sabato 15 febbraio 2025

LA STRATEGIA DEL CAOS DI TRUMP Alessandra Libutti



LA STRATEGIA DEL CAOS DI TRUMP 

Alessandra Libutti

La strategia del caos di Trump e il punto di svolta dell'Europa e della Storia | InOltre


Nella strategia del caos che caratterizza l’amministrazione Trump, ogni giorno la posta viene alzata, spostando sempre più in là i confini dell’accettabile e seminando confusione nelle alleanze e nelle istituzioni democratiche. Pete Hegseth, ancor prima di qualsiasi negoziato, fa concessioni a Putin, rafforzando la posizione russa senza ottenere nulla in cambio. J.D. Vance legge un discorso che sembra scritto da Medvedev, umiliando i leader europei e mettendo in discussione la storica alleanza transatlantica. Elon Musk, con i suoi attacchi furibondi, mina la credibilità dell’intero sistema giudiziario americano, alimentando l’idea che non esista più alcuna istituzione imparziale. E Trump, mentre si accanisce con ostilità crescente contro i tradizionali alleati degli Stati Uniti, riserva solo parole accomodanti per gli storici avversari del Paese.

E certo, c’è chi applaude: “Finalmente qualcuno che dice le cose come stanno”, “Finalmente qualcuno che fa qualcosa”. E per carità, parecchie cose non vanno in Europa. Se tutto funzionasse perfettamente, le economie sarebbero floride, l’immigrazione sarebbe sostenibile, gli immigrati integrati, e non saremmo alle prese con un carrozzone lento e pigro. Ma c’è una differenza enorme tra identificare i problemi e affidarsi a chi promette di spazzare via tutto.

Vengono in mente alcuni eventi storici in cui le folle applaudivano altri “medici” dei mali del tempo, pronti a scardinare il sistema con la forza e la retorica del cambiamento. Uno di questi lo abbiamo definito “l’uomo della provvidenza”.

Ma senza spingerci troppo in là con gli esempi estremi, bastano eventi più recenti e spicci. Ricordiamo Mani Pulite, che spazzò via la Prima Repubblica mentre tutti applaudivano entusiasti. In fondo, dicevano, era solo un groviglio di vecchi partiti corrotti, gente aggrappata al potere, politici attaccati alla poltrona, giusto? E cosa ne è venuto fuori? L’Italia ha smesso di crescere e si è impantanata in un’economia pachidermica e un sistema istituzionale sempre più fragile. Si è distrutto senza costruire, si è abbattuto un sistema senza avere un progetto alternativo, e il risultato è stato il progressivo impoverimento del dibattito politico, il trionfo del giustizialismo e la paralisi decisionale.

E ancora, la straordinaria rivoluzione del “vaffa”, quella che doveva finalmente mandare a casa “la casta”, perché tanto le istituzioni lo meritavano, no? E tutti ad applaudire. “Era ora che qualcuno dicesse le cose come stanno!” Certo, ma lo diceva mandando affanculo. E cosa ne è uscito? Il peggio. Nessun rimedio, nessun miglioramento, solo degrado progressivo e inesorabile.

La storia è piena di queste dinamiche: una folla esasperata che applaude chi promette di distruggere tutto, senza domandarsi cosa verrà dopo. E oggi, nel caos orchestrato dall’amministrazione Trump e dai suoi alleati, siamo di fronte a una nuova versione di questo stesso copione.

Sempre, nelle peggiori strategie, ci si serve di problemi reali. Presentare questioni autentiche, persino condivisibili, diventa un’arma potente per legittimare qualsiasi azione, anche la più pericolosa e destabilizzante. Ma il problema non è solo ciò che si denuncia, bensì come lo si affronta. Non si può giustificare la ricerca della giustizia se questa passa attraverso la demonizzazione dell’altro, i linciaggi morali, la manipolazione della paura e il disprezzo per le più basilari regole della diplomazia.

Questa strategia non ha l’obiettivo di risolvere i problemi, ma di esasperarli fino al punto di rottura. Non si tratta più solo di un gioco politico aggressivo, ma di una ridefinizione radicale dell’ordine globale e delle regole del sistema, in cui la forza, il caos e la sfiducia diventano le uniche vere costanti.

Nessuna causa, per quanto giusta, può legittimare l’uso di metodi distruttivi. Quello che Elon Musk sta facendo e l’atteggiamento sprezzante, offensivo e intimidatorio di Trump e Vance non sono semplicemente strategie politiche aggressive: sono una ridefinizione delle regole stesse del gioco, basata sul principio che la forza e il discredito dell’avversario contino più della verità e della democrazia.


Posso essere abbastanza realista da comprendere da dove nascano certe frustrazioni e persino condividerne alcune lamentele. Posso riconoscere che esistano distorsioni nel sistema, che vi siano ragioni concrete dietro il malcontento di molti. Ma il modo in cui si risponde a queste problematiche è tutto. Il metodo scelto per combattere un’ingiustizia non è un dettaglio, è il principio che determinerà tutto ciò che seguirà.


Nel momento in cui calpesti le regole per ottenere quella che ritieni “giustizia”, hai già ucciso la giustizia. Una società che normalizza il disprezzo per le istituzioni e trasforma la violenza verbale o politica in uno strumento di governo è destinata a implodere. Quando il fine giustifica i mezzi, ogni forma di garanzia viene erosa, e il potere diventa un gioco senza regole, dove chi urla più forte ha ragione e chi ha il controllo impone la sua visione senza più limiti.


Non si tratta solo di opporsi a chi usa questi metodi, ma di capire che il modo in cui si combatte una battaglia determina il mondo che verrà dopo. Se il metodo è il caos, la prevaricazione e l’abuso di potere, allora ciò che verrà costruito sarà fatto delle stesse dinamiche, e chi oggi esulta per la caduta di un avversario potrebbe essere il prossimo bersaglio di un sistema che ha ormai perso ogni vincolo morale e istituzionale.

Capire le problematiche e presentarle al pubblico non significa legittimarle, ma è un modo per disinnescare le dinamiche che hanno portato certe forze al potere. Ignorare, minimizzare o ridicolizzare il malcontento che le ha generate non solo non risolve nulla, ma finisce per alimentarle ulteriormente, rafforzandole e spingendole a una radicalizzazione ancora più aggressiva.

Oggi, di fronte alle conseguenze dirette degli atteggiamenti di Trump, assistiamo esattamente a questo errore: la minimizzazione o addirittura la negazione delle cause che hanno favorito la sua ascesa, dal radicalismo woke al problema dell’immigrazione, fino al malcontento sociale ed economico che ha eroso la fiducia nelle istituzioni. Invece di analizzare le tensioni profonde che hanno alimentato il trumpismo, si preferisce liquidarle come semplici aberrazioni, episodi di follia collettiva o mere operazioni propagandistiche. Questo atteggiamento non solo dimostra di non aver compreso nulla, ma rischia di fornire ancora più carburante alla reazione, rafforzando chi si nutre di questa frustrazione e la trasforma in consenso.

Per disinnescare il trumpismo, e con esso il populismo delle nuove destre sovraniste, bisogna innanzitutto affrontare i problemi reali e avere il coraggio di trovare coesione, determinazione e dignità. Perché oggi l’Europa (e parlo del continente intero, non solo di Unione Europea) non è semplicemente sotto pressione, è sotto attacco da due fronti: la Russia e gli Stati Uniti di Trump.

Da un lato, la Russia, con la sua aggressione militare e le sue strategie di destabilizzazione, non solo sul campo di battaglia, ma anche attraverso campagne di disinformazione e il sostegno ai movimenti populisti e anti-europeisti. Dall’altro, gli Stati Uniti trumpiani, che con il loro isolazionismo, il loro disprezzo per le alleanze storiche e il sostegno implicito a regimi autoritari, stanno rimettendo in discussione l’intero equilibrio che ha garantito stabilità al continente europeo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.

L’errore più grande che l’Europa potrebbe commettere è continuare a negare la realtà. Se la risposta alle tensioni sociali e culturali che hanno generato il trumpismo è l’arroganza di chi non vuole riconoscere i problemi, allora il populismo continuerà a crescere, erodendo le istituzioni democratiche dall’interno. Non si combatte il sovranismo con lo snobismo, ma con la presa di coscienza dei problemi e con la coesione, perché un’Europa frammentata è il miglior regalo che si possa fare ai suoi nemici. Serve determinazione, perché la sfida non è solo economica o diplomatica, ma è una battaglia per la difesa dei principi democratici stessi. E serve dignità, perché non si può rispondere al declino delle democrazie occidentali con compromessi al ribasso o con la resa ai ricatti politici interni ed esterni.

E tutto si gioca sull’Ucraina.

Il conflitto in Ucraina è il banco di prova definitivo: non solo per la resistenza di Kiev, ma per la capacità dell’Europa di esistere come attore unito e credibile. Se l’Europa cedesse alle pressioni di chi vuole un accordo a tutti i costi – e il costo sarebbe il colpo finale sulla bara del diritto internazionale, a favore di un realismo brutale, dove basta usare la forza militare per imporre la propria volontà – si aprirebbe una falla irreversibile nel sistema globale.

Accettare la logica del fatto compiuto, dove la realtà sul campo dipende solo dalla legge del più forte, significherebbe legittimare un mondo in cui tutto si risolve con gli eserciti. Significherebbe aprire la porta a nuovi conflitti, perché se oggi viene accettata e sdoganata l’invasione dell’Ucraina, domani non ci sarà più alcun freno per altre aggressioni, altri Stati pronti a risolvere le proprie ambizioni con la guerra. Il messaggio sarebbe chiaro: le democrazie europee non sono più in grado di difendere i propri valori, la propria sicurezza, i propri territori. E questo non sarebbe solo una vittoria per la Russia, ma anche per tutti quei movimenti sovranisti e autoritari che vedrebbero in un cedimento europeo la prova definitiva del fallimento del modello democratico occidentale.

Perché l’Ucraina non è solo una guerra ai confini orientali: è il punto di svolta che determinerà se il futuro sarà dominato da regimi autoritari o da democrazie forti e unite.