse il babbo, «s'ha da camminare un quarto d'ora per arrivare ai salici.» Adocchiò la nutrita schiera di bambini sudici in agguato. «Gran Dio! Da dove diavolo uscite tutti quanti?» I bambini intimiditi abbassarono gli occhi.
La mamma disse: «Credo che è l'odore del mangiare che li attira. Winfield, fuori dai piedi!» gli urlò dandogli uno spintone. «Voglio fare un po' di brodo. Da quando siamo partiti non s'è mai preso qualcosa di caldo. Babbo, fa' un salto fino a quella bottega laggiù e guarda se trovi un po' di collo.» Il babbo si levò subito e s'allontanò.
Al stava passando un'ispezione al motore, quando Tom arrivò; lo chiamò: «Vieni a vedere anche te.
Cosa ti pare? Io lo trovo in buone condizioni.»
Tom si chinò sopra il cofano aperto ed esaminò attentamente le varie parti. «Sì, pare anche a me.»
«Ti dico che è formidabile, sì, come motore. Non perde olio né niente.»
Tom svitò una candela e cacciò un dito nel buco «Qualche incrostazione, ma è asciutto. Meglio tenerlo pronto per domani, sai, si va in cerca di lavoro.»
«Non preoccuparti, è già in ordine,» lo rassicurò Al. Trasse di tasca il temperino e raschiò la incrostazioni dalle punte della candela.
Tom passò dietro alla tenda, e trovò Casy seduto in terra, in profonda contemplazione d'uno dei suoi piedi. Tom si lasciò cadere seduto accanto a lui: «Credi che funzionerà ancora?» «Che cosa?» domandò Casy.
«Quel tuo piede.»
«Oh! Stavo solo riflettendo.»
«Rifletti molto questi giorni, ma parli poco.» Si tolse il berretto, ridotto ormai in uno stato miserando, ne rivoltò in fuori l'interna striscia di pelle e tolse via la striscia di giornale che v'aveva messo quando il berretto nuovo gli stava troppo largo. «A furia di sudare, il panno s'è ristretto,» spiegò, e guardando le contorsioni del dito grosso del piede di Casy aggiunse: «Puoi smettere un momento di pensare, per ascoltare quello che ho da dirti?»
Casy voltò il collo da avvoltoio. «Non faccio altro che ascoltare. E poi medito su quel che sento. Ascolto i poveri parlare, e capisco quanto soffrono. Sai cosa mi sembrano? Rondini rinchiuse in qualche soffitta, che sbattono le ali invano, e picchiano la testa contro i vetri polverosi della finestra.»
Tom lo guardò sorpreso. «Era proprio questo che volevo dirti. Ma vedo che sei già al corrente.»
«Non ci vuol molto; basta aprire gli occhi e orecchi. Era così anche prima, quando predicavo; solo che a quell'epoca chi soffriva mi chiedeva una preghiera, e io lo accontentavo, e si era contenti in due. Adesso invece non credo più alle preghiere.»
«Le preghiere,» sentenziò Tom, «non hanno mai portato la pancetta in tavola. Per questa ci vuole il maiale.»
«Proprio. E Dio Onnipotente non s'è mai curato di far aumentare le paghe. Cos'è che vuole tutta questa gente? Vivere decentemente, allevare i bambini in un modo decente. E quando son vecchi, poter sedere sulla soglia di casa e guardare il tramonto del sole. Da giovani si contentano di poter ballare ogni tanto, e cantare e fare all'amore. Altro non vogliono. Diavolo! Ma che sto dicendo?» «Non so,» disse Tom, «ma è bello. Qui però si tratta di trovar lavoro. I soldi son quasi finiti. Il babbo ha dato cinque dollari per far mettere una tavoletta di legno sulla tomba della nonna, per lapide. Si tratta di trovar lavoro senz'altra perdita di tempo.»
Casy parve assorto nella contemplazione d'un cane bastardo, che errava tra le tende, annusando sospettoso. Appena colse l'odore dei due uomini seduti, l'animale voltò la testa nella loro direzione, li scorse, fece un salto indietro e se la diede a gambe, scomparendo dietro una tenda. Casy sospirò. «Già. Io sono un impiccio. Stavo appunto pensando che mi faccio mantenere da voi senza rendermi utile. Bisogna che mi decida a trovare qualcosa per conto mio.»
Tom fece schioccare la lingua tra i denti e alzò una spalla, ma invece di protestare osservò: «Dio, cosa pagherei avere un pacchetto di tabacco. A McAlester non ci mancava mai. Alle volte rimpiango il carcere. Mai stato in una prigione?»
«No. Mai.»
«Senti, Casy. Se vuoi farmi un piacere, non parlare di lasciarci adesso. Più tardi, può darsi, ma adesso no. Puoi renderti utile, te l'assicuro io.»
«In che modo?»
«Non so dire esattamente, ma ho come un presentimento. Son cose che s'imparano in prigione. Là dentro, sai che è proibita la conversazione in gruppetti, vero? Tutt'al più, ti lasciano dire qualche parola col vicino, al lavoro. Eppure, si è sempre al corrente di quello che sta per capitare. Se tira vento di sommossa, per esempio, tutti lo sentono, senza che nessuno ne parli. Capisci, quel che voglio dire?»
Casy agitò violentemente le dita dei piedi, guardandosele con raddoppiato interesse. «Sì, credo di capire. E' meglio che resti con voi.»
«Bravo. Vedo che hai capito. E domani si va insieme in cerca di lavoro.» «E' deciso,» replicò Casy, e continuò a contemplare l'agitazione dei suoi piedi.
Tom si sdraiò su un fianco e chiuse gli occhi. Sentiva indistinto il mormorio delle voci di Connie e di Rosa Tea all'interno della tenda. Rosa Tea era distesa su un materasso, e Connie rannicchiato accanto a lei. Rosa Tea diceva: «Dovrei aiutare la mamma, ma mi sento così stanca.»
Connie aveva un'espressione dura. «Avessi potuto prevedere che era così, non sarei venuto via.» diceva. «Sarei rimasto a casa, a studiare le trattrici. Ti pagano tre dollari al giorno, a guidare la trattrice. Con tre dollari al giorno si vive da signori, si vive in città, si può andare al cinema tutte le sere.»
Rosa Tea parve sgomenta. «Non avevi detto che ti mettevi a studiare la radio?» e siccome Connie
non rispose subito, incalzò: «Non hai più intenzione di studiare la radio?»
«Sì, certo, ma... senza soldi non si può far niente.»
Rosa Tea si tirò su un gomito. «Hai mica idea di rinunciare, per caso?»
«Ma nemmeno per sogno, diavolo, ma... Non m'immaginavo di dover vivere in questa schifezza.» Lo sguardo di Rosa Tea s'indurì. «Gli altri non si lamentano mica,» disse.
«Questo non m'impedisce di pensare che avremmo fatto meglio a rimanere a casa. Io avrei potuto studiare le trattrici. Tre dollari al giorno, pagano, e senza contare i supplementi.» E accorgendosi d'un tratto che gli occhi di Rosa Tea prendevano a soppesarlo, valutarlo, cambiò intonazione. «Ma sta' sicura che mi metto a studiare lo stesso, appena ho un po' di soldi da parte.»
Ella disse, con insolito calore: «Ricordati che una casa la voglio, prima che venga il bambino. Non voglio che nasca sotto una tenda.»
«Sta' tranquilla, sta' tranquilla. Appena ho un po' di soldi da parte.»
La mamma, inginocchiata vicino al fuoco stava aggiungendo fascine per tener viva la fiamma sotto la pentola del bollito. Attorno a lei, il circolo dei bimbi affamati s'andava stringendo sempre più, e i marmocchi arricciavano i nasini ogniqualvolta coglievano l'odore della carne. La mamma conversava amichevolmente con la ragazzetta più grande, che poteva avere una dozzina d'anni, e stava ritta su un piede solo, carezzandosi il polpaccio con l'incavo dell'altro piede. Teneva le mani incrociate sul dorso, e non staccava gli occhi dalle mosse della mamma. Disse: «Io saprei aiutarvi, signora, se volete.»
La mamma guardò su: «Vuoi aiutarmi perché t'inviti a pranzo, eh?» «Sissignora,» dichiarò la bimba senza soggezione.
«Non hai pranzato oggi?»
«Nossignora. Non c'è lavoro. Il mio babbo ha deciso di provare a vendere qualcosa, per comprare la benzina e andar via di qui.»
La mamma diede un'occhiata in giro. «Nessuno di questi ragazzini ha pranzato?»
I bambini si agitarono nervosamente e smisero di guardare la pentola. Un ragazzino dichiarò, con aria di spaccone: «Io sì che ho mangiato, anche mio fratello, e anche quei due lì, li ho visti. Noi s'è mangiato bene. Partiamo stanotte.»
La mamma abbozzò un mesto sorriso. «Allora non avete appetito. Buona cosa, perché qui non ce n'è per tutti.»
Il ragazzino sporse il labbro inferiore. «Noi s'è mangiato bene,» ripeté, e scappò via, e scomparve sotto una tenda poco distante.
La ragazzetta disse: «Io posso badare al fuoco, signora, se volete.»
Ruth e Winfield erano al centro del circolo, e si comportavano con freddezza e dignità. Avevano l'aria distaccata, ma al tempo stesso padronale. Ruth lanciò un'occhiata aggressiva alla ragazzetta, e si chinò a spezzar fascine per la mamma. La mamma sollevò il coperchio della pentola e rimestò la minestra con un fuscello, mormorando: «Meno male che non tutti sono affamati; quel marmocchio che è scappato, certo non lo era.»
La ragazzetta ghignò: «Oh, quello lì è uno sbruffone. Sapete quel che ha fatto ieri sera? Non aveva cenato, e salta su a dire che avevano mangiato un pollo, nella sua tenda. Invece poi s'è saputo che avevano solo mangiato la polenta al mattino, come tutti.»
«Davvero?» La mamma diede un'occhiata alla tenda sotto la quale era scomparso il marmocchio sbruffone. «Da quanto tempo siete in California?» domandò alla bambina.
«Quasi sei mesi. Prima si era in un campeggio del governo, ma poi siamo andati su nel nord, per lavorare, e al ritorno il campeggio era pieno e non c'era più posto. Ma in quel campeggio si stava bene.»
«Dove si trova?» domandò la mamma, prendendo gli stecchi che Ruth le porgeva. E Ruth lanciò alla bambina un'occhiata carica d'odio.
«Vicino a Weedpatch. C'è l'acqua corrente nei tubi, e i bagni. E la sera suonano il mandolino e la chitarra, e il sabato si balla. Oh, è bello. C'è un recinto apposta per i giochi, e i gabinetti con la carta, e si tira una catena e vien giù l'acqua. Bello. E i poliziotti non vengono, non possono venire, e il direttore è un bravo signore, che parla con tutti, gentile, s'interessa a tutti. Ah, poter tornare, quello sì mi piacerebbe!»
La mamma disse: «E' la prima volta che ne sento parlare. Farebbe comodo anche a me. Per il bucato, per esempio.»
La ragazzina si animò. «Oh, vedeste la lavanderia! L'acqua è calda nei tubi. Si può anche fare la doccia calda. Mai visto un posto così.»
«E dici che adesso è pieno? Non c'è posto?»
«Purtroppo;. Quando siam passati di lì, non ci hanno potuto prendere.»
«Deve costar caro.»
«Oh, si deve pagare qualche cosa, sì ma se non avete denaro vi prendono lo stesso e vi danno modo di guadagnarlo, lavorando un paio d'ore alla settimana, spazzare i recinti, vuotare i secchi dei rifiuti, cose di questo genere. E la sera c'è musica, e conversazione... Tutto bello.»
Ruth perdette la pazienza. Sbottò, feroce: «C'è morta la nonna in viaggio!» E siccome la ragazzina la guardò con occhi pieni di sorpresa, aggiunse, inviperita: «E se l'è portata via il "coroner"!» Poi compresse le labbra per padroneggiare la sua collera e si rimise alacremente a spezzare stecchi. Winfield le prestò man forte e gridò: «E' morta nell'autocarro, e il "coroner" l'ha messa in una cesta.»
La mamma li richiamò all'ordine. «Zitti voi, se no vi mando a letto senza cena.»
Al, passeggiando fra le tende, aveva scoperto anche lui il giovanotto intento a smerigliare le valvole, e si era fermato ad attaccar discorso. «Pare che avete quasi finito,» gli disse.
«Ancora due.»
«Sapete cosa manca qui, in questo campo? Le ragazze.»
«Io ho moglie. Non ho tempo per le ragazze.»
«Io invece ho sempre tempo per le ragazze,» riprese Al. «Per tutto il resto non ho mai tempo.»
«Fate tanto di avere un po' di fame, e vedrete che cambierete idea.»
Al rise. «Forse. Ma può anche darsi che non cambierò idea, anche se ho fame.»
«Poco fa parlavo con uno che vi somiglia. Siete fratelli?»
«Sì. Mio fratello Tom. Meglio non scherzare, con quello lì. Ha accoppato un uomo.»
«Perdio. Perché?»
«In rissa. S'era preso una coltellata, e gli ha spaccata la testa con un badile.»
«Sembra un ragazzo tranquillo.»
«Tranquillissimo, certo, ma non se le lascia dire da nessuno.» L'altro pigliò in mano l'ultima valvola. «Volete che ve la faccia io?» propose Al.
«Volentieri. Ve n'intendete, vero?»
«Ci vado matto,» esclamò Al, e aggiunse: «Mi chiamo Al Joad.»
«Floyd Knowles. Lieto di conoscervi.»
Al trasse di tasca il temperino e prese a raschiare le incrostazioni. «Non c'è niente che mi piace di più dei motori!» «E le ragazze?
«Be' sì, anche le ragazze. Il mio sogno sarebbe di poter smontare una Rolls. Una volta ho alzato il cofano di una Cadillac sedici cilindri. Avreste dovuto vedere! Ero a Sallisaw, il mio paese, e davanti al ristorante ti vedo questa Cadillac. Alzo il cofano, per pura curiosità, e il padrone esce dal ristorante mentre stavo guardando e mi fa: 'Chi v'ha permesso? Cosa fate?' E io gli dico: 'Faccio il curioso, nient'altro, non ho mai visto una macchina più bella di questa.' E lui sta lì, vicino a me, senza dir niente, e guarda anche lui con me; credo che non avesse mai nemmeno dato uno sguardo al motore. Un signorone, col panama, la camicia a righe, la caramella. Dopo un po' mi fa: 'Ti piacerebbe fare un giro, provare a guidarla te?'» «Davvero?» esclamò Knowles.
«Sicuro. E io gli dico: 'Ma così sporco come sono?' E lui dice: 'Fa niente, si fa un giro attorno all'isolato.' Be', mi metto al volante, e v'assicuro io, andava come una sposa. Ho fatto otto giri attorno all'isolato.»
«Bello?»
«Una cannonata. Darei qualunque cosa per poter smontare un motore come quello là.»
«Per ora contentatevi del vostro catenaccio, avete poca probabilità di guidare le Cadillac sedici cilindri, in questo paese. Io son qui da sei mesi, e ho sempre fatto qualunque lavoro mi capitasse tra le mani, e riesco appena a mantenere i miei bambini. E' un paese che non riesco a capire. E comincio a esserne stufo, e non so cosa fare.»
«Lavoro fisso non se ne trova?»
«Levatevelo dalla testa.» Aveva preso uno scalpello e raschiava anche lui le incrostazioni dalla testata. Rientrava in quel momento al campeggio una decrepita vettura scoperta, occupata da quattro uomini, torvi in faccia. Rallentò, passando dinanzi alla tenda di Knowles, e costui li interpellò:
«Trovato niente?»
La vettura si fermò. L'uomo al volante rispose: «Abbiamo fatto non so quanti chilometri. Non c'è niente in tutto il paese. Ce ne andiamo.» «Dove?» domandò Al.
«Non s'è deciso, ma qui non restiamo. Abbiamo girato tutta la zona.» Innestò la marcia e la vettura partì adagio fra le tende.
Al domandò: «Ma non sarebbe meglio andare isolati a cercar lavoro? Se ce n'è poco, dovrebbe essere più facile trovarne per uno solo, anziché per quattro.»
«Siete proprio un ingenuo. Ci vuol benzina, per andare in giro. E costa quindici cents al gallone. Se ci si mette insieme, si divide la spesa.»
Comparve Winfield, chiamando Al: «Mamma dice di venire, è pronto.» Al si pulì le mani sui pantaloni.
«Non s'è ancora mangiato oggi,» disse a Floyd. «Ma dopo ripasso di qui a darvi una mano.»
«Non occorre, a meno che vi faccia piacere.»
«Vengo di certo,» assicurò Al, e con Winfield si diresse alla tenda.
Ora il gruppetto dei bambini faceva ressa attorno alla mamma affaccendata, tanto che Tom e zio John si erano trasferiti presso di lei per proteggerla dalla famelica turba.
«Non so proprio come fare,» mormorava la mamma, «ce n'è appena a sufficienza per noi.» I visi intenti, immobili dei bambini seguivano meccanicamente con gli occhi ogni sua mossa. Allorché la donna passò nel piatto a zio John la prima razione che trasse dalla pentola fumante, tutti gli occhi si posarono sulle mani di zio John. Egli assaggiò la minestra in cui nuotavano pezzi di carne bollita, e tutti gli occhi accompagnarono il cucchiaio fino alla sua bocca, e quando egli inghiottì il primo boccone, si posarono sulla sua faccia per notarne le reazioni. Era buona? Gli piaceva? Allora zio John parve accorgersi dei bambini per la prima volta e gradatamente smise di masticare. «Tieni,» disse infine a Tom. «Mangiala te, Tom, non ho fame.» «Ma se non hai neanche mangiato oggi,» obiettò Tom.
«Lo so, lo so, ma mi fa male la pancia. Non ho fame.»
Tom cercò di persuaderlo: «Portati il piatto sotto la tenda, e mangia tranquillo.»
«M'è passata la fame,» insistette zio John. «Li vedrei anche da dentro la tenda.»
Tom si volse ai marmocchi: «Ora voialtri vi squagliate, capito?» Tutti gli occhi si posarono stupiti sulla sua faccia. «Filate. Inutile star qui, non ce n'è abbastanza per tutti.»
Il mestolo della mamma andava metodicamente dalla pentola ai piatti di stagno allineati in terra, ed ella continuava a mormorare: «Come si fa a mandarli via. Non so proprio cosa dire. Forse conviene che ve ne andate tutti sotto la tenda. Questo portatelo a Rosa Tea. Ai piccoli darò quel che ci rimane.» Si voltò e sorrise ai bambini. «Sentite, bimbi, andate tutti a cercarvi un cucchiaio e poi tornate qui. Ma non facciamo confusione, intendiamoci.»
Il gruppetto si squagliò sull'istante, e prima ancora che la mamma avesse finito di distribuire le razioni alla famiglia si era già riformato. I marmocchi erano tutti lì, trepidanti, affamati come lupetti, ma silenziosi. La mamma li arringò: «Vedete che è poca. Vi lascio pescare una cucchiaiata per uno. Dovete contentarvi.» Sollevò la pentola e la posò in terra. «Fate piano, che è calda; scotta. E non litigate.» Ma non volle assistere. Li lasciò e si ritirò sotto la tenda, dove gli altri, seduti in terra, mangiavano in silenzio. «Impossibile continuare così,» disse, «dobbiamo trovare un modo per restare soli quando si mangia.» Diede un'occhiata in giro ai piatti vuoti. «Ho paura che nessuno ha avuto abbastanza.»
Nessuno rispose, e il babbo fu il primo a lasciare la tenda. Il predicatore si sdraiò sulla schiena, intrecciando le mani dietro la nuca. Al si alzò e uscì mormorando:» «Vado a dare una mano a un tizio per la sua macchina.» La mamma raccolse i piatti e li portò fuori per sciacquarli, e ordinò a Ruth e Winfield di andare per acqua. Il gruppo dei bimbi famelici era scomparso. La mamma vide un donnone che si avvicinava. Il suo vestito era stinto, striato di polvere e chiazzato di macchie di grasso. Camminava con passo deciso, con portamento altero. A quattro passi dalla tenda si fermò e guardò la mamma con aria bellicosa. «Buona sera,» disse tra i denti in tono glaciale.
«Buona sera,» rispose la mamma. Era inginocchiata, si alzò subito e spinse una cassetta verso la sconosciuta: «Accomodatevi.»
«No, non son venuta per accomodarmi, son venuta per pregarvi di pensare ai casi vostri. Badate pure ai vostri bambini, ma i miei lasciateli stare.»
La mamma spalancò gli occhi: «Io non ho fatto niente...» cominciò.
L'altra aggrottò la fronte: «Mi sono accorta subito dal fiato del mio bambino, che aveva mangiato della minestra, e m'ha detto che gliel'avete data voi. Non è bello, da parte vostra, arrivare qui per ultima, e fare sfoggio di bollito. Ho già troppi dispiaceri. E vedere arrivare il mio bambino e sentirmi dire: 'Perché noi non si mangia mai il bollito?'» La voce le tremava di collera contenuta.
La mamma le si accostò. «Accomodatevi, prego, lasciatemi spiegare.»
«Non c'è niente da spiegare, e non son venuta in visita. Faccio quel che posso per non lasciar morire di fame i miei, e voi venite fuori col vostro bollito.»
«E' forse l'ultima minestra che ci possiamo permettere finché non si troverà lavoro. Lasciatemi dire. Cosa avreste fatto voi al mio posto, con tutti quei bambini attorno? Non ne avevo abbastanza nemmeno per noialtri, ma non potevo rifiutare a quei poverini... che mi guardavano con quegli occhi...»
Gli occhi della donna parvero studiare per qualche attimo il volto della mamma, poi si abbassarono, imbarazzati. La donna si voltò e partì senza salutare. La mamma la vide scomparire sotto la sua tenda richiudendosene alle spalle i teli d'ingresso.
In quella tornò Al, chiamando Tom. Tom s'affacciò sulla soglia: «Cosa c'è?» «Vieni con me,» rispose eccitato il fratello.
Si avviarono. «Che diavolo ti prende?» domandò Tom.
«Ora lo vedi. Un po' di pazienza.» Proseguirono e raggiunsero Floyd Knowles, sempre indaffarato intorno alla sua macchina. «Ecco, Floyd, diteglielo voi.»
«Forse non dovrei dirvelo,» cominciò Floyd dopo un attimo di esitazione, «ma è arrivato uno, poco fa, con la notizia che c'è lavoro a Santa Clara.»
«Dov'è Santa Clara?»
«Sarà a trecento chilometri, a nord.»
«Diavolo! E che tipo di lavoro?»
«Coglier frutta; susine, pere, da mettere in conserva.»
«La cosa è sicura?»
«Io non so. Ma so che da queste parti non c'è niente. Quello che m'ha portata la notizia, l'ha avuta da un suo fratello, che sta lassù; e lui parte senz'altro stanotte. M'ha detto di non dirlo a nessuno, per non arrivare in troppi. Lo dico a voialtri perché vostro fratello qui m'ha dato una mano.»
«Mi sembra un rischio,» disse Tom, «fare un viaggio del genere senza avere la sicurezza che si troverà lavoro.»
«Meglio il rischio lassù, che la certezza di restar senza qui.»
Arrivò una vettura chiusa, e si fermò davanti alla tenda vicina. Ne uscì un uomo in tuta e camicia blu. Knowles lo interpellò: «Trovato niente?»
«Niente in tutto il paese. Niente di niente, fino al raccolto del cotone.» E l'uomo sparì sotto la sua tenda. «Sentito?» disse Floyd.
«Sì, ma... trecento chilometri!»
«Meglio tentare,» consigliò Al.
«E quando comincia qui il raccolto del cotone?» domandò Tom a Knowles.
«Tra non meno d'un mese. Se avete denaro abbastanza per aspettare, potete restare.»
Tom disse: «La mamma è stanca. L'idea di rimettersi in viaggio la spaventerà.»
Knowles scrollò le spalle. «Ma io non voglio persuadervi a rimettervi in viaggio. Vi ho semplicemente dato la notizia in caso che vi interessi.» E rivolgendosi ad Al: «Adesso se volete darmi una mano, metto su la testata.»
Tom stette a guardarli sollevare delicatamente la testata e posarla con accuratezza. «Bisognerà ad ogni modo parlarne alla famiglia,» mormorò.
Knowles disse: «Badate però di non parlarne ad altri.»
«State tranquillo. E grazie d'averci avvertiti.»
Al, senza smettere di lavorare, disse: «Io se fossi libero partirei. Farei quattrini, e tornerei qui con le tasche piene.»
«Ma alla mamma l'idea non piacerà,» ripeté Tom, «e nemmeno al babbo.»
Knowles applicò i dadi e li avvitò con le dita finché poté. Poi prese una chiave inglese, e continuò ad avvitarli, un giro per volta ciascuno, così da permettere al blocco di combaciare in modo eguale dappertutto. Disse: «A me sembra che è meglio andare in pochi: il meno che si può.»
Arrivarono due vetture, stracariche di uomini dall'aria abbattuta. Knowles li guardò, ed evitò di rivolger loro la solita domanda. Era fin troppo evidente che non avevano trovato niente.
Sulla strada apparve una berlina Chevrolet, nuova. Rallentò, svoltò giù dalla discesa che immetteva nel campeggio, la percorse adagio e si fermò al centro dell'accampamento.
Tom disse: «Chi saranno? Non gente come noi.»
Knowles replicò: «Non so. Poliziotti, forse.»
La porta della berlina s'aprì e ne uscì un uomo, ben vestito, che restò indeciso a guardarsi attorno. L'altro che lo accompagnava non scese dalla vettura. Tutti gli uomini accoccolati in gruppetti voltarono le teste verso i nuovi venuti e ogni conversazione cessò. E le donne affaccendate ai fuochi lanciarono occhiate furtive verso la vettura brillante di vernice. I bambini si avvicinarono, ma esitanti, e facendo larghi giri. Knowles posò la chiave. Tom s'alzò in piedi. Al s'asciugò le mani sui pantaloni. E i tre si avviarono a passi lenti verso la Chevrolet.
Il signore che era sceso dalla vettura portava, nella tasca della camicia, un plico di carte che sporgevano dietro ad un piccolo fascio di stilografiche e di matite gialle, e da una delle tasche dei pantaloni kaki sporgeva un grosso taccuino rilegato, con gli angoli di metallo. Egli si accostò ad un crocchio di uomini accoccolati, che senza muovere le teste alzarono solo gli occhi su di lui. Disse:
«Cercate lavoro?»
Gli uomini continuavano a guardarlo senza muoversi, sospettosi. Da tutti i punti del campo altri uomini si avvicinarono lentamente. Finalmente uno di quelli accoccolati disse: «Certo che cerchiamo lavoro. Dov'è?»
«Nella contea Tulare. Comincia il raccolto della frutta. Hanno bisogno di molta gente.»
Parlò Knowles: «Siete incaricato voi di reclutarla?»
«Sì, per conto del padrone.»
Ora gli uomini formavano un gruppo compatto. Uno di essi si tolse il berretto e si ravviò i capelli domandando: «Quanto pagate?»
«Be', con esattezza non si può dire, ma... sui trenta cents.»
«Perché non potete dire con esattezza? Non li fate voi i contratti?»
«Va bene, ma bisogna vedere... Può essere qualcosa di più o qualcosa di meno...»
Knowles fece un passo avanti: «Io sono pronto a venire. Se siete voi l'incaricato, dovete avere la licenza. Fatela vedere, passateci l'ordinativo, stabilite le paghe e le condizioni, e io sono pronto a firmare il contratto.»
L'altro si rannuvolò. «Pretendete insegnarmi il mio mestiere?»
Knowles non batté ciglio. « Se s'ha da lavorare per voi, la cosa riguarda anche noi, mi pare.»
«I vostri pareri teneteveli per voi. Io ho bisogno di uomini, non di pareri.»
«Ma non avete detto quanti ve ne occorrono, e neanche avete detto quanto li volete pagare.» «V'ho detto che con esattezza non si può sapere ancora.»
«Se non lo sapete, non avete diritto di ingaggiare dei lavoranti.»
«Ho il diritto di fare il mio mestiere come voglio io. Se preferite accoccolarvi sulle natiche, peggio per voi. Ma vi offro lavoro nella contea Tulare. S'ha bisogno di un discreto numero di lavoranti.» Knowles si rivolse alla folla di uomini, che immobili avevano seguito con gli occhi ora l'uno ora l'altro dei due, e disse: «Ci sono cascato già due volte. Avranno bisogno d'un migliaio di uomini sul posto, e mandano in giro a reclutarne cinquemila. Quando questi cinquemila, tutti affamati come noi, arrivano là, il padrone offre quindici cents. E non gli ci vuol molto a trovare mille disperati che accettano. Ma è mica questo il sistema. Se hanno bisogno di uomini, facciano il contratto prima. E vogliamo vedere la licenza.»
L'impresario si voltò nella direzione della Chevrolet e chiamò: «Joe!» Quello che era rimasto in vettura aprì lo sportello e uscì. Era un poliziotto, in pantaloni da cavallerizzo e stivaloni, con la pistola alla cintola. Sul petto era ben visibile la stella di vice-sceriffo. S'avvicinò con passo pesante, sorridendo appena. «M'avete chiamato?»
«Sentite, Joe, non avete mai visto questo tizio?»
«Quale?»
«Questo qui,» rispose l'altro, indicando Knowles.
«Cos'ha fatto?»
«E' un agitatore, un piantagrane.»
«Hm, hm.» L'agente esaminò Knowles da vicino, di faccia e di profilo.
«Visto?» disse Knowles ai compagni, «se questo signore fosse in regola, si porterebbe un poliziotto con sé?»
L'impresario insisté: «Non l'avete mai visto prima, Joe?»
«Hm, mi sembra proprio di sì. La settimana scorsa, all'assalto contro quella rimessa, mi sembra proprio d'avercelo visto attorno. Anzi, son certo, è la stessa faccia.» E assumendo un'espressione severa, ordinò a Knowles, con un gesto dell'indice: «Salite in quella vettura,» e con la sinistra sganciò l'apertura della fondina.
Tom fece un passo avanti e disse: «Mica ha fatto niente, per arrestarlo!»
Il poliziotto si voltò di scatto e fece fronte a Tom. «E se voi volete tenergli compagnia, non avete che da riaprire il becco. Erano in due, la settimana scorsa, quelli che ho notato attorno alla rimessa.»
Tom alzò le spalle. «Io non ero nemmeno in questo stato la settimana scorsa.»
«Segno che probabilmente siete ricercato altrove. Chiudete il becco.»
L'impresario si rivolse di nuovo agli uomini. «Voi non date retta a questi dannati rossi. Sovversivi, che finiranno per mettervi nei guai. Se accettate vi posso ingaggiare in massa per Tulare.» Nessuno rispose.
L'agente cercò di persuaderli. «Fareste bene a considerare l'offerta.» Sorrideva. «L'Ufficio d'Igiene ha intenzione di far sgombrare questo accampamento. Se ora si scopre che ospitate dei sovversivi, può scoppiare un putiferio. Fareste proprio bene ad andarvene a Tulare. Qui, del resto, non c'è lavoro. Questo è un consiglio d'amico che vi do. Prevedo tra poco una calata della polizia in questo campeggio.»
L'impresario incalzò: «Vi ripeto che ho bisogno di lavoranti. Se poi non avete voglia di lavorare... bene, affari vostri.»
Il poliziotto sorrise: «Se non han voglia di lavorare, non ce li vogliamo qui. Non ci vuole molto a farli filare.»
«Non ho altro da aggiungere,» disse l'impresario. «Siete avvertiti che a Tulare c'è bisogno di gente: un sacco di lavoro.»
Tom levò lentamente lo sguardo alle mani di Knowles e vide i nervi e muscoli giocare sotto la pelle; si portò le mani alla cintola, infilandovi i pollici. L'impresario s'avviò verso l'automobile, e il poliziotto, alzando la voce, diede agli astanti l'ultimo chiaro avvertimento: «Dunque avete sentito.
Lavoro ce n'è, e domani non voglio trovare più nessuno qui. Quanto a voi,» rivolto a Knowles, «venite con noi in vettura.» Allungò una mano per afferrare Knowles per il braccio sinistro, e fu in quell'attimo che Knowles, voltandosi di scatto, gli menò un fulmineo destro in piena faccia, e al tempo stesso prese la fuga tra le tende.
L'agente, che sotto il colpo aveva solo vacillato, fece per rincorrerlo, ma Tom avanzò un piede e gli diede lo sgambetto, facendolo cadere pesantemente a terra. Prima ancora di rialzarsi, l'agente, estratta la pistola, la puntò nella direzione di Knowles che fuggiva, e sparò un colpo. Una donna che stava tranquillamente davanti alla sua tenda lanciò un acutissimo strillo, e restò stralunata a guardarsi una mano insanguinata che non aveva più nocche: le dita pendevano dietro la mano, attaccate solo a brandelli di pelle. Knowles fuggendo riapparve un attimo tra due tende, e il poliziotto, ancora a terra, fece per sparare un secondo colpo, e fu in quel momento che il reverendo Casy, fattosi avanti alle spalle dell'agente, gli tirò un tremendo calcio nella nuca. Il poliziotto cadde bocconi, svenuto.
La Chevrolet diede un ruggito e partì a tutta velocità. Dinanzi alla sua tenda, la donna continuava a guardarsi la mano spappolata. Goccioline di sangue presero a stillare dalla ferita, e un risolino isterico andò formandosi nella gola della donna, una risata piagnucolosa sempre più alta e forte. L'agente giaceva su un fianco, con la bocca aperta nella polvere.
Tom raccattò la pistola, ne tolse il caricatore e lo gettò via nei cespugli, e tolse anche la cartuccia che era già nella canna, poi lasciò cadere la rivoltella al fianco del poliziotto. «Gente come questa non ha diritto a una pistola,» disse.
Casy lo avvicinò. «Tom, da' retta a me, tu taglia la corda. Vattene in riva al fiume tra i pioppi, e aspetta lì. Non m'ha visto assestargli il caldo, ma ha visto te dargli lo sgambetto. Ricordati che sei in libertà vigilata; hanno le tue impronte digitali. Dai retta a me. Vattene subito; prima che rinvenga.» Tom ubbidì e non tardò a scomparire nel boschetto.
Si udì in lontananza la sirena della polizia, e nel campo la folla si diradò come per incanto, ognuno ritirandosi sotto la sua tenda. Soltanto Al rimase con Casy vicino all'agente ancora svenuto, e Casy lo persuase a ritirarsi anche lui. «Resto io,» disse, «lascia che m'arrestino, io non ho famiglia; mentre se arrestano te, ci può andar di mezzo Tom, e lo rimandano a McAlester. Va' subito a nasconderti, lascia che sbrighi io la faccenda.» La sirena si fece sentire a poche centinaia di passi. Al si lasciò persuadere e raggiunse i suoi sotto la tenda.
Casy si mise in ginocchio accanto al poliziotto, lo adagiò sulla schiena, gli ripulì la bocca ancora imbrattata di polvere. L'agente emise una sorta di grugnito e batté le palpebre. I pneumatici dell'auto della polizia stridettero sull'asfalto della strada e la vettura voltò e discese rapidamente nel campeggio. Prima ancora che si fermasse, i quattro agenti che la occupavano ne saltarono fuori, armati di fucile. Casy s'alzò in piedi e si diresse verso di loro. «Cosa succede qui?» gli domandarono, in tono minaccioso.
Casy disse: «M'è capitata una disgrazia. Ho dovuto abbattere un vostro uomo, che s'era messo a sparare; aveva già ferito una donna per sbaglio...»
«Siete in arresto, montate in vettura!»
Casy non se lo fece ripetere; con passo arzillo si incamminò verso l'automobile e prese allegramente posto sul sedile posteriore.
Due agenti intanto avevano aiutato il loro compagno a rimettersi in piedi. La prima cosa che disse fu: «Ci dev'essere una donna ferita, laggiù.»
«A lei penseremo dopo. Di' un po', è quello là che ti ha colpito?»
L'agente, ancora intontito, guardò Casy e disse: «Non mi sembra.»
«Non avete potuto vedermi,» gridò Casy, «ero dietro di voi.»
L'altro tentennò la testa e ripeté: «Non mi sembra lui. Dio, ho voglia di vomitare.»
Casy disse: «Io resto qui, non scappo; fareste bene a dare un'occhiata alla donna ferita.» «Dov'è?»
«In quella tenda là.»
Il più anziano degli agenti s'avvicinò alla tenda indicata, vi si fermò un secondo sulla soglia per annunciarsi e poi entrò. Ne uscì dopo mezzo minuto, e tornò e disse ai compagni: «L'hanno già fasciata, manderemo il medico, pare che ci abbia rimesso qualche dito.»
Due agenti presero posto ai lati di Casy. Il conducente avviò il motore e partì a marcia indietro, senza che nessuno degli accampati si facesse vedere. Tra i suoi angeli custodi Casy sedeva fiero, con la testa alta sul suo collo scarno da avvoltoio. Aveva sulle labbra un sorrisetto di trionfo.
Appena scomparsa la macchina, la gente uscì dalle tende. Il sole era tramontato e sul campo scendeva la mite luce azzurrina della sera; ad oriente i monti erano ancora tinti di giallo. Le donne si affaccendarono a riaccendere i fuochi. Gli uomini si riunirono per accoccolarsi a discorrere. Al andò al fiume in cerca di Tom. Il babbo e zio John si astennero dal partecipare alla seduta degli accampati, e rimasero presso la tenda, per aiutare la mamma a preparare la cena. Ruth e Winfield, resi nervosi dalla curiosità, si agitavano, s'indaffaravano attorno alla mamma.
Il babbo disse: «Cosa diavolo gli è saltato in testa, a quel predicatore?»
Zio John disegnava figure in terra con un lungo chiodo arrugginito. Aveva l'aria stanca, gli occhi mesti. «Quell'uomo è un mistero,» dichiarò. «Gli ho parlato dei miei peccati. Lui sostiene che non erano peccati. Ma intanto continuano a rimordermi.»
«Non ricominciare, John,» raccomandò la mamma. «Confessali a Dio, non a noi.» «Ma non posso tenermeli per me,» piagnucolò zio John.
La mamma replicò duramente: «Allora va' al fiume, caccia la testa sott'acqua e confessali ai pesci.» Il babbo annuì adagio. «Ha ragione lei. Se per te è un sollievo parlare delle tue colpe, per chi t'ascolta è una seccatura.»
Zio John non poté replicare perché Rosa Tea apparve sulla soglia della tenda e domandò, con voce irritata: «Connie dov'è? E' un pezzo che non lo vedo. Dov'è andato?» «Non so,» rispose la mamma, «se lo vedo glielo dico. «Non mi sento tanto bene, Connie non dovrebbe lasciarmi.» La mamma scorse il viso tirato della ragazza.
«Ma hai pianto,» disse.
Gli occhi di Rosa Tea si empirono improvvisamente di lacrime che presero a sgorgarle senza più freni per le guance.
«Rosatè, scuotiti,» la rimproverò la mamma, «non disperarti per niente, sei sempre lì ad ascoltarti, pensi unicamente a te. Via, renditi utile agli altri. Qua, sbucciami le patate.»
Rosa Tea fece per ritirarsi sotto la tenda, ma lo sguardo severo della mamma la dissuase. Venne, riluttante, presso il fuoco, mormorando: «Connie non dovrebbe allontanarsi senza dirmelo,» ma le lagrime erano cessate. Si mise in ginocchio e prese a sbucciare le patate. «Appena torna, gli faccio vedere! Gliene dico tante!...»
«Bada ch'è capace di lasciarti andare una sventola,» disse la mamma, «e non potrei mica dargli torto.»
Negli occhi di Rosa Tea brillò un lampo di risentimento, ma ella non rispose.
Zio John, sempre intento a fare dei gran buchi in terra col suo chiodo arrugginito, sbottò: «Ho bisogno di dirlo! Ho assoluto bisogno di dirlo!»
Il babbo s'impazientì. «E dillo, allora, al diavolo! Chi è che hai ammazzato?»
Zio John scrollò le spalle, si frugò in tasca e ne trasse un sudicio biglietto da cinque dollari. Lo spiegò sotto il naso del babbo e disse: «Vedi questo? Cinque dollari.»
«Li hai rubati?»
«No, li avevo. Li tenevo nascosti.»
«Ma sono tuoi, o no?»
«Sì, sì, ma non avevo nessun diritto di tenerli.»
«Non vedo perché ti devi sentire in colpa,» intervenne la mamma. «Se sono tuoi...»
Ma zio John continuò, assorto: «Non è solo questo. Quello che rende ancora più grave la mia colpa, è il motivo per cui li ho tenuti nascosti. Sapevo che sarebbe venuto il giorno in cui, per liberarmi dal rimorso, avrei ripreso una sbornia. Ed eccolo qui! eccolo arrivato! Il predicatore s'è fatto arrestare per salvare Tom.»
Il babbo, perplesso, rizzò gli orecchi. Ruth e Winfield, trascinandosi carponi come due cagnolini, si fecero più vicino per sentite. Rosa Tea alzò gli occhi dalle patate e li piantò in faccia a zio John. La mamma disse: «Non capisco perché questo fatto dovrebbe indurti a prendere una sbornia.»
«Non lo capisco nemmeno io,» ammise zio John, con l'accento della disperazione, «ma tant'è.
Dinanzi alla nobiltà del suo atto, solo in una sbornia solenne posso trovar pace.»
Il babbo sembrò approvarlo. «Non vedo perché senti il bisogno di dirlo a tutti. Al tuo posto, io andrei semplicemente a sborniarmi.»
Questa volta zio John parve più sollevato. Era una consolazione, vedersi capito almeno dal fratello. Gli porse il biglietto da cinque dollari. «Mi bastano due dollari. Dammeli, e prendi questo.» Il babbo non esitò a contentarlo. Zio John si alzò con alacrità e disse alla mamma: «Non mi terrai il broncio, te?»
La mamma non lo guardò ma replicò sotto voce: «No, no; va' pure.»
Zio John s'allontanò a passo rapido. Salì sullo stradone e s'avviò alla volta del droghiere del luogo. Sulla soglia del negozio si fermò, si tolse il cappello a cencio, lo gettò in terra e lo pestò selvaggiamente, per dare sfogo al disgusto che provava di sé. Poi entrò risolutamente e si diresse alla vetrina che conteneva le bottiglie di whisky.
Il babbo, la mamma e i bambini erano rimasti ad osservarlo camminare a passi decisi sullo stradone, ma nessuno aveva parlato. Rosa Tea, ancora risentita contro la mamma, non aveva nemmeno alzato gli occhi dalle sue patate. Ma erano rimasti tutti piuttosto impressionati. Ruth si trascinò in terra fino all'orecchio di Winfield e gli bisbigliò: «Andiamo a prendere la sbornia.» Winfield si portò una mano alla bocca per non ridere forte, e tutt'e due, trattenendo il fiato, rossi in faccia sotto gli sforzi che facevano per contenere il riso, si trascinarono carponi finché furono dietro la tenda, poi s'alzarono in piedi e presero la corsa nella direzione dei pioppi. Lì, al riparo dalla vista diedero libero sfogo al riso, Ruth, con gli occhi strabici, andava attorno barcollando, ruttando, tirando fuori la lingua, borbottando: «Sono ubriaca, guarda, Winfield, sono ubriaca.»
«Guarda me,» gridò Winfield. «Sono più ubriaco di te, sono peggio di zio John.» Agitava le braccia, simulava sforzi di vomito con cavernosi boati, e girava come una trottola per farsi venire le vertigini.
«No, no,» disse Ruth, «non così. Sta' a vedere, è così che si fa. Sono io zio John. Sono ubriaca fradicia, guarda come si fa.»
Sopraggiunsero Al e Tom, bighellonando, di ritorno dal fiume. Era già quasi buio. Tom si fermò, aguzzando gli occhi, ed esclamò: «E' Ruth con Winfield. Cosa diavolo stanno combinando?» Si avvicinarono. «Siete impazziti?»
I bambini, imbarazzati, smisero di giocare. Al disse: «Non potete inventare un gioco meno stupido?»
Ruth, punta sul vivo, rispose con petulanza. «E' meno stupido di tante cose che fanno i grandi.» Al e Tom proseguirono, diretti all'accampamento. Al disse a Tom: «Ruth si fa insolente. Uno di questi giorni si prenderà uno scapaccione.»
Ruth udì le parole, e gli fece la linguaccia, senz'esser veduta. Poi diede una sbirciata a Winfield, ma capirono subito tutt'e due che il gioco era stato rovinato; e propose di andare al fiume a camminare nell'acqua. Ma erano entrambi arrabbiati con Al.
Cammin facendo, Tom domandò ad Al: «Dove credi che è andato Connie?»
«A spasso, suppongo, Rosatè avrà fatto le bizze.»
Passando dinanzi alla tenda di Knowles, si sentirono chiamare da una voce sommessa e voltandosi videro Knowles affacciato tra i teli d'ingresso. «Avete deciso di venir via?» egli domandò. «Non s'è deciso niente,» rispose Tom. «Credete che è meglio?»
«Non avete sentito quel che ha detto l'agente? E' probabile che appicchino il fuoco al campeggio. Se credete che quella è gente da pigliar botte senza vendicarsi, sbagliate. Capaci di tornare stanotte.» «Meglio andare, allora,» disse Tom. «Voi dove intendete andare?»
«Al nord, come vi ho detto.»
«Sentite,» disse Al, «uno m'ha parlato di un campeggio del governo qui vicino. Sapete dirmi dov'è?»
«E' pieno, non c'è posto.»
«Ma dov'è?»
«Prendete la 99, andate per una ventina di chilometri, poi svoltate verso Weedpatch. E' da quelle parti. Ma credo proprio che è pieno.»
«Dicono che è un bel posto.»
«Sì, sì. Vi trattano come esseri umani, e non come bestie. E lì non ci sono poliziotti. Ma è pieno.» «Quello che non mi va giù,» disse Tom, «è la cattiveria di quello sbirro di poco fa. Pareva facesse apposta per far scoppiare una ribellione, una rissa...»
«Siete un ingenuo,» disse Knowles. «E' la loro tattica. Quando vogliono far sgombrare un campeggio, vengono a provocare, per creare un pretesto che giustifichi l'intervento della polizia. Poi c'è un'altra cosa. Lo sceriffo riceve settantacinque cents al giorno per ogni arrestato; e lo mantiene con venticinque. Quando hanno bisogno di fondi, inscenano una di queste calate provocatorie, e procedono alla retata di prigionieri. Ma non c'è più tempo di chiacchierare. Io parto. Vi saluto, e spero di rivedervi.»
Al e Tom gli strinsero la mano e rientrarono. La mamma stava friggendo le patate; le rimestava nella padella con un cucchiaio. Il babbo sedeva vicino, con le ginocchia tra le braccia. Rosa Tea era sotto la tenda. La mamma gridò: «Dio sia lodato! E' Tom.» «Dobbiamo andarcene di qui,» annunciò Tom.
«Cos'altro c'è ora?» disse il babbo.
«Knowles dice che stanotte vengono a incendiare il campo.»
«E perché diavolo dovrebbero farlo? Mica s'è fatto niente!»
«Niente, tranne che si è quasi accoppato un agente. E Knowles dice che torneranno a vendicarsi.»
Rosa Tea alzò la voce e domandò: «Avete incontrato Connie?»
«Sì,» scherzò Al, «sul fiume. Andava diritto all'inferno.»
«Stava... stava andandosene via?»
«Cosa vuoi che ne sappia.»
«Rosatè,» disse la mamma, «voglio sapere se è successo qualcosa tra te e Connie. Avete litigato? Cosa t'ha detto?»
Rosa Tea esitò, poi assunse un'espressione di sgomento, e disse: «Ha detto che se avesse saputo, sarebbe rimasto a casa a studiare le trattrici.»
Bastò questa informazione per rivelare agli altri la probabile causa dell'assenza, o meglio della scomparsa di Connie. Il babbo disse: «Connie non valeva niente. Me n'ero accorto da un pezzo. Un ragazzo senza carattere, e si credeva una cima.»
«Certo non val la pena d'andarlo a cercare,» disse Al.
«No davvero,» confermò il babbo. «Se non val niente, non sappiamo che farcene.»
Tom disse: «Ad ogni modo non sappiamo con certezza se ha tagliato la corda. E per il momento abbiamo altre cose da pensare. Dobbiamo far bagaglio appena mangiato, e partire.»
«Partire stanotte?» disse la mamma. «Siamo appena arrivati.»
Tom fece appello a tutta la sua pazienza per farle capire la situazione senza urtarla. «E' quasi certo che stanotte la polizia manda i suoi scagnozzi per appiccare fuoco al campo. Sai benissimo che io non me ne starei certo con le mani in mano lì tranquillo ad assistere alla distruzione della nostra roba. Ma neanche il babbo e neanche zio John. E se faccio tanto di venire alle mani con qualcuno, m'arrestano e allora sì che son fregato. L'ho già scampata oggi per un pelo, grazie a Casy.»
La mamma non volle sentir altro. Prese la sua decisione nella massima calma. «Su, allora, ceniamo, e poi si fa fagotto. Non c'è tempo da perdere.»
Il babbo disse: «E zio John?»
«Cosa gli è successo?» domandò Tom.
Il babbo guardò la mamma, poi riprese: «E' andato a prendere una sbornia.»
«Anche questa?» esclamò Tom. «Ha scelto bene il momento. Bisogna che vada subito a cercarlo, e soprattutto bisogna che lo trovi. Voi cenate, poi caricate, non preoccupatevi di me. Bado io a far ritorno in tempo, e con zio John.»
Tom s'allontanò rapidamente, raggiunse lo stradone si diresse alla drogheria. Arrivatovi, si fermò sulla porta e guardò dentro attraverso la reticella. Il droghiere, un ometto dagli occhi lagrimosi e dai baffi incolti, stava appoggiato coi gomiti sul banco, intento a leggere il giornale. Era in maniche di camicia, e le maniche erano rivoltate fin sul gomito esibendo gli avambracci scheletriti, e portava un grembiale bianco. Alzò la testa quando Tom entrò, e lo esaminò strizzando le palpebre, con lo sguardo dei miopi. «Buona sera,» disse, «vi occorre qualcosa?»
«No, cerco un mio zio.»
Il droghiere non manifestò alcuna sorpresa a questa risposta; si palpò teneramente la punta del naso che forse gli prudeva e mormorò: «Sembra che voialtri perdete sempre qualcuno. Tutti i momenti entra uno e dice, se vedete un giovanotto così e così, che si chiama cosà e cosà, ditegli per piacere che siamo andati in su, che ci raggiunga. Mi capiterà dieci volte al giorno.»
Tom rise. «Be', quello che cerco io non è un giovanotto, è uno sulla sessantina, coi pantaloni neri. Sapete dirmi se è venuto a comprare del whisky?»
La faccia del droghiere s'illuminò. «Sì. Poco fa. Dev'essere un bel tipo. Prima d'entrare s'è levato il cappello e l'ha sbattuto in terra e ci ha ballato su come un ossesso.» Si chinò, allungò un braccio e portò alla luce il cappello incriminato.
Tom lo prese. «E' il suo. Da che parte è andato?»
«E' venuto dentro e ha comprato due quartini di whisky. Ne ha sturato uno in mia presenza, ma ho dovuto pregarlo di andare a berselo fuori, perché non ho la licenza, vedete; e lui se ne va senza protestare, e lì sulla porta si è tracannato il primo quartino in tre sorsate. L'ha buttato via, s'è voltato per salutarmi, e s'è incamminato sullo stradone.»
«In che direzione?»
«Andava in su. L'ho seguito cogli occhi per un pezzo, perché m'interessava. Cominciava già a barcollare, e ho visto che sturava il secondo quartino mentre camminava. Non può essere andato molto lontano. Scommetto che lo troverete nel fosso a un quarto d'ora da qui.»
«Grazie. Era questo che volevo sapere. Gli riporto il cappello e lo riaccompagno al campo. Buona sera.»
Tom s'affrettò a rincorrere la pecorella smarrita. Non aveva fatto più di cinquecento passi quando udì le rauche note d'una canzone poco melodiosa modulate da una voce cavernosa nei cespugli a poca distanza dalla strada. S'arrestò per orientarsi, poi s'inoltrò risoluto nella direzione del canto. Quando fu più vicino, rallentò il passo e avanzò con cautela per non insospettire il peccatore colto in flagrante, ne distinse nel buio la figura sdraiata in terra e zitto zitto s'accoccolò al suo fianco. Quando lo vide, in una pausa del canto, portare il quartino alle labbra, gli disse tranquillamente a mezza voce:
«Piano, piano, zio John, lasciane un pochino anche per me.» Il peccatore voltò lentamente la testa. « Chi sei?» bofonchiò.
«Via, non far finta di non sapere che son qui. E' la terza volta che bevi senza offrirmene un goccio.» «No, Tom, me non mi fai fesso. Ero solo, qui; tu non c'eri. Quando sei arrivato?»
«Oh, da un pezzo. Via, dammi un sorso.»
Zio John agitò la fiaschetta e disse, in tono di sincero rincrescimento: «Vuota.» Singhiozzò e poi proruppe: «Oh Tom! Ooh Toom! Sono tanto infelice! Voglio morire, morire! Addormentarmi e non svegliarmi piuuù!!!»
Tom disse: «Senti, zio John. Noi si parte. Sono venuto a cercarti. Vieni via, dormirai sul camion.» «Nooo! Nooo! Andate voi, io resto qui, sono un poco di buono, non servo a nessuno, non voglio più andare in giro con la gente onesta trascinando i miei peccati come un paio di mutande sporche. No.
Io resto qui.»
«Storie. Devi venire con noi. M'hanno mandato apposta a cercarti.»
«Noo, non vengo, sono pieno di peccati, insozzo la gente pulita.»
«Ma smettila, chi è che non ha peccati?» Si mise in ginocchio e posò una mano sulla fronte di zio
John, che la cacciò via, con una mossa impacciata. «Lasciati persuadere, zio John, vieni via!»
«No, resto qui, son troppo stanco, son stanco morto, voglio morire qui...»
Tom stava chino su di lui, vicinissimo. Serrò a pugno la destra, all'altezza del mento di zio John, prese accuratamente la mira, ritirò e avanzò il braccio un paio di volte per assicurarsi della giusta distanza, e finalmente menò un pugno da maestro. La mandibola di zio John si richiuse con un sonoro schiocco, e zio John si dibatté per sollevarsi sui gomiti, ma Tom lo colpì una seconda volta. Zio John stramazzò immobile.
Tom s'alzò in piedi, poi si chinò, afferrò saldamente il corpo inerte e se lo gettò in spalla come un sacco di patate. Vacillò sotto il peso, ma ritrovò presto l'equilibrio e s'avviò risolutamente nella direzione del campo. Nel risalire la ripa per raggiungere la strada, le mani penzolanti di zio John gli sbattevano sul dorso. Sulla strada, la marcia risultò più agevole. Passò un'automobile, e i fari illuminarono il passante curvo sotto il peso dell'uomo inanimato; la vettura rallentò, ma riprese subito l'andatura di prima.
Arrivato a Hooverville, Tom ansava, e zio John stava riacquistando i sensi e si dibatteva debolmente. Tom lo posò delicatamente a terra. Al stava già assicurando le casse e le masserizie sull'autocarro; sospese il lavoro, notando lo stato dello zio, e disse a Tom: «Quello era partito prima di noi, ma senza di te non sarebbe andato lontano.»
«M'è dispiaciuto,» disse Tom, «d'averlo dovuto picchiare. Ma non voleva saperne.» «Gli hai mica fatto male?» domandò la mamma.
«Non credo, mi pare che si sta riavendo.»
Zio John infatti cominciava a vomitare, in piccoli fiotti, e in spasimi silenziosi. La mamma disse:
«T'ho tenuto da parte una razione di patate, Tom.»
«Grazie, ma non mi va di mangiare adesso.»
Il babbo ordinò: «Andiamo, Al, metti su il telone.»
L'autocarro era carico e pronto. Zio John s'era addormentato. Tom e Al lo sollevarono e lo posarono sul materasso in cima al carico. Winfield s'era cacciato sotto le ruote e faceva finta di vomitare, emettendo suoni spaventosi. Ruth si tappava la bocca con una mano per non ridere forte.
«Tutti pronti?» domandò il babbo.
«Non vedo Rosatè,» disse Tom. «Dov'è?»
«E' là,» disse la mamma. «Andiamo, Rosatè, si parte.»
Rosa Tea stava seduta in terra, il mento sul petto. Non rispose, e non si mosse. Tom l'avvicinò:
«Coraggio, Rosatè, si parte. Su.»
Rosa Tea scosse soltanto la testa, ma con energia. «Io non vengo,» dichiarò.
«Devi venire; cosa vuoi stare qui a fare?»
«Io voglio Connie. Non parto finché non è tornato.»
Tre altri veicoli carichi stavano uscendo dal campo per raggiungere la strada. Tom disse: «Connie ci trova, non dubitare.»
La mamma si unì a Tom:. «Vieni via, bambina, vieni via con noi.»
«Io aspetto Connie.»
«Non possiamo aspettare.» La mamma si chinò, le passò un braccio sotto l'ascella e l'aiutò ad alzarsi. Tom l'afferrò per l'altro braccio, dicendole: «Connie ci trova, non preoccuparti.» E si incamminarono tutt'e tre verso l'autocarro.
Rosa Tea disse: «Scommetto che è andato a cercare i libri per studiare. Forse voleva farci una sorpresa.»
«Può darsi,» disse la mamma. Raggiunsero il veicolo e la aiutarono a prendere posto. Rosa Tea si trascinò carponi sul materasso sotto il telone e si rintanò nel buio coi suoi pensieri.
Fu in quel momento che l'uomo barbuto, il decano del campo, entrò in scena. Era rimasto dietro le quinte a spiare i preparativi, e ora si fece avanti, con le mani intrecciate dietro la schiena, e domandò al babbo: «Non lasciate niente che mi possa servire?» «No,» disse il babbo, «non abbiamo niente che non serva a noi.»
Tom domandò al decano: «Voi non venite via?»
Il barbuto lo guardò a lungo prima di decidersi a rispondere. «No,» disse infine.
«Vi danno fuoco alla capanna,» disse Tom.
L'altro abbassò gli occhi. «Pazienza. Non è mica la prima volta.»
«E perché restate? Perché non venite via?»
Il barbuto sollevò gli occhi, che rifletterono la luce rossa dei fuochi morenti, poi li riabbassò subito e mormorò: «Non so. Troppa fatica fare bagaglio.»
«E se ve lo bruciano, restate senza bagaglio.»
«Lo so. Perciò vi domandavo se non avevate niente da lasciarmi.»
«Mi spiace,» disse il babbo, «non abbiamo niente,» e con un cenno della mano gli fece capire di ritirarsi. E rivolgendosi a Tom: «Quello è rimbecillito.»
«Sì, lo dice anche Knowles. Rimbecillito dalle ripetute batoste della polizia.» Un'altra piccola carovana passò diretta alla strada. «Andiamo, babbo, inutile perdere tempo. Siediti davanti, con la mamma, vicino a me. Al lo metto in coda, e gli do la grossa chiave inglese, caso mai ci aggrediscono. Io tengo la manovella a portata di mano. Al, prendi qua: se qualcuno tenta di saltar su, dagliela sulla testa. Capito?»
Al prese la chiave inglese e s'arrampicò in coda e si sedette alla turca. Tom prese posto al volante. La mamma vicino a lui. Il babbo disse: «Io non ho un'arma, in caso di bisogno.»
Tom disse: «Speriamo di non averne bisogno. Ad ogni modo la manovella è qui: può servire a te come a me.»
Avviò il motore che partì, si spense e ripartì. Tom accese i fari e uscì dal campo in prima. I fari frugarono nervosamente la strada. Tom voltò a sinistra, diretto a sud, e seguendo il corso dei suoi pensieri brontolò: «C'è dei momenti che davvero si rischia d'impazzire.»
La mamma colse a volo quel ch'egli intendeva. «Tom,» esclamò, «m'hai promesso di non essere così, me l'hai promesso.»
«Lo so, lo so, e faccio tutto quel che posso per mantenermi calmo, ma... quegli sbirri! Se facessero solo il loro dovere, in nome della legge, non direi niente. Ma la legge la fanno loro. Pretendono di avere il diritto di trattarci come cani. Davvero, mamma, ci vuole la pazienza d'un santo per starsene a guardare senza menar le mani. Uno che si rispetti mica può sopportare tutti quei soprusi.»
«Tom, hai promesso. Ricordati di quel povero Floyd. Conoscevo sua madre. Han finito per ammazzarlo.»
«Sta' tranquilla, ti ripeto che faccio quel che posso. Ma nemmeno a te farebbe piacere vedermi strisciare a terra come un cane sotto la frusta di quei porci.»
«Ti raccomando d'aver giudizio, Tom. Vedi la famiglia che si sfascia: almeno te, almeno te, procura di evitare ogni occasione per attaccare briga, fammi questo piacere, te lo chiedo per favore, Tom!» «Sì, sì, sta' tranquilla. Se si contentassero di far rispettare la legge, non avrei niente da dire. Ma appiccar fuoco all'accampamento non ha niente a che fare con la legge. Cosa c'è, adesso?»
Aveva visto a un duecento metri uno sbarramento di lanternine rosse trasversalmente alla strada. «Sarà qualche lavoro in corso,» disse, e rallentò fino a fermarsi. Immediatamente il camion fu circondato da un numeroso gruppo di individui, armati di bastone. Alcuni portavano l'elmetto da trincea, altri il berretto dell'American Legion. Uno di loro s'affacciò al finestrino alitando in faccia a Tom una zaffata di whisky. «Dove pensate d'andare, voi?» gli urlò col volto paonazzo.
Tom s'irrigidì, e allungò il braccio per afferrare la manovella. La mamma notò il movimento e gli fermò il braccio. Tom riuscì a dare alla propria voce un tono quasi servile. «Siamo forestieri, non siamo di qui. Ci han detto che a Tulare offrono lavoro.»
«A Tulare, eh? E voi andate nella direzione opposta, eh? Non ce li vogliamo da queste parti, quei maledetti Okies.»
Tom sentì un fremito in tutto il corpo, ma la mamma serrò più forte la mano con cui gli teneva il braccio. Tom domandò, sempre con la stessa voce umile: «E che strada dobbiamo prendere per arrivare a Tulare?»
«Fate dietro front, e andate a nord, il più lontano che potete, e non tornate da queste parti fino al raccolto del cotone!»
«Sissignore,» disse Tom, tremando di rabbia. Attaccò la marcia indietro e manovrò per voltare e ripartì nella direzione donde erano venuti. La mamma gli lasciò libero il braccio, e gli dette dei colpettini d'approvazione mormorandogli: «Non te la prendere, Tom, non te la prendere...»
Tom si soffiò il naso tra le dita fuori dal finestrino e s'asciugò la mano sui pantaloni imprecando tra i denti: «Quei maledetti figli di puttane...»
Alla prima biforcazione svoltò per una strada secondaria e dopo un centinaio di metri spense i fari e arrestò il camion. Scese, dopo aver preso la manovella.
«Dove vai?» domandò la mamma.
«Solo a dare un'occhiata. Mica dobbiamo andarcene e nord.»
Si portò a piedi sullo stradone e vide che le lanterne rosse erano state rimosse dallo sbarramento, e che il plotone di sbirri s'avviava verso l'accampamento. Dopo pochi minuti distinse chiaramente il suono di gridi e di schiamazzi e di comandi, e vide una fiammata levarsi nel cielo in direzione di Hooverville. Le fiamme crebbero e si allargarono, e s'udiva perfino scoppiettare il legno e crepitare gli alberi. Tom risalì in vettura, ritornò sullo stradone e senza accendere i fari riprese la direzione di sud.
«Dove vai, Tom, dove vai?» domandò la mamma.
«Non c'è pericolo, sta' tranquilla. Adesso gli incendiari non s'occupano di noi, possiamo passare.» «Ma dove vuoi portarci?»
«Provo a raggiungere il campeggio governativo. Mi son fatto dire dov'è. Là gli sbirri non c'entrano. Devo tenermi alla larga, se no va a finire che ne ammazzo qualcuno.»
Dopo pochi chilometri arrivarono a un paese, e Tom credette opportuno costeggiarlo, anziché attraversarlo. All'altro capo del luogo abitato vide un cartello indicatore che segnava la direzione della strada 99 e svoltò alla prima biforcazione. «Ad ogni modo,» disse, tirando un sospiro di soddisfazione, «gliel'abbiamo fatta. Ho dovuto strisciare a terra come un cane sotto la frusta. ma non possono vantarsi di averci spazzati via verso nord.»
CAPITOLO 21.
Ora gli emigranti sono trasformati in nomadi. Quella gente che aveva vissuto di stenti sui magri prodotti d'un pezzetto di terra, adesso ha l'intero Occidente in cui spaziare. E lo va rovistando da un capo all'altro, e le strade son convertite in fiumane di gente, e gli argini dei corsi d'acqua sono presidiati da falangi di straccioni.
Finché erano rimasti nei loro poderi del Middle West e del South West, erano stati tutti coloni, coloni che l'industria aveva lasciati intatti, contadini che non sentivano il bisogno di ricorrere alle macchine per lavorare la terra, né conoscevano la potenza e il pericolo delle macchine nelle mani di privati. Non si erano assuefatti ai paradossi dell'industria. Vedevano distintamente il lato assurdo e ridicolo della vita industriale.
Ed ecco che, spodestati e sfrattati dalle macchine, si ritrovano a trascinarsi senza meta sulle strade. Il moto li trasforma totalmente; la strada li trasforma, e la vita nella tenda, e la paura della fame, e la fame stessa. E li trasformano i bambini senza cibo, e gli interminabili spostamenti. Ormai sono solo dei nomadi. E li trasforma l'ostilità che incontrano dappertutto, e che li cementa, li salda insieme... quell'ostilità che induce i paesini a organizzarsi e ad armarsi come per respingere un invasore, con bande armate di bastoni, impiegati e commercianti coi loro fucili da caccia, preparati a difendersi contro i loro stessi fratelli.
Ed ecco che nel West subentra il panico, ora che i nomadi vanno moltiplicandosi per le strade. I ricchi sono terrorizzati dalla loro miseria. Individui che non avevano mai provato la fame, ora vedono gli occhi degli affamati. Individui che non avevano mai provato desideri intensi per qualche cosa, vedono ora l'ardente brama che divampa negli occhi dei profughi. Ed ecco gli abitanti delle città e della pigra campagna suburbana organizzarsi a difesa, dinanzi all'imperioso bisogno di rassicurare se stessi di essere loro i buoni e i cattivi gli invasori, come è buona regola che l'uomo pensi e faccia prima della lotta.
Dicono: vedi come sono sudici, ignoranti, questi maledetti Okies. Pervertiti, maniaci sessuali. Ladri tutti dal primo all'ultimo. E' gente che ruba per istinto, perché non ha il senso della proprietà. Ed è giustificata, se vogliamo, quest'ultima accusa; perché come potrebbe, chi nulla possiede, avere la coscienza angosciosa del possesso?
E dicono: vedi come son lerci, questi maledetti Okies; ci appestano tutto il paese. Nelle nostre scuole non ce li vogliamo, perdio. Sono degli stranieri. Ti piacerebbe veder tua sorella parlare con uno di questi pezzenti?
E così le popolazioni locali si foggiano un carattere improntato a sentimenti di barbarie. Formano squadre e centurie, e le armano di clave, di gas, di fucili. Il paese è nostro. Guai, se lasciamo questi maledetti Okies prenderci la mano. E gli uomini che vengono armati non sono proprietari, ma si persuadono di esserlo; gli impiegatucci che maneggiano le armi non possiedono nulla, e i piccoli commercianti che brandiscono le clave possiedono solo debiti. Ma il debito è pur qualche cosa, l'impiego è pur qualche cosa. L'impiegatuccio pensa: io guadagno quindici dollari la settimana; mettiamo che un maledetto Okie si contenti di dodici, cosa succede? E il piccolo commerciante pensa: come faccio a sostenere la concorrenza di chi non ha debiti?
E i nomadi defluiscono lungo le strade, e la loro indigenza e la loro fame sono visibili nei loro occhi. Non hanno sistema, non ragionano. Dove c'è lavoro per uno, accorrono in cento. Se quell'uno guadagna trenta cents, io mi contento di venticinque.
Se quello ne prende venticinque, io lo faccio per venti.
No, prendete me, io ho fame, posso farlo per quindici.
Io ho bambini, ho i bambini che han fame! io lavoro per niente; per il solo mantenimento. Li vedeste, i miei bambini! Pustole in tutto il corpo, deboli che non stanno in piedi. Mi lasciate portar via un po' di frutta, di quella a terra, abbattuta dal vento, e mi date un po' di carne per fare il brodo ai miei bambini, e io non chiedo altro.
E questo, per taluno, è un bene, perché fa calar le paghe mantenendo invariati i prezzi. I grandi proprietari giubilano, e fanno stampare altre migliaia di prospettini di propaganda per attirare altre ondate di straccioni. E le paghe continuano a calare, e i prezzi restano invariati.
Così tra poco riavremo finalmente la schiavitù.
E ora i latifondisti e le società inventano un metodo nuovo. Metton su fabbriche di frutta in conserva, e quando le pesche e le pere e le susine sono mature fanno calare il prezzo della frutta fresca al di sotto del costo di produzione. Così comprano la frutta fresca a prezzo irrisorio, ma tengono alto quello della frutta in conserva, e realizzano enormi profitti. E i contadini, i contadini che non possiedono fabbriche di frutta in conserva, perdono i loro frutteti; e i frutteti vengono assorbiti dai latifondisti e dalle banche e dalle società che possiedono le fabbriche di frutta in conserva. I contadini allora si trasferiscono in città, e in poco tempo vi esauriscono il loro credito, e perdono gli amici e s'alienano i parenti e finalmente si riducono anch'essi sulla strada. E le strade sono affollate di gente avida di lavoro, ma avida al punto da esser disposta ad assassinare pur di trovarne.
E le banche e le società si scavano la fossa con le proprie mani, ma non lo sanno. I campi sono fecondi, e sulle strade circola l'umanità affamata. I granai sono pieni, e i bimbi dei poveri crescono rachitici e pieni di pustole. Le grandi società non sanno che la linea di demarcazione tra fame e furore è sottile come un capello. E il denaro che potrebbe andare in salari va in gas, in esplosivi, in fucili, in spie, in polizie e in liste nere.
Sulle strade la gente formicola in cerca di pane e lavoro, e in seno ad essa serpeggia il furore, e fermenta.
CAPITOLO 22.
Era già notte avanzata quando Tom si avventurò per una strada di campagna in cerca del campeggio di Weedpatch. A qualche chilometro di distanza il cielo buio si tingeva di una luce scialba, evidentemente riverberata dai lumi di una città, che probabilmente era Bakersfield. Tom procedeva ad andatura moderata. La mamma si era appisolata, e il babbo, rinchiuso in se stesso, non parlava da tanto tempo.
Ad una biforcazione, Tom mormorò: «Chissà dov'è. Meglio aspettare il giorno e domandare a qualcuno.» E fermò l'autocarro. Poco dopo si fermò all'incrocio anche un'altra vettura. Tom si sporse in fuori: «Ehi, signore, sapete indicarmi la strada per il campeggio?»
«A destra.»
Tom s'inoltrò nella direzione indicata, e dopo alcune centinaia di metri si trovò a costeggiare un reticolato di fil di ferro e non tardò a trovare l'ingresso. Sterzò senza rallentare, passò tra i pilastri del cancello aperto, e l'autocarro balzò in aria e ripiombò pesantemente. «Merda!» imprecò Tom, «non avevo visto la cunetta.»
Il custode gli venne incontro. «L'avete presa a rotta di collo. Un'altra volta andrete più piano.»
«Ma perché quella cunetta proprio sull'ingresso?»
«E' pieno di bambini, qui dentro; l'ho scavata apposta per far rallentare chi ha fretta. Provata una volta, nessuno la dimentica più.»
«Ci potete giurare. Spero che non s'è rotto niente. Dite un po', avete posto per noi?» «Quanti siete?»
Tom contò sulle dita. «Io, la mamma, il babbo, Al, Rosa Tea, zio John e due bambini, Ruth e Winfield.»
«Sì, credo che posso arrangiarvi. Avete la roba per attendarvi?»
«Un telone, sì, e i materassi.»
Il custode salì sul predellino. «Avanti, fino in fondo, poi girate a destra. Impianto Igienico Numero Quattro.»
«Cos'è?',
«Bagni, latrine, lavanderia, eccetera.»
La mamma domandò: «Avete proprio vasche da bagno... con l'acqua corrente?» «Sicuro.»
«Dio sia lodato!» disse la mamma.
L'autocarro avanzò tra due file di tende, e quando giunse ad uno spiazzo presso la tettoia degli impianti igienici, il custode disse: «Fermate qui. E' un buon posto. Libero solo da ieri. Lasciate che gli altri scarichino, e venite da me in portineria: devo registrarvi. Poi ve ne andate tranquillamente a dormire e domattina il Comitato del campo viene a darvi le istruzioni.» Tom rizzò gli orecchi. «Sbirri?»
Il custode rise. «No. Niente poliziotti. L'ordine lo teniamo noi, qui dentro. Abbiamo un servizio di polizia privato. Le guardie le eleggiamo noialtri. Su, venite con me.»
Al fu il primo a scendere dall'autocarro e domandò: «Ci stabiliamo qui?»
«Sì,» disse Tom, «tu e il babbo scaricate, io vado nell'ufficio.»
«Fate piano,» disse il custode, «c'è un sacco di gente che dorme.»
Tom lo seguì, nel buio, salì i pochi gradini d'ingresso all'ufficio e si trovò in uno sgabuzzino illuminato da una lampada, dove c'era solo un tavolo e un'unica sedia. Il custode sedette al tavolo e aprì un registro.
«Nome.»
«Tom Joad.»
«Il padre?»
«Tom Joad anche lui.»
Seguì una filza di altre domande: dove andavano, di dove venivano, quanto contavano di fermarsi, che lavoro facevano. Il custode si scusò: «So che non è piacevole, ma io ho l'ordine di prendere tutti questi dati.»
«Certo,» disse Tom.
«E ora... denaro n'avete?»
«Pochino.»
«Allora non siete nullatenenti?»
«Qualcosa c'è. Perché?»
«Il soggiorno qui costa un dollaro la settimana, ma accettiamo anche chi non può pagarlo; alla condizione che lo paghi in natura, lavorando. Lavoro di ramazza, portar via i secchi della spazzatura, roba del genere.»
«Allora dichiarateci nullatenenti.»
«Domattina verrà il Comitato a parlarvi.»
«Ma cos'è questo Comitato.»
Il custode s'appoggiò allo schienale. «Funziona discretamente bene. Il campo è suddiviso in cinque sezioni. Ognuna elegge un membro del Comitato. E' il Comitato che fa le regole. E le regole hanno valore di legge.»
«Mettiamo che un Comitato non dia soddisfazione, allora?»
«Si fa presto a dichiararlo decaduto. E se ne elegge un altro. Ma fanno bene, in generale. Volete sentirne una, per esempio? Sapete che c'è una quantità di predicatori, che vanno in giro visitando i campeggi, e fanno il sermone prima, e poi la colletta. Be', volevano venire anche qui, e, fra le persone anziane, ce n'erano parecchie che desideravano che venissero. Allora il Comitato s'è riunito per deliberare. E sapete come hanno risolto la questione? Hanno aggiunto una norma al regolamento. Diceva: 'I predicatori sono ammessi a predicare. E' proibita la colletta.' Gli anziani son
rimasti male, perché da quel giorno nessun predicatore s'è fatto vedere.»
Tom rise. Poi domandò: «Ma i consiglieri sono scelti proprio tra gente accampata qui?»
«Sicuro: Il sistema funziona benissimo.»
«Ma avete parlato anche di poliziotti.»
«Il Comitato bada a mantenere l'ordine e a fare le leggi. Poi ci sono le patronesse. Verranno domattina a far visita a vostra madre. Hanno l'incarico di badare ai bambini, e di tenere in ordine gli impianti igienici. Per esempio, se vostra madre non lavora fuori, avrà il compito di badare ai bambini di qualche altra donna che lavora; e quando lavorerà lei, qualche altra disoccupata baderà ai suoi. Alle disoccupate inoltre viene assegnato qualche lavoro di cucito. Cose di questo genere.» «E... volete proprio dire che la polizia non è ammessa nel campo?»
«E' assolutamente esclusa. A meno, beninteso, che si presenti un poliziotto con un mandato d'arresto.»
«Ma cosa succede, per esempio, se qualcuno è indisciplinato, e non osserva le regole...?»
Succede che, la prima volta, il Comitato lo avverte, la seconda lo ammonisce, e la terza lo manda via con un calcio nel sedere.»
«Quasi da non crederci, perdio! Non più tardi di ieri sera, nel campo dov'eravamo, la polizia ha mandato i suoi sgherri per appiccare il fuoco.»
«Qui non c'è pericolo che entrino. Abbiamo le nostre pattuglie di vigilanza, che funzionano specialmente durante le feste da ballo.»
«Feste da ballo?»
«Sicuro. Tutti i sabati sera. Feste, come non ce n'è in tutta la contea.»
«Formidabile! Com'è che non se ne vedono molti di posti come questo?»
«Ah, questo lo scoprirete da voi. Ma adesso vi conviene andare a fare una dormitina.»
«Buona notte. Mia madre sarà contenta di starsene qui. E' un pezzo che non si sente trattata da cristiana.»
«Buona notte. Badate che qui ci si sveglia molto presto.»
Tom ritornò sul posto che avevano assegnato alla famiglia. Si fermò a dare un'occhiata alla tettoia che costituiva l'Impianto Igienico Numero Quattro e distinse una dozzina di lavabi disposti in fila contro una delle tramezze. Il telone impermeabile era stato issato sui picchetti, e la famiglia era già immersa nel sonno. Al rumore dei suoi passi, una figura si staccò dall'ombra dell'autocarro e gli mosse incontro. Era la mamma. Disse, sottovoce: «Sei te, Tom?»
«Sì.»
«Dormono già tutti, erano sfiniti.»
«Va' anche te a dormire.»
«Prima volevo vederti. Tutto bene?»
«Sì, ma adesso non ti dico niente. Te lo dirò domani. Ti piacerà.»
Ella bisbigliò: «C'è davvero l'acqua calda?»
«Sì. Ora va' a dormire. Tanto tempo che non dormi.»
La mamma lo supplicò: «Ma dimmelo adesso, perché non vuoi dirmelo?»
«No, adesso devi riposare.»
«Come posso riposare, se penso a quello che non vuoi dirmi?»
«Non pensarci. Domattina, prima cosa, ti metti il vestito bello, e poi... vedrai, ora non ti dico niente.»
«Cos'è questo mistero? Vuoi farmi una sorpresa?»
«Vedrai. Ora buona notte. Vai sotto la tenda.»
«Buona notte,» disse la mamma con dolcezza; poi si chinò e si introdusse sotto il telone.
Tom si accomodò nel camion vuoto, si sdraiò sul fondo e intrecciò le mani sotto la nuca. La notte era fresca. Tom si abbottonò la giacca. Le stelle brillavano benigne nel cielo terso.
Era ancora scuro quando si svegliò. L'aveva destato un sommesso rumore, un tintinnio d'oggetti metallici. Si sentiva indolenzito e rabbrividì nell'aria frizzante del mattino. Si alzò in piedi, s'appoggiò alle sponde dell'autocarro e guardò verso oriente. Le montagne erano ancora nere, ma lo sfondo su cui si profilavano cominciava a tingersi di chiaro. Di nuovo udì il rumore di prima; guardò nella direzione donde proveniva e vide, vicino a una tenda, la fiamma d'un fuoco arancione guizzare tra gli spiragli d'un fornello di stufa, e un pennacchio di fumo grigio uscire dal tubo. Scese dall'autocarro e si diresse verso quella tenda.
Non tardò a scoprire che attorno alla stufa si muoveva in faccende una giovane donna intenta a preparare la colazione, e aveva al petto un poppante, che teneva ora con un braccio, ora con l'altro, continuando a darsi da fare attorno al fuoco con mosse agili e piene di grazia. Tom si fece più vicino, e non tardò a sentire l'odore di pancetta fritta e di pagnottelle al forno. L'alba avanzava rapidamente. Tom arrivò alla tenda e tese le mani fredde verso la stufa. La donna lo vide e lo salutò con un cenno del capo, che le fece scuotere le trecce.
«Buon giorno,» disse, rivoltando la pancetta nella padella.
I teli di chiusura della tenda s'aprirono e comparve un uomo giovane, seguito da uno più anziano. Indossavano entrambi tute nuove di fustagno blu con bottoni d'ottone, e si somigliavano: solo che il più giovane aveva la barba nera e l'altro bianca. Insieme si fermarono a contemplare le prime luci d'oriente, sbadigliarono, e poi voltandosi scorsero Tom.
«Buon giorno,» salutò il più anziano con tono quasi indifferente.
«Buon giorno,» disse Tom.
«Avete già fatto colazione?» domandò il vecchio.
«No. I miei sono ancora addormentati. Sotto quella tenda là. Hanno bisogno di riposo.»
«Allora mangiate un boccone con noi. C'è abbondanza, grazie al cielo.»
«Oh, grazie. L'odore è così buono che non saprei dire di no.»
«Buono davvero, eh?» disse il più giovane. «Mai sentito niente di più profumato.» S'accostarono al fornello e s'accoccolarono.
«Lavorate da queste parti?» domandò il giovane.
«Spero,» disse Tom. «Siamo appena arrivati, stanotte, non ho ancora avuto tempo di guardarmi attorno.»
«Noi lavoriamo da dodici giorni,» disse il giovane.
La donna aggiunse: «Si sono anche comprati dei vestiti nuovi.»
I due uomini si guardarono gli abiti con evidente compiacimento e sorrisero un po' timidamente. La donna posò, sulla cassetta che serviva da tavola, la pancetta fritta e le pagnottelle, una scodella col sugo della pancetta e la caffettiera fumante, e sedette anche lei a terra con gli altri. Il poppante non smetteva di ciucciare, con la testina affondata sotto la camicetta della donna. Ognuno si servì nel proprio piatto di stagno e si inzuccherò il caffè. Il più vecchio si riempiva la bocca, masticava con gusto, inghiottiva e si riempiva daccapo la bocca, esclamando, ad ogni boccone: «Gesù, che bontà!» Il giovane disse: «E' dodici giorni che mangiamo bene. Mai saltato un pasto, in tutti i dodici giorni, nessuno di noialtri. Si lavora, si guadagna, e si mangia.» Si servì una seconda portata e l'attaccò voracemente. Bevvero il caffè, buttarono in terra i fondi rimasti e si riempirono di nuovo le tazze. La luce cominciava a tingersi d'un rosso pallido che si rifletteva negli occhi degli uomini quando guardavano le montagne. Finita la colazione, il vecchio disse: «Ora di andare,» e padre e figlio si alzarono insieme. Il giovane disse a Tom: «Sentite. Stiamo posando una tubatura per l'acqua; se ci accompagnate, chissà che non troviamo lavoro anche per voi.»
«Dite sul serio?» esclamò Tom. «E' maledettamente gentile da parte vostra. E devo anche ringraziarvi per la colazione.»
«Un piacere per noi,» disse il vecchio. «E se volete si può sempre provare a cercarvi lavoro.»
«Diavolo se lo voglio,» replicò Tom. «Aspettatemi solo un momento, che vado ad avvertire i miei.» E si allontanò di corsa. Arrivò al telone, sollevò il lembo dell'ingresso e guardò dentro. Nella penombra vide solo le forme dei corpi addormentati, ma una di queste si mosse e Ruth venne verso l'uscita, ancora barcollante di sonno. A quell'ora non aveva l'aria birichina. Tom le fece segno di seguirlo, e quando si voltò per parlarle, notò le sue forme tondette d'adolescente acerba. «Eh, sei quasi una donnina,» le disse, ma vedendola imbarazzata aggiunse: «Senti. Non svegliare nessuno adesso, ma quando si alzano avvertili che sono andato, con un vicino, a vedere se possono darmi lavoro. Di' a mamma che ho già fatto colazione, con questo vicino. Capito bene?»
Ruth fece segno di sì, ed evitò di guardare Tom in faccia, e nei suoi occhi ricominciava a spuntare un lampo di malizia. «Non li svegliare,» ripeté Tom, mentre già riprendeva a correre per raggiungere i suoi nuovi amici. I due lo stavano aspettando e, al suo arrivo, s'incamminarono insieme di buon passo.
L'accampamento cominciava ormai a svegliarsi; le donne s'affaccendavano presso i fuochi, e gli uomini presso le automobili. Dinanzi alla portineria un vecchio rastrellava coscienziosamente. «Siete mattiniero,» gli disse il giovane, mentre passarono di lì.
«Eh, sì. Ho da guadagnarmi l'affitto,» borbottò l'altro, in risposta.
«Altro che affitto,» disse sorridendo il giovane a Tom. «L'han trovato ubriaco fradicio sabato scorso, e gli hanno appioppata una punizione perché ha fatto un casino del diavolo tutta la notte.» Camminavano per la strada incatramata che costeggiava il campeggio. Il sole si levò. Tom disse: «M'avete dato da mangiare e non v'ho neanche detto il mio nome. Mi chiamo Tom Joad.»
«Oh, non ci si bada, qui, a queste formalità,» disse il vecchio. «Comunque,» aggiunse, «io sono
Timothy Wallace, e questo è mio figlio Wilkie.»
«Lieto di conoscervi,» disse Tom. «E' molto che siete qui?»
«Dieci mesi,» disse Wilkie. «Arrivati subito dopo l'inondazione dell'anno scorso. Dio, che tempi abbiam passato. S'è rischiato di morir di fame sul serio.»
Passò un camion carico di gente, tutte facce scure, torve, di gente malcontenta. «Lavorano per la Società del Gas,» disse Timothy.
«Averci pensato,» disse Tom, «vi portavo nel nostro autocarro. Non avete la macchina voialtri?» Timothy si chinò, raccolse un sasso e lo gettò contro un merlo appollaiato sulla rete di fil di ferro che costeggiava la strada. Il merlo spiccò il volo per lasciare che il sasso passasse sotto di sé, poi si posò di nuovo tranquillamente sul filo di ferro e riprese a spulciarsi. Timothy rispose, contrariato: «No, non l'abbiamo la macchina. L'avevamo; ma abbiamo dovuto disfarcene per mangiare. E ci han rubato. Per dieci dollari, l'ho dovuta dar via. Farabutti! Vengono qui apposta, è un vero mestiere:
comprano per niente le vetture degli affamati. Meriterebbero la forca.»
Wilkie disse: «L'ho rivista, la nostra macchina, la settimana scorsa, a Bakersfield, in un deposito di auto usate. Aveva su il cartellino del prezzo: settantacinque dollari.»
Il padre disse: «Non s'aveva via di scelta. O rubare per mangiare, o lasciarci derubare.»
Tom disse: «Sapete, prima che si partisse, ci avevano detto che c'era un sacco di lavoro da queste parti. C'era scritto anche in quei volantini dove dicevano che c'era bisogno di gente...»
Timothy rise. «Sì, sì, l'abbiamo visti anche noi. Ma la verità è che il lavoro è poco, e le paghe calano continuamente. Sono stufo, maledettamene stufo di stare sempre a scervellarmi per cercare da mangiare.»
«Ma adesso il lavoro ce l'avete,» obiettò Tom.
«Sì, ma mica dura all'infinito. Però siamo capitati bene. E' un brav'uomo, quello che ci fa lavorare.
S'ha avuto fortuna. Ma ho proprio paura che non durerà per molto, ancora.»
«E perché diavolo allora mi volete con voi? Durerà ancora meno, se lavoro anch'io. Perché lo dividete con me?»
«Mah!» rispose il vecchio scuotendo lentamente il capo. «Non so, non ha senso, credo. Contavamo di comprarci anche un cappello, ma se ne può fare a meno. Ecco, siamo arrivati. L'impiego è buono, trenta cents l'ora; e si ha da fare con un brav'uomo.»
Lasciarono la strada e si inoltrarono in un viottolo che traversando un orto conduceva ad una casetta bianca fiancheggiata da una stalla; dietro alla stalla si vedeva un vigneto e un campo di cotone. Quando i tre uomini oltrepassarono la casa, la porta si aprì, e ne uscì un uomo dall'aspetto robusto, dal viso bruciato dal sole. Portava un elmetto di cartone, le maniche della camicia rimboccate sino ai gomiti. I sopraccigli erano aggrottati in una espressione di contrarietà, e le guance erano rosse come la carne cruda.
«Buon giorno, signor Thomas.» disse Timothy.
«Buon giorno.» Il tono era irritato.
Timothy disse: «Questo è Tom Joad. Ci si chiedeva se non potevate trovare il modo di dar lavoro anche a lui.»
Thomas lanciò a Tom una torva occhiata e ruppe in un secco risolino, sempre con la fronte
aggrottata. «Sicuro! Do lavoro anche a lui. Do lavoro a tutti, io. Magari a cento persone.» «Si credeva solo che...» bofonchiò Timothy come per scusarsi.
Thomas non lo lasciò finire. «Anch'io credevo che. Ma ho qualcosa da dirvi. Finora v'ho pagati trenta cents l'ora, vero?» «Certo, signor Thomas, ma...»
«E ammetto che ve li meritavate.»
«S'è cercato di fare quel che si poteva.»
«Be', maledizione, da oggi dovete accontentarvi di venticinque. Prendere o lasciare.»
Timothy disse: «Abbiamo fatto un buon lavoro. L'avete detto voi stesso.»
«Lo so. Ma pare che non sono più padrone di fissare io la paga ai miei uomini.» Inghiottì la saliva. «State a sentire,» disse, «ho qui sessantacinque acri di terra. Avete mai sentito parlare della confederazione degli agricoltori?» «Sì, certo.»
«Be', io ne faccio parte. Abbiamo avuto una riunione ieri sera. Ora, sapete da chi dipende la confederazione? Ve lo dico io. Dalla Banca del West. La Banca possiede quasi tutta questa vallata, e il poco che non ne possiede l'ha in ipoteca. Dunque ieri sera il rappresentante della Banca mi fa, dice, voi pagate trenta cents all'ora, fareste bene a ridurre a venticinque. Ma io son contento dei miei uomini, gli dico, è gente che vale trenta. E lui fa, dice, mica è per questo, adesso il salario è ridotto a venticinque, se pagate trenta potete far nascere dei guai. E a proposito, fa, quest'altr'anno contate di aver bisogno del solito anticipo per il raccolto?» Thomas fece una pausa. Ansava, e cercava di dissimularlo. «Capite adesso? Il salario è venticinque e buonanotte.» «Abbiamo fatto un buon lavoro,» balbettò Timothy sconsolato.
«Non l'avete ancora capita? La signora Banca dà lavoro a duemila uomini, e io a tre. E ho delle scadenze da rispettare. Se ora mi dite voi una via di scampo, vi giuro, diavolo, che la prendo. Ma non c'è. Comandano loro.»
Timothy scosse la testa. «Non so cosa dire.»
«Aspettate qui.» Thomas si allontanò rapidamente e rientrò in casa sbattendosi la porta alle spalle. Ricomparve subito, con un giornale in mano. «Avete letto? Ecco qui ve lo leggo io: 'Accampamento di emigrati incendiato dalla popolazione inviperita contro gli agitatori rossi. Ieri sera un gruppo di cittadini, esacerbati dalle manifestazioni inscenate dai sovversivi in un campeggio del circondario,
ha appiccato il fuoco alle tende, e diffidato gli occupanti ad abbandonare la contea'.» Tom cominciò «Io...» ma richiuse subito la bocca e fece silenzio.
Thomas ripiegò il giornale e se lo mise in tasca. Aveva ripreso la padronanza di se stesso. Disse tranquillamente: «Quella gente era stata mandata dalla confederazione. Ecco, ora l'ho detto, e se vengono a sapere che ve l'ho detto, il prossimo anno mi mettono sulla strada.»
«Non so proprio cosa dire,» commentò Timothy. «Ma se c'erano dei sovversivi, posso capire che la popolazione s'è infuriata.»
Thomas disse: «E' da un pezzo che osservo il sistema. Tutte le volte che si prepara una riduzione delle paghe, si parla di sovversivi. Tutte le volte. Ad ogni modo, io sono in trappola. Voialtri cos'intendete fare? Venticinque cents?» Timothy guardò a terra. «Io accetto,» disse.
«Anch'io,» disse Wilkie.
Tom disse: «E io a maggior ragione. Ho bisogno di lavorare.»
Thomas trasse il fazzoletto e si asciugò la bocca e il mento. «Non posso garantire fino a quando durerà. Onestamente non vedo come potete sfamare una famiglia con quello che prendete ora.» «Si può sempre, se si lavora,» disse Wilkie. «Il guaio comincia quando non si trova lavoro.» Thomas diede un'occhiata all'orologio. «Be' andiamo a scavare un altro po' di fosso. Oh, un'altra
cosa!» disse, cambiando tono, «voialtri state tutt'e tre nel campeggio governativo, vero?»
Timothy s'irrigidì. Disse. «Sissignore.»
«E al sabato sera si balla, mi dicono?»
Wilkie sorrise: «Infatti.»
«Be', state attenti sabato venturo.»
Timothy immediatamente tese l'orecchio. Si fece più vicino. «Cosa volete dire? Io sono del Comitato. Devo sapere.»
Thomas manifestò una certa apprensione. «Ma non dite a nessuno che ve l'ho detto io.» «Di che si tratta?» insisté Timothy.
«Di questo. La confederazione non vede di buon occhio i campeggi governativi. Non può mandarci la polizia. Gli accampati si fanno i loro regolamenti, e non si può arrestare nessuno, se non s'ha un mandato di cattura. Ora, se scoppia una rissa, per esempio, magari con qualche sparatoria, ecco che un drappello d'agenti ha tutti i diritti di entrare nel campeggio e di farlo sgombrare.»
Timothy era cambiato: s'era raddrizzato con le spalle e aveva assunto un'espressione gelida. «Cosa volete dire?»
«Non dite mai a nessuno che ve l'ho detto io,» replicò Thomas a disagio, «ma sabato venturo
scoppierà una rissa nel vostro campeggio, e il drappello sarà pronto per fare irruzione.»
Tom domandò: «Ma perché, in nome di Dio? Quella gente non dà noia a nessuno.»
«Ve lo dico io il perché,» rispose Thomas. «Gli accampati si stanno abituando a vedersi trattati come esseri umani, e si ha paura che, nel caso che abbiano da tornare in un campeggio non autorizzato, si ribellino al trattamento che vi riceverebbero.» Si asciugò di nuovo la faccia. «Adesso, al lavoro. Spero di non essermi compromesso. Ma ho simpatia per voialtri.»
Timothy gli tese la mano, e Thomas la strinse. Timothy disse: «Nessuno saprà chi m'ha avvertito.
Vi ringrazio. Non ci saranno risse.»
«Su, al lavoro,» ripeté Thomas. «Venticinque cents, ricordatevi.» «Da voi li accettiamo,» disse Wilkie.
Thomas si allontanò in direzione della casa. «Andate. Vengo tra poco.» Si sbatté la porta alle spalle. Gli altri tre, oltrepassata la casa, camminarono lungo il margine del campo finché arrivarono ad un fossato stretto e lungo di scavo recente, presso il quale giacevano segmenti di tubo in cemento.
«E' qui che lavoriamo,» disse Wilkie.
Suo padre aprì il ripostiglio degli attrezzi e ne trasse due picconi e tre pale. E disse a Tom: «Ecco la vostra sposa.»
Tom brandì il piccone che tolse dalle mani del vecchio, dicendo: «Dio, quanto mi piace!»
«Ne riparleremo verso le undici,» fu il commento scherzoso di Wilkie. «Vedremo se vi piacerà ancora...»
Si avviarono all'estremità del fossato. Tom si tolse il giubbotto e lo gettò a terra, si spinse il berretto sulla nuca ed entrò nel fossato. Poi si sputò nelle mani. Il piccone si sollevò in alto e ripiombò. Tom emetteva sordi grugniti. Il piccone s'alzava e ricadeva, e i grugniti si facevano sentire nell'attimo in cui il piccone si conficcava nel terreno. Wilkie commentava: «Sissignore, abbiamo qui uno scavatore di prim'ordine. Chissà da quando son marito e moglie, lui e la zappa.»
Tom ribatteva: «Da un'eternità ("umff"). Sicuro, da secoli ("umff"). Siamo amiconi ("umff").» Le zolle si spaccavano davanti a lui. Adesso il sole carezzava gli alberi da frutta e indorava il verde delle foglie della vite. Scavati due metri, Tom uscì dal fosso e si asciugò la fronte. Wilkie prese il suo posto, con la pala.
La pala s'alzava e ricadeva e la terra s'ammucchiava in un arginello su un lato del fossato che man mano s'allungava.
Tom disse: «Ho già sentito parlare di questo Comitato. Così voi siete uno dei consiglieri?»
«Sicuro,» rispose Timothy. «Ed è una bella responsabilità. Con tutta quella gente. Facciamo del nostro meglio. E la gente del campo anche, bisogna dirlo. Se solo i padroni ci lasciassero lavorare in pace!»
Tom rientrò nel fosso e Wilkie si ritirò da un lato. Tom disse: «E questa rissa alla festa da ballo ("umff"), di cui parlava Thomas ("umff"), cos'è che vogliono fare?»
Timothy procedeva al seguito di suo figlio, e con la pala spianava il fondo del fosso per prepararlo a ricevere i segmenti di tubo. Disse: «Pare che hanno l'intenzione di mandarci via. Hanno paura che ci organizziamo, probabilmente. Non hanno mica torto. Il nostro campeggio è già ben organizzato. Abbiamo un'orchestrina che è la migliore della zona. Abbiamo persuaso il droghiere a tenere un conto aperto per quelli che han più bisogno, fino a cinque dollari per famiglia, e il Comitato si fa garante. Non abbiamo mai avuto grane con la legge. E' per questo che i padroni hanno paura, suppongo. Non potendo farei arrestare, hanno paura. Pensano che se sappiamo governarci da noi, saremo anche capaci di far altro.»
Tom fece una sosta e s'asciugò il sudore dagli occhi. «Avete sentito cosa diceva il giornale su quei sovversivi laggiù a nord di Bakersfield?»
«Già,» disse Wilkie, «è sempre colpa dei sovversivi.»
«Ma non ce n'erano. Io ero lì. Agitatori, li chiamano; o anche rossi. Comunque, cosa diavolo sono questi rossi?»
Timothy spianò una ingobbatura sul fondo del fosso. Il sole gli faceva scintillare la dura barba bianca. «C'è un sacco di gente che vuol sapere cosa sono questi rossi,» disse ridendo. «Uno di noi, però, al campo, ha trovato la risposta. E' un giovanotto arrivato da poco. Lavorava per un grosso proprietario, un certo Hines, uno che avrà trentamila acri a vigna e peschi, e naturalmente vende il vino e la frutta in conserva. Be', questo pescecane parlava sempre di 'quei maledetti rossi'. 'Sti maledetti rossi sono la rovina del paese. Guai a noi, se non ci liberiamo di questi maledetti rossi.' Il giovanotto stava a sentirlo senza capire, e un giorno si fa coraggio, si gratta la testa e domanda: 'Sentite, signor Hines, chi sono 'sti maledetti rossi? Io son qui da poco.' E il padrone fa: 'Rosso è un figlio di puttana che vuole trenta cents l'ora quando noi paghiamo venticinque.' E allora l'altro si gratta la testa di nuovo e fa: 'Ecco, signor Hines, io non credo d'essere un figlio di puttana, ma se questo vuol dire essere rossi... bene, siccome anch'io voglio trenta cents l'ora, e anche tutti gli altri, signor Hines, siamo tutti rossi'.» Timothy raschiava il fondo del fosso con la pala, e la zolla dura luccicava dove la pala la incideva.
Tom rise. «Anch'io suppongo.» Il suo piccone disegnava archi nell'aria, e le zolle si spaccavano ad ogni sua caduta. Il sudore gocciolava sulla fronte di Tom in rivoletti che gli scendevano ai lati del naso e gli scintillavano sul collo. «Certo è un piacere zappare ("umff"), quando si va d'accordo con la zappa» ("umff").
I tre uomini lavoravano in fila, e il fosso si allungava, e il sole cominciava a scottare ma splendeva radioso su di loro.
Dopo che Tom l'ebbe lasciata, Ruth rimase un momento a curiosare sull'ingresso dell'impianto igienico. Senza Winfield per spettatore, aveva poco coraggio. Avanzò un piedino nudo per toccare il pavimento di cemento ma lo ritirò subito. Vedendo a poca distanza una donna uscire dalla sua tenda per accendere il fuoco, si avviò in quella direzione ma dopo pochi passi si fermò. Non se la sentiva di allontanarsi. Fece capolino entro la tenda dei suoi. Da un lato zio John, sdraiato in terra, russava con la bocca aperta. Il babbo e la mamma s'erano tirata la coperta fin sopra gli occhi, per non vedere la luce. Sul lato opposto a quello di zio John, Al dormiva con un braccio ripiegato sugli occhi. Accanto a Rosa Tea dormiva Winfield, e dall'altra parte di Winfield era lo spazio che Ruth aveva occupato. Ruth tenne fissi gli occhi sulla faccia di Winfield finché lo vide aprire i suoi e guardarla con solennità; allora si pose l'indice sulle labbra e con l'altra mano gli fece segno di venire. Winfield sbirciò le rosee guance e le labbra socchiuse di Rosa Tea addormentata, sgusciò cauto fuori dalla coperta e raggiunse Ruth. «Da quanto sei alzata?» le bisbigliò.
Ruth se lo condusse via con fare misterioso e quando furono a conveniente distanza dalla tenda disse: « Son stata su tutta la notte. Mica sono neanche andata a letto.»
«Non ci credo,» ribatté Winfield. «Sei una sporca bugiarda.»
«E allora se son bugiarda non ti dico niente di quel che è successo. Volevo raccontarti che ho visto uno prendersi una coltellata ma non ti dico niente, che ho visto un orso portarsi via un bambino ma non te lo dico.»
«Ma se non ce n'erano di orsi,» protestò Winfield che però era già un tantino impressionato; si ravviava i capelli con una mano e con l'altra s'aggiustava le brachette all'inforcatura.
«Se non ci credi peggio per te. Puoi anche non credere che ho visto quegli affari bianchi di porcellana come nel catalogo; per quel che me n'importa!»
Questa volta gli occhi di Winfield si fecero intenti. Indicò l'impianto igienico e domandò: «Lì dentro?»
«Se sono una sporca bugiarda, cosa serve dirti le cose?» «Andiamo a vedere,» decise Winfield.
«Io ci son già stata. Ho perfino fatto la pipì in uno di quei cosi.»
«Non è vero.»
Andarono alla tettoia, e adesso Ruth non aveva più paura. Con baldanza fece strada all'interno. Il locale era suddiviso in scomparti, munito ognuno della sua porta. La porcellana bianca sfavillava. Sulla parete di fronte si allineavano i lavabi. e lungo la terza parete erano quattro scomparti per la doccia. «Ecco le latrine come sul catalogo,» proclamò Ruth.
S'accostarono a una di esse. Ruth, con aria da spaccona, si tirò su il vestito e si mise a sedere. «Non vuol credere che c'ero già stata,» disse; e un sommesso stillicidio documentò che era pratica del luogo.
Winfield rimase confuso. Allungò la mano toccando l'impugnatura della catena, e provocò uno scrosciante rumore di cascata. Ruth sobbalzò e schizzò via. Rimasero tutt'e due a rispettosa distanza a contemplare il fenomeno. Il rumore non pareva voler cessare. «L'hai rotto te,» dichiarò Ruth.
«Non son stato io,» protestò Winfield.
«Bugiardo, t'ho visto. Guai a lasciarti giocare con le belle cose.»
Winfield abbassò la testa e gli vennero le lagrime agli occhi e il mento prese a tremargli. Allora Ruth s'intenerì. «Fa niente, non ti faccio la spia, diremo ch'era già rotto, non diciamo a nessuno che siamo stati qui.» E lo condusse via.
Ora il sole aveva scavalcato le montagne e splendeva sulle lamiere ondulate dei tetti dei cinque impianti igienici, splendeva sulle tende. E il campo si destava, i fuochi ardevano nelle stufette, fatte in gran parte con latte di benzina. Era nell'aria l'odore del fumo, e nei viottoli tra le tende si muoveva la popolazione dei nomadi. La mamma venne sulla soglia della propria tenda e perlustrò con gli occhi il sentiero nelle due direzioni. Vide venire i bambini e mosse loro incontro. «Ero in pensiero,» disse, «non sapevo dov'eravate. Avete visto Tom?»
Ruth si diede delle arie. «Sicuro. M'ha svegliata, per dirmi di farti una commissione.» E fece una pausa per rendersi importante.
«Che commissione?» chiese la mamma impaziente.
«M'ha detto di dirti...» E fece un'altra pausa, per assicurarsi che Winfield apprezzava la sua posizione.
La mamma alzò una mano, come per darle uno scapaccione. «Allora?»
«Ha trovato lavoro,» s'affrettò a concludere Ruth. «E' andato fuori a lavorare.» Teneva d'occhio, non senza apprensione, la mano alzata della mamma, ma la mano si abbassò e si posò benigna sulle sue spalle, e la mamma strinse a sé la bambina in un rapido abbraccio affettuoso. Ruth, imbarazzata, guardò a terra e cambiò argomento. «Ci sono le latrine, là. Tutte bianche.» «Sei stata là dentro?» domandò la mamma.
«Anche Winfield,» disse Ruth, e poi lo tradì: «Winfield ne ha rotto una.»
Winfield diventò rosso. Diede a Ruth uno sguardo di odio e ribatté, vendicativo:, «E lei allora ha fatto la pipì in una.»
La mamma sbigottì. «Fatemi vedere quello che avete fatto,» e spingendoseli innanzi entrò con loro nel locale. «Ditemi cos'avete fatto.»
Ruth indicò col dito. «E' venuta giù una cascata. Adesso è finita.»
«Winfield, dimmi cosa hai fatto.»
Winfield si avvicinò riluttante alla catena. «L'ho appena toccato,» disse, «così...» La cascata ricominciò e Winfield fece un salto indietro.
La mamma rovesciò la testa scoppiando in una risata, mentre Ruth e Winfield la guardavano con risentimento. La mamma spiegò: «Non c'è niente di rotto. E' così che funzionano, ne ho già viste prima. Quando s'ha finito si tira la catena, per far venir giù l'acqua.»
I bambini, confusi nel constatare la loro ignoranza, si allontanarono per andare a contemplare una numerosa famiglia riunita a colazione davanti a una tenda. La mamma li seguì cogli occhi per qualche momento e poi si guardò attorno. Andò alle docce e guardò dentro. Andò ai lavabi e passò il dito sulla lucida porcellana. Aprì il rubinetto dell'acqua calda, la saggiò col dito e dopo un istante lo ritirò di scatto perché l'acqua scottava. Stette un momento a guardare il lavandino, poi introdusse il tappo nel foro di scarico e aprì entrambi i rubinetti. Finalmente si lavò la faccia e le mani nell'acqua tiepida. Stava per lavarsi anche la testa quando udì dei passi alle spalle e si voltò di scatto. Un uomo anziano la stava guardando con severità. Le domandò, burbero: «Com'è che siete venuta qui?»
La mamma sussultò, sgomenta di sentirsi l'acqua colare giù dal collo dentro la camicia. «Non sapevo,» disse in tono di scusa, «credevo fosse a disposizione di tutti.»
Il vecchio la guardava accigliato. «Questo è per gli uomini,» disse, indicando il cartello sulla porta. «Oh, non l'avevo visto,» mormorò la mamma al colmo dell'imbarazzo. «E dov'è che devo andare, allora?»
Il risentimento del vecchio sparì. «Siete arrivati da poco?» domandò in tono benevolo.
«Stanotte.»
«Allora non avete ancora parlato con le patronesse?»
«Che patronesse?»
«Del Comitato.»
«No.»
Il vecchio spiegò con sussiego. «Il Comitato non tarderà a venirvi a trovare, per mettervi al corrente. E' di regola, coi nuovi arrivati. Ma intanto, per le donne, le latrine sono dall'altra parte della tettoia.»
La mamma disse, un po' a disagio: «Dite che... le patronesse verranno... nella nostra tenda?»
L'altro annuì. «Non tarderanno, penso.»
«Grazie,» disse la mamma. Uscì e si diresse quasi di corsa, verso la tenda.
«Babbo, zio John!» gridò. «Alzatevi! Svelto, Al, va' a lavarti.» Si vide addosso gli occhi imbambolati degli uomini, e gridò più forte: «Alzatevi tutti e andate a lavarvi la faccia e a pettinarvi.»
La faccia di zio John era cadaverica e mostrava una contusione sul mento.
Il babbo domandò: «Che è successo?»
«Il Comitato,» gridò la mamma. «C'è un Comitato e stanno per venire le patronesse a farci visita. Alzatevi, svelti, andate a lavarvi. E mentre stavamo tutti russando, Tom è andato fuori e ha trovato lavoro. Avanti, su, sbrigatevi.»
Gli uomini vennero fuori, ancora inciocchiti dal sonno. Zio John barcollava un po' e aveva sul viso un'espressione sofferente. «Andate sotto quella tettoia a lavarvi,» ordinò la mamma. «Dobbiamo sbrigarci a far colazione e prepararci a ricevere le patronesse.»
S'affrettò ad accendere il fuoco, e disponendo attorno i suoi paioli borbottava tra sé: «Ciambelle con la salsa. Ci vuol poco. Bisogna far presto.» Ruth e Winfield, in silenzio, la osservavano perplessi. Il fumo dei fuochi mattutini si alzava su tutto il campeggio, e da ogni direzione giungeva il mormorio delle voci.
Rosa Tea, sciatta e con gli occhi assonnati, si trascinò fuori della tenda mentre la mamma preparava la dose per le ciambelle con la farina di granturco. La mamma diede un'occhiata al vestito sudicio e spiegazzato, alla testa spettinata di sua figlia, e le disse con insolita vivacità: «Va' subito a metterti in ordine, su! Hai un vestito pulito, l'ho lavato io. Datti una pettinata. E levati quelle cispe dagli occhi.» La mamma era eccitata.
Rosa Tea disse, imbronciata: «Mi sento poco bene. Vorrei che Connie fosse qui. Senza di lui non mi sento di far niente.»
La mamma l'affrontò direttamente; la farina le ingialliva le mani fin sopra i polsi. Disse severa: «Rosatè, muoviti. Hai piagnucolato abbastanza. Vengono le patronesse, e non voglio che la famiglia si faccia vedere col muso.»
«Ma mi sento poco bene.»
La mamma fece un passo avanti, tendendo le mani infarinate. «Via!» disse, «ci son delle volte che non bisogna star lì a compatirsi.» «Ho voglia di vomitare,» gemette Rosatè.
«E allora va' a vomitare. Capita a tutte, nel tuo stato. Liberati, e poi va' a pulirti; lavati le gambe e mettiti le scarpe.» Si voltò per continuare le sue faccende. «E fatti le trecce,» concluse.
Il grasso cominciava a crepitare nella padella sul fuoco, la mamma ci versò su la farina e la rimestolò, aggiungendovi acqua e sale. Il caffè cominciò a salire nella latta di benzina, effondendo un buon odore.
Il babbo stava tornando dall'impianto igienico, e la mamma lo osservò con occhio critico. Il babbo domandò: «Hai detto che Tom ha trovato lavoro?»
«Sicuro. E' andato a trovarselo che noi dormivamo ancora. Ora cerca in quel cassone e trovati una tuta e una camicia pulita. E senti, io son troppo occupata, prenditi Ruth e Winfield e va' a lavarli con l'acqua calda. Capito? Il collo, mi raccomando, e gli orecchi. Strigliali, voglio vederli rossi e lucidi.»
«Non t'ho mai vista così agitata,» borbottò il babbo.
La mamma gridò: «Ci sono delle volte, che la famiglia deve aver l'aria decente. In viaggio era impossibile, ma adesso no. Getta via quella tuta sporca sotto la tenda, che poi la lavo.»
Il babbo si ritirò sotto la tenda, e dopo ne uscì con una camicia e la tuta pulita, entrambe di un celeste sbiadito, e condusse i bambini, seccati e sorpresi, all'impianto igienico. La mamma gli gridò dietro: «Mi raccomando gli orecchi.»
Zio John comparve sulla porta del lato uomini, guardò fuori, poi tornò a sedersi sul water, tenendo tra le mani la testa dolorante.
La mamma stava assorta nel cucinare quando vide, con la coda dell'occhio, avvicinarsi un'ombra; voltò la testa. Un ometto tutto vestito di bianco stava dietro a lei; una faccia stretta, abbronzata; due occhietti allegri; magro come un piolo. Il suo candido costume era un po' sfilacciato attorno alle cuciture. Sorrideva quando disse: «Buon giorno.»
La mamma notò il vestito bianco e non poté nascondere un'ombra di diffidenza. «Buon giorno,» rispose.
«La signora Joad, vero?»
«Sì.»
«Io sono Jim Rawley, l'amministratore. Son venuto a vedere se v'occorre niente. Avete bisogno di niente?»
La mamma lo osservava sospettosa. «Niente, grazie.»
«Dormivo, stanotte, quando siete arrivati. Fortuna che c'era posto per voi.» La sua voce era calda.
La mamma disse, con semplicità: «E' bello, qui. Specialmente la lavanderia.»
«Vedrete che allegria, i giorni di bucato. Sapete cos'hanno fatto ieri, tutte le donne insieme? Si son messe a cantare in coro. Cantavano un inno religioso, senza smettere di strigliare i panni. Avreste dovuto sentirle!»
La diffidenza andava sparendo dalla faccia della mamma. «Dev'esser divertente. Voi siete... il padrone?»
«No, niente padroni, qui. Tutti fanno quel che devono, tutta brava gente. Le donne lavorano da sarta nella stanza delle riunioni. Fabbricano persino giocattoli. Mai visto gente così in gamba.»
La mamma si guardò il vestito sporco e si scusò: «Non siamo ancora in ordine. Impossibile tenersi puliti in viaggio.»
«Lo so, lo so.» Fiutò attorno: «E' il vostro caffè che manda un così buon odore?»
La mamma: «Vero che è buono?» E aggiunse, con sussiego: «Ci onorate, se accettate di far colazione con noi.»
L'ometto si accostò al fuoco e s'accoccolò, disperdendo così gli ultimi residui di resistenza della mamma, che ripeté: «Ci fate onore. La nostra mensa è povera, ma siete il benvenuto.»
«Ho già fatto colazione,» ridacchiò l'ometto. «Ma una tazza di quel caffè la prendo volentieri. Ha un così buon profumo.» «Ma subito, subito!»
«Fate pure con comodo.»
La mamma attinse il caffè nella latta mediante una tazza di stagno e disse: «Ci manca lo zucchero, lo prenderemo oggi; lo bevete anche senza zucchero?»
«Mai zucchero, nel caffè. Lo guasta.»
«A me però piace di più, con un po' di zucchero,» disse la mamma, e guardò l'ometto con maggiore attenzione, per capire perché si sentisse già così in confidenza con lui. Ne scrutò la faccia per scoprirvi qualche recondito proposito, e non ne trovò alcuno; vi lesse solo affabilità. Poi notò le cuciture sfilacciate del suo abito bianco e fu completamente rassicurata.
L'ometto sorseggiava il caffè. «Penso che le patronesse non tarderanno a farvi visita.» «Spero proprio non vengano prima che siamo presentabili,» disse la mamma.
«Oh, ma sanno bene com'è,» la rassicurò l'ometto. «Sono arrivate che erano tutte come voi. Son tutte brava gente, appunto perché capiscono.» Finì il suo caffè e s'alzò. «Io devo andare. Qualunque cosa vi occorra, venite da me in ufficio. Ci sono sempre. Ottimo caffè, vi ringrazio.» Ripose la tazza con le altre, salutò con la mano e se ne andò tranquillamente, scambiando qua e là qualche parola con gli accampati.
La mamma chinò la testa per reprimere un improvviso desiderio di piangere.
Il babbo tornava coi bambini, che avevano ancora gli occhi umidi a causa della strigliata che avevano ricevuta. Avevano un'aria sottomessa ma erano lucidi. Le spellature causate dal sole sul naso di Winfield erano pulite. «Ecco fatto,» disse il babbo, «la sporcizia era tanta, che con uno scalpello facevo prima. E ho dovuto quasi picchiarli per farli star fermi.»
La mamma si mostrò soddisfatta. «Sembrano presentabili. Su, fate colazione, che poi dobbiamo pulire e mettere in ordine la tenda.»
Il babbo servì i bambini e se stesso. «Chissà dove Tom ha trovato lavoro,» si chiese.
«Chi lo sa.»
«Se ha trovato lui, possiamo trovare anche noi.»
Arrivò Al, eccitato. «Che posto!» disse, servendosi di caffè. «Ho visto uno che sta fabbricandosi un carrozzone da viverci dentro, con letti, cucina e tutto. Gran bella idea! Si rimorchia la casa dietro la macchina, e dovunque si ferma trova la casa pronta.»
La mamma disse: «Io però preferisco una casetta vera. Appena possiamo, voglio la casetta.» Il babbo disse: «Al, appena abbiamo mangiato, tira fuori il camion e si va con zio John a cercare lavoro.»
«Benone. Mi piacerebbe trovarne uno in qualche garage. Questo mi piacerebbe più di tutto. E più tardi procurarmi una piccola Ford, magari vecchia, ma con una mano di vernice si fa presto a rimetterla a nuovo. Ho incontrato una figliola, sulla strada, e le ho anche strizzato l'occhio! Che figliola, ragazzi!»
Il babbo disse, severo: «Pensa prima a trovar lavoro. A fare il bullo ci penserai poi.»
Zio John uscì finalmente dalla latrina e venne verso la tenda a passi lenti. La mamma gli lanciò un'occhiata brusca e cominciò: «Non ti sei lavato...» ma notando il suo aspetto malaticcio e triste cambiò tono: «Vai sotto la tenda a riposare, hai l'aria stanca.»
Zio John scosse il capo. «No. Ho peccato, e devo fare penitenza.» Si accoccolò con un'espressione di grande sconforto e si versò una tazza di caffè.
La mamma disse, con tono casuale: «E' passato di qui l'amministratore e s'è fermato a prendere una tazza di caffè.»
Il babbo guardò su. «Ah sì? E cosa vuole già?»
«E' venuto a far due chiacchiere,» rispose la mamma, disinvolta. «Si è accoccolato, alla buona, e ha bevuto il suo caffè e ha detto che da molto tempo non ne beveva uno così buono.» «Cosa voleva?» insisté il babbo.
«Niente voleva. Vedere se eravamo contenti.»
«Non ci credo,» disse il babbo. «Sarà venuto a ficcare il naso.»
«Niente affatto,» esclamò la mamma. «I ficcanaso io li riconosco come qualunque altro.»
Il babbo disse ad Al: «Svelto, andiamocene a cercar lavoro.»
Al s'asciugò la bocca con la mano. « Io sono pronto» disse. Il babbo si rivolse a zio John: «Tu vieni?»
«Sì.»
«Non hai l'aria di star bene.»
«Non sto bene, ma vengo lo stesso.»
Al si mise al volante. «Dobbiamo far benzina,» disse, e avviò il motore. Il babbo e lo zio presero posto accanto a lui, e l'autocarro si diresse verso l'uscita.
La mamma lo osservò allontanarsi, poi prese una secchia e andò a riempirla d'acqua calda sotto la tettoia e tornò a lavare i piatti della colazione. In quel mentre ricomparve Rosa Tea, e la mamma disse: «T'ho messo via la tua parte,» e poi guardò la figlia con maggiore attenzione. Si era lavata la testa, era ben pettinata, aveva la pelle pulita e un colorito roseo. S'era messa il vestito celeste a fiorami bianchi e le scarpette dal tacco alto di quando s'era sposata. Sotto lo sguardo della mamma Rosa Tea arrossì. «Hai fatto il bagno,» disse la mamma.
Rosa Tea parlò concitata. «Ero là dentro e viene una signora e... m'ha insegnato lei come si fa. Sai com'è che si fa? C'è una specie di vasca, si va dentro e non c'è che da girare i rubinetti e l'acqua viene quanta ne vuoi, calda e fredda, a piacere.»
La mamma gridò: «Ora vado io. Appena finito qui. Vieni a insegnarmi, vero?»
«Io lo farò tutti i giorni,» dichiarò Rosa Tea. «E quella signora m'ha vista e ha capito ch'ero incinta e sai cosa m'ha detto? M'ha detto che c'è una levatrice viene qui tutte le settimane. E verrà a parlarmi e dirà tutto quello che si deve fare perché il bambino venga su robusto. Dice che tutte le donne qui fanno come dice la levatrice; e voglio farlo anch'io.» Era un flusso incessante di parole. «E sai un'altra cosa? La settimana scorsa è nato un bambino, qui, e tutto il campo ha dato una festa e tutti hanno dato dei vestitini e tanti regali per il bambino, perfino una carrozzina, non nuova, ma riverniciata di rosa, era di vimini. E poi c'è stato il battesimo, e han fatto una torta. Bello, vero?» E smise di parlare perché aveva l'affanno.
«Dio sia lodato,» disse la mamma. «Finalmente ci ritroviamo tra cristiani. Io vado a fare il bagno.» «Vedrai com'è bello,» disse Rosa Tea.
La mamma finì di asciugare i piatti e si accinse a riporli in ordine. Sfaccendando, rifletteva ad alta voce: «Non s'è mica vagabondi, noialtri Joad; mica gente da prendere sotto gamba. Il nonno del nonno aveva preso parte alla rivoluzione. Tutti agricoltori proprietari, in casa nostra, prima dell'ipoteca. E' solo da quando è arrivata quella gentaglia, che le cose son cambiate. A Needles quel poliziotto! Mi ha rivoltata, m'ha fatto sentire volgare e piena di vergogna. Ma adesso non ho niente da vergognarmi. Mi ritrovo in mezzo a gente come noi. L'amministratore se n'è venuto, alla buona, ha preso il caffè da noi, e m'ha trattata bene.» Fece una pausa tirando un profondo sospiro. «Certo mi sento di nuovo come un essere umano.» Ripose l'ultimo piatto, poi scomparve sotto la tenda e frugò nel cassone finché trovò un vestito pulito e le scarpe. Trovò anche un pacchettino che conteneva i suoi orecchini.
Ripassando davanti a Rosatè disse: «Se vengono le patronesse digli che vengo subito,» e scomparve nella direzione dell'impianto igienico.
Rosa Tea si lasciò cader seduta su una cassetta e si ammirò le scarpette di vernice, le scarpe del matrimonio. Ne lustrò le punte con un dito e si pulì il dito sul rovescio della sottana. Nel chinarsi sentì una fitta all'addome e si raddrizzò subito, e se lo palpò con caute dita esploratrici, sorridendo. Una donna, piuttosto corpulenta, procedeva lungo il sentiero portando una cassetta piena di stracci sporchi da lavare sotto la tettoia. Aveva il volto abbronzato dal sole, e due occhi neri ardenti. Portava sul vestito di percalle un grembiule di tela di sacco, e un paio di scarponi gialli da uomo. La donna notò l'atteggiamento intento di Rosa Tea e il suo sorrisetto di compiacimento. «Ehi,» esclamò, ridendo affettuosamente, «che dite, sarà maschio o femmina?»
Rosa Tea si fece rossa e abbassò gli occhi, ma quando li rialzò avverti lo sguardo scrutatore di quegli ardenti occhietti neri. «Non so,» bisbigliò.
La donna depose a terra la cassetta del bucato. «Ma è già parecchio avanti,» gracchiò come un corvo di buon umore. «Cos'è che preferite?» chiese poi.
«Non so... un maschio, forse. Sì... un maschio.»
«Siete appena arrivati, eh?»
«Sì, stanotte, tardi.»
«Restate qui parecchio?»
«Non so. Se si trova lavoro, credo di sì.»
Un'ombra oscurò la faccia della donna e gli occhietti neri sprigionarono un lampo di ferocia. «Se si trova lavoro. E' quello che diciamo tutti.» «Mio fratello l'ha già trovato stamattina.»
«Già trovato, eh? Può darsi che siate più fortunati degli altri. Ma della fortuna c'è poco da fidarsi.» Si fece più vicino. «Se si ha fortuna in una cosa, non bisogna credere di esser fortunati in tutto.» Assunse un'aria severa. «Voi, badate di star buona. Se peccate, il castigo ricadrà sulla vostra creatura.» Si accoccolò di fronte a Rosa Tea. «Succedono cose scandalose, in questo campo. Al sabato, tutti i sabati sera, ballano. E non solo le danze figurate, questo pazienza, ma i balli moderni, guancia a guancia! Li ho visti io.»
Rosa Tea disse, guardinga: «Il ballo mi piace,» e aggiunse, per dimostrarsi virtuosa: «Le danze figurate, voglio dire. Non ho mai ballato gli altri balli.»
La donna annuiva, con un'espressione sconcertante. «Ma qui li ballano. E il Signore non lascia correre, state sicura. Non crediate che il Signore li approvi.» «No, signora,» balbettò Rosa Tea confusa.
La donna posò una mano, dalla pelle abbronzata tutta raggrinzita, sul ginocchio di Rosa Tea, e la ragazza si sottrasse istintivamente al contatto. «Date retta a me. Son più poche, le Amanti di Gesù. Tutti i sabati sera, mentre dovrebbero suonare gli inni sacri, qui si danno alle orge... sissignora, orge. Uomini e donne che s'abbracciano come satiri e baccanti. Li ho visti coi miei occhi. Voi, tenetevene lontano! Io non ci vado, e proibisco ai miei di andarci, vi dico!» Fece una pausa d'effetto, poi aggiunse, in un rauco bisbiglio: «E fanno anche peggio! Danno degli spettacoli!» E ritrasse la testa per veder meglio come Rosa Tea accoglieva una tale rivelazione.
«Attori?» mormorò Rosa Tea, impressionata.
«Nossignora!» esplose la donna, «non attori veri, quelli sono anime già dannate; ma uomini e donne come noi, e persino dei bambini, poveri innocenti che non sanno! Io me ne sono tenuta ben lontano, ma ho capito, dai discorsi, che il demonio si era impossessato di tutto il campo.»
Rosa Tea ascoltava con gli occhi dilatati e la bocca socchiusa. «Una volta a scuola,» disse, «abbiamo dato una commedia del Bambino Gesù, per Natale.»
«Be', questa è un'altra cosa. Non si può dire che è peccato. Tanta gente pensa che non c'è nessun male se si fa recitare a un bambino la parte di Gesù Bambino. Ma questa roba qui non ha niente a che fare con Gesù Bambino. E' roba del diavolo! Tutte menzogne, esibizionismo, impostura, baci, balli, indecenze!» Rosa Tea sospirò.
«E son tanti! » continuò la donna. «Tanti, che oramai i timorati di Dio si possono quasi contare sulle dita. Ma al Signore non la fanno, credete a me. Lui tiene il conto, peccato per peccato, e tira le somme. Lui vede tutto e sta a guardare, e io anche sto a guardare e vedo. Ha già punito due peccatrici.»
Rosa Tea sgranò gli occhi. «Davvero?!»
La donna alzava progressivamente la voce. «L'ho visto coi miei occhi. C'era una sposa che aspettava un bambino, proprio come voi e ballava e recitava, e...» la voce si fece lugubre e sinistra «... e cominciò a smagrire, smagrire, finché fu pelle e ossa, e... il bambino è nato morto.» «Dio mio!» La ragazza impallidì.
«Nato morto,» ripeté la donna. «Naturalmente più nessuno le ha rivolto la parola, ha dovuto andarsene. Eh, non si può scherzare col peccato, e sfuggire al castigo. E ce n'era un'altra, anche lei nel vostro stato, e sapete cos'ha fatto? Un bel giorno scompare, e sta via due giorni, e al ritorno racconta ch'era andata a far visita a dei parenti, ma... il bambino non c'era più! Sapete cosa penso io? Penso che l'amministratore, che lui l'ha fatta andar via per andare ad abortire. Lui non crede nel peccato, l'amministratore, me l'ha detto lui; dice che il peccato è aver fame, dice che il peccato è aver freddo, dice che Dio non c'entra. Me l'ha detto lui, l'ho sentito io coi miei orecchi. Dice che quelle due spose hanno abortito perché erano sfinite, non avevano abbastanza da mangiare. Ad ogni modo gliel'ho detto, io, quel che gli veniva!» Si alzò e fece un passo indietro. Con un lampo duro negli occhi, puntò il dito teso, sul volto di Rosa Tea. «Gli ho detto: 'Vade retro!' faccio io, e dico: 'C'è il demonio in questo campo, e fa strage! Ora lo so chi è il demonio,' e gli dico: 'Vade retro Satana!' e lui, perdio, s'è tirato indietro. Si è messo a tremare e a implorare. Ha detto: 'Per favore,' ha detto. 'Per favore non rendeteli infelici.' E io: 'Infelici? E le loro anime? E i bambini nati morti, e quelle povere peccatrici che si dannano col teatro?' Lui mi ha guardata, ha fatto un ghigno e se n'è andato. Sa che io sono un'inviata del Signore. Io ho detto: 'Aiuto Gesù a sorvegliare quel che succede. E voi e gli altri peccatori non sfuggirete al castigo'.» Si chinò a raccattare la sua cassetta di stracci. «V'ho avvisata. Pensate a quella povera creatura che portate in seno e state lontana dal peccato.» E si allontanò con passo dignitoso e gli occhi luccicanti di virtù.
Rosa Tea stette a guardarla finché fu scomparsa, poi si coprì la faccia con le mani e prese a gemere, ma udendo d'un tratto, vicina, una voce tranquilla, si scoprì la faccia e guardò, vergognosa. Era l'amministratore, l'ometto vestito di bianco. «Non ve la prendete,» diceva, «non ve la prendete.» Ella sentì le lagrime salirle agli occhi. «Ma ho peccato,» gridò, «ho ballato; le ho detto di no, ma ho ballato, a Sallisaw. Ho ballato con Connie.»
«Su, non ve la prendete!»
«Ma lei dice che abortirò.»
«Lasciatela dire, la tengo d'occhio. E' mica cattiva, ma ci gode nel rendere gli altri infelici.»
Rosa Tea piagnucolava. «Ma ha conosciuto due spose che hanno abortito proprio in questo campo.» L'amministratore si accoccolò accanto a lei. «Le ho conosciute anch'io. Credete a me; erano due poverette, che lavoravano troppo e mangiavano troppo poco, e andavano al lavoro in un camion che le sballottava come disgraziate. Erano malate. Mica è stata colpa loro.»
«Ma quella donna ha detto che...»
«Lasciatela dire, è fatta così. Ci gode a mettere gli altri nei pasticci.»
«Mi ha detto che voi siete il demonio.»
«Lo so che dice così. Dice così perché io non le permetto di seccare la gente.» Le dette un buffetto sulla spalla. «Non le badate. Non sa quello che dice.» Si alzò e si allontanò rapidamente.
Rosa Tea lo guardò allontanarsi, camminando a passetti rapidi che gli facevano sussultare le spalle. Mentre lo guardava, vide la mamma ritornare dal bagno, tutta rossa e pulita, coi capelli umidi raccolti in un nodo sulla nuca. Portava il vestito di tessuto stampato, e le sue vecchie scarpette screpolate, e s'era messa gli orecchini.
«Ecco fatto,» disse arrivando. «Son rimasta dentro un pezzo, l'acqua era calda ch'era un piacere, e una donna ha detto che si può fare tutte le volte che si vuole. E le patronesse, non sono ancora venute?» Rosa Tea si limitò a scuotere la testa emettendo fiochi suoni inarticolati. «E te stai qui a far niente invece di mettere in ordine.» La mamma si mise subito a raccogliere le stoviglie. «Su, non c'è tempo da perdere, prendi quel sacco e da' una pulitina per terra qui davanti, e sistema un po' meglio quei letti,» ordinò. «Ti assicuro che non ho mai provato tanto piacere come in quell'acqua calda.»
Rosa Tea stava meccanicamente eseguendo gli ordini. «Credi che Connie torna oggi?» «Forse sì... e forse no, non so dire.
«Sei sicura che sa dove trovarci?»
«Ma sì.»
«Mamma... non credi... che possano averlo ammazzato quando hanno incendiato...?»
«Non lui!» rispose la mamma con fare persuasivo. «E' svelto come una lepre, quando si tratta di scappare, e furbo come una volpe.»
«Come vorrei che venisse!»
«Verrà quando verrà.»
«Senti mamma...»
«Non voglio sentir niente, lavora!»
«Ma senti, credi che ballare e recitare è un peccato e mi fa abortire?»
La mamma sospese il lavoro e si mise le mani sui fianchi. «Cosa ti sei messa in testa! Ma se non hai mai recitato.»
«Lo so, ma qui l'han fatto, e una donna ha abortito, come se Dio l'avesse castigata.»
La mamma la guardava con occhi increduli. «Chi te l'ha detto?»
«Una che è passata di qua. E ho domandato all'amministratore, quello vestito di bianco, e dice che è vero che ha abortito ma che non era il castigo di Dio.»
La mamma aggrottò la fronte, e disse: «Rosatè, smetti di pensare a te sola. Non capisco cosa ti piglia. Scommetto che è quel Connie che t'ha messo queste idee in testa; si credeva chissà chi. Tu dai retta a me e pensa che non sei la sola, nell'universo; c'è un sacco d'altra gente.» «Ma mamma...
«Basta ora. Fai silenzio e lavora. Non sei abbastanza importante per preoccupare Dio coi tuoi peccati. E se non smetti di pensare a te ti lascio andare uno scapaccione.» Stava scopando le ceneri entro la bocca del fornello, quando scorse da lontano le patronesse che venivano. «Eccole! Metti tutto in ordine, così facciamo bella figura.» Evitò di guardare di nuovo nella direzione delle patronesse, ma le sentiva avvicinarsi.
Erano certamente loro: non c'era dubbio, erano in tre, ben vestite, con gli abiti della domenica, e lavate e pettinate; una era magra, coi capelli setolosi e gli occhiali cerchiati d'acciaio, un'altra era grassa, coi capelli ricci e una piccola bocca affabile, e la terza era un donnone, muscolosa come un cavallo da tiro, potente, e sicura. Le patronesse s'avvicinavano camminando con molta solennità. La mamma fece in modo da presentar loro la schiena quando arrivarono. Le tre si fermarono, fecero fronte, e il donnone tuonò: «Buon giorno, la signora Joad, vero?»
La mamma si voltò di scatto simulando sorpresa. «Come? Sì, certo, come sapete il mio nome?» «Siamo le patronesse,» disse il donnone. «Le patronesse dell'Impianto Igienico Numero Quattro. Il vostro nome l'abbiamo appreso in ufficio.»
La mamma era visibilmente eccitata. «Non siamo ancora in ordine. Ma è un onore per me se vi accomodate mentre vi faccio il caffè.»
L'altra patronessa grassoccia disse al donnone: «Presentateci alla signora Joad, Jessie,» e alla mamma: «Jessie è la presidentessa,» spiegò.
Jessie disse con molta formalità: «Signora Joad, questa è Annie Littlefield, e questa Ella Summers, e io sono Jessie Bullitt.»
«Onorata di fare la vostra conoscenza,» disse la mamma. «Non volete accomodarvi? E' vero che non c'è ancora niente per sedersi,» aggiunse, «ma vi farò il caffè.»
«Oh, no, non vi disturbate,» disse Annie, «siamo solo venute a vedere se non v'occorre niente, e a darvi il benvenuto.»
Jessie disse con gravità: «Annie, vi sarò grata di tener presente che la presidentessa sono io.»
«Oh, certo, certo, ma la settimana che viene sarò io.»
«E allora aspettate la settimana ventura.» E rivolta alla mamma spiegò: «Si fa a turno tutte le settimane.»
«Ma non volete davvero un poco di caffè?» domandò la mamma, debolmente.
«No, grazie.» La presidentessa entrò in azione: «Vi conduciamo a vedere l'impianto igienico, prima cosa, e poi se volete vi iscriviamo nel club delle signore e vi assegniamo le vostre mansioni. Ma dovete sapere che l'iscrizione non è obbligatoria.»
«Cosa co... Costa molto?»
«Non si paga denaro,» intervenne Annie. «Si paga in natura, lavorando. E quando sarete conosciuta, potete farvi eleggere patronessa. Jessie, per esempio, è membro permanente del Comitato. E' una patronessa molto autorevole.»
«Sì, eletta all'unanimità,» confermò Jessie con un sorrisetto d'orgoglio. «Ma ora, signora Joad, è tempo che vi mostriamo com'è che funziona il campeggio.»
La mamma disse: «Vi presento mia figlia, Rosatè.»
Le patronesse salutarono con un cenno dei capo e la presidentessa decretò: «Viene anche lei,» e aprendo la marcia prese a parlare con ricercatezza; era chiaro che sapeva il discorso a memoria. «Non pensate, per carità, che vogliamo ingerirci nei vostri affari privati, signora Joad, ma ci son delle cose che dovete sapere. Nel campeggio ci sono molte cose in comune, e c'è un regolamento fatto da noi. Adesso visiteremo l'impianto igienico. E' appunto una delle cose in comune, e siccome tutti ne usano, tutti hanno l'obbligo di prendersene cura.» Entrarono sotto la tettoia, dov'erano venti vasche per il bucato, otto delle quali in azione: otto donne, chine sulle vasche, lavavano i panni, e accanto ad ogni donna, sul pavimento pulito, era un mucchio di panni strizzati. «Potete lavare tutte le volte che vi pare,» spiegò la presidentessa, «l'unica cosa è che bisogna lasciare la vasca pulita e in ordine come la trovato arrivando.»
Le donne chine sui loro bucati osservavano interessate il gruppo delle patronesse. La presidentessa alzò la voce per presentare la mamma. «Questa è la signora Joad con la figlia Rosatè; venute per stare.»
Le donne salutarono in coro, e la mamma fece un piccolo inchino e disse: «Onorata di fare la vostra conoscenza.»
Jessie si rimise in testa alla colonna ed entrò nel locale dei bagni e delle latrine.
«Qui ci son già stata,» annunciò la mamma, «e ho anche fatto il bagno.»
«Il locale è qui per questo,» spiegò Jessie, «e anche qui vige la stessa regola circa la pulizia. Tutte le settimane nominiamo una commissione di signore incaricate di fare la pulizia a fondo. Probabile
che anche voi farete parte della commissione. In tal caso dovrete portarvi il sapone.» «Devo ricordarmi di comprarlo,» disse la mamma, «siamo rimasti senza.» Quando Jessie indicò le latrine, la sua voce suonò reverente.
«Mai usate come queste? » domandò. «Sissignora, proprio stamattina.»
Jessie sospirò: «Avete fatto bene.»
«La settimana scorsa...» interloquì Ella Summers.
«Signora Summers,» l'interruppe, severa, Jessie, «lasciate parlare me.» «Oh, va bene, va bene,» s'arrese Ella.
«Ella Summers, la settimana scorsa eravate presidentessa voi, ma adesso sono io.» «Allora raccontatele cos'ha fatto quella donna,» ribatté l'altra, remissiva.
«Bene,» cominciò Jessie, «non abbiamo l'abitudine di fare pettegolezzi, ma senza far nomi dirò che la settimana scorsa arriva qui una donna, e nessuno l'aveva ancora messa al corrente, e aveva sul braccio una tuta sporca di suo marito, e cosa le viene in testa? Si mette a lavarla nel water! E poi si è lagnata, dicendo che son troppo piccoli e bassi, che ci si rompe la schiena a lavare lì dentro, e perché non farli più alti? diceva.»
Le patronesse sorridevano con aria di superiorità.
«C'è una cosa,» riprese poi Jessie, con un'espressione di gravità, «che comincia a darci dei pensieri. Il regolamento proibisce che si porti via la carta dalle latrine. Eppure qui al Numero Quattro si consuma più carta che negli altri. Certo c'è qualcuno che la ruba. Se ne è persino parlato nell'ultima riunione del Comitato, e han messo sul verbale che il Numero Quattro spreca troppa carta.»
La mamma seguiva il discorso con sommo interesse. «Non è possibile che qualcuno la rubi,» disse,
«cosa se ne farebbe?»
«Difatti, ma comunque non sappiamo come provvedere. Era già successo un'altra volta, ma quella volta abbiamo scoperto certe bambine che se ne servivano per ritagliarvi delle figurine. Ma questa volta non riusciamo proprio a capire... Non si fa in tempo a mettere un rotolo nuovo che è già finito. Sì, se n'è parlato anche alla riunione. C'è stata una che ha proposto di applicare al rotolo un campanellino che suona ogni volta che si prende la carta. Così si potrebbe calcolare quanta ne consuma ciascuno.» Scosse il capo. «Non capisco proprio. E' tutta la settimana che ci penso. Ci dev'essere proprio qualcuno che la ruba, la carta, al Numero Quattro.»
Comparve bruscamente sulla soglia una donna agitata, rossa in faccia, tutta sudata. «Signora Bullitt, signora Bullitt,» proruppe, «v'ho sentita parlare, e vengo a spiegare, non l'ho potuto dire alla riunione perché mi vergognavo. Proprio non ne ho avuto il coraggio. Si sarebbero messe tutte a ridere e mi avrebbero preso in giro.»
«Ma di cosa state parlando?» Jessie le si avvicinò.
«Ecco... sì... forse... siamo stati noi. Ma non l'abbiamo rubata, signora Bullitt.»
Jessie si fece ancora più vicina alla donna che per la confusione e l'imbarazzo era tutta imperlata di sudore: «Proprio non se ne poteva fare a meno, signora Bullitt,» gemeva.
«Ora ci spiegherete quel che intendete dire,» ordinò Jessie. «Tutto il Numero Quattro ci sta rimettendo la reputazione per via di questa carta.»
«E' da una settimana, signora Bullitt. Non se ne poteva fare a meno. Voi sapete che ho cinque bambine.»
«Cosa ne hanno fatto della carta?» chiese Jessie feroce.
«Se ne sono servite, giuro! Se ne sono soltanto servite.»
«Non mi pare una ragione sufficiente. Quattro-cinque foglietti sono anche troppi. Che ne han fatto di tutto il resto?»
«La diarrea,» confessò la donna. «Tutte e cinque. E' che siamo un po' al verde, così han mangiato dell'uva acerba. E l'hanno presa tutte e cinque: devono correre al gabinetto ogni dieci minuti... ma non l'hanno rubata, lo giuro.»
La presidentessa tirò un sospiro di sollievo. «Perché non l'avete detto prima? Avevate il dovere, anche verso le vostre bambine, di consultare le patronesse. Vi avremmo consigliata e aiutata.»
L'altra protestò con veemenza. «Non siamo gente che vive d'elemosina!»
«Nessuno pensa a farvi l'elemosina. Ma se le bambine mangiano troppa uva è segno che non mangiano abbastanza a tavola. E se non mangiano abbastanza a tavola è segno che siete poveri, e non c'è da vergognarsene. Oggi passate da me, e vi farò dare il buono per andare a prelevare commestibili al negozio. Per l'importo di cinque dollari.»
«Ma se poi non possiamo restituirli?»
«Questo non vi riguarda. Se potete rimborsare, bene; se no, pazienza. Andate al negozio e compratevi una forma di formaggio. Ottimo per la diarrea.» «Sì, signora,» e la donna si eclissò rapidamente.
Jessie riprese le sue funzioni di padrona di casa a beneficio della mamma. «Ora andiamo a visitate la stireria, che è anche sartoria. Abbiamo due macchine, una per fare le coperte, e l'altra per i vestiti.
Forse vi piacerà lavorare lì dentro.»
Quando le patronesse erano arrivate alla tenda dei Joad, Ruth e Winfield si erano di propria iniziativa istintivamente squagliati, ma poi Winfield, mosso da curiosità, aveva proposto alla sorella di riavvicinarsi, per ascoltare i discorsi, ma Ruth aveva rifiutato, dicendo risentita: «Niente affatto. E' per colpa di quelle streghe, che ci han lavato e strigliato.»
E Winfield: «M'hai fatto la spia, per la catena. Adesso io dirò a mamma che hai chiamate streghe quelle signore.»
Un'ombra di apprensione passò sul viso di Ruth. «No, non dirlo, Winfield, non dirlo! Io non t'ho fatto la spia, l'ho detto perché tanto sapevo che non era rotto.» «Bugiarda,» dichiarò Winfield.
«Vieni,» disse Ruth, «andiamo a guardare in giro.»
Si misero a girellare tra le tende, curiosando, sbirciando audacemente in ciascuna, vincendo la timidezza di cui erano entrambi consapevoli. Arrivarono ad uno spiazzo dove cinque o sei bambini giocavano a croquet, assistiti da una mamma seduta su una panca. Ruth e Winfield irruppero nel campo e Ruth gridò: «Giochiamo anche noi, lasciateci giocare!»
I bambini si voltarono, e una ragazzetta dichiarò: «Giocherete dopo. Lasciateci finire la partita.» «Voglio giocare adesso subito,» ribatté Ruth.
«Adesso non puoi. La prossima partita,» ripeté la ragazzetta.
Ruth avanzò minacciosa verso di lei, insistendo: «Io voglio giocare adesso,» e siccome l'altra indietreggiava stringendosi il maglio tra le mani, Ruth l'afferrò per un braccio, e la scosse brutalmente, e finalmente le strappò il maglio di mano. «Ho detto che volevo giocare,» disse in tono di trionfo.
La mamma che assisteva intervenne, e disse alla ragazzetta: «Lasciatela giocare, come avete fatto la settimana scorsa con Ralph.»
E allora tutti i bambini posarono i magli a terra e sgombrarono il campo, fermandosi presso la panca; e stettero a guardare, con occhi privi d'espressione. Ruth colpì una palla e le corse dietro, chiamando Winfield: «Su, Winfield, prendi un maglio anche te,» ma rimase interdetta quando vide che Winfield si era unito al gruppo degli altri bambini e che la stava guardando anche lui con occhi privi di espressione. Per dispetto, e per sfida, colpì di nuovo la palla. Sbagliò il colpo, sollevò una nuvoletta di polvere, tentò altri colpi. Faceva finta di divertirsi. E i bambini, immobili, la stavano a guardare. Ruth voltò le spalle agli sguardi che la imbarazzavano, accostò due palle a contatto e fece per bocciare, ma poi d'un tratto cambiò idea e avanzò verso il gruppo brandendo il maglio e ordinando: «Venite a giocare anche voi!» Il gruppo indietreggiò compatto senza dire una parola. Ruth si fermò, stette per un attimo a guardarli in faccia, poi gettò il maglio a terra, e scappò via piangendo.
I bambini ripresero possesso del campo e invitarono Winfield a giocare con loro. La mamma che assisteva disse: «Se la bambina ritorna e non fa più la prepotente, lasciatela pure giocare.» La partita riprese, mentre sotto la tenda Ruth singhiozzava a calde lagrime.
L'autocarro percorreva le magnifiche strade, fiancheggiate da frutteti dove le pesche cominciavano a maturare, da vigne che mostravano i grappoli ancora verdi, da castagni che intrecciavano i rami frondosi al di sopra della strada. Ad ogni cancello Al rallentava, e su ogni cancello era un cartello con la scritta: «Vietato l'ingresso. Non occorre manodopera».
Al disse: «Ne avranno pur bisogno, quando la frutta sarà matura. Strano paese, vi dicono che non vi vogliono prima ancora che vi presentiate.» Procedeva lentamente.
Il babbo disse: «Si potrebbe fermarsi lo stesso, e andar dentro a domandare se sanno dove si può trovar lavoro.»
Raggiunto un contadino che camminava sul lato della strada, Al fermò per interpellarlo: «Ehi, mica sapete dirci dove si può trovar lavoro?»
L'altro si fermò e ghignando mostrò una bocca priva dei denti superiori. «No,» disse. «E voi? è una settimana che vado in giro e non ho trovato ancora un bel niente.» «State anche voi nel campeggio governativo?» domandò Al.
«Sì.»
«Allora montate su, cerchiamo insieme.» Il contadino prese posto nell'autocarro, sul retro.
Ripartirono. Dopo un po', il babbo disse: «Non credo che si riesca a niente, ma cercare bisogna.
Non si sa neanche dove cercare.»
«Avremmo fatto meglio a domandare agli altri nel campo,» disse Al. «Come ti senti, zio John?» «Male, mi sento tutto rotto, ma mi sta bene. Dovrei andare a nascondermi in un posto dove mi fosse impossibile far ricadere sugli altri i miei peccati.»
Il babbo gli posò una mano sul ginocchio. «Fammi il piacere, non pensare ad andartene via anche te. Stiamo perdendo gente tutti i giorni. Il nonno e la nonna morti, Noè e Connie scomparsi, e il predicatore... al fresco.»
«Il predicatore,» disse zio John, «ho il presentimento e lo ritroveremo.»
Al impugnò la leva del cambio. «Sentite, l'unica è tornare indietro, e informarci dove c'è probabilità di trovare.» Fermò, si sporse in fuori e chiamò il contadino: «Ehi, sentite, torniamo al campo a sentire là dov'è che si può trovar lavoro; è inutile consumar benzina.»
L'interpellato sporse la testa fuori dell'autocarro. «Per me va bene. Ho già consumato un paio di scarpe.»
Al manovrò per invertire la marcia e ripartì nella direzione del campo. Il babbo disse: «La mamma s'arrabbierà, specie perché Tom ha trovato così facilmente.»
«Chi sa poi se ha trovato,» disse Al, «probabile che anche lui s'è messo solo in cerca. Io, quel che vorrei, è trovare impiego in un garage. Imparerei presto, e il lavoro mi piacerebbe.» Il babbo si limitò a dare un sordo grugnito, e non parlarono più fino all'arrivo.
Quando le patronesse se ne furono andate, la mamma si mise a sedere su una cassetta davanti alla tenda e disse a Rosa Tea, in tono di ammirazione: «Devo dire la verità: è da anni che non ero più trattata così bene. Proprio simpatiche quelle signore, vero?»
«M'han detto che posso lavorare nel reparto bambini,» disse Rosa Tea, «e imparare tutto quello che c'è da fare per allevarli. Così saprò.»
«Eh, sì,» disse la mamma, annuendo. «Che bello sarebbe se anche gli uomini trovassero lavoro. Si farebbe un po' di soldi...» Guardava lontano con occhi sognanti. «Loro a lavorare fuori, e noi qui dentro; tutta brava gente, qui. Prima cosa, appena siamo un po' avviati, voglio prendermi una bella stufetta per la cucina. Non costano mica tanto. E poi una tenda, abbastanza grande, e forse i pagliericci a molla per i letti. E questa tenda qui, ce ne serviamo per mangiare. E al sabato sera si va a ballare. Dicono che si può invitare gli amici. Peccato che non abbiamo amici da invitare. Ma forse gli uomini faranno delle conoscenze, e si potrà invitarli.»
Rosa Tea era intenta a guardare il sentiero. «Eccola là quella signora che mi diceva che perdo il bambino se...»
«E smettila,» l'ammonì la mamma.
Rosa Tea disse sottovoce: «L'ho vista, sta venendo proprio in qua, mi pare. Sì, eccola che viene.
Mamma, non dirle...»
La mamma si voltò a guardare la donna che era ormai arrivata alla tenda.
«Buon giorno,» disse la donna. «Sono la signora Sandry, Lisbeth Sandry. Ho parlato con vostra figlia stamattina.»
«Buon giorno,» disse la mamma.
«Siete serena nel Signore?»
«Abbastanza serena,» rispose la mamma, con la faccia dura e guardinga.
«Bene, ho piacere,» disse Lisbeth. «Pieno di peccatori, qui dentro. Succedono cose, ma così orrende, che un cristiano non le può tollerare! Peccatori dappertutto.»
La mamma sentì il rossore salirle alle guance. «Io trovo che è tutta brava gente,» disse con asprezza. L'altra spalancò gli occhi. «Brava gente? Vi pare brava la gente che balla e s'abbraccia? Io vi dico che non c'è speranza di salvezza per le loro anime. Ieri sera sono andata alla predica a Weedpatch. Sapete cosa diceva il predicatore? Diceva, il peccato si è introdotto in quel campeggio. I poveri se la vivono da ricchi, diceva. Danno feste da ballo invece di pentirsi dei loro peccati, diceva. E diceva, chi non viene alla predica è un peccatore.»
La mamma perdette la pazienza. Si alzò adagio e fece fronte alla sua visitatrice. «Andatevene,» le disse, «andatevene prima che il demonio mi suggerisca dove mandarvi.»
La signora Sandry rimase a bocca aperta. Fece un passo indietro, poi disse, con uno sguardo cattivo: «Vi credevo cristiani.»
«Siamo cristiani,» disse la mamma.
«Niente affatto. Siete peccatori destinati a bruciare nell'inferno, tutti! Vedo già la vostra anima contorcersi tra le fiamme. E vedo contorcersi tra le fiamme l'innocente creatura che vostra figlia porta in seno!»
Un gemito sfuggì dalle labbra di Rosa Tea. La mamma si chinò e afferrò un pezzo di legno. «Via di qui!» disse, freddamente; «andatevene e non fatevi più vedere. Ne ho già visti di tipi come voi, che ci provano gusto a dire queste cose, non è forse vero?» e parlando avanzava minacciosa verso la donna.
Lisbeth Sandry indietreggiò di qualche passo, poi, improvvisamente, rovesciò la testa all'indietro e si mise a ululare. I suoi occhi roteavano vertiginosamente nelle orbite, le sue braccia battevano l'aria, e dagli angoli della bocca le colava sul mento la bava. Ululava orrendamente senza posa, come una bestia ferita. Dalle altre tende cominciarono ad accorrere uomini e donne che a quella vista restavano immobili e sgomenti. Lentamente la donna cadde in ginocchio, pian piano le urla si mutarono in rantoli e infine si abbatté a terra in convulsioni, senza cessare di roteare le pupille nelle orbite. Un uomo disse, a bassa voce: «E' lo spirito maligno, è preda del demonio.»
La mamma stava in piedi osservando il corpo agitato dalle convulsioni. Senza fretta arrivò anche l'amministratore. «Qualche grana?» domandò tranquillo. Il gruppetto si aprì per lasciarlo passare. Diede un'occhiata alla donna. «Brutta faccenda,» disse. «C'è qualcuno che dà una mano per portarla nella sua tenda?» Due uomini si chinarono e sollevarono la donna, tenendola l'uno per le gambe e l'altro per le braccia, e la portarono via. Il crocchio si disperse lentamente. Rosa Tea si ritirò sotto la tenda, si sdraiò sul materasso e cacciò la testa sotto la coperta.
L'amministratore guardò la mamma che teneva ancora in mano il pezzo di legno, e le sorrise con comprensione: «L'avete picchiata?» domandò poi.
La mamma scosse lentamente la testa continuando a fissare nella direzione della gente che si ritirava. «No,» disse «ma c'è mancato poco. E' già la seconda volta oggi che viene qui a spaventarmi Rosatè.»
«Ci vuol pazienza,» spiegò l'ometto. «Non sta bene. Procurate di non picchiarla. E' malata.» E aggiunse a bassa voce: «Vorrei che se ne andasse, con tutta la famiglia. Ci procura più guai lei sola che tutti gli altri insieme.»
La mamma aveva ripreso il dominio di sé. «Se torna, non sono sicura che non la picchierò. Voglio che lasci Rosatè in pace.»
«Non pensateci più, signora Joad, non credo che la rivedrete. Prende sempre di mira i nuovi venuti. A quest'ora si è già messa in testa che siete una peccatrice.» «Difatti lo sono,» disse la mamma.
«Sicuro. Chi non lo è? Ma non nel modo che intende quella là. E' un po' tocca nel cervello.»
La mamma lo guardò con gratitudine. «Hai sentito, Rosatè? E' tocca nel cervello. E' matta.» Ma Rosa Tea non si scoprì la faccia. La mamma si rivolse di nuovo all'amministratore: «Però vi avverto che se torna, io non rispondo dei miei atti. La picchio.»
L'amministratore le rivolse un sorriso sforzato: «Vi capisco benissimo. Ma cercate almeno di non farlo. E' tutto quello che vi chiedo... cercate di trattenervi.» Si allontanò a passi lenti in direzione della tenda dove era stata trasportata la signora Sandry.
La mamma si rimise a sedere sulla sua cassetta, i gomiti sulle ginocchia e il mento tra le mani. Con gli occhi seguiva i movimenti nel campo, e con gli orecchi le voci dei bambini; ma i suoi pensieri erano lontano. Il babbo arrivando la trovò in quella posizione e si accoccolò al suo fianco. Ella voltò lentamente la testa. «Trovato niente?» gli chiese.
«No,» disse lui imbarazzato, «s'è cercato.»
«E Al e John dove sono? E il camion?»
«Al sta riparando qualche cosa. Ha dovuto farsi prestare gli attrezzi ed è rimasto col camion da quello che glieli ha prestati.»
La mamma disse con accento triste, malinconico: «E' un bel posto, qui. Si sarebbe felici, qui.»
«Se solo si riuscisse a trovar lavoro.» «Già, se riusciste a trovare lavoro.»
Avvertendo la sua tristezza, il babbo la guardò, studiandone l'espressione. «Perché sei triste? Se il posto ti piace, che hai da essere triste?»
Ella chiuse gli occhi per rispondergli. «Non so, ma... Finché si era in viaggio, non avevo tempo per riflettere. Adesso, ritrovandomi tra brava gente che mi tratta bene, mi rimetto a pensare, a ricordare; e son le cose tristi che mi tornano alla memoria. Rivedo il posto dove abbiamo sepolto il nonno. Lì per lì non s'è sentita la tristezza: forse per via della strada, del trambusto. Ma adesso la sento. E la nonna. E Noè che se ne è andato senza salutare nessuno. La nonna che è stata sotterrata come i pezzenti. Noè forse non lo rivedremo mai più. Poi Connie, piantarci così. In viaggio, ci pensavo poco a queste cose, ma adesso, che dovrei esser contenta di essere in questo bel posto, arrivano tutte insieme nella memoria.»
Il babbo le disse, nello stesso tono triste di lei: «Ho visto un volo di anitre, poco fa. E due tortore, su un muro.»
La mamma sorrise. «Ti ricordi, a casa dicevamo sempre, alle prime anitre, che cominciava l'inverno. Perché si diceva così? L'inverno comincia quand'è ora. Ma dicevamo sempre: Comincia presto quest'anno. Mi chiedo che cosa volevamo dire.»
«Ho visto i merli sui fili,» disse il babbo. «Stretti l'uno contro l'altro. E i colombi. Non c'è niente che stia così immobile come un colombo, sui fili, magari due vicini.»
«Sento la nostalgia della nostra casa,» mormorò la mamma. «E non sarà più casa nostra. Vorrei dimenticarlo. E Noè...»
«Colpa mia, Noè.»
«Non dire così, via! Senza di te, non sarebbe forse nemmeno nato vivo.» «Ma avrei dovuto saper far meglio.»
«Basta,» disse la mamma. «Noè è sempre stato strano. Forse sarà felice, chi sa. Forse è meglio così.
Non abbiamo il diritto di rimpiangerlo. Questo è un bel posto.»
Il babbo indicò nel cielo. «Ecco un altro grosso volo di anitre. Comincia l'inverno, mamma!»
Ella sorrise mestamente. «Cose che si dicono e non si sa perché.»
«Ecco John,» disse il babbo. «Vieni, John, vieni a sederti.»
Zio John li raggiunse e s'accoccolò di fronte alla mamma. «Non siamo riusciti a niente,» disse. E al babbo: «Al ha bisogno di parlarti. Un copertone da cambiare; dice che c'è rimasto solo uno strato di tela.»
Il babbo s'alzò. «Speriamo non costi troppo, c'è rimasto proprio poco. Dov'è Al?»
«Alla priva svolta, a destra. Dice che il copertone è finito.»
Il babbo si allontanò, seguendo con gli occhi il volo delle anitre. Zio John raccolse un sasso, se lo contemplò nella palma della mano, lo lasciò ricadere e lo raccattò di nuovo. Non guardò la mamma quando disse: «Non c'è lavoro.»
«Non avete guardato dappertutto.»
«No, ma ci sono i cartelli che lo dicono.»
«Tom ad ogni modo deve aver trovato. Se no, sarebbe tornato.»
«Se non si è squagliato... come Noè e Connie.»
La mamma gli scoccò un'occhiata dura. «Ci sono cose che si sentono dentro,» disse poi, con un sorrisetto di segreta consolazione. «Cose di cui si è sicuri. Tom ha trovato, e stasera torna, ne son certa. Tom è in gamba. Bravo ragazzo, Tom!»
I veicoli degli accampati cominciavano a rientrare, si svuotavano, e gli uomini s'avviavano al bagno, ciascuno portando sul braccio la camicia pulita.
La mamma si riscosse. «John, va' a cercare il babbo, bisogna andare al negozio. Mi ci vuole fagioli, zucchero, e un buon pezzo di carne per friggere con le carote. E digli, in più, di comprare...
qualcosa di buono. Questa sera voglio prepararvi una buona cenetta.»
CAPITOLO 23.
Anfanando in cerca di lavoro, arrabattandosi per vivere, i nomadi sospirano sempre tuttavia il conforto di un qualche modesto piacere, perché affamati anche di svago. Talora lo trovano nella conversazione. E succede che negli accampamenti sorti qua e là sulle prode dei fossi o sotto i sicomori o a ridosso dell'argine d'un corso d'acqua il bravo narratore si faccia rapidamente un nome, e attorno a lui s'aduna nella luce morente dei fuochi serali la gente per sentirlo raccontare, e contribuire, con la propria attenzione, alla bellezza dei racconti.
... Io ero coscritto, nella campagna contro gli indiani...
E l'uditorio tende l'orecchio: tutti gli occhi immobili riflettono i guizzi del fuoco vacillante.
... Furbi, quegli indiani; fulminei come serpenti; e zitti, quando volevano. Sapevano strisciare tra le foglie secche senza far sentire un fruscio. Provatevi voi a farlo, se siete capaci...
L'uditorio tende l'orecchio e immagina il fruscio delle foglie secche calpestate.
... Ma ecco il tempo guastarsi. Sera scelto male la stagione. S'è mai sentito che si facciano le cose con buon senso nell'esercito? C'è sempre voluto tre reggimenti almeno, per affrontare un centinaio di disperati... sempre.
E l'uditorio ascolta: tutti i visi immobili, assorti. Per vincolare l'attenzione il narratore parla in ritmi di ampio respiro, usa parole altisonanti per rendere più suggestivo il racconto, e la sua magniloquenza conferisce importanza agli ascoltatori.
... Un giorno finalmente capitiamo addosso ad uno di questi coraggiosi. Era in piedi, sul ciglio d'un argine, fronte al sole, braccia aperte come un crocefisso. Nudo come il mattino, fronte al sole. E sapeva che era spacciato. Forse aveva perso la ragione, non so. Stava lì immobile, braccia spalancate, come un crocefisso, a trecento metri. E noi si arma il fucile, si prende la mira, ma nessuno osa sparare. Forse l'indiano sperava che non avremmo avuto il coraggio di sparare. Lo stavamo a guardare: una sola penna nel frontale, e nudo come il sole. A lungo si rimase a guardarlo, e lui non faceva un movimento. E allora il capitano si arrabbia. «Fuoco!»grida, «fuoco, vigliacchi!» E nessuno spara. E il capitano minaccia le più severe punizioni, e ciascuno di noi, col fucile spianato, s'aspettava e sperava che il compagno sparasse per primo. Non ho mai assistito ad uno spettacolo più triste in vita mia. Finalmente io miro alla pancia, l'unico punto vulnerabile negli indiani, e... Ohibò, il gigante s'abbatte in avanti e rotola giù dalla scarpata. Tutta la compagnia gli fu addosso. E non era grande, sebbene ci fosse sembrato immenso quand'era in piedi lassù. Pareva striminzito, perché dilaniato. Non avete mai visto un fagiano reale, superbo della sua bellezza, orgoglioso d'ogni sua penna variopinta, e bum! sparate, e andate a raccoglierlo, e lo trovate tutto guasto e sanguinolento; e sentite rimorso d'aver distrutto un essere vivente che era migliore di voi? Così ci sentimmo noi davanti all'indiano ucciso.
E gli ascoltatori annuiscono assorti, e se il fuoco dà un guizzo, rivela sguardi introspettivi su tutti i volti.
Oppure, incerto tra il cibo e lo svago, il nomade si rigira tra le mani una monetina, finché si decide a spenderla all'ingresso, d'un cinema, a Marsysville o a Tulare, a Ceres o a Mountain View. E, di ritorno al campo con la memoria traboccante, racconta la trama:
Lui, era un riccone, ma faceva finta d'essere povero; e anche lei lo stesso; e si incontrano in una trattoria...
Perché?
Che ne so perché... avevan deciso così.
Perché facevano finta d'esser poveri?
Mah, forse erano stanchi della vita da ricchi.
Merde!
Ma sta' a sentire, mi lasci raccontare o no?
Tira pure avanti; ma io dico che se fossi ricco, se fossi ricco io, mi comprerei tante di quelle salsicce, ne farei una montagna e non avrei più da rodermi il fegato per vivere. Va' avanti.
Dunque, credono tutt'e due che l'altro è povero. E li arrestano, e li rinchiudono in prigione, e nessuno dei due si fa liberare perché se no l'altro scoprirebbe che è ricco. E il carceriere li tratta male, perché crede che sono poveri. Vedessi la faccia che fa quando scopre la verità! Quasi ci rimane secco.
Perché li avevano messi in prigione?
Mah, s'eran fatti acchiappare in una riunione di socialisti, che so, ma loro mica erano socialisti, erano lì per caso. E nessuno dei due voleva fare un matrimonio di interesse.
Così cominciavano a mentirsi a vicenda ancor prima d'esser marito e moglie, eh? Figli di puttane!
Ma nel film non sembrano impostori. Nel film sembravano persone per bene.
Una volta io ho visto un film che era precisa identica la storia della mia vita. Solo più in grande.
Uh, io ne ho anche troppo della mia che mi tocca vivere. Nessuna voglia di vederla dipinta. Basta: i due finisce che si sposano e allora scoprono la verità. E la scoprono anche tutti quelli che li avevano trattati male prima. Tra questi c'era un superbioso, che quasi ci rimane secco quando vede il giovanotto in palandrana e cilindro. E nel cinegiornale poi si vedevano dei soldati tedeschi, che marciavano col passo dell'oca... c'era da buttarsi via dalle risate...
Oppure, se ha qualche quattrino, il nomade prende regolarmente la sbornia. Per render meno acuto l'assillo della miseria: per sentir caldo. Allora non è più solo, perché può popolarsi d'amici la mente, e trovarvi nemici da infilzare. Disteso in un fosso, la terra gli pare soffice. Svapora il ricordo degli insuccessi, il futuro non preoccupa più. E la fame non cova attorno, ma il mondo è buono e facile, ed è possibile raggiungere quello che si persegue. La morte è un'amica e il sonno è fratello della morte. Il passato ritorna... la ragazza dai piedini di fata che ballava così bene... il puledro, e la sella... tanto tempo fa! L'arcione era tutto scolpito a ma: no. Quanto tempo fa? Stasera sì che dovrei trovarmi una ragazza per stenderla sull'erba. Ma qui si sta bene, fa caldo. E le stelle così vicine, e la tristezza e la gioia che si confondono e son la stessa cosa. Vorrei restare ubriaco per sempre! Chi dice che è male? Chi osa dire che è male? I predicatori, ma anche quelli sono tipi che si sbronzano a modo loro. Le vecchie zitelle, ma fan troppa pena e non sanno cosa vuol dire... I riformatori, ma non mordono abbastanza addentro nel frutto della vita, per sapere. No. Le stelle sono vicine e care, e io mi sono iscritto nella fratellanza dei mondi.
E tutto è santo, tutto, persino io.
L'armonica è uno strumento facile da portare. La togli di tasca, la batti sulla palma della mano per scuoterne via i detriti di tabacco e di porcheria, ed è pronta. Puoi fare quel che vuoi con un'armonica: note staccate, accordi, melodie ritmate. Puoi plasmare la tua musica con le due mani, ci tiri fuori il suono lamentoso e nostalgico della zampogna, le note grandiose e angeliche dell'organo, i trilli acuti e pungenti del piffero. Poi smetti di suonare e te la rimetti in tasca. E mentre suoni impari sempre nuovi accorgimenti, nuovi modi di plasmare l'arietta con le mani, di pizzicarla tra le labbra; e nessuno t'insegna. Ti guardi attorno e senti: talora tutto solo all'ombra, a mezzodì; talora a sera sulla soglia della tenda dopo cena quando le donne rigovernano. Ritmicamente batti il tempo col piede, alzi e abbassi i sopraccigli. E se la perdi o la rompi, la perdita non è grave. Con pochi cents te ne puoi comprare un'altra.
La chitarra è più preziosa. E' uno strumento che devi imparare. Bisogna averci i calli sui polpastrelli della sinistra, e sul pollice destro un callo duro come corno. Sciogli ben bene le dita della sinistra, stendile come le zampette d'un ragno, per premere coi polpastrelli le corde della tastiera.
Questa era di mio babbo. Ero un cosino alto così quando me la mise in mano per la prima volta. E quando seppi suonare come lui, non volle quasi più suonare. Seduto accanto al fuoco, m'ascoltava battendo il tempo col piede. Se provavo un motivo nuovo, aggrottava la fronte, finché non l'avessi centrato bene, e allora approvava con cenni del capo, e «Suona» diceva, «l'hai azzeccato, tira avanti senza paura. E' una buona chitarra. Logora, ma buona. Ci saranno milioni di canzoni nel suo legno, son loro che l'han logorata così. Un giorno o l'altro si sfonda come un uovo, ma rattopparla non puoi, se no perde il tono. Suonala di sera, e se nella tenda vicina c'è uno che suona l'armonica, insieme fanno una musica piacevole.»
Il violino è raro, difficile da imparare. Niente righini d'osso, niente maestri. Non c'è che da ascoltare un vecchio suonatore e provarti ad imitarlo. Non ti dirà mai come fa a raddoppiare, questo è un segreto, ma io son stato a osservare: faceva così.
Mutevole come il vento, il violino: pronto e nervoso e mutevole.
Questo è un gran violino. L'ho pagato due dollari. Pare che ce ne sono certi che hanno quattrocento anni, e hanno una voce di velluto, vellutata come il whisky. Dicono che costano perfino cinquanta, sessantamila dollari. Io non so se è vero. Sembra una frottola. Ma questo qui è mica poi tanto male, vero? Volete ballare? Ecco, mi strofino l'archetto con molta colofonia. Accidenti, come geme forte! Si sente lontano un miglio.
Eccoli tutti e tre, a sera: l'armonica, il violino e la chitarra. Suonano un ballabile. Le grosse corde basse della chitarra battono come un cuore! e le note acute dell'armonica! e il gemito del violino! La gente non può non avvicinarsi. La Polka delle Galline, adesso. Rapide battute di tacchi, respiri affannosi, chiome che si sciolgono, ondeggiamenti da ubriachi.
Guarda quel giovanotto, del Texas: lunghe gambe dinoccolate, batte quattro volte la suola ad ogni singolo passo. Mai visto nessuno piroettare così. Guarda come fa ondeggiare quella ragazza cherokee. Le gote rosse, le punte dei piedi in fuori, guarda, si vedono le mutandine, guarda come volteggia. La credi stanca? La credi sfiatata? Manco per idea. Lui, coi capelli sugli occhi, le labbra socchiuse, sembra non possa più tirare il fiato, ma continua a picchiare quattro tempi ad ogni singolo passo e a far piroettare la sua ragazza come una trottola. Il violino geme e la chitarra brontola. Il suonatore d'armonica è rosso in faccia. Il giovanotto del Texas e la ragazza cherokee ansano come cani e battono ritmicamente i piedi in terra.
I vecchi guardando si fregano serenamente le mani e sorridono un poco, battendo il tempo col piede.
Sulle rive d'una roggia un predicatore suda e i fedeli gemono con alte grida. E il predicatore va su e giù come una tigre in gabbia, frustando la gente con la sua voce esaltata, e i fedeli si contorcono in terra, gemendo. Scruta ognuno in faccia, lo calcola, lo vaglia, lo confonde, e quando tutti son pronti si china e con la sua forza erculea li piglia ad uno ad uno e li getta nell'acqua gridando: Prendili, o Cristo! Prendili, o Cristo!
E quando son tutti nell'acqua fino alla cintola restano come ebeti a guardare il domatore con occhi spaventati. Questi allora s'inginocchia sulla riva e prega per loro; e chiede a Dio che tutti gli uomini e le donne possano contorcersi in terra, gemendo. Poi rientrano alle loro tende, tutti sgocciolanti, cogli abiti appiccicati alla pelle, i piedi ciangolanti nelle scarpe inzuppate, e parlano tra loro in toni sommessi:
Siamo salvi, siamo candidi come neve. Non faremo più peccato.
E i bimbi, spaventati e fradici, bisbigliano tra loro:
Siamo salvi, non faremo più peccato.
Mi piacerebbe conoscere tutti i peccati, così li commetterei.
Il nomade va sempre in cerca dei suoi umili svaghi lungo le strade.
CAPITOLO 24.
Al sabato la lavanderia era affollata fin dal mattino. Le donne lavavano le loro percalline rosa o celesti e le cotonine a fiori e le stendevano al sole. E fin dal principio del pomeriggio la vita nell'accampamento accelerò il suo ritmo ed ognuno si sentiva eccitato. I bimbi furono contagiati da tutta quella eccitazione ed erano più chiassosi del solito. Verso la metà dei pomeriggio le madri portarono i bambini a fare il bagno, e man mano che questi venivano acciuffati, sottomessi, strigliati e lavati, gli schiamazzi andavano diminuendo di intensità. Verso le cinque i bimbi, lavati, vennero severamente ammoniti di non sporcarsi di nuovo, e allora presero a girellare rigidi nei vestitini puliti, infelici sotto l'imposizione di tanta disciplina.
Nell'ampio spiazzo destinato al ballo la commissione organizzatrice era al lavoro. Aveva mandato a requisire, fin nell'immondezzaio del vicino paese, tutto il filo elettrico reperibile, e aveva fatto rovistare le cassette degli attrezzi di ogni singolo veicolo in cerca di nastro adesivo. Ed ora il filo, giuntato alla meglio e posato sui colli di bottiglia che fungevano da isolatori, era disteso tutt'intorno alla pista da ballo. Era la prima volta che si provvedeva all'illuminazione della pista. Alle sei gli uomini tornarono dal lavoro, o dalla ricerca di lavoro, ed ebbe inizio la seconda serie dei bagni. Alle sette, tutti avevano già cenato. Gli uomini indossavano gli abiti della domenica, le ragazze il loro miglior vestito lavato e stirato, le capigliature adorne di qualche pezzo di nastro. Le mamme, instancabili, finivano di lavare i piatti. Sulla pista l'orchestrina provava gli strumenti, circondata da una doppia fila di bambini. L'attesa e l'eccitazione erano generali.
Sotto la tenda di Ezra Huston, presidente, il Comitato, costituito di cinque membri, teneva la sua riunione. Huston, alto e magro, il viso indurito dalle intemperie, gli occhi taglienti come lame, conferiva coi delegati dei cinque settori del campeggio.
«Fortuna che siamo stati avvisati in tempo di questo tentativo di irruzione da parte della polizia,» diceva.
Il delegato del Numero Tre propose: «Io dico che bisognerebbe dare una buona lezione a quei farabutti.»
«No,» disse il presidente, «non aspettano altro! Niente affatto. Se riescono a provocare una rissa, sono autorizzati ad entrare, per assicurare l'ordine. L'han già fatto altrove.» Si rivolse al delegato del Numero Due. «Avete provveduto a collocare le sentinelle attorno al recinto?»
«Sì, sì. Dodici. Ho dato ordine di non mettere le mani addosso a nessuno. Solo limitarsi a ributtarli fuori.»
«Volete andare a chiamarmi Willie Eaton? E' lui l'organizzatore della festa, no?» «Sì, certo.»
«Bene, ditegli che ho da parlargli.»
Il delegato ubbidì e di lì a poco tornò con Eaton, un giovanotto del Texas, alto e dinoccolato, dai capelli biondi cenere, gli occhietti grigi riarsi dal sole del Panhandle, la mandibola prominente ma fragile. Rimase in piedi, sorridendo, e all'estremità delle lunghe braccia penzolanti le sue mani si muovevano irrequiete.
Il presidente gli disse: «Avete saputo di stanotte?» «Sì,» ghignò Willie.
«Avete provveduto in merito?»
«Sì.»
«E cioè? Dite, dite.»
Il ghigno di Willie Eaton si fece ancora più marcato. «Sissignore. Ecco, di solito sono cinque gli organizzatori, e ne ho reclutati altri venti, tutti ottimi ragazzi, e robusti. Hanno ordine di ballare e divertirsi, come tutti, ma di tenere occhi e orecchie aperti. Al primo segno di disordine, senza stare lì a discutere, e facendo finta di niente serrano le file. Fanno solo finta di uscire, tranquillamente, e si rastrellano dietro quei farabutti.»
«Ditegli ben chiaro che non devono mettere le mani addosso.»
Willie ridacchiò allegramente. «Già fatto.»
«Ripeteteglielo, in modo che ognuno sappia.»
«Sanno tutti. Ho messo cinque uomini al cancello perché guardino bene in faccia chiunque entra, e cerchino di scoprire i tipi sospetti.»
Il presidente s'alzò in piedi. «Ci conto, Willie. Niente liti, mi raccomando. Ci saranno certamente i poliziotti vicino al cancello. Se cominciate a menar le mani, siamo fregati.»
«Siamo già d'accordo. Non hanno da fare altro che sospingere fuori gli attaccabrighe.»
«Speriamo in bene,» disse il presidente, ancora preoccupato, «ma siete responsabile voi, bisogna che non succedano scenate, di nessun genere. Niente armi, coltelli, bastoni; niente di niente, mi raccomando. E, caso mai succede qualcosa, mi potete trovare vicino all'ingresso.» Willie Eaton salutò, sempre ghignando, e uscì.
Il presidente disse: «Mah! Spero proprio che i ragazzi di Willie non accoppino nessuno. Ma quello che non capisco, è perché la polizia ce l'ha con noi. Perché non ci lasciano in pace?»
Il delegato del Numero Due osservò: «Io sono stato nel campeggio di una società. C'è uno sbirro ogni dieci persone, parola mia. E una pompa da incendio che basta a spazzar via duecento persone.» Il delegato del Numero Tre disse: «Perdio, Jeremy! non hai bisogno di raccontarlo a me; ci sono stato anch'io, e so cos'è. Io c'ho anche parlato una volta con uno di questi agenti; e mi fa: Quei dannati campeggi governativi! Dategli i bagni, a quei maledetti Okies, e pretenderanno sempre i bagni; dategli l'acqua calda, dategli le latrine di porcellana, e naturalmente pretendono questo ed altro. E dice che lì, gli accampati tengono riunioni sovversive. Dice che non pensano al altro che a farsi dare i sussidi.»
Il presidente domandò: «E non c'è stato nessuno che gli ha lasciato andare una sberla?»
«No. Solo un piccoletto che fa: Cosa volete dire? Che sussidi? E l'agente spiega: I sussidi sono quelli che noialtri contribuenti paghiamo per mantenere voialtri maledetti Okies. E l'altro fa: E perché, noi forse non li paghiamo? E tutte le tasse che si paga sugli acquisti, sulla benzina, sul tabacco? E i quattro cents alla libbra che i cotonieri ricevono dal governo, non è un sussidio anche questo? E le ferrovie e le società di navigazione, non ricevono anche loro i loro bravi sussidi? E l'agente alza le spalle e fa: Ma le ferrovie fanno un servizio che è utile al paese. E noi no? grida l'altro; come fareste a raccogliere i vostri maledetti raccolti se non ci fossimo noi?» Il delegato si guardò attorno.
Il presidente domandò: «E cosa ha detto l'agente?»
«Uh, è andato sulle furie. Si è messo a gridare: Maledetti bolscevichi, siete un rosso anche voi. E' meglio che venite con me. E l'ha arrestato. E gli han dato due mesi per vagabondaggio.»
«Per vagabondaggio? Ma se non aveva lavoro?»
«Sì, lavorava; ma, lo sapete meglio di me, vagabondo è chiunque non vada a genio ai poliziotti. Ed ecco perché la polizia ci vede di malocchio in questo campo. Sanno che qui non possono entrare. Sanno che qui, è Stati Uniti, e non California.
Il presidente Huston tirò un sospiro. «Sarebbe bello se potessimo rimanere qui. Perché non ci lasciano in pace? A stuzzicarci così, ci provocano, e un giorno o l'altro si dovrà reagire per forza.» Poi si calmò e ricordò a se stesso: Ma noi dobbiamo solo cercare di conservare la pace. Non sta a noi del Comitato, a ribellarci.» E sciolse la seduta.
L'oscurità cominciava ormai a cadere. Due uomini passavano l'ispezione ai giunti dei fili elettrici e provavano la luce, mentre il gruppo dei bambini s'infoltiva sempre più attorno ai musicanti che provavano i ballabili. Un giovanotto cantò per prova una nostalgica canzone negra accompagnandosi sulla chitarra, e quando la ripeté una seconda volta, tre armoniche e un violino si unirono a lui. La gente cominciava a sciamare fuori dalle tende e si riuniva in crocchi attorno alla pista da ballo: uomini e donne, pazientemente in attesa, coi visi lustri sotto le lampadine accese.
Lungo il reticolato di cinta gli uomini di guardia erano seduti nell'erba a una ventina di metri di intervallo l'uno dall'altro. Gli invitati cominciavano ad arrivare nelle loro macchine: contadini per lo più, provenienti da altri campeggi. L'orchestra, finite le prove, attaccò finalmente un ballabile suonando clamorosamente. Dinanzi alle proprie tende le Amanti di Gesù sedevano con volti arcigni e sprezzanti. Non parlavano tra loro; vigilavano in cerca del peccato, e l'espressione delle loro facce condannava l'intero procedimento.
Nella tenda dei Joad, Ruth e Winfield s'erano affrettati a mandar giù quel poco che doveva servire per cena ed ora stavano sgattaiolando via alla chetichella verso la festa. La mamma li richiamò, fece loro alzare la faccia prendendoli per il mento, li ispezionò fino in fondo alle narici e alle orecchie e li rimandò ancora una volta sotto la tettoia a lavarsi le mani; ma i due ragazzetti, appena soli, scivolarono dietro la tettoia e raggiunsero gli altri bambini adunati attorno all'orchestra.
Al, finita la cena, aveva impiegato mezz'ora per farsi la barba col rasoio di Tom. Si era messo il vestito di panno, che gli stava un po' stretto, e una camicia a righe; nel bagno si era lavata la testa pettinandosi poi con cura i capelli all'indietro. Approfittando di un momento in cui nel locale non c'era nessun altro, si era anche sorriso nello specchio, guardandosi di profilo. Ora finalmente era pronto. S'infilò gli elastici rossi sulle maniche della camicia e mise la giacca, ma prima di uscire non dimenticò di strofinarsi le scarpe gialle con un pezzo di carta igienica. Avviandosi verso la festa, passò davanti ad una biondina che sedeva tutta sola sulla soglia della sua tenda. Al le si avvicinò, sbottonandosi la giacca per fare sfoggio della camicia. «Non venite a ballare?» domandò.
La biondina guardò dall'altra parte e non rispose.
«E' proibito rivolgervi la parola? Cosa ne dite se vi propongo di venire a ballare con me?» E aggiunse con aria d'indifferenza: «Io so ballare il valzer.»
La ragazza lo guardò timidamente e rispose: «E chi non sa ballare il valzer?»
«Ma non come me,» si vantò Al, e siccome la musica attaccava in quel momento, batté il tempo col piede e insisté: «Su venite.»
La faccia di una donna grassissima si mostrò tra i teli d'ingresso della tenda e lo guardò torva. «Girate alla larga,» disse la donna in tono ostile, «mia figlia aspetta il fidanzato che passi a prenderla.»
Al strizzò l'occhio alla biondina e se ne andò ballonzolando a tempo con la musica e lasciando penzolare le braccia, e la ragazza lo guardò allontanarsi, non senza interesse.
Il babbo, appena finita la cena, s'era alzato e aveva fatto segno al fratello di seguirlo. «Si va a far due chiacchiere con della gente per via del lavoro che stiamo cercando,» spiegò alla mamma. I due fratelli si diressero verso l'ufficio dell'amministratore.
Tom ripulì ben bene il suo piatto con un pezzo di pane, poi consegnò il piatto alla mamma, che lo tuffò nella secchia d'acqua calda, e, dopo averlo sciacquato, lo passò a Rosa Tea perché lo asciugasse. «Non vai al ballo?» gli domandò la mamma.
«Altroché,» disse Tom, «m'hanno persino messo nella commissione organizzatrice.»
«Già?» disse la mamma. «Sarà perché hai già trovato lavoro.»
Rosa Tea stava riponendo i piatti. Tom accennò a lei con la testa e disse: «Perdio come si fa grossa.»
Rosa Tea arrossì e tolse un altro piatto dalle mani della mamma, che osservò: «Eh, si comincia a vedere.»
«Ma si fa anche sempre più bellina,» notò Tom.
Rosa Tea si fece ancora più rossa e abbassò la testa. «Smettila, Tom,» disse a voce bassa.
La mamma disse: «E' vero. Capita a molte, nel suo stato.»
Tom rise. «Se continua a gonfiare così, ci vorrà una carretta per portare il pupo in giro.» «Piantala, via!» disse Rosa Tea, e si ritirò sotto la tenda, fuori dalla vista. La mamma sorridendo disse a Tom: «Non dovresti tormentarla così, Tom.» «Le piace,» rispose Tom.
«Lo so che le piace, ma d'altra parte ne soffre anche. E adesso è in lutto per Connie.»
«Farebbe meglio a dimenticarlo. A quest'ora starà studiando il modo di diventare Presidente degli Stati Uniti.»
Arrivò in quella Willie Eaton, e domandò ridacchiando: «Siete voi Tom Joad?» «Proprio.»
«Io sono l'organizzatore della festa. Avremo forse bisogno di voi. M'hanno parlato di voi.» «Contate su me. Questa è mia madre.» «Piacere,» disse Eaton.
«Lieta di conoscervi,» rispose la mamma.
Eaton disse: «Vi metterò al cancello, al principio, e poi alla pista da ballo. Avrete l'incarico di guardar bene in faccia chiunque entri, ci sarà un altro con voi. Dopo, ballate quanto volete, ma dovete tenere ugualmente gli occhi bene aperti.»
«Va bene. Facilissimo.»
La mamma disse con apprensione: «Temete che succeda qualcosa?»
«No, signora,» rispose Eaton, «non succederà proprio niente.» Fece un cenno di testa a Tom, e i due si diressero rapidamente verso il cancello d'ingresso.
La mamma finiva di riporre i piatti e chiamò Rosa Tea: «Vieni fuori, adesso, fatti coraggio e vieni qui.» E quando questa si fu finalmente decisa a ricomparire, la mamma le disse, senza smettere di sfaccendare: «Tom stava solo scherzando.»
«Lo so. Non m'importa mica niente. Solo mi secca che la gente mi guarda.»
«Non c'è scampo, cara mia. Tutti guardano con curiosità le donne incinte; è una vista che rallegra. Non hai voglia di venire alla festa?»
«Avevo voglia, sì, ma adesso... Oh, se Connie fosse qui!» Alzò drammaticamente la voce. «Mamma, mamma, non ne posso più, vorrei che Connie fosse qui con me!»
La mamma le diede un'occhiata grave. «Ti capisco, bambina mia, ma... Qui si tratta di farti coraggio. Non mostrarti abbattuta.»
Rosa Tea si sentì tremare le labbra. «Non mi sento di farmi vedere alla festa, mamma. Aiutami te!» Si sedette e si prese la testa fra le mani.
La mamma s'asciugò sul grembiule, e andò a inginocchiarsi accanto alla figlia ponendole le mani sui capelli. «Sei una buona figliola, Rosatè, sei sempre stata tanto cara. Sai che io voglio soltanto il tuo bene, dunque da' retta a me. Sai cosa si fa, noi due? Ci vestiamo e andiamo insieme alla festa; ci sediamo vicine e stiamo a guardare, e se qualcuno viene a invitarti, dirò che non ti senti bene. Vuoi?
Ti farà bene sentire un po' di musica.»
Rosa Tea alzò il viso verso la mamma. «Prometti di non lasciarmi toccare da nessuno?»
«Te lo giuro. Ora andiamo a lavarci, poi ci vestiamo e andiamo alla festa.»
Il babbo e zio John stavano chiacchierando in un crocchio di uomini accoccolati davanti all'ufficio dell'amministratore. Il babbo diceva: «Per un pelo non s'è trovato lavoro, oggi. Fossimo arrivati qualche minuto prima, ci prendevano. Ne avevano preso due proprio allora. E sapete cosa mi dice il padrone? Mi fa: 'Abbiamo ingaggiato dei lavoranti a venticinque cents; ne potremmo prendere altri, ma a venti; ditelo ai vostri compagni nel campeggio'.»
Gli ascoltatori, accoccolati, si agitarono nervosamente. Un omone dalle spalle larghe, con un cappellaccio a larga tesa calato sugli occhi, si batté il pugno sul ginocchio ed esclamò: «Sempre la stessa storia, maledizione! E il male è che li troverà, prenderà dei morti di fame. Venti cents all'ora non bastano a sfamare una famiglia, ma quando si ha fame, s'accetta qualunque paga, piuttosto che niente del tutto. Se continua così, tra poco toccherà a noi di pagare i padroni, per lavorare.»
«Noi stessi,» disse il babbo, «avremmo accettato, da tanto che non s'ha lavoro, e avremmo accettato ma c'erano anche quegli altri che ci hanno guardato con una faccia! Così s'è avuto paura ad accettare.»
L'uomo dal cappellaccio dichiarò: «A pensarci c'è da diventar matti. Dove lavoravo io, il padrone deve rinunciare al raccolto. Il prezzo della frutta è così basso che non gli rimborsa le spese. E non sa più che fare.»
«Eppure a me sembra...» cominciò il babbo, e attorno a lui il gruppetto fece improvvisamente silenzio, un silenzio d'attesa. «Io pensavo, se solo potessimo avere un acro di terreno, ognuno di noi... Una coppia di maiali, una dozzina di galline, penserebbero le donne a nutrirle, e noi uomini potremmo trovar lavoro fuori. In tal caso potremmo accontentarci di poco. Potremmo mandare i bambini a scuola. Mai viste scuole così belle come da queste parti.»
«Ma i nostri bambini non ci vanno volentieri,» brontolò l'uomo dal cappellaccio.
«Perché? Sono belle davvero, quelle scuole.»
«Mica divertente, per un bambino, andare a scuola tutto stracciato, senza scarpe, e tutti gli altri invece con scarpe e calzette e calzoncini tagliati bene, che li sfottono e li chiamano Okies. Il mio ci andava a scuola, ma era tutti i giorni a picchiarsi e tornava a casa con gli abiti a pezzi e il naso sanguinante, e la mamma lo sgridava, per giunta, come se fosse colpa sua! Faceva benissimo a reagire, se lo provocavano.»
Il babbo disse: «Comunque, cos'ha da fare un uomo nelle mie condizioni? Non abbiamo più un quattrino. Uno dei miei ragazzi se l'è trovato un lavoro per qualche giorno, ma quel che guadagna uno non basta per mantenere tutta la famiglia. Mi sa che non posso far altro che accettarli i venti cents all'ora.»
L'uomo dal cappellaccio alzò la testa protendendo il mento e svelando un gran ciuffo di peli sul petto, e disse, con amarezza: «Sì, accettatelo quel lavoro, così son fregato io, e rubate il lavoro a me, che prendo venticinque. E poi viene un altro, più affamato di voi, e lo ruba a voi lavorando per quindici. Andate, andate pure.»
«E cos'altro posso fare?» domandò il babbo. «Devo lasciarmi morire di fame per permettere a voi di intascare i venticinque?»
L'uomo dal cappellaccio riabbassò la testa e la sua faccia rientrò nell'ombra delle larghe tese. «Non so cosa dirvi, davvero non so. E' un problema che nessuno sa risolvere. Io so che il mio bambino non ha abbastanza da mangiare. Domando io come si può lavorare a queste condizioni. C'è da diventar pazzi.»
Sentendosi a disagio gli uomini accoccolati mutarono la posizione delle gambe.
Tom stava al cancello, in osservazione, sotto una grossa lampada di luce elettrica. Willie Eaton disse: «Tenete gli occhi ben aperti. Ora vi mando Jule Vitela. E' mezzo cherokee. Tipo in gamba. Tenete gli occhi aperti, e cercate di individuare i sospetti.» «Lasciate fare a me,» disse Tom.
Arrivavano gli invitati, famiglie di contadini, le ragazze con i capelli a crocchia, i giovanotti agghindati negli abiti della domenica. Jule Vitela non tardò a raggiungere Tom: «Eccomi qua,» disse.
Tom ne notò il naso aquilino, gli alti zigomi abbronzati e il mento sfuggente. «M'han detto che sei mezzo indiano. Ma hai l'aria di esserlo al cento per cento.»
«No, cinquanta,» rispose Jule. «Solo cinquanta per cento. Magari fossi puro sangue; avrei il mio pezzo di terra nelle riserve. I veri indiani, o almeno alcuni di essi, fanno una vita da signori.» «Guarda quello lì,» disse Tom. Gli invitati varcavano in frotte il cancello: famiglie intere di emigrati, provenienti da altri accampamenti sorti lungo la strada; bambini focosi che si dibattevano per esser lasciati liberi, genitori seri che li trattenevano inesorabili.»
Jule disse: «Buffo, se ci si pensa bene: siamo tutti dei disperati, ma la possibilità di invitare gente alle nostre feste, basta questo per farci sentire importanti. E per giunta ci procura il rispetto di tutti quanti. Mi diceva uno, che lavora con me, e che possiede un piccolo pezzo di terra, che queste qui sono le sole feste in tutta la regione, dove un uomo che si rispetta può portare la moglie e le figlie a divertirsi. Ehi, guarda!»
Tre giovani in tute da lavorante stavano in quel momento oltrepassando il cancello; camminavano vicinissimi l'uno all'altro. Il custode li interrogò e li lasciò entrare.
«Tienili d'occhio,» disse Jule a Tom, e accostando il custode gli domandò: «Chi è che li ha invitati quei tre?»
«Un certo Jackson, del Numero Quattro.»
Jule tornò da Tom. «Credo che son loro,» disse.
«Come lo sai?»
«Non so. Un presentimento. M'han l'aria sospetta. Seguili, e avverti Willie, digli che chieda a Jackson del Numero Quattro. Resto qui io.»
Tom pedinò i tre giovani. Arrivati alla pista, presero tranquillamente posizione tra le file esterne degli spettatori. Tom vide Eaton presso l'orchestra e gli fece segno di avvicinarsi. «C'è qualcosa?» domandò Eaton arrivando.
«Quei tre, lì, vedete?»
«Sì.»
«Dicono d'essere stati invitati da un certo Jackson del Numero Quattro.»
Eaton si guardò intorno in cerca del presidente Huston, e trovatolo gli fece segno di venire.
«Quei tre,» disse. «Sarebbe bene domandare a Jackson, del Numero Quattro, se è vero che li ha invitati.»
Huston andò lui stesso in cerca di Jackson e qualche istante dopo fu di ritorno con lui, e lo presentò: «Ecco Jackson. Sentite Jackson, vedete quei tre?»
«Sì.»
«Li avete invitati voi?»
«No.»
«Mai visti prima?»
Jackson li osservò con attenzione. «Sicuro, lavoravo con loro da Gregorio.»
«Sicché sanno il vostro nome.» «Certo. Si lavorava insieme.»
«Ho capito. Non avvicinateli, Jackson. Non li butteremo fuori, se si comportano bene. Grazie, Jackson, potete andare.»
«Ottimo lavoro,» disse poi a Tom. «Devono essere proprio loro.» Tom disse: «E' Jule che li ha scoperti.
«Sfido,» commentò Eaton. «Col suo fiuto d'indiano. Allora penso io a segnalarli ai miei uomini.» Un ragazzo, sui sedici ami, arrivava di corsa aprendosi il varco tra la folla e si fermò ansando davanti al presidente: «Signor Huston,» ansimò. «Son stato dove m'avete detto, e c'è un'automobile ferma, con sei persone, è in sosta vicino a quegli eucalipti; e più in su, alla svolta, ce n'è un'altra con quattro persone. Li ho avvicinati per farmi accendere la sigaretta, e ho visto che hanno tutti la pistola. Ho visto io.»
Gli occhi del presidente mandarono un lampo di ferocia. Diede un'occhiata e Eaton e domandò: «Siete sicuro che tutti i vostri sono al loro posto?»
Eaton ghignò con soddisfazione. «Sicurissimo signor Huston. Garantisco che non succederà niente.»
«Ma mi raccomando. Non mettete le mani addosso. E se è possibile, senza dare nell'occhio e senza chiasso, mi piacerebbe parlare con loro. Io sarò nella mia tenda.»
«Lasciate fare a me,» lo rassicurò Eaton.
Il ballo non era ancora ufficialmente cominciato, ma adesso Eaton avanzò sulla pista e proclamò a gran voce l'apertura delle danze: «Formate le quadriglie!» Immediatamente le coppie, correndo qua e là, si disposero a due a due in otto quadrati, pronte, in attesa che l'orchestra attaccasse. Le ragazze tenevano le mani dinanzi a sé, intrecciando impazienti le dita; i giovanotti, non meno impazienti, battevano per terra con le suole. Seduti torno torno, gli anziani sorridevano beati, impedendo ai bambini di avanzare sull'impiantito. E davanti alle loro tende le Amanti di Gesù sedevano arcigne con terribili espressioni di condanna, in morbosa attesa di scoprire il peccato.
La mamma sedeva con Rosa Tea su una panca, e tutte le volte che qualche giovanotto si presentava per invitare Rosa Tea, lo scoraggiava da lontano anticipando sempre la medesima risposta: «No, grazie, sta poco bene.» Ed ogni volta Rosa Tea diventava rossa, e le brillavano gli occhi.
Eaton prese posto al centro della pista, alzò le mani e gridò: «Pronti? Via!» L'orchestra attaccò strepitosamente la Polka delle Galline tra i gemiti del violino, gli acuti lamenti nasali delle armoniche e le profonde vibrazioni delle chitarre. Eaton regolava i turni, mentre le coppie si attenevano scrupolosamente ai suoi ordini, avanzando e retrocedendo, allacciando le braccia alla vita del compagno, eseguendo le variazioni figurate. Eaton circolava tra le quadriglie, animando i danzatori con la voce e abbozzando egli stesso i passi di danza e i movimenti con le braccia. La musica saliva e scendeva e le suole picchiettando a tempo compensavano l'assenza del tamburo. Le capigliature cominciavano a perdere la loro impeccabilità e le fronti s'imperlavano di sudore. I ballerini più abili facevano sfoggio dei loro passi più difficili. E gli spettatori anziani ondeggiavano secondo il ritmo della musica, tamburellavano con le mani e battevano il tempo coi piedi, e occhieggiandosi a vicenda si sorridevano e ano.
La mamma avvicinò le labbra all'orecchio di Rosa Tea: «Non lo crederesti, ma il babbo era il miglior ballerino che abbia mai visto, ai suoi tempi.» E la mamma sorrideva. «Mi ricorda i miei tempi,» sospirava, e su tutte le facce degli spettatori era il sorriso dei tempi passati.
Da lontano le Amanti di Gesù tenevano d'occhio i loro bambini recalcitranti. «Tutti peccatori che corrono diritti all'inferno,» dicevano, con disprezzo e condanna. E i bambini tacevano, nervosi ed eccitati.
«L'ultima figura e poi riposo,» cantarellava Eaton sull'aria della musica, «forza ragazzi, animo!» E il rossore
animava il viso delle ragazze sudate che ballavano con le labbra socchiuse e coi volti seri e pieni di reverenza, e i giovanotti si ravviavano indietro i capelli e sgambettavano frenetici battendo insieme i tacchi, e le coppie avanzavano, indietreggiavano, si incrociavano, piroettavano, e la musica schiamazzava. Quando d'un tratto cessò, i danzatori si arrestarono immobili sul posto, ansando. E i bambini, rotta ogni restrizione, irruppero sulla pista, rincorrendosi pazzamente, scivolando, eseguendo capriole, tirandosi selvaggiamente i capelli a vicenda. I ballerini andarono a sedersi, facendosi vento con le mani. I musicanti s'alzarono per stirarsi le membra rimettendosi a sedere, e le chitarre ripresero a mormorare in sordina.
Ora Eaton ordinò: «Riformare le quadriglie.» E i giovanotti scattarono di nuovo in piedi e andarono alla ricerca di altre ballerine. Tom non si era mai allontanato dai tre giovani. Li vide aprirsi il varco tra la folla e dirigersi dove si stava formando una delle quadriglie, e li pedinò. Fece un segno a Eaton con la mano, e Eaton disse una parola al violino che fece un cenno di testa ai suoi uomini. Venti giovani, allineati su una sola riga, presero ad avanzare sulla pista. I tre intanto avevano raggiunto la quadriglia e uno di loro dichiarò: «Io ballo con questa qui.»
Un giovanotto biondo, che si trovava al fianco della ragazza indicata, ebbe un moto di sorpresa e protestò: «Ma questa è la mia dama.» «Senti un po', figlio di puttana...»
Un fischio acuto echeggiò lontano nell'oscurità. I tre si trovarono circondati da una parete umana e ciascuno di loro sentì sulle braccia e sulle spalle la pressione persuasiva di parecchie mani decise. E la schiera si mise in moto, lento ma irresistibile, sospingendo i tre giovinastri fuori della pista.
Eaton diede il via al violino e lanciò gli ordini ai danzatori; la musica attaccò e i piedi presero a batter ritmicamente la pista.
Un'automobile si presentò al cancello e il conducente gridò: «Aprite! Siamo informati che è scoppiata una rissa.»
Il custode non si scompose. «Nessuna rissa. Non sentite la musica? E poi chi siete?»
«Agenti dello sceriffo.»
«Avete un mandato?»
«Non abbiamo bisogno d'un mandato, dove c'è disordine.» «Ma qui non c'è disordine,» insistette il custode.
Gli agenti stettero un altro po' ad ascoltare la musica e gli ordini dell'organizzatore della festa, poi l'automobile si rimise in moto e andò a fermarsi alla prima diramazione della strada.
Nella schiera mobile, che procedeva implacabile, ognuno dei tre giovinastri era saldamente abbrancato e su ciascuna bocca stava applicata una mano a guisa di bavaglio. Quando la schiera scomparve nell'oscurità, fu raggiunta da Eaton. «Ottimo lavoro,» disse. «Il presidente ora viene a parlare con questi signorini.»
Huston stesso emerse infatti dall'oscurità. «Vediamoli un po',» disse.
I tre prigionieri furono fatti voltare col viso verso di lui, ma tenevano le teste basse. Huston li osservò con la lampadina tascabile. «Perché volevate provocare una rissa?» Nessuno rispose.
«Voglio sapere chi vi ha mandati.»
Uno dei catturati borbottò: «Cos'abbiamo fatto? Abbiamo fatto niente. Si voleva solo ballare.»
«Ah si, eh?» lo rimbeccò Jule. «E quel ragazzo che stavate per picchiare?»
Tom disse al presidente: «Proprio nel momento che si son mossi, s'è sentito un fischio fuori.»
«L'ho ben sentito anch'io. E la polizia s'è presentata al cancello. Ora sentite,» disse poi, rivolto ai tre, «non vogliamo farvi alcun male, ma voglio sapere chi è che vi ha mandati.» Aspettò inutilmente una risposta. «Siete gente come noi, siete dei nostri,» riprese con un accento di tristezza, «com'è che vi siete lasciati indurre a nuocerci?»
«Eh, si deve pur mangiare per vivere.»
«Ma chi vi ha pagati?»
«Non siamo stati pagati.»
«E neanche lo sarete, questo è certo. Niente rissa, niente soldi. Non è così?»
«Fate quel che volete. Noi non diciamo niente.»
Huston rifletté un momento, poi disse: «E sia. Non posso obbligarvi. Ma accettate un mio consiglio; non pugnalate nella schiena i vostri simili. Fate del male a voi stessi, non lo capite?» E siccome nessuno gli rispondeva, ordinò agli uomini di Eaton: «Metteteli fuori, ma senza picchiarli. Non sanno quello che fanno.»
La schiera si rimise in moto e si allontanò nel buio. Eaton la accompagnò per assicurarsi che i suoi ordini venissero eseguiti fino all'ultimo, e arrivando al reticolato di cinta permise che i suoi uomini aiutassero i prigionieri a scavalcarlo. I tre giovinastri si affrettarono a scomparire nell'oscurità.
Dinanzi all'ufficio dell'amministratore gli uomini erano ancora accoccolati e continuavano a discorrere, pur tendendo l'orecchio alla musica che perveniva fino a loro.
Il babbo disse: «E' certo che c'è un cambiamento in aria. Non so cosa sarà, ma lo sento venire. Questo stato di incertezza ci fa tutti nervosi, non si sa come tirare avanti.»
L'uomo dal cappellaccio alzò di nuovo la testa, e le setole della sua barba corta rifletterono la luce. Colse dei sassolini, e si mise a farli schizzar via col pollice, come fossero biglie di vetro. «Neanche io so cosa sarà, ma non c'è dubbio che qualcosa sta per succedere, come dite voi. Uno mi diceva l'altro giorno quello che è successo ad Akron, nell'Ohio. Li c'è l'industria dei pneumatici. Gli industriali hanno reclutato operai tra i montanari, per pagarli meno. Questi montanari si sono subito iscritti nei sindacati. E' successo un putiferio. Tutti i negozianti, e i legionari, e gli impiegati, si organizzano per scacciare gli intrusi, accusandoli di rovinare la piazza, minacciando persino di sciogliere i sindacati. Ci si mettono di mezzo i predicatori, ci si mette di mezzo la stampa, e scoppia una vera guerra tra partiti. Gli industriali si premuniscono facendo acquisto di gas lacrimogeni. Ebbene, sapete com'è andata a finire? Una domenica, nel marzo scorso, cinquemila di quei montanari organizzarono una partita di caccia in campagna, e in cinquemila sfilarono armati di fucile per le vie della città, e poi di nuovo al ritorno, finita la caccia attraversarono così armati la città. Ebbene, da quel giorno regna la pace in Akron.» Un lungo silenzio seguì a queste parole. L'uomo riprese: «Pensavo. Da queste parti, cominciano a fare un po' troppo i furbi, con noi. L'incendio di quel campo, la settimana scorsa, ingiustizie, maltrattamenti... Pensavo. Siamo tutti quanti armati di fucile, noialtri. Perché non organizzare anche noi una partita di caccia, e sfilare qualche domenica nelle vie della città?»
Gli altri alzarono gli occhi su di lui, e li riabbassarono a terra, e sentendosi a disagio mutarono la posizione delle gambe.
CAPITOLO 25.
La primavera è magnifica nelle vallate della California. La fioritura è un mare di fragranti ondicelle rosee spumeggianti. I poggi verzicanti sono tondi e morbidi come mammelle, e sui vecchi tralci contorti i primi teneri viticci mettono un manto delicato tutto drappeggi. E in pianura negli orti germogliano a perdita d'occhio in filari simmetrici le pallide lattughe e gli ispidi cavolfiori nani e i carciofini d'un verde bigio ultraterreno. E le piante si vestono di gemme, e dagli alberi da frutta i petali si staccano e formano sul terreno un tappeto bianco e rosa. I nuclei dei frutti profumano, crescono e si colorano: ciliegie e mele, pesche e pere, fichi che si tengono racchiuso il fiore nel cuore. Tutta la California si affanna a produrre, e i prodotti maturano, e i rami piegano progressivamente sotto il peso dei frutti così che occorre sostenerli servendosi di puntelli.
Dietro le quinte del grande scenario della fruttificazione stanno uomini d'ingegno, di esperienza, di sapienza: uomini che sperimentano le sementi, migliorano senza posa la tecnica che mira ad ottenere un rendimento sempre maggiore dalle piante, rinforzandone le radici per renderle atte a difendersi dai nemici insetti che a milioni brulicano nelle zolle. E vi sono gli esperti chimici, che spruzzano le piante per proteggerle dalle epidemie, che amputano tumori e malattie; gli specialisti in cure preventive che combattono le mosche da frutta e i coleotteri del Giappone, isolano gli alberi malati, li sradicano, li bruciano. I più bravi sono gli innestatori, perché compiono un lavoro da chirurgo, e devono avere mani da chirurgo, e cuori da chirurgo, per incidere la scorza, inserirvi l'innesto, fasciare le ferite per ripararle dall'aria. Gli innestatori sono grandi scienziati.
Tra i filari il contadino rovescia le zolle d'erba primaverile perché l'erba interrata ingrassi la terra, scava solchi per far affiorare l'acqua e argina i solchetti perché la trattengano, e dagli argini estirpa le erbacce che potrebbero sottrarre l'acqua alle piante.
E intanto la frutta matura, e sulla vite i fiori sbocciano in lunghi penduli corimbi. E man mano che la stagione s'inoltra, il caldo aumenta e le foglie assumono una tinta più cupa. Le susine si allungano in forma d'uovo, i peruzzi in forma di perla, le pesche mettono la peluria. I fiori della vite schiudono i minuscoli petali e i duri pallini diventano boccioli verdi e i boccioli si fanno pesanti. I coltivatori, i proprietari, osservano e calcolano. Il raccolto sembra promettente. E sono fieri, perché è la loro scienza che produce il raccolto. E' la loro scienza che ha trasformato il mondo, rendendo alto e robusto e redditizio il grano nano e debole, grossi e dolci i pomi piccoli e acerbi. Quel decrepito tralcio che campava abbarbicandosi ai gelsi e nutriva gli uccelli con gli acini striminziti, ecco che per virtù della loro scienza ha generato mille varietà d'uva, rossa e nera, verde e rosata, violetta e d'oro; ed ogni varietà ha il suo sapore particolare. Sono gli specialisti delle fattorie sperimentali che hanno creato nuove qualità di frutti: noci, pesche e quaranta varietà di susine, nocette dai gusci sottili come carta velina. E continuano a lavorare, selezionando, innestando, modificando, forzando la terra a produrre come piace a loro.
E le prime ad esser mature sono le ciliegie. Un cent e mezzo alla libbra. Diamine, come si fa a raccoglierle per così poco. Ciliegie nere, ciliegie rosse, piene e zuccherose, e gli uccelli ne beccano la metà, e le vespe ronzano nei buchi fatti dagli uccelli.
Le susine violette diventano dolci e molli. Diamine, come si fa a spruzzarle, coglierle, lasciarle seccare, per così poco? Impossibile pagare un salario, quale che sia. E le prugne violette fanno un tappeto a terra. E appena la buccia si raggrinza, le mosche sciamano a banchetto, e tutta la valle si impregna dell'odore dolciastro di frutta marcita. La polpa del frutto ora è nera, e il raccolto avvizzisce per terra.
E le pere diventano molli e gialle. Cinque dollari la tonnellata. Cinque dollari per quaranta cassette da venticinque chili. Diamine, come si fa a far entrare nei cinque dollari la lavorazione del suolo, la potatura, la spruzzatura, la raccolta, l'imballo, il trasporto e la consegna alla fabbrica di frutta in conserva? Impossibile. E il frutto giallo cade pesantemente a terra e si schiaccia e si sfascia, e le vespe fanno della polpa un alveare, e l'odore di marciume e fermentazione appesta l'aria.
L'uva: diamine, non conviene fare il vino. Chi può comprarcelo, caro com'è? L'unica è vendemmiare senza scegliere i grappoli buoni e i mediocri e i guasti e metterli tutti insieme nel torchio. E i torchi schiacciano insieme i gambi il marcio e il fango. E nei tini fermentano muffa e acido formico. Aggiungete solfo e l'acido tannico, e l'odore del fermento non è più il ricco odore del vino, ma l'odore della putrefazione corretto dai preparati chimici. Comunque l'alcool c'è: puoi ugualmente prendere la sbornia.
I piccoli agricoltori vedono il debito salire come un fiume in piena. Spruzzano la vite e non possono vendere l'uva perché il suo prezzo è troppo basso, potano e innestano e non possono vendere il vino perché il suo prezzo è troppo alto. Gli uomini di scienza hanno lavorato dissertato e deliberato, ma la frutta marcisce a terra o il mosto putrido nei tini avvelena l'aria.
Assaggiate questo vino, ha gusto d'uva? Tutto solfo e alcool e acido tannico.
Vedi quest'orticello: l'anno venturo farà parte di una vasta tenuta perché il debito avrà strangolato l'attuale proprietario.
Questa vigna è di proprietà della banca. Solo i grossi agricoltori possono sopravvivere oggi perché possiedono anche le fabbriche di frutta in conserva. E quattro pere, sbucciate, tagliate in mezzo, cotte e inscatolate, costano sempre quindici cents, e non si guastano, durano anni.
E il putridume si propaga in tutto lo stato, e l'acre odore di marcia stende una grande tristezza sul paese. Gli uomini che sanno innestare e fecondare il seme non sanno trovare il mezzo che permetta agli affamati di mangiare i prodotti della terra. Gli uomini che hanno creato frutti nuovi non sanno creare il sistema che permetta ai loro frutti di venir mangiati. E il fallimento incombe sullo stato come una tragedia.
Ciò che le radici della vite e degli alberi fruttiferi producono deve andar distrutto per consentire ai prezzi di mantenersi alti; e questa è la cosa più triste e più amara di tutte. Vagoni di arance rovesciati negli immondezzai. La gente accorre da grandi distanze per raccoglierle, ma è proibito. Se le si permette di prenderle gratis negli immondezzai, come sperare che le pagherebbe venti cents la dozzina? E i pompieri annaffiano le arance col petrolio, e inviperiti dal rimorso di tanto delitto inviperiscono contro il povero che viene a cogliere i frutti negli immondezzai. Un milione di individui affamati, bisognosi di frutta, e le montagne d'oro spruzzate di petrolio.
E l'odore della marcia appesta il paese. Si brucia il caffè per fornire combustibile ai piroscafi. Si brucia il granoturco per riscaldamento. Si gettano le patate nel fiume, e si mettono le guardie per impedire ai poveri di ripescarle. Si sgozzano i maiali e li si sotterrano e si lascia che il putridume delle loro carni avveleni il suolo.
Questi sono delitti che trascendono ogni denuncia. Queste sono tragedie cui il pianto non può rendere testimonianza; è un fallimento che annulla le più belle conquiste dell'umanità. La terra è ferace, gli alberi stanno ritti e sani in fila, i tronchi sono robusti, la frutta matura. Ma i bimbi muoiono di pellagra perché da un'arancia il coltivatore non può trarre profitto; e il "coroner" scrive sull'atto di morte «morto per denutrizione» perché conviene lasciar marcire la frutta.
I poveri accorrono con le reti per pescare le patate nel fiume, e le guardie li respingono; accorrono nei loro veicoli sgangherati per cogliere le arance, e le trovano imbevute di petrolio. E restano lì, a veder scorrere le patate nel fiume, a sentire gli strilli dei maiali sgozzati nei fossi e sepolti sotto la calce, a osservare le montagne d'oro liquefarsi in putrida broda. E gli occhi dei poveri riflettono, con la tristezza della sconfitta, un crescente furore. Nei cuori degli umili maturano i frutti del furore e s'avvicina l'epoca della vendemmia.
CAPITOLO 26.
Nel campeggio di Weedpatch, una sera che lunghe nubi orizzontali nascondevano il' sole al tramonto infiammandone gli orli, i Joad, finita la cena, taciturni e preoccupati, indugiavano attorno al fornello. La mamma stessa non si decideva a cominciare a riporre le stoviglie.
«Qui bisogna fare qualcosa,» disse d'un tratto, e indicando Winfield con un gesto che richiamò sul bambino gli sguardi di tutti continuò: «Guardate che faccia: non l'ho mai visto giallo così, e ha il sonno agitato.» Ognuno riabbassò gli occhi a terra. «Polenta fritta,» spiegò la mamma. «Un mese che siamo qui e solo Tom ha trovato lavoro, e soltanto per cinque giorni. Tutti gli altri, avete avuto un bel cercare, tutti i giorni, senza trovare un bel niente. I soldi ormai sono finiti, e scoraggiati come siete avete persino paura di parlare. Ma è ora di decidersi. Rosatè è ormai vicina al suo tempo, e guardate che faccia. Un giorno di grasso e due di farina, ecco quel che mi rimane; e dieci patate in tutto. Stasera non vi lascio andar via finché non s'è deciso qualcosa.»
Gli occhi di tutti continuavano a guardare in terra. Il babbo si puliva le unghie con la punta del temperino. Zio John tentava di strappare una scheggia di legno dalla cassetta su cui era seduto. Tom si pizzicava il labbro inferiore tirandoselo in avanti; lasciò andare il labbro e disse, in tono sommesso: «Si è sempre andati in cerca, mamma. Anche a piedi, da quando s'è finita la benzina. Guardato dappertutto, in tutte le case, anche quando s'era sicuri di non trovar niente. E' una cosa che butta a terra, sai.»
La mamma rispose con vivacità: «Non avete il diritto di dichiararvi scoraggiati. La famiglia va a rotoli. Non ne avete il diritto.»
Il babbo si ispezionò le unghie raschiate. «Non c'è che una cosa da fare,» disse. «Dobbiamo andarcene. E' peccato, perché è un bel posto, questo, e si è tra brava gente. E l'idea di dover tornare in una di quelle Hooverville...»
«Ma,» sbottò la mamma, «se s'ha da farlo, facciamolo. Prima cosa bisogna mangiare.»
Al intervenne: «Io ho un bidone di benzina nel camion. Non l'ho detto a nessuno.»
Tom sorrise: «Questo ragazzaccio, qualche volta mostra d'aver del buon senso.»
«Ora siete qui,» riprese la mamma, severa, «e decidete qualche cosa. Io non voglio stare a veder la famiglia morire di fame. Un giorno di grasso. Ecco quel che ci rimane. E Rosatè ha bisogno di mangiare. Decidete!»
«Qui c'è l'acqua calda, i gabinetti...» cominciò il babbo.
«Mica possiamo mangiare i gabinetti.»
Tom disse: «Oggi uno m'ha detto che a Marysville cercano gente, per la raccolta della frutta.» «Allora perché non andiamo a Marysville?» domandò la mamma.
«Mah,» borbottò Tom, «prima bisogna vedere se è vero. Non ha voluto dirmi che paghe danno, dice che non lo sapeva esattamente.»
«Si va a Marysville,» dichiarò la mamma. «Non importa sapere quant'è la paga. Si parte lo stesso.» «E' lontano,» obiettò Tom. «Non abbiamo più quattrini per la benzina. Difficile che ce la facciamo, fin laggiù. Te, mamma, dici che bisogna pensarci: io è un sacco di tempo che non faccio altro che pensare.»
Zio John disse: «M'ha detto uno che vicino a Tulare fra poco cominciano a cogliere il cotone.
Tulare non è molto lontano, m'ha detto quello.»
«Bene, qui bisogna andarcene, e subito. Non m'importa niente che questo è un bel posto.» La mamma afferrò la secchia e si diresse verso la tettoia per prendere dell'acqua calda.
«Mamma si fa cattiva,» disse Tom, «è da un po' di tempo che me ne accorgo. Tra poco scoppia.» «Se non altro,» disse il babbo con sollievo, «ha messo le carte sulla tavola. La notte ormai non potevo più dormire sempre lì a scervellarmi per trovare una via d'uscita. E ora, se non altro, la facciamo finita.»
La mamma tornò con la secchia piena d'acqua fumante. «Dunque,» disse, «deciso qualcosa?»
«Si discute,» fece Tom. «Qui s'è visto che non si trova niente. Se si parte per Tulare, appena il cotone è pronto, noi saremo già sul posto. Io per conto mio mi piacerebbe trafficare nel cotone. Dici che il serbatoio è pieno, Al?»
«Quasi.»
«Dovrebbe bastare per portarci fin là.»
La mamma appoggiò un piatto sulla secchia. «Allora?» domandò. Tom disse: «Hai vinto te. Si parte, credo, vero babbo?» «Per forza, penso io,» disse il babbo.
La mamma gli scoccò un'occhiata. «Quando?»
«Be', inutile aspettare, si potrebbe anche partire domattina.»
«Dobbiamo partire domattina! T'ho già detto quello che ci resta.»
«Calma mamma, mica devi credere che io non voglio andar via di qua.»
La mamma, immergendo il piatto nella secchia, annunciò decisa: «Allora domattina si parte.» Il babbo sbruffò: «Sembra che i tempi sono cambiati,» disse con sarcasmo. «Una volta era l'uomo a decidere quello che andava fatto. Adesso sembra che devono dirlo le donne. Sarebbe ora che i mariti pensassero alla frusta.»
La mamma posò su una cassetta il piatto sgocciolante e disse sorridendo: «Sì, sì, prendi pure la frusta, ma finché non ci procurerai il pane, e un posto per viverci, giuro che non avrai il fegato di usarla.»
Il babbo ghignò, imbarazzato. «Belle cose da dire davanti ai bambini,» brontolò.
«Tu pensa a mettergli bistecche nella pancia, ai bambini, prima di preoccuparti di quello che devono sentire o no.»
Il babbo s'alzò, disgustato, e si allontanò, seguito da zio John.
Senza smettere di lavare i piatti, la mamma li osservò allontanarsi e disse a Tom, con accento di soddisfazione: «E' furibondo. Se l'è svignata perché se no andava a finire che mi lasciava andare una sberla.»
Tom rise. «Lo provochi apposta?»
«Certo. Preferisco la sua collera, all'indolenza. Vedrai ora come si darà da fare.» Al s'alzò. «Vado a far due passi,» disse.
«Faresti meglio a dare un'occhiata al camion,» gli consigliò Tom.
»E' già in ordine.»
«Se non lo è, l'avrai da fare con la mamma.»
«Ti dico che è pronto.» E Al s'allontanò rapidamente.
«Ho la fiacchite anch'io, mamma,» disse Tom, «perché non provi a farmi arrabbiare anche me?» «Te hai più giudizio, Tom. Con te non c'è bisogno di farti montare in bestia. Su te posso contare. Con gli altri... è un'altra cosa. Te non ti lasci andare.»
Tom si sentì punto sul vivo. «Credi? Mi piace poco. Preferirei andarmene a spasso come Al, montare in bestia come il babbo, e ubriacarmi come zio John.»
La mamma scosse la testa. «Non è vero, Tom, so che non è vero. L'avevo già capito fin da quando eri bambino. C'è della gente che resta sempre se stessa e nient'altro. Al è solo un bamboccio che ha le ragazze per la testa. Tu non sei mai stato così, Tom.»
«Come no? E lo sono ancora.»
«Non è vero.» La mamma trasse le posate dalla secchia e le mise in cima alla pila dei piatti. «Rosatè, asciugali te e mettili via.»
Rosa Tea s'alzò, leggermente ansante, con l'addome prominente, s'appressò pigra alla cassetta e prese uno dei piatti lavati. La mamma le domandò: «Hai visto i bambini?»
«Son corsi dietro al babbo.»
«Tu come ti senti?»
«E' molto che non bevo un po' di latte, come dovrei.»
«E' vero, ci vuol pazienza, non ne avevamo.»
«Se Connie non fosse andato via, a quest'ora avremmo la nostra casetta e lui potrebbe studiare e tutto. E avrei anche il latte che mi ci vuole. E potevo avere un bel bambino. Ora mica viene su bene... mi ci vorrebbe del latte.» Mise una mano nella tasca del grembiale, ne trasse qualcosa e se la portò alla bocca.
«Cosa stai ciucciando?»
«Niente.»
«Su, fammi vedere.»
«E' niente, solo un pezzo di calcinaccio.»
«Calcinaccio?» La mamma restò senza parola, ma solo un momento; si sedé su una cassetta. «Ti capisco, Rosatè. Anch'io, una volta che aspettavo uno di voi, ho mangiato un pezzo di carbone, un pezzo intero. Così, avevo voglia. La nonna m'ha sgridata. Ma senti, Rosatè, non metterti in testa delle idee storte, riguardo al bambino. Non hai neanche il diritto di pensarle, quelle cose.»
«Senza latte! Senza marito!»
«Se non era perché sei incinta,» disse la mamma, «ti prenderei a schiaffi.» S'alzò, andò sotto la tenda e ne tornò fuori dopo mezzo minuto andando a piantarsi davanti alla figlia: «Guarda cos'ho in mano.» Erano gli orecchini d'oro. «Te li do.»
Gli occhi di Rosa Tea luccicarono per un istante, poi la ragazza distolse lo sguardo. «Non ho i buchi,» mormorò.
«Te li faccio io,» decise la mamma. Scomparve sotto la tenda e riapparve subito con una scatoletta di cartone in mano. Infilò un ago, sdoppiò il filo e vi praticò una serie di nodi a breve intervallo l'uno dall'altro. Infilò un secondo ago e ripeté la stessa operazione al filo. Poi tagliò un sughero in due. Pose uno dei pezzi di sughero dietro il lobo d'un orecchio di Rosatè e spinse l'ago attraverso il lobo così che si conficcasse nel sughero. Rosa Tea fece una smorfia. «Punge, fa male!»
«E' niente. Già finito. Ora l'altro.» Ripeté l'operazione sull'altro orecchio. «Ecco fatto.» Tolse i sugheri, sfilò gli aghi e lasciò i fili pendenti dai forellini. «Ora tutti i giorni fai scorrere un nodo in avanti, e in un paio di settimane sei a posto, puoi portare gli orecchini. To', sono tuoi, ora.»
Rosa Tea si toccò delicatamente gli orecchi e si guardò sui polpastrelli la stilla di sangue. «Non fa niente male,» disse, «ha solo punto un pochino.»
«Avrei dovuto bucarteli prima, ma ad ogni modo adesso è fatto. Su, finisci quei piatti, ora, e vedrai che avrai un amore di bambino.»
Al camminava baldanzosamente verso la pista da ballo. Passando davanti ad una tenda fischierellò poche note di un'arietta di richiamo e proseguì verso il reticolato di cinta. Si sedette sull'erba in attesa, si grattò le gambe e si mise a contemplare il cielo della sera. Ad occidente le nuvole, spentosi il rosso degli orli, erano delle masse scure. Di lì a poco, vide venire la biondina: graziosa, dai lineamenti decisi. Sedette anch'ella sull'erba vicino a lui, e stettero senza parlare. Egli le cinse la vita con un braccio e con le dita le carezzò il fianco. «No, mi fai il solletico,» disse lei.
«Domani si parte,» annunciò Al.
La ragazza si volse verso di lui, allarmata. «Domani? Dove?»
«Al nord.»
«E allora non ci sposiamo?»
«Certo che ci sposiamo, ma non adesso.»
«Hai detto che ci sposavamo presto.»
«Presto, sì, ma il presto non è ancora venuto.»
«Hai promesso.» E siccome le dita non smettevano di solleticarla, si scostò. «Va' via, hai detto che mi sposavi.» «E lo ripeto.»
«Ma te ne vai.»
«Ma cos'è che hai, mica sei incinta, per caso?»
«No.»
Al rise. «Ho sprecato il tempo, vero?»
Ella protese il mento, petulante, e scattò in piedi.
«Vattene via, Al Joad, non ti voglio più vedere, non voglio più saperne di te.»
«No? E cos'è successo?»
«Si crede che io gli corra dietro. Stai fresco. Conosco un mucchio di giovanotti più simpatici di te.» «Ma senti...»
«Non sento niente. Non voglio più saperne di te.»
Al avanzò un braccio, la agguantò per la caviglia e la fece cadere, accogliendola tra le braccia prima che toccasse terra, e la coricò sulla schiena, e le posò una mano sulla bocca furente. Ella tentò di mordergliela, ma lui si limitò a sollevare la palma senza lasciare la presa, e con l'altro braccio le inchiodò le spalle a terra. Ella non tardò a calmarsi e l'attimo seguente si dibattevano nell'erba asciutta, tra risatine soffocate.
«Vedrai che saremo presto di ritorno,» disse Al, «e con le tasche piene di quattrini. Ti porto a Hollywood a divertirti.» Era sopra di lei, distesa sulla schiena, e vide nei suoi occhi riflesse con le stelle anche le nuvole nere. «Faremo il viaggio in ferrovia,» le promise.
«E quando, credi?»
«Chi sa, fra un mesetto,» assicurò Al.
La notte calò sugli uomini accoccolati davanti all'ufficio dell'amministrazione. Erano tutti capifamiglia che meditavano sul futuro. L'amministratore, nel suo abito bianco un poco sfilacciato ma sempre pulito, s'appoggiava alla ringhiera del portico d'ingresso. Aveva l'aria stanca.
Hudson, notandolo, gli disse: «Faresti bene ad andare a dormire.»
«Credo anch'io. Ho dovuto far da levatrice la notte scorsa, al Numero Tre.»
Il babbo disse: «Noi partiamo domattina.»
«Sì? E dove andate?»
«Pensavamo di andare un po' a nord. Per vedere d'arrivare in tempo per il cotone. Qui non s'è trovato niente e non s'ha più da mangiare.»
«Siete sicuri di trovarne lassù?» chiese Huston.
«No, ma siamo sicuri di non trovarne qui.»
«Fra poco ci sarà,» disse Huston. «noi restiamo.»
«Ma noi non possiamo aspettare. Ci rincresce andar via, ma si deve pur mangiare. Si stava così bene, tutta brava gente, si faceva il bagno tutti i giorni. Mai stato tanto pulito in vita mia. Strano, però: quando facevo sì e no un bagno alla settimana, non puzzavo mai; adesso se salto un giorno, puzzo. Come si spiega?»
«Prima non sentivate il puzzo perché ci eravate abituato,» disse l'amministratore.
«Sarà. Mi piacerebbe restare qui.»
L'amministratore si portò le palme alle tempie. «Mi sa che stanotte ne nasce un altro,» disse. «Noi s'avrà tra poco un parto in famiglia,» disse il babbo. «Sarebbe stato bello poterlo festeggiare qui.»
Tom era seduto con Eaton, e con Jule il meticcio sull'orlo della pista da ballo, dondolando le gambe. «Ho un pacchetto di tabacco,» disse Jule, «chi vuol farsi una sigaretta?»
«Accetto volentieri,» disse Tom, «non fumo da un'eternità.» Si arrotolò la sigaretta con molta cura, per non perdere un filo di tabacco.
«Sicuro,» disse Eaton, «ci rincresce che partite. Brava gente la vostra famiglia.»
Tom s'accese la sigaretta. «Era un pezzo che ci pensavo. Se solo potessimo stabilirci in un posto o l'altro.»
Jule si riprese il pacchetto di tabacco. «Già, mica bello. Io ho una bambina. Speravo venendo qui di poterla mandare a scuola. Ma non si è mai sicuri di restare in un posto. Non si fa in tempo ad arrivare che già bisogna smammare.»
«Purché non ci tocchi di finire in qualche altra Hooverville,» disse Tom. «Ho avuto davvero paura laggiù.»
«Ve le hanno date, gli sbirri?»
«Avevo paura che ammazzavo qualcuno,» disse Tom. «Ci siamo fermati solo poche ore, ma sono stato nervoso tutto il tempo. Uno sbirro ha arrestato un mio amico solo perché aveva parlato senz'essere interrogato.»
«Mai stato in uno sciopero?» domandò Eaton.
«No.»
«Io sì. E da allora ho riflettuto parecchio. Perché non vengono anche qui, i poliziotti, a far casino come fanno m tutti gli altri campeggi? Credete che sia solo perché quell'ometto dell'amministrazione non li lascia entrare? Nossignore.» «E perché, allora?» domandò Jule.
«Non vengono perché hanno fifa. Sanno che siamo tutti uniti, e prima di darci noia ci pensano due volte. Con pochi uomini isolati, possono fare i prepotenti; ma contro duecento uomini uniti no.» «Già,» disse Jule, «bisognerebbe tutti unirsi in sindacati. Ma allora ci vogliono dei capi. Be', la polizia schiaffa dentro questi capi, e addio sindacati.»
«Son cose che non si possono neanche discutere,» disse Eaton, «troppo complicate! Incomprensibili. Uno che ha una pariglia di cavalli, deve pur nutrirla anche se non la fa lavorare; ma se uno ha degli uomini che lavorano per lui, se ne infischia e li tratta peggio di schiavi. Segno che i cavalli sono più preziosi degli uomini. Io non lo capisco.»
«Neanche io lo capisco,» disse Jule, «così non ci voglio neanche pensare. Io per esempio ho questa bambina, come ho detto, e sapete com'è bellina, le han persino dato il premio di bellezza, il mese scorso; bene, sapete cosa le sta succedendo? Sta diventando magra, e io non posso farci niente. E' così bellina. Un giorno o l'altro va a finire che non resisto più e allora...»
«Cosa vuoi fare,» disse Eaton, «rubare, per finire in galera; ammazzare qualcuno, per finire sulla forca?»
«Non so, non so, ed è per questo che a pensarci divento matto.»
«Per me,» disse Tom, «quel che mi rincresce di più è di perdere quelle feste da ballo. Mai visto feste così belle. Ci si divertiva da matti. Be, credo che vado a dormire. Salute. Spero di rivedervi da qualche parte.» Si strinsero le mani.
«Ci rivedremo certo,» disse Jule.
«Be', arrivederci,» e Tom si allontanò nell'oscurità.
Nell'oscurità della tenda Ruth e Winfield stavano coricati sotto la coperta vicino alla mamma. Ruth bisbigliò: «Mamma.»
«Che c'è? Non dormi ancora?»
«Mamma, ci sarà il croquet nel posto dove andiamo?»
«Non so, ora dormi, bisogna alzarci presto.»
«Io sarei più contenta di restare qui dove siamo sicuri che c'è.»
«Zitta.»
«Mamma. Oggi Winfield ha picchiato un bambino.»
«Ha fatto male.»
«Gliel'ho detto anch'io, ma gli ha dato un pugno sul naso, e mondo boia, avessi visto quanto sangue perdeva.»
«Ruth, non dir parolacce. Mica bello che parli così.»
Winfield scattò su a sedere e gridò in tono risentito: «M'aveva detto che ero un Okie. Diceva che lui non era un Okie perché è dell'Oregon e che noi siamo tutti dei maledetti Okies e io gli ho tirato un pugno.»
«Zitto! Non dovevi. Dovevi lasciarlo dire. Giù, adesso, dormi.»
Winfield si ricoricò sotto la coperta. Ruth disse: «Dovevi vedere quanto sangue gli usciva, gli ha sporcato tutto il vestito!»
La mamma tirò fuori una mano di sotto alla coperta e le tirò un orecchio. Ruth s'irrigidì per un momento, ma la sua indignazione non tardò a dissolversi in silenziosi e deboli singhiozzi.
Sotto la tettoia il babbo e zio John sedevano in due gabinetti adiacenti. «Meglio non sbrigarci, se dev'essere l'ultima,» disse il babbo. «Ti ricordi il primo giorno lo spavento che han preso i bambini, quando hanno tirata la catena?»
«E' stata una sorpresa anche per me,» disse zio John. Si tirò su i pantaloni per coprirsi le ginocchia. «Mi sento ridiventare cattivo, sai. Sto per peccare di nuovo.»
«Senza soldi non puoi,» disse il babbo. «Siedi lì e non pensare ad altro. Occorrono almeno due dollari per peccare; e non li abbiamo tra tutt'e due.»
«Comunque, l'intenzione è già peccato.»
«Ah, va bene, ma non costa niente.»
«Son questi bei gabinetti che mi fanno venir la voglia di peccare.»
«E allora dovevi andare nel bosco. Su, tirati su i pantaloni e andiamocene a dormire.» Il babbo si abbottonò i suoi e affibbiò la cinghia. Tirò la catena e restò pensieroso a contemplare l'acqua gorgogliare.
Era ancora notte quando la mamma dette la sveglia. «Alzarsi. Si parte. E' quasi giorno.» Aprì il cigolante sportello della lanterna e accese lo stoppino. «Sveglia, tutti quanti.» Coperte e cuscini presero a muoversi, e occhi sonnacchiosi guatarono risentiti la fiamma della lanterna. La mamma infilò il vestito sulla camicia da notte. «Caffè non ce n'è. C'è rimasta qualche galletta che mangeremo per strada. Su, vestirsi. E caricare. E fate piano, per non svegliare gli altri.» Passò qualche momento prima che la famiglia fosse completamente sveglia. La mamma ammonì i bambini: «Non v'allontanate, voi due.»
La famiglia fu presto vestita. Gli uomini smontarono il telone e caricarono l'autocarro, sempre tra gli incitamenti della mamma. Sulla pila delle masserizie sistemarono i materassi e assicurarono il telone ai montanti. «Ecco, mamma, si è pronti,» disse Tom.
La mamma distribuì le gallette. «Ecco qui, prendetene una per uno, non c'è altro.» Ruth e Winfield arraffarono la loro e si arrampicarono sul carico, si cacciarono sotto una coperta e si addormentarono di nuovo, tenendo le gallette in mano. Tom prese posto al volante e avviò la messa in moto. Il motorino ronzò un momento, e si fermò. «Maledizione, Al,» imprecò, «hai lasciato scaricare la batteria.»
Al reagì vivamente: «Come diavolo potevo tenerla carica, senza benzina?»
Tom ridacchiò. «Io non so niente, ma è certo che è colpa tua. Dunque prendi la manovella e sgobba.»
«Ti dico che non è colpa mia, ti dico.»
Tom si chinò e prese la manovella. «Allora la colpa è mia,» disse con sarcasmo.
«Dammi quella manovella,» replicò Al strappandogli di mano l'arnese. «E togli il contatto. Mica voglio rimetterci un braccio.» Dovette dare parecchi giri. Il motore attaccò, starnutì e ruggì. Tom ridette il contatto e ridusse il gas.
La mamma prese posto vicino a lui. «Avremo svegliato tutti quanti,» commentò.
«Si riaddormenteranno.»
Al si accomodò alla destra della mamma dicendo: «Il babbo e zio John son saliti dietro per dormire.»
Tom si avviò all'uscita. Il custode uscì dal suo casotto e fece luce con la lampadina tascabile. «Un momento,» disse.
«Cosa volete?»
«Partite definitivamente?»
«Sì.»
«Allora devo cancellarvi.»
«Cancellate.»
«Da che parte andate?»
«Al nord.»
«Be', buona fortuna.»
«Altrettanto a voi. Arrivederci.» Tom prese la cunetta con cautela e salì adagio sulla strada, voltò nella direzione donde erano venuti, oltrepassò Weedpatch e sboccando sulla 99 prese a nord verso Bakersfield. Quando ne raggiunse la periferia, albeggiava. Tom disse: «Dappertutto dove guardi c'è una trattoria. Vedi quella: aperta tutta la notte. Capace d'esserci dieci bidoni di caffè, pronto e fumante, lì dentro.»
«Oh, piantala,» disse Al.
Tom ghignò e gli dette una sbirciatina. «Al, è vero che t'eri fatta una morosa?»
«Che te ne frega a te?»
«E' cattivo stamattina, vero, mamma? Non è una compagnia allegra.»
Al disse, irritato: «Appena posso mi metto per conto mio. E' molto più facile da solo, che con la famiglia sulle spalle.»
Tom ribatté: «Tra nove mesi ne avrai una tutta per te. T'ho visto, sì, ronzare attorno a quella bionda.»
«Sei matto! Mi trovo un posto in un garage e mangio in trattoria.» «Con una moglie e un bambino tra nove mesi.» «Oh, smettetela!» disse la mamma.
«Colpa mia,» disse Tom, «ho cominciato io, ma scherzavo. Scusa, Al, non credevo che fossi cotto così.»
«Cotto un corno.»
«No? Tanto meglio.» L'autocarro entrò in città.
«Ma guarda quanti caffè... saranno centinaia.»
La mamma disse: «Tom, io ho un dollaro messo da parte. Hai tanta voglia di caffè da sentirti di spenderlo?»
«Ma no, mamma, scherzavo.»
«E allora piantala con questi caffè,» borbottò Al.
Tom stette zitto per qualche tempo. «Ecco là la strada che abbiam fatta quella notte,» osservò poi. «Ah, non farmici pensare,» disse la mamma, «è stata una brutta notte.» «Me l'ero vista brutta anch'io,» disse Tom.
Il sole si levò sulla loro destra e gettò l'ombra dell'autocarro sulla sinistra. Passarono davanti alla ricostruita Hooverville. «Eccola ripopolata,» disse Tom. «Sembra che non è successo niente.»
Al smise il broncio. «C'è delle famiglie, m'han detto, che hanno dovuto smammare, per via degli incendi, quindici venti volte. Non fanno che nascondersi nei boschi, e poi tornano a far su un'altra capanna. Talmente abituati che non s'arrabbiano neanche più. Lasciano passare la bufera, e poi riprendono la vita di prima.»
«Proprio una bufera d'inferno, per me, quella notte,» commentò Tom. L'autocarro procedeva rapido sulla grande strada e i tiepidi raggi del sole li fecero rabbrividire. «Comincia a far freschino al mattino,» disse Tom. «Speriamo di far qualche soldo prima dell'inverno. Non è molto divertente sotto la tenda, l'inverno.»
La mamma sospirò, ma alzò la testa. «Tom,» disse, «per quest'inverno dobbiamo avere una casa. Assolutamente necessario. Ruth sta bene, ma Winfield è meno robusto. Dobbiamo avere una casa prima che vengano le piogge. M'han detto che qui diluvia.»
«La troveremo, mamma, sta' tranquilla. La casa l'avrai.»
«Mi basta un tetto e un pavimento. Perché i bambini non restino proprio nel fango.» «Si cercherà, mamma.»
«Non voglio lamentarmi, ma alle volte mi prende la paura, e perdo il mio coraggio.»
«Non t'ho mai visto perderlo.»
«M'è già capitato, di notte; lo so io.»
Udirono un sibilo acuto proveniente dalle ruote anteriori. Tom tenne stretto il volante e rovesciò la leva del freno. Il veicolo s'arrestò con un sobbalzo. «Stavolta è andata,» sospirò Tom appoggiandosi allo schienale. Al s'era già slanciato fuori, e corse a vedere il pneumatico destro. «Un grosso chiodo,» disse. «Toppe ce n'è?»
«Toppe sì, ma mastice no.»
Tom si volse alla mamma con un mesto sorriso. «Non avresti dovuto denunciare quel tuo dollaro,» disse, «avremmo ugualmente rimediato in qualche modo.»
Saltò giù, e si avvicinò alla gomma a terra. Al gli indicò il chiodo che sporgeva dal copertone. «Se ce n'è uno in tutto il paese,» disse Tom, «è certo che ce lo prendiamo noi.» «E' grave?» domandò la mamma.
«No, ma dobbiamo rimediare.»
La famiglia si sgretolò giù dal carico. «Foratura?» domandò il babbo, e vedendo la gomma chiuse la bocca.
Tom fece spostare la mamma per prendere sotto il sedile il barattolo delle toppe. Trovò anche un tubetto di mastice e lo schiacciò fra le dita. «E' quasi secco,» disse, «ma forse basta. Animo, Al, blocca le posteriori e tira fuori il cricco.»
Tom e Al lavoravano bene, insieme. Misero due grosse pietre dietro alle ruote, inserirono il cricco sotto l'asse anteriore e tolsero il peso dalla gomma a terra. Levarono il copertone. Trovarono il foro nella camera d'aria, intinsero uno straccio nel serbatoio e lavarono i contorni del buco nella gomma. E mentre Al teneva la camera d'aria ben distesa sul suo ginocchio, Tom ruppe in due il tubetto del mastice e spalmò la pasta delicatamente sulla gomma servendosi del suo temperino. «Lasciamola seccare mentre taglio una toppa.» La tagliò con cura smussandone gli orli per quanto possibile e la posò sul buco mentre Al tendeva con le mani la camera d'aria, e quando la toppa fu a posto, Al posò la camera d'aria sul predellino e Tom saldò la toppa a piccoli colpi di martello. «Ecco fatto. Credo che tiene. Montala su, e pompiamo a turno. Mamma, sta' a vedere che t'ho salvato il dollaro.» «Dovremmo averne almeno una di ricambio,» borbottava Al, montando la camera d'aria sul cerchione.
«Quando avremo i soldi per comprarne una,» disse Tom, «è più facile che li spenderemo in trattoria.»
Il leggero traffico mattutino scorreva rapido sullo stradone e il sole si faceva caldo e splendente. Un venticello spirava a folate da sud-ovest e i due versanti dell'ampia vallata si perdevano in una nebbia color perla. Tom era di turno alla pompa quando una vettura a due posti proveniente: da settentrione si fermò all'altezza dell'autocarro sull'altro lato della strada. Ne uscì un uomo dalla faccia abbronzata che portava un abito grigio da città ed era senza cappello. Venne tutto sorrisi alla volta di Tom. La sua dentatura spiccava bianchissima sul bruno della pelle. Aveva nel medio sinistro una grossa fede d'oro, ed alla catena dell'orologio di traverso al panciotto, un ciondolo d'oro che rappresentava un pallone da calcio. «Buon giorno,» disse affabile.
Tom smise di pompare e guardò in su: «Buon giorno.»
L'uomo si passò le dita nei corti capelli grigi. «Cercate lavoro voialtri?»
«Sicuro, dappertutto, magari sotto terra.»
«Sapete cogliere le pesche?» «Mai provato,» disse il babbo.
«Sappiamo far di tutto,» s'affrettò a dire Tom, «cogliamo tutto quel che c'è da cogliere.»
L'uomo giocherellò con le dita col palloncino d'oro. «Be', troverete quanto lavoro volete a una sessantina di chilometri a nord.»
«Non domandiamo altro,» disse Tom. «Diteci solo come possiamo arrivarci e si va in un balzo.» «Andate diritto fino a Pixley, saranno un cinquanta chilometri, poi voltate a destra, fate altri dieci chilometri, e domandate e chiunque saprà dirvi dov'è il ranch di Hooper. Trovate lavoro quanto ne volete.»
«Ci andiamo certo.»
«Sapete indicarmi dove trovo altra gente in cerca di lavoro?»
«Certo, signore. Al campo di Weedpatch: è pieno.»
«Farò una corsa fin là. Abbiamo bisogno di tanta gente. Allora ricordatevi: a Pixley girate a destra e domandate dov'è il ranch di Hooper.»
«Lo troviamo, non dubitate. E grazie, signore.»
«Non c'è di che. Mettetevi in moto il più presto possibile.» Se ne tornò alla vettura, prese posto al volante e partì nella direzione di Weedpatch.
Tom gettò tutto il peso del corpo sulla pompa. «Venti colpi per uno,» ordinò. «Uno, due, tre, quattro...» Dopo il ventesimo Al gli diede il cambio, e poi il babbo e poi zio John. La gomma si gonfiava e riprendeva la forma normale. I quattro uomini si dettero il cambio tre volte. «Ora leva il cricco e vediamo,» ordinò Tom. Al ubbidì. «Va bene. Forse è fin troppo gonfia.» Gettarono gli arnesi nell'autocarro. «Ora si fila via, s'è finalmente trovato qualcosa.»
La mamma si rimise nel mezzo, e Al prese lui il volante. «Non esagerare, al principio,» gli raccomandò Tom.
La strada correva tra i campi immersi nel sole del mattino. La nebbia diradandosi rivelava i colori della vegetazione sui versanti screziati di viola. Al passaggio del camion le tortore svolazzavano via dalle siepi di cinta. Al istintivamente accelerava l'andatura. «Piano,» raccomandò Tom, «può scoppiare, gonfia com'è, e non dobbiamo correr rischi. C'è persino la possibilità di trovar lavoro oggi stesso.»
La mamma disse, eccitata: «Con quattro uomini che lavorano, è persino possibile ottenere credito subito. Prima cosa, prendo del caffè, e lo prendo perché Tom ne ha una voglia matta, poi la farina e il lievito, e poi la carne, qualunque sia: per la costata possiamo aspettare fino a sabato. Oh, e poi sapone; indispensabile. Chi sa come ci sistemiamo questa volta.» Continuava a borbottare quasi tra sé costruendo progetti. «E il latte, dimenticavo, il latte per Rosatè.»
Una biscia traversò serpeggiando il piano stradale che scottava nel sole. Al sterzò, la schiacciò e tornò sulla destra. «Che male faceva?» protestò Tom. «Porta iella.»
«Le schiaccio sempre. Non posso vederle. «Mi fanno schifo.»
Il traffico antimeridiano s'infoltiva: sfavillanti vetture di commessi viaggiatori con la sigla delle ditte dipinte sulle fiancate, gigantesche autobotti rosse o bianche, furgoni grossi e piccoli dei grandi magazzini per consegne a domicilio. Altrettanti segni della ricchezza della regione. Colli ubertosi, orti lussureggianti, vigne ottimamente tenute, campi di grano, campi di meloni, casette bianche nascoste nel verde e vestite di rose rampicanti. E il caldo sole d'oro.
Sul sedile anteriore la mamma, Tom ed Al traboccavano di entusiasmo. «E' da un pezzo che non mi sentivo così su di morale,» disse la mamma. «Se le pesche son tante, chi sa che non si può prendere una casa, pagare l'affitto per un paio di mesi. Sarebbe bello avere una casa.»
Al disse: «Se metto da parte qualcosa, io me ne vado in città a trovarmi un posto in un garage. Una camera mobiliata e i pasti in trattoria. Cinema tutte le volte che voglio; mica costa poi tanto; film di cowboys.» Le sue dita s'agitavano nervose sul volante.
Il radiatore bolliva e fumava. «L'acqua ce l'hai messa?» domandò Tom. «Pieno. Abbiamo il vento alle spalle, perciò bolle.» «Gran bella giornata,» disse Tom.
Il sole s'avvicinava allo zenit e l'ombra dell'autocarro si ritirava sotto le ruote. «Siamo quasi a Pixley,» disse Al, «ho visto un cartello poco fa.»
Attraversarono il paesetto e voltarono a destra per una strada secondaria. «Chi sa se avremo difficoltà a trovare il posto,» disse Tom.
La mamma disse: «Quel signore ha detto il ranch di Hooper, ha detto che chiunque ci sa dire dov'è. Spero che ci sarà una bottega nelle vicinanze, mi faranno credito, con quattro uomini che lavorano.
Potrei prepararvi proprio una buona cena, se mi fanno credito; zuppa di bollito, magari.»
«E caffè,» disse Tom, «e magari un pacchetto di tabacco; è un secolo che non fumo.»
Poco dopo trovarono la strada bloccata. Sulla destra erano fermi alcuni veicoli, simili al loro, e sulla sinistra parecchie motociclette bianche in fila. «Qualche incidente,» disse Tom. Ma quando raggiunsero la coda dei veicoli fermi, un agente della polizia di stato, in cinturone e stivaloni, uscì dalla fila e fece loro segno di fermare, si avvicinò e domandò ad Al, con tono amichevole: «Dove andate?»
Al disse: «Un signore ci ha detto che c'è da cogliere pesche da queste parti.»
«Così siete venuti in cerca di lavoro?»
«Avete indovinato,» disse Tom. «proprio così.»
«Aspettate qui un momento.» Si trasportò sul lato della strada e gridò in avanti: «Ne è arrivato un altro. Fanno sei. Potete cominciare a far avanzare questo drappello.»
Tom lo chiamò: «Ehi! Che è successo?»
L'agente si riavvicinò con comodo, e rispose: «Un po' di disordine. Non c'è da preoccuparsi. Seguite solo la colonna.»
La colonna si mosse, con due motociclette in testa e due in coda. Tom disse, preoccupato: «Cosa sarà successo?» «Ci sarà la strada interrotta,» disse Al.
«Mica ci sarebbe bisogno di quattro poliziotti a farci da scorta. No, non mi piace proprio.»
Le motociclette in testa accelerarono l'andatura, i vecchi veicoli incolonnati stentavano a mantenere il contatto, Al stesso faticava a non lasciarsi distanziare. «E' tutta gente come noi,» disse Tom. «No, non mi piace.» D'un tratto le motociclette di testa sterzarono fuori dalla strada e imboccarono l'ingresso inghiaiato d'una tenuta privata, sempre seguite dalla colonna dei veicoli. Sembrava che i motociclisti facessero rombare apposta i motori il più forte possibile. Tom vide, nel fosso che costeggiava la strada, forse un centinaio di uomini e donne schiamazzanti, con voci e gesti minacciosi, all'indirizzo dei sei veicoli in colonna. La colonna si inoltrò per un cancello che venne richiuso immediatamente. Le quattro motociclette fecero dietro front e ripartirono nella direzione donde erano venute; e appena si furono allontanate, si poterono udire chiaramente le grida e gli schiamazzi della gente vista lungo il sentiero.
Due uomini armati di fucile si presentarono alla testa della colonna. «Avanti, avanti! Cosa diavolo state aspettando? Avanti!» I sei veicoli ripresero la marcia, imboccarono una curva e si trovarono d'un tratto in un frutteto.
Tutti peschi. Su un lato stavano, in varie file che formavano un quadrato, una cinquantina di casotti in legno, ciascuno munito d'un solo finestrino, e lì vicino c'era un alto serbatoio per l'acqua e una bottega di derrate alimentari. Alle estremità di ciascuna fila stavano due uomini armati di fucile, con una grossa stella d'argento appuntata sul petto. I sei veicoli si fermarono. Due contabili s'avvicinarono ai veicoli uno dopo l'altro.
«Cercate lavoro?»
Tom rispose: «Certo, ma che succede?»
«Non vi riguarda. Volete lavoro?»
«Certo.»
«Nome.»
«Joad.»
«Quanti uomini?»
«Quattro.»
«Donne?»
«Due.»
«Bambini?»
«Due.»
«Tutti in grado di lavorare?» «Be'... credo di sì.»
«Bene. Casotto sessantatré. Paga cinque cents la cassetta. Ma le pesche ammaccate non contano.
Andate pure. Potete cominciare subito.»
Ogni casotto era numerato. «Sessanta,» disse Tom, «dev'essere questa fila, sessantuno, sessantadue... eccolo.»
Al fermò l'autocarro dinanzi alla porta. La famiglia smontò e si guardò attorno sconcertata. Sopraggiunsero due agenti, scrutando ognuno in faccia.
«Nome?»
«Joad,» sbottò Tom con impazienza. «Ma insomma, si può sapere che succede qui?»
Uno degli agenti stava scorrendo un lungo elenco di nomi: «Non c'è. Mai visto queste facce?
Vediamo la licenza. Niente da dire.»
«Dunque state attenti. Non vogliamo grane. Fate il vostro lavoro, non occupatevi di ciò che non vi riguarda, e andrà tutto bene. » Fecero dietro front e s'allontanarono e in fondo alla fila si misero a sedere, su due cassette, in modo da sorvegliare lo stretto passaggio tra i casotti.
Tom li aveva accompagnati con lo sguardo. «Certo che ci fanno sentire come a casa nostra,» disse. La mamma aprì la porta ed entrò nel casotto. Sul nudo e sudicio pavimento non c'era che la stufa: una stufetta di ferro posata su quattro mattoni, col tubo che usciva dal tetto. C'era puzzo di sudore e di lubrificante. Rosa Tea disse: «Dobbiamo venire a stare qui dentro?»
La mamma non rispose subito, ma poi si decise: «Perché no? E' passabile, una volta che abbiamo fatto pulizia.»
«Meglio la tenda,» disse Rosa Tea.
«Ma quando piove,» disse la mamma, «è meglio il pavimento di legno.» Si voltò e ordinò: «Meglio scaricare.
Gli uomini scaricarono senza parlare. Erano sconcertati e un po' impauriti. Tra i casotti, nessun rumore. Passò una donna, a testa bassa, con la sottana sfilacciata agli orli; e non li guardò nemmeno. Ruth e Winfield erano come paralizzati, non corsero attorno per ispezionare il luogo, restarono appiccicati alla famiglia, contentandosi di lanciare sguardi desolati su e giù lungo la corsia tra i casotti. Winfield, trovato un pezzo di fil di ferro, lo torceva tra le dita, finché lo ruppe, ed il pezzetto rimastogli in mano diede la forma di una manovella, che continuava a rigirarsi tra le dita. Tom e il babbo stavano trasportando i materassi quando arrivò un impiegato, con gli occhiali a lenti molto convesse; sguardo da miope ma penetrante. Si sporse in avanti per parlare a Tom. «Devo registrarvi,» disse. «Quanti siete a lavorare?»
«Quattro uomini,» disse Tom. «Lavoro duro?»
«Cogliere pesche. Paga cinque cents la cassetta.»
«Mica c'è per caso qualche ragione che impedisca ai bambini di aiutare?»
«Certo no, se fanno bene.»
La mamma stava in piedi sulla soglia. «Appena sistemati aiuto anch'io. Solo voglio sapere una cosa: non abbiamo niente da mangiare, ci pagano subito?»
«In denaro no, ma in buoni, che potete scontare in bottega.»
«Allora sbrighiamoci,» disse Tom, «stasera voglio mangiare un pezzo di carne. Dite un po', dove s'ha da andare al lavoro?»
«Sto andando sul posto; venite con me.»
I quattro uomini lo accompagnarono lungo la polverosa corsia finché raggiunsero i peschi. Le strette foglioline cominciavano ad ingiallire, i frutti pendevano dai rami come globi gialli e rossi. Tra gli alberi erano ammucchiate in colonne le cassette vuote. I lavoranti formicolavano attorno, riempiendo di pesche le secchie che portavano infilate in un braccio, vuotando le secchie nelle cassette, e portando le cassette al deposito, dove le cassette s'ammucchiavano in attesa dei camion, e dove stavano gli impiegati incaricati di controllare lo stato dei frutti e registrare i nomi dei raccoglitori.
«Eccone altri quattro,» disse l'impiegato a un suo collega.
«Mai fatto questo lavoro?» domandò costui.
«Mai,» rispose Tom.
«Be', attenti a non ammaccare le pesche, e non cogliete quelle a terra. I frutti guasti, o ammaccati, vengono respinti. Prendete lì le secchie.»
Tom ne prese una e vi guardò dentro. «Piena di buchi sul fondo.»
«Apposta,» dichiarò l'impiegato, «se no ce le rubano. Via, prendete questo settore; svelti.»
I quattro Joad presero le loro secchie e si inoltrarono tra gli alberi. «Non ci fanno perdere tempo,» disse Tom.
«Puttana della miseria,» bofonchiò Al, «cento volte meglio il lavoro in un garage.»
Il babbo, che finora si era mosso docilmente come un automa, si voltò stizzito. «Piantala, Al, con questo garage. Mettiti a lavorare; non sei ancora alto abbastanza da impedirmi di lasciarti andare una sberla.»
Al, rosso di rabbia, stava per rispondere, ma Tom gli si fece vicino, e gli disse tranquillamente: «Animo, Al. Carne e pane. Non c'è da discutere.»
Si diedero al lavoro. Staccavano le pesche e le mettevano nelle secchie. Tom era pieno di zelo. Un secchio già pieno; due. Li versò in una cassetta. Tre secchie. Una cassetta piena. «Ho fatto un nichelino,» gridò. Prese la cassetta e si diresse rapido al deposito e arrivando la consegnò dicendo:
«Qua, un nichelino di merce.»
L'impiegato guardò la cassetta e rivoltò tra le mani un paio di pesche. «Tutte ammaccate,» disse, «vi avevo avvisato. Avete versato le secchie nella cassetta, vero o no? Son tutte ammaccate. Inaccettabili. Deporle ad una ad una, dovete, altrimenti fate una fatica inutile.»
«Uh, diavolo...»
«Silenzio, silenzio. Vi avevo avvisato.»
Tom abbassò gli occhi, disse: «E va bene,» e tornò a rapidi passi verso gli altri e diede uno sguardo alle loro cassette. «Tutto da rifare,» disse, «sono come la mia. Non le accettano.» «E cosa diavolo vogliono...» cominciò Al.
«Bisogna deporle ad una ad una. Proibito versare le secchie.»
Ricominciarono tutti daccapo, e questa volta trattarono le pesche con ogni riguardo, ma le cassette si riempivano più lentamente. «Dovremmo organizzare il lavoro,» disse Tom. «Se Ruth e Winfield e Rosatè ci aiutano, studiamo un sistema per lavorare più in fretta.» Portò al deposito la sua nuova cassetta. «Questa vale un nichelino?» domandò all'impiegato.
L'altro verificò anche gli strati inferiori. «Meglio,» disse. Accettò la cassetta, la contrassegnò, registrò il nome di Tom. «Per lavorare bene non bisogna aver fretta,» disse.
Tom tornò di corsa. «Ho fatto un nichelino,» gridò, «basta far questo venti volte per avere un dollaro.»
Lavorarono senza smettere tutto il pomeriggio. A Ruth e a Winfield, comparsi ad una certa ora, il babbo disse: «Lavorate anche voi. Mettete le pesche ad una ad una nella cassetta. Ad una ad una, senza ammaccarle.» I bambini, accoccolati, lavorarono scrupolosamente, trasferendo le pesche dalle secchie alle cassette. Gli uomini continuavano ad allineare davanti a loro sempre nuove secchie. Tom portava le cassette al deposito. Il sistema funzionava benissimo. «Sette,» disse, «otto; fa quaranta cents guadagnati. Si può già avere un discreto pezzo di carne per quaranta cents.»
Il pomeriggio passava lentamente. Ruth tentò di svignarsela. «Sono stanca,» piagnucolava, «voglio un po' di riposo.»
«Sta' dove t'ho messa e tira avanti,» ordinò il babbo.
Zio John lavorava adagio. Riempiva una secchia ogni due di Tom. La mamma arrivò verso la metà del pomeriggio. «Sarei venuta prima,» disse, «ma Rosatè s'è sentita male; un piccolo svenimento.
Avete già mangiato troppe pesche,» disse ai bambini, «avrete mal di pancia.» Si mise subito in faccende; pesante com'era, si muoveva tuttavia spedita; non tardò ad abbandonare la secchia per raccogliere le pesche nel grembiale.
Quando il sole tramontò avevano riempito venti cassette.
Consegnando la ventesima al deposito, Tom disse: «Abbiamo fatto un dollaro. Fino a che ora si lavora?»
«Finché è chiaro.»
«Ma non potete darci un buono adesso? La mamma ha da fare la spesa.»
«Sì, sì, ecco qua.» L'impiegato scribacchiò su un pezzo di carta e lo consegnò a Tom.
Tom lo portò alla mamma. «Eccoti il buono. Alla bottega ti danno roba per un dollaro.»
La mamma si raddrizzò. «Fa piacere, la prima volta, vero?»
«La prima volta sì. Dopo ci si abitua. Su, corri in bottega.»
«Cos'è che volete per cena, ditemi.»
«Carne,» gridò Tom, «carne, e pane, un pentolone di caffè, con molto zucchero. Ma un bel pezzo di carne.»
Ruth piagnucolò: «Mamma, siamo stanchi.»
«Allora meglio che venite con me.»
«Erano già stanchi prima di cominciare,» brontolò il babbo. «Selvaggi come conigli. Bisogna farli rigar diritti.»
«Appena sistemati li mandiamo a scuola,» disse la mamma, e se ne andò di buon passo, timidamente seguita dai bambini.
«Dobbiamo lavorare tutti i giorni?» domandò Winfield.
La mamma lo prese per mano. «E' mica un brutto lavoro disse, «ti fa bene. E aiuti la famiglia, capisci. Se si lavora tutti, fra poco avremo una casa.»
«Ma mi ha stancato tanto.»
«Lo so, anch'io mi sono stancata. Ma è solo la prima volta, non bisogna pensarci, pensa a quando potrai andare a scuola.»
«Io non voglio andare a scuola, e neanche Ruth. A scuola ci chiamano Okies; io non ci voglio andare.»
La mamma abbassò gli occhi sulla zazzera paglierina del suo bambino. «Hai da star buono, adesso, Winfield. Dopo, quando avremo una casa, fa' pure di nuovo i capricci; ma adesso no, abbiamo troppe cose da pensare.»
Ruth dichiarò: «Io ho mangiato sei pesche.»
«Brava, così ti viene la diarrea, e qui non ci sono gabinetti.»
La bottega consisteva in un baraccamento di lamiera ondulata, senza vetrine; la mamma spinse la porta a reticella ed entrò. Dietro al banco stava un ometto completamente calvo, e il suo cranio era d'un bianco azzurrino. Aveva sopracciglia larghe e così arcuate che davano alla sua faccia un'espressione di sorpresa e di sbigottimento insieme. Il naso era lungo, scheletrito e adunco come un becco, e un ciuffo di peli usciva da entrambe le nari. Portava mezze maniche protettive sopra la camicia. Stava appoggiato coi gomiti sul banco, quando la mamma entrò.
«Buon giorno,» disse la mamma.
L'ometto la osservò con interesse, e l'arco delle sue sopracciglia si accentuò. «Come state?»
«Ho qui un buono per un dollaro.»
«Potete avere roba per un dollaro,» rispose l'altro, ghignando da furbo. «Sissignora, un dollaro di roba.» Indicò le mensole: «Qualunque cosa.» Si tirò su le mezze maniche.
«Credo che prenderò un po' di carne, per cominciare.»
«Ne ho di tutte le qualità. Bollito, volete il bollito? Venti cents la libbra, il bollito.»
«Non è un po' caro? L'ultima volta che ne ho comprato ho pagato quindici.»
«Eh,» ghignò l'ometto, «è caro, e d'altra parte, non è caro. Se andate a prenderlo in paese vi costa cinque litri di benzina. Dimodoché qui non è caro perché risparmiate la benzina.»
La mamma disse con severità: «A voi non è costato cinque litri di benzina per portarlo qui.» L'altro rise cordialmente: «Voi guardate la cosa da un falso punto di vista. Qui non lo comperiamo, lo vendiamo. Se lo comprassimo, sarebbe un'altra cosa.»
La mamma posò due dita sulle labbra e aggrottò la fronte. «Mi sembra tutto grasso e nervi.» «Non garantisco che sia tenero,» disse l'ometto, «non garantisco nemmeno che io sarei capace di mangiarlo; ma ci son tante altre cose che non garantirei.»
La mamma gli scoccò un'occhiata feroce ma si contenne. «Non avete della carne meno cara?» «Collo. Dieci cents la libbra.»
«Ma è tutt'osso.»
«Sicuro. Tutt'osso, ottimo per fare il brodo.»
«Costolette ne avete?»
«Costolette sì. Venticinque la libbra.»
«Dovrò rinunciare alla carne,» disse la mamma, «ma vogliono carne, si son raccomandati.»
«Tutti quanti vogliono la carne. Quel bollito però è bello, poco osso, niente da buttar via.»
«Quanto... quanto viene il filetto?»
«Oh, il filetto! Adesso andate nel raffinato. Roba da pranzo di Natale. Roba da Giorno del
Ringraziamento. Trentacinque la libbra. Venderei il fagiano meno caro, se ne avessi.»
La mamma sospirò. «Datemi due libbre di bollito.»
«Pronto.» Mise la carne pallida su un pezzo di carta oleata. «Altro?»
«Be', del pane.»
«Ecco qua. Pagnotta grossa, quindici cents.»
«Quella è da dodici!»
«Infatti, in paese è da dodici, ma ci sono i cinque litri di benzina. Altro? Patate?» «Patate, sì.»
«Cinque libbre per venticinque cents.»
La mamma si mosse torva verso di lui. «Questo è troppo. So benissimo cosa costano in paese.» «E allora andate a comprarle in paese.»
La mamma si guardò le nocche. «Ditemi un po',» chiese sommessa. «Siete il padrone, qui?» «No. Impiegato.»
«Che motivo avete di prendere in giro i clienti?» Continuava a guardarsi le dita. L'ometto non rispose. «Chi è il padrone del negozio?»
«La Hooper Ranches, società per azioni, signora.»
«E' lei che fa i prezzi nel negozio?»
«Sissignora.»
La mamma si decise a guardarlo in faccia, con l'ombra d'un sorriso. «E cos'ho di ridicolo, io, che sentite il bisogno di prendermi in giro?»
«Non prendo mica in giro.» Ma l'ometto aveva vergogna.
La mamma non insisté: «Allora, carne quaranta, pane quindici, patate venticinque. Fa ottanta. Caffè, quanto?»
«Venti cents il meno caro.»
«E così sfuma un dollaro. Sette persone al lavoro, per guadagnarsi questa cena.» Stava considerando il rovescio della mano. «Su, incartate,» disse, con un fare secco.
«Sissignora, grazie.» Incartò le patate con la maggior cura che poté, e i suoi occhi sbigottiti andavano dal pacchetto al viso della mamma e viceversa. Ella lo osservava, sempre col suo sorriso appena accentuato. «Com'è che avete accettato quest'impiego?»
«Bisogna pur mangiare,» cominciò l'ometto, ma subito cambiò tono, e aggiunse bellicoso: «Ho ben diritto di mangiare, no?» Spinse verso la mamma i quattro pacchi. «Carne, patate, pane e caffè. Un dollaro.» E stese la mano. La mamma gli diede il buono, ed egli andò a registrare il nome e l'importo sul mastro. «Siamo pari,» disse.
La mamma prese i pacchi. «Oh, sentite una cosa. Ci manca lo zucchero per il caffè, e Tom mio figlio lo vuole. Se date un'occhiata fuori, li vedete tutti lì al lavoro. Datemi lo zucchero e vi porto il buono più tardi.»
L'ometto guardò altrove. Il più lontano possibile, dalla mamma. Poi disse a voce sommessa: «Non posso. E' contro le regole. Potrei anche rimetterci il posto.»
«Ma vi dico che stanno lavorando, fin da ora si son già guadagnati altri dieci cents. Datemi dieci cents di zucchero, Tom s'è raccomandato tanto.»
«Impossibile, signora, mi spiace. E' contro le regole. Niente buono, niente merce. Ordini precisi del direttore, non fa altro che ripeterli. Se mi pescano mi mandano via. E mi pescano certo. Non posso.» «Per dieci cents?»
«Anche per uno, signora.» Ora guardava la mamma con occhi imploranti. E d'un tratto perdé la paura. Tolse di tasca un diecino e lo incassò nel registratore, poi prese un sacchetto di sotto al banco, lo aprì, pescò dentro col cucchiaio di legno e misurò un etto di zucchero sulla bilancia. Lo incartò e porgendo il pacchetto alla mamma disse: «Ora tutto è in regola. Mi portate il buono e io mi riprendo il mio diecino.»
La mamma lo guardò intenta, lo ringraziò, prese la roba e s'avviò all'uscita, ma prima d'uscire si voltò e disse: «Imparo tutti i giorni che era proprio vero quel che diceva il nonno: in caso di bisogno, rivolgersi solo alla povera gente, mai ai ricchi.» Poi uscì.
L'ometto si appoggiò coi gomiti al banco e restò a guardarla allontanarsi. Un gatto giallo saltò sul banco e venne a strofinarsi contro le sue braccia, e l'ometto lo carezzò e se lo avvicinò alla guancia. Il gatto ronfava di piacere e dimenava la coda.
Era già buio fitto quando i quattro Joad, coi piedi pesanti, rientrarono dal lavoro. «Non credevo,» disse il babbo, «che a coglier pesche ci si rompesse la schiena a questo modo.»
«Bah, dopo un paio di giorni ci si abitua,» disse Tom. «Senti, babbo, dopo mangiato conto di andar fuori a vedere cos'era quel putiferio di gente al cancello. Sono proprio curioso di sapere cos'è che succede. Vuoi venire con me?»
«No. Per un po' di tempo sento il bisogno di lavorare senza pensare a niente. E' da un bel pezzo che non faccio altro che tormentarmi il cervello. No, dopo aver mangiato me ne vado a letto.» «Vieni te, Al?»
Al guardò da un'altra parte. «Prima vorrei dare un'occhiata qui intorno.»
«Be', credo inutile domandare a zio John; andrò solo. Sono proprio curioso di sapere.»
Il babbo disse: «Io mi terrei la curiosità, con tutti questi sbirri attorno.» «Probabile che di notte non ci sono,» azzardò Tom.
«Comunque, al tuo posto io non ci andrei. E meglio anche che non lo dici alla mamma. Starebbe in pensiero.»
Tom si rivolse ad Al: «Tu non sei curioso?»
«Mah, prima voglio dare un'occhiata qui intorno.»
«In cerca di ragazze, eh?»
«In cerca di quel che mi pare,» ribatté Al acidamente.
Uscendo dal frutteto si trovarono all'imboccatura di una delle corsie tra i casotti. Talune porte aperte lasciavano vedere la luce gialla delle lampade a petrolio e le ombre nere delle persone che si muovevano all'interno. Passando davanti al sorvegliante, seduto su una cassetta col fucile sulle ginocchia, Tom domandò: «C'è un posto dove si può fare il bagno?»
Il sorvegliante lo scrutò in viso, nella scarsa luce: «Vedete quel serbatoio? Bene, là c'è un rubinetto.»
«Acqua calda?» fece Tom.
«O chi cavolo vi credete d'essere? Lo scià di Persia?»
«Non c'è pericolo. Buona notte, signore.»
Il sorvegliante guatò torvo i quattro Joad che si allontanavano, brontolando sprezzante: «Acqua calda, nientemeno! La prossima volta pretenderanno le vasche di porcellana.»
Un secondo sorvegliante, sopraggiunto, lo sentì brontolare: «Che c'è, Mack?» gli chiese.
«Uhm, quei maledetti Okies. 'Acqua calda?' m'han domandato.»
«Sono quei campeggi governativi, « sentenziò l'altro, appoggiandosi sul fucile: «Scommetto che vengono di lì. Non staremo tranquilli finché non li avremo soppressi, quei campi. Sta' a vedere che un giorno o l'altro vorranno le lenzuola di batista.»
Mack domandò: «E al cancello come van le cose? Hai saputo niente?»
«Mah, hanno urlato tutto il giorno. Ma c'è la polizia di stato, ci pensa lei. Pare che hanno individuato l'organizzatore dello sciopero. E' un esaltato. Uno spilungone, un figlio d'un cane. Sperano d'acciuffarlo stanotte, e se ci riescono, addio sciopero.»
«E' una fregatura per noi. Se finisce lo sciopero.»
«Oh, non aver paura, il lavoro lo troviamo. Maledetti Okies. Se stanno troppo tranquilli, facciamo presto ad aizzarli, no?»
«Ho idea che faranno un bel po' di casino qui, appena riabbassano le paghe.»
«Ma certo. Sta' tranquillo, non c'è da preoccuparsi per il lavoro... almeno finché sta in piedi la Hooper.»
Nel casotto dei Joad il fuoco scoppiettava. La mamma aveva preparato le polpette, che ora friggevano nella padella, e le patate bollivano nella pentola. Il casotto era pieno di fumo, e la lampada a petrolio gettava ombre nere sulle pareti. La mamma s'affaccendava al fornello, mentre Rosa Tea, seduta su una cassetta, trovava sollievo dal grembo appesantito.
«Ti senti meglio adesso?» domandò la mamma.
«Sì. A sentir l'odore del mangiare m'è venuta anche fame.»
«Va' a sederti sul gradino della porta, ho bisogno di quella cassetta per bruciarla.»
Gli uomini entrarono in gruppo. «Carne, perdio!» gridò Tom. «E caffè, ragazzi, sento l'odore! Ho una fame da lupo. Ho mangiato un mucchio di pesche, ma è come fossi vuoto. Mamma, dove possiamo lavarci?»
«Al serbatoio. Ho appena mandato a lavarsi anche Ruth e Winfield.» Gli uomini uscirono di nuovo.
«Su, Rosatè, o ti siedi sul gradino, oppure sul letto, ma ho bisogno della cassetta.»
Rosa Tea s'alzò a fatica e si trascinò verso uno dei materassi. Ruth e Winfield rientrarono senza far rumore; evitavano di farsi sentire e si tenevano accostati alla parete, come cercando volutamente di rimanere in ombra.
La mamma li guardò: «Ho idea che è meglio per voi che c'è poca luce.» Toccò i capelli di Winfield. «Bagnati sono, ma scommetto che sei ancora sporco.» «Non c'era sapone,» protestò Winfield.
«Hai ragione te, non ho potuto comprarne oggi, forse domani.» La mamma ritornò al fornello, tirò fuori i piatti e cominciò a servire la cena. Distribuì due polpette e una grossa patata su ciascun piatto e accanto posò tre fette di pane. Dalla padella versò poi direttamente sui piatti un po' di sugo delle polpette.
Gli uomini tornarono, coi capelli sgocciolanti e le facce lucide. «Eccoci, finalmente si mangia!» gridò Tom. Ognuno prese il suo piatto. Mangiarono in silenzio, voraci come lupi, intingendo il pane nel sugo. I bambini si ritirarono in un angolo, posarono i piatti a terra, e mangiarono acquattati come due cagnolini.
Tom inghiottì l'ultimo boccone di pane. «Ce n'è più, mamma?»
«No. Avete fatto un dollaro e questo è un dollaro di roba.»
«Che?!»
«Qui tutto è più caro. Appena si può, andremo a fare la spesa in paese.» «Non mi sento pieno,» disse Tom.
«Oh, domani si lavora tutto il giorno e domani sera vedrai che ci rimpinziamo.»
Al s'asciugò la bocca sulla manica e annunciò: «Be', io vado a dare un'occhiata in giro.»
«Aspetta, vengo anch'io,» disse Tom. Uscirono insieme. Tom gli domandò: «Davvero non vuoi venire con me?»
«No, t'ho già detto che vado a dare un'occhiata in giro.» «Okay,» disse Tom, e lo lasciò, dirigendosi al cancello.
Il fumo delle stufe rimaneva sospeso a poca altezza sopra i casotti e le lampade proiettavano in terra nelle corsie i rettangoli di luce delle porte e dei finestrini. Sui gradini d'ingresso sedevano persone con gli occhi persi nell'oscurità. Tom vedeva le loro teste voltarsi al suo passaggio e sentiva i loro sguardi seguirlo. All'estremità della corsia il viottolo polveroso continuava attraverso un campo di stoppie cosparso di mucchi di fieno. Bassa, a ponente, si stagliava nel cielo la falce sottile della luna nuova, e la Via Lattea era visibilissima. I passi di Tom non facevano rumore sulla polvere del sentiero che serpeggiava nero nel giallo delle stoppie. Tom con le mani in tasca camminava nella direzione del cancello, finché arrivò in un punto dove il sentiero costeggiava un arginello, e udì dall'altra parte l'acqua mormorare tra le erbe. Salì sull'argine e vide nell'acqua riflesse le stelle, e a poca distanza la strada statale, svelata dai fari delle automobili che passavano. Tom si diresse a quella volta; poteva vedere, alla luce diffusa delle stelle, l'alto reticolato che cingeva la proprietà. Una figura si mosse nel buio e una voce disse: «Chi va là?
Tom si fermò e rimase immobile: «Chi siete?»
Un uomo, armato di fucile, si alzò, gli mosse incontro e gli proiettò in faccia la luce di una lampada tascabile. «Dove credete di poter andare?»
«A spasso. E' proibito?»
«Meglio andare a spasso da un'altra parte.»
«E' proibito uscire di qui?»
«Stanotte sì, è proibito. Vi decidete a tornare indietro, o devo fischiare?»
«Ehi, che cavolo... non ho nessuna voglia di mettermi nei pasticci. Torno indietro, torno indietro, per quel che m'importa.»
La sentinella spense la lampadina. «E' per il vostro bene, capite. Capaci di farvi fuori quei picchetti.»
«Che picchetti?»
«Quegli scioperanti, maledetti bolscevichi.»
«Oh,» disse Tom. «Mica sapevo niente.»
«Non li avete visti quando siete arrivati?»
«Ho visto, sì, un branco di gente, ma c'erano tanti poliziotti che credevo fosse capitato qualche incidente.»
«Be', ora fate meglio a tornare indietro.»
«Certo, per quel che m'importa.» Fece dietro front e si allontanò.
Camminò tranquillamente per un centinaio di metri, poi si fermò in ascolto. Distinse nel fosso lo sfrigolio di richiamo d'una martora e lontano il rabbioso abbaiare di un cane alla catena. Tom si sedette sul margine della strada e continuò ad ascoltare. Ora udiva la stridula risata d'un falco di palude e il fruscio di un animaletto strisciante tra le stoppie. Scrutò l'orizzonte in tutte le direzioni ma non vide nulla che ne rompesse l'uniformità. Si rialzò e, camminando lento al margine del sentiero, s'inoltrò nel campo di stoppie tenendosi chinato, così da non sporgere al di sopra dei mucchi di fieno. Avanzava adagio, fermandosi spesso per ascoltare. Finalmente raggiunse il reticolato: cinque fili di ferro spinato. Si sdraiò sulla schiena sotto quello più basso, lo sollevò con le mani e aiutandosi coi piedi e con le contorsioni del busto passò dall'altra parte.
Stava per rimettersi in piedi quando udì un gruppo di persone passare sulla strada. Aspettò finché non si furono allontanate, e allora si alzò e le seguì a distanza. Passarono due o tre automobili. Arrivò ad un ponticello che scavalcava una roggia e si fermò a guardare dal parapetto. Vide in fondo al burrone una tenda, fiocamente illuminata, e sulla tenda muoversi le ombre delle persone che la occupavano. Tom lasciò la strada, si calò nel burrone aprendosi il varco tra i cespugli, e al fondo della discesa trovò un sentiero che conduceva alla tenda. Davanti a questa sedeva un uomo su una cassetta.
«Buona sera, disse Tom. «Chi siete?»
«Be'... credo... passavo di qua.»
«Conoscete qualcuno qui?»
«No, vi dico che stavo solo facendo una girata.»
Una testa s'affacciò tra i teli d'ingresso e una voce domandò: «Cosa c'è?» «Casy!» gridò Tom, «Casy! Cosa diavolo fai da queste parti?» «Gran Dio! E' Tom Joad! Vieni avanti, Tom, vieni avanti!» «Lo conoscete?» domandò l'uomo seduto.
«Se lo conosco? Ci conosciamo da sempre! Abbiamo emigrato insieme. Avanti, Tom.» Lo prese per il braccio e lo tirò dentro la tenda.
Altri tre uomini stavano seduti nell'incerta luce di una lanterna, e guardarono su con sospetto, ma uno di essi tese la mano a Tom: «Siate il benvenuto. Ho sentito quel che ha detto Casy. E' lui quello di cui ci avete parlato?»
«Sicuro! Proprio lui. Per tutti i diavoli! Di' su, Tom, cosa fai qui? La famiglia dov'è?»
«Siamo tutti insieme. Abbiamo sentito che c'era lavoro ed eccoci qua. Ci ha scortato un branco di poliziotti fino al ranch e siamo stati a raccogliere pesche tutto il pomeriggio. Ho visto un sacco di gente che urlava, e siccome nessuno m'ha voluto dir niente, così me ne sono uscito per vedere che succede. Ma racconta te, Casy, com'è che sei capitato qui?»
Il predicatore si mise a sedere e si sporse in avanti e la luce gialla della lanterna illuminò la sua vasta fronte pallida. «La galera è un posto proprio buffo,» disse. «Ecco qua, che mi ero messo ad errare nel deserto come Gesù in cerca della verità, e che due o tre volte ero andato ben vicino ad azzeccarla, è in prigione che ho finito per trovarla.» I suoi occhi lucidi sorridevano di malizia. «Una prigione enorme, sempre piena. Continuamente gente che parte e gente che arriva. E naturalmente io parlavo con tutti.»
«Sfido,» disse Tom, «non hai mai fatto altro che chiacchierare. Cianceresti persino sulla forca, col boia, e te la spasseresti un mondo. Mai visto un chiacchierone come te.»
Gli astanti ghignarono e uno di essi, un vecchietto rugoso, si diede un pugno sul ginocchio. «E' vero, sempre a chiacchierare. Ma sa farsi ascoltare.»
«Sfido, faceva il predicatore, non ve l'ha detto?»
«Sì, sì, ce l'ha detto.»
Casy sorrideva. «Sissignore,» riprese, «ho cominciato a veder chiaro in certe cose. Là dentro c'erano anche degli ubriaconi, ma per il resto era quasi tutta gente arrestata per furto, e per la massima parte gente che aveva rubato per necessità. Capisci quel che voglio dire?» «No,» disse Tom.
«Voglio dire che era tutta brava gente, e che solo per bisogno erano diventati dei ladri. E' così che ho cominciato a vederci chiaro. E' il bisogno, la causa di tutti i guai; non son mica io che me lo invento. Sta' a sentire. Un giorno ci danno i fagioli che erano acidi. Uno protesta, e fa baccano, e viene il carceriere, e dà un'occhiata dentro e alza le spalle e se ne va; e non è successo niente. Ma dopo un po' un secondo si mette a gridare. E poi ci mettiamo tutti quanti a fare un baccano d'inferno. E t'assicuro che è subito successo qualcosa. Sono accorse le guardie, e il direttore, e han finito per darci un'altra minestra. Capisci adesso?» «No,» disse Tom.
Casy appoggiò il mento sulla mano. «Forse non so spiegarmi. Forse vuol dire che la devi scoprire da te, la verità. Dimmi una cosa: dove hai lasciato il tuo berretto?»
«Non so, sono arrivato senza.» «E tua sorella come sta?»
«Grossa come una vacca, scommetto che ne farà un paio, tra poco occorrerà un carrettino per trasportarle la pancia. Ora intanto deve tenersela con le mani. Ma non m'hai ancora detto cos'è che succede qui.»
Il vecchio rugoso disse: «Abbiamo fatto sciopero.»
«Eh, certo che cinque cents a cassetta non è gran che, ma il mangiare ci scappa.»
L'altro scattò: «Cinque cents? Vi pagano cinque cents?»
«Sicuro. Abbiamo fatto un dollaro e mezzo.»
Un sordo silenzio riempì la tenda. Casy voltò la testa verso l'ingresso e guardò nel buio della notte. «Senti, Tom,» disse infine. «Noi abbiamo lavorato nel ranch. Ci avevano preso a cinque cents. Eravamo in parecchi. Be', ci han ridotto la paga a metà. Mica si può neanche mangiare con due cents e mezzo, e se poi ci sono dei bambini... Così abbiamo protestato e loro ci han mandato via e ci hanno fatto piovere addosso un reggimento di sbirri. Adesso vi pagano cinque cents, e va bene. Ma quando saranno riusciti a soffocare questo sciopero qui, ti credi che continueranno a pagare cinque?»
«Non so,» disse Tom, «ora pagano cinque.»
«Senti, Tom. Noialtri s'è provato ad attendarci insieme, e ci hanno dispersi come porci. Ci hanno picchiati. Ci hanno trattato proprio come porci. Ma anche voi vi hanno messo dentro come un branco di porci. Noi non possiamo continuare lo sciopero ancora per molto, c'è della gente che non mangia da due giorni. Che fai, conti di tornare dai tuoi stasera?»
«Penso di sì.»
«Allora racconta a tutti come stanno le cose, Tom. Fai capire a tutti quanti che ci fanno morir di fame noi, non solo, ma fanno del danno anche a se stessi. Perché è sicuro, quant'è vero Dio, che appena fanno tanto di liberarsi di noi, vi abbassano la paga a due cents e mezzo.»
«Glielo dirò,» disse Tom, «ma ci son tanti sbirri armati che non so come farò a dirglielo. Non ci si può neanche riunire e poi tengono tutti la testa bassa che non si può neanche dire buongiorno a nessuno.»
«Prova, Tom. Sta' sicuro che, appena fatti fuori noi, la paga cade a due cents e mezzo lo stesso momento. E sai cosa vuol dire, due cents e mezzo, no? Vuol dire una tonnellata di pesche, raccolte e trasportate, per un dollaro.» Abbassò la testa. «No. Impossibile mangiare con due cents e mezzo.» «Proverò,» ripeté Tom, «proverò a parlare agli altri.»
«Come sta la mamma?»
«Abbastanza bene. Era contenta in quel campo governativo. C'erano i bagni e l'acqua calda.» «Già... Ho sentito.»
«Proprio bello, là, ma s'è dovuto venir via perché non si trovava lavoro.»
«Mi piacerebbe vederne uno,» disse Casy, «pare che non ci sono sbirri, eh?»
«Sicuro. Il servizio d'ordine è fatto dagli accampati.»
Casy guardò su interessato. «E funziona bene? Niente grane? Niente risse, furti, ubriachi?» «Niente.»
«E se succede che uno fa qualcosa che non va?
«Lo buttano fuori.»
«E succede spesso?»
«No, no. Noi ci siamo stati un mese ed è successo una volta sola.»
Casy, con aria trionfante, si rivolse agli altri. «Sentito? Ve l'avevo detto. I poliziotti fanno più casino che altro. Senti, Tom. Dovresti persuadere i tuoi, e tutta la gente che lavora lì a scioperare come noi. Lo puoi organizzare in un paio di giorni. Ed è il momento buono, perché le pesche sono mature. Diglielo.»
«Non credo che ci stanno,» disse Tom. «Li pagano cinque cents, del resto se ne fregano.»
«Ma se fanno tanto di farci fallire lo sciopero, appena ci. riescono, vedrai che i cinque cents se li sognano.»
«Non credo proprio che ci stanno,» ripeté Tom. «Beccano cinque cents, ed è tutto quello che gli frega.»
«Ma te diglielo lo stesso.»
«E babbo per primo non ci starebbe, lo conosco. Direbbe che non sono affari suoi.»
«Sì,» mormorò Casy sconsolato. «Ho paura anch'io che è cosi. Bisogna batterci il naso per capire.»
«Non s'aveva più niente da mangiare. Stasera abbiamo mangiato. Non molto, ma s'è mangiato. Credi che il babbo rinunci alla carne per far piacere agli scioperanti? E Rosatè ha bisogno di latte.
Credi che la mamma glielo fa mancare solo perché fuori del cancello c'è della gente che grida?» Casy disse mestamente. «Cosa pagherei per trovare il modo di farvi capire, a tutti quanti, che lo sciopero è la sola arma che abbiamo per difenderci...»
L'uomo che era seduto fuori della tenda si affacciò sulla soglia: «Accidenti, non mi piace proprio,» disse.
Casy lo guardò sorpreso: «Che c'è?»
«Non so. Ma mi sento nervoso, c'è qualcosa che non va.»
«Ma cos'è che non ti va?»
«Non so. M sembra di sentire un rumore, e sto ad ascoltare e non sento più niente.»
«Nervi,» disse il vecchio rugoso. S'alzò, andò fuori e tornò subito. «C'è un nuvolone che passa, pieno di elettricità, ed è questo che gli dà sui nervi.» Tornò fuori di nuovo e gli altri due uomini presenti lo seguirono.
Casy disse tranquillamente: «Sono tutti nervosi. Quegli sbirri gli han messo addosso una fifa maledetta. Si son messi in testa che sono io l'organizzatore dello sciopero, perché parlo sempre.» Il vecchio rugoso tornò dentro. «Casy, spegni la lanterna e vieni fuori. C'è qualcosa.» Casy spense il lume e uscì, seguito da Tom. «Che c'è?» chiese sommesso.
«Zitto. Ascolta!»
Si sentiva il gracidio delle rane, un concerto di voci che parevano elevare un muro a pochi passi; e di là dal muro si sentiva lo sfrigolio dei grilli; attraverso questi suoni filtravano altri rumori più sordi, più fruscianti; di passi sulla strada, forse, di ramaglie smosse fra i cespugli della riva. «Io non sento niente,» li rassicurò Casy. «Nervi. Tutta questione di nervi. Te senti niente, Tom?» «Sicuro che sento,» disse Tom, «e se non sbaglio, è gente che viene da tutte le parti. Meglio tagliar la corda, date retta.»
Il vecchio rugoso suggerì: «Sotto il ponte, da quella parte! Non pensiamo alla tenda. Via!» «Andiamo,» disse Casy.
Si avviarono senza far rumore lungo il fondo del burrone, sull'orlo dell'acqua. Dinanzi a loro l'arcata del ponticello sembrava l'ingresso d'una caverna. Casy si chinò per entrarci, seguito da Tom, e avevano l'acqua alle caviglie, e pareva che i loro respiri venissero riecheggiati dalla volta. Dopo una dozzina di metri sbucarono all'altra estremità.
Un grido acuto: «Eccoli!» E due fasci di luce investirono i fuggitivi, li imprigionarono, li accecarono.
«Fermi dove siete!» Le voci uscivano dal buio. «E' lui! Là, quello del cranio lucido! E' lui!» Casy parlò, con gli occhi spalancati nella luce, col respiro corto. Disse: «Sentite. Voialtri non sapete quello che fate. Aiutate i padroni a far morire di fame i bambini.»
«Fa' silenzio, bolscevico, figlio di puttana!» Un uomo basso e tarchiato apparve nel fascio di luce.
Aveva in mano un manico di zappa, nuovo, bianco.
Casy continuava: «Non sapete quello che fate.»
L'uomo tarchiato brandì il bastone, Casy cercò di schivare il colpo, ma la clava si abbatté sulla sua tempia, produsse un sinistro schianto di ossa rotte, e Casy cadde disteso fuori del fascio di luce.
«Cristo, George, mi sa che l'hai spacciato.»
«L'ha voluto lui, figlio di puttana,» disse George. «Fa' vedere.» Il fascio di luce si abbassò, frugò in terra, trovò il cranio sfracellato di Casy.
Tom diede un'occhiata al predicatore, e i suoi occhi colsero nella luce il bianco del bastone tra le gambe dell'uomo tarchiato, e il braccio di Tom scattò, e la sua mano s'impadronì della clava. Con le due braccia la fece roteare e fallì il primo colpo, perché colpì solo una spalla, ma il secondo colse la testa in pieno, e come l'uomo tarchiato s'abbatté a terra, Tom gli menò altri tre colpi sulla testa. I fasci di luce presero a sussultare come pazzi, ed altre grida echeggiarono nella notte, insieme col rumore di passi accorrenti. Tom era in piedi, e guardava l'uomo che aveva abbattuto. Uno sfollagente lo colpì in faccia, ed egli sentì il colpo come una scossa elettrica. Allora scattò via, e prese a correre nell'acqua bassa della roggia, piegato in due. Udiva il diguazzare di passi che lo rincorrevano. D'improvviso voltò ad angolo retto nel folto d'un cespuglio e si appiattò al suolo e giacque immobile. Quando gli parve che gli inseguitori lo avessero oltrepassato, uscì dal cespuglio, si trascinò su per la riva e sbucò in un orto. Udiva ancora le voci e le grida degli inseguitori. Attraversò l'orto correndo, tenendosi chinato più che poté; le zolle di terra gli s'appiccicavano alle suole bagnate, facendolo inciampare, ma arrivò ugualmente sul limite opposto dell'orto, che era recintato da una folta siepe di more. Si trovò un nascondiglio nella siepe e sedette, ansando. Si palpò la faccia. Il naso era rotto, e il sangue gli colava sul mento. Rimase immobile finché ebbe raccolto forze sufficienti per trascinarsi fin sulla sponda della roggia e lavarsi la faccia. Si strappò un lembo di camicia, lo intinse nell'acqua fredda e se lo applicò sul viso. Il freddo gli fece bruciare la ferita.
Il nuvolone era passato. La notte era di nuovo serena.
Tom si calò in acqua e sentendo il fondo cedere sotto i piedi si buttò a nuoto e in due bracciate raggiunse la sponda opposta. Si issò a fatica sul ciglio, aveva le scarpe piene d'acqua; sedette in terra, le tolse, le vuotò, spremette tra le mani le estremità dei pantaloni, si sfilò anche la giacca e la strizzò.
Vedeva ancora sulla strada i mobili fasci di luce frugare i fossi. Rimise le scarpe e lasciandosi guidare dall'istinto attraversò il campo di stoppie e ritrovò il viottolo che conduceva ai casotti. Ad un tratto una sentinella, credendo d'aver sentito un rumore, gridò: «Chi va là?»
Tom s'appiattò a terra, e la luce della lampadina passò al di sopra di lui. Strisciando silenziosamente arrivò al casotto sessantatré. La porta cigolò sui cardini. E la voce della mamma, calma, sicura, totalmente desta: «Chi è?»
«Io. Tom.»
«Era ora. Al è ancora fuori.»
«Avrà trovato una ragazza.»
«Va' a coricarti. La', sotto la finestra.»
Tom trovò il posto riservatogli, si svestì completamente e si cacciò nudo sotto la coperta. Subito fu colto da brividi, e il dolore della ferita si fece lancinante, e le sue tempie si misero a martellare furiosamente.
Passò tutta un'ora prima che Al rientrasse. Avanzò cauto verso il suo giaciglio e inciampò nei panni bagnati di Tom.
«Ssst!» fece Tom.
Al bisbigliò: «Sei sveglio? Com'è che hai i vestiti bagnati?»
«Zitto. Ti dirò domani.» Il babbo si voltò nel sonno e smise di russare.
«Hai i brividi,» disse Al, «hai freddo?»
«Zitto. Dormi.»
Il quadrato del finestrino appariva grigio nel nero della stanza.
Tom non poté dormire. Tutti i nervi della faccia ferita tornando in vita pulsavano furiosamente, e lo zigomo doleva, ma il dolore al naso, rotto e gonfio, era terribile, spaventoso. Tom restò a guardare per il finestrino le stelle viaggiare nel cielo. Di tanto in tanto sentiva il passo della sentinella. Finalmente i galli cantarono in lontananza e a poco a poco il finestrino si rischiarò. Tom si palpò il gonfiore della faccia e Al borbottò e mormorò nel sonno.
Spuntò finalmente l'alba. Nei casotti addossati l'uno sull'altro la vita si ridestò: rumori di fuscelli rotti, di padelle smosse. All'improvviso la mamma s'alzò a sedere nel crepuscolo grigiastro, la faccia ancora imbambolata; stette un lungo momento a guardare verso il finestrino, poi respinse la coperta e trovò il suo vestito. Ancora seduta, se lo infilò sulla testa tenendo le braccia tese in alto per farlo scorrere giù fino alla vita, poi si mise in piedi e lo tirò giù fino alle caviglie. A piedi nudi andò alla finestra e mentre stava a contemplare il giorno crescere, le sue dita agili sciolsero i capelli, li lisciarono e li riannodarono sulla nuca. Poi rimase ancora un momento immobile con le mani intrecciate sul grembo, il viso ormai in piena luce. Finalmente si voltò, passò cauta tra i materassi e accese la lanterna.
Il babbo si voltò e la guardò tra le palpebre socchiuse. Ella gli disse: «Hai un altro buono?»
«Che? Sì. Di sessanta cents.»
«Allora alzati e va' a prendermi un po' di farina e di lardo. Svelto, su.»
Il babbo sbadigliò. «Sarà aperto a quest'ora?»
«Fatti aprire. Devo darvi da mangiare prima che andate al lavoro.»
Il babbo infilò i pantaloni e la giacca e si avviò, sbadigliando e stirandosi le membra, alla porta.
I bambini si svegliarono e rimasero ad occhieggiare come topolini dall'orlo della coperta. Ora il giorno invadeva a poco a poco la stanza, ma pallido ancora, come è prima del levar del sole. La mamma diede un'occhiata in giro ai materassi. Zio John era sveglio, Al dormiva ancora profondamente, Tom... Per un attimo la mamma stette a guardarlo, poi andò rapida a lui. Osservò il gonfiore e le chiazze di livido, e il sangue rappreso sulle labbra e sul mento; sugli orli la ferita cominciava a cicatrizzare.
«Tom,» bisbigliò, «cos'è successo?»
«Zitta, non parlar forte. Una rissa.» «Tom!»
«Non l'ho potuta evitare, mamma.»
Gli s'inginocchiò accanto. «Sei nei pasticci?»
Tom non rispose subito, poi si decise: «Sì,» disse. «Sono nei pasticci. Al lavoro non posso andare.
Devo nascondermi.»
I bambini si avvicinarono carponi osservando con occhi curiosi. «Mamma, cos'ha fatto?» «Zitti! Andate a lavarvi.»
«Non c'è sapone.»
«E lavatevi con l'acqua.»
«Ma Tom cos'ha?»
«Fate silenzio, dico. E non dite niente a nessuno.»
I due si ritirarono nell'angolo più lontano, sicuri ormai che la mamma non li avrebbe passati in rivista.
La mamma domandò a Tom: «E' una cosa grave?»
«Naso rotto.»
«Voglio dire il fatto.»
«Eh, sì, è grave.»
Al aprì gli occhi e guardò Tom. «Cristo, cosa t'è successo?» «Cosa t'è capitato?» domandò zio John.
Il babbo arrivò. «Era aperto.» Posò a terra accanto alla stufa il sacchettino della farina e il pacco del lardo. «Cos'è successo?» domandò.
Tom si tirò su un gomito, ma si sdraiò subito di nuovo. «Perdio, sono debole. Tanto vale raccontare mentre siete tutti qui. Ma i bambini?»
La mamma guardò i due bambini, rincantucciati vicino al muro. «Andate a lavarvi la faccia,» ordinò.
«No,» disse Tom, «è meglio che sentono anche loro; se non lo sanno, possono ciarlare.» «Ma cosa diavolo è successo?» domandò il babbo.
«Ecco qua. Ieri sera sono uscito fuori per andare a vedere cos'erano tutte quelle urla... E capito addosso a Casy.»
«Il predicatore?»
«Proprio lui. Era lui che aveva organizzato lo sciopero. Era ricercato.»
«Ricercato da chi?»
«Mah, da individui della stessa razza di quelli che ci avevano fermati quella notte sulla strada. Armati di bastoni, manichi di zappa.» Fece una pausa. «L'hanno ammazzato. Spaccata la testa. Io ero lì. Non ci ho visto più. Ho arraffato il bastone.» Parlando, rivedeva la notte, il buio, i fasci di luce. «E... ho colpito uno.»
La mamma si sentì fermare il respiro. Il babbo s'irrigidì. «E' morto?» domandò, senza accento. «Non lo so. Ero fuori di me. Ho cercato di ucciderlo.»
La mamma domandò: «T'hanno visto?»
«Non so, non so, credo di sì. Avevano i proiettori.»
La mamma rimase un attimo a guardarlo in fondo agli occhi. Poi disse al babbo: «Rompimi un po' di legna. Devo preparare la colazione, dovete andare al lavoro. Ruth, Winfield, se vi chiedono qualcosa, Tom è malato, capito? Se parlate, lo... mettono in prigione, capito?»
«Sì, mamma.»
Si rivolse a zio John. «Tienli d'occhio tu, John. Vedi che non parlino con nessuno.» Andò subito a preparare il fuoco appena il babbo ebbe rotto la cassetta con la quale aveva portato la spesa. Preparò le ciambelle e mise il caffè a bollire. Il legno dolce s'accese e la fiamma crepitò nel fornello.
Il babbo venne vicino a Tom. «Casy... era un bravo uomo. Com'è che s'era messo in quei pasticci?» Tom disse brevemente: «Erano venuti a lavorare per cinque cents.»
«E' quello che prendiamo noi.»
«Già. Ma poi li han ridotti a due e mezzo, e han fatto sciopero, e noi siamo venuti a far fallire lo sciopero.»
«Impossibile mangiare, con due cents e mezzo.»
«Apposta han scioperato. Ad ogni modo, credo che lo sciopero è fallito stanotte. E vedrai che oggi stesso ci riducono anche noi a due cents e mezzo.»
«Figli di puttane...»
«Povero Casy. Era un brav'uomo. Dio, non posso levarmi dalla testa lo spettacolo del suo cranio ridotto a poltiglia!» Si coprì gli occhi con la mano.
«E adesso cosa si fa?» domandò zio John.
Al era vestito. Disse: «Per conto mio so quello che ho da fare, perdio. Io me ne vado.»
«No, Al,» disse Tom, «adesso sei indispensabile alla famiglia. lo sono un pericolo per la famiglia.
Appena mi reggo in piedi debbo squagliarmi.»
La mamma sfaccendava al fornello, ma con la testa mezza voltata per non perdere una parola.
Tom continuò: «Tu devi restare, Al. Devi badare al camion.»
«Oh, non ne ho propria voglia.»
«Non puoi tirarti indietro, Al. E' la tua famiglia. Te puoi essere d'aiuto. Io rappresento un pericolo per la famiglia.»
Ma Al era adirato. «Non capisco perché non posso essere libero di trovarmi un posto mi un garage.» «Più in là, forse.» Tom diede un'occhiata a Rosa Tea, ancora coricata, che lo guardava con enormi occhi spalancati. «Non preoccuparti,» le disse, «oggi ti porteranno un po' di latte.» Ella batté le palpebre ma non rispose.
Il babbo disse: «L'importante è di sapere se l'hai ammazzato o no.»
«Come vuoi che lo sappia? Era buio. E qualcuno mi ha rifilato quella botta. Proprio non lo so, ma spero di sì, spero di averlo accoppato, quel bastardo.»
«Tom!» esclamò la mamma, «non parlare così.»
Si udì provenire dalla strada il rumore di varie macchine che procedevano adagio. Il babbo si avvicinò alla finestra e guardò fuori. «Tutto un battaglione di nuovi lavoratori che arrivano,» disse. «Credo proprio che lo sciopero è fallito,» disse Tom, «scommetto che da oggi vi pagano due cents e mezzo.»
La mamma voltò le ciambelle e rimescolò il caffè. «Sentite,» disse, «oggi vi farò la polenta, e appena abbiamo fatto abbastanza soldi per comprarci la benzina, ce ne andiamo. Questo posto non mi piace. E Tom non lo lascio andar via, nossignori.»
«Non puoi opporti, mamma, t'ho detto che sono un pericolo per voialtri.»
La mamma protese il mento. «Faremo come ho detto io,» disse, inflessibile. «Su, venite a mangiare quel che c'è. Poi andate al lavoro. Appena ho rigovernato vengo a dare una mano anch'io. Dobbiamo far soldi.»
Gli. uomini mangiarono le ciambelle così calde che si scottarono i palati, e trangugiarono alla svelta due tazze di caffè ciascuno.
Zio John, scotendo la testa sul petto disse: «Tutto a causa dei miei peccati.»
«Oh piantala!» sbottò il babbo, «non è il momento per pensare ai tuoi peccati. Andiamo, su. Bambini, venite anche voi. Mamma ha ragione, dobbiamo andarcene di qui al più presto.»
Usciti gli uomini e i bambini, la mamma portò a Tom un piatto e una tazza. «Meglio mangiare qualcosa.»
«Non posso, mamma. La ferita mi fa male, non posso masticare.»
«Prova.»
«No, non posso.»
Ella sedette sull'orlo del suo materasso. «Ho bisogno di sapere i particolari, voglio vederci chiaro.
Racconta. Cosa faceva Casy? Perché l'hanno ammazzato?»
«Faceva niente. Era lì in piedi, nella luce dei proiettori.»
«Ma cos'ha detto? Non ti ricordi cos'ha detto?»
«Certo che mi ricordo. Ha detto, non avete diritto di far morire la gente di fame; e l'uomo tarchiato gli ha dato del bolscevico figlio di puttana, e Casy ha detto, non sapete quello che fate, e l'altro lo ha accoppato.»
La mamma abbassò gli occhi e si torse le mani. «Ha detto così? Ha detto non sapete quello che fate?» «Sì...»
La mamma esclamò: «La nonna avrebbe dovuto sentirlo!»
«Senti, mamma, io non sapevo quello che facevo, come uno che non s'accorge di respirare, neanche mi sono accorto che stavo per farlo.»
«Capisco, Tom. Certo era meglio se non lo facevi. Era meglio se non ti trovavi là. Ma, una volta lì, hai fatto quello che dovevi fare. Credo proprio che non hai nessuna colpa.» Andò alla stufa, e inumidì un panno con l'acqua calda. «To', mettiti questo sulla faccia.»
Tom se lo applicò in modo che coprisse il naso e la guancia, e il caldo troppo intenso gli fece fare una smorfia. «Mamma, bisogna che vada via stanotte. E' troppo pericoloso per voi se sto qui.» La mamma ribatté irritata: «Tom, c'è tante cose che non capisco, ma a cosa serve se vai via? Solo a renderci più tristi.» E continuò: «Una volta, quando s'era sul nostro, la terra serviva a tenere la famiglia unita. I vecchi morivano, i bambini nascevano, e la famiglia era sempre quella, intatta. Adesso è lo sfacelo. Al non fa che pensare a mettersi da solo. Zio John si contenta di farsi rimorchiare. Il babbo ha perduto il suo posto, non è più il capo della famiglia. Non è neanche più una famiglia, ormai. E Rosatè...» si guardò attorno e incontrò gli occhi spalancati di sua figlia, «... Rosatè sta per mettere al mondo la sua creatura, e anche per loro non c'è una famiglia. Winfield cosa può diventare, in queste condizioni, e Ruth? due selvaggi. Non c'è più niente in cui credere.
No, Tom, non andartene; rimani, e aiutaci.»
«E va bene,» rispose Tom, stanco, «ma non dovrei, lo sento.»
La mamma andò a lavare i piatti. «Hai dormito niente, vero?»
«Niente.»
«Dormi, adesso, ti faccio asciugare gli abiti.» Finì di rassettare. «Ora vado al lavoro. Rosatè, se viene da noi qualcuno, Tom è malato, non lasciar entrare nessuno, capito?» Rosa Tea fece segno di sì. «Torniamo a mezzogiorno. Prova a dormire, Tom. Forse possiamo andar via stasera.» Venne a lui con fare sollecito. «Di', Tom, non hai mica in mente di squagliarti?»
«No, mamma.»
«Davvero? Prometti.»
«Prometto, mamma, resto qui.»
«Mi fido. Rosatè, ricordati quello che ho detto.» Uscì e si richiuse fermamente la porta alle spalle. Tom giaceva immobile; un'onda di sonno lo sollevava fino al limite dell'incoscienza, lo lasciava ricadere adagio e lo risollevava di nuovo. Sobbalzò, sentendosi chiamare con accento collerico, apri gli occhi e vide Rosa Tea in piedi vicino a lui. «Cosa vuoi?» le domandò.
«Hai ammazzato un uomo!»
«Uh, piano! Vuoi farti sentire?»
«Non m'importa niente!» gridò Rosa Tea. «Me l'ha detto, quella donna nel campeggio, quali sono le conseguenze del peccato. Me l'ha detto. Che speranza ho di mettere al mondo un bel bambino? Connie è partito, io mangio male, non bevo latte.» La sua voce si fece isterica. «E adesso tu ammazzi un uomo. Come faccio a fare un bel bambino? Lo so... sarà un mostro... un mostro! E io ho rifiutato di ballare.»
Tom s'alzò a sedere. «Zitta, per carità! Ti sentono, viene gente.»
«Non m'importa! Avrò un mostro, un mostro! Non ho mai ballato i balli moderni.» Tom s'alzò e le si fece vicino per calmarla, per confortarla.
«Non mi toccare! Non posso vederti, non voglio più vederti in faccia.» Aveva la faccia paonazza per l'attacco di isterismo e parlava con voce stridula. «E non è neanche la prima volta che ammazzi un uomo.»
Tom si morse il labbro e abbassò gli occhi a terra. Poi si staccò dalla sorella, andò al giaciglio del babbo, e prese il fucile che era sotto il materasso; si assicurò che fosse carico e tornò al proprio materasso. Posò il fucile a terra a portata di mano e si coricò di nuovo. Rosa Tea si calmò a poco a poco, e la collera si sciolse in singhiozzi.
Fuori, passò una colonna di macchine, e risuonarono voci:
«Quanti uomini?
«Solo noi tre. Quanto pagate?»
«Andate nel casotto venticinque; il numero è sulla porta.»
«Bene, signore, ma quanto pagate?»
«Due cents e mezzo.»
«Uh, impossibile, non basta per mangiare!»
«Questo è quello che paghiamo. Aspettiamo duecento lavoranti dal sud che saranno contentoni, con due cents e mezzo.»
«Ma Gesù, signore...»
«Muovetevi, su. O accettate, o ve n'andate. Non ho tempo per discutere.»
«Ma...»
«Sentite. I prezzi non li faccio io. Io ho solo l'incarico di assumervi. Se volete, bene. Se no, dietro front, e tanti saluti.»
«Casotto venticinque avete detto?»
«Sì, venticinque.»
Tom si appisolò. Ma non tardò a svegliarsi perché aveva colto nel dormiveglia il suono d'un passo nella stanza, e la sua mano si portò automaticamente al fucile. Aprendo gli occhi vide di nuovo Rosa Tea in piedi vicino a lui. «Cosa vuoi?» le domandò.
«Dormi tranquillo,» rispose Rosa Tea, «faccio io la guardia, non lascio entrar nessuno.» Tom la guardò in viso per un momento. «Okay,» disse, e si coprì la faccia con la coperta.
La mamma rientrò che calava la sera. Bussò, dicendo: «.Sono io,» per rassicurare Tom. Portava un pacco. Tom si svegliò e si mise a sedere sul materasso. La ferita era asciutta, e dove cominciava a rimarginarsi la pelle era lucida; l'occhio sinistro era quasi interamente chiuso. «E' venuto nessuno?» domandò la mamma.
«No, nessuno. Ho sentito che han ridotto la paga.»
«Come lo sai?»
«Ho sentito che lo dicevano fuori.» Indicò Rosa Tea col pollice. «M'ha fatto una scenata, sai. Dice che tutto il male ricadrà su lei. Per farla stare in pace dovrei proprio andarmene.»
La mamma voltò la testa e notò che Rosa Tea la stava guardando con occhi spenti. «Cosa t'è venuto in mente?»
Rosa Tea rispose, risentita: «Come faccio ad avere un bel bambino con tutti questi guai che succedono?»
«Zitta, fammi il piacere. So come ti senti, so che non puoi farci niente, ma almeno sta' zitta.» E a
Tom: «Non badarle, Tom. Quando si è in quello stato, mi ricordo benissimo, tutto fa male, qualunque cosa si dice è un insulto, sembra che tutto il mondo ce l'ha con noi, non farci caso, non è colpa sua.»
«Capisco, ma io non voglio urtarla.»
«Zitto anche te, non parlare.» Posò il pacco sulla stufa fredda. «Abbiamo fatto quasi niente, oggi. Più presto si va via, meglio è. Tom, vammi a cercare un po' di legna. Ah no, non puoi; to', rompimi questa cassetta, è l'ultima che ci resta; ho detto agli altri di portarmi fuscelli e ramaglie, se ne trovano. Vi faccio la polenta con lo zucchero.»
Tom s'alzò e ridusse la cassetta in frammenti. La mamma accese il fuoco in modo che tutta la fiamma rimanesse raccolta sotto uno solo dei buchi, e su questo buco posò il paiolo pieno d'acqua.
«Com'è andato oggi il lavoro?» domandò Tom.
La mamma pescò con una tazza nel pacco della farina di granturco. «Oh non parlarmene. Pensavo, oggi, all'allegria con cui si lavorava, una volta; alle storielle che si raccontavano. Adesso più niente. Se per caso ne raccontano una, non è per niente divertente, non c'è niente di buffo. Oggi uno ha detto: 'La crisi dev'essere finita. Ho visto un coniglio, e nessuno gli dava la caccia.' E un altro fa: 'Qui la crisi non c'entra. E' questione che la caccia è proibita. Tutto quello che puoi fare, qui, se chiappi un coniglio, e se è femmina, è di mungerla. Probabilmente quella che hai visto te era asciutta.' Storielle di questo genere. Non fan ridere nessuno. Tom, dovresti metterti un impacco freddo, adesso, sulla ferita.»
Cominciava a far buio, la mamma accese la lanterna e l'appese a un chiodo; attizzò il fuoco e versò gradatamente la farina nell'acqua bollente. «Rosatè, puoi girare la polenta?»
Si udì il rumore di qualcuno che arrivava correndo, la porta si spalancò e sbatté contro la parete, e
Ruth si precipitò nella stanza. «Mamma, mamma, Winfield s'è sentito male!»
«Dove? Parla!»
Ruth ansava. «E' diventato bianco come un cencio ed è caduto per terra, troppe pesche, aveva avuto la diarrea tutto il giorno, è caduto in terra, bianco come un cencio!» «Conducimi dov'è,» ordinò la mamma. «Rosatè, bada alla polenta.»
Uscì con Ruth di corsa. Col suo peso, stentava a tener dietro alla bambina. Vide venirle incontro tre uomini, e uno di essi portava Winfield in braccio. «E' mio,» gridò la mamma, «datemelo.»
«Ve lo porto io fino a casa, signora.»
«No, qua, datelo a me.» Quasi glielo strappò di mano, e fece dietro front; poi si riebbe: «Grazie, grazie tante,» disse agli uomini.
«Non c'è di che, signora. Deboluccio, il ragazzino. Saranno i vermi.»
La mamma affrettò il passo con Winfield insensibile e inerte tra le braccia. Arrivò nel casotto e posò il bambino su un materasso e s'inginocchiò presso di lui. «Cosa c'è Winfield, dimmi, cosa ti senti?» supplicò.
Il piccolo aprì gli occhi, scosse la testa, e li richiuse.
Ruth disse: «Te l'ho detto, mamma. Ha avuto la diarrea tutto il giorno. Tutti i momenti. Ha mangiato troppe pesche.»
La mamma gli posò la mano sulla fronte. «Febbre non ne ha. Ma è pallido, è sfinito.»
Tom s'avvicinò con la lanterna in mano. «E' denutrito. E' chiaro. Non ha forza. Ha bisogno di latte.
Vedi di fargli mangiare la polenta col latte.»
«Winfield,» chiamava la mamma, «Winfield, dimmi come ti senti.» «Mi gira la testa,» balbettò il bambino.
«Mai visto una diarrea così,» dichiarò Ruth con aria d'importanza.
Arrivarono il babbo, Al e zio John, tutt'e tre carichi di ramaglie per la stufa; le lasciarono cadere a terra. «E adesso cos'altro c'è?» domandò il babbo, vedendo Winfield.
«Ha bisogno di latte,» disse la mamma.
«Puttana della miseria! S'ha tutti bisogno di qualche cosa!»
La mamma domandò: «Quanto s'è fatto oggi?»
«Un dollaro e quarantadue.»
«Allora corri a prendere una bottiglia di latte per Winfield.»
«Ci mancava anche questa. Perché s'è andato ad ammalare?» «Non so perché, ma sta male. Corri!» Il babbo uscì brontolando.
«Rosatè, la giri quella polenta?»
«Sì, sì,» disse Rosatè, e per dimostrarlo accelerò i movimenti.
Al si lamentò: «Porca miseria, mamma, polenta! E' tutto quello che ci dai dopo che s'è lavorato tutto il giorno?»
«Oh, senti, sai bene che vogliamo andarcene di qui; dobbiamo mettere da parte per la benzina.»
«Va bene, ma... quando si lavora, si ha bisogno di mangiare un po' di carne.»
«Siediti, Al, e sta' calmo. Ci sono altre cose più importanti da discutere. E te lo sai bene.»
Tom domandò: «Parli di me?»
«Parleremo dopo mangiato,» replicò la mamma. «Al, un po' di benzina ce l'abbiamo, no? per qualche chilometro, solo per andar via, vero?»
«Una diecina di litri.»
«Cosa volevi dire, mamma?» domandò Tom.
«Te lo dirò dopo, mangiato. Animo, Rosatè, con quella polenta. Lo zucchero, o lo mettete sulla polenta, o lo mettete nel caffè. Non ce n'è abbastanza per tutt'e due.»
Il babbo rientrò con la bottiglia di latte. «Undici cents...» disse, disgustato.
«Da' qua.» La mamma l'aprì, riempì una tazza e la porse a Tom: «Falla bere a Winfield.» Tom s'inginocchiò presso il materasso. «To' bevi.»
«Non posso. Mi vien da vomitare.»
Tom s'alzò. «Non vuole, mamma, non si sente, meglio aspettare un po'.»
La mamma pose la tazza sul davanzale della finestra. «Questa è per Winfield,» disse, «nessuno la tocchi.»
«Io è da tanto che non bevo latte,» disse Rosa Tea, imbronciata, «mi farebbe bene.»
«Sì, ma tu sei in piedi, il piccolo è a letto. Come va la polenta?»
«E' dura che non ce la faccio quasi più a girarla.»
«Allora mangiamo. Qui c'è lo zucchero: un cucchiaio per uno. O sulla polenta o nel caffè.»
Tom disse: «Io ci preferisco pepe e sale sulla polenta.»
«Pepe non ce n'è, mettici il sale.»
Le cassette erano scomparse tutte nella stufa, ognuno si sedette sui materassi per mangiare la polenta, riempiendo il suo piatto varie volte, finché il paiolo risultò quasi vuoto. «Serbatene un poco per Winfield,» ordinò la mamma.
Winfield si tirò su a sedere e bevve il latte, e subito gli venne una fame da lupo. Si collocò il paiolo tra le gambe, divorò il resto della polenta, e col cucchiaio raschiò le croste dal fondo. La mamma riempì una tazza di latte e la passò a Rosa Tea perché se la bevesse segretamente in un angolo.
Versò il caffè nelle tazze e le distribuì in giro.
«Adesso ci dici cos'è che hai per la testa?» domandò Tom. «Son curioso.»
Il babbo disse imbarazzato: «Meglio che Ruth e Winfield non stanno a sentire. Non possono andar fuori?»
«No, lasciali,» disse la mamma, «sono abbastanza grandi, e del resto è bene che sappiano, ma intendiamoci, bambini, fuori non dovete dire una parola di quello che sentirete, altrimenti siamo rovinati.»
«Sta' tranquilla,» disse Ruth, «siamo grandi, ormai.»
«E allora fa' silenzio.» La fiamma della lanterna, corta e tozza come il corpo d'una falena, proiettava una luce gialla sulle pareti.
«Ora parla,» disse Tom.
«Parla te,» chiese la mamma al babbo.
Zio John si sbrigò a finire il caffè. Il babbo disse: «Dunque, hanno proprio ridotto la paga come avevi detto. E c'era una massa di lavoranti nuovi, così affamati che avrebbero accettato di lavorare per un pezzo di pane. Dovevi vedere le lotte attorno agli alberi: uno gridava che era suo, un altro gridava più forte del primo, un putiferio. Sono andati a reclutarli lontano, fino a El Centro. Morti di fame. Capaci di lavorare un giorno intero per un pezzo di pane. Io l'ho detto all'impiegato, gli ho detto: 'Non possiamo lavorare per due cents e mezzo la cassetta' e lui mi fa: 'Allora, aria; questi nuovi possono.' E io gli dico: 'Appena si son sfamati, vi piantano anche loro.' E lui sai cosa m'ha detto? 'Prima che siano sfamati' mi fa, 'il raccolto delle pesche sarà finito.'» Il babbo fece una pausa. «Una confusione del diavolo,» disse zio John. «Pare che aspettino altri duecento lavoranti stanotte.»
Tom disse. «Ho capito. Ma... e l'altra cosa?»
Il babbo parve riluttante a rispondere, poi si decise: «Tom, sembra che l'hai fatto fuori.»
«Lo prevedevo. Era buio, ma me lo sentivo.»
«Non si parla d'altro,» disse zio John. «Pare che hanno sguinzagliato squadre intere di poliziotti. Ho sentito parlare di linciaggio. Naturalmente sempre che lo beccano.»
Tom guardò i bambini che ascoltavano con gli occhi spalancati. Non battevano palpebra, quasi che temessero una catastrofe da un momento all'altro. Tom disse: «Ad ogni modo, quello che l'ha fatto fuori, l'ha fatto solo dopo che avevano accoppato Casy.»
«Ma adesso,» interruppe il babbo, «mica la raccontano in questo modo. Dicono che l'ha fatto fuori prima.»
«No!!!» gemette Tom sbalordito.
«E sanno che l'uccisore è stato ferito in faccia, e...»
Tom guardò la mamma. «Hai capito? Non c'è proprio scampo. Devo squagliarmi.»
La mamma tossì, per nascondere la propria emozione. «Non puoi,» gridò, «impossibile nasconderti fuori, non riusciresti a cavartela, mentre qui nessuno viene a cercarti, e intanto la ferita guarisce...» «No, mamma, senti...»
Ella scattò in piedi. «Te non te ne vai, ti portiamo via noi. L'ho studiata tutta, io. Al, porta la macchina qui contro l'ingresso. Mettiamo un materasso sul fondo, Tom ci si sdraia su, e lo copriamo con un altro materasso, in modo che può respirare. Lasciate fare a me. E' tutto deciso. Si fa come ho detto io.»
Il babbo si lamentò. «Sembra che non si chiede neanche più il mio parere. Tremenda, quella donna. Ma appena sistemati, vedi che botte!»
«Quando saremo sistemati picchiami pure,» rispose la mamma. «Svelto, Al. E' buio abbastanza, ora.»
Al andò all'autocarro, calcolò lo spazio per la manovra e a marcia indietro portò il camion davanti all'ingresso del casotto.
«Svelti,» ordinò la mamma, «il materasso.» Il babbo e zio John lo gettarono nell'autocarro.
«Adesso quest'altro.» Gettarono anche il secondo materasso. «Ora, Tom, svelto, salta su e mettitici in mezzo.»
Tom ubbidì e si sdraiò tra i due materassi. Poteva vedere e respirare tra le tavole dei fianchi. Il babbo e zio John caricarono alla svelta: ammucchiarono le coperte al di sopra di Tom, le secchie da una parte, e il terzo materasso dietro. Le stoviglie, e gli indumenti, furono caricati sciolti, perché la stufa s'era mangiata le cassette che li contenevano. Avevano quasi finito di caricare quando un sorvegliante si avvicinò, col fucile sotto il braccio.
«Cosa succede qui?» domandò.
«Partiamo,» disse il babbo.
«Perché?»
«Be', c'è stato offerto lavoro... un buon lavoro.»
«Ah sì? E dove?»
«Dalle parti di Weedpatch.»
«Fatevi un po' vedere.» Diresse la luce della lampadina tascabile sul viso del babbo, poi di zio John, e quindi di Al. «Non c'era un altro con voi?»
«Volete dire quello che era venuto con noi, uno piccolo, pallido?» domandò Al. «Sì, dov'è?»
«Era uno che avevamo raccolto per strada mentre si veniva in qua. E' andato via stamattina quando ha sentito che riducevano le paghe.» «Come avete detto che era?»
«Piuttosto piccolo. Viso pallido.»
«E stamattina aveva mica per caso dei lividi in faccia?»
«Non mi sono accorto. Sapete se la pompa della benzina è aperta?»
«Sì, fino alle otto.»
«Svelti, allora,» sollecitò Al, «se vogliamo arrivare a Weedpatch prima del mattino. Mamma, vieni davanti?»
«No, mi metto dietro, col babbo. Ci viene Rosatè davanti, con zio John.»
«Babbo, dammi quel buono; guardo se me lo cambiano, ora che faccio benzina.»
Il sorvegliante stette a guardare l'autocarro che si allontanava nella corsia tra i casotti, finché voltò a sinistra, dove c'era la pompa della benzina.
«Dieci litri,» disse Al.
«Non andate lontano, eh?»
«No, non molto. Dite: mi date il resto in spiccioli su questo buono?»
«Non sono autorizzato.»
«Sentite, signore. Ci hanno offerto un buon lavoro se ce la facciamo ad arrivarci stanotte. Se no lo perdiamo. Fateci questo favore.»
«Be', intestatelo a me.»
«Subito.» Al saltò giù, svitò il tappo del radiatore e manovrò la pompa dell'acqua. «Dieci litri avete detto?»
«Sì, dieci.»
«Da che parte andate?»
«A sud. Abbiamo trovato lavoro.»
«Davvero?! E' così difficile, oggi... un lavoro regolare.»
«E' un amico che ce l'ha trovato, per tutti noialtri. Be', buona notte.»
L'autocarro partì in curva traballando sulle ineguaglianze del terreno e imboccò il sentiero che conduceva al cancello. La debole luce dei fari danzava e il faro di destra continuava a spegnersi e riaccendersi a causa di un contatto difettoso; ad ogni cunetta la pentola e i tegami caricati alla rinfusa sul retro facevano un baccano del diavolo. Rosa Tea emetteva sommessi lamenti. «Ti senti poco bene?» domandò zio John.
«Sì,» gemette la ragazza. «Sto sempre male. Come mi piacerebbe se ci si potesse fermare in un bel posto. Era meglio che non si veniva mai via da casa! Connie non m'avrebbe abbandonata se fossimo rimasti. Si sarebbe messo a studiare e a quest'ora avrebbe un impiego.»
Né zio John né Al rilevarono le sue parole. L'argomento li imbarazzava.
Al cancello il custode fermò l'autocarro. «Partite definitivamente?» domandò.
«Sì, » rispose Al. «Andiamo a nord, abbiamo trovato lavoro.»
Il custode diresse la luce della lampadina tascabile sui camion e fin sotto il telone; il babbo e la mamma la fissarono con sguardo gelido, senza espressione.
«Andate pure,» disse il custode e aprì il cancello. Al prese a sinistra, con l'intento di raggiungere la 101, la grande arteria che attraversa il paese da nord a sud.
«Lo sai dov'è che si va?» domandò zio John.
«No. Tiro avanti, e son stufo di tirare avanti senza una meta.»
Rosa Tea disse, sempre imbronciata: «Io non sono mica poi tanto lontana da quel giorno, meglio trovarmi un posto decente da abitare.»
Le notti erano già fredde, le foglie cominciavano a cadere dagli alberi da frutta. La mamma sedeva con la schiena appoggiata ad una sponda del camion, e il babbo sedeva dirimpetto a lei. La mamma chiamò: «Tom, come va?»
S'udì la voce soffocata di Tom. «Strettino qui sotto. Siamo fuori del ranch?»
«Sì, ma sta' nascosto. Possono ancora fermarci.»
Tom nondimeno sollevò un angolo del materasso superiore e s'appoggiò su un gomito. «Posso sempre rimettermi sotto in un lampo,» disse. «Ad ogni modo mi seccherebbe farmi prendere in trappola. Perbacco, comincia a far freschino, eh?»
«E' nuvolo,» disse il babbo, «mi sa che arriva presto l'inverno, quest'anno.»
«Da che cosa lo vedi? Dai semi dell'erba? Dagli scoiattoli sui rami più alti? Qualunque cosa serve per capire se arriva l'inverno; anche un vecchio paio di mutande, magari.» «Non so,» disse il babbo, «ma è certo che mi sento l'inverno addosso.» «Dove si va?» domandò Tom.
«Non so. Al ha preso a sinistra. Pare che si ritorna indietro, da dove siamo venuti.»
«Difficile dire cos'è meglio. Ma ho paura che sulla strada principale rischiamo di trovare un'infinità di sbirri. Con questa faccia, mi acciuffano subito. Sarebbe meglio tenerci su strade secondarie.»
La mamma disse: «Chiama Al, fallo fermare.»
Tom bussò col pugno sulla tramezza, l'autocarro si fermò sul lato della strada e Al smontò e andò dietro. Ruth e Winfield fecero capolino fuori dalla coperta. «Cosa c'è?» domandò Al.
«Dobbiamo stabilire cosa si fa. Forse conviene prendere le strade secondarie. Tom pensa così,» disse la mamma.
«Per via della mia faccia,» aggiunse Tom. Chiunque può riconoscermi.»
«Be', dite da che parte volete andare. Io andavo in su perché in giù ci siamo già stati.»
«Andiamo pure in su,» disse Tom, «ma tienti sulle strade di campagna.»
Al propose: «Che ne direste di fermarci da qualche parte e di farci una bella dormita e poi proseguire domani?»
La mamma s'affrettò a ribattere: «No, non ancora. Prima bisogna allontanarci il più possibile di qui.»
«Bene.»
Al riprese posto al volante e ripartì.
Ruth e Winfield si ricacciarono sotto la coperta. La mamma domandò: «Come sta Winfield?»
Rispose Ruth: «Bene. Ha dormito.»
La mamma s'appoggiò all'indietro contro la sponda del camion. Disse: «Si diventa cattivi, a sentirsi inseguiti.»
«Tutto il mondo diventa cattivo,» brontolò il babbo. «Tutti quanti. Hai visto oggi quella rissa. E' la miseria che fa diventar cattivi. Nel campeggio governativo non ci sentivamo cattivi.»
Al voltò a destra, per una strada sterrata che faceva sussultare le luci gialle dei fari, e correva non più tra frutteti ma tra campi di cotone; e proseguì serpeggiando in mezzo al cotone per una trentina di chilometri. A un dato punto prese a costeggiare un torrentello incassato dalle rive coperte di cespugli, lo varcò sopra un ponticello e riprese a costeggiarlo sulla sponda opposta, e allora i fari rivelarono, addossata al torrente, una lunga colonna di vagoni merci, privi di ruote, ed un enorme cartello con la scritta: «Cercansi Raccoglitori di Cotone». Al rallentò. Tom spiò tra le connessure della fiancata. Un mezzo chilometro dopo che avevano oltrepassata la colonna dei carri ferroviari, Tom bussò nuovamente sulla tramezza. Al fermò e scese di nuovo. «E ora cosa volete?» «Spegni il motore e vieni su,» disse Tom.
Al riprese posto al volante, accostò il camion al margine della strada, spense i fari e il motore, e salì sul retro.
Tom si trascinò carponi tra le pentole e i tegami e restò in ginocchio davanti alla mamma. «Sentite,» disse. «Qui hanno bisogno di braccianti per il cotone. Ho visto quel cartello. Ora io stavo pensando al sistema di rimanere con voi, senza però mettervi nei pasticci. E finché non son guarito non c'è niente da fare. Avete visto quei carri merci? Bene, i lavoranti vivono lì dentro, e può darsi che lavorano da queste parti. Ora perché, dico io, non cercate lavoro qui e vi sistemate in uno di quei vagoni?»
«E te?» domandò la mamma.
«Ho pensato. Mi trovo un nascondiglio, tra i cespugli del torrente. Ho intravisto, un po' più indietro, un acquedotto abbandonato. Potrei star lì, giorno e notte, finché son guarito, e la notte mi porteresti da mangiare.»
«Io sarei contento,» disse il babbo, «di rimettermi nel cotone. E' un lavoro che mi piace.»
La mamma disse: «E può darsi che nei carri si stia benissimo. All'asciutto. Credi che i cespugli sono abbastanza folti per nasconderti, Tom?»
«Altro che. E poi sto attento. Potrei trovarmi un bel posticino, fuori mano. Appena guarito, vengo fuori.»
«Ti rimarrà una brutta cicatrice,» osservò la mamma.
«E chi se ne frega; chi è che non ha cicatrici?»
«Una volta ne ho raccolto, io da solo, duecento chili,» disse il babbo. «E' vero che era un'annata speciale, ma se si lavora tutti possiamo fare un po' di soldi.»
«E mangiare un po' di carne,» aggiunse Al. «Allora cosa si decide?»
«Io direi di tornare un po' indietro,» propose il babbo, «e dormiamo in macchina fino al mattino e poi andiamo a presentarci.»
«E Tom?» domandò la mamma.
«Non ti preoccupare per me, mamma. Mi prendo una coperta. Adesso tornando cerca di vedere quell'acquedotto che dicevo. Tu non farai che portarmi lì della polenta, o patate, un po' di pane; lasci lì la roba e te ne vai; io poi vengo a prendermela.» «Mi sembra ben pensato,» disse il babbo.
«Certo che è ben pensato,» insistette Tom. «Appena la faccia mi sta un po' meglio, mi faccio vivo e vengo a lavorare anch'io.»
«E sia,» concluse la mamma. «Ma non correre rischi. Non farti vedere da nessuno.»
Tom si trascinò in un angolo del camion. «Prendo questa coperta. Tornando indietro guarda bene quell'acquedotto, mamma.»
«Prudenza, Tom, mi raccomando.»
«Non aver paura. Buona notte a tutti. Arrivederci.» Scavalcò il bordo del camion e si diresse verso il torrente.
La mamma osservò la sua figura dileguarsi nella notte tra i cespugli del torrente. «Gesù,» disse, «speriamo che vada bene!»
Al domandò: «Allora che si fa, si torna indietro?» «Sì,» disse il babbo.
«Va' piano' « disse la mamma, «voglio trovare quest'acquedotto, voglio vederlo bene.»
Al manovrò per voltare il camion e procedette a lenta andatura finché raggiunse la colonna dei carri bestiame. I fari illuminavano i viottoli che mettevano alle porte dei singoli carri. Non si vedeva il minimo movimento. Al fermò e spense i fari e disse a Rosa Tea e zio John: «Voialtri andate dietro a dormire; io dormo qui sul sedile.»
Zio John aiutò Rosa Tea a scendere e a risalire sul retro del camion; la mamma radunò pentole e tegami in un angolo. E i Joad, ammassati uno accanto all'altro nel poco spazio libero, si prepararono a passare la notte.
Si udì strillare un bambino in uno dei carri bestiame. Un cane arrivò trotterellando e si fermò a fiutare sbuffando tra le ruote dell'autocarro. Dal torrente proveniva il mormorio, dell'acqua.
CAPITOLO 27.
Cercansi Raccoglitori di Cotone... cartelli sulle strade, manifesti, volantini arancione... Cercansi Raccoglitori di Cotone.
Ecco, dovrebbe essere da queste parti. Le piantine verde scuro sono ormai in piena fioritura, dalle ricche capsule globose appese ai rami traboccano già i candidi bioccoli di cotone.
E' bello affondare le mani tra le piantine, toccare con le dita, accarezzare le soffici gemme.
Io sono un buon raccoglitore.
Ecco là l'incaricato, laggiù.
Cerco lavoro, vi serve un buon raccoglitore?
Il sacco l'avete?
No, non ce l'ho.
Costa un dollaro, il sacco. Paghiamo ottanta cents al cento per la prima passata, e novanta per la seconda. Ecco qui il sacco. Un dollaro. Se non l'avete, ve lo tratteniamo dalla paga. Con qualche interesse, s'intende. Un prezzo onesto, comunque, non vi pare?
Oh, certo, onestissimo. E' un ottimo sacco, servirà per tutta la stagione. E quand'è logoro si può sempre rivoltare e, volendo, si può anche utilizzare la tela per farci degli ottimi vestiti, per esempio un bel paio di mutandoni per l'estate o anche una camicia da notte. E poi... ma insomma il sacco è proprio una cosa simpatica.
Te lo appendi alla cintola e te lo lasci spenzolare tra le gambe. Dapprincipio non te lo senti neanche, tanto è leggero. E con le dita cominci a raccogliere i bioccoli e le mani corrono svelte all'imboccatura del sacco. I bambini ti vengono dietro: loro i sacchi non ce li hanno, semmai si servono di sacchettini fatti in casa, ma in genere contribuiscono a riempire i sacchi dei grandi. Ora è già più pesante, e si gonfia, si tende e ogni tanto va sollevato. Io ho le mani adatte per raccogliere cotone: dita larghe, proprio quel che ci vuole per cogliere i bioccoli. Fanno da sé, vanno dritte alle gemme: gli occhi seguono il lavoro... ma senza neanche farci più caso. Basta andare avanti chiacchierando, e magari anche cantarellando, finché il sacco è pieno.
Da una fila all'altra si chiacchiera allegramente:
Là dov'ero io c'era una signora - meglio non far nomi - tutt'a un tratto s'è ritrovata con un bambino negro. Nessuno s'era mai accorto di niente e neanche gli è mai passato per la testa di cacciar via il negro. Solo che quella non ebbe più il coraggio di guardare in faccia la gente. Ma cos'è che volevo dire?... ah sì, questa donna era bravissima a coglier cotone.
Ora il sacco è proprio pesante, si fa fatica a reggerlo. Conviene trainarlo, come un cavallo da tiro. E i bambini continuano a versare i loro sacchettini nei sacchi dei grandi. Ma che magnifico raccolto, qui! Mai visto del cotone così bello come questo qui della California. Cotone con dei fili lunghissimi, come non ne ho mai visto da nessuna parte. Solo che la terra non rende mica sempre così. C'era un tizio che voleva comprare della terra a cotone. Non la comprare, prendila in affitto, dico io. E poi, quando non ti rende più, prendi e te ne vai da un'altra parte.
File e file di braccianti chini nei campi. Dita esperte, dita indagatrici che frugano meccanicamente tra le piantine in cerca dei bioccoli. Non c'è quasi mai bisogno di guardare. Fanno da sé!
Son pronto a scommettere che io sarei capace di coglier cotone a occhi chiusi. Li trovo per istinto, io, i bioccoli. E anche puliti, li colgo, puliti ch'è una bellezza.
Ora il sacco è pieno. Portiamolo alla pesa. C'è sempre da litigare. L'uomo della bilancia sostiene che ci hai messo delle pietre per far peso. Ma cosa gli salta in mente? E' la bilancia che è truccata. Qualche volta ha anche ragione, perché due o tre pietre ce le hai messe, nel sacco. Qualche volta hai ragione te, perché la bilancia è truccata davvero. E qualche volta han ragione tutt'e due: ci son delle pietre nel sacco e la bilancia è truccata. Sempre litigi, sempre discussioni. Te fai valere i tuoi diritti, ma anche lui fa altrettanto. Per qualche pietruzza, cosa volete che sia? Magari è solo una. Venticinque libbre? Sempre litigare.
Poi di nuovo al campo col sacco vuoto. Tiriamo fuori il nostro taccuino: bisogna subito segnarci il peso. Va fatto. Se sanno che tieni i conti, allora non ti fregano, ma se fai tanto di lasciar correre e di non registrare anche te le pesate, allora sei bell'e rovinato.
E' un buon lavoro, il nostro. I bambini ti gironzolano attorno e fanno compagnia. Hai sentito di quella macchina per raccogliere il cotone?
Eh sì, ho saputo.
Credi che arriverà anche qui?
Mah! certo che se viene, ci butta tutti sul lastrico.
Si fa notte. Sono tutti stanchi, ma il lavoro ha reso bene. Io ho fatto tre dollari, tra me, la mamma e i bambini.
File di veicoli diretti verso i campi di cotone. Si rizzano le tende. I camion parcheggiati al riparo e le roulotte si ricoprono rapidamente di una bianca lanugine che resta avviticchiata ai reticolati di cinta e quando si leva il vento va a formare bianche nuvolette che rotolano per la strada. E mucchi di candido cotone pulito, pronti per la sgranatrice, e le grosse pesanti balle che attendono d'esser compresse. E ancora cotone che ti s'appiccica agli abiti, s'attacca ai baffi, ti s'infila nel naso. Guarda, hai del cotone nel naso.
Gente curva sulle piantine, intenta a riempire il sacco prima che faccia buio. Dita esperte che frugano fra le gemme. Schiene piegate, che trascinano il sacco. I bambini sono stanchi, ormai è sera, e inciampano e cadono per terra, nella terra coltivata. Il sole sta per tramontare.
Potesse durare ancora un po'!
Il guadagno non è poi tanto, si sa, ma come vorrei che durasse ancora un po'! Nello stradone s'accalcano gli sgangherati veicoli, richiamati dai volantini. Il sacco l'avete?
No.
Costa un dollaro.
Se si fosse solo in cinquanta, ci sarebbe lavoro per un bel po' di tempo. Questione che s'è in cinquecento, e dura quasi niente. Ho conosciuto uno che non riusciva mai neanche a pagarsi il sacco. Ogni nuovo posto che trovava gli davano un sacco nuovo, ma non faceva in tempo a raggiungere il peso corrispondente al prezzo del sacco che già il campo era finito:
Bisogna cercare a tutti i costi di mettere da parte un po' di quattrini! L'inverno ormai è vicino. E d'inverno, in California, non c'è manco un briciolo di lavoro. Bisogna riempire il sacco prima di buio. Ho visto uno, là, che ci ha messo dentro due zolle.
Certo che ci metto le zolle, maledizione! Sto solo riprendendo il mio, con quella dannata bilancia truccata.
Ecco qui il mio taccuino: son trecentododici libbre.
Esatto!
Gesù, non ha neanche fiatato! La bilancia dev'essere truccata davvero. Be', è stata una buona giornata lo stesso.
Ho sentito dire che sono in arrivo un migliaio di persone. Domani mi sa che ci sarà da fare a pugni per avere un filare. Qua bisogna sbrigarsi a raccogliere il cotone.
Cercansi Raccoglitori di Cotone. Più braccianti al lavoro, più rapida va la sgranatrice.
Eccoci nell'attendamento dei raccoglitori.
Carne stasera, perdio! Finalmente ci s'ha i quattrini per la carne. Diamo una mano a quel poveraccio, è sfinito! Fa' un salto a prendere quattro libbre di carne. La mamma ci farà delle squisite ciambelle stasera, se non è troppo stanca.
CAPITOLO 28.
I carri bestiame, privi di ruote, stavano su due file di sei ciascuna a ridosso del torrentello di una piatta radura tra i cespugli. L'accesso a ognuno di essi era consentito da brevi passerelle di legno inclinate, adagiate sui longheroni dei carri in corrispondenza delle porte scorrevoli. Costituivano discrete abitazioni, al riparo dalla pioggia e dalle correnti d'aria, con spazio sufficiente a due famiglie in ogni singolo carro. Non c'erano finestre, ma le porte stavano sempre aperte. In alcuni una tenda pendeva dal tetto al centro del carro fungendo da tramezza, mentre per gli altri solo l'ubicazione della porta costituiva la linea di demarcazione tra le due famiglie.
I Joad presero possesso della metà dell'ultimo carro della fila. Il precedente inquilino aveva costruito una rudimentale stufa servendosi di una latta di benzina e praticando nella parete un buco per il tubo. Anche con la porta spalancata, c'era poca luce all'interno. La mamma fece metter su il telone impermeabile per segnare la delimitazione tra i due vani.
«Bello,» disse, «quasi meglio di qualunque casa abbiamo avuto finora, eccetto il campeggio governativo.»
Tutte le sere srotolava i materassi e tutte le mattine li riarrotolava e tutti i giorni la famiglia intera si trasferiva nei campi a coglier cotone. Ed ogni sera mangiavano carne. Un sabato andarono in macchina a Tulare e comprarono una cucina, e nuove tute per il babbo e Al e Winfield e zio John, e comprarono un vestito per la mamma, che passò a Rosa Tea quello che smise, dicendole: «Grossa come sei, sarebbe spreco comprarti adesso un vestito nuovo.»
I Joad avevano avuto fortuna, arrivando in tempo per assicurarsi una dimora nei carri bestiame, perché ora le tende dei ritardatari coprivano tutta quanta la piccola radura tra i cespugli, e le famiglie che stavano nei carri, godendo del privilegio dell'anzianità, formavano quasi l'aristocrazia della colonia.
Il torrentello correva a pochissima distanza, ora scomparendo fra i salici ora ricomparendo. Un sentiero fortemente battuto conduceva dalla porta d'ogni singolo carro sulla sponda del torrente. Tra un carro e l'altro erano stese le corde del bucato, sempre stracariche di panni che asciugavano al sole.
La sera i lavoranti rientravano dai campi, portando ognuno il suo sacco vuoto piegato sul braccio. Sostavano al negozio del crocevia, che a quell'ora risultava sempre affollato.
«Quanto avete fatto oggi?»
«Oggi benone. Tre dollari e mezzo. Potesse durare. I bambini se la cavano già benino. La mamma ha fatto apposta per loro dei sacchi più piccoli, con un paio di vecchie camicie, quelli normali non potevano trascinarseli dietro. Adesso aiutano anche loro; fan quel che possono.»
E la mamma si avvicinava al banco della carne, con l'indice sulle labbra, assorta in profondi calcoli. «Oggi potrei provare le braciole di maiale. Son care?»
«Trenta cents la libbra, signora.»
«Datemene tre libbre. E un bel pezzo di bollito. Lo faccio cuocere da mia figlia domani; e una bottiglia di latte, per lei. Aspetta un bambino, deve bere molto latte. Ora vediamo, patate ce n'è in casa...»
Il babbo le si avvicinò, con in mano un barattolino di sciroppo: «Potremmo prendere questo sciroppo,» disse. «Potremmo farci le frittelle dolci.»
La mamma aggrottò la fronte. «Be', sì, prendi pure. Ora... ho bisogno di lardo.»
Arrivò Ruth, agitando in aria due scatolette di torroncini, con in fondo agli occhi una supplichevole domanda che poteva, a seconda del cenno di testa della mamma, o negativo o affermativo, diventare tragedia oppure gioiosa felicità. «Rimettile dove le hai prese...»
Negli occhi di Ruth cominciò a luccicare la tragedia, ma il babbo disse: «Solo un nichelino ciascuna. I marmocchi hanno lavorato bene oggi.»
Negli occhi di Ruth cominciò a brillare la gioia. «Allora prendi pure,» disse la mamma. Ruth fece dietro front e prese la fuga, incontrò Winfield sul suo cammino e lo prelevò, e tutt'e due dileguarono nel buio della notte.
Zio John stava palpando un paio di guanti di tela con il palmo di pelle gialla. Se li provò, li ritolse, e li ripose. Si trasferì pian piano dinanzi allo scaffale dei liquori e prese a studiare le etichette. La mamma lo vide e lo indicò al babbo con un cenno di testa.
Il babbo lo raggiunse. «Hai sete, John?»
«No, affatto.»
«Meglio aspettare fin dopo il raccolto. Dopo, sborniati finché vuoi.»
Non ci penso neanche,» dichiarò zio John. «Lavoro sodo e dormo più sodo ancora. Né sogni né rimorsi.»
«Mi pareva d'averti visto ammaliato da quelle bottiglie.»
«Non le vedevo neanche. Strano, però. Mi vien voglia di comprare roba, roba che però manco mi serve, per niente. Come uno di quei rasoi, per esempio. O quel paio di guanti che ho visto là.
Costano poco.»
«Non puoi cogliere il cotone coi guanti.»
«Lo so bene. Come so che non ho bisogno del rasoio. E' tutta questa roba in vista, che fa venir la voglia di comprarla, anche se non serve.»
La mamma chiamò: «Andiamo, s'è preso tutto.» Diede un pacco al babbo, un altro a zio John e tenne la sporta per sé. Fuori del negozio Ruth e Winfield aspettavano, con gli occhi eccitati, le bocche piene di torrone. «Non mangerete più niente a cena, suppongo,» disse la mamma.
I lavoranti rientravano a frotte. Le tende erano illuminate, il fumo usciva da tutti i tubi di stufa. I Joad salirono sulla passerella ed entrarono nel loro scomparto. Rosa Tea li aspettava seduta su una cassetta presso la stufa. Aveva acceso il fuoco, e la stufa era rovente. «Mi avete portato il latte?» domandò.
«Eccolo.»
«Meno male. Son stata senza tutto il pomeriggio.
«Crede che è una medicina,» osservò il babbo.
«M'han detto che lo deve prendere.»
«Hai preparato le patate?» domandò la mamma.
«Sì, le ho sbucciate.»
«Ora le friggiamo.» disse la mamma. «Le mangiamo con le braciole. Affettale nella padella nuova, e mettici una cipolla. Voialtri andate a lavarvi, e portatemi una secchia d'acqua. Ruth e Winfield dove sono? Devono lavarsi. Gli ho comprato i torroncini,» spiegò a Rosa Tea, «una scatola per uno.»
Gli uomini uscirono per lavarsi nel torrente. Rosa Tea affettò le patate nella padella e badò a voltarle con la punta d'un coltello.
Improvvisamente la tenda fu sollevata da una parte e si affacciò un donnone, dall'altra metà del carro. «Quanto avete fatto, signora Joad?»
La mamma si voltò, con espressione cordiale. «Oh, buona sera, signora Wainwright. Abbiamo fatto benino. Tre dollari e mezzo; tre e cinquantasette, per esser esatti.»
«Noi, quattro. Quattro dollari.»
«Complimenti. Però siete anche di più.
«Infatti. Jonas si fa grande. Vedo che avete le braciole di maiale.»
Arrivò Winfield di corsa. «Mamma!»
«Zitto un momento. Sicuro, i miei uomini son ghiotti di maiale.»
«Noi abbiamo la pancetta,» disse il donnone, «sentite l'odore?»
«No, non posso, con questa cipolla nelle patate.»
«Dio, brucia!» esclamò il donnone, ritirandosi precipitosamente.
«Mamma!» ripeté Winfield.
«Cos'è, hai fatto indigestione?»
«No. Ruth ha parlato.»
«Parlato? Di che?»
«Di Tom.»
La mamma spalancò gli occhi. «Ha parlato?!» S'inginocchiò davanti al bambino. «Winfield, cos'ha detto?»
Winfield, imbarazzato, indietreggiò. «Be', ha solo raccontato un poco.»
«Winfield! Cos'ha detto? Dimmelo.»
«Faceva la stupida col torrone, mangiava adagio, per farmi arrabbiare, come fa sempre, per averne ancora quando io l'ho già finito...»
«Winfield, raccontami quello che ha detto Ruth.» Diede un'occhiata ansiosa verso la tenda. «Rosatè, va' a parlare con la signora Wainwright, così non sta a sentire.» «E le patate?»
«Le guardo io. Va'. Non voglio che stia a origliare dietro la tenda.» Rosa Tea ubbidì e partì strascicando i piedi.
«Dunque, Winfield, racconta!»
«E' come ho detto. Mangiava un pezzetto per volta, piccolo piccolo, per farlo durare di più.»
«Ma va' avanti. Cos'è successo?»
«C'erano degli altri bambini, e volevano un pezzo di torrone ma Ruth niente, continuava a mangiar tutto lei a un pezzetto per volta, per farli arrabbiare, e uno s'è arrabbiato davvero e le ha strappato il torrone di mano...»
«Winfield, dimmi subito quell'altra cosa!»
«E aspetta! Allora Ruth gli ha corso dietro, e gli altri le impedivano di correre, e lei ne chiappa uno e lo picchia, e allora una ragazza grande chiappa lei e gliene dà tante! E Ruth s'è messa a piangere, e ha detto che lo diceva al suo fratello grande, e che lui avrebbe ammazzata quella ragazza.» Winfield parlava con tanta fretta che gli mancava il fiato. «E l'altra dice: 'Ah sì, eh? ho anch'io un fratello grande' e le tira un altro schiaffo. E Ruth più arrabbiata che mai, grida che suo fratello è capace di ammazzare il fratello dell'altra, perché aveva già ammazzato due uomini. E l'altra fa: 'Sta' zitta brutta bugiarda!' e Ruth dice: 'Ah! bugiarda io? eh? ti dico che mio fratello proprio adesso è nascosto perché ha ammazzato uno, ed è capacissimo di ammazzarti anche tuo fratello.' E poi si sono dette un sacco di parolacce e Ruth gli ha tirato un sasso e poi è scappata e l'altra l'ha inseguita e io son venuto a casa.»
«Dio, Dio,» disse la mamma sbigottita. «Cosa facciamo adesso, mio caro dolce Signore Gesù Bambino, cosa facciamo?» Nascose la faccia tra le mani e si fregò gli occhi. «Cosa, cosa facciamo?» Un odor di patate bruciate la fece sobbalzare e dirigersi automaticamente verso la stufa. «Rosatè!» chiamò. La figlia si affacciò da dietro la tenda. «Vieni a guardar le patate. Tu, Winfield, corri a trovare Ruth e portamela qui.»
«La picchi?» domandò Winfield con occhi pieni di speranza.
«No, non servirebbe a niente picchiarla, ma... oh, Dio mio, ci mancava anche questa. Corri,
Winfield, trovala e portamela qui.»
Winfield prese la corsa, e sulla passerella incontrò gli uomini che rientravano e dovette scansarsi per lasciarli passare.
La mamma disse subito al babbo, a bassa voce: «Devo parlarti. Ruth ha detto a dei bambini che Tom è nascosto.»
«Cosa?!»
«Ha parlato. Si son messi a litigare e lei l'ha detto.»
«Che lingua di vipera!»
«No, non sapeva quel che faceva. Ora senti, te resta qui. Io vado a cercare Tom per dirglielo, devo dirgli di stare attento. Te resta qui, caso mai succede qualcosa. Io gli porto qualcosa da mangiare.» «Va bene.»
«Quando viene Ruth, non dirle niente, ci parlo io.»
E Ruth arrivò in quel momento, malconcia, la bocca appiccicosa di torrone con ancora qualche traccia del sangue che aveva perduto dal naso, l'aria colpevole e spaventata. Winfield la seguiva con aria trionfante. Cercando d'assumere un atteggiamento risoluto, Ruth rigò diritto verso un angolo del carro e vi si rincantucciò.
«Gliel'ho detto che cosa ha fatto,» disse forte Winfield.
La mamma stava sistemando in un piatto di stagno due braciole e delle patate fritte. «Zitto, Winfield,» lo rimproverò. «Non c'è bisogno di farla soffrire più di quanto non soffra già.»
E di colpo Ruth si staccò dal suo angolo, si precipitò dalla mamma, la cinse alla vita, nascose la faccia contro il suo petto e prese a singhiozzare come una disperata. La mamma tentò di sciogliersi dall'abbraccio, ma inutilmente, e allora carezzò la bimba sulla testa e sulle spalle: «Su, su,» la confortò. «Non sapevi quel che dicevi.»
Ruth sollevò la faccia lagrimosa e sudicia: «M'avevano rubato il torrone,» gridò tra i singhiozzi, «e quella schifosa mi picchiava...» e proruppe daccapo in pianti laceranti.
«Zitta, zitta, non dire parolacce, su, lasciami, devo andare, ora.»
«Perché non la picchi, mamma? Se non faceva la stupida col torrone, non succedeva niente; avanti, picchiala.»
«Tu fai silenzio e pensa a te, signorino, se non vuoi buscartele al posto suo. Via, Ruth, lasciami andare.»
Winfield si ritirò a sedere su un materasso arrotolato, e contemplò la famiglia con sguardo risentito e cinico. E si mise nella migliore posizione di difesa, perché Ruth l'avrebbe aggredito alla prima occasione, e lui lo sapeva. Ruth, affranta, si ritirò nell'angolo opposto del carro.
La mamma incartò con un giornale il piatto di stagno, si diresse alla porta e scese cauta la passerella inclinata.
«E tu non mangi niente?» domandò zio John.
«Dopo, quando ritorno, adesso non ho voglia,» rispose la mamma e si avviò lungo il torrente avanzando tra le tende. Le tende erano così vicine che era difficile procedere tra di esse; la luce filtrava fra i teli e da tutti i tubi delle stufe usciva fumo; uomini e donne discorrevano sulle soglie e i bambini scorrazzavano. La mamma camminava in tutta la sua dignità, rispondendo ai saluti di chi la conosceva.
«Buona sera, signora Joad.»
«Buona sera.»
«Portate la cena a qualcuno, signora Joad?»
«Devo restituire del pane a un'amica.»
Quando alfine uscì dall'accampamento, si fermò per guardarsi alle spalle. Il chiarore diffuso dalle lanterne e l'odore del fumo stavano sospesi sopra le tende insieme al confuso mormorio delle voci, rotto qua e là da un grido di chiamata. Qualcuno si esercitava su un'armonica, ripetendo sempre lo stesso motivo alla ricerca di un effetto.
La mamma si scostò dal sentiero inoltrandosi nel folto dei salici e si fermò immobile in ascolto per accertarsi che nessuno l'avesse seguita. Un uomo risaliva il sentiero diretto al campo e camminando si riaggiustava le bretelle e si riabbottonava i pantaloni. La mamma s'acquattò e rimase immobile e l'uomo passò oltre senza scorgerla. Aspettò ancora cinque minuti, poi si rialzò e riprese il cammino per il sentiero con passi così silenziosi che sentiva giungere dal fondo il mormorio della corrente. Quando alfine il sentiero tortuoso la portò vicino alla strada, ella riconobbe alla fioca luce diffusa delle stelle l'arco nero dell'acquedotto dove soleva lasciare il cibo per Tom. Avanzò con raddoppiata cautela e posò in una buca il piatto al posto di quello vuoto, che si riprese; poi si allontanò d'una ventina di passi e si mise a sedere in attesa, senza muoversi. Tra i cespugli la vita, paralizzata al suo passaggio, non tardò a rianimarsi; i topi di campagna ripresero a strisciare sulle foglie secche; una moffetta, goffa ma disinvolta, passò sul sentiero lasciando dietro di sé il suo caratteristico odore di muschio. Poi un venticello spirò delicatamente tra i salici, come per saggiarne il fogliame, provocando una pioggiolina di foglie dorate. Un colpo di vento più forte sospinse nel cielo un nuvolone nero che velò le stelle e lasciò cadere grosse gocce di pioggia; poi passò oltre, portandosi via la nuvola, che svelò di nuovo le stelle. La mamma sentì un brivido di freddo, e distinse, lontano, le acute note penetranti di un violino che cercava un'arietta.
Finalmente udì un passo furtivo tra le foglie, che acuì in lei la tensione dell'attesa; raddrizzò il busta tendendo l'orecchio. Il rumore cessò, per riprendere dopo un lungo momento, come uno scricchiolio di fuscelli secchi, e un'ombra grigia passò sullo sfondo nero dell'arco dell'acquedotto. Ella chiamò piano: «Tom!» e l'ombra si fermò, così immobile che poteva scambiarsi per una ceppaia. Ella ripeté: «Tom, Tom!» L'ombra si mosse.
«Sei te, mamma?»
«Sì. Di qua.» La mamma s'alzò e andò versò di lui. «Non dovevi venire,» la rimproverò lui.
«Dovevo vederti, Tom. Ho da parlarti.»
«Siamo troppo vicino al sentiero. Può passare qualcuno.»
«Non ce l'hai un nascondiglio, Tom?»
«Certo... ma se... se succede che qualcuno ti vede con me... siamo fregati tutti.»
«Lo so, Tom.»
«Be', seguimi, ma fa' piano.» Tom entrò nell'acqua e guadò il torrentello, e la mamma lo seguì. Giunto all'altra sponda, si aprì il varco tra i cespugli e sbucò in un campo di cotone; si inoltrò tra i solchi del bordo per circa quattrocento metri, rientrò nei cespugli e finalmente si chinò per sgombrare con le mani l'accesso ad una tana. «Bisogna entrare carponi,» disse.
La mamma si mise a quattro gambe, sentì sotto le mani il terreno sabbioso e asciutto, e dopo un momento i suoi occhi s'abituarono al buio e le sue mani trovarono la coperta di Tom. Inoltrandosi nel covo dopo di lei, Tom provvedette a ricoprire di frasche l'apertura. Nella tana ora c'era il buio più assoluto.
«Dove sei, mamma?»
«Qui, Tom, qui. Parla piano.»
«Sta' tranquilla. Sto diventando un coniglio.» Lo udì che disfaceva il pacco.
«Braciole di maiale con patate fritte,» disse la mamma.
«Formidabile,» fece Tom, «e ancora calde.»
La mamma non poteva vederlo affatto, ma lo sentiva masticare e inghiottire.
«Bel nascondiglio, vero?» disse Tom.
«Senti, Tom... » disse la mamma, a fatica, «... Ruth ha parlato.» Lo udì sforzarsi ad inghiottire.
«Ruth? E perché?»
«Non per cattiveria, ha litigato con un'altra bambina, e così ha gridato che aveva un fratello capace di darle al fratello dell'altra, sai come fanno, e... ha detto che suo fratello aveva ucciso uno e che stava nascosto...»
Tom sogghignava: «Gliel'ho sempre detto, a zio John, di tener d'occhio i bambini, ma non m'ha voluto dar retta. Ma poco male, mamma; solo ciance di bambini...»
«No Tom. Quei bambini lo ripetono in giro, la voce circola, e vedrai che tra poco lo viene a sapere anche la polizia. Tom, io dico che devi assolutamente andar via.»
«E' quello che ho sempre detto io. E poi ho sempre avuto paura che qualcuno ti vedesse a portarmi il mangiare.»
«Lo so, Tom, ma io ti volevo vicino... ero in pensiero per te. In fondo non ti ho mai visto... e neanche ora ti posso vedere. La ferita come va?»
«Si rimargina abbastanza presto.»
«Vieni più vicino, Tom, voglio sentire con le mani, vieni più vicino.» Tom si trascinò presso di lei, ed ella brancolò nel buio e passò le dita delicatamente sul suo naso e sulla guancia. «E' una grossa cicatrice, Tom, e il naso è storto.»
«Può essere una buona cosa, così nessuno magari mi riconosce. Il guaio è che hanno le mie impronte digitali.» Si rimise a mangiare.
«Zitto!» bisbigliò la mamma. «Senti?»
«Niente. Il vento.»
Ella gli si fece più vicino. «Voglio toccarti ancora,» disse, «è come se fossi cieca, è così buio.
Voglio che almeno le mie dita possano ricordarti. Devi andar via, Tom.»
«Lo so. Lo sapevo fin dal principio.»
«Ce la siamo cavata abbastanza bene, finora. Ho messo da parte, sai. Dammi la mano, Tom, t'ho portato sette dollari.»
«Non li voglio. Posso benissimo far senza.»
«No, no, dammi la mano, Tom. Non dormo più sé non li prendi. Puoi aver bisogno di un autobus o qualcosa del genere perché è meglio che vai via lontano, magari cinquecento chilometri.»
«No, non lo prendo.»
«Tom,» diss'ella con fermezza, «devi prenderlo, capisci? Non hai diritto di farmi star male.»
«Ma non è giusto, mamma!»
«Pensavo che potresti andartene in una grande città. Los Angeles, per esempio. Là, nessuno ti troverebbe.»
«Sicuro. Senti, mamma. Sai a chi penso continuamente da quando sto nascosto? A Casy. Parlava tanto, e qualche volta mi seccava, ma adesso mi tornano alla mente le cose che diceva e, non so perché, ci rumino su tutto il tempo. Diceva che una volta era partito nel deserto, era andato per cercarvi la sua anima, e aveva scoperto che non aveva un'anima che fosse sua, ma che era solo un pezzo di un'altra anima immensa. E aveva capito che non bisogna andare a vivere nel deserto, perché lì il nostro pezzo d'anima non può servire da sola, serve soltanto quando sta con gli altri pezzi dell'anima grande, e cioè quando si vive in mezzo agli altri uomini. Quando mi diceva queste cose, non mi pareva neanche di stare ad ascoltare; eppure adesso me le ricordo per filo e per segno. E' perché anch'io ora ho capito che non bisogna starsene soli.» «Casy era un brav'uomo,» disse la mamma.
Tom continuò: «Alle volte raccontava parabole della Scrittura. Me ne ricordo una, perché me l'ha ripetuta due volte.» «Com'era, Tom?
«Diceva: Due è meglio che uno, perché ricavano maggior profitto dalle loro fatiche. Se uno cade, l'altro lo aiuta a rialzarsi, ma guai a chi è solo e cade, perché non c'è nessuno che lo aiuta.» «Zitto... Hai sentito?»
«E' solo il vento, mamma.»
«Allora, Tom, cosa pensi di fare?»
Tom restò a lungo in silenzio. «Pensavo a come andavano le cose nel campeggio governativo, tutta brava gente che si governava da sé, senza bisogno di guardie armate di fucile o di pistola. E c'era più ordine là dentro che fuori. Mi chiedevo perché non si potrebbe fare così dappertutto: dare la terra ai lavoratori e lasciare che se la lavorino secondo le loro regole per sostentarsi, e così vivano come piace a loro.»
«Tom,» ripeté la mamma, «cosa pensi di fare?»
«Quello che faceva Casy.»
«Ma l'hanno ammazzato!»
«E' stata una disgrazia, non aveva preso precauzioni. Ma non faceva mica niente contro la legge.» «Ma ti daranno la caccia come al figlio della Floyd.»
«Tanto mi danno la caccia lo stesso. E poi, siamo tutti perseguitati. Ad ogni modo, non ho ancora deciso niente, non posso dirti nulla di preciso, non stare a domandarmi...»
Rimasero qualche secondo senza parlare, poi la mamma disse: «Come farò a sapere quello che ti succede? Possono ucciderti, possono farti del male, come farò a sapere?»
Tom rise un po' nervoso: «Mah, forse aveva ragione Casy, e ognuno di noi non ha un'anima propria ma solo un pezzo di un'anima grande...»
«Ma non capisco, Tom, non so cosa vuoi dire.»
«Neanche io lo so; per ora è inutile parlare di progetti. E adesso faresti bene a rientrare.»
«Allora prendi il denaro.»
Tom esitò ancora un momento. «E va bene,» disse poi.
«E, Tom, più tardi... quando non c'è più pericolo, ritorna. Ci troverai?»
«Certo. Ora è meglio che vai. Dammi la mano.» La guidò verso l'uscita; le dita della mamma s'avvinghiavano attorno al suo polso. Egli spostò le frasche per farla passare, e la seguì. «Cammina qui lungo questo solco finché arrivi a un sicomoro che è laggiù alla fine dei campo, poi attraversa il torrente. Addio.»
«Addio, Tom,» rispose la mamma e si allontanò rapidamente. Gli occhi umidi le bruciavano, ma non pianse. Il suo passo era pesante, rumoroso sulle foglie, ed ella non se ne curava. La pioggia cominciò a cadere, in larghe gocce fredde; la mamma si fermò, e fece per tornare indietro nel covo di Tom, ma resisté alla tentazione e riprese il cammino nella direzione dell'accampamento. Giungendo all'acquedotto abbandonò il sentiero e salì sulla strada. La pioggia era cessata, ma il cielo era ancora nuvolo. D'un tratto sentì alle spalle un passo d'uomo, e si voltò di scatto e i suoi occhi incontrarono un fascio di luce proiettato da una lampadina tascabile. Si voltò di nuovo e accelerò il passo. L'uomo che la seguiva non tardò a raggiungerla, e si affiancò a lei, illuminandole la strada con la sua lampadina.
«Buona sera,» le disse, «pare che il tempo si guasta.»
«Speriamo di no. Sospenderebbe il raccolto, e abbiamo bisogno di lavorare.» «Sarebbe un danno anche per me. Voi siete accampata qui?» «Sì signore.» I loro passi risuonavano sull'asfalto della strada.
«Io ho un campicello, venti acri. Il mio cotone è un po' in ritardo, ma ormai è maturo. Venivo appunto qui in cerca di lavoranti.»
«Ne troverete certo. La stagione è sul finire.»
«Lo spero davvero. Il mio campo è solo a un paio di chilometri in quella direzione.»
«Noi siamo sei,» disse la mamma. «Tre uomini, io e due bambini.»
«Metterò fuori un cartello, che si veda dalla strada.»
«Noi si può venire anche domattina.»
«Speriamo che non piova.»
«Anch'io posso venire,» disse la mamma. «Venti acri non ci vuol mica tanto.»
«Prima si fa, meglio è. Il mio cotone è in ritardo. Se aspetto ancora un po'...»
«Quanto pagate, signore?» «Novanta cents.»
«Noi veniamo. Dicono che l'anno prossimo la paga scenderà a settantacinque, o anche sessanta.» «L'ho sentito dire anch'io.» «Chi sa che proteste.»
«Probabile. Ma noialtri piccoli proprietari non ci possiamo far niente. E' l'Associazione che fissa le paghe e noi dobbiamo ubbidire. Altrimenti perdiamo la proprietà. I piccoli proprietari non hanno scelta.»
Arrivarono all'accampamento. «Noi veniamo domattina,» promise la mamma. Si diresse al suo carro e salì sulla passerella. La luce bassa della lanterna gettava ombre sinistre sulle pareti. Il babbo e zio John se ne stavano accoccolati contro una parete in compagnia di un uomo anziano.
«Eccomi,» disse la mamma entrando, «buona sera, signor Wainwright.»
L'uomo sollevò la testa mostrando un volto dai lineamenti ben modellati; aveva i capelli grigi e una corta barba bianca. «Buona sera, signora,» rispose.
«Ho trovato lavoro per domattina,» annunciò la mamma, «a un paio di chilometri a nord. Venti acri.»
«Meglio prendere il camion, credo,» disse il babbo, «si arriva più presto e così si guadagna qualcosa di più.»
«Dite che si può venire anche noi?» domandò Wainwright ansiosamente.
«Oh, certo. Ho fatto un pezzo di strada col proprietario. Veniva giusto qui a cercare lavoranti.». «Qui ormai è quasi finito il cotone. Sempre magra, la seconda passata; si ripulisce quasi tutto alla prima e per quel che si becca, non conviene neanche.»
«Potete magari venire con noi in macchina,» disse la mamma. «Si fa a mezzo con la benzina.» «Oh... proprio molto gentile da parte vostra, signora.» «Conviene anche a noi,» disse la mamma.
Il babbo disse: «Il signor Wainwright, qui, ci stava giusto parlando di una faccenda che lo preoccupa.»
«Di che cosa si tratta?»
Wainwright abbassò gli occhi sul pavimento. «La nostra Aggie,» cominciò, «s'è fatta una discreta figliola... vicino ai sedici, è cresciuta.» «Molto bellina,» commentò la mamma.
«Lascialo parlare,» disse il babbo.
«Be', lei e il vostro Al vanno fuori insieme tutte le sere. E Aggie è una figliola piena di salute che avrebbe bisogno d'un marito, se no va a finire che si mette nei guai. Noi in famiglia non si ha mai avuto da vergognarci di niente, ma, adesso che siamo così poveri, io e mia moglie cominciamo a preoccuparci. Se succede che si mette nei guai...»
La mamma srotolò un materasso e vi si sedette. «Sono fuori, adesso?» «Sempre, tutte le sere,» disse Wainwright.
«Hmm. Ma Al è un bravo ragazzo. Sembra che fa un po' il galletto, così, ma è un ragazzo serio. Non potrei desiderarne uno migliore di lui.»
«Oh, ma noi non abbiamo niente contro Al. Ci è simpatico. Ma quel che fa paura a me e a mia moglie... be', è che Aggie è già una donnetta, e se domani noi dobbiamo andarcene o ve ne andate voi e poi magari si scopre che Aggie s'è messa nei pasticci. In famiglia non abbiamo mai dovuto vergognarci di niente.»
La mamma disse con dolcezza: «Faremo in modo di non causarvi alcuna vergogna.»
Wainwright si mise in piedi. «Grazie, signora. Aggie è quasi una donna, capite. Ed è una brava ragazza... buona e simpatica. Vi ringrazio davvero, signora, se non ci farete vergognare. Aggie non ha colpa; è solo che è cresciuta, ormai.»
«Il babbo parlerà ad Al,» assicurò la mamma, «o se non vuole lui, gli parlo io.»
«Grazie di nuovo, signora, e buona notte.» Si ritirò dietro la tenda, e lo udirono parlare a bassa voce, riferendo il risultato della sua ambasciata.
La mamma stette un momento in ascolto, poi: «Sentite voialtri,» disse, «venite a sedervi qua e statemi bene a sentire.» Il babbo e zio John andarono a sedersi accanto a lei sul materasso. «I bambini dove sono?»
Il babbo indicò un materasso nell'angolo. «Ruth è saltata addosso a Winfield e gli ha dato un morso. Li ho mandati a letto tutt'e due per castigo. Credo che dormono. Rosatè è andata a trovare un'amica.»
La mamma sospirò. «Ho visto Tom,» disse, in tono melanconico, «gli ho detto d'andar via.
Lontano.»
Zio John abbassò la testa e il babbo annuì lentamente, poi disse: «Non c'era altro da fare, ti sembra, John?»
Zio John sollevò la testa. «Io non so più cosa pensare. Sembra tutto un sogno.»
«Tom è un bravo figliolo,» disse la mamma, poi si scusò col babbo: «Mica ho fatto male a dire che volevo parlare io ad Al?»
«No, no,» disse il babbo, sommesso, «io non sono più buono a niente. Non faccio che pensare al passato, alla nostra casa che non vedremo mai più...»
«Qui è più bello,» disse la mamma, la terra è più ricca.»
«Lo so. Ma io non la guardo mai. Vedo sempre solo la nostra, adesso i salici devono aver perduto tutte le foglie; qualche volta mi ritrovo a pensare al modo migliore per tappare quel buco nella siepe. Strano, però, vedere la moglie che ha preso il posto del marito nella famiglia. La donna dice facciamo questo, andiamo là, e io non discuto neanche.»
«Siamo più adattabili che voialtri uomini,» spiegò la mamma con dolcezza. «Noi, la vita ce la portiamo sulle braccia, voialtri ve la portate dentro la testa. Non ti tormentare, chi sa... Chi sa che l'anno venturo non si riesca ad avere un pezzetto di terra nostro.»
«Quando non si ha più niente, come farsi illusioni? Finita la stagione dei raccolti non abbiamo più lavoro. E cosa faremo? Come faremo a mangiare? Con Rosatè, ormai vicina al suo tempo. Fa paura pensare. E' per questo che io vivo nel passato. Sembra che non c'è più niente davanti a noi e che la nostra vita è finita.»
La mamma sorrise. «No, babbo, non è vero. Questa è un'altra cosa che le donne capiscono meglio degli uomini, me ne sono già accorta. L'uomo vive a scosse. Muore un vecchio, o nasce un bambino, sono due scosse. Compra una terra, o perde la sua, son due scosse. La donna si lascia vivere, un po' come l'acqua d'un fiume: piccole anse, piccole cascate, ma l'acqua continua a scorrere. E' così che noi donne vediamo la vita. Nessuno di noi muore del tutto; la gente continua, con qualche cambiamento, magari, ma continua.»
«Non si può dire,» fece zio John. «Chi gli impedisce di fermarsi un bel giorno? A forza di sentirsi stanca, un bel giorno si sdraia e si lascia morire.»
La mamma considerò il problema, fregandosi il dorso delle mani e intrecciando le dita. «Difficile dire, ma a me pare che tutto quello che facciamo è diretto allo scopo di perseverare; anche sentir fame, anche essere malati. Qualcuno muore, ma chi rimane si sente più forte. Cercare insomma di vivere alla giornata, non guardare più in là...»
Zio John disse: «Se solo non mi fosse morta quella volta...»
«Vivere alla giornata,» ripeté la mamma, «non preoccuparsi del poi.»
«Chi sa, l'anno venturo,» disse il babbo, «si sarebbe potuto avere un bel raccolto, a casa.»
«Chi c'è?» domandò la mamma. S'erano sentiti dei passi sulla passerella, e qualche secondo dopo comparve Al, sollevando un lembo della tenda.
«Ehi,» disse, «credevo che eravate già a letto.»
«Si parlava,» disse la mamma, «vieni anche te a sentire.»
«Oh bene... ho da parlare anch'io. Tra poco mi toccherà di andar via.»
«Non puoi, Al. Abbiamo bisogno di te. Perché dici che ti toccherà di andare?»
«Be', io e Aggie Wainwright pensiamo di sposarci, e io conto di trovarmi un posto in un garage, e al principio avremo una camera mobiliata, e...» diede intorno uno sguardo di sfida, «e nessuno può impedircelo.»
Tutti lo guardavano. «Al,» disse la mamma alla fine. «Noi siamo molto contenti.»
«Davvero?»
«Certo. Sei un uomo ormai, hai bisogno d'una moglie. Ma, Al, non andar via proprio adesso!»
«L'ho promesso ad Aggie. Vogliamo cambiar vita. Non ne possiamo più.»
«Aspetta fino a primavera,» lo supplicò la mamma, «solo fino a primavera. Chi è che guiderà il camion?»
«Be'...»
La tenda si mosse e apparve la testa della signora Wainwright: «L'avete già saputo?» chiese.
«Sì. Ce l'ha appena detto.»
«Bella notizia, eh? Ci vorrebbe... ci vorrebbe una torta per festeggiare. Ci vorrebbe proprio una torta o qualcosa del genere.»
«Metto su il caffè,» propose la mamma, «e facciamo le frittelle. Abbiamo anche lo sciroppo.»
«Buona idea!» esclamò la signora Wainwright. «Splendido... ecco, io posso portare dello zucchero. Facciamo le frittelle dolci.»
La mamma introdusse nella stufa due o tre fuscelli che subito si infiammarono sui resti del fuoco della cena. Ruth e Winfield sgusciarono fuori dalla coperta come granchi eremiti fuori dalla conchiglia. Sulle prime usarono prudenza, per vedere se erano ancora considerati delinquenti, ma quando s'accorsero che nessuno li notava si fecero audaci. Ruth attraversò tutto il carro saltellando su un piede solo, senza mai appoggiarsi a niente.
La mamma stava versando la farina in un paiolo quando Rosa Tea rientrò, camminando con la sua solita andatura prudente e guardinga. «Che succede?» domandò.
«Oh, grandi novità,» esultò la mamma, «festeggiamo il fidanzamento di Al e Aggie Wainwright.» Rosa Tea rimase perfettamente immobile. Voltò lentamente la testa verso Al, che sotto il suo sguardo sentì imbarazzo.
Dall'altra parte del carro giunse la voce della signora Wainwright: «Sto aiutando Aggie a mettersi il vestito bello, vengo subito.»
Rosa Tea voltò lentamente le spalle e ridiscese la passerella e sempre a passi lenti si allontanò nella direzione del torrente. Si incamminò sul sentiero che la mamma aveva percorso poco prima, tra i salici. Il vento ora soffiava più forte e faceva stormire i cespugli: Rosa Tea si inoltrò nel folto, e quando fu certa di non poter essere raggiunta, si sdraiò a terra supina. Sentiva il peso della creatura che portava in seno.
Era ancora buio quando la mamma si svegliò; solo la luce grigia diffusa dalle stelle penetrava per la porta aperta del carro bestiame. La mamma respinse la coperta, s'alzò e si fece sulla soglia a guardar fuori. A levante le stelle cominciavano a impallidire e il vento soffiava leggero sulle foglie dei salici che univano i loro bisbigli al mormorio dell'acqua. L'accampamento era ancora immerso nel sonno. Solo davanti ad una tenda ardeva un piccolo fuoco, attorno al quale si muovevano quattro o cinque persone e tendevano le mani alla fiamma per scaldarsele. La mamma restò un lungo momento in osservazione, le mani alla cintola, poi le stropicciò, sentendo un brivido, perché il mattino era fresco. Si ritirò, s'accostò alla lanterna e brancolò in cerca dei fiammiferi; lo sportellino della lanterna cigolò quando l'aprì. Accese lo stoppino e stette per qualche istante a contemplare il cilestrino della fiamma convertirsi in giallo. Portò la lanterna sulla stufa, spezzò due o tre secchi rametti di salice e accese il fuoco.
Rosa Tea si voltò pesantemente sul suo giaciglio e si tirò su a sedere. «Voglio alzarmi,» disse. «Aspetta almeno che sia un po' più caldo.»
«No, m'alzo.»
La mamma riempì d'acqua la caffettiera e la posò sulla stufa, poi posò la padella, che conteneva uno spesso strato di grasso avanzato dalla cena. «Cos'è questa novità, Rosatè?» «Stamattina vengo fuori,» dichiarò Rosa Tea.
«Fuori? Dove?»
«A lavorare anch'io con voi.»
«Impossibile, Rosatè, sei troppo avanti.»
«No, no, posso benissimo.»
La mamma misurò il caffè nella caffettiera. «Rosatè, ieri sera non sei rimasta a mangiare le frittelle.» La figlia non replicò. «Cosa ti salta in mente di venire a lavorare?» Ancora nessuna risposta. La mamma le diede un'occhiata indagatrice. «E' per via di Al e Aggie? Oh, ma non è proprio il caso che vieni a lavorare.»
«Vengo lo stesso.»
«E va bene, ma non ti strapazzare. Sveglia, babbo! Sveglia tutti! Alzarsi.»
Il babbo batté le palpebre e sbadigliò. «Non ho dormito abbastanza,» mugolò, «saranno state le undici quando siamo andati a letto.» «Svelti, alzarsi, andarsi a lavare.»
Ad uno ad uno i dormienti tornarono lentamente in vita, sbucarono fuori dalle coperte, infilarono pigramente gli abiti.
La mamma affettava la pancetta nella sua seconda padella. «Fuori a lavarsi,» ordinò.
Il lume s'accese anche nell'altro scomparto del carro bestiame, e si udì provenirne il rumore dei rametti spezzati, con la voce della signora Wainwright: «Signora Joad, ci prepariamo, siamo quasi pronti.»
Al brontolò: «Perché tanta fretta oggi?»
«Sono solo venti acri,» spiegò la mamma, chi tardi arriva male alloggia. Meglio essere dei primi.
Sbrigatevi, la colazione è pronta. Poi si va.»
«Al buio non puoi mica cogliere il cotone.»
«Sarà chiaro quando s'arriva.»
«Il cotone sarà ancora umido.»
«Ha piovuto poco. Svelti, prendete il caffè. Appena finito, Al, meglio che intanto vai a mettere in moto. Signora Wainwright, quasi pronti?»
«Due minuti.»
L'accampamento intanto era ritornato in vita. Da ogni carro i tubi di stufa mandavano fumo e i fuochi crepitavano davanti ad ogni tenda.
«Noi siamo pronti, signora Wainwright,» gridò la mamma, e voltandosi verso Rosa Tea: «Te è meglio che rimani.»
La ragazza strinse i denti: «No, io vengo, voglio venire.»
«Ma non hai nemmeno il sacco, e poi non potresti neanche trascinarlo.»
«Metto il cotone nel tuo.»
«Vorrei proprio che non venissi.»
«Vengo.»
La mamma sospirò. «Ti terrò d'occhio. Non c'è neanche modo di avere un dottore, in caso.» Osservò le mosse nervose con cui la figlia infilò una giacchetta e la tolse di nuovo. «Prendi una coperta,» le consigliò, «se hai bisogno di riposare, almeno potrai stare al caldo.» Udirono avviare il motore dietro il carro bestiame. «Vedrete che saremo i primi,» disse la mamma, esultante.
«Andiamo, su. Ruth, non dimenticare i sacchi.»
Al buio, i Joad e i Wainwright salirono nell'autocarro. L'alba cominciava a delinearsi, ma a fatica e con poca luce.
«Prendi a sinistra,» ordinò la mamma, «dovrebbe esserci il cartello con le indicazioni.» Si avviarono sulla strada buia, seguiti da altri veicoli. E nell'accampamento altri motori venivano messi in moto e altre famiglie si pigiavano nei veicoli, che si portavano ad uno ad uno sulla strada e voltavano a sinistra.
Sulla cassetta postale del pilastro d'un cancello stava appoggiato un pezzo rettangolare di cartone con la scritta: «Cercansi Raccoglitori di Cotone». Al svoltò, e condusse l'autocarro sull'aia, già ingombra di altri veicoli. Una lampada elettrica infissa a un muro della cascina illuminava un gruppo di uomini e donne in piedi vicino alla pesa, ciascuno col suo sacco vuoto piegato sul braccio; alcune donne se lo erano messo sulle spalle, a guisa di scialle.
«E' meno presto di quanto si credeva,» disse Al, smontando. Gli altri smontarono con lui e tutti insieme andarono a raggiungere il gruppo delle persone che aspettavano. Altri veicoli arrivavano, ed altri lavoranti venivano via via ad ingrossare il gruppo. Sotto la lampada, il proprietario ne annotava i nomi man mano che si presentavano. «Hawley? H-a-w-l-e-y. Quanti?» «Quattro.
«Will...»
«Amelia...»
«Amelia.»
«Benton...»
«Benton.»
«Claire...»
«Claire. Avanti l'altro. Carpenter? Quanti?»
«Sei.»
E il proprietario registrava i loro nomi lasciando accanto a ciascuno uno spazio vuoto per le pesate.
«Avete i sacchi? Me n'è rimasto ancora qualcuno. Un dollaro al pezzo.»
E i veicoli continuavano ad arrivare. Il proprietario guardò con apprensione il loro numero che andava sempre aumentando sull'aia. «Con tutta questa gente, non ci vorrà molto a fare i venti acri.» I bambini si divertivano ad arrampicarsi per i fianchi del grosso autotreno per il trasporto del cotone, e a infilare le dita nella rete delle sponde. «Giù di lì!» gridava il proprietario. «Via di là! Finirete per rompermi la rete.» E i bambini, imbarazzati e silenziosi, ubbidivano.
«Dovrò farvi una tara per la rugiada,» disse il proprietario, «finché il sole non è caldo.» Albeggiava. «Be', siamo pronti? E' abbastanza chiaro per vedere. Cominciate pure quando volete.»
I lavoranti si diressero rapidamente verso il campo e ognuno si scelse il suo filare. E dalla strada continuavano ad arrivare sull'aia altri veicoli finché non ci fu più un posto libero e allora i veicoli parcheggiarono in colonna sul margine della strada. «Non capisco come avete fatto tutti voialtri a sapere che cercavo uomini. Il raccolto sarà finito prima di mezzogiorno, con tanta gente. Nome.
Hume? Quanti?»
A file spiegate, la numerosa squadra avanzava lentamente ma costante attraverso il campo, sotto un forte vento di ponente. Con rapide mosse automatiche le dita coglievano i bioccoli e li insaccavano. Il babbo attaccò discorso col suo vicino di destra. «Dalle mie parti, un vento così avrebbe portato la pioggia. Ma oggi mi sa che è un po' troppo freddo per piovere. Siete qua da molto?» Parlando, non staccava gli occhi dal suo lavoro.
«Quasi un anno.»
«E pensate che avremo la pioggia?»
«Non si può dire. Qui non c'è regola. Neanche chi c'è nato e ci ha passato tutta la vita saprebbe dirlo.»
Il babbo lanciò un'occhiata alle colline a ponente, sormontate da nuvoloni grigi sospinti dal vento. «Quelle nuvole là sembrano davvero piene di pioggia.»
Il vicino scoccò un'occhiata. «Non si può dire,» ripeté. E tutti i lavoranti, sull'intero fronte della linea spiegata, guardavano le nuvole, poi riprendevano il lavoro con maggiore alacrità, per finire prima che arrivasse la pioggia. Raggiunsero il limite opposto del campo e si spostarono lateralmente per cominciare altri filari in senso inverso. Ora procedevano controvento e guardavano più spesso i nuvoloni che invadevano il cielo marciando compatti contro il sole nascente. E sull'aia continuavano ad arrivare altri veicoli e il proprietario continuava a registrare nuovi nomi. Le file spiegate attraverso il campo ora avanzavano freneticamente, e man mano che avevano il sacco pieno i lavoranti venivano alla pesa, lo vuotavano, facevano registrare il peso e correvano a trovare nuovi filari.
Alle undici il raccolto era finito. I camion con rimorchio si avviavano verso lo stradone, rigurgitanti di cotone che fioccava fuor dalle maglie della rete delle sponde e nuvolette di cotone andavano a posarsi sulle siepi. I lavoranti si ammassavano sconsolati sull'aia per riscuotere le paghe.
«Hume, James, ventidue cents. Ralph, trenta. Joad, Thomas, novanta, Winfield, quindici.» Rotoli di monete, di rame, di nichel e d'argento. E nel riscuotere la paga ciascuno controllava nel proprio taccuino per verificare le cifre. «Wainwright, Agnes, trentaquattro. Tobin, sessantatré...»
La fila scorreva lentamente. Appena riscossa la paga, le famiglie raggiungevano i loro veicoli, in silenzio. E partivano in silenzio.
I Joad e i Wainwright dovettero lasciar sfilare molti veicoli prima di poter uscire alla loro volta, e mentre aspettavano, le prime gocce di pioggia cominciarono a cadere. Al sporse la mano fuori del finestrino per sentirle. Rosa Tea era seduta vicino a lui, al centro, e la mamma dall'altra parte. Gli occhi di Rosa Tea erano di nuovo privi di animazione.
«Non avresti dovuto venire,» le disse la mamma, «avrai raccolto sì e no una dozzina di libbre.»
Rosa Tea si guardò il grembo e non replicò. Scossa da un brivido repentino, rialzò la testa. La mamma la guardò attentamente in faccia, srotolò il suo sacco di cotone, glielo posò sulle spalle, e la trasse vicino a sé.
Finalmente la strada fu sgombra. Al mise in moto e portò l'autocarro sullo stradone e la pioggia cominciò a infittire; sul retro dell'autocarro i Joad e i Wainwright srotolarono i sacchi e se ne coprirono la testa e le spalle.
Sentendo sua figlia tremare violentemente sotto i brividi, la mamma gridò: «Va' più forte, Al.
Rosatè s'è buscata un colpo di freddo. Bisogna che metta i piedi nell'acqua calda.»
Al accelerò e arrivato all'accampamento accostò l'autocarro fin sotto alla porta del carro bestiame.
La mamma cominciò a lanciare ordini prima ancora che fossero fermi. «Al, va' col babbo e con zio John nel boschetto e raccogliete tutti i rami secchi che potete trovare. Avremo bisogno di tenerci al caldo.»
«Speriamo che non ci piova dentro.»
«No, il tetto è in buono stato, ma farà freddo. Prendete con voi anche Ruth e Winfield, Rosatè sta poco bene.» La mamma scese, e Rosa Tea fece per seguirla, ma le gambe non la ressero e si lasciò andare pesantemente sul predellino.
La signora Wainwright la vide: «Che succede? Che sia venuto il suo tempo?»
«No, no, non credo,» disse la mamma, «dev'essere che ha preso freddo. Mi dareste una mano?» Le due donne aiutarono Rosa Tea a mettersi in piedi, e dopo pochi passi le sue gambe ritrovarono forza. «Un buon bagno caldo ai piedi,» disse la mamma, esperta. Le donne la sorressero sulla passerella e la aiutarono a sedersi su un materasso.
«Strofinatela con un pezzo di lana,» disse la signora Wainwright, «io accendo il fuoco.»
Ora la pioggia cadeva a torrenti, tamburellando violentemente sul tetto del carro. La mamma guardò in su: «Fortuna che il tetto è buono. Fossimo sotto una tenda, oggi sarebbe un guaio. Volete far scaldar l'acqua, signora Wainwright?»
Rosa Tea, sdraiata, non si muoveva. Lasciò che le levassero le scarpe, che le strofinassero i piedi.
La signora Wainwright si chinò su di lei. «Vi sentite male?»
«No, mi sento poco bene, ma non proprio male.»
«Io ho dei sali e delle polverine contro i dolori. Se volete provare, non avete che da dirlo.»
Rosa Tea ebbe un violento brivido. «Mamma, coprimi, ho freddo.» La pioggia cadeva a rovesci sul tetto.
Rientrarono gli uomini, carichi di legne secche, con gli abiti e i cappelli sgocciolanti. «Gesù, come viene!» disse il babbo, «t'inzuppa fino all'osso in un minuto.»
«Meglio andarne a prendere dell'altra,» disse la mamma, «brucia in un momento, e tra poco sarà buio.» Ruth e Winfield arrivarono di corsa, fradici come pulcini, e gettarono i loro fuscelli sul mucchio. «Voi due rimanete,» ordinò la mamma, «e mettetevi davanti alla stufa a farvi asciugare.» Ora diluviava, le strade luccicavano, sotto la pioggia. Gli uomini fecero parecchi viaggi nel boschetto ammucchiando nel carro, presso la, porta, una catasta di legna che arrivava quasi al tetto. «Benissimo, ora toglietevi quei vestiti fradici,» disse la mamma. «Ora vi faccio un buon caffè. E voi intanto cambiatevi e mettetevi delle tute asciutte. Su, muovetevi.»
La sera calò presto. Nei carri bestiame le famiglie se ne stavano ammassate, ascoltando il tamburellare della pioggia sui tetti.
CAPITOLO 29.
Provenienti dall'oceano i nuvoloni grigi scavalcarono le alte montagne costiere e s'ingolfarono nelle vallate. Il vento soffiava feroce ma silenzioso nel cielo, mentre nella macchia sibilava, e ululava nelle foreste. Le nuvole arrivate a frotte, a stormi, da tutte le parti, si adunarono a ponente e vi si acquattarono; il vento allora cessò, e le lasciò in formazioni profonde e compatte. La pioggia cominciò a cadere: dapprima sotto forma di capricciosi temporali, rotti da pause, poi gradatamente assunse un ritmo di caduta uniforme e costante, e diventò grigia controluce, e convertiva in vespertina la luce meridiana. E al principio l'arida terra la succhiò avidamente, prendendo una tinta color tabacco. Per due giorni interi la terra bevve la pioggia, finché non risultò satura. Allora, dappertutto, si formarono pozze, che nei punti più bassi assunsero proporzioni di laghi. E i laghi fangosi crebbero di livello, e la poggia s'accaniva a frustarne la lucida superficie. Ben presto le vallate risltarono colme, e allora i versanti parvero liquefarsi in mille torrenti che precipitavano ruggendo nel canalone in fondovalle. E le acque dei fiumi strariparono, mordendo gli alberi alle radici, rosicchiando le radici finché gi alberi non si dessero per vinti. Le acque fangose turbinando a ridosso degli argini li sormontarono, e traboccarono nei campi di cotone. In tutta la pianura i campi si convertirono in laghi, estesi, grigi, e la pioggia ostinata continuava a frustarne la superficie. Poi l'acqua si rovesciò lungo le strade, e le automobili procedevano lente fendendo l'acqua come i bastimenti con la prora, e lasciandosi dietro una scia fangosa e gorgogliante. Sotto le sferzate della pioggia tutta la terra bisbigliava, e accogliendo i precipiti torrenti i fiumi tuonavano.
Quando la prima pioggia aveva cominciato a cadere, i nomadi si erano ritirati sotto le tende dicendo: Passerà presto, e domandando: Quanto potrà durare?
E quando si formarono le pozze, gli uomini uscirono dalle loro tane, e coi badili costruirono piccole dighe attorno alle tende. La pioggia martellante mordeva la tela finché penetrandola non riusciva ad irrompere all'interno. Poi distrusse le dighe, e allora l'acqua irruppe anche per via di terra, travolgendo giacigli e coperte. I nomadi, fradici, rizzarono cassette a mo' di palafitte, e sulle cassette adagiarono tavole, e sulle tavole stavano seduti giorno e notte.
Presso le tende stavano i decrepiti veicoli, e l'acqua ne deteriorò i circuiti e i carburatori. Le tende grigie emergevano dall'acqua. E finalmente i nomadi si decisero a traslocare; ma i motori non partivano più, o, se partivano, le ruote affondavano nel fango. E molte famiglie dovettero abbandonare le macchine e si incamminarono a piedi nell'acqua portandosi addosso le coperte, gli uomini guazzavano portando sulle spalle i bambini e i vecchi. E arrivando al primo cascinale, vi si affollavano.
Taluni ricorrevano agli uffici d'assistenza: ma ne ritornavano avviliti e depressi.
C'è il regolamento. Bisogna esser qui da almeno un anno per aver diritto al sussidio. Dicono che il governo provvederà, ma non sanno dire quando.
E allora sopravvenne il più terribile dei terrori: per tre mesi, niente lavoro, di nessun genere.
Nei cascinali i nomadi stavano pigiati in ozio, e il terrore si abbatté su di loro illividendone le facce.
I bambini piangevano per la fame, e non c'era da mangiare.
Poi sopravvennero le malattie: la polmonite, e un morbillo che s'attaccava agli occhi e alle orecchie. E la pioggia continuava implacabile, e l'acqua inondava le strade, perché le fogne risultavano incapaci di portarla via.
Allora dalle tende, dai cascinali affollati, uscivano, nei loro stracci, gruppi d'uomini gracili con le scarpe ridotte a viscida polpa; e guazzavano alla volta dei paesi, o dei negozi di campagna, per mendicare: mendicare cibo o sussidi. O per provare a rubare. E sotto questa suprema degradazione cominciò a fermentare il furore della disperazione. D'altra parte, nei piccoli paesi, anche la compassione che gli abitanti dapprima sentivano verso i nomadi fradici, prese a convertirsi in furore; e il furore contro gli affamati si convertì a sua volta in paura degli affamati. Allora gli sceriffi reclutarono nuovi agenti a frotte, e s'affrettarono a commissionare ingenti forniture di fucili, di gas lacrimogeni, di munizioni. E gli affamati s'accalcavano nei vicoletti dei retrobottega per mendicare un pezzo di pane o qualche avanzo di verdura, o all'occasione, per rubare.
Frenetici, i pezzenti venivano a bussare alle porte dei medici; ma il medico aveva sempre troppo da fare. E i pezzenti si riducevano a lasciar detto nelle botteghe di campagna di far venire il "coroner" col carro funebre. E il carro arrivava, s'accostava a marcia indietro nel fango, e si portava via i morti.
E la pioggia continuava incessante e i fiumi rompevano gli argini e dilagavano nella campagna.
Rintanati negli umidi fienili o nei ripostigli annessi alle case coloniche, la fame e il terrore generarono finalmente il furore. E allora anche i ragazzi si decisero a uscire non per mendicare, ma per rubare, e gli uomini indeboliti li seguirono per cercar di rubare. E gli sceriffi reclutavano nuovi agenti e ordinavano nuovi fucili. E la gente che viveva comoda nelle case al riparo dalle intemperie dapprima sentì compassione e poi disgusto e finalmente odio contro i nomadi pezzenti.
Nei fienili inzuppati le donne ammalate di polmonite mettevano al mondo le loro creature, e i vecchi si rannicchiavano negli angoli e lì si lasciavano morire, accartocciati su se stessi così che il "coroner" non era più in grado di distenderne le membra irrigidite. Di notte i frenetici pezzenti irrompevano apertamente nei pollai, e si portavano via i polli schiamazzanti. Se qualcuno li faceva segno a colpi di fucile non correvano via, non cercavano di nascondersi, ma continuavano a diguazzare con la stessa andatura di prima, e se colpiti si lasciavano stancamente cadere nel fango.
La pioggia cessò. Sui campi restò l'acqua, a riflettere il grigio del cielo, e tutta la terra era un murmure d'acqua corrente. E i pezzenti uscivano dai loro covi, dai fienili e dalle stalle e accoccolati contemplavano la terra inondata, silenziosi, o parlando con una tragica calma.
Niente lavoro fino a primavera. Niente lavoro.
Niente lavoro... niente denaro, niente cibo.
Ma, dico io, chi ha una pariglia di cavalli, e se ne serve per arare, per coltivare, non si sognerebbe mai di metterli fuori dalle stalle e lasciarli morire di fame, quando manca il lavoro nei campi.
Ah, ma quelli sono cavalli... noi siamo uomini.
Le donne osservavano i mariti, per vedere se questa volta era proprio la fine. Le donne stavano zitte e osservavano. E se scoprivano l'ira sostituire la paura nei volti dei mariti, allora sospiravano di sollievo. Non poteva ancora essere la fine. Non sarebbe mai venuta la fine finché la paura si fosse tramutata in furore.
L'erba spuntò tenerissima e distese sui colli la delicata coltre verzolina dell'annata nuova.
CAPITOLO 30.
La radura dei carri bestiame era tutta pozzanghere, e la pioggia spruzzava sul fango. Nel torrente il livello dell'acqua cresceva minacciosamente.
Il secondo giorno di pioggia Al staccò il telone impermeabile dal centro del carro, e andò a stenderlo sul cofano del camion; ora, senza più la tenda di divisione all'interno del carro, le due famiglie formavano una famiglia sola. Gli uomini sedevano vicini, avviliti e depressi. La mamma manteneva il fuoco sempre acceso, ma con pochi fuscelli, per economia. L'acqua cadeva a rovesci sul tetto quasi piatto del vagone.
Il terzo giorno i Wainwright diedero segni di irrequietezza. «Forse è meglio andar via di qui,» disse la signora Wainwright.
E la mamma cercò di dissuaderli: «Dove credete che si trova un posto più asciutto di questo?» «Non so, ma ho il presentimento che è meglio andar via di qui.» Discussero il punto, e la mamma osservava Al.
Ruth e Winfield tentarono, sulle prime, di giocare, poi si adattarono anch'essi ad una snervante inerzia e la pioggia continuava a tambureggiare sul tetto.
Ora il rombo del torrente si faceva udire al di sopra del tambureggiamento della pioggia. Il babbo e zio John stavano in piedi sulla soglia del carro, contemplando il livello dell'acqua salire. Alle due estremità del campo, il torrente rasentava la strada, ma in prossimità dei carri se ne allontanava formando un'ansa. Il babbo disse: «Cosa ti pare, John? Io ho paura che se continua a crescere, trabocca e abbiamo un'inondazione.»
Zio John aprì la bocca e si grattò il mento ispido. «Eh,» disse, «probabile di sì.»
Rosa Tea, colpita da un forte raffreddore, se ne stava sul suo giaciglio, la faccia accesa, gli occhi lucidi di febbre. La mamma sedeva accanto a lei con una tazza di latte caldo. «Bevi questo, su. Ci ho messo il grasso della pancetta perché così è più niente; su, bevi.» Rosa Tea scosse debolmente la testa. «Non ho voglia.» Il babbo disegnò in aria con l'indice una linea curva.
Se ci mettiamo tutti insieme, con zappe e badili, a costruire una diga, scommetto che riusciamo ad arginarla. Basterebbe andare di lì fin là.»
«Eh,» ammise zio John, «si potrebbe, se tutti son d'accordo. Qualcuno forse preferirà andar via.» «Ma qui si sta all'asciutto,» insisté il babbo. «Difficile trovare un posto asciutto come questo. Aspetta un po'.» Prese un fuscello sulla catasta delle legne, scese la passerella e guazzando nel fango si portò sulla sponda del torrente, e conficcò il fuscello verticale sul margine dell'acqua vorticosa; poi si affrettò a tornare. «Gesù, in un momento ti infradicia fino all'osso,» disse.
I due fratelli stettero senza parlare, con gli occhi fissi sul fuscello. Vedevano distintamente l'acqua turbinargli attorno continuando a salire di livello. Il babbo s'accoccolò. «Cresce forte,» disse. «Io dico che è meglio parlare con gli altri. Sentire se approvano l'idea della diga. Se non vogliono, l'unica è di andarcene.» Lanciò un'occhiata dalla parte dei Wainwright. C'era Al, seduto accanto ad Aggie. Il babbo s'alzò e si diresse verso il loro scomparto. «L'acqua cresce,» disse, «cosa ne dite se
ci mettiamo a costruire una diga? Se si è tutti d'accordo, ce la facciamo.»
Wainwright disse: «Appunto, parlavamo. Pare che sarebbe prudente andar via di qui.»
Il babbo disse: «E sì che siete stato in giro anche voi, e avete ben visto che non ci sono posti asciutti per andarci a stare.»
«Lo so, ma comunque...»
Al disse: «Se partono loro, vado via anch'io.»
Il babbo lo guardò stupito: «Non puoi, Al. Il camion... noi mica sappiamo guidarlo il camion.»
«Non so niente: ma io e Aggie stiamo insieme.»
«Un momento,» disse il babbo, «venite qua.» Al e Wainwright si alzarono e vennero sulla soglia del carro. «Vedete!» disse il babbo indicando, «una diga solo di lì fin là!» Guardò il suo fuscello.
L'acqua saliva vorticosamente e sfiorava ormai l'argine.
«Un lavoro del diavolo,» protestò Wainwright, «e poi è facile che trabocca lo stesso.»
«Ma, visto che non s'ha niente da fare, si può anche provare. Tanto non lo troviamo un posto come questo, date retta. Sentite, andiamo a parlare con gli altri. Se si è tutti d'accordo ce la facciamo.»
Al disse: «Se Aggie parte, parto anch'io.»
E il babbo: «Senti, Al, se gli altri non vogliono, allora si parte anche noi. Venite, andiamo a parlare.»
Tenendosi curvi corsero giù dalla passerella alla volta del carro attiguo, e sempre di corsa vi s'infilarono per la porta aperta.
La mamma era presso la stufa dove introduceva qualche fuscello per tener vivo il fuoco. Ruth venne a metterlesi fra i piedi, piagnucolando: «Ho fame.»
«Non è vero, hai avuto una bella fetta di polenta.»
«Mi piacerebbe un bel torroncino. Qui non c'è niente da fare, uffa che noia.»
«La noia passa presto. Abbi pazienza. Appena ci troviamo la casa, la noia non la senti più.»
«Mi piacerebbe avere un cane.»
«E avremo il cane. E anche un gatto.»
«Un gatto giallo?»
«Non mi seccare, adesso, Ruth, su, Rosatè è malata. Sta' brava ancora un po'. Vedrai che la noia passa presto.»
Dal suo giaciglio Rosa Tea emise un piccolo grido strozzato. La mamma si voltò e accorse da lei. Rosa Tea stava trattenendo il fiato, e i suoi occhi erano pieni di spavento.
«Cosa c'è?» gridò la mamma. Rosa Tea lasciò uscire il fiato, e subito lo trattenne di nuovo. D'un tratto la mamma le mise una mano sotto le coperte, poi si raddrizzò e chiamò: «Signora
Wainwright, signora Wainwright!»
La grassa donnetta accorse verso di lei: «Mi volete?»
La mamma le indicò la faccia di Rosa Tea, che si mordeva il labbro inferiore; la sua fronte era imperlata di sudore, e aveva gli occhi sbarrati dal terrore. «Ci siamo, ho paura,» disse la mamma.
«Però è un po' presto.»
Rosa Tea emise un profondo sospiro e si rilassò; smise di mordersi il labbro e chiuse gli occhi. La signora Wainwright si chinò su di lei. «E' stata una fitta improvvisa, in tutto il corpo, eh? Aprite gli occhi e rispondetemi.» Rosa Tea annuì debolmente. La signora Wainwright si volse alla mamma. «Sì, credo proprio che ci siamo. E' presto, secondo voi?»
«Forse è per via della febbre.»
«Bisogna farla mettere in piedi. Bisogna che cammini su e giù.»
«Non può,» disse la mamma. «è troppo debole.»
«Ma deve provare lo stesso.» La signora Wainwright assunse un'aria di competenza, calma e grave. «Ne ho assistito parecchie. Cominciamo a chiudere quella porta; c'è corrente.» Le due donne si misero a spingere faticosamente l'enorme porta scorrevole, lasciando solo una apertura di trenta centimetri. «Porto anche la mia lampada,» disse la signora Wainwright. L'eccitamento le
infiammava le gote. «Aggie.» chiamò, «vieni e portati via questi bambini.» La mamma approvò. «Giusto. Ruth, va' con Winfield da Aggie, svelti.» «Perché?» domandarono insieme.
«Perché così. Rosatè sta per avere il piccolo.»
«Voglio vedere, mamma, ti prego.»
«Ruth, fila via, e svelta!» Non c'era da discutere, quando la mamma prendeva quel tono. Ruth e Winfield ubbidirono con evidente riluttanza. La mamma accese la lanterna, e la signora Wainwright portò la sua lampada e la posò in terra.
Ruth e Winfield si erano fermati dietro alla catasta delle legne e stavano a sbirciare. «Viene il bambino di Rosatè,» bisbigliò Ruth all'orecchio di Winfield, «e noi non dobbiamo vederlo? Zitto, non farti vedere, e se mamma guarda da questa parte abbassati giù. Se non se n'accorgono possiamo vedere.»
«Sono mica tanti i ragazzi che l'hanno visto,» disse Winfield.
«Non c'è nessun ragazzo che l'ha visto,» assicurò Ruth, con orgoglio. «Solo noi.»
Presso il giaciglio, la mamma e la signora Wainwright si consultavano nella cruda luce della lampada. Le loro voci si elevavano appena sopra il cupo rimbombo della pioggia. La signora Wainwright trasse dalla tasca del grembiale il suo temperino e lo insinuò sotto il materasso. «Forse non serve a niente,» spiegò, come a scusarsi, ma dalle nostre parti si mette sempre; male non ne fa.» La mamma annuì. «Dalle nostre parti si usa un vomere d'aratro. Qualunque cosa capace di tagliare le doglie, può servire. Speriamo che non sia lunga.»
«Meglio, adesso?»
Rosa Tea annuì nervosamente. «Ci siamo, mamma?»
«Certo. E sarà un bel bambino. Ma devi aiutarci: ti senti di alzarti e fare una camminatina?» «Posso provare.»
«Oh, brava,» disse la signora Wainwright, «brava figliola, v'aiutiamo, passeggiamo con voi.» La aiutarono e reggersi in piedi e le sistemarono una coperta sulle spalle. La mamma la sorresse da una parte e la signora Wainwright dall'altra, e tutt'e tre procedettero fino alla catasta delle legne, voltarono adagio e tornarono al giaciglio, ripetendo il tragitto più e più volte; e la pioggia continuava a tambureggiare sul tetto.
Ruth e Winfield osservavano con ansia. «Quando credi che viene?» domandò Winfield.
«Zitto, non ci lasceranno star qui.»
Aggie si unì ai bambini dietro la catasta. La luce della lampada le illuminava i capelli gialli, e nell'ombra che la sua testa gettava sulla parete il naso sembrava più lungo e più puntuto. Ruth le domandò in un bisbiglio: «Hai mai visto nascere un bambino?»
«Altro che.»
«Questo nascerà presto?»
«Oh, sarà lungo.»
«Fino a quando?»
«Forse non prima di domattina.»
«Oh, che noia, allora è inutile stare a guardare. Uh, guarda, guarda!»
Le tre donne si erano fermate, Rosa Tea s'era irrigidita in una smorfia e gemeva di dolore. La adagiarono sul materasso e le tersero la fronte, mentre la poveretta rantolava serrando i pugni. E la mamma le parlava sommessa: «Coraggio, cara, andrà tutto bene. Stringi, stringi pure i pugni, morditi le labbra. Così sì, cara, così.» La fitta passò. La lasciarono riposare un poco, poi la aiutarono di nuovo ad alzarsi, e tutt'e tre ripresero a passeggiare su e giù tra una fitta e l'altra. Il babbo s'affacciò nella stretta apertura della porta. Il suo cappello grondava. «Perché avete chiuso la porta?» domandò, e allora vide le tre donne che passeggiavano.
La mamma disse: «Ci siamo.»
«Allora... allora non possiamo partire nemmeno volendo.» «No.
«E allora tanto vale costruire la diga.»
«Adesso è indispensabile.»
Il babbo si diresse al torrente, guazzando nel fango. L'acqua era salita di dieci centimetri sul suo fuscello. Un gruppo d'una ventina di uomini stava discutendo sotto la pioggia.
Il babbo disse: «Dobbiamo costruirla per forza, mia figlia ha le doglie.»
«Un bambino?»
«Sicuro. Non possiamo partire.»
Uno, di alta statura, disse: «Non è nostro, il bambino. Noi possiamo partire.»
«Nessuno vi tiene,» disse il babbo, «abbiamo solo otto badili.» Andò dove la sponda era più bassa e conficcò la sua pala nel fango. La prima zolla di mota si staccò producendo un suono di risucchio, e il babbo la gettò sul punto più basso della sponda; cavò una seconda palata e la gettò; poi una terza, e una quarta... gli altri si schierarono con lui. Ammucchiavano il fango sulla riva, e quelli che non avevano badile andarono a tagliare rami di salice per farne fascine con cui sostenere il muro di fango. L'accanimento con cui il babbo lavorava si comunicò agli altri; appena uno lasciava cadere la pala per riposare; un altro la agguantava e lo sostituiva al lavoro. S'erano levate le giacche; le camicie e i pantaloni stavano come incollati sui corpi; le scarpe erano informi blocchi di fango. Dal carro dei Joad provenne uno strillo acuto. Gli uomini sospesero il lavoro, tesero gli orecchi a disagio, e si rimisero a lavorare con più accanimento di prima. E a poco a poco il muretto di fango si estese dall'uno all'altro capo dell'accampamento. Gli uomini erano stanchi, le loro mosse ora erano lente, e l'acqua continuava a crescere di livello; ora raggiungeva già la prima palata di fango gettata dal babbo. Il babbo disse, con un sorriso di trionfo: «A quest'ora era già traboccata, se non facevamo la diga!» E gridò: «Animo, ragazzi, dobbiamo farla più alta!»
Calò la sera, e il lavoro continuava. Gli uomini erano esausti, le facce spente, i gesti automatici come di macchine. Quando fu buio, le donne appesero le lanterne alle facciate dei carri e badarono al caffè.
E ad una ad una le donne accorsero al carro dei Joad a far visita alla partoriente. Le fitte ora sopravvenivano a brevi intervalli, e Rosa Tea aveva rinunciato a tentare di dominarsi. Lacerata da acuti dolori, mandava strilli acutissimi. E le vicine la osservavano per un momento, le facevano una carezza, e se ne ritornavano nei propri carri. Ora la mamma aveva fatto un gran fuoco e aveva posato sulla stufa tutti i suoi recipienti, pieni di acqua. Ogni poco il babbo veniva ad affacciarsi sulla soglia e domandava: «Tutto bene?»
E la mamma lo rassicurava: «Sì, sì, mi pare.»
Quando si fece più buio, qualcuno portò una torcia per far lume. Zio John lavorava con accanimento, gettando palate di fango in cima al muretto.
«Vacci piano,» gli disse il babbo. «Così t'ammazzi.»
«Non posso fame a meno. Non riesco a sopportare quegli strilli. E' come... come quando...»
«Lo, so,» disse il babbo. «Ma vacci piano.»
Zio John farfugliò: «Impazzisco. Perdio, o lavoro o impazzisco.»
Il babbo gli voltò le spalle. «A che punto è l'acqua?»
L'uomo che reggeva la torcia diresse il raggio sul fuscello, e la pioggia baluginò obliqua alla luce.
«Sale.»
«Sale più lentamente, ora,» disse il babbo. «Defluisce dall'altra parte.»
«Però continua a salire.»
Le donne tornarono a riempire i bricchi di caffè per gli uomini. E a mano a mano che la notte avanzava, gli uomini si muovevano sempre più lentamente, sollevando i piedi a fatica, come cavalli da tiro. Continuavano inesorabili a gettar fango sulla diga per aumentarne l'altezza e lo spessore, continuavano ad intrecciare rami di salici. La pioggia scrosciava a dirotto. Quando la luce della torcia cadeva sui volti, rivelava occhi sbarrati e muscoli contratti. Dal carro dei Joad continuavano a provenire le urla della partoriente. Finalmente cessarono di botto.
Il babbo disse: «Mamma mi manderà a chiamare, se è nato,» e continuò a lavorare.
L'acqua turbinava gorgogliando contro la scarpata. D'un tratto si udì, a monte, a poca distanza, uno schianto. La luce della torcia mostrò un grosso albero che crollava, e gli uomini s'interruppero per guardare. I rami sprofondarono nell'acqua e la corrente non tardò a svellerlo dalle sue radici per trascinarlo a valle. Il tronco si incagliò coi rami contro la sponda opposta, e si dispose trasversalmente al torrente, col piede appoggiato alla scarpata di recente costruzione, e la corrente trovò subito questo punto debole della diga, scavò, e un fiotto irruppe nel canale che ne risultò. Il babbo si lanciò innanzi e con frenetiche palate cercò di turare la falla, ma la scarpata di fango si disciolse in un baleno, e gli uomini si trovarono nell'acqua fino al ginocchio. In pochi momenti il campeggio fu un lago.
Zio John vide l'acqua irrompere nel buio. Fu trascinato dal suo stesso peso, cadde in ginocchio, con l'acqua che gli vorticava all'altezza del petto.
Il babbo lo vide cadere. «Ehi! che succede?» Lo rialzò. «Ti sei fatto male? Vieni, i carri sono alti.» Zio John fece appello alle proprie forze. «Non ci riesco,» disse in tono di scusa. «Non mi reggo sulle gambe.» Il babbo l'aiutò a raggiungere i carri.
Quando la diga cedette, Al prese la rincorsa per raggiungere il camion, guazzando faticosamente nell'acqua che gli arrivava ai polpacci. Tirò via il telone dal cofano, saltò al volante, e premette l'avvio. Il motorino girò, ma i cilindri restarono muti. Al forzò l'accensione al massimo, ma la batteria non riuscì ad altro che a far girare, sempre più lentamente, il motorino d'avviamento. Al prese la manovella e saltò giù nell'acqua che ora era più alta dei predellini; passò davanti al cofano, innestò la manovella nel buco che era sott'acqua e prese a girare freneticamente, e ad ogni giro la sua mano tuffava nell'acqua, finché, convinto dell'inutilità dei suoi sforzi, rinunciò al tentativo. Poco più in là, dove il terreno era leggermente più elevato, i motori di due altre vetture erano partiti, e i fari erano accesi, ma le ruote giravano nel fango senza riuscire a smuovere le vetture, finché i conducenti spensero i motori e se ne rimasero seduti al volante contemplando sconsolatamente la luce proiettata dai fari e frustata dalla pioggia inesorabile. Al girò attorno al cofano, allungò una mano e spense il motore.
Quando il babbo raggiunse la passerella, trovò che la sua estremità inferiore galleggiava; coi piedi la ricalcò giù, in modo da incastrarla di nuovo nel fango. «Ce la fai, John?» chiese.
«Sì, sì. Va' pure avanti.»
Cautamente, il babbo, per la stretta apertura della porta, si introdusse nel carro. Le fiammelle delle due lampade erano abbassate. La mamma sedeva sul materasso accanto a Rosa Tea, e le faceva aria con un pezzo di cartone. La signora Wainwright era presso la stufa, intenta ad alimentare il fuoco, e dagli interstizi fra i cerchi di chiusura saliva un fumo leggero che riempiva il carro di un odore di panni bruciati. La mamma diede un'occhiata al babbo quando entrò, ma riabbassò subito gli occhi.
«Come... sta?» domandò il babbo.
Senza guardarlo la mamma rispose: «Bene, credo. Dorme.»
Gli odori del parto infetidivano l'aria. Zio John entrò, e andò ad appoggiarsi alla parete. La signora Wainwright venne dal babbo, lo prese per il braccio e lo condusse in un angolo, e con la lanterna illuminò una cassetta da frutta posata per terra. Nella cassetta, adagiato su un giornale, stava il cadaverino. «Nato morto,» bisbigliò la signora Wainwright.
Il babbo guardò la donna negli occhi senza replicare, e poi voltò la testa in cerca dei bambini: Ruth e Winfield si erano addormentati sul loro giaciglio, tutt'e due con un braccio ripiegato sugli occhi per ripararli dalla luce. Il babbo tolse di mano alla donna la lanterna e la posò a terra, poi venne presso il materasso di Rosa Tea. Provò ad accomodarsi, ma aveva le gambe troppo stanche; così si mise in ginocchio. La mamma continuava ad agitare il suo pezzo di cartone sulla testa di Rosa Tea.
Guardò il babbo in viso, con occhi grandi e fissi, come gli occhi di una sonnambula.
Il babbo disse: «S'è fatto... tutto quello che si poteva.»
«Lo so.»
«S'è lavorato senza smettere. E un tronco ha sfondato la diga.»
«Lo so.»
«S'ha già l'acqua sotto il carro.»
«Lo so. L'ho sentita.»
«E Rosatè, com'è?»
«Non so.»
«Noi... non si poteva fare di più... Ti pare?»
Le labbra della mamma erano rigide e bianche. «No, non potevate. C'era una sola cosa da fare, e s'è tentato.»
«Abbiamo lavorato fino all'ultimo, e se non fosse stato per quell'albero... Pare che la pioggia diminuisce...» La mamma sollevò gli occhi al tetto, e poi li riabbassò, senza replicare. Il babbo continuò a parlare, sentendosi costretto a dire qualcosa: «Chi sa fino a quando crescerà... Può inondare il carro.» «Lo so.»
«Tu sai tutto.»
La mamma rimase in silenzio, e continuò lentamente a sventagliare.
«Cos'altro si poteva fare?» gemette il babbo con tono d'implorazione. «C'era qualcos'altro che si poteva fare?»
La mamma gli diede un'occhiata strana e le sue bianche labbra abbozzarono con aria assente un sorriso di compassione. «No, la colpa non è vostra. Non parlate. Potresti svegliarla.»
La signora Wainwright spezzava dei fuscelli per riattizzare il fuoco. Di fuori provenne una voce adirata: «Ora gli faccio vedere io a quel figlio di puttana,» e di rimando la voce di Al: «Dove pensate di andare?»
«Vado a dirgli quel che gli spetta, a quel maledetto Joad.»
«Niente affatto. Di qui non passate. E poi che v'ha fatto?»
«E' lui, con la sua stupida idea della diga, che ci ha fatto restare. Adesso ho la vettura a terra.» «E credete che la nostra funziona?»
«Ora gli faccio vedere io...»
«Gli fate vedere niente, prima l'avrete a che fare con me.»
Il babbo s'alzò faticosamente in piedi e venne sulla soglia. «Calma, Al. Vengo fuori io, lascia fare,» e scese la passerella. La mamma lo sentì dire: «Abbiamo una malata, andiamo a parlare più in là.» La pioggia aveva realmente diminuito d'intensità e si era alzata un'arietta fresca. La signora Wainwright lasciò la stufa e tornò presso il giaciglio di Rosa Tea. Disse alla mamma: «Tra poco è giorno, andate a riposare, qui ci sto io.»
«No, non sono stanca.» «Lo siete, date retta a me.
La mamma continuava meccanicamente a sventagliare. «Avete fatto molto. Vi ringraziamo.»
«Non c'è bisogno di ringraziamenti. Siamo tutti nello stesso carro. Fossi io in difficoltà, mi dareste una mano. Una volta, si pensava solo alla propria famiglia, ma adesso, con le cose che vanno sempre peggio, c'è sempre più da fare. Era impossibile salvarlo.» «Lo so,» rispose la mamma.
Ruth emise un lungo sospiro, tolse il braccio di sopra agli occhi, strizzò le palpebre guardando la fiamma della lampada, poi voltò la testa e guardò la mamma. «E' nato?» domandò. «E' nato il bambino?»
La signora Wainwright raccolse un telo da sacco e lo distese sulla cassetta nell'angolo.
«Dov'è il bambino?» insisté Ruth.
La mamma s'inumidì le labbra con la lingua. «Non è venuto. Ci eravamo sbagliati.»
«Peccato!» disse Ruth in uno sbadiglio, «mi faceva piacere se veniva.»
La signora Wainwright si sedette accanto alla mamma e le tolse di mano il pezzo di cartone e si mise a sventagliare. La mamma abbandonò le mani intrecciate sul grembo e non distolse lo sguardo dal viso di Rosa Tea addormentata. «Su, signora Joad, sdraiatevi un po', stendetevi accanto a lei, così vi potete svegliare subito se c'è bisogno.»
«Sì, va bene. « La mamma si sdraiò di fianco alla figlia addormentata e la signora Wainwright rimase a vegliare.
Il babbo, zio John e Al stavano seduti sulla soglia in attesa dell'alba. La pioggia era cessata, ma le nuvole erano ancora compatte. Il campo allagato rifletté le prime luci dell'alba. Le acque del torrente correvano rapide, trasportando rami e tronchi, tavole, cassette. Attorno ai carri bestiame l'acqua vorticava. Non restava traccia della diga. L'ubicazione del letto del torrente era rivelata solo dalle due strisce di spuma giallastra che segnavano il limite fra la corrente e l'acqua stagnante. Il babbo si sporse fuori della porta e posò sulla passerella un pezzo di legno in prossimità del livello dell'acqua. E i tre uomini restarono ad osservare l'acqua salire lentamente fino a lambire il pezzo di legno, a sollevarlo e a trascinarlo via. Il babbo ne posò un secondo, a cinque centimetri al di sopra del livello dell'acqua, e i tre uomini si rimisero in osservazione.
«C'è il caso che entri nel carro?» domandò Al.
«Non si può dire. Certo è che un enorme volume d'acqua deve ancora calare dai monti. Non si può dire. E poi potrebbe anche ricominciare a piovere.»
Stavo pensando,» disse Al. «Qui se fa tanto d'arrivare dentro, spazza via tutto.»
«Puoi ben dirlo.»
«Però non dovrebbe salire più di un metro all'interno del carro, perché prima fa in tempo a disperdersi per i campi e sullo stradone. A occhio e croce, dovrebbe arrivare a quest'altezza...» Al indicò con la mano un punto del vagone in prossimità del tetto.
«E con ciò?» fece il babbo. «Tanto noi non ci saremo già più.»
«Lo dici te. Il camion è bloccato e ci vorrà una settimana, fradicio com'è il motore, a rimetterlo in sesto dopo la piena.»
«Be'... e allora? quale sarebbe la tua pensata?»
«Ecco, si potrebbe smontare le sponde del camion e con le tavole costruire una piattaforma qui nel carro per metterci su tutta la roba e starci anche noi.»
«Sì... e per cucinare, per mangiare?»
«Be', per lo meno si starebbe all'asciutto.»
La luce grigia, aumentando d'intensità, assumeva una tinta metallica. Il secondo pezzo di legno galleggiò un momento sulla passerella e l'acqua se lo portò via. Il babbo ne posò un terzo più su.
«Forse hai ragione, Al. E' certo che continua a crescere.»
La mamma si voltò agitata nel sonno, spalancò gli occhi e gridò: «Tom! O Tom!»
La signora Wainwright mormorò qualche parola sommessa per calmarla, la mamma richiuse gli occhi e ripiombò nell'angoscia del suo sogno. La signora Wainwright s'alzò e raggiunse gli uomini, accennò con la testa alla cassetta che stava nell'angolo mormorando: «Non fa che causare tristezza qui dentro. Non potreste, uno di voi, andare fuori a sotterrarlo?»
Nessuno dei tre rispose alla domanda. Finalmente il babbo disse: «Avete ragione, non fa che causare tristezza, ma sotterrarlo è contro la legge.»
«Ci son tante cose contro la legge, che però bisogna fare lo stesso.»
«E' vero.»
Al disse: «Io penso che dobbiamo sbrigarci a schiodare le tavole dall'autocarro.»
Il babbo si rivolse al fratello. «John, vuoi sotterrarlo te, mentre io e Al cominciamo a schiodare?»
Zio John si ribellò: «Perché io? Perché devo farlo io? Perché non voialtri? Non mi va di farlo io...» E poi: «Certo, lo faccio io, senz'altro, su, datemelo.» Poi alzò la voce quasi gridando: «Su, datemelo!»
«Non la svegliate,» raccomandò la signora Wainwright. Portò la cassetta sulla soglia, aggiustando decorosamente le pieghe del sacco con cui l'aveva ricoperta.
«La pala è dietro di te, John,» disse il babbo.
Zio John prese la pala e si calò lentamente in acqua fino alla cintola, si voltò, prese la cassetta dalle mani della signora Wainwright e se la mise sotto un braccio.
Il babbo disse: «Andiamo, Al. Andiamo a levare queste tavole.»
Procedendo nell'acqua, zio John raggiunse lo stradone, e lo percorse fino all'estremità dell'accampamento, dove il torrente tornava a contatto della strada in un boschetto di salici. Lasciò il badile sulla strada che emergeva ancora dall'acqua e scese nel boschetto finché raggiunse la riva. Per qualche secondo restò a contemplare la corrente, giallastra, spumosa e rapida. Teneva la cassetta con le due braccia incrociate sul petto. Finalmente si chinò e la posò sull'acqua e la tenne qualche istante ferma con la mano, dicendo, in toni selvaggi: «Va', naviga e vendicaci! Raccontalo a tutti. Marcisci! Solo così potrai farti sentire.» Delicatamente la orientò nel senso della corrente, poi la lasciò andare. L'acqua la ghermì rapida, la fece turbinare, la rovesciò e la respinse nel mezzo del torrente. Il sacco se ne andò galleggiando per suo conto, e la cassetta non tardò a sparire alla prima curva.
Zio John riprese la pala e tornò rapidamente al campo allagato e immergendosi di nuovo nell'acqua fino alla cintola, raggiunse Al e il babbo presso l'autocarro.
«Fatto?» domandò il babbo.
«Sì.»
«Guarda se dai una mano ad Al, io faccio un salto al negozio per procurarci qualcosa da mangiare.» «Compra un po' di carne,» raccomandò Al.
«Certo,» disse il babbo e saltò giù dall'autocarro. Zio John lo sostituì.
Quando gli uomini arrivarono sulla passerella portando le tavole dell'autocarro la mamma si svegliò e si mise a sedere. «Che cosa fate?»
«Mettiamo su una piattaforma per stare all'asciutto.»
«E perché? E' asciutto, qui dentro.»
«Tra poco non lo sarà più, l'acqua cresce.»
La mamma si mise in piedi a fatica e andò alla porta. «Dobbiamo andar via subito,» disse.
«Impossibile,» disse Al. «E la roba? E il camion che è fermo? E' tutto quello che ci resta.» «Il babbo dov'è?»
«E' andato a comprar da mangiare.»
La mamma guardò l'acqua. Arrivava ormai a dieci centimetri dalla base del carro. Tornò al materasso e guardò Rosa Tea, che a sua volta guardò la mamma con occhi fissi.
«Come ti senti?»
«Stanca. Solo molto stanca.»
«Tra poco ti portiamo da mangiare.»
«Non ho fame.»
La signora Wainwright si accostò. «Ha l'aria di star meglio. Se l'è cavata benino.»
Gli occhi di Rosa Tea interrogavano la mamma, e la mamma cercava di eluderne la questione. La signora Wainwright s'allontanò per badare alla stufa.
«Mamma.»
«Sì? Cosa vuoi?»
«E'... è andata bene?»
La mamma rinunciò al tentativo; s'inginocchiò vicino al giaciglio. «Ne puoi avere degli altri,» disse.
«Abbiamo fatto tutto quello che sapevamo.»
Rosa Tea fece uno sforzo per tirarsi su. «Mamma!»
«Non s'è potuto evitare.»
Rosa Tea si lasciò ricadere sdraiata e si coprì gli occhi con gli avambracci. Ruth s'avvicinò e la guardò sbigottita. Bisbigliò, rauca: «E' malata, mamma? Muore?»
«Ma no! Guarisce, guarisce presto.»
Il babbo arrivò carico di pacchetti. «Come sta?»
«Abbastanza bene,» disse la mamma, «abbastanza bene.»
Ruth andò a far rapporto a Winfield. «Non muore. L'ha detto mamma.»
Winfield stava stuzzicandosi i denti con uno stecco, alla maniera dei grandi. Disse: «L'ho sempre saputo.»
«Come facevi a saperlo?»
Winfield sputò una scheggia dello stecco e rispose: «Non te lo dico.»
La mamma accese il fuoco con gli ultimi fuscelli che le restavano, mise la pancetta nella padella, e preparò il sugo. Il babbo aveva portato anche il pane. Vedendolo, la mamma s'accigliò. «Soldi ne abbiamo ancora?»
«No,» disse il babbo, «ma s'era così affamati.»
«E te compri il pane in negozio!»
«Ma s'era affamati, ti dico, abbiamo lavorato tutta la notte.»
La mamma sospirò. «E adesso come si fa?»
Mentre mangiavano, l'acqua continuò a salire. Al e il babbo si sbrigarono a mangiare e cominciarono a costruire la piattaforma. Larga un metro e mezzo, lunga due, alta uno e venti. E l'acqua arrivò alla soglia, parve esitare a lungo, e finalmente si decise a penetrare adagio. E la pioggia ricominciò a cadere in larghe gocce come al principio, tamburellando violentemente sul tetto.
Al disse: «Adesso su, su i materassi, e le coperte, se no si bagnano.»
Accatastarono sulla piattaforma i loro beni, mentre l'acqua continuava ad avanzare sul pavimento. Il babbo e la mamma, Al e zio John, ciascuno ad un angolo, sollevarono il materasso di Rosa Tea, con la ragazza sopra, e lo adagiarono in cima alla catasta. E Rosa Tea protestava: «Sto bene, posso anche camminare da sola.» E l'acqua avanzava sul pavimento. Rosa Tea bisbigliò nell'orecchio della mamma, e la mamma mise la mano sotto la coperta, le toccò il seno e annuì.
All'altra estremità del carro, i Wainwright stavano costruendo una piattaforma per conto loro. La pioggia aumentò d'intensità, e poi smise.
La mamma vide che l'acqua era già alta un centimetro. «Ruth, Winfield, andate lassù, o vi buscate un raffreddore.» Li aiutò ad arrampicarsi. Ruth e Winfield si sedettero imbarazzati accanto a Rosa Tea. La mamma sbottò: «Dobbiamo andar via di qua.»
«Impossibile.» disse il babbo, «come ha detto Al, e la nostra roba? Ora prendiamo la porta del carro e facciamo un'altra piattaforma.»
La famiglia se ne stava rannicchiata sulle due piattaforme, silenziosa e angosciata. L'acqua era alta quindici centimetri nell'interno del carro. Per tutto quel giorno e la notte seguente gli uomini dormirono profondamente l'uno accanto all'altro distesi sulla porta del carro. E la mamma era distesa al fianco di Rosa Tea, e ogni tanto le bisbigliava qualche parola all'orecchio. Sotto la coperta aveva nascosto l'avanzo del pane.
La pioggia era ora intermittente: brevi rovesci e intervalli di calma. Al mattino del secondo giorno il babbo guazzò nell'acqua del campo e fece ritorno con dieci patate in tasca. La mamma lo guardava distrattamente mentr'egli procurava della legna spaccando la parete interna del carro e accendeva il fuoco. La famiglia mangiò con le mani le patate lesse, e quand'ebbero consumato l'ultimo boccone, tutti restarono con gli occhi fissi sull'acqua grigia, e quando venne la notte continuarono a starsene a lungo immobili, senza riuscire a prender sonno.
Al mattino si svegliarono tutti agitati e nervosi. Rosa Tea bisbigliò qualcosa alla mamma, e la mamma annuì: «Sì, è l'ora buona.» Poi la mamma si rivolse agli uomini accoccolati sulla porta e dichiarò, con tono deciso: «Ce n'andiamo di qui. Andiamo a cercare un luogo asciutto. Venite o non venite, io porto Rosatè e i bambini via di qua.» «Impossibile,» disse il babbo, debolmente.
«Sarà, ma intanto tu porti Rosatè sulle spalle fin sullo stradone, poi torna pure qui. Adesso non piove, e si va.»
«Va bene, andiamo,» disse il babbo.
Al disse: «Mamma, io non vengo.»
«Perché no?»
«Eh... io e Aggie...»
La mamma sorrise. «E tu resta. Fa' la guardia alle nostre cose, quando l'acqua si sarà ritirata torniamo.» E al babbo: «Ma andiamo via subito, prima che ricomincia a piovere. Su, Rosatè, andiamo all'asciutto.»
«Credo che posso camminare.»
«Forse quando saremo sullo stradone. Pronto, babbo?»
Il babbo si lasciò scivolare in acqua e rimase in attesa. La mamma aiutò Rosa Tea a scendere dalla piattaforma e a portarsi sulla soglia. Il babbo la prese mille braccia, tenendola più alta che poté, e partì cauto nell'acqua profonda dirigendosi verso la strada. Arrivatovi depose delicatamente la figlia a terra e la sorresse. Zio John lo seguiva portando Ruth. La mamma si calò nell'acqua, e per un momento le sottane le si gonfiarono attorno. «Winfield, siediti sulla mia spalla. Al, torniamo appena l'acqua è scesa. E se...» esitò un istante «... se viene Tom digli che torniamo. Digli di stare attento. Su, Winfield, sulla mia spalla, e fermo coi piedi.» Se ne andò barcollando nell'acqua che le arrivava al petto.
Sullo stradone, si fermarono per guardarsi alle spalle, osservando le masse scure dei vagoni rossi e i veicoli mezzo sommersi. E una pioggerella riprese a cadere.
«Andiamo,» disse la mamma, «Rosatè, ti senti di camminare?»
«Mi gira la testa.»
Il babbo domandò, in tono di rimostranza: «Adesso che siamo qui, dov'è che dobbiamo andare?» «Non so,» rispose la mamma, «su, da' il braccio a Rosatè.» Lei stessa offrì alla figlia il braccio sinistro, e il babbo il destro. «Si va dove è asciutto. Per forza. Sarà due giorni che voialtri non vi togliete di dosso quegli abiti bagnati.»
Avanzarono lentamente, con negli orecchi il rombo dell'acqua del torrente. Ruth e Winfield seguivano, divertendosi a guazzare nel fango. Il cielo si fece più scuro e la pioggia crebbe d'intensità. La strada era assolutamente deserta.
«Dobbiamo sbrigarci,» disse la mamma, «se questa figliola si prende un malanno, chi sa cosa succede.»
«Non hai ancora detto dov'è che stiamo andando così di corsa,» osservò il babbo sarcastico.
La strada seguiva la curva del torrente. La mamma perlustrava con gli occhi i campi inondati. A qualche distanza, sulla sinistra, s'intravedeva una stalla, col tetto lucido per la pioggia, che pareva alzarsi sopra un'ondulazione del terreno. «Ecco, là!» disse la mamma, «scommetto che in quella stalla c'è asciutto. Possiamo fermarci li finché smette di piovere.»
Il babbo emise un sospiro. «Facile che ci scaccia, il padrone.»
Ruth scoprì d'un tratto, a pochi passi innanzi, sul bordo della strada, una macchiolina rossa. Vi si diresse di corsa. Era un geranio, ritardatario, maltrattato dalla pioggia. Lo colse con amorevolezza, ne staccò un petalo e se lo appiccicò sul naso. Winfield accorse per vedere: «Me ne dai uno?» disse. «Niente affatto, è mio, l'ho trovato io,» e s'appiccicò un altro petalo, un cuoricino scarlatto, nel mezzo della fronte.
«E dai, Ruth, dammene uno anche a me, lo voglio,» insisté Winfield, e fece per strappare il fiore di mano a Ruth, ma Ruth ritirò la mano e con l'altra gli tirò uno schiaffo. Winfield li per li rimase interdetto, poi le labbra presero a tremargli e gli occhi a luccicare.
Gli altri sopraggiunsero. «Cos'avete fatto?» domandò la mamma.
«E' lui che voleva pigliarmi il geranio!»
«Ne volevo solo uno per mettermelo sul naso,» piagnucolò Winfield.
«Dagliene uno, Ruth,» ordinò la mamma.
«Ma è mio, perché non se ne cerca un altro? Questo è mio.»
«Ruth, dagliene uno!»
Ruth sentì la minaccia nel tono della mamma e cambiò tattica. «Allora vieni qua, te lo metto io.» I grandi proseguirono. Winfield le tese il naso. Ruth inumidì un petalo con la lingua e glielo stampò brutalmente sul naso dicendogli: «Schifosa carognetta!» Winfield si toccò il petalo sul naso, guardandoselo con gli occhi strabici, e tutt'e due ripartirono per raggiungere i grandi.
Un lampo ruppe il grigiore dell'aria, immediatamente seguito da uno scoppio di tuono. «Facciamo presto,» gridò la mamma, «qui viene un diluvio, tagliamo per i campi, si fa prima. Coraggio, Rosatè!» La sollevarono per farle passare il fosso, la aiutarono a scavalcare la siepe. E il diluvio li sorprese. Tenendosi chinati avanzarono penosamente nel fango scivoloso. La pioggia era così fitta che non vedevano quasi più la stalla, e il vento era così forte che stentavano a camminare. Rosa Tea si faceva trascinare.
«Puoi portarla?» disse la mamma al babbo.
Il babbo si chinò e la sollevò a fatica tra le braccia. «Svelti, bambini, correte avanti.»
Arrivarono fradici sotto la tettoia e si fermarono ansanti. Il babbo posò delicatamente Rosa Tea a sedere su una cassetta. «Dio onnipotente! » disse, guardandosi attorno. C'erano due o tre arnesi arrugginiti, un aratro, un erpice, una ruota di ferro, e nient'altro.
La mamma disse: «Forse c'è del fieno, dentro. Ecco qui la porta.» La spinse, e la porta si aprì stridendo sui cardini. «Sì, c'è fieno,» gridò, «entriamo.»
Era completamente buio; filtrava solo un po' di luce tra le connessure delle tavole delle pareti.
«Siediti, Rosatè, siediti e riposati. Ora vedrò quello che si può fare per asciugarti.»
Winfield disse: «Mamma!» e la pioggia scrosciando sul tetto coprì la sua voce. Ripeté: «Mamma!» «Cosa c'è, cosa vuoi?»
«Guarda! Nell'angolo.»
La mamma guardò, e distinse due figure nella penombra: un uomo sdraiato sulla schiena, e accanto a lui un ragazzo seduto, che guardava i nuovi venuti con occhi spalancati. Vedendosi scoperto, il ragazzo si alzò e venne incontro alla mamma e con voce rauca le domandò: «Siete voi i padroni?» «No, siamo venuti a ripararci dalla pioggia, abbiamo una malata, potete prestarci una coperta asciutta?»
Il ragazzo tornò nell'angolo e ne riportò una sudicia coperta che tese alla mamma.
«Grazie,» disse la mamma, e accennando con la testa all'uomo sdraiato: «Che cos'ha?»
Il ragazzo rispose, con una voce rauca priva di inflessioni: «Prima era malato, ma adesso muore di fame.» «Cosa?»
«Muore di fame. S'è preso la febbre nel cotone. Sono sei giorni che non mangia.»
La mamma si trasferì nell'angolo. L'uomo poteva avere una cinquantina d'anni, aveva la faccia smunta, gli occhi spenti e fissi. La mamma domandò al ragazzo:
«E' tuo babbo?»
«Sì. Diceva che non aveva fame, oppure che aveva già mangiato, e il mangiare me lo dava a me.
Adesso, non ha più forza, può appena muoversi.»
La pioggia diminuì d'intensità. L'uomo mosse le labbra e la mamma si chinò e avvicinò l'orecchio e le labbra si mossero di nuovo.
«Certo,» disse la mamma. «Pensiamo noi, state tranquillo, aspettate solo finché ho asciugato mia figlia.»
Tornò da Rosa Tea. «Su, spogliati,» e tenne la coperta in modo da ripararla dalla vista. E quando Rosa Tea fu nuda, la coprì con la coperta sudicia.
Il ragazzo venne di nuovo al fianco della mamma, e spiegava: «Io non sapevo. Lui diceva sempre che aveva già mangiato e che non aveva fame. Ieri sera sono andato fuori, e ho rotto una vetrina e ho rubato del pane. Gliel'ho fatto mangiare, ma l'ha vomitato tutto, e dopo era più debole di prima.
Bisognerebbe dargli del brodo o del latte. Avete denaro per comprare un po' di latte?»
«Zitto, non ti preoccupare. In qualche modo si provvede.»
D'un tratto il ragazzo gridò: «Ma muore, vi dico! Muore di fame!»
«Zitto,» disse la mamma. Guardò il babbo e zio John, che stavano in piedi vicino all'uomo malato guardandolo con occhi impotenti. Poi guardò Rosa Tea avviluppata nella coperta, e aspettò d'incontrarne lo sguardo. Allora le due donne si lessero profondamente negli occhi, e Rosa Tea prese a respirare in fretta e affannosamente.
Poi disse: «Sì.»
La mamma sorrise: «Ero certa!» Si guardò le mani, abbandonate in grembo.
Rosa Tea bisbigliò: «Fai... fai andar via tutti?» e la mamma la rassicurò con un cenno del capo. Ora il suono della pioggia sul tetto era soltanto un fruscio. La mamma si sporse in avanti, allontanò con la mano una ciocca di capelli dalla fronte della figlia e le dette un bacio, poi si raddrizzò e ordinò: «Andate fuori un momento sotto la tettoia, voialtri, tutti.»
Ruth aprì la bocca per parlare e la mamma la zittì. «Silenzio, fuori!» Li sospinse fuori, anche il ragazzo, ed uscì anch'essa per ultima chiudendosi alle spalle la porta cigolante.
Per un minuto Rosa Tea continuò a sedere nel silenzio frusciante del fienile.
Poi si alzò faticosamente in piedi aggiustandosi la coperta attorno al corpo, si diresse a passi lenti verso l'angolo e stette qualche secondo a contemplare la faccia smunta e gli occhi fissi, allucinati. Poi lentamente si sdraiò accanto a lui. L'uomo scosse lentamente la testa in segno di rifiuto. Rosa Tea sollevò un lembo della coperta e si denudò il petto. «Su, prendete,» disse. Gli si fece più vicino e gli passò una mano sotto la testa. «Qui, qui, così.» Con la mano gli sosteneva la testa e le sue dita lo carezzavano delicatamente tra i capelli. Ella si guardava attorno, e le sue labbra sorridevano, misteriosamente.
JOHN STEINBECK: LA VITA, I LIBRI.
1902.
John Steinbeck nasce a Salinas in California. Questa località sarà molto presente nella sua opera come Oxford in quella di William Faulkner. Il padre è un funzionario, la madre un'istitutrice. Origini familiari irlandese e tedesca.
1929.
Dopo aver fatto vari mestieri, com'è proprio di una certa tradizione e anche retorica dello scrittore americano del suo tempo, ed essere stato bracciante, raffinatore di zucchero, muratore e giornalista, John Steinbeck pubblica presso un editore di New York il suo primo romanzo "The Cup of Gold" ("La Santa Rossa") dedicato alla vita del filibustiere inglese Henry Morgan.
1932.
Secondo libro di John Steinbeck, "The Pastures of Heaven" ("I pascoli del cielo"), con cui rivela per la prima volta una grazia spontanea e la capacità di trattare con affettuosa semplicità il mondo californiano, facendo di una serie di racconti una specie di romanzo.
1933.
Terzo libro, sempre molto californiano, "To a God Unknown" ("Al dio sconosciuto"), inno alla natura, esaltazione delle forze della terra. Il dio sconosciuto è Pan, a cui cerca d'avvicinarsi il puritano del Vermont, Joseph Wayne, venuto a stabilirsi nei pressi di Salinas.
1935.
Con il quarto libro, "Tortilla Flat" ("Pian della Tortilla"), ancora una serie di racconti con personaggi ricorrenti in una specie di romanzo corale, arriva per John Steinbeck la celebrità. Danny, il protagonista che ritorna a Monterey dopo la prima guerra mondiale, in un quartiere abitato da sanguemisti messicani, italiani e indiani, conquista cordialmente il lettore medio. Traduzione di Elio Vittorini.
1936.
John Steinbeck dà al suo pubblico sempre più numeroso un romanzo del tutto diverso: in "Dubious Battle" ("La battaglia"), storia di uno sciopero fallito tra i braccianti della California e di un'educazione sociale che porta alla morte, al sacrificio quasi gratuito. E' uno dei pochi, o forse l'unico, dei "proletarians novels" dell'epoca che si faccia leggere e apprezzare anche ai nostri giorni. Traduzione italiana di Eugenio Montale.
1937.
John Steinbeck vince il Premio Pulitzer, con il lungo racconto "Of Mice and Men" ("Uomini e topi"), storia dei due diseredati George e Lennie in un ranch della valle di Salinas. Una storia crudele e a suo modo poetica che otterrà molto successo anche nelle trasposizioni teatrale e cinematografica. Traduzione italiana di Cesare Pavese.
1938.
John Steinbeck raccoglie molti dei suoi migliori racconti sotto il titolo "The Long Valley" ("La valle lunga").
1939.
Esce il romanzo più famoso di John Steinbeck "The Grapes of Wrath" ("Furore"), che viene subito considerato il più grande romanzo sociale dell'epoca della crisi, "La Capanna dello zio Tom" degli Anni Trenta: la saga della famiglia Joad che, depredata dei propri averi a causa delle ipoteche, abbandona la fattoria devastata dalle intemperie in Oklahoma per tentare di raggiungere la terra promessa di California commuove i lettori europei quanto i lettori americani. Eppure è un romanzo di propaganda che si appunta addirittura su situazioni passeggere e non più esistenti dopo l'organizzazione sindacale dei lavoratori agricoli. Un romanzo scritto nell'ossequio dello spirito del New Deal come altri romanzi venivano scritti alla stessa epoca nello spirito dello stalinismo in Russia da Ehrenburg ed altri autori sovietici ufficiali.
1942.
Ormai John Steinbeck ha dato il meglio di sé. Durante la guerra è corrispondente in Europa. Pubblica un romanzo centrato senza molta ispirazione né molta esattezza, sulla resistenza norvegese "The Moon is Down" ("La luna è tramontata"). Non darà più sorprese ai suoi lettori.
1945.
E' la volta dei racconti di "Cannery Row" ("Vicolo Cannery"), in cui rifà il verso ai racconti di "Pian della Tortilla". Politicamente non è più un progressista: secondo l'iter di molti autori americani, come John Dos Passos, John Steinbeck è un conservatore accanito.
1947.
"The Wayward Bus" ("La corriera stravagante") è un nuovo romanzo non perfettamente riuscito. Ma John Steinbeck pubblica questo stesso anno "The Pearl" ("La perla"), un lungo racconto piuttosto riuscito.
1952.
Esce l'ultimo grosso romanzo di John Steinbeck "East of Eden" ("La valle dell'Eden"), vita di più generazioni di due famiglie californiane, i Trask e gli Hamilton dal 1860 al 1920. La critica ufficiale tende a considerare "La valle dell'Eden" il migliore romanzo di John Steinbeck dopo "Furore". Resta, comunque, da dimostrare che il migliore romanzo di John Steinbeck prima de "La valle dell'Eden" sia "Furore". E non il ben più conciso e poetico "La battaglia" (a parte "Uomini e topi" che è piuttosto un lungo racconto).
1968.
Dopo aver pubblicato motti altri racconti, John Steinbeck muore, senza che neppure l'assegnazione del Premio Nobel abbia potuto rinverdire la sua gloria. Anzi, secondo la critica meno ufficiale e più viva, il riconoscimento internazionale non ha fatto che esasperare i rapporti tra il lettore illuminato americano e quello che era stato riconosciuto come un interprete privilegiato della società americana. Ha scritto, a esempio, il poco ortodosso critico Leslie A. Fiedler in "Waiting for End", 1964 ("Aspettando la fine", Rizzoli 1966): «Faulkner ed Hemingway sono morti. Un suicidio lentamente consumato, bicchiere dopo bicchiere, nel primo caso, e uno immediato, con un colpo di fucile, come più spesso la nostra tradizione registra, nel secondo. Chi continua a vivere deve venire a patti con se stesso, ma, prima ancora, deve accordarsi con loro. La loro morte ha chiaramente mostrato quel che il fluire del tempo già aveva iniziato ad affermare (e il vivace disappunto in cui apprendiamo che il premio Nobel è stato conferito a John Steinbeck, non fa che sottolineare questa verità): che cioè questi due scrittori rappresentano per noi e per il mondo intero il giusto valore e la genuina popolarità del romanzo americano nella prima metà del secolo ventesimo...»