BREVI INTERVISTE CON UOMINI SCHIFOSI
David Foster Wallace
Recensione
Di Sonia Comastri
Di certi libri, sai bene che vorresti parlare. Non li riponi in libreria, restano sparsi. Li incontri sulla scrivania, nella borsa, in bagno, sul comodino. Li prendi, li rigiri, sfogli le pagine. Rileggi i passaggi che hai sottolineato, li rileggi con un filo di turbamento, e ti dici: Devo parlarne. C'è qualcosa di ipnotico e conflittuale in questi racconti (interviste? appunti?) . C'è una limpida bellezza, all'inizio. Una piscina, sospesa in un'immobilità illusoria, uno sgusciare fuori da se stessi verso un mondo fatto di miriadi di perfette istantanee. Un ragazzo che il giorno del suo tredicesimo compleanno si avventura verso un trampolino, un viaggio di pochi minuti che si cristallizza in un insieme di sensazioni, pensieri, una fugace riflessione sul tempo e sulla paura.
Una prosa meravigliosa, e io (sì, io, come faccio a parlare in modo oggettivo di un libro del genere?) so che ero lì, perchè sentivo lo schiamazzare dei bambini, il fresco dell'ombra, il metallo freddo della scala a pioli sotto i piedi.
Ero entrata nella pelle di qualcuno che io non sarò mai, e vivevo il mondo tramite i suoi sensi.
E' uno dei poteri della scrittura, quando è lucida e brillante quanto quella di Wallace.
E' anche l'unico racconto in seconda persona singolare. Per fortuna. Perchè dopo inizia una discesa verso un mondo che ha ben poco a spartire con quello esplorabile tramite i sensi.
Un bestiario, come è stato legittimamente chiamato, di persone.
Ci penso e ci ripenso, cerco di trovare dei fili comuni, cerco di capire cosa mi abbia lasciato quel fondo di turbamento al termine della lettura. Cerco di scartare le soluzioni semplici.
"Brevi interviste con uomini schifosi". Uomini schifosi. Ho dovuto controllare che la traduzione del titolo fosse accurata.
Perchè, insomma, lo sono veramente? Schifosi?
Così ci vengono presentati, ed è molto semplice utilizzare etichette precostruite, soprattutto quando così docilmente questi uomini ammettono i propri peggiori istinti. Tecniche di seduzione meschine, paternalismi, tentativi patetici di autogiustificarsi, insulti e minacce. L'invisibile intervistatrice le cui domande sono simbolizzate da una semplice D. li ascolta con fin troppa pazienza, sopporta allusioni, viene umiliata, eppure riporta fedelmente le testimonianze di questi uomini che più di tutto spiegano se stessi.
Con una lucida sincerità sviscerano i meccanismi psicologici che sfruttano e di cui sono vittime più o meno consapevoli.
La natura umana sa essere mostruosa, quando vuole. Per quanta autoconsapevolezza si possa raggiongere, questa non fa altro che logorare e stressare fino all'estremo i rapporti umani. Riconoscere i propri traumi come motori dei comportamenti attuali non offre alcuna soluzione per risolverli. Ne sono un esempio gli uomini schifosi, ma ne è un esempio anche la Persona Depressa di uno dei racconti.
La sua psicoterapeuta la invita alla sincerità, ad indagare i propri sentimenti e ad esprimerli, un altro dei temi che ricorre nei racconti successivi. E la Persona Depressa lo fa, fa del suo meglio per seguire tutte le indicazioni, sviscera ciò che prova nei suoi diari, tormenta le amiche fino alla nausea con i traumi del suo passato.
La Persona Depressa è un Uomo Schifoso?
Gli uomini schifosi sono per buona parte dei misogini meschini che antepongono all'empatia un ragionamento freddo e quasi predatorio nei confronti delle donne. La persona depressa però è una donna, inanzitutto, e non è inserita nei capitoli delle interviste con gli uomini schifosi.
Eppure i meccanismi della sua psiche non sono diversi.
Sono assorbiti da loro stessi, i protagonisti di questi racconti. Assorbiti da loro stessi fino al punto di non prestare più attenzione al mondo esterno, di concepirlo in funzione delle proprie psicosi, delle proprie esigenze. Delle proprie convinzioni, anche.
Sinceramente, a me paiono dannatamente umani.
Dubbio, manipolazione, disgusto verso se stessi, paura, orgoglio, vergogna, risentimento. Tanto quanto questi sentimenti ci appartengono, tanto proviamo ad allontanarli, a relegarli agli altri. Ad etichettare le persone come schifose se sono sincere e ci espongono il meccanismo che guida le loro azioni. Non vogliamo provare empatia, ma la scrittura crea empatia.
E' veramente difficile per me spiegare quanto "Brevi interviste con uomini schifosi" mi sembri ruotare attorno al tema della comunicabilità.
Dirò solo che questo libro mi ha sorpreso, divertito e turbato. Che lo ritengo scritto benissimo, squisitamente complesso, forse più sincero di quanto avrebbe voluto essere.
Insomma, stupendo.
BREVI INTERVISTE CON UOMINI SCHIFOSI
Il dono
di Zadie Smith
Secondo i critici, Brevi interviste era un libro ironico sulla misoginia. Leggerlo era come essere intrappolati in una stanza con dei misogini ironici e impasticcati, o qualcosa di simile. Secondo me, leggere Brevi interviste non era affatto come essere intrappolati. Era come essere in chiesa. E la parola importante non era ironia ma dono. Dave ha detto cose geniali sul dono: sulla nostra incapacità di dare gratuitamente, o di accettare quello che ci viene dato gratis. Nei suoi racconti, dare è diventato impossibile: la logica di mercato permea ogni aspetto della vita. Un tizio non riesce a regalare un vecchio attrezzo agricolo; deve dire che costa cinque dollari perché qualcuno si decida a prenderlo. Una persona depressa vuole disperatamente ricevere attenzione ma non sa darla. I normali rapporti sociali sono mantenuti solo perché «sai, non si sa mai, in fondo, o invece sí, o invece sí».
Brevi interviste è di per sé il risultato di due doni enormi. Il primo di ordine pratico: il premio conferito dalla MacArthur Fellowship. Un dono di quella portata contribuisce a liberare uno scrittore dalla logica di mercato, e forse anche da quel vincolo che Dave stesso definiva post-industriale: il costante bisogno di piacere. Il secondo era un dono piú complesso. Si trattava del suo talento, di una grandezza talmente smaccata da confondere le idee: perché un giovanotto cosí dotato dovrebbe creare opere cosí ostiche e complesse? Ma la prospettiva dell’economia del dono va ribaltata. In una cultura che priva quotidianamente della capacità di usare l’immaginazione, il linguaggio e il pensiero autonomo, una complessità come quella di Dave è un dono. Le sue frasi ricorrenti, meandriche, richiedono una seconda lettura. Al pari del ragazzino che aspetta di tuffarsi, la loro osticità spezza «il ritmo che esclude il pensiero». Ogni parola che cerchiamo sul dizionario, ogni tortuosa nota che seguiamo a piè di pagina, ogni concetto che mette a dura prova cuore e cervello: tutto contribuisce a spezzare il ritmo dell’assenza di pensiero – e ci vediamo restituire i nostri doni.
A chiunque è stato dato assai, assai sarà ridomandato. Dave scriveva cosí, come se il suo talento fosse una responsabilità. Aveva un modo radicale di considerare i suoi doni: «Ho finito col convincermi – scriveva – che ci sono una specie di vitalità e di sacralità senza tempo nella buona scrittura. Il talento c’entra poco, anche quello che salta agli occhi […]. Il talento è solo uno strumento. È come avere una penna che funziona anziché una che non funziona. Non dico che senza sarei comunque in grado di dare compiutezza al mio lavoro, ma si direbbe che la grande distinzione fra l’arte che vale e l’arte cosí-cosí sia da ricercare nell’intento posto al cuore dell’arte, nei programmi della coscienza che si celano dietro il testo. C’entra invece l’amore. La disciplina necessaria a far parlare quella parte di sé capace di amare anziché quella parte che vuole solo essere amata».
Ecco la sua preoccupazione letteraria: il momento in cui l’io scompare e tu sei capace di offrire il tuo amore come un dono senza aspettarti niente in cambio. In quel momento il dono rimane sospeso, come lo straordinario servizio di Federer, tra chi batte e chi riceve, e svela di non appartenere a nessuno dei due. Non abbiamo quasi parole per definire questo modo di dare. L’unica di cui disponiamo è irrimediabilmente deturpata dall’uso improprio che se ne fa. La parola è preghiera. Per essere un rinomato ironista, Dave ha scritto molto di preghiera. Un uomo sposato, al cospetto di una seduttrice adolescente, si inginocchia e prega, ma non per l’ovvia ragione. «Non ho paura per quello che pensi» dice. La sgranocchiatrice di cereali prega mentre viene stuprata, ma non per ricevere soccorso. Un tizio che ha causato per sbaglio dei danni cerebrali alla figlia prega con un gesuita pazzo in mezzo a un campo, mentre una chiesa fatta senza le mani si erge intorno a loro. Quando succede l’incomprensibile e l’imperdonabile, i personaggi di Dave ricorrono all’impossibile. Le loro preghiere sono irrazionali, assurde, lasciate cadere in un vuoto, ed è da lí, paradossalmente, che traggono il loro potere. Tutto sono meno che ironiche. Sono piene di fede, qualità che Kierkegaard definiva: «Un gesto compiuto in virtú dell’assurdo».
Quando ho insegnato Brevi interviste all’università, ho chiesto ai ragazzi di leggerlo insieme a Timore e tremore. A me i due libri sembrano imparentati. Tutti e due trovano uno humour nero in quegli uomini schifosi che si sentono post-amore, post-fede, post-tutto. «Quelli che oggi non si fermano all’amore – scriveva Kierkegaard – dove credono di andare? Alla saggezza terrena, al bieco calcolo, alla piccineria e all’infelicità? […] Non sarebbe meglio tenersi alla fede e, per colui che lo fa, stare attento a non cadere?» La verità, sosteneva, è che siamo ancora lontani dall’aver raggiunto la fede. Kierkegaard prendeva la fede sul serio, la considerava un’impresa impossibile, almeno per lui. Anche Dave prendeva la fede sul serio: sono i suoi uomini schifosi a non farlo. Il libro che tra tutti mi ha consigliato con maggiore entusiasmo è Catholics di Brian Moore, un breve romanzo su un prete che, dopo quarant’anni in monastero, si scopre ancora incapace di pregare. Chiunque consideri Dave innanzitutto un ironista dovrebbe far caso alla scelta. La sua è una satira seria, se con satira intendiamo «la lode indiretta di ciò che è buono».
Ma non voglio sostituire un Ironista con uno ossessionato da Dio. Non c’è bisogno di tirare in ballo la parola Dio – preferisco parlare di «valore supremo». Qualunque nome scegliamo, sta a indicare ciò che consente ai pochi eroi delle Brevi interviste di compiere i loro gesti in virtú dell’assurdo, creando arte che nessuno vuole, amando senza essere riamati, dando senza la speranza di ricevere. Dave è risalito a questo valore supremo passando per la bellezza di un Vermeer e spingendosi fino al concetto di infinito, fino al servizio di Federer… e oltre. Per dirla con lui: «Tocca decidere che cosa adorare». Ma per evitare che la relatività post-moderna ci dia alla testa, si affretta a ricordarci che nove volte su dieci adoriamo noi stessi. I segnali che indicano l’uscita da questo doppio vincolo non sono facili da scorgere, però ci sono. Quando l’uomo sposato giunge le mani per pregare, compie un gesto che potrebbe essere metafisico, ma in realtà cerca un legame umano sincero che, nei racconti di Dave, è difficile da trovare quanto un Dio. È l’amore il valore supremo, la cosa assurda, impossibile – l’unica per cui valga la pena pregare. L’ultima riga è meravigliosa. Dice: «E se lei si unisse a lui sul pavimento, cosí, stretti nella supplica: proprio cosí».
ZADIE SMITH
23 ottobre 2008.
Introduzione
di Fernanda Pivano
Prima di questo Brevi interviste con uomini schifosi David Foster Wallace (1962) ha pubblicato tre libri e un «grande romanzo» che lo hanno fatto diventare a trentasette anni uno scrittore leggendario, chiaramente vicino al suo maestro postmoderno John Barth (1930) e rispettato, perfino incoraggiato, da Jay McInerney (1955), ormai riconosciuto mentore della giovane letteratura americana. Wallace si è imposto per il suo talento di stilista e di satirista e per la sua erudizione alla Thomas Pynchon.
Il primo dei suoi libri, il romanzo La scopa del sistema, è uscito nel 1987 e la sua prima stesura è stata scritta mentre Wallace, figlio di un allievo di Irvin Malcolm (biografo di Wittgenstein) seguiva le orme del padre e studiava Filosofia allo Amherst College. È un romanzo ribaldo e sofisticato che parla di un amore non corrisposto e di uno psichiatra corrotto, mescolando immagini farsesche a grosse fette della filosofia del linguaggio di Wittgenstein.
Intanto scriveva racconti, e ne ha raccolti dieci pubblicandoli nel 1989 col titolo La ragazza con i capelli strani, ricchi di un’ironia veramente irresistibile, sempre un po’ crudele, spesso un po’ ribalda, a volte un po’ trasgressiva. È un’ironia bizzarra, forse piú surrealista che postmoderna, ma intrisa di istanze cosí drammatiche da rasentare il sadismo, perfino da far accostare le storie al cosiddetto noir.
Uno dei racconti è il ritratto del presidente Johnson, che rivela l’abilità superba, davvero straordinaria, di Wallace nel descrivere specialmente le cose ovvie; credo si possa dire che forse è piú bravo a descrivere che a raccontare. In questo racconto l’ironia è piú pesante, e a volte conduce a sperimentazioni stilistiche che sembrano ricordare quelle dello scrittore postmoderno John Barth e dei suoi seminari di Creative Writing frequentati da Wallace; ma il suo senso del grottesco e la sua maestria nel linguaggio satirico vanno al di là di qualsiasi influenza accademica.
Mentre pubblicava questi racconti che lo hanno fatto diventare scrittore di culto Wallace scriveva il lungo romanzo Infinite Jest, 1076 pagine, uscito nel 1996, ricco di pagine irriverenti, satiriche, che McInerney ha definito «pirotecniche».
Il primo a essere sorpreso del suo enorme successo è Wallace stesso, che lo definisce «una schizofrenia di attenzione» e considera la sua «carriera» una delle piú rispettate sperimentazioni letterarie della sua generazione. La sua narrativa raggiunge la maggiore comicità quando fa la satira dell’infelicità e dell’isolamento presentandoli come situazioni sostanzialmente noiose, indegne dell’Io; le sue caratteristiche piú importanti sembrano lo humour nero e il suo interesse per la violenza sessuale.
Questi aspetti della sua narrativa ritornano anche piú espliciti nella raccolta di venti racconti Brevi interviste con uomini schifosi (1999), storie di humour nero, con violentatori sessuali e falliti spirituali, nelle quali stupro e masturbazione si beffano dell’amore romantico, e gli affetti della famiglia sono messi a confronto coi danni che recano.
Wallace non ha mai pensato di fare davvero interviste come quelle della raccolta, ma lo ha divertito scrivere nella forma di «Domande e Risposta», o come si dice da noi, «A domanda risponde», una tecnica che aveva già tentato di usare, ma senza vero successo, in Infinite Jest.
Nei brani delle domande e risposte che danno titolo a Brevi interviste con uomini schifosi, una intervistatrice interroga una serie di uomini volgari sui loro rapporti con le donne. Non sono mai riportate le sue domande: vengono riferite solo le loro risposte, ma nonostante questo Wallace la considera la protagonista del libro. In un articolo ha detto che «nel corso delle interviste le è accaduto qualcosa di male, qualcosa di molto male».
Lo scrittore ritiene questa raccolta la sua opera piú inquietante, ma quando ha cominciato a scriverla non prevedeva che lo sarebbe diventata; non prevedeva neanche che «gli amici avrebbero pensato che riflettesse qualcosa che succedeva a me; e se questo fosse vero, sarei l’equivalente letterario di uno che scrive Aiuto sullo specchio senza saperlo».
Il lettore noterà che le brevi interviste sono inserite nella serie di articoli o saggi o memorie che costituiscono il libro. Questo materiale è disposto in modo da accentuare il senso delle interviste e da sottolineare l’approfondimento dell’intervistatrice in quello che Wallace (figlio di atei, respinto due volte dall’istruzione cattolica) un po’ per scherzo e un po’ sul serio ha chiamato «il vuoto spirituale nella interazione eterosessuale nell’America postmoderna».
Il libro non è un libro facile e non è stato facile neanche scriverlo per Wallace, anche se è stato piú facile di Infinite Jest. In un’intervista ha detto: «I romanzi sono come matrimoni. È cosí triste finirli. Quando ho finito il mio primo libro mi è parso di essermi innamorato della mia protagonista e che fosse morta. Bisogna capire che scrivendo un romanzo nascono strani e invisibili amici e poi si devono uccidere, anche se sono stati vivi soltanto nella nostra immaginazione, e dopo averli uccisi si deve andare dal droghiere o parlare alla gente nei ricevimenti e simili. I personaggi dei racconti sono diversi. Diventano vivi negli angoli degli occhi. Non si deve vivere con loro».
Questi personaggi si muovono nel libro in brani che vanno da quindici righe a ventisette pagine: sono virtuosismi di voce, immaginazione, note a volte interminabili e humour nero, immersi in una tensione mai rallentata che conferma Wallace, è stato detto, come il «cupo principe della narrativa americana contemporanea».
Due di questi brani sono apparsi su «Esquire» nel luglio 1998 e su «Harper’s» nel gennaio 1998: su «Harper’s» La persona depressa e su «Esquire» pezzi delle vere e proprie «interviste», disposte senza un apparente ordine cronologico, come sul libro, dove compaiono con la numerazione B.I. n. 14, agosto ’96; B.I. n. 11, giugno ’96, B.I. n. 3, novembre ’94; B.I. n. 30, marzo ’97 e cosí via.
Nel secondo gruppo di interviste è situata la B.I. n. 40, giugno ’97, quella celebre, proterva, dove un braccio deforme viene usato come arma di seduzione.
Fra il secondo gruppo di interviste e il terzo sono disposti i due saggi famosi (circa venticinque pagine), intitolati Mondo adulto (I) e Mondo adulto (II), che sono un vero e proprio studio sui rapporti coniugali. Nel primo viene descritta la felicità della sposa in un rapporto sessualmente idilliaco col marito; nel secondo viene descritta la sposa «diventata maggiorenne» e in crisi, col marito che si fa una nuova fidanzata ma è innamorato della moglie, in un’azione narrata in forma di sogno.
Un brano è costituito da una serie di trascrizioni di interviste con venti uomini che parlano delle loro ossessioni e delle loro fantasie, quasi sempre a proposito di donne viste come conquiste, tutto tranne esseri umani. «Sono egoisti a proposito dell’essere generosi», dice Wallace: sono predatori e ingannevoli, «sono odiosi per la loro paura delle donne, dell’intimità e dell’amore».
A volte i racconti sono selvaggiamente ironici, a volte sono buffi e tragici nel descrivere le vittimizzazioni di una donna, quasi sempre raccontano goffi tentativi di seduzioni. La sua è una narrativa visionaria e sensazionale, a volte alienante quando diventa metanarrativa, ma stupenda nei ritratti evocativi e nei monologhi in cui Wallace è indiscusso maestro, secondo la tradizione piú codificata.
Le ossessioni e gli esperimenti sinistri che a volte lo ispirano lo hanno fatto accostare a Edgard Allan Poe; ma il suo senso personalissimo dell’alienazione, del solipsismo, della futilità della comunicazione gli hanno dato un suo carattere che lo ha liberato dal pericolo di rientrare nel tono dei cosiddetti Grandi Narcisisti (per esempio John Updike) e lo ha fatto nominare nell’elenco proposto dal «New Yorker» dei venti scrittori al di sotto dei quarant’anni che rappresentano «il futuro» della narrativa americana.
[Febbraio 2000].
BREVI INTERVISTE CON UOMINI SCHIFOSI
Una storia ridotta all’osso della vita postindustriale
Quando vennero presentati, lui fece una battuta, sperando di piacere. Lei rise a crepapelle, sperando di piacere. Poi se ne tornarono a casa in macchina, ognuno per conto suo, lo sguardo fisso davanti a sé, la stessa identica smorfia sul viso.
A quello che li aveva presentati nessuno dei due piaceva troppo, anche se faceva finta di sí, visto che ci teneva tanto a mantenere sempre buoni rapporti con tutti. Sai, non si sa mai, in fondo, o invece sí, o invece sí.
La morte non è la fine
Il poeta americano cinquantaseienne, premio Nobel, poeta noto nei circoli letterari americani come «il poeta dei poeti» o a volte semplicemente «il Poeta», steso all’aperto sulla sdraio, a torso nudo, moderatamente sovrappeso, su una sedia a sdraio parzialmente inclinata, al sole, a leggere, semisupino, moderatamente ma non seriamente sovrappeso, vincitore di due National Book Awards, un National Book Critics Circle Award, un Lamont Prize, due borse del National Endowment for the Arts, un Prix de Rome, un Lannan Foundation Fellowship, una Medaglia MacDowell, e un Mildred and Harold Strauss Living Award dell’American Academy e dell’Institute of Arts and Letters, presidente onorario del PEN, un poeta che due diverse generazioni di americani hanno acclamato come la voce della propria generazione, ora cinquantaseienne, steso con un costume asciutto XL marca Speedo su una sedia a sdraio di tela ulteriormente inclinabile sul pavimento di piastrelle accanto alla piscina di casa, un poeta che è stato tra i primi dieci americani a ricevere un «Genius Grant» dalla prestigiosa John D. and Catherine T. MacArthur Foundation, uno degli unici tre Nobel americani per la Letteratura ancora in vita, un metro e settantacinque, novanta chili, occhi castani capelli castani, l’attaccatura dei capelli arretrata e irregolare per via del successo solo parziale di svariati trapianti della serie Hair Augmentation System, seduto, o steso – o forse sarebbe piú esatto dire semplicemente «inclinato» – con un costume Speedo nero accanto alla piscina di casa a forma di rene 1, sul pavimento di piastrelle della piscina, su una sedia a sdraio portatile dallo schienale ora inclinato di quattro scatti a formare un angolo di 35° con il pavimento a mosaico di piastrelle, alle 10,20 del mattino, il 15 maggio 1995, il quarto poeta piú antologizzato nella storia delle lettere americane, vicino a un ombrellone ma non proprio all’ombra dell’ombrellone, legge il «Newsweek» 2, servendosi del modesto gonfiore del ventre come sostegno obliquo per il giornale, indossa anche i sandali, una mano dietro la testa, l’altra allungata di lato che percorre la filigrana ocra e giallino delle costose piastrelle di ceramica spagnola del pavimento, bagnandosi ogni tanto il dito per girare pagina, con un paio di occhiali da sole graduati dalle lenti trattate chimicamente in modo da scurirsi in proporzione infinitesimale a seconda dell’intensità della luce di esposizione, al polso della mano che percorre le piastrelle un orologio di qualità e costo medi, sandali in finta gomma ai piedi, gambe incrociate alle caviglie e ginocchia leggermente divaricate, il cielo senza nuvole che si fa piú luminoso man mano che il sole del mattino si sposta in alto a destra, bagnandosi il dito non con la saliva o il sudore ma con la condensa sul sottile bicchiere congelato del tè ghiacciato che ora si trova proprio al limite dell’ombra del suo corpo sul lato in alto a sinistra della sedia e andrebbe spostato per rimanere al fresco dell’ombra, percorre pigramente con un dito il lato del bicchiere prima di portare pigramente il dito umido alla pagina, gira di quando in quando le pagine del numero di «Newsweek» del 19 settembre 1994, legge di una riforma sanitaria americana e del tragico Volo 427 della USAir, legge un sommario e una recensione positiva dei volumi di attualità Hot Zone e The Coming Plague, gira a volte varie pagine di seguito, scorrendo alcuni articoli e sommari, un eminente poeta americano a quattro mesi dal suo cinquantasettesimo compleanno, un poeta che il «Time», principale rivale di «Newsweek», una volta ha definito abbastanza assurdamente «quanto di piú vicino a un immortale della letteratura ancora in vita», le tibie quasi glabre, l’ombra ellittica dell’ombrellone aperto che si va restringendo leggermente, i sandali di finta gomma coi sassolini incastrati sopra e sotto la suola, la fronte del poeta imperlata di sudore, l’abbronzatura profonda e intensa, l’interno delle cosce quasi glabro, il pene strettamente ripiegato su se stesso dentro il costume stretto, il pizzetto curatissimo, un portacenere sul tavolo di ferro, non beve il tè ghiacciato, di quando in quando si schiarisce la gola, a tratti si sposta leggermente sulla sedia a sdraio pastello per grattarsi pigramente il collo di un piede con l’alluce dell’altro senza togliersi i sandali né guardare nessuno dei due piedi, apparentemente concentrato sul giornale, la piscina azzurra a destra e la porta scorrevole di spesso vetro sul retro della casa in diagonale a sinistra, fra lui e la piscina un tavolo rotondo di ferro bianco intrecciato trafitto al centro da un grosso ombrellone da spiaggia la cui ombra ora non tocca piú la piscina, un poeta dal talento indiscusso, legge il suo giornale sulla sua sedia sul suo pavimento vicino alla sua piscina dietro casa sua. La zona della piscina e del pavimento è circondata su tre lati da alberi e cespugli. Gli alberi e i cespugli, impiantati anni prima, sono fittamente intrecciati e aggrovigliati e assolvono la stessa funzione fondamentale di un recinto protettivo di sequoia o di un muro di ottima pietra. La primavera è al culmine, e gli alberi e i cespugli sono carichi di foglie, di un verde e di una immobilità intensi, in un complesso gioco d’ombre, il cielo assolutamente azzurro e immobile, tanto che l’intero quadro racchiuso di piscina e pavimento e poeta e sedia e tavolo e alberi e facciata posteriore della casa è assolutamente immobile e calmo e sfiora il silenzio piú assoluto, unici rumori il debole gorgoglio dell’acqua pompata e scaricata dalla piscina e di quando in quando il rumore del poeta che si schiarisce la gola o gira le pagine di «Newsweek» – non un uccello, niente falciatrici tagliasiepi trinciaerba in lontananza, niente jet sopra la testa né lontani rumori attutiti dalle piscine delle case ai lati della casa del poeta, nient’altro che il respiro della piscina e la gola del poeta schiarita di tanto in tanto, assolutamente immobile e calmo e racchiuso, neanche un alito di brezza a muovere le foglie degli alberi e delle siepi, il silenzioso vivo a racchiudere il verde immobile della flora vivido e ineluttabile e senza uguali al mondo né per come si presenta né per quanto evoca. 3
1 Nonché primo poeta nato in America, nei 94 anni di gloriosa storia del Premio Nobel per la Letteratura, a riceverlo, il sospirato Premio Nobel per la letteratura.
2 Però non ha mai ricevuto un John Simon Guggenheim Foundation Fellowship: per tre volte eliminato agli esordi della carriera, aveva avuto ragione di credere che il comitato del Guggenheim Fellowship fosse mosso da ragioni personali e/o politiche, e aveva deciso che mai piú, manco morto, manco ridotto alla fame, avrebbe assunto di nuovo un assistente per compilare quella barbosa domanda in triplice copia al Guggenheim Foundation Fellowship e sottoporsi di nuovo a quella barbosa spregevole farsa dell’esame «obiettivo».
3 Questo non è del tutto vero.
Per sempre lassú
Buon Compleanno. È il tredicesimo ed è importante. Forse è la tua prima giornata davvero pubblica. Il tuo tredicesimo compleanno dà agli altri l’occasione di accorgersi che ti stanno succedendo cose importanti.
E te ne sono successe di cose nell’ultimo mezzo anno. Ora hai sette peli sotto l’ascella sinistra. Dodici sotto la destra. Dure pericolose spirali di friabili peli neri. Peli croccanti, animaleschi. Ora nelle parti basse i duri peli arricciati sono tanti che non riesci a tenere il conto. Altre cose. La voce è piena e stridula, e passa senza preavviso da un’ottava e all’altra. La faccia ha cominciato a farsi lucida quando non la lavi. E dopo due settimane di dolore intenso e spaventoso la primavera scorsa ti è sceso qualcosa dall’interno: la tua sacca adesso è piena e vulnerabile, un bene da proteggere. Sostenuta e imbrigliata da solidi sostegni che ti lasciano strisce rosse sulle chiappe. Sei approdato a una nuova fragilità.
E i sogni. Per mesi hai fatto sogni prima impensabili: umidi e intricati e distanti, pieni di curve cedevoli, pistoni impazziti, calore, e una caduta a picco; e sbattendo gli occhi ti sei svegliato con un afflusso e uno zampillo e un tumulto di sensazioni da far arricciare le punte dei piedi e rizzare i capelli sulla testa che venivano da un interno piú profondo di quello che sapevi di avere, spasmi di sofferenza dolce e profonda, i lampioni che attraverso le persiane della finestra esplodevano in stelle aguzze contro il soffitto nero della stanza, e addosso a te un impiastro bianco e denso che sguscia tra le gambe, sgocciola e si appiccica, ti si raffredda addosso, si indurisce e sbiadisce finché la mattina sotto la doccia non restano che ciuffetti bitorzoluti di bianchi compatti peli animaleschi, e in quel groviglio bagnato un odore puro e dolce che non puoi credere venga da qualcosa che hai prodotto dentro di te.
Piú di tutto l’odore somiglia a questa piscina: un dolce sale sbiancato, un fiore dai petali chimici. La piscina ha un forte limpido odore azzurro, anche se sai che l’odore non è mai cosí forte quando ti ritrovi dentro l’acqua azzurra, come adesso, spossato dalla nuotata, allungato a ridosso dell’estremità meno profonda, l’acqua all’altezza dei fianchi che ti accarezza là dove tutto è cambiato.
Intorno al pavimento di questa vecchia piscina pubblica all’estremità occidentale di Tucson c’è uno steccato anticiclone color peltro, decorato da un luminoso groviglio di biciclette incatenate. Piú in là, un rovente parcheggio nero pieno di strisce bianche e macchine lucenti. Un campo smorto di erba secca e dure sterpaglie, le teste piumate dei vecchi soffioni esplosi in neve che si alzano con il vento. E al di là di tutto questo, arrossate da un tondo lento sole settembrino, ci sono le montagne, frastagliate, gli angoli aguzzi delle cime che scurendo si delineano contro una stanca luce rosso intenso. Contro il rosso che recede, le aguzze cime collegate formano una linea irta di punte, come un elettrocardiogramma del giorno che muore.
Le nuvole prendono colore dall’orlo del cielo. L’acqua è tutto un tenue luccichio azzurrognolo, temperatura tiepida da cinque del pomeriggio, e l’odore della piscina, come quell’altro odore, si collega a una foschia chimica dentro di te, un offuscamento interiore che piega la luce ai propri fini, attenuando la differenza fra quello che smette e quello che comincia.
I festeggiamenti sono per stasera. Oggi pomeriggio, giorno del tuo compleanno, hai chiesto di venire in piscina. Ci volevi venire da solo, ma un compleanno va trascorso in famiglia, la tua famiglia vuole stare con te. È una bella cosa, e tu non sai dire perché ci volevi venire da solo, e in fondo in realtà magari non ci volevi venire da solo, perciò loro sono qui. A prendere il sole. I tuoi prendono il sole tutti e due. Le loro sdraio hanno segnato il tempo per tutto il pomeriggio, ruotando, seguendo la curva del sole in un cielo deserto che scaldandosi è diventato come una pellicina d’uovo. Tua sorella accanto a te nella parte bassa gioca a mosca cieca con un gruppo di compagne di classe magre e chiassose. Ora l’hanno bendata, è lei la mosca cieca. Volteggia a occhi chiusi inseguendo i vari strilli, turbinando al centro di una ruota di ragazze urlanti in cuffia da bagno. Sulla sua di cuffia sono spuntati dei fiori di plastica. Ci sono flosci petali rosa antico che tremano quando si lancia verso i suoni ciechi.
All’altro capo della piscina c’è la vasca per i tuffi e l’alta pedana del trampolino. In fondo, dove finisce il pavimento, c’è lo SN CK BAR, e ai lati, incatenati sopra l’ingresso di cemento alle umide docce scure e agli armadietti, gli altoparlanti di metallo grigio che diffondono la musica radiofonica della piscina, uno strepito stridulo e confuso.
Tu piaci alla tua famiglia. Sei sveglio e tranquillo, rispetti gli adulti, ma non per questo sei senza carattere. Sei proprio un bravo figlio. Badi alla tua sorellina. Sei il suo alleato. Avevi sei anni quando lei ne aveva zero e avevi gli orecchioni quando l’hanno portata a casa avvolta in una coperta gialla morbidissima; l’hai salutata con un bacino sul piede senza preoccuparti di attaccarle gli orecchioni. I tuoi dicono che è stato di buon augurio. Che ha impostato il tono. Ora riconoscono di aver visto bene. Sono fieri di te sotto tutti i punti di vista e si sono ritirati in quella calda distanza da dove si propagano orgoglio e soddisfazione. Andate tutti d’amore e d’accordo.
Buon compleanno. È un gran giorno, grande quanto la volta dell’intero cielo sudoccidentale. Ci hai pensato e ripensato. C’è l’alto trampolino. Loro se ne vorranno andare da un momento all’altro. Sali su e fallo.
Scrollati di dosso quell’azzurra pulizia. Sei mezzo sbiancato, rilasciato e morbido, intenerito, i polpastrelli aggrinziti. Hai gli occhi velati dall’odore troppo pulito della piscina che frantuma la luce in un colore tenue. Batti il collo della mano contro la testa. Da una parte c’è una molle eco. Inclina la testa da quella parte e oplà, un calore improvviso nell’orecchio, piacevolissimo, l’acqua riscaldata dal cervello diventa fredda sul nautilo all’esterno dell’orecchio. Ora senti la musica piú forte e piú metallica, gli strilli piú vicini, tanto movimento in tanta acqua.
La piscina è affollata per essere quest’ora. Ci sono bambini magri, uomini dal pelo animalesco. Ragazzi sproporzionati, tutti collo e gambe e giunture bitorzolute, il petto incavato, vagamente uccellesco. Come te. Ecco dei vecchi che si muovono esitanti nell’acqua bassa su gambe come stecchi, sfiorano l’acqua con le mani, fuori da qualsiasi elemento.
E ragazze-donne, donne, con le curve di uno strumento o di un frutto, la pelle brunita marrone chiaro, il pezzo di sopra del costume sorretto da delicati nodi di fragile nastro colorato contro la spinta di morbidi pesi misteriosi, il pezzo di sotto che scende sulla lieve sporgenza di fianchi completamente diversi dai tuoi, protuberanze e sinuosità esagerate che si fondono alla luce in uno spazio circostante che accoglie e asseconda le morbide curve come cose preziose. Arrivi quasi a capire.
La piscina è un sistema di movimenti. Eccoli lí: sciabordii, battaglie di schizzi, tuffi, acchiappino, palle di cannone, Squali e Pesciolini, cadute dall’alto, mosca cieca (tua sorella è ancora sotto, quasi in lacrime, è sotto da troppo tempo, il gioco sfiora il limite della crudeltà, non sta a te salvarla o metterla in imbarazzo). Due ragazzini puliti tutti bianchi incappucciati da asciugamani di cotone corrono lungo il bordo della piscina finché il bagnino li fulmina di colpo con un urlo dal megafono. Il bagnino è marrone come un albero, una striscia verticale di peli biondi sulla pancia, la testa sotto un cappello da esploratore della giungla, il naso un triangolo bianco di crema. Una ragazza stringe con un braccio la gamba del suo piccolo trespolo. Lui si annoia.
Adesso esci e passa davanti ai tuoi, che prendono il sole e leggono, senza alzare lo sguardo. Lascia perdere l’asciugamano. Fermarti a prenderlo significa parlare e parlare significa pensare. Sei arrivato alla conclusione che la paura è provocata principalmente dal fatto di pensare. Vai sparato all’estremità piú profonda della vasca. Sopra la vasca c’è un grande trampolino di ferro bianco sporco. Una tavola si protende come una lingua dalla cima del trampolino. Il pavimento di cemento della piscina è ruvido e bollente sotto i tuoi piedi sbiancati. Le impronte si fanno sempre piú sottili e fievoli. Rimpiccioliscono sulla pietra bollente alle tue spalle e poi scompaiono.
File di salsicciotti di plastica sobbalzano intorno alla vasca che, priva com’è del balletto convulso di teste e braccia che domina il resto della piscina, è in tutto e per tutto se stessa. La vasca è azzurra come l’energia, piccola e profonda e perfettamente quadrata, fiancheggiata dalle corsie sciabordanti e dallo SN CK BAR e dal ruvido pavimento bollente e dalla tarda ombra curva di trampolino e asse. La vasca è tranquilla e immobile e risana la sua piattezza tra una caduta e l’altra.
Ha un suo ritmo. Come il respiro. Come una macchina. La fila per salire si sdipana in una curva dalla scala del trampolino. La fila segue la curva, si raddrizza avvicinandosi alla scala. Una a una, le persone raggiungono la scala e salgono. Una a una, distanziate dal battito dei cuori, raggiungono la lingua della tavola sulla sommità. E una volta sulla tavola, si fermano, ognuna esattamente per la stessa pausa di un minuscolo battito cardiaco. E le gambe le portano al fondo, dove tutte fanno lo stesso tipo di balzo, le braccia che si curvano all’esterno come a descrivere qualcosa di circolare, totale; ricadono di peso sul bordo della tavola facendosi spingere in alto e poi fuori.
È una lanciapersone, file di movimento balbettante in una dolce tarda foschia sbiancata. Da sotto le guardi colpire il freddo lenzuolo azzurro della vasca. Ogni caduta produce un bianco che forma un pennacchio e ricade dentro se stesso e si espande e spumeggia. Poi dalle profondità in mezzo al bianco emerge l’azzurro pulito e si espande come un budino, ripristinando nuovamente tutto. La vasca si risana. Tre volte mentre tu vai avanti.
Sei in fila. Guardi intorno. Hai l’aria annoiata. Poche chiacchiere nella fila. Ognuno sembra per conto suo. Per lo piú guardano la scala, hanno l’aria annoiata. Avete quasi tutti le braccia incrociate, gelati da un tardo vento secco che si leva sulle costellazioni di perle di cloro azzurro pulito che vi coprono schiena e spalle. Sembra impossibile che siate davvero tutti cosí annoiati. Avete accanto il bordo dell’ombra del trampolino, la nera lingua arrovesciata dell’immagine della tavola. È un sistema di ombre smisurato, lungo, tutto su un lato, unito alla base del trampolino in un tardo angolo acuto.
Quasi tutti quelli in fila per il trampolino guardano la scala. I ragazzi piú grandi guardano i sederi delle ragazze piú grandi che salgono. I sederi sono rivestiti di soffice stoffa sottile, stretch di nylon attillato. I bei sederi salgono la scala come pendoli in un liquido, un delicato codice indecifrabile. Le gambe delle ragazze ti fanno pensare ai cervi. Hai l’aria annoiata.
Guardi oltre. Guardi dall’altra parte. Ci vedi benissimo. Tua madre è sulla sedia a sdraio, legge, strizza gli occhi, la faccia sollevata per ricevere la luce sulle guance. Non ha guardato per vedere dov’eri. Sorseggia qualcosa di dolce da una lattina luccicante. Tuo padre è steso sulla grossa pancia, la schiena come l’accenno di una gobba di balena, le spalle arricciolate di spirali animalesche, la pelle unta e impregnata di rosso-marrone per il troppo sole. Il tuo asciugamano è appeso alla tua sedia e ora un angolo della stoffa si muove... tua madre lo colpisce allontanando con la mano un’ape solitaria che sembra gradire il contenuto della sua lattina. In un attimo l’ape è di nuovo lí, sospesa come immobile sulla lattina in una dolce immagine sfocata. Il tuo asciugamano è un faccione dell’orso Yogi.
A un certo punto la fila dietro di te è diventata piú lunga di quella davanti. Ora non hai nessuno davanti a parte tre persone sull’esile scala. La donna che ti precede è sui primi pioli, guarda in alto, ha un costume intero attillato di nylon nero. Sale. Dall’alto arriva un rimbombo, poi una grande caduta, poi un pennacchio e la vasca si risana. Ora sono in due sulla scala. Il regolamento della piscina prevede uno alla volta sulla scala, ma il bagnino non urla mai per questo. È il bagnino a stabilire le vere regole a seconda che urli o no.
La donna sopra di te non dovrebbe portare un costume tanto attillato. Ha l’età di tua madre ed è altrettanto grossa. È troppo grossa e troppo bianca. Il costume ne è saturo. Le strizza la parte posteriore delle cosce che sembrano formaggio. Le gambe hanno piccoli scarabocchi irregolari di vene frantumate azzurro freddo sotto la pelle bianca, come se in quelle gambe qualcosa si fosse spezzato, fatto male. Sembra che alle gambe faccia male stare strizzate, piene di arabeschi riccioluti di freddo azzurro spezzato. Quelle gambe ti fanno sentire come se anche a te facessero male le gambe.
I pioli sono sottilissimi. Non te l’aspettavi. Sottili pioli di ferro rotondi col feltro di sicurezza bagnato e scivoloso ai bordi. L’odore di ferro bagnato nell’ombra ti fa sentire in bocca un sapore di metallo. Ogni piolo preme nella pianta dei piedi ammaccandola. Senti che le ammaccature sono profonde e fanno male. Ti senti pesante. Come si sentirà la donna sopra di te. Anche i poggiamano ai lati della scala sono sottilissimi. È come se non riuscissi a reggerti. E devi pure sperare che la donna si regga. E naturalmente da lontano i pioli sembravano di meno. Non sei mica stupido.
Sei a metà, allo scoperto, il donnone piazzato sopra di te, un tipo pelato massiccio e muscoloso sulla scala sotto i tuoi piedi. La tavola è ancora alta lassú, invisibile da qui. Ma rimbomba sbatacchiando pesantemente, e un ragazzo che vedi entro la manciata di centimetri dei pioli sottili cade a piombo in un lampo, un ginocchio stretto al petto, producendo una barriera di schizzi. C’è un enorme punto interrogativo di schiuma nel tuo campo visivo, poi un agitare di mani qua e là in un immenso spumeggiare. Poi il rumore silenzioso della vasca che si risana ancora una volta in un rinnovato azzurro.
Altri pioli sottili. Reggiti forte. Qui la radio è al massimo, un altoparlante all’altezza dell’orecchio sopra l’ingresso di cemento agli armadietti. Uno sbuffo freddo e umido da dentro la stanza degli armadietti. Afferrati forte alle sbarre di ferro e girati a guardare giú dietro di te, cosí vedi la gente in basso che compra bibite e spuntini. Guardi dentro le cose: la cima bianco pulito del berretto del venditore, le tinozze di gelato, i freezer d’ottone fumanti, le vasche subacquee degli sciroppi, i tubi serpentini della soda, le scatole traboccanti di popcorn salati tenuti in caldo al sole. Ora che sei lassú vedi tutto.
C’è vento. Piú sali piú è ventilato. Il vento è sottile; attraverso l’ombra è freddo sulla pelle bagnata. Sulla scala in ombra la tua pelle sembra bianchissima. Senti il sibilo sottile del vento nelle orecchie. Altri quattro pioli alla cima del trampolino. I pioli ti fanno male ai piedi. Sono sottili e ti ricordano quanto pesi. Sulla scala il tuo peso è reale. Il suolo ti reclama.
Ora vedi da sopra la cima della scala. Vedi la tavola. La donna è lí. Dietro le caviglie le sporgono due calli rossi, dall’aria dolorosa, si direbbe. È in piedi all’inizio della tavola, i tuoi occhi sulle sue caviglie. Ora sei sopra l’ombra del trampolino. L’omaccione sotto di te sta guardando attraverso i pioli lo spazio limitato che la caduta della donna attraverserà.
Lei fa una pausa che dura giusto il tempo di una pausa. Nessun accenno di lentezza. Ti fa venire freddo. In men che non si dica è in fondo alla tavola, su, giú, la tavola si piega in basso come se non la volesse. Poi annuisce, sbatacchia e la scaraventa con violenza su e in fuori, le braccia della donna che si aprono per descrivere quel circolo, e via. Scompare in un lampo scuro. E passa un po’ prima che senti l’impatto sottostante.
Ascolta. Non sembra bello il modo come scompare in un tempo che passa prima che lei produca il rumore. Come una pietra in fondo a un pozzo. Ma pensi che lei non deve averlo pensato. Lei faceva parte di un ritmo che esclude il pensiero. E ora ne sei parte anche tu. Il ritmo sembra cieco. Come le formiche. Come una macchina.
Decidi che bisogna rifletterci su. Forse, tutto sommato, va benissimo fare una cosa paurosa senza pensarci, ma non quando la paura sta proprio nel non pensare. Non quando il non pensare si dimostra un errore. A un certo punto gli errori si sono accumulati alla cieca: noia ostentata, peso, pioli sottili, piedi doloranti, spazio ritagliato dalla scala, che si fondono solo in una sparizione che richiede tempo. Il vento sulla scala non risponde alle aspettative. Il modo come la tavola si protende dall’ombra verso la luce e tu non vedi oltre il fondo. Quando tutto si rivela diverso forse è il caso di mettersi a pensare. Anzi, sarebbe doveroso.
La scala è piena sotto di te. Stipata, ognuno a pochi pioli dall’altro. La scala è alimentata da una fila massiccia che si estende all’indietro e curva nell’oscurità dell’ombra obliqua del trampolino. Le persone in fila tengono le braccia incrociate. A quelle sulla scala fanno male i piedi e guardano tutte in alto. È una macchina che va solo in avanti.
Sali sulla lingua del trampolino. La tavola si rivela lunga. Lunga come il tempo che resti lí in piedi. Il tempo rallenta. Si infittisce intorno a te man mano che il tuo cuore aumenta i battiti a ogni secondo, a ogni movimento nel sistema della piscina sottostante.
La tavola è lunga. Da dove ti trovi sembra allungarsi nel nulla. Sta per spedirti da qualche parte che la sua lunghezza ti impedisce di vedere, a cui sembra sbagliato sottomettersi senza nemmeno pensare.
Vista in un altro modo, quella stessa tavola non è che una cosa lunga piatta e sottile coperta da un ruvido materiale di plastica bianca. La superficie bianca è molto ruvida, picchiettata e rivestita di un rosso pallido annacquato che però è pur sempre rosso e non ancora rosa – gocce di vecchia acqua della piscina che catturano la luce del tardo sole sopra le montagne aguzze. Il ruvido materiale bianco della tavola è bagnato. E freddo. I tuoi piedi sono indolenziti dai pioli sottili e sono dotati di grande sensibilità. Sentono il tuo peso. All’inizio della tavola ci sono i poggiamano. Non sono come quelli appena lasciati della scala. Sono spessi e bassissimi, ti devi quasi chinare per reggerti. Stanno lí solo per bella mostra, nessuno li usa. Reggersi richiede tempo e altera il ritmo della macchina.
È una lunga fredda ruvida tavola di plastica o fibra di vetro bianca, venata del triste quasi rosa delle caramelle scadenti.
Ma in fondo alla tavola bianca, sul pizzo, dove ricadrai col tuo peso per farti espellere, ci sono due zone di oscurità. Due ombre piatte in piena luce. Due vaghi ovali neri. Il fondo della tavola ha due chiazze sporche.
Le hanno fatte tutti quelli passati prima di te. Mentre te ne stai lí coi piedi teneri e ammaccati, indolenziti dalla ruvida superficie bagnata, capisci che sono due macchie scure fatte dalla pelle degli altri. Sono pelle, abrasa dai piedi dalla violenza della sparizione di persone con un peso reale. Tante di quelle persone che non riusciresti a tenere il conto. Il peso e l’abrasione della loro scomparsa si lascia dietro pezzettini di soffici teneri piedi, pezzetti e scaglie e riccioli di pelle che si sporcano e si scuriscono e si abbronzano restando minuscoli e imbrattati al sole in fondo alla tavola. Si ammucchiano e si imbrattano e si mescolano scurendosi in due cerchi.
Fuori di te non passa tempo. È sbalorditivo. Il tardo balletto sottostante è al rallentatore, i movimenti dilatati di mimi in gelatina azzurra. Volendo potresti davvero restare qui per sempre, con una vibrazione interna cosí veloce da fluttuare immobile nel tempo, come un’ape su qualcosa di dolce.
Ma dovrebbero pulire la tavola. Basterebbe pensarci un attimo per capire che dovrebbero ripulire dal fondo della tavola la pelle delle persone, i due ammassi neri di quanto resta da prima, macchie che da qui sembrano occhi, ciechi occhi storti.
Dove ti trovi adesso è immobile e tranquillo. Niente schizzi urla radio vento qui. Niente tempo né rumori reali, solo il tuo sangue che stride nella testa.
Quassú significa vista e odore. Gli odori sono intimi, di nuovo limpidi. L’aroma che ha il fiore del candeggio, ma da lí altre cose salgono fino a te come neve disseminata dalle erbacce. Senti odore di popcorn giallo intenso. Dolce olio abbronzante come cocco bollente. Hot dog o corn dog. Un sottile accenno crudele di Pepsi scurissima nei bicchieri di carta. E l’odore tipico di masse d’acqua che emanano da masse di pelle, salendo come vapore da un nuovo bagno. Calore animale. Da lassú è piú reale che mai.
Guarda. Vedi tutta quella complicatissima cosa, azzurra e bianca e marrone e bianca, intrisa di acquosi lustrini di rosso sempre piú intenso. Tutti. È quello che si dice uno spettacolo. E lo sapevi che da sotto non saresti mai sembrato cosí in alto lassú. Ora lo sai quanto sei in alto lassú. Lo sapevi che da sotto non si sarebbe mai capito.
Lui lo dice dietro di te, gli occhi sulle tue caviglie, l’omaccione pelato: Ehi ragazzino. Vogliono sapere. Come la mettiamo: pensi di fare una cosa di giorno. Ehi ragazzino tutto bene.
C’è stato tempo in tutto questo tempo. Non puoi uccidere il tempo col cuore. Tutto richiede tempo. Le api si devono muovere rapidissime per restare immobili.
Ehi ragazzino fa lui Ehi ragazzino tutto bene.
Sulla lingua ti sbocciano fiori di metallo. Non c’è piú tempo per pensare. Ora che c’è tempo non hai tempo.
Ehi.
Lentamente ora, da un capo all’altro è tutto un guardare che si diffonde come cerchi sull’acqua colpita. Osservalo diffondersi a partire dalla scala. Tua sorella che ha riacquistato la vista e il suo magro bianco branco indicano. Tua madre dà un’occhiata all’acqua bassa dove stavi prima, poi si fa schermo con la mano. La balena si smuove dondolando. Il bagnino alza gli occhi, la ragazza intorno alla sua gamba alza gli occhi, lui allunga la mano verso il megafono.
Di sotto è per sempre pavimento ruvido, spuntini, musica metallica acuta e stridula, giú dove una volta eri anche tu; la fila è compatta e non ha la retromarcia; e l’acqua, naturalmente, è morbida solo quando ci stai dentro. Guarda giú. Ora si agita al sole, piena di dure monete di luce che brillano rosse mentre si allontanano tendendosi in una bruma che è il tuo stesso dolce sale. Le monete si spezzano in lune nuove, lunghe schegge di luce provenienti dai cuori di tristi stelle. La vasca quadrata è un freddo lenzuolo azzurro. Il freddo non è che una forma di durezza. Una forma di cecità. Ti hanno preso in contropiede. Buon Compleanno. Ci hai pensato bene. Sí e no. Ehi ragazzino.
Due macchie nere, violenza, e scomparire in un pozzo di tempo. Il problema non è l’altezza. Quando torni giú cambia tutto. Quando colpisci, con il tuo peso.
E allora qual è la bugia? Durezza o morbidezza? Silenzio o tempo?
La bugia è che è una cosa o l’altra. Un’ape immobile, fluttuante, si muove piú in fretta di quanto lei stessa non pensi. Da lassú la dolcezza la fa impazzire.
La tavola annuirà e tu andrai, e i neri occhi di pelle si potranno incrociare e accecare in un cielo maculato di nuvole, luce perforata che si svuota dietro la pietra aguzza che è per sempre. Che è per sempre. Metti piede nella pelle e scompari.
Ciao.
Brevi interviste con uomini schifosi
B.I. n. 14, agosto ’96
ST. DAVIS, PENNSYLVANIA
– Ci ho rimesso tutti i rapporti sessuali che ho avuto. Non so perché lo faccio. Non sono tipo da politica, io, non mi pare proprio. Non sono uno di quegli America First, che leggono il giornale, si chiedono quanti consensi rastrellerà Buchanan. Sono lí che lo faccio con una, una qualsiasi. È quando comincio a venire. Che succede. Non sono un Democratico. Manco vado a votare. Una volta che davo di matto per questa cosa prendo e telefono a una trasmissione radiofonica, e un dottore alla radio, anonimamente, lo diagnostica come lo sfogo incontrollato di parole e espressioni involontarie, spesso offensive o scatologiche, cioè coprolalia che è il termine ufficiale. Solo che quando comincio a venire e comincio anche a sbraitare non è offensivo, non è osceno, è sempre la stessa cosa, e è sempre cosí strano, offensivo non direi. Direi che è solo strano. E incontrollato. È come se venisse fuori tale e quale allo sburro, stessa sensazione. Non so da che dipende e non riesco a evitarlo.
D.
– «Vittoria per le Forze della Libertà Democratica!» Solo piú forte. Proprio come se strillassi. In modo incontrollabile. Non mi passa nemmeno per la testa finché non viene fuori e lo sento. «Vittoria per le Forze della Libertà Democratica!» Solo piú forte di cosí: «VITTORIA...»
D.
– Be’, le manda letteralmente fuori di testa, che ti credi? E cosí mi giro dall’altra parte e muoio dall’imbarazzo. Non so mai che dire. Che vuoi dire se hai appena gridato «Vittoria per le Forze della Libertà Democratica!» proprio mentre venivi?
D.
– È questa cazzo di stranezza a mettermi tanto in imbarazzo. Se sapessi anche alla lontana da che dipende. Capisci?
D...
– Cristo, adesso sono imbarazzato da morire.
D.
– Cosí tutto si risolve in una botta e via. Per questo dico che ci rimetto. Non ti dico come le manda ai matti, e io mi sento in imbarazzo, e non le cerco piú. Anche se ci provo a spiegare. E sono quelle che fanno tanto le comprensive e dicono che non gliene importa e non c’è problema e loro capiscono e non fa niente che mi mettono piú in imbarazzo, perché è una bella stranezza del cazzo gridare «Vittoria per le Forze della Libertà Democratica» mentre sburri e ogni volta lo capisco benissimo che le manda completamente ai matti e ti fanno la concessione e fingono di capire, e è proprio con quelle che io veramente potrei finire ma veramente quasi per incazzarmi e non mi sento nemmeno in imbarazzo a non cercarle piú o a evitarle completamente, quelle che ti dicono «Credo che ti amerei lo stesso».
B.I. n. 15, agosto ’96
MCI-SERVIZIO DI OSSERVAZIONE & STIMA DI BRIDGE-WATER, BRIDGEWATER, MASSACHUSETTS
– È una tendenza, e sempre che la coercizione sia minima e non esistano danni reali è sostanzialmente benigna, ne converrà anche lei. E tenga presente che quelli che hanno bisogno di una qualunque coercizione sono sorprendentemente pochi.
D.
– Da un punto di vista psicologico le origini appaiono evidenti. Potrei aggiungere che vari terapeuti sono concordi, qui come altrove. È tutto a puntino.
D.
– Be’, mio padre stesso, diciamo cosí, per tendenza naturale non era un brav’uomo ma comunque si impegnava strenuamente a esserlo. Nervi e via dicendo.
D.
– Voglio dire, mica li torturo o li metto al rogo.
D.
– La tendenza di mio padre alla rabbia, specialmente [incomprensibile o distorto] il Pronto Soccorso per l’ennesima volta, spaventato dai suoi stessi nervi e dalla tendenza alla violenza fra le mura domestiche, cosa che è andata avanti per un certo periodo, finché è ricorso, dopo un certo periodo di tempo e vari periodi di inutile frequentazione dei consultori, alla pratica di ammanettarsi i polsi dietro la schiena ogni volta che gli saltavano i nervi con qualcuno di noi. A casa. Nell’ambiente domestico. Piccoli incidenti domestici che logorano i nervi e via dicendo. Quest’autocontrollo si è poi sviluppato durante un certo periodo in modo tale che piú si infuriava con qualcuno di noi, maggiore era la coercizione che metteva nel controllarsi. Spesso a fine giornata quel poveraccio si ritrovava legato mani e piedi sul pavimento del soggiorno, a urlare come una furia di mettergli pure quel cazzo di bavaglio di merda. Per quanto un simile episodio possa suscitare l’interesse di chi non ha avuto il privilegio di essere presente. Cercare di imbavagliarlo senza farsi mordere. Ma naturalmente cosí ora siamo in grado di spiegare le mie tendenze e risalire alla loro origine e farne un pacchetto confezionato a puntino tutto per lei, non è vero?
B.I. n. 11, giugno ’96
VIENNA, VIRGINIA
– Va bene, lo sono, okay, sí, ma aspetta un attimo, okay? Voglio che cerchi di capire questo. Okay? Sta’ a sentire. Lo so che sono lunatico. Lo so che certe volte mi chiudo in me stesso. Lo so che non è facile stare con uno cosí, okay? Va bene? Ma questa cosa che ogni volta che mi vengono le lune o mi chiudo tu pensi che me ne vado o che mi preparo a scaricarti... non mi va giú. Questo fatto che hai sempre paura. Mi logora. Mi fa sentire come se dovessi, che so, nascondere qualunque stato d’animo posso avere perché tu pensi subito che riguarda te e che mi preparo a scaricarti e andarmene. Tu non ti fidi di me. È cosí. Non dico che vista la nostra storia mi meriterei tutta questa fiducia a occhi chiusi. Ma tu non me ne dai nemmeno un briciolo. Come dire sicurezza zero, qualunque cosa faccio. Okay? Ho detto che promettevo di non andarmene e tu hai detto che ci credevi che saremmo rimasti insieme per chissà quanto stavolta, e invece non l’hai fatto. Okay? Ammettilo, no? Non ti fidi di me. Devo sempre camminare sulle uova. Ti rendi conto? Non posso mica passare la vita a rassicurarti.
D.
– No, non dico che questo ti deve rassicurare. Questo è solo per cercare di farti capire... okay, sta’ a sentire... è che ci sono alti e bassi, okay? Certe volte uno si sente piú coinvolto che altre. È cosí, c’è poco da fare. Ma tu alti non sai che vuol dire. Tu non li ammetti. E lo so che in parte è colpa mia, okay? Lo so che le altre volte non ti hanno fatto sentire granché sicura. Ma io questo non lo posso cambiare, okay? Qui stiamo parlando di adesso. E adesso mi sento tale e quale a quando non ho voglia di parlare o divento un po’ lunatico o chiuso e tu pensi che ho in mente di scaricarti. E questo mi spezza il cuore. Okay? Mi spezza il cuore. Forse se ti amassi un po’ meno o ci tenessi meno a te riuscirei a mandarlo giú. Ma non ci riesco. Perciò sí, è questo che significano le valigie, me ne vado.
D.
– È proprio quello che temevo, che l’avresti presa cosí. Lo sapevo, avresti pensato che avevi ragione ad avere sempre paura e a non sentirti mai sicura, a non fidarti di me. Lo sapevo che la versione sarebbe stata «Ecco, vedi, hai promesso che non l’avresti fatto e invece te ne vai.» Lo sapevo ma voglio cercare lo stesso di spiegare, okay? E lo so che probabilmente non capirai nemmeno questo, ma – aspetta – cerca di ascoltarmi e magari di afferrare questo, okay? Pronta? Il fatto che vado via non è una conferma di tutte le tue paure sul mio conto. Non lo è. È a causa delle tue paure. Okay? Lo capisci o no? Sono le tue paure che non riesco a mandar giú. Sono la tua sfiducia e la tua paura che ho cercato di combattere. E non posso piú farlo. Si sono scaricate le batterie. Se ti amassi appena un po’ di meno magari lo manderei giú. Ma questa cosa mi sta uccidendo, la sensazione costante che ti spavento sempre e non ti faccio mai sentire sicura. Riesci a capirlo o no?
D.
– Certo che è ironico dal tuo punto di vista, lo capisco benissimo. Okay. E capisco che ora provi solo odio per me. E ce ne ho messo di tempo per essere pronto a affrontare te che provi solo odio per questo e quel tuo sguardo come di completa conferma di tutte le paure e i sospetti sulla tua faccia se solo potessi vederlo, okay? Giuro che se in questo momento tu potessi vedere la tua faccia chiunque capirebbe benissimo perché me ne vado.
D.
– Mi dispiace. Non voglio scaricare tutto su di te. Mi dispiace. Non sei tu, okay? Cioè, deve dipendere da me se non ti fidi dopo tutte queste settimane e non sopporti nemmeno dei piccoli normalissimi alti e bassi senza pensare subito che mi preparo a andare via. Non so cos’è, ma dev’essere cosí. Okay, e lo so che la nostra storia non è il massimo, ma ti giuro che tutto quello che ho detto lo pensavo, e ci ho provato al mille per cento. Giuro davanti a Dio che l’ho fatto. Mi dispiace. Darei qualsiasi cosa per non ferirti. Io ti amo. Ti amerò sempre. Spero che ci crederai, ma mi sono stufato di provare a convincerti. Ti prego solo di credere che ci ho provato. E non pensare che dipende da qualcosa che non va in te. Non farti questo. Dipende da noi, siamo noi il motivo per cui me ne vado, okay? Lo capisci? E non è di questo che hai sempre avuto paura? Okay? Lo capisci? Lo capisci o no che esiste l’eventualità anche minima che possa esserti sbagliata? Questo almeno me lo concedi, no? Perché non ti credere che io mi diverto, okay? Andarmene cosí, vedere la tua faccia cosí come ultima immagine che mi resterà nella mente. Lo capisci che anch’io posso sentirmi distrutto per questo? Sí o no? Che in questo non sei sola?
B.I. n. 3, novembre ’94
TRENTON, NEW JERSEY [sentita per caso]
R—: – Gira che ti rigira il fatto è che sono sempre l’ultimo a scendere.
A—: – Già, te ne resti tranquillamente seduto e aspetti di essere l’ultimo perché mai ogni volta scattano tutti in piedi appena si ferma e si ammassano nel corridoio e se ne stanno lí coi bagagli tutti ammassati a grondare sudore nel corridoio per cinque minuti solo per essere i...
R—: – Basta che aspetti e alla fine sbuchi dal passaggio coperto hai presente ai cancelli zona saluti come al solito pensi adesso mi prendo un taxi per...
A—: – Già ma è sempre deprimente in quegli scali freddi quando sbuchi ai cancelli degli arrivi e vedi tutti che si incontrano si salutano e gli strilli e gli abbracci e quelli in limousine che hanno i cartelli con nomi che non sono il tuo e il...
R—: – Chiudi un attimo quella cazzo di bocca e senti questa perché quando esco io è praticamente vuoto.
A—: – Vuoi dire che a quel punto la gente si è dileguata quasi tutta.
R—: – Tranne una ragazza rimasta avvinghiata alla corda a fissare con gli occhi sgranati dentro il passaggio coperto e vede che sono io e che uscendo la guardo perché là fuori si è svuotato a parte lei, i nostri occhi si incrociano e compagnia bella, e lei che fa prende e si butta in ginocchio piangendo coi lucciconi e compagnia picchiando schiaffeggiando il tappeto cavando ciuffetti e fibre da quella robaccia che comprano con quella schifezza di colla al polimero che fa saltare quasi subito i rinforzi finendo per triplicare i costi di manutenzione e riparo ma che te lo dico a fare e tutta piegata a schiaffeggiare e cavare quel materiale con le unghie, piegata in modo che hai presente le vedi le tette. Completamente isterica e coi lucciconi e compagnia bella.
A—: – Un altro felice benvenuto a Dayton in quegli scali freddi del cazzo, siamo lieti di darle il benv...
R—: – No ma la storia salta fuori la storia quando hai presente le vado a dire va tutto bene c’è qualche problema e roba simile e ho un’inquadratura migliore di quelle che devo dire cazzo sono tette di una bellezza incredibile sotto quella specie di toppino stretto una cosa tipo calzamaglia sotto questo cappotto lei è tutta giú e piegata a darsi botte da orbi alla testa e ancora lí con le mani in terra a torturare quel materiale ai cancelli dove dice che si è innamorata di questo tipo e compagnia bella che ha detto che anche lui l’amava solo che quando si sono conosciuti lui era già impegnato da prima e aveva perso la testa per lei cosí c’è tutto questo tira e molla e sturm und drang e compagnia e io le do retta mentre lei sta lí ma alla fine dice ma alla fine il tipo prende posizione e alla fine dice che si arrende al suo amore per questa tipa qui con le tette e si impegna con lei e dice che va a dirlo a quell’altra di Tulsa dove vive il tipo che si è messo con questa qui e rompe a Tulsa e alla fine si arrende e si impegna con questa isterica con le tette che lo ama piú della vita stessa e ha sentito una fusione di «anime» con lui e tutta la storia dei violini e compagnia e ha sentito come alla fine ’rcamiseria dopo tutti quei bastardi ritardati che l’hanno presa per il culo alla fine ha sentito come qui finalmente aveva conosciuto uno degno di fiducia e amore e fatto per la fusione delle «anime» con tanto di violini e cuori e fi...
A—: – E bla bla bla.
R—: – Bla e dice che il tipo prende l’aereo e torna a Tulsa per rompere alla fine con quella di prima come si era impegnato a fare per poi rivolare fra le braccia di questa tipa che l’aspetta coi Kleenex e le tette qui a Dayton ai cancelli a consumarsi gli occhi coi lucciconi sinceramente tua.
A—: – E quando mai, già me lo vedo.
R—: – ’Fanculo e quello si mette la mano sul cuore e tutto il resto e giura che tornerà da lei e che sarà sul tale aereo con tanto di numero del volo e orario e lei giura che sarà lí con le tette ad aspettarlo, e va a raccontare a tutte le amiche che alla fine si è innamorata di quello giusto che è andato a rompere per tornare subito e pulisce casa sua dove lui andrà a stare quando torna e si fa i capelli tutti belli cotonati con lo spray come si portano e si spruzza qualche goccia di profumo in quei posti lí e compagnia come si fa di solito e si mette i suoi migliori jeans rosa non ti ho detto che ha questi jeans rosa e i tacchi che dicono scopami in quasi tutte le lingue principali del mondo...
A—: – Eh eh.
R—: – A questo punto ci troviamo in un baretto appena oltre i cancelli della USAir quel posto di merda senza sedie dove con i tuoi due dollari di merda te ne devi stare in piedi ai tavoli con la tua valigetta da rappresentante e la borsa e tutta la tua merda sulle piastrelle scadentissime che manco il termoindurente c’hanno, la malta già comincia a arricciarsi e continuo a darle Kleenex e a darle retta e compagnia bella dopo che lei ha passato l’aspirapolvere in macchina e sostituito pure il piccolo deodorante appeso allo specchietto retrovisore e è andata a rotta di collo per arrivare in tempo all’aeroporto per quel volo dove quel tipo cosiddetto affidabile aveva giurato su quella puttana di sua madre di esserci.
A—: – Quello è un bastardo della vecchia scuola.
R—: – Sta’ zitto e dice che lui l’ha perfino chiamata e lei ha preso la telefonata proprio mentre si stava spalmando l’ultima goccia di profumo in quel posto e si stava facendo i capelli tutti cotonati in tutte le direzioni come si portano per andare a rotta di collo all’aeroporto squilla il telefono ed è il tipo e si sentono tutti quei sibili e le scariche al telefono e lei dice che lui dice che la chiama dal cielo gliela mette sul romantico le racconta che la chiama dall’aereo da quel piccolo telefono sull’aereo dove dovresti infilare la tua carta sul retro del sedile davanti a te e dice come...
A—: – Su quegli aggeggi c’è un ricarico di sei dollari al minuto è un furto e tutte le soprattasse che vengono calcolate dalla regione che sorvoli in quel momento con doppio ricavo se dicono che la regione confina con la ret...
R—: – Ma non è questo il punto lo vuoi sentire qual è il punto questa ragazza dice che si presenta in anticipo ai cancelli degli arrivi e già con qualche luccicone per l’amore e i violini dell’impegno alla fine e la fiducia e sta lí dice tutta gioia e fiducia come una scema patetica dice mentre l’aereo alla fine arriva e noi e loro cominciamo tutti a riversarci precipitosamente in branco dal passaggio coperto e lui non è nella prima ondata e non è nella seconda ondata mentre escono a mucchietti a ondate e sembra che ci mettono un secolo a cagarli hai presente...
A—: – Cristo non so quanto tempo ho perso in quel cazzo di passag...
R—: – E dice come una patetica una scema integrale dalla fede incrollabile lei continua a guardare a occhi sgranati la corda a otto intrecci marroncina otto intrecci con quella bella rifinitura di finto velluto la corda della zona a fianco mentre tutti si abbracciano e si ritrovano e vanno ai Bagagli e sempre a aspettare ’sto tipo nell’ondata, nel mucchietto successivo e poi quello dopo e quello dopo ancora, e aspetta.
A—: – Povera gnoccolona.
R—: – E alla fine ecco che arrivo io al solito buon ultimo e dopo non c’è nessuno a parte quelli dell’equipaggio con le loro belle valigette tutte uguali quelle belle valigette che mi fanno sempre un po’ incazzare e eccomi qua sono l’ultimo e lei...
A—: – Insomma tutto questo per dire che non è per te che urla e batte i pugni in terra è solo che sei l’ultimo a uscire e non sei il bastardo. Lo stronzo deve pure avere simulato la telefonata, le scariche se usi il Remington fa delle scariche che sembrano...
R—: – E io ti dico che una cosí non l’hai mai vista ti credi che un cuore infranto sono solo parole bla bla ma poi vedi questa tipa che si prende a botte in testa per essere stata cosí scema e piange tanto che le manca quasi il respiro e compagnia bella, che si abbraccia da sola e si dondola e prende il tavolo a cazzotti cosí forte che devi sollevare il caffè per non farlo cadere e come tutti gli uomini sono delle merde e non ti fidare di loro le avevano detto tutte le amiche e lei alla fine conosce uno e alla fine crede di potersi fidare che la cosa davvero migliore è cedere e abbandonarsi e impegnarsi e hanno ragione loro, è una scema, gli uomini sono solo delle merde.
A—: – Quasi tutti gli uomini sono delle merde, hai ragione, eh eh.
R—: – E io sostanzialmente lo sono, lí in piedi a reggere un caffè che è troppo tardi manco lo voglio decaffeinato le do retta e il cuore lo devo dire il cuore fa un po’ le bizze per questa ragazza per questo cuore infranto. Lo giuro amico ma tu non hai mai visto niente come il cuore infranto di questa ragazza con le tette, e comincio a dirle quanto ha ragione quel tipo è una merda e lei non se lo merita e quant’è vero che sono quasi tutti delle merde e come il mio cuore fa le bizze e tutto il resto.
A—: – Eh eh. Insomma com’è andata?
R—: – Eh eh.
A—: – Eh eh eh.
R—: – C’è bisogno di chiederlo?
A—: – Che bastardo. Che stronzo.
R—: – Be’ lo sai come vanno certe cose cioè che vuoi fare.
A—: – Che stronzo.
R—: – Be’, lo sai.
B.I. n. 30, MARZO ’97
DRURY, UTAH
– Devo ammettere che era un ottimo motivo per sposarla, pensando che meglio di cosí non mi poteva andare visto che aveva un bel corpo anche dopo aver sfornato un figlio. Bellissime stupende gambe – aveva sfornato un figlio ma non era tutta sformata e venosa e floscia. Farà l’effetto di essere superficiale, ma è la verità. Avevo sempre avuto questo terrore incredibile di sposare una bella donna che poi ti sforna un figlio e si ritrova col corpo sformato ma tu devi continuare a farci sesso perché hai firmato di continuare a fare sesso con lei per tutta la vita. Farà un effetto orribile, ma nel suo caso lei era come garantita – il figlio non le aveva sformato il corpo, perciò sapevo che con lei potevo firmare a occhi chiusi e farci i figli e cercare comunque di continuare a fare sesso. Fa un effetto superficiale? Dimmi che ne pensi. O la pura verità su questo genere di cose fa sempre un effetto superficiale, sai com’è, le vere ragioni di ognuno? Che ne pensi? Che effetto fa?
B.I. n. 31, marzo ’97
ROSWELL, GEORGIA
– Ma lo vuoi sapere come si fa a essere davvero grande? Come un Grande Amatore accontenta davvero una signora? Be’, il classico tipo del cascamorto dirà sempre di saperlo, che lui è un’autorità e via discorrendo. Non è una sigaretta, cocca, devi trattenerlo. Quello non ha la minima idea di come si accontenta davvero una signora. Dico, per davvero. Ai piú manco gliene importa, per dirtela com’è. Prendi il primo esemplare, quello zoticone abbirrazzato là, il classico porco. Quello sí e no sa due cose della vita, figurati quando si tratta di fare l’amore, egoismo allo stato puro. Arraffa tutto quello che può, e una volta che l’ha ottenuto la cosa finisce lí, per quanto lo riguarda. Il tipo che monta e se la fa e appena è venuto smonta e attacca a russare. Che ti credi. Direi che questo è lo stereotipo maschile vecchio stampo, anzianotto, quello che è sposato da vent’anni e non sa nemmeno se la moglie è mai venuta. Non gli passa manco per l’anticamera del cervello di chiederglielo. Lui viene ed è questo che conta per quanto lo riguarda.
D.
– Non è di certi tipi che parlo. Quelli sembrano piú che altro animali, montano e smontano e per lei basta e avanza. Tienila stretta all’estremità e non l’aspirare come se fosse una normale sigaretta. Lo devi trattenere e lasciare che si assorba. È roba mia, la coltivo io, mi sono tappezzato una stanza di Mylar e luci, cocca, non puoi sapere quanto ho scucito per ’sta roba. Quelli sono solo animali, non sanno nemmeno a che gioco giochiamo qui. No, perché qui parliamo del secondo esemplare, quello che si crede un Grande Amatore. E per certi tipi è davvero importante credersi Grandi. Passano buona parte del loro tempo a credersi Grandi e pensano di sapere come accontentarla. È questo l’esemplare maschile del cascamorto sensibile. Ora, sembrerà l’esatto opposto del morto di fame bianco che se ne sbatte altamente. È vero, ma non ti credere. Non t’illudere che questi tipi sono davvero tanto meglio del classico porco. Credersi Grandi Amatori non significa che non se ne sbattono di lei meno del porco, e a ben vedere a letto non hanno una briciola di egoismo in meno. È proprio con certi tipi che a letto vogliono confermare l’idea che si sono fatti di se stessi come Grandi Amatori che a letto la donnina perde la bussola. Tutti presi dal piacere di una donna e dal darle piacere. Uno cosí ha questa fissa e basta.
D.
– Che so, diciamo esplorarle lo yingyang per ore e ore, trattenendosi dal venire cosí possono andare avanti ore, conoscono il punto G e la Posizione dell’Estasi e via dicendo. Si precipitano da Barnes & Noble’s a caccia delle ultimissime novità librarie in materia di sessualità femminile cosí sono sempre aggiornati su quello che succede. A guardarti bene si direbbe che un paio di volte sei incappata in un cascamorto, con tanto di dopobarba al feromone e olio alla fragola e massaggi manuali che stringe e tocca, e sa tutto del lobo e di cosa significa un certo rossore e dell’aureola e dell’incavo dietro il ginocchio e di quel nuovo puntolino ultrasensibile che ultimamente dicono di aver individuato proprio dietro il punto G, questo soggetto li conosce tutti, e ci puoi giurare che non mancherà di farti sapere che sa come... qua, da’ qua. Ti faccio vedere. Be’ cocca ci puoi scommettere che questo esemplare vuole sapere se lei è venuta, e quante volte, e se è stata la volta migliore che lei... e compagnia bella. Capito come? Quando lo butti fuori non si dovrebbe riuscire a vedere niente. Come dire che te la sei sparata fino in fondo. Non hai detto che l’avevi già fatto? Questa non è l’erbaccia da zoticone medio. È come se questo tipo segnasse una tacca sul fucile ogni volta che la fa venire. È cosí che la prende. Che goduria ributtarne fuori la metà, è come avere una Porsche e usarla solo per andare in chiesa. No, è uno che segna le tacche, lui. Forse è un bel modo di confrontarli. I due esemplari. Il porco segna una tacca per ognuna che si mette sotto, quelle sono le sue tacche, che gliene frega. Ma il cosiddetto esemplare del Grande Amatore segna una tacca per ogni volta che una viene. Ma tutti e due non fanno che segnare tacche. Sotto sotto in realtà appartengono alla stessa categoria. Hanno fissazioni diverse ma non pensano a altro, a letto, e la donnina alla fin fine si sente comunque usata. Questo se la signora ha un minimo di sensibilità, che è un’altra storia. E ora cocca quando si è consumata un altro po’ non è che prendi e la schiacci sotto la scarpa come se fosse una normale sigaretta. Ti inumidisci il dito e picchietti delicatamente l’estremità e la conservi, ce l’ho io una cosa per conservarle. Quella che ho io è un po’ speciale ma normalmente si usano quei tubetti per i negativi che ti danno dal fotografo, perciò nessuno li butta mai via. Facci caso, hai mai visto uno di quei tubetti nella spazzatura?
D.
– No ma il sintomo classico per capire se è uno di quei Grandi Amatori è se a letto passa un sacco di tempo a esplorare e riesplorare lo yingyang della donna e a farla venire diciassette volte di seguito e roba del genere, ma dopo vedi un po’ se sulla faccia di questa verde terra del Signore c’è verso di lasciare che lei esplori quel suo prezioso cazzetto taurino. Sarà tutto un Oh no piccola no lascia fare a me voglio vederti venire ancora piccola oh piccola rimani lí e lasciami usare la mia magia d’amore e chiacchiere varie. Oppure conosce quella stronzata di massaggio coreano tutto speciale e attacca a scorticarle la schiena o tira fuori lo speciale olio di ciliegio dolce e le massaggia piedi e mani – e devo ammettere cocca che se non ti hanno mai fatto un massaggio manuale come si deve tu la vita non sai manco dove sta di casa, fidati – ma ti pare che permetterà alla signora di reciplacare e dargli una sfregatina alla schiena? Nossignore manco per idea. Perché la fissazione di questo esemplare è che dev’essere lui a dare piacere e tante grazie signora. Vedi, è diverso, ha il coperchio a tenuta stagna cosí non ti impuzzolisce la tasca, perché puzzano i maledetti, e poi si infila in questa specie di lembo e potrebbe essere qualsiasi cosa. Perché è qui che casca quell’asino dell’esemplare di cascamorto. È questo che mi fa disprezzare certi tipi che si credono di essere un dono personale del Signore alla specie femminile. Perché almeno lo zoticone ci mette un po’ d’onestà, la vuole trapanare e poi smontare e per lei basta e avanza. Mentre il cascamorto si crede di essere tanto sensibile e di sapere come accontentare una signora solo perché conosce la suzione clitoridea e lo shi-atsu, e guardarli a letto è come guardare uno di quei meccanici minchioni in camice bianco lavorare a una Porsche tutto tronfio per la sua perizia eccetera. Si credono Grandi Amatori. Si credono generosi a letto. No, la fregatura è che hanno l’egoismo di essere generosi. Non sono meglio del porco, sono solo piú subdoli. Ora avrai sete, ora vorrai un po’ di Evian. Questa roba ti secca la bocca da morire. Io mi porto dietro queste bottigliette di Evian qua dentro all’interno, vedi? Fatte su ordinazione. Dài prendine una, ne avrai voglia. Dài.
D.
– Cocca non c’è problema, tientela, fra mezzo minuto ne vorrai ancora. Avrei giurato che avevi detto di averlo già fatto. Non è che sto corrompendo un mormone dello Utah, spero. Il Mylar è meglio della carta metallizzata, riflette piú luce che va dritta sulla pianta. Ora ci sono dei semi speciali che non fanno crescere la pianta piú di tanto, ma è letale, è la morte per uno zoticone. Atlanta in particolare sembra pullulare di tipi cosí. Quello che non capiscono è che per una signora con un minimo di sensibilità il loro tipo è una lagna peggio perfino del porco monta-smonta. Perché come ti può piacere startene lí stesa a farti lavorare come una Porsche senza mai sentire che sei tu quella generosa e sexy e brava a letto e per di piú una Grande Amatrice? Mmh? Mmh? È qui che casca l’asino, cioè il cascamorto. Vogliono essere loro gli unici Grandi Amatori a letto. Si dimenticano che anche una signora ha dei sentimenti. Chi ha voglia di starsene lí stesa a sentirsi avara e ingorda mentre un qualche yuppie con la Porsche sbandiera sopra di te le sue Nubi Tantriche e il Mezzo-Loto della Pioggia segnando mentalmente le tacche di quante volte sei venuta? Se te la rigiri un po’ la bocca ti resta umida piú a lungo, la Evian è perfetta per questo, sarà anche un’acqua da yuppie imbecille ma sai chi se ne frega visto che è buona, afferri il concetto? A una cosa bisogna fare caso e cioè se quando il tipo te la lecca ti tiene una mano sul basso ventre per assicurarsi che vieni, cosí lo sai. Vuole essere sicuro. Il figlio di puttana non è un Amatore, sta soltanto mettendo su uno spettacolino. Non gli frega un cazzo di te. Vuoi sapere come la penso? Vuoi sapere come si fa a essere davvero Grande se la vuoi accontentare, che non ce n’è uno su mille che ci arriva?
D...
– Vuoi?
D.
– Il segreto è che devi procurare piacere alla donnina e saperlo anche ricevere, stessa tecnica per tutti e due e uguale piacere. O almeno devi farlo credere a lei. Non dimenticare che è di lei che si tratta. Vai, mangiale lo yingyang finché non la senti implorare, certo, vai, ma lasciala anche armeggiare col tuo cazzo taurino e anche se non ci sa fare granché falle credere il contrario. E se la sua idea di uno sfregamento alla schiena si riduce a degli stupidi colpetti di karate alla tua spina dorsale, be’ lasciaglielo fare, e comportati come se non esistesse un colpo di karate migliore. È cosí che si fa se vuoi essere un vero Grande Amatore e pensare a lei per un accidenti di un secondo.
D.
– Non è a me che ti devi rivolgere, cocca. Cioè di solito sí, ma li ho fatti fuori tutti, mi dispiace. Sai cos’è che li frega davvero a certi tipi aspiranti Grandi Amatori, è che se andiamo a stringere si credono che la donna è scema. Come se volesse soltanto starsene lí stesa e venire. Il vero segreto è: immagina che si sente esattamente come te. Che vuole vedere se stessa come una Grande Amatrice che a letto è capace di far perdere la bussola a un uomo. Concediglielo. Metti da parte la tua dannata immagine di te stesso per una volta nella vita. I cascamorti si credono che se fanno perdere la bussola alla donnina ce l’hanno in pugno. Stronzate.
D.
– Sta’ pur certa che ne vorrai ancora, cocca, fidati. C’è un mercatino a un paio di isolati da qui se noi... ouh, attenta...
D.
– No, devi farle credere che è lei che ti sta facendo perdere la bussola. È questo che vogliono davvero. Allora sí che ce l’hai davvero in pugno, se le fai credere che non la dimenticherai mai. Mai e poi mai. Mi segui?
B.I. n. 36, maggio ’97
CENTRO ANNESSO DI SERVIZI INFORMAZIONE E DIFFUSIONE DELLA COMUNITÀ CONTRO LA VIOLENZA DOMESTICA METROPOLITANA, AURORA, ILLINOIS
– Cosí ho deciso di chiedere aiuto. E ho dovuto ammettere che il vero problema non aveva niente a che fare con lei. Ho capito che sarebbe andata avanti in eterno con lei a fare la vittima e io il cattivo. Non sono stato capace di cambiarla. Sai, il problema non andava preso da quel verso. Cosí mi sono deciso. A chiedere aiuto per me. Ora so che è la cosa migliore che abbia mai fatto, e la piú dura. Non è stato facile, ma ora ho molta piú autostima. Ho interrotto la spirale della vergogna. Ho imparato a perdonare. E ora mi piaccio.
D.
– A chi?
Ancora un altro esempio della porosità di certi confini (XI)
Come in tutti gli altri sogni, sono con qualcuno che conosco ma non so come faccio a conoscerlo, e all’improvviso questa persona mi fa notare che sono cieco. Cioè letteralmente cieco, privo della vista, ecc. Oppure è in presenza di questa persona che mi rendo improvvisamente conto di essere cieco. Quello che succede quando me ne rendo conto è che divento triste. Mi mette una tristezza incredibile essere cieco. Questa persona in qualche modo sa quanto sono triste e mi avvisa che mettermi a piangere in qualche modo mi farebbe male agli occhi rendendomi ancora piú cieco, ma non posso farne a meno. Mi siedo e comincio a piangere davvero forte. Mi sveglio nel letto piangendo, e piango cosí forte che non vedo niente per davvero e non ci capisco niente di niente. Questo mi fa piangere ancora piú forte. La mia ragazza è preoccupata e si sveglia e mi chiede che c’è, e ci vuole un minuto buono per schiarirmi le idee tanto da rendermi conto che sognavo e sono sveglio e non sono cieco per davvero e che sto piangendo senza motivo, e poi raccontare alla mia ragazza del sogno e sentire la sua opinione. Poi per tutto il giorno al lavoro sono incredibilmente consapevole della mia vista e dei miei occhi e di quant’è bello poter vedere i colori e le facce delle persone e sapere esattamente dove sono, e di quant’è fragile tutto quanto, il meccanismo dell’occhio umano e la facoltà della vista, di quanto sia facile perderla, di come in giro vedo sempre ciechi col bastone e una strana espressione sulla faccia pensando sempre che è interessante starli a guardare un paio di secondi senza mai pensare che abbiano qualcosa a che spartire con me o i miei occhi, e di come è davvero proprio solo una coincidenza incredibilmente fortunata che io ci vedo e non sono invece uno di quei ciechi che incontro in metropolitana. E per tutto il giorno al lavoro appena queste cose mi tornano in mente ricomincio a cedere, pronto a rimettermi a piangere, e se mi trattengo è solo perché le pareti divisorie dei cubicoli sono basse e chiunque mi potrebbe vedere e preoccuparsi, e dopo il sogno va avanti cosí tutto il giorno, ed è stancante da morire, prosciugamento emotivo direbbe la mia ragazza, e firmo per uscire prima e me ne vado a casa e sono cosí stanco e assonnato che non riesco quasi a tenere gli occhi aperti, e quando arrivo a casa me ne vado dritto a rannicchiarmi a letto a una cosa come le 4 del pomeriggio e si può dire che svengo.
La persona depressa
La persona depressa viveva un terribile e incessante dolore emotivo, e l’impossibilità di esternare o tradurre in parole quel dolore era già una componente del dolore e un fattore che contribuiva al suo orrore di fondo.
Disperando, dunque, di descrivere il dolore emotivo o di esprimerne l’assolutezza a chi la circondava, la persona depressa descriveva invece circostanze, passate e attuali, legate in qualche modo al dolore, alla sua eziologia e causa, sperando se non altro di riuscire a esprimere agli altri qualcosa del contesto di quel dolore, la sua – per cosí dire – forma e struttura. I genitori della persona depressa, per esempio, che avevano divorziato quando lei era piccola, l’avevano usata come una pedina nei loro giochi morbosi. Da piccola, la persona depressa aveva necessitato di cure odontoiatriche, e ciascun genitore aveva preteso – a buon diritto, date le ambiguità medicee legali della normativa sul divorzio, aggiungeva sempre la persona depressa descrivendo la dolorosa battaglia fra i genitori riguardo alle spese per le sue cure odontoiatriche – che fosse l’altro a pagare. E la rabbia velenosa di ciascun genitore per il meschino, egoistico rifiuto dell’altro a pagare ricadeva sulla figlia, costretta a sentire e risentire da ciascun genitore quanto l’altro fosse egoista e incapace di amare. Tutti e due i genitori erano benestanti e ciascuno, a tu per tu con la persona depressa, aveva detto che, naturalmente, al momento di sborsare per tutte le cure odontoiatriche di cui la persona depressa necessitava non si sarebbe tirato indietro aggiungendo che era, fondamentalmente, una questione non di soldi o di dentatura ma di «principio». E la persona depressa si premurava sempre, cercando da adulta di descrivere a un’amica fidata le circostanze della battaglia relativa ai costi delle cure odontoiatriche e il dolore emotivo che quella battaglia le aveva lasciato in eredità, di concedere che poteva darsi benissimo che agli occhi di ciascun genitore si trattasse davvero di quello (cioè di una questione di «principio»), anche se purtroppo quel «principio» non teneva in nessun conto le esigenze o i sentimenti della figlia nel ricevere il messaggio emotivo che per i genitori quel meschino avere la meglio sull’altro era piú importante della sua salute maxillofacciale e dunque rappresentava, visto da una certa angolazione, una forma di trascuratezza o di abbandono per non dire di maltrattamento bell’e buono, un maltrattamento chiaramente legato – qui la persona depressa aggiungeva quasi sempre che la sua terapeuta concordava su questo giudizio – alla cronica disperazione senza fondo che lei da adulta sopportava ogni giorno e nella quale si sentiva intrappolata senza scampo. Questo non era che uno degli esempi. La persona depressa inseriva mediamente quattro richieste di scuse ogni volta che raccontava al telefono alle amiche di sostegno questo tipo di dolorose e lesive circostanze del passato, nonché una sorta di preambolo dove cercava di descrivere quanto fosse doloroso e spaventevole non sentirsi capace di tradurre in parole neanche il dolore straziante della depressione cronica e dover invece ricorrere al racconto di esempi che potevano risultare, si premurava sempre di ammettere, tediosi o autocommiserativi o farla sembrare una di quelle persone con l’ossessione narcisistica per la propria «infanzia dolorosa» e «vita dolorosa» che sguazzano nelle proprie miserie e insistono a propinarle tirandola noiosamente per le lunghe ad amiche che cercano di dimostrare sostegno e incoraggiamento, e le annoiano e le disgustano.
Le amiche che la persona depressa contattava per ricevere sostegno e cercare di aprirsi e esternare se non altro la forma contestuale dell’incessante agonia fisica e dei sentimenti di isolamento si aggiravano sulla mezza dozzina e subivano alterne rotazioni. La terapeuta della persona depressa – che aveva sia una specializzazione sia una laurea in medicina e dichiarava di essere l’esponente di una scuola terapeutica che sottolineava l’importanza nel viaggio dell’adulto affetto da depressione endogena verso la guarigione di coltivare regolarmente i rapporti con una comunità di sostegno formata da persone affini – definiva queste amiche il Sistema di Sostegno della persona depressa. La mezza dozzina circa di membri a rotazione di questo Sistema di Sostegno in linea di massima erano o conoscenze che risalivano all’infanzia della persona depressa o ragazze con le quali aveva condiviso la stanza nelle varie fasi della sua carriera scolastica, donne incoraggianti e relativamente indenni che ora vivevano nelle città piú disparate e che per lo piú la persona depressa non vedeva da anni, e che per lo piú chiamava la sera tardi, in interurbana, in cerca di esternazione e sostegno e di una manciata di parole ben calibrate che l’aiutassero a inquadrare in una prospettiva realistica la disperazione della giornata e a trovare un punto di equilibrio e a raccogliere le forze per affrontare l’angoscia emotiva del giorno dopo, e con le quali, quando telefonava, la persona depressa per prima cosa si scusava di dare il tormento o di apparire noiosa o autocommiserativa o disgustosa o di distoglierle dalla loro vita interurbana attiva, vibrante e largamente indolore.
La persona depressa si faceva anche un dovere, quando contattava i membri del suo Sistema di Sostegno, di non riferirsi mai a circostanze tipo la battaglia infinita dei genitori per le sue cure odontoiatriche come alla causa della sua ininterrotta depressione da adulta. Il «Gioco delle Colpe» era troppo facile, diceva; era patetico e spregevole; e poi, di «Gioco delle Colpe» ne aveva avuto fin sopra i capelli, le era bastato sentire quegli stronzi dei genitori per tutti quegli anni, le colpe e le recriminazioni senza fine che i due si erano scambiati per lei, attraverso lei, usando i sentimenti e le esigenze della persona depressa (cioè della persona depressa da piccola) come munizioni, come se i sentimenti e le esigenze che per lei avevano un valore non fossero altro che un campo di battaglia o un teatro del conflitto, armi che i genitori ritenevano di poter schierare l’uno contro l’altro. Avevano manifestato molto piú interesse e passione e disponibilità emotiva nell’odio reciproco di quanto ciascuno ne avesse mostrato nei confronti della persona depressa, da piccola, come lei stessa, la persona depressa, confessava ancora di sentire, qualche volta.
La terapeuta della persona depressa, la cui scuola terapeutica rifiutava il transfert come risorsa terapeutica e dunque rifuggiva deliberatamente da confronti e dichiarazioni ipotetiche e da qualunque teoria basata sull’«autorità» giudicante, normativa, in favore di un modello bioesperienziale piú neutrale e dell’uso creativo dell’analogia e della narrativa (compreso, senza per questo essere imperativo, l’uso di burattini, materiale scenico e giocattoli di polistirolo, gioco delle parti, scultura umana, rispecchiamento, psicodramma, e, nei casi appropriati, intere Ricostruzioni dell’Infanzia meticolosamente sceneggiate e illustrate) aveva impiegato i seguenti farmaci nel tentativo di aiutare la persona depressa a trovare un po’ di sollievo dall’acuto disagio affettivo e per proseguire nel suo (cioè della persona depressa) viaggio verso una parvenza di vita adulta normale: Paxil, Zoloft, Prozac, Tofranil, Welbutrin, Elavil, Metrazol combinati con una terapia elettroconvulsiva unilaterale (durante un corso di trattamento volontario bisettimanale riservato ai degenti di una clinica regionale per Squilibri della Personalità), Parnate con e senza sali di litio, Nardil con e senza Xanax. Nessuno aveva procurato un qualche sollievo significativo dal dolore e dalle sensazioni di isolamento emotivo che rendevano ogni ora di veglia della persona depressa un indescrivibile inferno in terra, e molti degli stessi farmaci avevano avuto effetti collaterali che la persona depressa aveva trovato intollerabili. Al momento la persona depressa prendeva solo dosi quotidiane minime di Prozac, per le difficoltà a concentrarsi, e di Ativan, un leggero tranquillante che non dà assuefazione, per gli attacchi di panico che rendevano le ore trascorse in quel luogo tossicamente disfunzionale e privo di sostegno dove lavorava un vero inferno in terra. La terapeuta esternava gentilmente ma insistentemente alla persona depressa la sua (cioè della terapeuta) convinzione che la migliore medicina in assoluto per la sua (cioè della persona depressa) depressione endogena fosse coltivare regolarmente i rapporti con un Sistema di Sostegno che la persona depressa sentiva di poter contattare per esternare contando su un interesse e un sostegno incondizionati. L’esatta composizione di questo Sistema di Sostegno e i due o tre membri «centrali» piú speciali, piú fidati, col passare del tempo subirono un certo numero di cambiamenti e di rotazioni, che la terapeuta aveva incoraggiato la persona depressa a considerare come perfettamente normali e positivi, perché era solo assumendosi i rischi e esponendosi alle vulnerabilità necessarie ad approfondire i rapporti di sostegno che un individuo era in grado di scoprire quali amicizie potevano far fronte a quali esigenze e a che livello.
La persona depressa sentiva di potersi fidare della terapeuta e fece uno sforzo concordato per essere il piú possibile completamente aperta e onesta con lei. Ammise con la terapeuta di essere sempre estremamente cauta nell’esternare a chiunque chiamasse in interurbana di notte la sua (cioè della persona depressa) convinzione che fosse lagnoso e patetico attribuire il suo costante, indescrivibile dolore di adulta al divorzio traumatico dei genitori o all’uso cinico che questi avevano fatto di lei mentre ciascuno fingeva ipocritamente di tenere a lei piú dell’altro. I suoi genitori, in fondo – come la terapeuta aveva aiutato la persona depressa a capire – avevano fatto del loro meglio date le risorse emotive di cui disponevano all’epoca. E poi, in fondo, aggiungeva sempre la persona depressa, con una debole risata, alla fine le cure odontoiatriche che le servivano le aveva avute. Le ex amiche e compagne di stanza che costituivano il Sistema di Sostegno spesso esprimevano alla persona depressa il desiderio che fosse un po’ meno dura con se stessa, al che la persona depressa spesso reagiva scoppiando involontariamente a piangere e dicendo che lo sapeva benissimo di essere la classica conoscente sgradevole che è un po’ lo spauracchio di tutti perché è il tipo che ti chiama alle ore piú impensate e attacca a parlare di sé e spesso ci vogliono vari tentativi maldestri prima di riuscire a riagganciare. La persona depressa diceva di essere spaventosamente consapevole di rappresentare un triste fardello per le amiche, e durante le chiamate interurbane si faceva sempre un dovere di esprimere l’immensa gratitudine che provava per il fatto di avere un’amica da chiamare per esternare e ricevere sostegno e incoraggiamento, per quanto brevemente, prima che le esigenze della vita piena, gioiosa, attiva dell’amica in questione avessero comprensibilmente la precedenza e richiedessero che lei (cioè l’amica) riagganciasse.
Le strazianti sensazioni di vergogna e inadeguatezza che la persona depressa viveva chiamando in interurbana i membri sostenitori del Sistema di Sostegno a tarda notte e scaricandogli addosso i suoi goffi tentativi di tradurre in parole almeno il contesto globale della sua angoscia emotiva erano un problema sul quale la persona depressa e la terapeuta lavoravano moltissimo nel tempo che trascorrevano insieme. La persona depressa confessava che ogni volta che l’amica comprensiva con la quale si trovava a esternare alla fine confessava che lei (cioè l’amica) era terribilmente desolata ma non c’era modo di evitarlo doveva assolutamente riattaccare e alla fine si staccava le dita bisognose della persona depressa dal risvolto dei pantaloni e riagganciava per tornare alla sua vita interurbana piena e vibrante, la persona depressa se ne restava quasi sempre seduta ad ascoltare il vuoto ronzio d’ape della linea libera sentendosi ancora piú isolata e inadeguata e spregevole di quanto non si sentisse prima di telefonare. Queste sensazioni di tossica vergogna nel contattare gli altri in cerca di sostegno e comunione erano problemi con i quali la terapeuta incoraggiava la persona depressa a stabilire un contatto e a esplorarli in modo da poterli poi esaminare nei particolari. La persona depressa ammetteva con la terapeuta che quando lei (cioè la persona depressa) faceva un’interurbana a un membro del Sistema di Sostegno quasi sempre si figurava la faccia dell’amica, al telefono, che assumeva un’espressione che era un misto di noia e pietà e repulsione e colpa astratta e quasi sempre lei (cioè la persona depressa) credeva di avvertire, nei silenzi sempre piú lunghi dell’amica e/o nella tediosa ripetizione delle solite frasi d’incoraggiamento, la noia e la frustrazione che la gente sente sempre quando qualcuno gli si appiccica addosso come un peso. Confessava che ogni volta immaginava perfettamente l’amica in questione sobbalzare sentendo squillare il telefono a tarda ora, o durante la conversazione guardare impaziente l’orologio o rivolgere agli altri nella stanza con lei (cioè gli altri nella stanza con l’«amica») i gesti silenziosi e le smorfie disperate di chi è in trappola, gesti e espressioni impercettibili che si facevano sempre piú estremi e disperati man mano che la persona depressa andava avanti all’infinito. Il tic o l’abitudine personale piú evidente della terapeuta della persona depressa consisteva nell’unire la punta delle dita sul grembo mentre ascoltava attentamente la persona depressa e nel manovrare pigramente le dita in modo da formare con le mani accoppiate varie forme chiuse – per esempio cubo, sfera, piramide, cilindro dritto – con l’aria poi di studiarle o contemplarle. Alla persona depressa quell’abitudine non piaceva, anche se si affrettava a ammettere che era soprattutto perché attirava la sua attenzione sulle dita e le unghie della terapeuta e la portava a confrontarle con le proprie.
La persona depressa aveva esternato sia alla terapeuta sia al Sistema di Sostegno il ricordo, fin troppo chiaro, al terzo anno di collegio, di una volta che aveva visto una compagna di stanza parlare al telefono della loro stanza con un ragazzo sconosciuto e lei (cioè la compagna di stanza) faceva delle facce e dei gesti di disgusto durante la telefonata, e questa compagna di stanza sicura di sé, popolare e attraente alla fine aveva fatto rivolgendosi alla persona depressa la pantomima esagerata di qualcuno che bussa alla porta, continuando la pantomima con espressione disperata finché la persona depressa non aveva capito che doveva aprire la porta della stanza uscire e bussare rumorosamente alla porta aperta cosí da fornire alla compagna di stanza una scusa per riagganciare. Nel periodo scolastico la persona depressa non aveva mai fatto parola dell’episodio della telefonata di quel ragazzo o della pantomima menzognera di quella particolare compagna di stanza – una compagna di stanza con la quale la persona depressa non aveva mai minimamente legato o fatto amicizia e verso la quale aveva provato un risentimento amaro, servile, tale da far sí che la persona depressa disprezzasse se stessa, e dopo che quell’interminabile secondo semestre del secondo anno era finito non aveva fatto il minimo tentativo di mantenere i contatti – ma lei (cioè la persona depressa) aveva esternato il ricordo angoscioso dell’episodio a molte amiche del Sistema di Sostegno, e aveva esternato come si sarebbe sentita incommensurabilmente orribile e patetica se fosse stata al posto dello sconosciuto ragazzo senza nome all’altro capo del filo, un ragazzo che cercava in buona fede di assumersi un rischio emotivo e contattare e cercare di stabilire un legame con la compagna di stanza sicura di sé, inconsapevole di essere un peso non gradito, pateticamente inconsapevole della silenziosa pantomima di noia e disgusto all’altro capo del filo, e come la persona depressa avesse in orrore forse piú di qualsiasi altra cosa il fatto di trovarsi nella posizione di essere l’altra presenza nella stanza alla quale devi fare riferimento per aiutarti a escogitare una scusa per riagganciare. Di conseguenza la persona depressa implorava sempre l’amica al telefono di dirle all’istante se lei (cioè l’amica) cominciava a sentirsi annoiata o frustrata o disgustata o se pensava di avere cose piú urgenti o interessanti da fare, di essere per l’amor di Dio completamente franca e diretta e di non stare al telefono con la persona depressa un solo istante in piú di quello che lei (cioè l’amica) era assolutamente lieta di trascorrere. La persona depressa sapeva benissimo, naturalmente, assicurava alla terapeuta, quanto un simile bisogno di rassicurazione potesse risultare patetico agli occhi degli altri, come con tutta probabilità venisse preso non come un invito dichiarato a riattaccare ma di fatto come una supplica bisognosa, autocommiserativa, spregevolmente manipolatoria affinché l’amica non riagganciasse, non riagganciasse mai. La terapeuta 1 si faceva scrupolo, ogni volta che la persona depressa esternava la preoccupazione per come certe dichiarazioni o gesti potessero «sembrare» o «apparire», di dare sostegno alla persona depressa nell’indagare come la facevano sentire tali convinzioni su come lei «sembrava» o «risultava» agli occhi degli altri.
Era umiliante; la persona depressa si sentiva umiliata. Diceva che era umiliante fare un’interurbana a tarda ora a un’amica d’infanzia che chiaramente aveva altro da fare e una vita da condurre e un rapporto di coppia vibrante, sano, intimo, coinvolgente; era umiliante e patetico stare sempre a scusarti perché secchi qualcuno o sentire che devi profonderti in ringraziamenti per il semplice fatto che una ti è amica. I genitori della persona depressa avevano finito col dividere le spese per le sue cure odontoiatriche; alla fine i loro avvocati avevano nominato un arbitro per definire il compromesso. L’arbitraggio si era reso necessario anche per negoziare un programma di divisione delle spese per il collegio e i campeggi estivi con corsi di Sana Alimentazione e le lezioni di oboe e la macchina e l’assicurazione sui sinistri per la persona depressa, nonché un intervento di chirurgia estetica per correggere una malformazione alla gobba anteriore e alla cartilagine alare del naso della persona depressa che le aveva fatto venire una straziante proboscide rincagnata e che, insieme all’ancoraggio odontoiatrico esterno che doveva portare ventidue su ventiquattro, facevano sí che quando si guardava negli specchi delle varie stanze di collegio quelli le restituivano un’immagine che chiunque avrebbe trovato ributtante. E come se non bastasse, l’anno che il padre della persona depressa si era risposato, lui – o in un raro slancio di affetto incondizionato o per un coup de grâce che stando alla madre della persona depressa era inteso a rendere il suo senso di umiliazione e inutilità totale – aveva pagato in toto per le lezioni di equitazione, i pantaloni da cavallerizza, e un paio di stivali dal costo esorbitante indispensabili affinché il penultimo anno di collegio la persona depressa venisse ammessa al Circolo di Equitazione, che fra i suoi membri annoverava l’unico esiguo gruppetto di ragazze del collegio dalle quali la persona depressa si era sentita, come una sera davvero orribile a tarda ora aveva confessato in lacrime al padre al telefono, anche solo lontanamente accettata e che erano dotate di un minimo di simpatia e compassione e insieme a loro la persona depressa non si era sentita soltanto una nasona dalla faccia imbracata fuori luogo e rifiutata al punto da farle sentire come un gesto quotidiano di enorme coraggio anche il solo fatto di uscire dalla stanza per andare a mangiare in refettorio.
L’arbitro sul quale gli avvocati dei suoi genitori si erano finalmente accordati per farsi aiutare a definire i compromessi relativi ai costi per far fronte alle esigenze dell’infanzia della persona depressa era uno stimatissimo Specialista nell’Appianamento di Conflitti, tale Walter D. («Walt») DeLasandro Jr. Da piccola, la persona depressa non aveva mai conosciuto e nemmeno intravisto Walter D. («Walt») DeLasandro Jr., anche se le avevano mostrato il suo biglietto da visita – con tanto di invito tra parentesi all’informalità – e nel corso dell’infanzia le era capitato di sentire invocare quel nome un’infinità di volte, unito al fatto che per i suoi servizi fatturava la bellezza di 130 dollari all’ora piú le spese. Nonostante gli schiaccianti sentimenti di riluttanza da parte della persona depressa – che sapeva benissimo quanto risultasse simile al «Gioco delle Colpe» – la terapeuta l’aveva fortemente sostenuta ad assumersi il rischio di esternare ai membri del Sistema di Sostegno un’importante conquista emotiva che lei (cioè la persona depressa) aveva ottenuto durante un Weekend di Ritiro per una Terapia Esperienziale Incentrata sul Bambino che c’è in Te dove la terapeuta l’aveva sostenuta ad assumersi il rischio di iscriversi e concedersi senza preconcetti a quell’esperienza. Nella Sala di Psicodramma per Piccoli Gruppi durante il Weekend di Ritiro per una T.E.I.B.T., gli altri membri del suo piccolo gruppo avevano interpretato il ruolo dei genitori della persona depressa e di altre persone significative per i genitori compresi gli avvocati e miriadi di altre figure emotivamente tossiche legate all’infanzia della persona depressa e, nella fase cruciale dell’esercizio di psicodramma, avevano lentamente circondato la persona depressa, stringendosi e accalcandosi sempre piú intorno a lei e impedendole di scappare o evitarlo o minimizzare, e aveva (cioè il piccolo gruppo aveva) recitato delle battute pre-scritte tese a evocare e risvegliare il trauma bloccato, che quasi immediatamente aveva travolto la persona depressa in un’ondata di angosciosi ricordi emotivi e in un trauma sepolto da tempo col risultato di fare emergere il Bambino che c’era dentro la persona depressa e di scatenare una furia catartica che aveva spinto la persona depressa a colpire ripetutamente una pila di cuscini di velours con una mazza di schiuma di polistirolo urlando oscenità e rivivendo le ferite emotive in putrefazione e soffocate da tempo, una delle quali 2 consisteva in una profonda rabbia residuale per il fatto che Walter D. («Walt») DeLasandro Jr. era stato capace di fatturare ai suoi genitori 130 dollari all’ora piú le spese per farsi mettere al centro a intrepretare il ruolo del mediatore e assorbire la merda da tutt’e due le parti mentre lei (cioè la persona depressa, da piccola) aveva dovuto prestare in buona sostanza gli stessi servizi coprofagici piú o meno quotidianamente gratis, per niente, e non solo era di una volgarità ingiusta e inopportuna far sentire una bambina emotivamente sensibile obbligata a prestare certi servizi ma per giunta i genitori gliel’avevano rivoltato contro cercando di far sentire lei, la persona depressa stessa, da piccola, in colpa per il costo esorbitante dei servizi di Walter D. DeLasandro Jr., lo Specialista nell’Appianamento dei Conflitti, come se le zuffe e le spese reiterate di Walter D. DeLasandro Jr. fossero colpa sua e loro se le fossero assunte solo nel suo viziato nasuto dentuto interesse invece che semplicemente per quella cazzo di incapacità completamente morbosa dei suoi cazzo di genitori a comunicare e esternare onestamente e risolvere i loro morbosi problemi disfunzionali tra loro. Quell’esercizio e la rabbia catartica avevano permesso alla persona depressa di entrare in contatto con alcuni problemi di risentimento davvero nodali, aveva detto il Facilitatore del Piccolo-Gruppo al Weekend di Ritiro per una Terapia Esperienziale Incentrata sul Bambino che c’è in Te, e avrebbero potuto rappresentare una svolta decisiva nel viaggio della persona depressa verso la guarigione, se la rabbia e la scazzottata ai cuscini di velours non avessero lasciato la persona depressa cosí emotivamente annientata e prosciugata e traumatizzata e imbarazzata da sentire che la sua unica scelta era di saltare su un aereo e tornarsene a casa quella sera stessa perdendosi il resto del Weekend T.E.I.B.T e l’Esame da parte del Piccolo-Gruppo di tutti i sentimenti e i problemi riesumati.
Il compromesso che la persona depressa e la terapeuta avevano infine raggiunto insieme esaminando i risentimenti dissepolti e il conseguente senso di colpa e vergogna per quello che poteva con fin troppa facilità apparire come un rinnovato «Gioco delle Colpe» autocommiserativo riservato all’esperienza che la persona depressa aveva fatto al Weekend di Ritiro era che la persona depressa si sarebbe assunta sí il rischio emotivo di contattare il Sistema di Sostegno per esternare i sentimenti di quell’esperienza e le relative scoperte, ma solo con l’élite di due o tre membri «centrali» che in quel momento la persona depressa riteneva mettessero a sua disposizione il sostegno piú partecipe e spassionato. Il provvedimento piú importante del compromesso era che la persona depressa aveva il permesso di rivelare la propria riluttanza a esternare questi risentimenti e scoperte e a informarle che era consapevole di quanto patetici e riprovevoli questi (cioè i risentimenti e le scoperte) potessero risultare, e di rivelare che stava esternando a loro quella «conquista» potenzialmente patetica solo su esplicito consiglio della terapeuta. Nel dare la sua approvazione a tale provvedimento, la terapeuta si era opposta solo al fatto che la persona depressa intendeva usare la parola «patetica» nella sua esternazione al Sistema di Sostegno; la terapeuta si dichiarava molto piú ben disposta a sostenere l’uso da parte della persona depressa della parola «vulnerabile» che non a sostenere l’uso della parola «patetica», perché le sue viscere (cioè le viscere della terapeuta) le dicevano che l’intenzione della persona depressa di usare «patetica» non denotava solo odio verso se stessa ma anche bisogno e una certa manipolazione. La parola «patetica», esternò candidamente la terapeuta, a lei spesso faceva l’effetto di un meccanismo autodifensivo che la persona depressa usava per proteggersi dai possibili giudizi negativi di un’ascoltatrice e rivelava chiaramente che la persona depressa si giudicava già molto piú severamente di quanto una qualsiasi ascoltatrice avesse il coraggio di fare. La terapeuta aveva l’accortezza di fare presente che non voleva giudicare o criticare o rifiutare l’uso di «patetica» da parte della persona depressa ma cercava semplicemente di esternare apertamente e onestamente i sentimenti che il suo uso secondo lei faceva emergere nel contesto del loro rapporto. La terapeuta, alla quale in quella fase restava meno di un anno di vita, a quel punto aveva fatto una breve interruzione per esternare ancora una volta alla persona depressa la sua (cioè della terapeuta) convinzione che odio verso se stessi, colpa tossica, narcisismo, autocommiserazione, bisogno, manipolazione, e molti altri comportamenti basati sulla vergogna che presentano tipicamente gli adulti endogenamente depressi andavano meglio interpretati come difese psicologiche erette da un residuale Bambino ferito che c’è in Te contro la possibilità di trauma e abbandono. Tali comportamenti, in altre parole, erano primitive profilassi emotive la cui vera funzione era di precludere l’intimità; erano corazze psichiche per mantenere gli altri a distanza in modo che loro (cioè gli altri) non si avvicinassero emotivamente alla persona depressa tanto da infliggerle ferite che potevano fare da eco e specchio alle profonde ferite residuali risalenti all’infanzia della persona depressa, ferite che la persona depressa era inconsciamente decisa a tenere a tutti i costi represse. La terapeuta – che durante i mesi freddi dell’anno, quando l’abbondante fenestrazione della sua casa ufficio rendeva la stanza gelata, indossava un mantello foderato di pelle di daino da pellerossa conciato a mano che costituiva un agghiacciante sfondo umidiccio color carne alle sagome racchiuse formate dalle sue mani unite in grembo mentre parlava – assicurava alla persona depressa che non voleva farle la paternale o imporre su di lei (cioè sulla persona depressa) il particolare modello di eziologia depressiva della terapeuta. No, era solo che a livello intuitivo «di viscere» in quella particolare fase alla terapeuta sembrava appropriato esternare alcune delle proprie sensazioni. Anzi, come la terapeuta poteva permettersi di postulare in quella fase del rapporto terapeutico, gli squilibri della personalità acuti e cronici della persona depressa andavano in realtà visti come un meccanismo autodifensivo: cioè, finché la persona depressa aveva il disagio affettivo acuto della depressione a preoccuparla e ad assorbire la sua attenzione emotiva, poteva evitare di sentire o di stabilire un contatto con le profonde ferite residuali infantili che lei (cioè la persona depressa) sembrava ancora determinata a tenere represse. 3
Diversi mesi dopo, quando la terapeuta della persona depressa morí improvvisamente e inaspettatamente – a seguito di quella che le autorità avevano definito una combinazione tossica «accidentale» di caffeina e anoressizzanti omeopatici ma che, data l’ampia esperienza in campo medico della terapeuta e la sua conoscenza delle interazioni chimiche, bisognava avere un bel paraocchi per non vedere come, a un certo livello, intenzionale – senza lasciare uno straccio di biglietto o di registrazione o di ultime parole di incoraggiamento a nessuna delle persone e/o pazienti della sua vita che, al di là di paura debilitante e isolamento e meccanismi di difesa e ferite residuali da traumi passati, erano arrivate a stabilire un legame intimo con lei e l’avevano coinvolta emotivamente anche se questo significava rendersi vulnerabili alla possibilità di traumi da perdita o abbandono, per la persona depressa il trauma di quella recente perdita e abbandono era stato cosí distruttivo, l’angoscia e lo sconforto e la disperazione che ne erano seguiti cosí insopportabili, che ora si vedeva costretta, ironicamente, a contattare freneticamente e ripetutamente ogni sera il Sistema di Sostegno, a volte chiamando tre se non addirittura quattro amiche interurbane a serata, a volte chiamando la stessa amica due volte in una sera, a volte tardissimo, a volte addirittura, la persona depressa ne era dolorosamente sicura, svegliandole o interrompendole nel bel mezzo di una sana, gioiosa intimità sessuale con il compagno. In altre parole, era pura sopravvivenza, sulla turbolenta scia dei sentimenti di shock e dolore e perdita e abbandono e amaro tradimento seguiti alla morte improvvisa della terapeuta, quella che ora costringeva la persona depressa a mettere da parte i suoi sentimenti innati di vergogna e inadeguatezza e imbarazzo per il fatto di essere un peso patetico e di appoggiarsi con quanta forza aveva alla comprensione e all’incoraggiamento emotivo del Sistema di Sostegno, anche se questo era stato, ironicamente, uno dei due terreni che avevano visto la persona depressa opporsi piú strenuamente al parere della terapeuta.
Oltre ai devastanti problemi di abbandono che aveva comportato, la morte inaspettata della terapeuta non poteva arrivare in un momento peggiore dalla prospettiva del viaggio della persona depressa verso la guarigione interiore, visto che quella (cioè la morte sospetta) si era verificata proprio mentre la persona depressa cominciava a superare e esaminare alcuni suoi problemi nodali di vergogna e risentimento relativi al processo terapeutico stesso e all’impatto che l’intimo rapporto terapeuta-paziente aveva sulla pena e sull’isolamento insopportabili di lei (cioè della persona depressa). Come parte dell’elaborazione del dolore, la persona depressa aveva esternato ai membri sostenitori del Sistema di Sostegno il fatto che si era resa conto di aver vissuto un trauma, un’angoscia e sentimenti di isolamento significativi perfino nel rapporto terapeutico stesso, e a questo proposito disse che lei e la terapeuta avevano lavorato intensamente insieme al fine di esplorarli e esaminarli. Tanto per fare un esempio, esternò la persona depressa in interurbana, aveva scoperto e lottato in terapia per superare la sensazione che fosse ironico e umiliante, vista la preoccupazione disfunzionale dei suoi genitori per i soldi e tutto quanto quella preoccupazione le era costata da piccola, che lei ora, da adulta, si ritrovasse nella posizione di dover pagare una terapeuta 90 dollari all’ora perché l’ascoltasse pazientemente e rispondesse con onestà e partecipazione: cioè, era umiliante e patetico sentirsi costretti a comprare pazienza e partecipazione, aveva confessato la persona depressa alla terapeuta, ed era un’eco angosciosa dello stesso identico dolore infantile che lei (cioè la persona depressa) era cosí ansiosa di lasciarsi alle spalle. La terapeuta – dopo essersi sorbita con grande attenzione e senza giudicare quello che la persona depressa in seguito ammise con il Sistema di Sostegno poteva benissimo essere interpretato come un pidocchioso piagnisteo sulle spese della terapia, e dopo una pausa lunga e meditata durante la quale sia la terapeuta sia la persona depressa avevano fissato la gabbia ovoidale che in quel momento formavano le mani accoppiate sul grembo della terapeuta 4 – aveva risposto che, se a un livello puramente intellettuale o «di testa» si permetteva rispettosamente di dissentire con la sostanza o il «contenuto verbale» di quanto la persona depressa stava dicendo, lei (cioè la terapeuta) sosteneva comunque sinceramente la persona depressa a esternare qualsiasi sensazione il rapporto terapeutico facesse emergere in lei (cioè nella persona depressa) 5 in modo che potessero lavorare insieme a esaminarla e a esplorare ambienti e contesti sicuri e appropriati per la sua espressione.
I ricordi della persona depressa riguardo alle reazioni pazienti, sollecite, spassionate della terapeuta perfino alle sue (cioè della persona depressa) lamentele piú maligne e infantilmente bloccate davano come la sensazione di provocare altre, perfino piú insopportabili sensazioni di perdita e abbandono, come pure nuove ondate di risentimento e autocommiserazione che, come la persona depressa sapeva fin troppo bene, erano ripugnanti al massimo grado, assicurò alle amiche che costituivano il suo Sistema di Sostegno, amiche fidate che a quel punto la persona depressa chiamava quasi ininterrottamente, a volte perfino di giorno, dal posto di lavoro della persona depressa, componendo il numero interurbano lavorativo delle amiche piú intime alle quali chiedeva di sottrarre del tempo alle loro impegnative, stimolanti carriere per ascoltare con sostegno e esternare e dialogare e aiutare la persona depressa a trovare un modo di elaborare quel dolore e quella perdita e a trovare un modo di sopravvivere. Le scuse per il fatto di assillare queste amiche di giorno sul posto di lavoro erano complicate, contorte, chiassose, arzigogolate, spietatamente autocritiche, e pressoché invariabili, al pari delle espressioni di gratitudine al Sistema di Sostegno per il fatto di Esserci per lei, per consentirle di ricominciare a essere capace di fidarsi e assumersi il rischio di contattarle, anche solo per poco, perché la persona depressa esternava di sentirsi come se stesse riscoprendo da capo, e con devastante nuova chiarezza ora sulla scia del brusco abbandono senza parole della terapeuta, esternava dal telefono in cuffia della sua postazione lavorativa, quanto fosse angosciosamente esiguo il numero di persone con le quali poteva sperare di comunicare davvero e esternare e costruire sani, aperti, fiduciosi, rapporti di reciproco incoraggiamento sui quali fare affidamento. Il suo ambiente di lavoro, per esempio – e la persona depressa ammetteva subito di essersi noiosamente dilungata in lamentele al riguardo già parecchie volte – era completamente disfunzionale e tossico, e l’atmosfera emotiva completamente priva di sostegno invalsa rendeva l’idea di cercare un legame di reciproco incoraggiamento di qualche tipo con un collega una ridicola beffa. E i tentativi della persona depressa di contattare gli altri nel suo isolamento emotivo cercando di coltivare e sviluppare amicizie e rapporti affettuosi nella comunità attraverso gruppi religiosi o classi olistiche nutrizionali e di stretching o ensemble di strumenti a fiato e roba del genere si erano rivelati talmente strazianti, esternò, che aveva scongiurato la terapeuta di ritirare la gentile proposta che la persona depressa facesse del suo meglio per riuscirci. Quanto poi all’idea di prendere ancora una volta il coraggio a due mani e avventurarsi nel mercato della carne emotivamente hobbesiano del «fatidico appuntamento» cercando ancora una volta di scovare e stabilire un qualsiasi rapporto sano, affettuoso, funzionale con gli uomini, che fosse una relazione fisicamente intima o anche solo una solida amicizia di sostegno – a quel punto dell’esternazione la persona depressa fece una vacua risata al telefono in cuffia che metteva davanti al computer dentro il suo cubicolo sul posto di lavoro e chiese se era davvero necessario, con un’amica che la conosceva bene quanto qualsiasi altro membro del Sistema di Sostegno con cui attualmente esternava, indagare sul perché la depressione intrattabile e i gravosissimi problemi di autostima e fiducia della persona depressa rendessero quell’idea un volo paradisiaco di fantasia e negazione icariche. Tanto per fare un esempio, la persona depressa esternò dalla sua postazione lavorativa, nel secondo semestre del terzo anno di università aveva vissuto un episodio traumatico in cui la persona depressa era seduta da sola sull’erba accanto a un gruppo di studenti maschi popolari e molto sicuri di sé al torneo universitario di lacrosse e aveva sentito distintamente uno di loro dire ridendo, di una studentessa che la persona depressa conosceva appena, che l’unica differenza sostanziale tra quella studentessa e un cesso era che il cesso non continua a starti pateticamente attaccato alle costole dopo che l’hai usato. Esternando alle amiche di sostegno, la persona depressa si ritrovò improvvisamente e inaspettatamente sommersa dal ricordo emotivo di una delle prime sedute in cui aveva raccontato l’episodio alla terapeuta: in quella goffa fase iniziale del processo terapeutico stavano lavorando insieme alle sensazioni basilari, e la terapeuta aveva stimolato la persona depressa a capire se l’insulto che le era arrivato all’orecchio aveva fatto sentire lei (cioè la persona depressa) piú che altro arrabbiata, sola, spaventata, o triste 6 6a.
In quella fase dell’elaborazione del lutto per la morte della terapeuta avvenuta forse per sua (cioè della terapeuta) mano, le sensazioni di perdita e abbandono della persona depressa erano diventate cosí intense e schiaccianti e avevano cosí completamente scavalcato tutti i suoi meccanismi residuali di autodifesa che, per esempio, quando una qualche amica interurbana che la persona depressa aveva contattato alla fine confessava che lei (cioè l’«amica») era terribilmente desolata ma non c’era modo di evitarlo doveva assolutamente riattaccare e tornare alle esigenze della sua piena, vibrante vita non depressa, ora un istinto primordiale per quella che non sembrava altro che basilare sopravvivenza emotiva spingeva la persona depressa a ingoiare ogni possibile residuo polverizzato di orgoglio e a implorare senza ritegno altri due o anche solo un altro minuto di tempo e attenzione da parte dell’amica; e se l’«amica partecipe», dopo aver espresso la speranza che la persona depressa trovasse il modo di essere piú gentile e compassionevole verso se stessa, teneva duro e concludeva con garbo la conversazione, ora la persona depressa non restava lí ad ascoltare come una scema il segnale della linea libera o a smangiucchiarsi la cuticola dell’indice o a premersi selvaggiamente il collo della mano sulla fronte o a provare altro che un po’ di pura e semplice disperazione primordiale mentre si affrettava a comporre il numero a dieci cifre che seguiva nel suo Elenco Telefonico del Sistema di Sostegno, elenco che a quel punto dell’elaborazione del lutto era stato fotocopiato varie volte e inserito nella rubrica della persona depressa, nel file TELEFONI IMP. del computer alla sua postazione lavorativa, nel portafoglio, nello scompartimento interno di sicurezza con cerniera del borsellino, nel miniarmadietto al Centro Olistico Nutrizionale e di Stretching, e nella speciale tasca fatta da lei dentro la copertina del Diario delle Sensazioni rilegato in pelle che la persona depressa – su consiglio della defunta terapeuta – portava sempre con sé.
La persona depressa esternò, con ciascun membro disponibile del Sistema di Sostegno a turno, parte del flusso di ricordi sensorialmente emotivi della seduta durante la quale per la prima volta si era aperta raccontando alla defunta terapeuta l’episodio degli uomini sghignazzanti che avevano paragonato la studentessa universitaria a un cesso, e esternò di non essere mai riuscita a dimenticare quell’episodio, e che, anche se non aveva avuto un rapporto o un legame personale con la studentessa che gli studenti avevano paragonato a un cesso e nemmeno la conosceva tanto bene, la persona depressa, al torneo universitario di lacrosse, si sentí riempire di orrore e disperazione partecipe al pathos dell’idea di quella studentessa fatta oggetto di un simile disprezzo derisorio e sghignazzante legato al sesso senza che lei (cioè la studentessa, con la quale la persona depressa ammise nuovamente di aver avuto poco a che fare) nemmeno lo sapesse. Alla persona depressa sembrava molto plausibile che tutto il suo (cioè della persona depressa) sviluppo emotivo successivo nonché la capacità di fidarsi e contattare e legare fossero stati profondamente segnati da quell’episodio: scelse di rendersi aperta e vulnerabile esternando – quantunque solo all’unico e piú fidato e eletto e speciale membro «centrale» del suo Sistema di Sostegno attuale – di avere ammesso con la terapeuta che, anche in quel momento, come adulta putativa, spesso la preoccupava l’idea che gruppi di persone sghignazzanti spesso deridessero e umiliassero lei (cioè la persona depressa) a sua insaputa. La defunta terapeuta, esternò la persona depressa alla confidente interurbana piú intima, aveva indicato il ricordo di quell’episodio traumatico all’università e la conseguente congettura da parte della persona depressa di derisione e ridicolo quale classico esempio di come i residuali meccanismi emotivi di difesa bloccati di un’adulta possano diventare tossici e disfunzionali e possano rendere l’adulta emotivamente isolata e priva di comunione e incoraggiamento, addirittura da parte di se stessa, e possano (cioè le tossiche difese residuali possano) negare all’adulta depressa l’accesso a preziosi strumenti e risorse interiori sia per contattare gli altri in cerca di sostegno sia per essere gentile e compassionevole e positiva verso se stessa, e che dunque, paradossalmente, i meccanismi di difesa bloccati contribuiscono a quello stesso dolore e a quella stessa tristezza per prevenire i quali erano stati originariamente eretti.
Fu esternando quel candido, vulnerabile ricordo vecchio di quattro anni all’unico particolare membro «centrale» del Sistema di Sostegno del quale la persona depressa addolorata sentiva ora di fidarsi piú a fondo e di contarci e di poterci davvero comunicare tramite il telefono in cuffia, che lei (cioè la persona depressa) improvvisamente visse quella che in seguito avrebbe definito un’illuminazione emotiva quasi altrettanto traumatica e preziosa di quella vissuta nove mesi prima al Weekend di Ritiro per una Terapia Esperienziale Incentrata sul Bambino che c’è in Te prima di sentirsi semplicemente troppo catarticamente svuotata e svigorita per continuare e di vedersi costretta a prendere l’aereo e tornarsene a casa. Cioè, la persona depressa disse all’amica interurbana piú fidata e sostenitrice che, paradossalmente, lei (cioè la persona depressa) sembrava aver in qualche modo trovato, al culmine delle sensazioni di perdita e abbandono sulla scia dell’overdose di stimolanti naturali della terapeuta, le risorse e il rispetto interiore per la propria sopravvivenza emotiva necessari perché si sentisse finalmente di rischiare nel tentativo di seguire il secondo dei due consigli piú provocatori e difficili della defunta terapeuta cominciando a chiedere apertamente ad alcune persone provatamente oneste e sostenitrici di dirle chiaro e tondo se in segreto sentivano mai di disprezzarla, deriderla, giudicarla, o rifiutarla. E la persona depressa esternò che ora, finalmente, dopo quattro anni di resistenza piagnucolosa e truculenta, si proponeva di cominciare davvero seriamente a porre a persone fidate quella domanda seminalmente onesta per non dire devastante, ed essendo fin troppo consapevole della propria sostanziale debolezza e delle proprie capacità difensive di negazione e rifiuto lei (cioè la persona depressa) aveva scelto di avviare quel vulnerabile processo interrogativo senza precedenti ora, cioè con l’incomparabilmente onesto e compassionevole membro «centrale» eletto del Sistema di Sostegno al quale stava esternando in cuffia dalla sua postazione lavorativa in quel preciso istante. 7 La persona depressa qui fece una breve pausa per aggiungere il fatto che aveva fermamente deciso tra sé e sé di porre quella domanda potenzialmente profondamente traumatizzante senza i soliti patetici e irritanti meccanismi autodifensivi costituiti da preamboli o scuse o autocritiche interpolate. Desiderava sentire, senza mezzi termini, dichiarò la persona depressa, l’opinione brutalmente onesta dell’unica amica preziosissima e intima del Sistema di Sostegno su lei come persona, gli aspetti potenzialmente negativi e sentenziosi e dolorosi come quelli positivi e affermativi e sostenitori e incoraggianti. La persona depressa sottolineò che parlava seriamente: che risultasse melodrammatico o meno, il giudizio brutalmente onesto nei suoi confronti da parte di una persona obiettiva ma che l’aveva a cuore era per lei, in quel momento, questione di vita o di morte in senso quasi letterale.
Aveva paura, la persona depressa confessò all’amica fidata e convalescente, una paura profonda, senza precedenti, di quello che le sembrava di cominciare a scorgere e imparare e scoprire su se stessa nell’elaborazione del lutto seguita all’improvvisa morte della terapeuta che per quasi quattro anni era stata per la persona depressa la piú intima e fidata confidente nonché fonte di sostegno e affermazione e – senza voler nulla togliere ai membri del Sistema di Sostegno – la migliore amica che avesse al mondo. Perché aveva scoperto, confessò la persona depressa in interurbana, quando si concedeva il suo importante Momento di Tranquillità 8 quotidiano ora, durante l’elaborazione del lutto, e si metteva tranquilla e concentrata a guardare in profondità, che non riusciva né a sentire né a identificare dentro di sé nessun sentimento vero per la terapeuta, cioè per la terapeuta come persona, una persona che era morta, una persona che soltanto uno con il paraocchi non avrebbe capito che probabilmente si era tolta la vita, e perciò una persona che, secondo la persona depressa, magari aveva a sua volta sopportato livelli di angoscia e isolamento e disperazione emotivi paragonabili, o forse – benché lei sembrasse riuscire a considerare quell’eventualità solo a un livello intellettuale puramente astratto o «di testa», confessò la persona depressa al telefono in cuffia – addirittura superiori a quelli della stessa persona depressa. La persona depressa esternò che l’implicazione piú spaventosa di questo (cioè del fatto che, anche quando si concentrava e guardava in profondità dentro se stessa, la persona depressa sentiva di non riuscire a localizzare nessun sentimento vero per la terapeuta in quanto essere umano con un suo valore autonomo) sembrava essere che tutto il suo dolore e la sua disperazione angosciosi dopo il suicidio della terapeuta di fatto erano stati solo ed esclusivamente per se stessa, cioè per la propria perdita, il proprio abbandono, il proprio dolore, il proprio trauma e dolore e sopravvivenza affettiva primordiale. E, la persona depressa esternò che si stava assumendo il rischio aggiuntivo di rivelare, cosa ancora piú spaventosa, che quell’insieme di illuminazioni sconvolgentemente terrificanti, ora invece di risvegliare in lei il minimo sentimento di compassione, partecipazione, e dolore eterodiretto per la terapeuta come persona, aveva – e qui la persona depressa attese pazientemente che all’amica particolarmente fidata e disponibile passasse un attacco di conati di vomito, cosí da potersi assumere il rischio di esternarle questa cosa – che quelle illuminazioni sconvolgentemente terrificanti erano sembrate, in modo terrificante aver semplicemente fatto emergere e creato ancora altri e ulteriori sentimenti nella persona depressa riguardo a se stessa. A questo punto dell’esternazione, la persona depressa si prese una pausa per giurare solennemente all’amica interurbana, gravemente malata, con frequenti conati di vomito, ma pur sempre intima e affettuosa che non c’era nessuna severa autocritica tossica o pateticamente manipolatoria in quanto lei (cioè la persona depressa) stava contattando e rivelando e confessando, ma solo una profonda paura senza precedenti: la persona depressa aveva paura per se stessa, per cosí dire per «sé [stessa]» – cioè per il suo cosiddetto «carattere» o «spirito» o «anima» cioè per la sua capacità di partecipazione e compassione e affetto umani fondamentali – disse all’amica di sostegno con il neuroblastoma. Chiedeva sinceramente, disse la persona depressa, onestamente, disperatamente: che razza di persona era una che sembrava non sentire niente – niente, sottolineò – per altri che se stessa? Anche se forse non sempre. La persona depressa piangeva al telefono in cuffia e disse che lí in quel preciso istante implorava senza ritegno la sua attuale migliore amica e confidente al mondo di esternare il suo (cioè dell’amica con il tumore maligno mortale al midollo adrenale) giudizio brutalmente candido, di non trattenersi, di non dire niente a rassicurazione o discolpa o sostegno che non ritenesse in tutta onestà vero. Si fidava di lei, le assicurò. Perché aveva deciso, disse, che la sua vita stessa, benché carica di angoscia e disperazione e indescrivibile solitudine, dipendeva, a quel punto del suo viaggio verso la vera guarigione, dall’incoraggiare – anche se questo significava mettere da parte ogni possibile orgoglio e difesa e implorazione, interpolò – il giudizio di alcuni membri fidati e selezionatissimi della sua comunità di sostegno. Perciò, disse la persona depressa, con la voce infine rotta, implorava la sua ormai unica amica fidatissima di esternare il suo privatissimo giudizio sulla capacità di interessamento umano da parte del «carattere» o «spirito» della persona depressa. Aveva bisogno del suo feedback, piagnucolò la persona depressa, anche se quel feedback era parzialmente negativo o doloroso o traumatico o aveva la potenzialità di spingerla oltre l’orlo emotivo una volta per sempre – anche, supplicò, se quel feedback si basava esclusivamente sul freddo livello intellettuale o «di testa» della descrizione verbale oggettiva; si sarebbe accontentata anche di quello, promise, rannicchiata e tremante in posizione semifetale sulla punta della sedia ergonomica nel cubicolo della sua postazione lavorativa – e perciò ora esortava l’amica malata terminale a continuare, a non tirarsi indietro, a dirgliene quattro: quali parole e termini si potevano impiegare per descrivere e valutare quel vuoto e quella spugna emotivi cosí solipsistici, autologorati e senza fondo che ora le sembrava di essere? Come faceva a decidere e descrivere – anche solo a se stessa, guardandosi dentro e affrontandosi – cosa tutto quello che aveva appreso cosí dolorosamente diceva di lei?
1 Le sagome multiformi che le dita accoppiate della terapeuta assumevano somigliavano quasi sempre, secondo la persona depressa, a varie forme di gabbie geometricamente diverse, un’associazione che la persona depressa non aveva esternato alla terapeuta perché il suo significato simbolico sembrava troppo dichiarato e sciocco per sprecarci il tempo che avevano a disposizione. Le unghie delle mani della terapeuta erano lunghe e proporzionate e ben curate, mentre quelle della persona depressa erano mangiate in modo coatto e talmente corte e maciullate che certe volte spuntava la carne viva e cominciavano a sanguinare spontaneamente.
2 (Cioè una delle ferite purulente).
3 La terapeuta della persona depressa evitava sempre accuratamente di dare l’impressione di giudicare o biasimare la persona depressa per il fatto di aggrapparsi alle proprie difese, o di lasciare intendere che la persona depressa avesse in alcun modo consciamente scelto o scelto di aggrapparsi a una depressione cronica tale da rendere ogni sua (cioè della persona depressa) ora di veglia cosí angosciosa da risultare intollerabile per chiunque. Tale rinuncia a esprimere giudizi o imporre valori era considerata dalla scuola terapeutica in cui la terapeuta aveva elaborato la sua filosofia della guarigione nel corso di oltre quindici anni di esperienza clinica come integrante alla combinazione di sostegno incondizionato e onestà assoluta riguardo ai sentimenti che costituivano l’incoraggiamento professionale necessario a un viaggio terapeutico produttivo verso l’autenticità e la pienezza interpersonale. Le difese contro l’intimità, sosteneva la teoria esperienziale della terapeuta della persona depressa, erano quasi sempre meccanismi di sopravvivenza bloccati o residuali; cioè, per un certo periodo, l’ambiente li aveva resi opportuni e necessari e molto probabilmente erano serviti a proteggere la psiche infantile indifesa da traumi potenzialmente insostenibili, ma nella quasi totalità dei casi questi (cioè i meccanismi difensivi) si erano inopportunamente impressi e bloccati e ora, nell’età adulta, l’ambiente non li rendeva piú opportuni e anzi, paradossalmente, ora in realtà provocavano di gran lunga piú traumi e sofferenza di quanti ne impedissero. Tuttavia, la terapeuta aveva chiarito fin dall’inizio che non avrebbe in alcun modo fatto pressioni, tormentato, persuaso, indotto, convinto, imbarazzato, raggirato, arringato, svergognato o manipolato la persona depressa perché si liberasse delle difese bloccate o residuali prima che lei (cioè la persona depressa) non si fosse sentita pronta e in grado di correre il rischio di spiccare il balzo fidando nelle proprie risorse interiori e nell’autostima e nella crescita personale e nella propria guarigione per farlo (cioè per lasciare il nido delle sue difese per volare libera e felice).
4 La terapeuta – che era decisamente piú vecchia della persona depressa ma pur sempre piú giovane della madre della persona depressa e che, stato delle unghie a parte, a quella madre non somigliava praticamente sotto nessun punto di vista né fisico né stilistico – a volte infastidiva la persona depressa con quella sua abitudine di creare una gabbia digiforme sul grembo e di cambiare forma alla gabbia e di abbassare gli occhi fissando le varie gabbie geometriche durante il lavoro che svolgevano insieme. Col passare del tempo, però, man mano che il rapporto terapeutico si intensificava in termini di intimità e esternazione e fiducia, la vista delle gabbie digiformi irritava sempre meno la persona depressa, finendo col diventare poco piú che una distrazione. Molto piú problematica in termini di fiducia e autostima per la persona depressa era l’abitudine che la terapeuta aveva di lanciare ogni tanto rapidissime occhiate al grosso orologio a forma di sole appeso alla parete dietro la comoda poltrona scamosciata dove normalmente la persona depressa sedeva durante il tempo che trascorrevano insieme, lanciava (cioè la terapeuta lanciava) occhiate rapidissime e quasi furtive all’orologio, e col tempo la cosa che finí per urtare sempre piú la persona depressa non era tanto che la terapeuta guardasse l’orologio, quanto che cercasse apparentemente di nascondere o mascherare il fatto che guardava l’orologio. La persona depressa – che era penosamente sensibile, lo ammetteva, alla possibilità che chiunque lei cercasse di contattare per esternare fosse segretamente seccato o disgustato o volesse disperatamente liberarsi di lei il piú in fretta possibile, e perciò era adeguatamente iperattenta ai minimi movimenti o gesti che potevano indicare che un ascoltatore era consapevole del tempo o desideroso che il tempo passasse, e mai una volta mancò di notare quando la terapeuta lanciava occhiate pur rapidissime o in alto all’orologio da parete o in basso al sottile, elegante orologio dal quadrante girato sotto il magro polso della terapeuta cosí da essere celato alla vista della persona depressa – aveva finito, sul concludersi del primo anno di rapporto terapeutico, con lo scoppiare in singhiozzi e aveva esternato che si sentiva completamente umiliata e svilita ogni volta che la terapeuta sembrava cercare di nascondere il fatto che desiderava sapere l’ora esatta. Buona parte del lavoro che la persona depressa aveva fatto con la terapeuta nel primo anno del suo (cioè della persona depressa) viaggio verso la guarigione e la pienezza interpersonale era incentrato sulle sue sensazioni di essere straordinariamente e disgustosamente noiosa o contorta o pateticamente presa da se stessa, e di non riuscire a credere che ci fossero interesse e compassione e partecipazione genuini da parte di una persona da lei contattata per ricevere sostegno; e anzi la prima conquista significativa nel rapporto terapeutico, disse la persona depressa ai membri del Sistema di Sostegno nel penoso periodo seguito alla morte della terapeuta, era arrivata quando la persona depressa, sul finire del secondo anno di rapporto terapeutico, era entrata sufficientemente in contatto con il proprio valore e le proprie risorse interiori da riuscire a esternare in modo deciso alla terapeuta che lei (cioè la persona depressa rispettosa ma decisa) avrebbe preferito che la terapeuta si limitasse a guardare apertamente l’orologio eliforme da parete o girasse apertamente all’insú l’orologio da polso capovolto per guardarlo invece di dare a intendere di credere – o almeno assumere degli atteggiamenti che davano l’impressione, dalla prospettiva dichiaratamente ipersensibile della persona depressa, che la terapeuta credesse – che la persona depressa potesse essere raggirata da quel disonesto infilare una sbirciatina di straforo all’ora in un gesto che voleva sembrare un’occhiata insignificante alla parete o una manipolazione distratta della sagoma digiforme a mo’ di gabbia che aveva in grembo.
Un altro importante risultato del lavoro terapeutico svolto dalla persona depressa insieme alla terapeuta – risultato che la terapeuta diceva personalmente di sentire che costituiva un seminale balzo di crescita e approfondimento della fiducia e del livello di onesta esternazione fra loro – si ebbe durante il terzo anno di rapporto terapeutico, quando la persona depressa aveva finalmente confessato di sentire che era umiliante anche che qualcuno le parlasse come certe volte le parlava la terapeuta, cioè che la persona depressa sentiva di essere trattata con superiorità, condiscendenza, e/o come una bambina le volte che durante il loro lavoro insieme la terapeuta attaccava riattaccava e riattaccava ancora con la noiosa lallazione su scopi e filosofie e desideri terapeutici che lei aveva verso la persona depressa; per non dire, già che erano in argomento, che lei (cioè la persona depressa) certe volte si sentiva umiliata e risentita anche quando la terapeuta alzava gli occhi dalla gabbia di mani che aveva in grembo e guardando la persona depressa la sua (cioè della terapeuta) faccia una volta di piú assumeva quella solita espressione di pazienza calma e sconfinata, espressione che la persona depressa ammetteva di sapere (cioè la persona depressa sapeva) che voleva comunicare attenzione spassionata e interesse e sostegno ma che comunque certe volte dalla prospettiva della persona depressa sembrava piú distacco emotivo, distanza clinica, mero interesse professionale che la persona depressa stava comprando e non l’interesse intensamente personale e la partecipazione e la compassione che da sempre la facevano soffrire per la loro assenza. La faceva arrabbiare, confessò la persona depressa; spesso si sentiva arrabbiata e risentita per il fatto di non essere nient’altro che un oggetto di compassione professionale per la terapeuta o l’eventuale «amica» putativa nel suo patetico «Sistema di Sostegno» fondato sulla carità e il senso di colpa astratto.
5 Benché la persona depressa, come in seguito rese noto al Sistema di Sostegno, avesse scrutato ansiosamente la faccia della terapeuta in cerca di una reazione negativa mentre lei (cioè la persona depressa) si sbottonava vomitando tutte quelle sensazioni potenzialmente disgustose verso il rapporto terapeutico, al tempo stesso a quel punto della seduta si avvantaggiava di una specie di slancio di onestà emotiva che le aveva consentito di sbottonarsi ulteriormente e di esternare in lacrime alla terapeuta che era umiliante e perfino in qualche misura offensivo anche sapere che, per esempio, oggi (cioè il giorno dell’importante e seminalmente onesta operazione congiunta sul rapporto fra la persona depressa e la terapeuta), non appena il tempo a disposizione della persona depressa con la terapeuta fosse scaduto e loro si fossero alzate dalle rispettive poltrone scamosciate reclinabili per un rigido abbraccio di saluto fino all’appuntamento successivo, che in quel preciso istante tutta l’apparente attenzione intensamente e personalmente focalizzata e il sostegno e l’interesse della terapeuta nei confronti della persona depressa sarebbero stati ritirati per venire trasferiti senza sforzo sulla tronfiona patetica spregevole frignante tutta presa da sé dentuta nasuta cosciona successiva che aspettava proprio là fuori leggendo un giornale vecchio nell’attesa di strisciare dentro e aggrapparsi pateticamente all’orlo del mantello foderato di pelliccia della terapeuta per un’ora, con un bisogno cosí disperato di un’amica personalmente interessata da sborsare ogni mese per la patetica illusione temporanea di un’amica quasi quanto sborsava per un cazzo di affitto. La persona depressa sapeva fin troppo bene, aveva concesso – sollevando una mano tutta rosicchiata per impedire alla terapeuta di interromperla – che il distacco professionale della terapeuta in realtà non era niente affatto incompatibile con l’interessamento sincero, e che se la terapeuta si manteneva cautamente su un livello professionale anziché personale, di interessamento e sostegno e coinvolgimento significava che la persona depressa poteva contare sul fatto che quel sostegno e quell’interessamento per lei ci sarebbero sempre stati senza cadere preda delle normali vicissitudini di inevitabili conflitti e incomprensioni e fluttuazioni naturali tipici dei rapporti interpersonali meno professionali e piú personali legati al particolare umore personale e alla disponibilità emotiva e alla capacità di partecipazione della terapeuta in un determinato giorno, per non dire che il suo (cioè della terapeuta) distacco professionale significava che almeno entro i confini della gelida ma accogliente casa ufficio della terapeuta e delle previste tre ore settimanali insieme la persona depressa poteva essere totalmente onesta e aperta riguardo ai propri sentimenti senza dover mai temere che la terapeuta prendesse quei sentimenti sul piano personale e diventasse arrabbiata o fredda o sentenziosa o beffarda o che addirittura respingesse o svergognasse o sbeffeggiasse o abbandonasse la persona depressa; anzi, ironicamente, sotto molti aspetti, come la persona depressa aveva detto di sapere fin troppo bene, la terapeuta era davvero in assoluto l’amica personale ideale della persona depressa, o se non altro di quella parte isolata, angosciata, bisognosa, patetica, egoista, viziata, Bambino ferito che c’è in Te della persona depressa: cioè lí, dopo tutto, c’era una persona (ossia la terapeuta) che ci sarebbe sempre stata per ascoltare e davvero partecipare e immedesimarsi e essere emotivamente pronta e generosa e incoraggiante e sostenere la persona depressa senza pretendere assolutamente niente in cambio dalla persona depressa in termini di immedesimazione e sostegno emotivo o del fatto che la persona depressa si interessasse davvero o prendesse anche solo in considerazione i sentimenti e i bisogni autentici della terapeuta in quanto essere umano. La persona depressa sapeva anche perfettamente, aveva ammesso, che in realtà erano i 90 dollari a rendere il simulacro di amicizia del rapporto terapeutico cosí idealmente a senso unico: cioè l’unica aspettativa o pretesa che la terapeuta aveva nei confronti della persona depressa erano i 90 dollari all’ora pattuiti; una volta soddisfatta quella pretesa, tutto quanto il rapporto doveva essere incentrato sulla persona depressa e il suo benessere. A livello razionale, intellettuale, «di testa», la persona depressa era assolutamente consapevole di tali realtà e compensazioni, aveva detto alla terapeuta, e perciò naturalmente sentiva che lei (cioè la persona depressa) non aveva nessuna ragione o scusa razionale per provare le sensazioni presuntuose, bisognose e infantili che si era appena assunta il rischio senza precedenti di esternare che provava; eppure la persona depressa aveva confessato alla terapeuta che comunque ancora sentiva, a un piú basilare livello emotivo intuitivo o «di viscere», che era davvero umiliante e offensivo e patetico che la sofferenza emotiva cronica e l’isolamento e l’incapacità di stabilire un contatto la costringessero a sborsare 1080 dollari al mese per comprarsi quella che sotto molti aspetti era una specie di amica fantastica che appagasse le sue fantasie narcisistiche infantili di vedere i propri bisogni emotivi soddisfatti da un’altra persona senza doverla a sua volta soddisfare o immedesimarsi con lei o anche solo prenderne in considerazione i bisogni emotivi, un’immedesimazione e una considerazione rivolta ad altri che come la persona depressa aveva confessato in lacrime a volte disperava di avere dentro di sé da dare. La persona depressa qui aveva aggiunto di temere spesso che, malgrado i numerosi traumi subiti nel tentativo di avere un rapporto con gli uomini, di fatto era la sua incapacità di liberarsi del bisogno tossico di Esserci per un altro e dare davvero emotivamente ad aver reso quei tentativi di rapporto intimo, di reciproco incoraggiamento con gli uomini, un fallimento cosí penosamente umiliante su tutti i fronti.
Nella sua seminale esternazione alla terapeuta la persona depressa aveva aggiunto anche, come in seguito raccontò alla élite selezionata di membri «centrali» del Sistema di Sostegno dopo la morte della terapeuta, che il suo (cioè della persona depressa) risentimento per il costo mensile di 1.080 dollari del rapporto terapeutico in realtà non era dovuto tanto alla spesa in sé e per sé – che ammise liberamente di potersi permettere – quanto all’idea umiliante di pagare l’amicizia artificialmente a senso unico e l’appagamento di fantasie narcisistiche, dopodiché aveva fatto una vacua risata (cioè la persona depressa aveva fatto una vacua risata durante l’aggiunta originaria nella sua esternazione alla terapeuta) a indicare che sentiva e riconosceva l’eco involontaria dei suoi genitori freddi, taccagni e emotivamente indisponibili quando ammetteva che la cosa opinabile non era tanto la spesa in sé e per sé quanto l’idea o «principio» della spesa. In realtà dava come la sensazione, la persona depressa ammise in seguito con le amiche di sostegno di aver confessato alla terapeuta compassionevole, che quella tassa terapeutica di 90 dollari all’ora fosse quasi una specie di riscatto o «tangente», che alla persona depressa procurava un’esenzione dalla bruciante vergogna interiore e dalla mortificazione di telefonare a ex amiche lontane che neanche aveva intravisto da un fottio di anni e sulla cui amicizia non aveva piú nessun diritto legittimo e di telefonare di notte senza che nessuno gliel’avesse chiesto introducendosi nella loro vita funzionale e beatamente ignorantemente gioiosa anche se in certa misura superficiale e di contare senza ritegno su di loro, contattandole in continuazione per cercare di tradurre in parole l’essenza del terribile e incessante dolore della depressione anche quando erano proprio dolore e disperazione e solitudine a renderla, lo sapeva, fin troppo emotivamente affamata e bisognosa e presa da sé per poter mai riuscire a Esserci davvero sempre per le sue amiche interurbane e ricambiarle rendendosi disponibile a essere contattata e a ascoltare le loro esternazioni e a fornire sostegno in cambio, cioè il suo (cioè della persona depressa) era un deplorevole onnibisogno ingordo e narcisistico e solo un idiota integrale non avrebbe previsto che i membri del suo cosiddetto «Sistema di Sostegno» se ne sarebbero accorti subito, restandone completamente disgustati, e che sarebbero rimasti al telefono solo per la carità umana piú pura e semplice e astratta, roteando gli occhi nel frattempo e facendo smorfie e guardando l’orologio e desiderando che la telefonata finisse o che lei (cioè la persona depressa pateticamente bisognosa al telefono) chiamasse chiunque ma non lei (cioè l’annoiata, disgustata «amica» putativa dagli occhi roteanti) o che il destino non avesse voluto che venisse assegnata nella stessa stanza della persona depressa o che non fosse nemmeno mai andata in quel particolare collegio o addirittura che la persona depressa non fosse mai nata o che non esistesse, cosí che il tutto risultava completamente, insopportabilmente patetico e umiliante «se proprio bisognava dire la verità», se la terapeuta voleva davvero l’«esternazione totalmente onesta e senza censure» che continuava sempre a «dichiara[re] di volere», come la persona depressa confessò in seguito al Sistema di Sostegno di aver sibilato beffardamente alla terapeuta, con la faccia (cioè la faccia della persona depressa durante la seduta seminale ma sempre piú sgradevole e umiliante nel terzo anno di terapia) che assumeva quello che secondo lei doveva essere un misto grottesco di rabbia e autocommiserazione e umiliazione. Era stata l’immagine mentale di come doveva essere la sua faccia infuriata a far sí che nell’ultima fase della seduta la persona depressa si mettesse a piangere, frignare, tirare su col naso e singhiozzare con assoluta gravità, esternò in seguito alle amiche fidate. Perché no, se la terapeuta voleva davvero la verità, la sincera verità a livello «di viscere» che c’era dietro tutta la sua rabbia e la sua vergogna infantilmente difensive, aveva esternato la persona depressa da una posizione curva e quasi fetale sotto l’orologio a forma di sole, singhiozzando ma scegliendo deliberatamente di non stare ad asciugarsi gli occhi e nemmeno il naso, la persona depressa sentiva davvero che la cosa davvero ingiusta era che si sentiva capace – perfino lí in terapia con la terapeuta fidata e compassionevole – che si sentiva capace di esternare unicamente le circostanze dolorose e le intuizioni memorabili relative alla depressione e alla sua eziologia e struttura nonché numerosi sintomi invece di sentirsi davvero capace di comunicare e tradurre in parole e esprimere la stessa terribile incessante angoscia della depressione, un’angoscia che era la realtà primaria e insostenibile di ogni suo lugubre minuto sulla faccia della terra – cioè di non essere capace di condividere cosa si sentiva davvero, come la depressione la faceva sentire dentro ogni santo giorno, aveva piagnucolato istericamente, colpendo ripetutamente la pelle scamosciata dei braccioli della sua poltrona reclinabile – o di contattare per comunicarlo e esprimerlo qualcuno che poteva non solo ascoltare e capire e preoccuparsi ma che poteva e voleva davvero sentirlo insieme a lei (cioè sentire quello che sentiva la persona depressa). La persona depressa confessò alla terapeuta che ciò di cui sentiva davvero disperatamente la mancanza e di cui davvero fantasticava era avere la capacità in qualche modo di realmente veramente letteralmente «esternarlo» (cioè di esternare il tormento incessante della depressione cronica). Disse che la depressione risultava cosí centrale e inevitabile per la sua identità e per la persona che era che il non essere capace di esternare la sensazione interiore della depressione e nemmeno di descrivere davvero la sensazione che le dava, per lei era per esempio come sentire un bisogno disperato, feroce di descrivere il sole nel cielo e avere la capacità o il permesso solo di indicare a mo’ di descrizione le ombre sul terreno. Era stufa marcia di indicare le ombre, aveva singhiozzato. Dopodiché lei (cioè la persona depressa) era scoppiata di botto a ridere vacuamente di se stessa scusandosi con la terapeuta per avere utilizzato un’analogia cosí fioritamente melodrammatica e autocommiserativa. In seguito la persona depressa esternò tutto questo al Sistema di Sostegno, profondendosi in particolari e talora piú di una volta per notte, come parte dell’elaborazione del lutto seguita alla morte della terapeuta per caffeinismo omeopatico, compreso il suo (cioè della persona depressa) ricordo che lo sfoggio di attenzione compassionevole e spassionata da parte della terapeuta riguardo a tutto ciò su cui la persona depressa si era sbottonata e sfogata e aveva sibilato e vomitato e piagnucolato e frignato durante la seduta di rottura traumaticamente seminale era stato cosí spaventoso e senza riserve che lei (cioè la terapeuta) aveva sbattuto gli occhi meno spesso di quanto non li avesse mai sbattuti qualsiasi ascoltatore non professionale con il quale la persona depressa aveva esternato faccia a faccia. I due attuali membri «centrali» piú fidati e sostenitori del Sistema di Sostegno della persona depressa avevano risposto, quasi testualmente, di ricavarne come l’impressione che la terapeuta della persona depressa doveva essere stata molto speciale, e che la persona depressa chiaramente sentiva molto la sua mancanza; e la singola amica «centrale» malata nel fisico e particolarmente preziosa e partecipe e eletta sul cui sostegno la persona depressa faceva maggiore affidamento durante l’elaborazione del lutto suggerí che il modo piú amorevole e appropriato di onorare sia la memoria della terapeuta sia il dolore della persona depressa per quella perdita poteva essere per la persona depressa quello di cercare di diventare per se stessa l’amica speciale e premurosa e instancabilmente incoraggiante che era stata la defunta terapeuta.
6 La persona depressa, cercando disperatamente di aprirsi e consentire al Sistema di Sostegno di aiutarla a onorare e esaminare i sentimenti relativi alla morte della terapeuta, si assunse il rischio di esternare che si era resa conto di avere usato raramente o forse mai la parola «triste» nei colloqui del processo terapeutico. Di solito usava le parole «disperazione» e «angoscia», e la terapeuta aveva, per lo piú, acconsentito senza giudicare a quella scelta di parole dichiaratamente melodrammatica, anche se la persona depressa sospettava da tempo che la terapeuta probabilmente sentiva che la sua (cioè della persona depressa) scelta di «angoscia», «disperazione», «tormento» e simili fosse al tempo stesso melodrammatica – e perciò bisognosa e manipolatrice – da una parte, e minimizzante – e perciò basata sulla vergogna e tossica – dall’altra. Durante il devastante periodo di elaborazione del lutto la persona depressa esternò alle amiche interurbane che si era resa dolorosamente conto anche del fatto che mai una volta le era saltato in mente di chiedere alla terapeuta cosa lei (cioè la terapeuta) pensava o sentiva in un determinato momento durante il tempo che trascorrevano insieme, né le aveva chiesto, nemmeno una volta, cosa lei (cioè la terapeuta) pensava davvero di lei (cioè della persona depressa) come essere umano, cioè se alla terapeuta personalmente lei piaceva, non piaceva, pensava che fosse una persona fondamentalmente accettabile o disgustosa, ecc. Questi non erano che due esempi.
6a Come parte naturale dell’elaborazione del lutto, la psiche tormentata della persona depressa veniva invasa da dettagli sensoriali e ricordi emotivi nei momenti piú disparati e in circostanze impossibili da prevedere, che la incalzavano richiedendo a gran voce di essere espressi e esaminati. Il mantello di pelle di daino della terapeuta, per esempio, benché la terapeuta sembrava avere un attaccamento quasi feticistico a quell’indumento pellerossa e l’aveva indossato, a quanto pare, quasi tutti i giorni, era sempre di una pulizia immacolata e presentava sempre un fondale color carne dall’immacolato aspetto umido e selvaggio per le sagome multiformi tipo gabbia che le mani inconscie della terapeuta componevano – e la persona depressa esternò ai membri del Sistema di Sostegno, dopo la morte della terapeuta, di non aver mai capito bene come o per quale processo la pelle di daino del mantello di pelliccia riuscisse a rimanere cosí pulita. La persona depressa confessò di avere a volte immaginato narcisisticamente che la terapeuta indossasse l’immacolato indumento color carne solo in occasione dei loro appuntamenti. La gelida casa ufficio della terapeuta conteneva anche, sulla parete opposta all’orologio di bronzo e dietro la poltrona reclinabile della terapeuta, un’incredibile scrivania-porta-personal-computer di molibdeno, con un ripiano dov’erano allineate, ai lati di una macchinetta del caffè Braun deluxe, piccole fotografie incorniciate di marito, sorella e figlio della defunta terapeuta; e spesso la persona depressa scoppiava in nuovi singhiozzi di perdita e disperazione e autoescoriazione al telefono in cuffia del suo cubicolo mentre confessava al Sistema di Sostegno che mai nemmeno una volta aveva chiesto alla terapeuta come si chiamavano i suoi cari.
7 L’amica interurbana straordinariamente preziosa e sostenitrice alla quale la persona depressa aveva deciso che si sentiva meno mortificata a porre una domanda di quella portata con schiettezza e vulnerabilità e rischio emotivo era un’ex-allieva di uno dei primissimi collegi dell’infanzia della persona depressa, una divorziata madre di due figli di generosità e incoraggiamento smisurati di Bloomfield Hills, Michigan, che da poco aveva cominciato a sottoporsi a un secondo ciclo di chemioterapia per un neuroblastoma virulento, che aveva enormemente ridotto il numero di responsabilità e attività nella sua vita adulta piena, funzionale, vivacemente rivolta agli altri, e che perciò ora non solo era quasi sempre a casa ma godeva anche di una disponibilità e di un tempo liberi da conflitti e pressoché illimitati per condividere al telefono, e per questo la persona depressa aveva sempre la premura di inserire una preghiera quotidiana di ringraziamento nel suo Diario delle Sensazioni.
8 (Cioè organizzava con cura il programma mattutino per lasciare spazio ai venti minuti che la terapeuta aveva a lungo consigliato per concentrarsi tranquillamente e entrare in contatto con le sensazioni e impossessarsene e registrarle nel diario, guardandosi dentro con un distacco compassionevole, spassionato, quasi clinico.)
Il diavolo è un tipo impegnato
Per giunta quando aveva qualcosa di nuovo o se ripuliva il capanno degli attrezzi o la cantina spesso papà scopriva di avere un aggeggio che non voleva piú da eliminare e siccome ci voleva una vita a portarlo col furgone alla discarica o alla beneficenza giú in paese si limitava a alzare il telefono per mettere un annuncio sul «Trading Post» in paese e darlo via per niente. Stronzate tipo un divano o un freezer o un vecchio attrezzo agricolo. L’annuncio diceva Gratis venitevelo a prendere. E anche cosí ci voleva sempre una vita da quando veniva pubblicato prima che un’anima si degnasse di fare una telefonata e quell’aggeggio restava in mezzo ai piedi nel vialetto di papà che si incazzava come una iena finché un paio di tizi del paese finalmente andavano fin lí a vederlo. E facevano pure gli schizzinosi con le facce tutte concentrate come in una partita a carte e giravano attorno a quell’affare e gli davano dei calcetti con la punta del piede e attaccavano coi dov’è che l’hai preso che c’ha che non va perché ci tieni tanto a sbarazzartene. Scuotevano la testa e parlavano con la loro signora e la tiravano per le lunghe e per poco non mandavano papà ai matti perché lui voleva soltanto dar via un vecchio attrezzo agricolo per niente e toglierlo dal vialetto e gli toccava sprecare tutto quel tempo a cazzeggiare con quella gente per farglielo prendere. Poi un bel giorno che si vuole sbarazzare di una cosa che fa piglia e ti mette il suo annuncio sul «Trading Post» e ci mette un prezzo assurdo che improvvisa lí per lí al telefono col tizio del «Trading Post». Un prezzo assurdo praticamente niente. Vecchio Erpice Con Qualche Dente Un Po’ Arrugginito $ 5, Divanoletto JCPenny Verde E Giallo $ 10 e roba simile. Al che spesso la gente chiamava il primo giorno che l’annuncio usciva sul «Trading Post» e in un attimo piombavano lí dal paese e certe volte si macinavano anche un bel pezzo di strada da altri piccoli centri piú lontani dove arrivava il «Trading Post» e frenavano facendo schizzare la ghiaia dappertutto e quell’aggeggio quasi manco lo guardavano e insistevano con papà per fargli prendere i 5 o 10 dollari subito, prima di farselo soffiare da qualcun altro e se era una cosa pesante tipo il divano li aiutavo io a caricarselo e quelli prendevano e telavano subito dopo. La faccia loro era diversa, come la faccia della moglie nel furgone, allegra e i denti in bella vista e lui un braccio intorno alla sua signora e un salutino a papà mentre faceva retromarcia. Contenti come una pasqua di essersi rimediati un vecchio erpice praticamente per nulla. Io chiesi a papà che lezione trarre dalla cosa e lui disse che secondo lui era che non puoi insegnare a un porco a cantare e mi disse di andare a rastrellare la ghiaia del vialetto dal fossato prima che fottesse il canale di scolo.
Pensa
Lei ha il reggiseno che si apre a scatto sul davanti. A lui si schiarisce la fronte di scatto. Lui pensa di inginocchiarsi. Ma sa cosa penserebbe lei se si inginocchiasse. Ad avergli schiarito la fronte dalle rughe è stata una specie di rivelazione. I seni si sono liberati. Lui immagina la moglie e il figlio. Ora i seni non hanno confini. La trapunta del letto ha una balza di tulle, come la piccola balza di una ballerina. Questa è la sorella minore della compagna di stanza di sua moglie all’università. Gli altri sono andati tutti al centro commerciale, qualcuno a fare spese, qualcuno a vedere un film alla multisala del centro. La sorella con i seni accanto al letto ha lo sguardo piatto e l’ombra di un sorriso, indecifrabile, di scuola mediatica. Lei vede il colorito di lui accendersi e la fronte spianarsi in una specie di rivelazione – perché non era voluta andare al centro commerciale, il significato di certi commenti, sguardi, momenti sparsi per tutto il weekend che lui aveva attribuito alla propria vanità, immaginazione. Certe cose le vediamo una dozzina di volte al giorno negli spettacoli ma immaginiamo che noi, con la nostra immaginazione, siamo matti. Un altro tipo avrebbe potuto dire che quello che aveva visto era: lei porta la mano al reggiseno e libera i seni. Lui ha forse un leggero tremito alle gambe quando lei gli chiede cosa pensa. Lei ha un’espressione uscita dalla pagina 18 del catalogo Victoria’s Secret. Lei è, pensa lui, il genere di donna che si terrebbe i tacchi se lui glielo chiedesse. Anche se non se li fosse mai tenuti prima, gli rivolgerebbe un indecifrabile sorriso d’intesa, pagina 18. In un rapido profilo mentre si gira per chiudere la porta i seni sotto sono un mezzo globo, sopra la curva di un paracadute ad apertura ritardata. Il languido mezzo giro per chiudere la porta è turgido di chissà quale significato; lui capisce che lei sta ripetendo la scena di un film che le piace. Nel quadretto dell’immaginazione di lui la mano della moglie si appoggia sulla piccola spalla del figlio in modo quasi paterno.
Non è nemmeno che lui decide di inginocchiarsi: è semplicemente che si ritrova a sentire il peso contro le ginocchia. Vedendolo in quella posizione lei potrebbe pensare che lui la voglia senza mutande. Mentre lei gli va incontro lui ha la faccia all’altezza delle sue mutande. Lui riesce a sentire la stoffa dei propri calzoni, la trama del tappeto che c’è sotto, sopra, contro le ginocchia. Lei ha un’espressione che è un misto di seduzione e eccitazione, velata da un’arietta divertita che serve a darle un tocco di raffinatezza, di illusioni perdute da tempo. È il genere di espressione che in fotografia farebbe un effettone, ma che protratta in tempo reale diventa imbarazzante. Quando lui unisce le mani davanti al petto è ormai chiaro che è in ginocchio per pregare. Ora quello che fa è inequivocabile. Lui ha un colorito molto acceso. Il lieve oscillante tremolio dei seni si ferma quando si ferma lei. Ora lei si trova sullo stesso lato del letto ma non ancora proprio accanto a lui. Lo sguardo che lui rivolge al soffitto della stanza è implorante. Le labbra si muovono senza emettere suoni. Lei resta lí confusa. La consapevolezza della propria nudità diventa un altro genere di consapevolezza. Non sa bene come stare o cosa guardare mentre lui fissa cosí intensamente in alto. Lui non ha gli occhi chiusi. La sorella e il marito e i figli di lei e la moglie dell’uomo e il figlioletto sono andati al centro commerciale col furgoncino Voyager dell’uomo. Lei incrocia le braccia e lancia un rapido sguardo dietro di sé: la porta, la camicetta e il reggiseno, la toeletta in stile antico della moglie punteggiata dalla luce del sole che filtra dai battenti della finestra. Lei potrebbe cercare, solo per un istante, di immaginare cosa sta succedendo nella testa di lui. Una bilancia da bagno fa appena appena capolino ai piedi del letto, da sotto la balza trasparente della trapunta. Anche solo per un istante, cercare di mettersi al suo posto.
La domanda che gli rivolge gli fa corrugare la fronte in un sussulto. Lei ha incrociato le braccia. È una domanda di tre parole
– Non è come pensi, – dice lui. Gli occhi di lui non abbandonano mai la distanza intermedia fra il soffitto e loro. Ora lei è consapevole della propria posizione, di quanto può sembrare assurda vista dalla finestra. Non è l’eccitazione che le ha fatto indurire i capezzoli. Sulla sua, di fronte, si forma una ruga di perplessità.
Lui dice: – Non è come pensi temo.
E se lei si unisse a lui sul pavimento, cosí, stretti nella supplica: proprio cosí.
Non significa niente
Eccovene una stramba. È stato un paio d’anni fa, avevo 19 anni e mi preparavo a lasciare casa dei miei, per andare a stare per conto mio, e un giorno che mi stavo preparando all’improvviso mi torna in mente questo ricordo di mio padre che si mena l’uccello sotto il mio naso una volta che ero piccolo. Il ricordo viene fuori di punto in bianco, ma il fatto che è cosí particolareggiato e sembra cosí concreto mi dice che è assolutamente vero. All’improvviso so che è successo davvero, non è stato un sogno, anche se aveva lo stesso tipo di stramberia bislacca che hanno i sogni. Ecco il ricordo improvviso. Potevo avere 8 o 9 anni, e me ne stavo da solo nella stanza del tempo libero, dopo la scuola, a guardare la TV. Mio padre scende e entra nella stanza e si piazza davanti a me, cioè tra me e la TV, senza dire niente, e io non dico niente. E, senza dire niente, tira fuori l’uccello e si mette come a menarselo sotto il mio naso. Mi ricordo che a casa non c’era nessuno. Doveva essere inverno, perché mi ricordo che faceva freddo giú nella stanza del tempo libero, e io mi ero avvolto nello scialle che si metteva la mamma per guardare la TV. Parte dell’assoluta stramberia dell’episodio di mio padre che si mena l’uccello davanti a me là sotto era che, per tutto il tempo, non ha detto niente (me lo ricorderei se avesse detto qualcosa), e nel ricordo non c’è niente che riguarda la faccia che aveva, tipo che espressione aveva. Non mi ricordo nemmeno se mi guardava. Mi ricordo soltanto l’uccello. Cioè l’uccello reclamava tutta la mia attenzione. Stava lí a menarselo sotto il mio naso, senza dire niente né fare alcun commento, scuotendolo piú o meno come fai al cesso, cioè quando te lo sgrulli, ma c’era anche un che di minaccioso e un po’ spaccone nel modo come lo faceva, mi ricordo, anche, come se l’uccello fosse un pugno che mi metteva sotto il naso sfidandomi a dire qualcosa, e mi ricordo che ero avvolto nello scialle, e non riuscivo a alzarmi o a liberarmi di quell’uccello, e mi ricordavo soltanto di spostare la testa di qua e di là cercando di levarmelo da sotto il naso (l’uccello). È uno di quei fatti veramente bislacchi, talmente strambi che ti sembra che non stiano succedendo perfino mentre succedono. Prima, l’unica volta che avevo visto l’uccello di mio padre era stato negli spogliatoi. Mi ricordo che spostavo la testa dappertutto, sul collo, con l’uccello che mi seguiva dappertutto, e mentre lo facevo mi venivano in mente pensieri veramente bislacchi, tipo: «Sto muovendo la testa tale e quale a un serpente», ecc. Non ce l’aveva duro. Mi ricordo che l’uccello era un po’ piú scuro del resto, e grosso, con una grossa orribile vena che gli correva su un lato. Il buchino all’estremità sembrava lungo e stretto e incazzato, e si apriva e chiudeva un po’ mentre mio padre si menava l’uccello, tenendolo minacciosamente dritto sotto il mio naso ogni volta che spostavo la testa di qua e di là. Questo il mio ricordo. Dopo avercelo avuto (il ricordo) mi aggiravo per casa dei miei come frastornato, cioè come stordito, completamente allucinato, senza raccontarlo a nessuno, e senza chiedere niente. So che quella era l’unica volta che mio padre aveva fatto una cosa del genere. Questo mentre preparavo i bagagli, e andavo in giro per negozi a rimediare scatoloni per il trasloco. Certe volte, mi aggiravo per casa dei miei sotto shock, sentendomi assolutamente strambo. Continuavo a pensare al ricordo improvviso. Andavo in camera dei miei, e poi giú nella stanza del tempo libero. Nella stanza del tempo libero c’era un nuovo impianto audiovisivo invece della vecchia TV, ma lo scialle della mamma era sempre lí, steso sullo schienale del divano quando non veniva usato. Era lo stesso scialle del ricordo. Cercavo continuamente di pensare al perché mio padre avesse fatto una cosa del genere, che cosa poteva aver pensato, cioè che significato poteva aver avuto, e cercavo di ricordarmi se c’erano stati uno sguardo o un’emozione di qualche tipo, durante la cosa, sulla sua faccia.
Ora diventa ancora piú strambo, perché alla fine, il giorno che mio padre si prese una mezza giornata libera e andammo a affittare un furgone che mi serviva per fare fagotto e trasferirmi, alla fine, nel furgone, tornando a casa dal noleggio, sputai il rospo, e gli chiesi di quel ricordo. Glielo chiesi a bruciapelo. Mica c’è un modo di arrivare per gradi a una cosa del genere. Mio padre aveva addebitato l’affitto del furgone sulla sua carta, ed era lui a guidare. Mi ricordo che la radio del furgone non funzionava. Nel furgone, di punto in bianco (dalla sua prospettiva), dico improvvisamente a mio padre che ultimamente mi ero ricordato del giorno che lui era sceso e si era menato l’uccello sotto il mio naso quand’ero piccolo, e piú o meno gli descrivo brevemente quello che mi ero ricordato, e gli chiedo: «si può sapere che cazzo voleva dire?» Visto che lui si limitava a guidare il furgone, e non diceva o faceva niente in risposta, insisto, tirando di nuovo in ballo quell’episodio, e gli faccio di nuovo la stessa domanda (fingendo che magari non aveva sentito quello che avevo detto la prima volta). A quel punto mio padre una cosa la fa – siamo nel furgone, su un breve rettilineo lungo la strada che porta a casa dei miei, cosí mi posso preparare per andarmene a stare per conto mio – lui, senza muovere le mani dal volante né muovere un solo muscolo tranne il collo, gira la testa per guardarmi, e mi rivolge quello sguardo. Non è uno sguardo incazzato, o confuso come se credesse di non aver sentito bene. E non è come a dire: «Si può sapere che diavolo ti prende», o «Levati dai coglioni», o una delle cose che dice di solito per farti capire che è incazzato. Non dice nemmeno mezza cosa, anche se quello sguardo che mi rivolge dice tutto, cioè che non riesce a credere di aver appena sentito quella stronzata uscirmi dalla bocca, cioè che è veramente incredulo e disgustato, cioè che non solo in vita sua non si è mai menato l’uccello senza motivo davanti a me quand’ero piccolo ma già il fatto che mi sono potuto anche solo immaginare che lui si sia mai venuto a menare l’uccello davanti a me, e poi ci ho creduto, e poi me ne vengo davanti a lui in quel furgone in affitto, e poi lo accuso. Ecc., ecc. Lo sguardo che mi lanciò di rimando nel furgone mentre guidava, dopo che avevo tirato in ballo il ricordo e gli avevo chiesto spiegazioni a bruciapelo... fu quello a farmi saltare completamente la bussola, nei suoi confronti. Lo sguardo che voltandosi mi lanciò lentamente diceva che era imbarazzato per me, e imbarazzato per se stesso anche per il solo fatto di essere imparentato con me. Immaginate di essere a una grande, scicchissima cena in giacca e cravatta o a un banchetto in grande stile con vostro padre, quando tutt’a un tratto prendete e salite sul tavolo del banchetto, vi accovacciate e vi mettete a cacare proprio lí sul tavolo, davanti a tutti... è quello il genere di sguardo che vi lancerebbe vostro padre mentre lo fate (cioè cacate). Grosso modo fu allora, nel furgone, che sentii che avrei potuto ucciderlo. Per un secondo cioè sentii che avrei voluto che il furgone si aprisse e mi ingoiasse, tanto ero imbarazzato. Ma, dopo qualche frazione di secondo, sentivo di essere cosí assolutamente incazzato che avrei potuto ucciderlo. Era strano... il ricordo in sé e per sé, sul momento, non mi aveva fatto sentire incazzato, ma solo allucinato, come sotto shock. Ma quel giorno, nel furgone noleggiato, il modo come mio padre non aveva sprecato una sola parola, limitandosi a guidare verso casa in silenzio, con tutt’e due le mani sul volante, e quello sguardo sulla faccia perché gli avevo chiesto quella cosa... be’, ora ero veramente incazzato. Avevo sempre pensato che quella cosa che si dice sul fatto che quando ti imbestialisci ci vedi rosso fosse una figura retorica, invece è vero. Dopo aver caricato tutte le mie cianfrusaglie sul furgone, me ne andai, e non mi feci piú vivo coi miei per oltre un anno. Neanche una parola. Il mio appartamento, nella stessa città, non distava piú di un paio di miglia, ma non gli diedi nemmeno il numero di telefono. Fingevo che non esistessero. Tanto ero disgustato e incazzato. Mia madre non aveva la minima idea del perché non mi facevo vivo, ma con lei avrei tenuto la bocca cucita, poco ma sicuro, e sapevo, mi ci sarei giocato i coglioni, che mio padre non avrebbe aperto bocca. Tutto quello che vedevo mantenne un lieve colorito rosso per qualche mese, dopo che me ne andai senza farmi piú vivo, o se non altro una sfumatura rosa. Non pensavo spessissimo al ricordo di mio padre che si menava l’uccello davanti a me da piccolo, ma non passava giorno che non ricordassi quello sguardo che mi aveva lanciato nel furgone quando avevo di nuovo tirato in ballo quella storia. Lo volevo uccidere. Per qualche mese, pensai di andare a casa quando non c’era nessuno e prenderlo a calci in culo. Mia sorella non aveva la minima idea del perché non mi facevo vivo coi miei, e disse che dovevo essere uscito di testa, stavo spezzando il cuore alla mamma, e quando li chiamai mi trattarono come una merda per non essermi fatto piú vivo senza dare spiegazioni, ma ero cosí incazzato da sapere che sarei finito nella fossa senza dire un’altra cazzo di parola su quella faccenda. Non è che non dicevo niente perché me la facevo sotto, è che quella cazzo di cosa mi aveva fatto talmente perdere la bussola da farmi sentire che se l’avessi di nuovo tirata fuori, e qualcuno mi avesse lanciato un’occhiata di qualche tipo, sarebbe successo il finimondo. Quasi ogni giorno, mi immaginavo di andare a casa e prendere mio padre a calci in culo, mentre lui non faceva che chiedermi perché, e che voleva dire, e io che non dicevo una parola, e sulla mia faccia non ci sarebbero stati uno sguardo o un’emozione mentre gli facevo sputare l’anima.
Poi, col passare del tempo, io, poco a poco, mi liberai di tutta la faccenda. Sapevo ancora che il ricordo di mio padre che si menava l’uccello davanti a me nella stanza del tempo libero era assolutamente reale, ma, poco a poco, cominciai a capire, proprio perché ero io a ricordare l’episodio, che non significava necessariamente che mio padre l’avesse fatto. Cominciai a capire che magari lui si era dimenticato di tutta la faccenda. Era possibile che tutta la faccenda fosse talmente stramba e inspiegabile che mio padre l’aveva psicologicamente rimossa dai suoi ricordi, e che quando io, di punto in bianco (dal suo punto di vista), l’avevo ritirata in ballo nel furgone, lui non ricordasse di aver mai fatto una cosa cosí bislacca e inspiegabile come venire di sotto a menarsi minacciosamente l’uccello davanti a un bambino, e aveva pensato che mi fossi bevuto il cervello, e mi aveva lanciato quello sguardo che esprimeva tutto il suo disgusto. Cioè non ero proprio convinto che mio padre non se ne ricordava, ma cominciavo a considerare, poco a poco, la possibilità che l’aveva rimosso. Poco a poco, sembrava che la morale del ricordo di un episodio cosí strambo è: tutto è possibile. Dopo quell’anno, ero arrivato alla conclusione che, se mio padre era disposto a dimenticare tutta la faccenda di me nel furgone che tiravo in ballo il ricordo di quell’episodio, e a non tirarla piú in ballo, allora io ero disposto a dimenticare tutta la faccenda. Sapevo, e mi ci sarei giocato tutti e due i coglioni, che io non l’avrei mai piú tirata in ballo. Quando arrivai a questa conclusione riguardo all’intera faccenda, era piú o meno l’inizio di luglio, poco prima del 4 di luglio, che è anche il compleanno della mia sorellina, cosí, di punto in bianco (secondo loro), prendo e chiamo i miei chiedendo se potevo passare per il compleanno di mia sorella, e vederli nello speciale ristorante dove per tradizione portavano sempre mia sorella per il suo compleanno, visto che le piace tanto (il ristorante). Questo ristorante, che è il centro del nostro centro abitato, è italiano, costosetto, con decorazioni per lo piú scure, di legno, e i menú in italiano. (La nostra famiglia non è italiana.) Era buffo che proprio in quel ristorante, in occasione di un compleanno, mi sarei rifatto vivo coi miei, perché, quand’ero piccolo, loro sapevano che quello era per tradizione il «mio» ristorante preferito, dove volevo sempre andare per il mio compleanno. Chissà perché, da piccolo, mi ero fatto l’idea che fosse gestito dalla mala, cosa che su di me esercitava un fascino incredibile da piccolo, e rompevo sempre le scatole ai miei per farmici portare almeno per il compleanno, finché, poco a poco, crescendo, diventai troppo grande per quel posto, che chissà perché cominciò a diventare il ristorante preferito di mia sorella, come se l’avesse ereditato. Ha le tovaglie a quadretti rossi e neri, e tutti i camerieri sembrano malavitosi, e, sui tavoli del ristorante, ci sono sempre delle bottiglie di vino vuote con le candele ficcate nel buco, che si sono sciolte, e la cera di vari colori indurita le ricopre su tutti i lati formando righe e disegni variegati. Da piccolo, mi ricordo che avevo una strana attrazione per le bottiglie di vino tutte coperte di cera secca, e mio padre doveva dirmi in continuazione di non staccare la cera. Quando arrivai al ristorante in giacca e cravatta, loro erano già tutti lí, a tavola. Mi ricordo che mia madre sembrava veramente entusiasta e contenta di vedermi, e si capiva che era disposta a perdonarmi per quell’anno intero che non mi ero fatto vivo, tanto era contenta di sentire che eravamo di nuovo una famiglia.
Mio padre disse: – Sei in ritardo –. Accenni di una qualche espressione sulla faccia, zero.
Mia madre disse: – Abbiamo già ordinato, se per te va bene.
Mio padre disse che avevano ordinato anche per me, visto che ero arrivato con un po’ di ritardo.
Mi misi a sedere, e chiesi sorridendo cosa mi avevano ordinato.
Mio padre disse: – Pollo al piatto, te l’ha ordinato tua madre.
Io dissi: – Ma io odio il pollo. L’ho sempre odiato. Come avete fatto a dimenticare che odio il pollo?
Per un attimo ci guardammo tutti, intorno al tavolo, anche la mia sorellina, anche il suo ragazzo capelluto. Per una lunga frazione di secondo ci fu uno scambio di sguardi. Questo mentre il cameriere portava il pollo per tutti. Allora mio padre sorrise, e fece per scherzo il gesto di mollare un pugno e disse: – Levati dai coglioni –. Allora mia madre si mise una mano sul petto, come fa quando ha paura di mettersi a ridere troppo forte, e rise. Il cameriere mi mise il piatto davanti, e io feci finta di guardarlo con una smorfia, e tutti a ridere. Era buono.
Brevi interviste con uomini schifosi
B.I. n. 40, giugno ’97
BENTON RIDGE, OHIO
– È il braccio. A te non sembrerà questa gran dote, vero. Ma è il braccio. Lo vuoi vedere? Non è che ti fa schifo? Be’ eccolo qui. Ecco il braccio. Per questo mi chiamano Johnny Moncherino. È opera mia, sono un cinico che manco te l’immagini, io. Vedo che cerchi educatamente di non fissarlo. Avanti, guardalo. Non mi dà fastidio. Io nella mia testa non lo chiamo il braccio lo chiamo la Dote. Di’ un po’ come lo descriveresti? Forza. Hai paura che mi offendo? Vuoi sentire come lo descrivo io? Sembra un braccio che ha cambiato idea nella prima fase di gioco quand’era nella pancia di mamma con tutto il resto del corpo. È come una minuscola pinnuzza, è piccolo e sembra bagnato ed è piú scuro del resto del corpo. Sembra bagnato anche quando è asciutto. Certo non è granché come spettacolo. Di solito lo tengo nella manica finché non arriva il momento di sfoderarlo e usarlo per la Dote. Facci caso, la spalla è normale, tale e quale all’altra. È solo il braccio. Arriva soltanto al capezzolo della tetta qui sul petto, vedi? È come un poppante. Non è granché bello. Si muove bene, riesco a muoverlo di qua e di là. Se guardi da vicino all’estremità ci sono questi affarini e si capisce che all’inizio volevano diventare dita ma non si sono sviluppati. Quand’ero nella pancia. L’altro braccio... vedi? È un braccio normale, un po’ muscoloso visto che uso sempre quello. È normale e lungo e del colore giusto, è il braccio che faccio vedere sempre, il piú delle volte l’altra manica la tengo appuntata cosí dentro non sembra nemmeno che c’è un braccio. Però è forte. Il braccio dico. È duro da guardare ma è forte, certe volte li sfido a braccio di ferro con quello per mostrare quant’è forte. È una forte pinnuzza di poppante. Se ce la fanno a toccarlo. Io dico sempre che se pensano di non farcela a sopportarlo be’ non c’è problema, mica mi offendo. Lo vuoi toccare?
D.
– Va bene, va bene. Non ti preoccupare.
D.
– Il fatto è che... be’ per prima cosa c’è sempre qualche ragazza in giro. Non so se mi spiego. Giú alla fonderia, a Lanes. C’è un locale laggiú vicino alla fermata dell’autobus. Jackpot – il mio migliore amico – Jackpot e Kenny Kirk – Kenny Kirk è suo cugino, di Jackpot, e sono tutti e due piú avanti rispetto a me alla fonderia perché io ho finito la scuola e non sono entrato subito nel sindacato – sono davvero bellocci e hanno un aspetto normale e Ci Sanno Fare Con Le Donne non so se mi spiego, e ci sono sempre delle ragazze che bazzicano da quelle parti. Come un gruppo, un branco o un gruppo di tutti noi, bazzichiamo quel posto, beviamo qualche birra. Jackpot e Kenny vanno sempre con una o con un’altra e poi quelle che vanno con loro hanno le amiche. Hai presente. Insomma siamo un gran bel gruppo. Ti sei fatta il quadretto? E io mi metto a bazzicare con questa e con quella, e dopo un po’ la fase numero uno è che io attacco a raccontare com’è che mi chiamo Johnny Moncherino e del braccio. È una fase della cosa. Per far usare la Dote a qualche fichetta. Descrivo il braccio che è ancora nella manica e ne parlo come se fosse la cosa piú schifosa possibile e immaginabile. Quelle fanno una faccia come per dire Oh Poveretto Sei Troppo Duro Con Te Stesso Non Ti Dovresti Vergognare Del Braccio. E compagnia. Quanto sono carino e a loro si spezza il cuore a sentirmi parlare in quel modo di una parte di me soprattutto visto che non è colpa mia se sono nato con quel braccio. A quel punto quando loro attaccano con quella fase la fase successiva è che io gli chiedo se lo vogliono vedere. Dico quanto mi vergogno del braccio ma in qualche modo mi fido di loro che sembrano davvero gentili e se vogliono libero la manica e faccio uscire il braccio e gli lascio dare un’occhiata se pensano di riuscire a sopportarlo. Continuo la tiritera sul braccio finché non vogliono sentire piú niente. Certe volte è una ex di Jackpot quella che si mette a bazzicare il sottoscritto al Frame Eleven a Lanes e a dire che sono uno sensibile e che sa ascoltare non come Jackpot o Kenny e non riesce a credere che il braccio è brutto come dico io e tutto il resto. Oppure ci ritroviamo da lei nel cucinino o roba del genere e io attacco con Fa Cosí Caldo Che Mi Toglierei La Camicia Ma Non Lo Voglio Fare Perché Mi Vergogno Del Braccio. E roba simile. Sono tante, diciamo, le fasi. Non lo chiamo mai la Dote a voce alta credimi. Tocca pure se ti va di farlo. Una delle fasi è che so che dopo un po’ la ragazza comincia a trovarmi proprio palloso, si capisce, perché non parlo altro che del braccio e di quant’è bagnato e di come sembra una pinna ma quant’è forte ma come morirei se una ragazza carina e dolce e perfetta come secondo me è lei lo vedesse e restasse schifata, e si capisce che quelle chiacchiere cominciano a fargli due palle cosí e cominciano a pensare fra sé e sé che sono una specie di perdente ma ormai non possono piú tirarsi indietro perché in fondo sono state tutto quel tempo a dirmi tutte quelle belle stronzate sul ragazzo sensibile che sono e su come non mi dovrei vergognare e non è possibile che il braccio sia cosí brutto. In quella fase sono come strette all’angolo e se mi scaricano sanno benissimo che io potrei sempre dire È Per Via Del Braccio.
D.
– Di solito va avanti un paio di settimane, piú o meno. L’ultima è la fase di tipo critico dove gli faccio vedere il braccio. Aspetto che siamo soltanto io e lei da soli da qualche parte dopodiché tiro fuori il poppante. Lo faccio sembrare come se mi avessero convinto loro a farlo e adesso mi fido di loro ed è con loro che finalmente mi sento di poterlo tirare fuori dalla manica e farglielo vedere. E glielo faccio vedere proprio come ho appena fatto con te. Ci sono anche un altro paio di cosette che posso fare col braccio che sembrano anche peggio, ti faccio vedere... vedi? Lo vedi questo? È perché non c’è un gomito vero e proprio, è solo un...
D.
– Oppure ci metto sopra qualche unguento tipo Vaselina per farlo sembrare ancora piú bagnato e lucido. Il braccio non è proprio granché bello da vedere quando prendo e lo tiro fuori davanti a loro dammi retta. Per poco non si mettono a vomitare vedendo come glielo presento. Oh un paio sono scappate, certe sono schizzate fuori dalla porta. Ma la maggioranza? La maggioranza ingoia malamente un paio di volte e poi attacca Oh No No Non È Poi Tanto Brutto ma intanto guardano dall’altra parte e cercano di non guardare in faccia me che ho messo su questa faccia tutta timida e spaventata e fiduciosa che in quei momenti è una cosa che so fare con tanto di leggero tremolio del labbro. Ee? Ee ah? E ogni volta, tempo sí e no cinque minuti, prendono e si mettono a piangere. In un certo senso sono incazzate nere, capisci. Si ritrovano strette all’angolo e obbligate a dire che non può essere poi cosí brutto e non mi dovrei vergognare e poi lo vedono e io faccio in modo che sia proprio brutto, brutto brutto brutto e a quel punto che devono fare? Finta? Chi, queste stronzette di qui che si credono che Elvis è ancora vivo? Di sicuro non brillano quanto a materia grigia. Ogni volta le stronca. Si sentono ancora peggio se gli chiedo Oh Tesoruccio Che C’è Che Non Va, e com’è che piangi, È Per Il Braccio e quelle devono dire Non È Per Il Braccio, devono, devono cercare di far finta che non è per il braccio, si sentono tristi perché io mi vergogno tanto di una cosa che non è poi tutta questa cosa devono dire. Spesso con la faccia fra le mani e piangendo. La fase culminante poi è quella che prendo e mi vado a sedere accanto a lei e ora sono io quello che la deve consolare. Un fattore e lo so io quanto c’ho messo per scoprirlo è che quando mi metto ad abbracciarle e a confortarle le abbraccio con la parte buona. Non gli propino piú la Dote. Ora la Dote è bella che impacchettata dentro la manica e non si vede piú. Quelle si consumano gli occhi a forza di piangere e sono io quello che le abbraccia col braccio buono e dice Va Tutto Bene Non Piangere Non Essere Triste Sono Riuscito A Fidarmi Di Te Tu Non Sei Rimasta Disgustata Dal Mio Braccio E Questo Non Sai Quant’è Importante Per Me Non Capisci Mi Hai Liberato Dalla Vergogna Per Il Braccio Grazie Grazie e via dicendo mentre quelle mi piazzano la faccia sul collo e piangono, piangono. Certe volte fanno piangere pure me. Mi segui fin qui?
Q...
– Ho visto piú fica io di una tazza del cesso, bella mia. Mica ti racconto balle. Vaglielo pure a chiedere a Jackpot e a Kenny. È Kenny che l’ha soprannominato Dote. Vaglielo a chiedere va’.
B.I. n. 42, giugno ’97
PEORIA HEIGHTS, ILLINOIS
– Il morbido plop. Il leggero sibilo gassoso. I piccoli grugniti involontari. La speciale visione di un anziano all’urinatoio, il modo come si installa e piazza i piedi e prende la mira e poi si lascia sfuggire un sospiro infinito che è senz’altro inconsapevole.
– Era questo il suo ambiente. Sei giorni alla settimana ci stava. Il sabato doppio turno. Il tintinnabolio argentino dell’urina nell’acqua. Il fruscio invisibile di giornali sui grembi nudi. Gli odori.
D.
– Albergo storico superlusso di prima categoria. La hall piú raffinata, la toilette maschile in assoluto piú raffinata da una costa all’altra, poco ma sicuro. Marmo arrivato per nave dall’Italia. Le porte delle latrine di ciliegio stagionato. È dal 1969 che lui sta lí. Attrezzatura rococò e catini smerlati. Opulenta e riecheggiante. Una grande opulenta riecheggiante toilette per uomini d’affari, uomini facoltosi, uomini pieni di impegni e appuntamenti. Gli odori. Non chiedere degli odori. La differenza di odore fra certi uomini, la somiglianza dell’odore di tutti gli uomini. Ogni suono amplificato dal pavimento di pietra fiorentina. I gemiti del prostatico. Il sibilo dei lavandini. La lacerante estrazione di muco dalle profondità, lo schiocco occlusivo e porcellaneo. Il rumore di lussuose scarpe sul pavimento di dolomite. I borboglii inguinali. Le terrifiche laceranti esplosioni di gas e il rumore di qualcosa che colpisce l’acqua. Semiatomizzato dalle pressioni esercitate. Solido, liquido, gas. Tutti gli odori. L’odore come ambiente. Tutto il giorno. Nove ore al giorno. Starsene lí in bianco Buon Umore. Ogni rumore amplificato, leggermente riecheggiante. Uomini che entrano, uomini che escono. Otto latrine, sei urinatoi, sedici lavandini. Fai il conto. A che pensavano?
D...
– È lí che sta lui. Nel centro sonico. Dove prima c’era il banchetto del lustrascarpe. Nello spazio ritagliato ad arte fra la fine dei lavandini e l’inizio delle latrine. Uno spazio fatto apposta per lui. Il vortice. Appena fuori dalla lunga cornice dello specchio, accanto ai lavandini – un lavandino unico di marmo fiorentino, sedici catini smerlati, foglie di lamina dorata intorno alle rubinetterie, specchio di ottima lastra danese. Dove uomini agiati si tolgono le caccole dall’angolo degli occhi e si strizzano i pori, si soffiano il naso nei lavandini e se ne vanno senza sciacquare. Lui stava tutto il giorno con i suoi asciugamani e le sue valigette personali di articoli da toilette. Una traccia di balsamo nel sussurrio dei tre fori di ventilazione. La trenodia dei fori di ventilazione si sente solo a stanza vuota. Lui sta lí anche quando è vuota. È il suo lavoro; è la sua carriera. Tutto vestito di bianco come un massaggiatore. Maglietta Hanes tutta bianca e pantaloni bianchi e scarpe da ginnastica che bastava una macchiolina e le doveva buttare. Prende valigette e soprabiti, li sorveglia, si ricorda senza chiederlo a chi appartengono. Parlando il meno possibile data l’acustica. Compare al fianco degli uomini per dargli l’asciugamano. Un’impassibilità che è annullamento. Questa è la carriera di mio padre.
D...
– Le belle porte delle latrine arrivano a trenta centimetri dal pavimento... perché mai? Perché questa tradizione? Discende dalle stalle degli animali? C’è un nesso fra le stalle e le latrine? Lussuose latrine che consentono una privacy visiva e nient’altro. Semmai amplificano i rumori all’interno, megafoni verticali. Si sente tutto. Il balsamo rende piú dolci gli odori peggiorandoli. Le punte delle scarpe da cerimonia dissacrate lungo la fila di spazi sotto le porte. Le latrine piene dopo pranzo. Una lunga scatola di scarpe rettangolare. Alcuni canticchiano, parlano fra sé a voce alta, dimenticando che non sono soli. I flati e le tossi e gli schiocchi polposi. Defecazione, escrezione, espulsione, deiezione, purgazione, svuotamento. L’inconfondibile brontolio del distributore di carta igienica. Il ticchettio occasionale di tagliaunghie o forbicine depilatorie. Efflusso. Emissione. Minzione, trasudazione, orinazione, scarica, evacuazione... quanti sinonimi: perché? cosa cerchiamo di dire a noi stessi in cosí tanti modi?
D...
– La collisione olfattiva di colonie, deodoranti, tonici per capelli, cera da baffi dei vari uomini. Il ricco odore di estraneo e non lavato. Nelle latrine alcune scarpe toccano la compagna esitanti, titubanti, come se l’annusassero. L’umido biascichio di natiche che si spostano sui sedili imbottiti. La minuscola vibrazione di ogni singola pozza di vaso. I minimi residui che sopravvivono allo sciacquone. L’incessante gorgoglio e stillicidio degli orinatoi. La puzza indolica di cibo putrefatto, l’afrore eccrino sui copriwater, la brezza uremica che segue ogni scarico. Uomini che tirano l’acqua con i piedi. Uomini che toccano la rubinetteria solo con la carta. Uomini che trascinano la carta igienica fuori dalle latrine, come coda di cometa, la carta igienica ospitata nell’ano. Ano. La parola ano. Gli ani di benestanti schierati sull’acqua della tazza, a flettersi, corrugarsi, distendersi. Morbide facce tutte strizzate per lo sforzo. Vecchi che richiedono assistenza disgustosa di tutti i generi: abbassare e sistemare i pantaloni di un altro uomo, pulire un altro uomo. Silenzioso, muto, impassibile. Spazzolare le spalle di un altro uomo, sgrullare un altro uomo, togliere un pelo pubico dalla piega dei calzoni di un altro uomo. Per qualche moneta. Il cartello la dice lunga. Uomini che lasciano la mancia, uomini che non la lasciano. L’annullamento non può essere troppo completo altrimenti si dimenticano che lui è lí quando arriva il momento di lasciare la mancia. Il trucco della sua condotta sta nell’apparire solo temporaneamente, nell’esistere sempre e soltanto laddove necessario. Aiuto senza intromissione. Servizio senza servilismo. Nessun uomo vuole sapere che un altro può sentire il suo odore. Miliardari che non lasciano la mancia. Elegantoni che schizzano la tazza e lasciano un nichelino. Ereditieri che rubano gli asciugamani. Magnati che si scaccolano il naso col pollice. Filantropi che buttano la cicca del sigaro in terra. Villani rifatti che sputano nel lavandino. Ricconi sfondati che non tirano l’acqua e non si fanno scrupolo di lasciare che sia qualcun altro a farlo perché è letteralmente cosí che sono abituati... il vecchio detto Fai come se fossi a casa tua.
– Lui si candeggiava da solo gli abiti da lavoro, li stirava. Mai una lamentela. Impassibile. Il genere d’uomo che rimane tutto il giorno allo stesso posto. Certe volte addirittura le suole delle scarpe si vedevano là sotto, nelle latrine, di uomini che vomitavano. La parola vomito. La sola parola. Uomini che si sentivano male in una toilette acustica. Tutti i rumori mortiferi in sua presenza ogni giorno. Prova a immaginare. Le pacate imprecazioni di uomini costipati, uomini con colite, ileo, budella irritabili, lienteria, dispepsia, diverticoli, ulcere, sbocchi di sangue. Uomini con la colostomia che gli mollano la sacca da buttare. Un dignitario dell’umano. Sente senza sentire. La vista basta e avanza. Il lieve cenno di assenso che nelle toilette maschili è ringraziamento e rinvio al tempo stesso. I disgustosi odori metastasizzati di colazioni continentali e cene di lavoro. Lui potendo faceva il doppio turno. Il pane sulla tavola, un tetto, figli da tirare su. Gli si gonfiavano i plantari a stare fermo. I piedi nudi erano biancomangiare. Si faceva la doccia tre volte al giorno strofinandosi fino all’osso ma il lavoro non lo mollava. Mai una parola.
– La porta la dice lunga. UOMINI. Non lo vedo dal 1978 e so che è ancora lí, tutto in bianco, fermo. A distogliere gli occhi per preservare la loro dignità. E la sua? I suoi cinque sensi? Com’è che fanno le tre scimmiette? Il suo compito è stare lí come se non ci fosse. Non proprio. C’è il trucco. Uno speciale niente a cui guardare.
D.
–Non l’ho imparato in una toilette maschile, te l’assicuro.
D...
– Immagina di non esistere finché uno non ha bisogno di te. Essere lí e al tempo stesso non esserci. Una voluta semitrasparenza. Provvisoriamente lí, fortuitamente lí. Il vecchio detto Sono qui per servirla. La sua carriera. Capofamiglia. Ogni mattina in piedi alle sei, ci saluta con un bacio, una fetta di pane tostato da mangiare sull’autobus. Riusciva a mangiare davvero nella pausa. Un fattorino sarebbe andato alla gastronomia. La pressione prodotta dalla pressione. I ricchi rutti dei pranzi in conto spese. I resti sullo specchio di sebo e pus e detriti di starnuti. Ventisei no sette anni nella stessa postazione. L’austero cenno della testa col quale riceveva una mancia. Il grazie impercettibile ai clienti abituali. Qualche volta un nome. Tutti quei solidi che ruzzolavano fuori da quei grossi morbidi caldi grassi bianchi ani, che si flettevano. Te lo immagini? Assistere a una simile evacuazione. Vedere uomini facoltosi ridotti all’elementare? La sua carriera. Un uomo in carriera.
D.
– Perché si portava il lavoro a casa. La faccia che metteva su nella toilette per uomini. Non riusciva a togliersela. Il cranio si era modificato per adattarsi. Quell’espressione o meglio mancanza di espressione. Presente e nient’altro. Attento ma assente. La sua faccia. Molto piú che riservata. Come se si conservasse eternamente per un’eventuale prova.
D...
– Non mi metto niente di bianco. Nemmeno una cosa bianca, te l’assicuro. Io o espello in silenzio o non lo faccio. Lascio la mancia, io. Non me lo dimentico mai che lí c’è qualcuno.
– Sí, se ammiro la forza morale di questi lavoratori di infima categoria? Lo stoicismo? La tenacia stile Vecchia Europa? Starsene lí tutti quegli anni, mai un giorno di malattia, a servire? O ti stai chiedendo se magari non li disprezzo, non provo disgusto, disistima nei confronti di chiunque si annulla in quel miasma e distribuisce asciugamani in cambio di monete?
D.
– ...
D.
– Quali erano le due alternative?
B.I. n. 2, ottobre ’94
CAPITOLA, CALIFORNIA
– Tesoro, dobbiamo parlare. È un po’ che lo dobbiamo fare. Ne sento il bisogno, cioè, mi sembra il caso. Vuoi metterti seduta?
D.
– Guarda, darei qualsiasi cosa, ma ci tengo a te e darei qualsiasi cosa per non farti soffrire. È questo che mi preoccupa, credimi.
D.
– Perché ci tengo. Perché ti amo. E non poco a essere davvero onesto.
D.
– Che certe volte ho paura di farti soffrire. E tu non te lo meriti. Di soffrire, dico.
D., D.
– Perché, a essere onesto, i miei trascorsi non sono granché. Ogni volta che stringo un rapporto intimo con una donna va sempre a finire che lei soffre, in un modo o nell’altro. A essere onesto, certe volte ho paura di essere uno di quelli che usano le persone, le donne. Ho paura certe vol... no, accidenti, con te voglio essere onesto perché ci tengo a te e tu te lo meriti. Tesoro, i miei trascorsi in fatto di donne dicono che è meglio perdermi che trovarmi. E ultimamente temo sempre di piú che tu possa soffrire, che io possa farti soffrire come a quanto pare ho fatto soffrire le altre che...
D.
– Che ho un passato, una costante per cosí dire, per esempio di partire in quarta all’inizio di un rapporto, e di stargli appresso anima e corpo e di fare una corte spietata e di essere innamorato fradicio dal primissimo istante, di dire Ti Amo fin dall’inizio, di cominciare subito a parlare al futuro, di non sapere piú che dire o fare per dimostrare quanto ci tengo, e ovviamente l’effetto è, manco a dirlo, che a quanto pare loro finiscono per credere davvero che sono innamorato sul serio – e lo sono – e poi, secondo me, a quanto pare finiscono per sentirsi abbastanza amate e per cosí dire abbastanza sicure da cominciare a dire Ti Amo anche loro e ammettere che anche loro sono innamorate di me. E non è – fammelo sottolineare perché giuro su Dio è la pura verità – non è che quando lo dico non lo penso.
D.
– Be’, è comprensibile che tu ti preoccupi di sapere a quante l’ho detto, non dico di no, ma se per te va bene non è di questo che vorrei parlare, perciò se per te va bene lascerei perdere cose tipo numeri e nomi e cercherei semplicemente di essere completamente onesto con te riguardo alle mie di preoccupazioni, perché ci tengo. Ci tengo moltissimo a te, tesoro. Davvero moltissimo. Sarà anche insicurezza, ma per me è molto importante che tu ci creda e lo tenga presente nel corso della nostra chiacchierata, che anche se quello che dico o temo di poter fare finirà in qualche modo per farti soffrire questo non diminuisce il fatto e non significa in nessun modo che non ci tengo o che ogni volta che ti ho detto Ti Amo non lo pensavo. Ogni volta. Spero che ci credi. Te lo meriti. E in piú è vero.
D...
– Ma il fatto è che a quanto pare è come se per un po’ tutto quello che dico e faccio avesse l’effetto di indurle a credere che sia un rapporto serio, serissimo, si potrebbe quasi dire che in qualche modo si cullano nell’illusione di un futuro.
D.
– Perché a quel punto la, diciamo cosí, costante sembra essere che appena ti ho avuto, per cosí dire, e sei coinvolta nel rapporto quanto lo sono stato io, allora è come se fossi costituzionalmente incapace in qualche modo di spingere la cosa fino in fondo e portarla a termine e fare un... qual è la parola giusta...
D.
– Sí, d’accordo, è quella la parola, anche se devo ammettere che il modo come la dici mi mette una paura e un terrore tremendi che stai già soffrendo e non prendi quello che cerco di dirti nello spirito con cui cerco di parlartene, che poi sarebbe che io onestamente ci tengo a te tanto da confidarti in tutta onestà il fatto che mi preoccupa anche solo l’eventualità di farti soffrire, il che credimi è in assoluto l’ultima cosa che voglio.
D.
– Che, esaminando i trascorsi e cercando di cavarne qualcosa, è come se nella prima fase intensa qualcosa in me andasse al massimo dei giri portandomi sí vicino al punto di impegnarmi, poi però sembra non riuscire a spingere la cosa fino in fondo per diventare davvero un impegno a fare qualcosa di serio, di proiettato verso il futuro. Come direbbe Chitwin sono uno che non conclude. C’è un minimo di senso in tutto questo? Mi sa che non lo sto dicendo granché bene. La vera sofferenza a quanto pare arriva perché questa incapacità, a quanto pare, si fa sentire solo dopo che ho fatto e detto di tutto e mi sono comportato nei modi piú impensati e a un certo livello so benissimo che questo le porterà a credere che voglio un vero impegno futuro almeno quanto loro. Insomma, a essere onesto, questi sono i miei trascorsi in certe cose, e ai miei occhi indicano che per le donne sono uno che è meglio perdere che trovare, il che mi preoccupa. E mica poco. A quanto pare posso sembrare il perfetto ideale di una donna fino a un certo punto del rapporto quando ormai loro hanno lasciato cadere tutte le barriere e le difese e sono innamorate fradice, che naturalmente a quanto pare è quello che volevo fin dall’inizio e ho fatto tanto e le ho corteggiate a tutto spiano per portarle fin lí, e so perfettamente di aver fatto lo stesso con te, e si tratta di diventare seri e pensare in termini di futuro e alla parola impegno e allora – e tesoro fidati questo è difficile da spiegare perché io stesso non è che lo capisco poi tanto bene – ma allora in quel preciso istante, è sempre la stessa storia, per come riesco a vederla io è come se qualcosa in me per cosí dire invertisse la spinta e ora fosse la retromarcia a andare al massimo dei giri.
D.
– L’unica cosa che riesco davvero a capire è che è come se mi mettessi a dare i numeri e sentissi di dover invertire la spinta e tirarmi fuori, solo che di solito non ne sono poi cosí sicuro, non capisco se voglio davvero uscirne o se sto semplicemente dando i numeri, e anche se sto dando i numeri e voglio uscirne, al tempo stesso non le voglio perdere, a quanto pare, perciò mi metto a dare un sacco di segnali contrastanti e dico e faccio un sacco di cose che sembrano confonderle e sballottarle di qua e di là e farle soffrire, e credimi questo finisce sempre col farmi sentire un mostro, anche mentre lo faccio. Che a dirti la verità è quello che mi sta facendo dare i numeri riguardo a noi due, perché strapazzarti o farti stare male è in assoluto l’ultima cosa al...
D., D.
– La pura verità davanti a Dio è: non lo so. Io non lo so. Non sono riuscito a capirlo. Se mi sono messo qui seduto a parlare con te è perché cerco di provare che ci tengo davvero a te e perché voglio essere onesto su me stesso e i miei trascorsi amorosi e per farlo nel mezzo di qualcosa invece che alla fine. Perché guardando ai miei trascorsi a quanto pare è solo alla fine di un rapporto che sembro disposto a parlare chiaramente di certe mie paure su me stesso e i miei trascorsi di tipo che fa soffrire le donne che lo amano. Cosa che, naturalmente, le fa soffrire, l’improvvisa onestà cioè, e serve a tirarmi fuori dal rapporto, che a posteriori temo possa essere stato il mio piano inconscio fin dall’inizio, nel senso di tirarlo in ballo e alla fine essere onesto con loro, forse. Non ne sono sicuro.
D...
– Comunque la verità è che non sono sicuro di niente. Cerco solo di guardare onestamente ai miei trascorsi e di capire onestamente quale sembra essere lo schema e qual è la probabilità di continuare a usare questo schema con te, e credimi darei qualsiasi cosa per evitarlo. Ti prego credimi, farti del male è l’ultima cosa che voglio, tesoro. Questo tirarsi indietro e l’incapacità di spingere la cosa fino in fondo e come direbbe Chitwin a un passo dall’accordo... è su questo che voglio cercare di essere onesto con te.
D...
– E piú mi do da fare e insisto a stargli appresso all’inizio, corteggiandole e tallonandole e sentendomi completamente innamorato, piú l’intensità di quella spinta sembra essere direttamente proporzionale all’intensità e all’urgenza con la quale a quanto pare trovo poi la maniera di tirarmi indietro. I trascorsi indicano che questa sorta di improvvisa inversione della spinta avviene proprio quando ho la sensazione di averle. Qualunque cosa significhi averle – a essere onesto non lo so mica bene. A quanto pare significa quando so per certo e sento che ormai sono coinvolte nel rapporto e nella prospettiva futura quanto lo sono io. Lo sono stato. Lo ero. Succede in frettissima. È terribile quando succede. Certe volte non so nemmeno cos’è successo finché non è finito e io ci ripenso e cerco di capire come lei abbia potuto soffrire tanto, forse era pazza e attaccata in modo morboso e dipendente o è che io nei rapporti sono uno che è meglio perdere che trovare. Succede con una velocità incredibile. Sembra al tempo stesso veloce e lento, come un incidente d’auto, dove sembra quasi che fai da spettatore e non che sei coinvolto. Ha un senso quello che dico?
D.
– A quanto pare devo continuamente ammettere che ho il terrore di non farmi capire da te. Che non riuscirò a spiegarmi abbastanza bene, o che tu in qualche modo senza volerlo interpreterai male quello che dico e lo stravolgerai e ne soffrirai. Questo mi mette un terrore incredibile, te lo devo dire.
D.
– E va bene. Questa è la parte peggiore. Dozzine di volte. Almeno. Quaranta, forse quarantacinque volte. A essere onesto, forse di piú. Cioè molte di piú, temo. Direi che non lo so piú nemmeno io.
D...
– Superficialmente, in senso specifico, sembravano tanto diversi fra loro, i rapporti e come sono andati a finire. Tesoro, ma in qualche modo ho cominciato a capire che sotto sotto erano tutti in buona parte uguali. Lo stesso schema di base. In un certo senso, tesoro, il fatto di averlo capito mi riempie di speranza, perché forse significa che sto diventando maggiormente capace di capire me stesso e di essere onesto con me stesso. A quanto pare sto sviluppando una sorta di coscienza in questo campo. Che una parte di me trova terrorizzante, a essere onesto. La partenza cosí sparata, quasi al massimo dei giri, e sentire come se tutto dipendesse dal fargli abbattere le difese e buttarsi a capofitto e amarmi in modo totale come io amo loro, poi arriva questo fatto che do i numeri e inverte la spinta. Ammetto che l’idea di avere una coscienza in questo campo mi mette addosso una certa strizza, come se a quanto pare rubasse tutto lo spazio di manovra in qualche modo. Che è assurdo, lo so, perché all’inizio dello schema io non voglio spazio di manovra, lo spazio di manovra è l’ultima cosa che voglio, quello che voglio è buttarmi a capofitto e riuscire a farle buttare a capofitto insieme a me e a farle credere in me e al fatto di stare insieme per sempre. Giuro, praticamente ogni volta a quanto pare ho creduto davvero che era quello che volevo. Per questo non mi sembra di essere stato poi tanto cattivo o roba del genere, o di mentire davvero o roba del genere – anche se alla fine, quando sembro aver invertito la spinta e all’improvviso mi tiro completamente fuori, loro credono quasi sempre che gli ho mentito, che se pensavo davvero quello che ho detto non avrei mai fatto marcia indietro a quel modo. E io ancora, a essere onesto, non sono del tutto convinto di averlo fatto: mentito. Sempre che non stia solo razionalizzando. Sempre che non sia una specie di psicopatico capace di razionalizzare qualsiasi cosa e incapace di vedere il male che sta sfacciatamente perpetrando, o a cui non frega un accidente ma vuole continuare a illudersi che gliene frega cosí può continuare a considerarsi un tipo in fondo decente. È tutto incredibilmente confuso, e anche per questo esito tanto a tirarlo fuori con te perché ho paura che non saprò renderlo piú chiaro e che tu mi fraintenda e ne soffra, ma ho deciso che se ci tengo a te devo avere il coraggio di comportarmi davvero come se ci tenessi a te, di mettere il fatto che ci tengo a te davanti alle mie squallide paure e confusioni.
D.
– Ma certo tesoro, ti pare. Spero solo che tu non sia sarcastica. In questo momento sono cosí scombussolato e terrorizzato che forse manco me ne accorgerei.
D.
– Lo so che alcune di queste cose avrei dovuto dirtele prima, schema compreso. Prima che ti trasferissi qui armi e bagagli, il che credimi significa cosí... mi ha fatto davvero sentire che ci tenevi davvero, a noi, a stare con me, e voglio dimostrarti che ci tengo e che sono onesto con te quanto tu lo sei stata con me. Soprattutto sapendo che sono stato io a insistere tanto che ti trasferissi qui. La scuola, il tuo appartamento, doverti liberare del gatto – ti prego non mi fraintendere – fare tutto questo solo per stare con me significa tantissimo ai miei occhi, ed è soprattutto per questo che mi sento davvero come se ti amassi e ci tenessi cosí tanto a te, troppo per non sentirmi terrorizzato all’idea di poterti in qualche modo strapazzare o farti prima o poi soffrire, che fídati dati i miei trascorsi in questo campo è una possibilità e dovrei essere uno psicopatico integrale per non prenderla in considerazione. È questo che voglio riuscire a rendere abbastanza chiaro da farmi capire. Comincia a avere un senso anche minimo?
D.
– Non è cosí semplice. Almeno non per come la vedo io. E credimi il mio modo di vederla non è che sono un tipo in tutto e per tutto decente che non fa mai niente di male. Un tipo migliore probabilmente ti avrebbe detto dello schema e ti avrebbe messa in guardia prima di andare a letto insieme, a essere onesti. Perché so di essermi sentito in colpa dopo che l’abbiamo fatto. Andare a letto insieme. Per quanto incredibilmente magico e estasiante e giusto è stato, sei stata. Probabilmente mi sentivo in colpa perché ero stato io a insistere tanto per farlo cosí presto, e anche se tu sei stata completamente onesta a dirmi che ti metteva a disagio farlo cosí presto e io già allora ti rispettavo e ci tenevo un sacco a te e volevo rispettare i tuoi sentimenti ma ero già cosí incredibilmente attratto da te, uno di quei colpi di fulmine quasi irresistibili, e mi sentivo cosí sopraffatto dalla cosa che anche senza averne necessariamente l’intenzione so di essermi buttato a capofitto troppo in fretta e probabilmente ti ho fatto pressione e ti ho spinta a buttarti a capofitto e a venire a letto con me, anche se adesso credo che a un certo livello probabilmente sapevo quanto mi sarei sentito in colpa e a disagio dopo.
D.
– Non lo sto spiegando bene. Non riesco a farmi capire. E va bene, ora do davvero i numeri se vedo che ti senti ferita. Ti prego credimi. Il vero motivo per cui voglio che parliamo dei miei trascorsi e di quello che ho paura possa succedere è che non voglio che succeda, capisci? che non voglio invertire la spinta all’improvviso cominciando a cercare di districarmi dopo che hai rinunciato a tanto e ti sei trasferita qui e io adesso devo... adesso che siamo cosí coinvolti. Vorrei tanto farti capire che se ti racconto come vanno sempre le cose è per dimostrarti che non voglio che capiti la stessa cosa con te. Che non voglio diventare irritabile o ipercritico o sottrarmi e scomparire per giorni e giorni né essere spudoratamente infedele in modo che mi scopri di sicuro né servirmi di quei vigliacchi sistemi di merda che ho usato prima per tirarmi fuori da qualcosa che mi era costato mesi di tallonamento serrato e di fatica per cercare di fare in modo che l’altra persona si buttasse a capofitto con me. Ha senso questo? Ci credi che sto cercando onestamente di onorarti mettendoti in guardia sul mio conto, in un certo senso? Che sto cercando di essere onesto anziché disonesto? Che il modo migliore di evitare questo schema dove tu soffri e vieni abbandonata e io mi sento una merda è cercare di essere onesto per una volta? Anche se avrei dovuto farlo prima? Anche se ammetto che magari puoi interpretare quello che dico adesso come disonesto, come se cercassi in qualche modo magari di farti dare i numeri tanto che prendi e te ne vai e io mi tiro fuori dalla cosa? Anche se non credo di farlo per questo, ma a essere completamente onesto non ne sono sicuro al cento per cento? Rischiare questo con te? Lo capisci? Che sto facendo di tutto per amarti? Che ho il terrore di non saper amare? Che ho paura di essere magari costituzionalmente incapace di fare altro che tallonare e sedurre e poi scappare, buttarmi a capofitto e poi fare retromarcia, senza essere mai onesto con nessuno? Che non sarò mai uno che conclude? Che potrei essere uno psicopatico? Riesci a immaginare quanto mi costa dirti questo? Che ho il terrore che dopo averti detto tutto questo mi sentirò cosí in colpa e mi vergognerò tanto da non riuscire nemmeno a guardarti o a starti accanto, sapendo che sai tutto questo di me e avrò continuamente paura di quello che pensi? Che è addirittura possibile che questo mio cercare onestamente di evitare lo schema di inviare segnali contrastanti e poi sottrarmi è semplicemente un altro modo per sottrarmi? O per fare in modo che sia tu a sottrarti, adesso che ti ho avuta, e forse in fondo in fondo sono un tale vigliacco di merda che non mi voglio prendere manco l’impegno di sottrarmi da solo, che in qualche modo voglio costringere te a farlo?
D., D.
– Queste sono domande giustissime, tesoro, perfettamente comprensibili, e ti giuro che farò del mio meglio per rispondere nel modo piú onesto possibile.
D...
– C’è soltanto un’ultima cosa che sento di doverti dire prima, però. Cosí scopriamo le carte una volta per tutte e non ci sono piú segreti. Ho il terrore di dirtelo, ma lo devo fare. Dopo toccherà a te. Ma ascolta: non è una bella cosa. Ho paura che possa farti soffrire. Non ti sembrerà affatto bella, temo. Puoi farmi il favore di come dire farti forza e promettermi che cercherai di non reagire per un paio di secondi dopo che te l’avrò detto? Possiamo parlarne prima che tu reagisca? Me lo prometti?
B.I. n. 49, agosto ’97
APPLETON, WISCONSIN
– È al terzo appuntamento che le invito a casa. È importante capire che, se si arriva addirittura a un terzo appuntamento, tra noi deve esistere una qualche specie di affinità palpabile, qualcosa che mi fa intuire che ci stanno. Forse ci stanno [flessione della dita sollevate a indicare le virgolette] non è un’espressione molto felice. Cioè, diciamo: [flessione delle dita sollevate a indicare le virgolette] partecipano. Nel senso che si uniscono a me nel contratto e nell’attività che ne segue.
D.
– Né sono in grado di spiegare come intuisco questa misteriosa affinità. Questa intuizione che la disponibilità a starci non è totalmente da escludere. Qualcuno una volta mi ha raccontato di una professione australiana nota come [flessione delle dita sollevate] sessuologo dei polli in...
D.
– Ora faccia un attimo attenzione. Sessuologo dei polli. Siccome le galline hanno un valore commerciale molto piú alto dei maschi, dei galli, a quanto pare è fondamentale stabilire il sesso di un pulcino appena uscito dall’uovo. Per sapere se è il caso di spendere o meno il capitale per allevarlo, capisce. Un gallo non vale praticamente niente, a quanto pare, sul mercato. Le caratteristiche sessuali di un pulcino appena uscito dall’uovo, però, sono tutte all’interno, ed è impossibile dire a occhio nudo se un dato pulcino è gallina o gallo. Almeno, questo è quello che mi hanno raccontato. Un sessuologo dei polli professionista, però, lo capisce lo stesso. Il sesso. È in grado di passare in rassegna una nidiata di pulcini appena usciti dall’uovo, di esaminarli uno alla volta usando soltanto gli occhi, e di dire al pollicoltore quali pulcini tenere e quali sono galli. I galli bisogna lasciarli morire. «Gallina, gallina, gallo, gallo, gallina» eccetera eccetera eccetera. Questo in Australia, a quanto pare. La professione. E quasi sempre hanno ragione. Ci azzeccano. Stabilito che il volatile è una gallina viene allevato per diventare gallina e risultare un investimento per il pollicoltore. La cosa che il sessuologo dei polli non è in grado di fare, però, è spiegare come fa a saperlo. Il sesso. A quanto pare spesso si tratta di una professione patrilineare, tramandata di padre in figlio. Australia, Nuova Zelanda. Mettetegli in mano un pulcino appena nato, un giovane gallo diciamo, e chiedetegli come fa a dire che è un gallo, e il sessuologo dei polli professionista a quanto pare scuoterà le spalle dicendo: «A me sembra un gallo». Aggiungendo sicuramente «compare», là dove io o lei aggiungeremmo «amico mio» o «signore».
D...
– È l’analogia piú calzante che so fornire per spiegarlo. Come un misterioso sesto senso, forse. Non è che ci azzecco il cento per cento delle volte. Ma ne rimarrebbe sorpresa. Siamo sull’ottomana, beviamo qualcosa, ci godiamo la musica, facciamo due chiacchiere. È il nostro terzo appuntamento, sera tardi, dopo la cena e magari un film o due salti in discoteca. Mi piace tantissimo ballare. Non siamo seduti vicini sull’ottomana. Di solito io sono a un’estremità e lei all’altra. Anche se è solo un’ottomana di un metro e mezzo. Non è certo un mobile dei piú lunghi. In ogni caso, il punto è che non abbiamo un atteggiamento particolarmente intimo. Molto disinvolto eccetera. È in atto un complicato ricchissimo linguaggio corporeo che si è imposto sul tempo fin lí trascorso l’uno in compagnia dell’altra, sul quale non mi addentrerò per non annoiarla. Insomma. Quando intuisco che è il momento giusto – sull’ottomana, comodi, a bere, ascoltando magari un po’ di Ligeti – dico, senza un’atmosfera o qualche accenno introduttivo veri e propri: «Come la prenderesti se ti legassi?» Queste sei parole. Cosí. Alcune rifiutano su due piedi. Ma è una percentuale minima. Davvero minima. Direi scandalosamente minima. So se succederà nel momento stesso in cui lo chiedo. Lo capisco quasi sempre. Ripeto, non so spiegare esattamente come. C’è sempre un momento di assoluto silenzio, pesante. Naturalmente lei saprà che i silenzi sociali hanno le trame piú svariate, e comunicano tantissimo. Il silenzio c’è sempre, che segua un rifiuto o meno, che io mi sia sbagliato sul conto della [flessione delle dita sollevate a indicare le virgolette] gallina o meno. Il suo silenzio, e il peso che ha... una reazione perfettamente naturale a un simile mutamento nel carattere della conversazione fin lí disinvolta. E porta bruscamente a capo di tutte le tensioni romantiche e gli accenni e il linguaggio corporeo dei primi tre appuntamenti. Il primo appuntamento o quelli immediatamente successivi sono di una ricchezza strabiliante dal punto di vista psicologico. Lei lo saprà sicuramente. Ogni sorta di rituale di corteggiamento, il gioco delle valutazioni, dei giudizi. Dopo segue sempre quel silenzio di otto battute. Devono consentire alla domanda di [flessione delle dita] imprimersi. Questa era un’espressione di mia madre, a proposito. Lasciare che questo e quest’altro [flessione delle dita] si imprima, e guarda caso descrive quasi alla perfezione quello che succede.
D.
– Viva e vegeta. Abita con mia sorella e il marito e i due figli. Altroché se è viva. Non è che... stia pur certa che non mi illudo che la bassa percentuale di rifiuti sia dovuta al mio fascino irresistibile. Non è cosí che funziona una simile attività. Anzi, è uno dei motivi per cui do la possibilità di scegliere in un modo cosí sfrontato e apparentemente indelicato. Mi astengo da qualsiasi tentativo di affascinare o blandire. Perché so, benissimo, che la loro reazione alla proposta dipende da fattori interni. Alcune partecipano volentieri. Poche altre no. Tutto qui. L’unico vero [flessione delle dita] talento che professo è la capacità di valutarle, di vagliarle, in modo che quando... cosí che una parte preponderante dei terzi appuntamenti sono, se vogliamo, [flessione delle dita] galline anziché [flessione delle dita] galli. Uso questi tropi aviari come metafore, non certo per denotare i soggetti ma piuttosto per enfatizzare la mia capacità inanalizzabile di sapere, a intuito, fin dal primo appuntamento, se sono, se vogliamo, [f.d.d.] mature per la proposta. Di farsi legare. Io la metto semplicemente cosí. Non la rendo migliore e non cerco affatto di farla sembrare piú [prolungata f.d.d.] romantica o esotica di com’è. Ora, veniamo ai rifiuti. I rifiuti assai di rado sono ostili, assai di rado, e soltanto se il soggetto in questione di fatto desidera davvero partecipare ma è in conflitto o è sprovvisto dei mezzi emotivi per accettare quel desiderio e perciò deve avvalersi dell’ostilità alla proposta come mezzo per assicurare a se stessa che un desiderio o un’affinità del genere non esistono. Questo a volte è noto come [f.d.d.] codice di avversione. È molto facile scorgerlo e decifrarlo, e di conseguenza è praticamente impossibile prendere l’ostilità su un piano personale. I rari soggetti sui quali mi sono semplicemente sbagliato, d’altra parte, spesso ne risultano divertiti, o a volte incuriositi e quindi pieni di domande, ma in ogni caso alla fine si limitano a declinare la proposta dicendolo chiaro e tondo. Sono questi i galli che ho scambiato per galline. Succede. Secondo i miei ultimi calcoli, ho ricevuto dei rifiuti solo nel 15 per cento dei casi. Al terzo appuntamento. In effetti è una cifra un tantino alta, perché comprende i rifiuti ostili, isterici o ingiuriosi, che non derivano – almeno secondo me – che non derivano dalla mia valutazione erronea di un [f.d.d.] gallo.
D.
– La prego ancora una volta di notare che io non ho né fingo di avere una conoscenza specializzata in materia di pollicoltura o gestione professionale delle covate. Uso le metafore solo per comunicare l’evidente ineffabilità della mia intuizione riguardo alle possibili partecipanti al [f.d.d.] gioco che propongo. Né, la prego inoltre di notare, faccio cose tipo toccarle o civettare in alcun modo con loro prima del terzo appuntamento. Né, al terzo appuntamento, mi butto addosso o mi avvicino in alcun modo mentre lancio la proposta. Lo propongo senza mezzi termini ma senza accenni di minaccia dalla mia estremità dell’ottomana di un metro e mezzo. Non mi impongo in nessun modo. Non sono un dongiovanni. So cosa prevede il contratto, e non prevede seduzione, conquista, relazione, o algolagnia. Quello che prevede è il mio desiderio di risolvere alcuni miei complessi interiori conseguenza dei rapporti alquanto irregolari avuti nell’infanzia con mia madre e la mia sorella gemella. Non si tratta di [f.d.d.] S&M, e io non sono un [f.d.d.] sadico, e non sono interessato ai soggetti che desiderano sentire [f.d.d.] dolore. Io e mia sorella siamo gemelli dizigotici, a proposito, e adesso da adulti non ci somigliamo quasi per niente. Quello che io prevedo, quando me ne esco cosí, di punto in bianco, a chiedere se posso portarle nell’altra stanza e legarle, può essere descritto, almeno in parte, usando l’espressione contenuta nella teoria sul simbolismo masochistico di Marchesani e Van Slyke, come proporre uno scenario contrattuale [niente f.d.d.]. L’elemento cruciale qui è che io sono enormemente interessato tanto al contratto che allo scenario. Da qui la formalità senza mezzi termini, il misto di aggressività e correttezza nella mia proposta. Se la sono presa in casa dopo che ha avuto una serie di piccoli colpi apoplettici che non le hanno messo in pericolo la vita, eventi cerebrali, e semplicemente non deambulava piú abbastanza bene da vivere da sola. L’assistenza in un istituto non la prendeva nemmeno in considerazione. Per quanto la riguardava non la annoverava nemmeno fra le possibilità. Mia sorella, naturalmente, è corsa subito a salvarla. Ora mamma ha una stanza tutta sua, mentre i due figli di mia sorella ne devono dividere una. La stanza è al pian terreno per risparmiarle le scale, che sono ripide e senza tappeto. Glielo devo dire: so esattamente cosa prevede tutta la cosa.
D.
– È facile sapere, lí sull’ottomana, che sta per succedere. Che ho valutato correttamente le affinità. Ligeti, la cui opera, lei lo saprà senz’altro, è tanto astratta da sfiorare quasi l’atonalità, fornisce l’atmosfera ideale per proporre lo scenario contrattuale. In piú dell’85 per cento dei casi, il soggetto accetta. Nessun [f.d.d.] fremito predatorio alla [f.d.d.] acquiescenza del soggetto, perché non si tratta affatto di acquiescenza. Niente affatto. Io chiedo come la prenderebbero se le legassi. Segue un silenzio denso e molto caricato, un intensificarsi del voltaggio nell’aria sovrastante l’ottomana. La domanda indugia in quel voltaggio finché, comme on dit, non si [f.d.d.] imprime. Loro, nella maggior parte dei casi, cambiano bruscamente posizione sull’ottomana e si raddrizzano improvvisamente nella postura, [f.d.d.] si siedono dritte eccetera... è un gesto inconscio che mira a comunicare forza e autonomia, a rivendicare che loro soltanto hanno il potere di decidere come reagire alla proposta. Nasce da un imprecisato timore che qualcosa di palesemente debole o arrendevole nel loro carattere possa avermi indotto a vederle in qualità di candidate al [prolungata f.d.d.] dominio o alla schiavitú. Le dinamiche psicologiche delle persone sono affascinanti... che la prima preoccupazione inconscia di un soggetto sia di chiedersi cosa in lei possa stimolare una simile proposta, possa indurre un uomo a ritenere fattibile una cosa del genere. Preoccupate fra sé e sé, in altre parole, dell’impressione che danno. Dovrebbe forse essere nella stanza con noi per apprezzare le dinamiche estremamente complesse e affascinanti che accompagnano quel silenzio caricato. In realtà, nella sua nuda rivendicazione di potere personale, l’improvviso miglioramento della postura di fatto comunica un chiaro desiderio di sottomettersi. Di accettare. Di partecipare. In altre parole, qualsiasi rivendicazione di [f.d.d.] potere indica, in quel contesto caricato, una gallina. Nel formalismo pesantemente stilizzato del [f.d.d.] gioco masochistico, capisce, il rituale è stabilito e organizzato in modo tale che l’apparente disparità di potere sia, in realtà, pienamente consenziente e autonoma.
D.
– Grazie. Questo dimostra che mi segue attentamente. Che è un’ascoltatrice sagace e caparbia. E dire che ho usato toni abbastanza pesanti. A rendere un gioco il fatto che io e lei, per esempio, andiamo da me e intraprendiamo una sorta di attività contrattuale che implica il fatto che io la lego, è che sarebbe completamente diverso dall’attirarla con le lusinghe a casa mia e una volta lí saltarle addosso e legarla imponendomi con la forza. Lí non ci sarebbe gioco. Il gioco sta nel suo libero e autonomo sottomettersi al fatto che io la leghi. Lo scopo della natura contrattuale del gioco masochistico o [f.d.d.] schiavistico – io propongo, lei accetta, io propongo qualcos’altro, lei accetta – è formalizzare la struttura del potere. Ritualizzarla. Il [f.d.d.] gioco sta nel sottomettersi allo schiavismo, nel cedere il potere a un altro, ma il [f.d.d.] contratto – le [f.d.d.] regole, per cosí dire, del gioco – il contratto garantisce che qualsiasi abdicazione di potere è scelta liberamente. In altre parole, la rivendicazione che uno è tanto sicuro dell’idea che si fa del proprio potere personale da cedere ritualisticamente quel potere a un’altra persona – nella fattispecie il sottoscritto – che da lí procede a toglierle i pantaloni e la maglia e la biancheria e a legarla polsi e caviglie con cinghie di raso alle colonne del mio letto stile antico. Naturalmente, visti gli intenti di questa conversazione, uso lei solo come esempio. Non creda che stia davvero proponendo una possibilità contrattuale con lei. La conosco appena. Per non parlare di tutto il contesto e delle spiegazioni che le sto fornendo... non è cosí che agisco. [Risata]. No, mia cara, non ha niente da temere.
D.
– Ma lei lo è senz’altro. Mia madre era, a detta di tutti, una magnifica persona, ma aveva, diciamo cosí, un temperamento incostante. Eccentrico e incostante nell’ambito domestico e quotidiano. Eccentrico nel modo di trattare i due figli gemelli, me in particolare. Questo mi ha trasmesso alcuni complessi psicologici legati al potere e, forse, alla fiducia. La regolarità dell’acquiescenza è pressoché sconcertante. Col sollevarsi delle spalle e l’erigersi di tutta la postura, anche la testa viene buttata all’indietro, in modo tale che ora lei è seduta molto dritta e sembra quasi sottrarsi allo spazio della conversazione, è ancora sull’ottomana ma si sottrae per quanto può dati i limiti ristretti di quello spazio. Questo evidente sottrarsi, pur volendo comunicare shock e sorpresa e perciò che lei decisamente non è il genere di persona alla quale potrebbe anche solo presentarsi l’eventualità di venire invitata a permettere a qualcuno di legarla, di fatto è indice di una profonda ambivalenza. Un [f.d.d.] conflitto. Con questo intendo che una possibilità fin lí esistita solo interiormente, potenzialmente, in astratto, come parte delle fantasie inconsce o dei desideri repressi del soggetto, improvvisamente viene esternata, riceve un peso conscio, diventa [f.d.d.] reale in quanto possibilità concreta. Da qui l’affascinante ironia che il linguaggio del corpo che vuole comunicare shock in realtà comunica davvero shock, ma di un genere completamente diverso. E cioè lo shock abreattivo dei desideri repressi che rompono gli argini e penetrano la coscienza, ma da una fonte esterna, da una persona in carne e ossa che per di piú è maschio e compagno nel rituale dell’accoppiamento e dunque sempre terreno fertile per il transfert. Sicché l’espressione [niente f.d.d.] imprimere è molto piú appropriata di quanto lei potesse immaginare in un primo momento. Una simile penetrazione, naturalmente, richiede tempo solo quando c’è [f.d.d.] resistenza. O per esempio lei indubbiamente conoscerà il venerando cliché [f.d.d.] non credo alle mie orecchie. Ne valuti il significato.
D...
– La mia esperienza indica che quel cliché non significa [prolungata f.d.d.] non credo che questa possibilità ora esiste nella mia coscienza bensí qualcosa piú sulla falsariga di [prolungata e sempre piú fastidiosa f.d.d.] non credo che questa possibilità ora nasca da un punto esterno alla mia coscienza. È lo stesso genere di shock, il ritardo di vari secondi nell’interiorizzare o elaborare, che accompagna le cattive notizie improvvise o l’improvviso, inspiegabile tradimento da parte di una figura autorevole fin lí fidata eccetera eccetera eccetera. È durante quell’intervallo di silenzio shoccato che intere mappe psicologiche vengono ritracciate, e durante quell’intervallo qualsiasi accenno gestuale o affettivo da parte del soggetto rivela di gran lunga molto di piú sul suo conto di quanto non farebbe qualunque tentativo di banale conversazione per non dire di cinica sperimentazione.
D.
– Intendo donna o giovane donna, non [f.d.d.] soggetto in sé e per sé.
D.
– I veri galli, le poche che ho mal giudicato, si abbandonano alla piú breve di queste pause shoccate. Sorridono educatamente, o addirittura ridono, e poi declinano la proposta dicendolo chiaro e tondo. Senza offesa, non ci becchiamo. [Risata]. Il gioco di parole è involontario... [f.d.d.] gallo, beccare. Le mappe psicologiche interiori di questi soggetti concedono ampio spazio alla possibilità di farsi legare, la prendono liberamente in considerazione e liberamente la rifiutano. Semplicemente non le interessa. Questo non mi crea nessun problema, scoprire che ho scambiato un gallo per una gallina. Ripeto, non mi interessa costringere, circuire o persuadere nessuna contro la sua volontà. Di sicuro non ho intenzione di implorarla. Non si tratta di questo. Io so di cosa si tratta. La... e la forza non c’entra niente. Le altre – la lunga, soppesata pausa ad alto voltaggio, lo shock affettivo e posturale – che acconsentano o si sentano offese, oltraggiate, sono loro le vere galline, giocatrici, sono queste quelle che non ho affatto mal giudicato. Mentre buttano la testa all’indietro – ma gli occhi sono su di me, insistenti, mi guardano, [f.d.d.] fissano eccetera, con l’intensità che associ a una che cerca di decidere se può o meno [f.d.d.] fidarsi di te. Laddove [f.d.d.] fidarsi ora può implicare una quantità di cose diverse: se le stai prendendo in giro, se sei serio ma fai finta di prenderle in giro per prevenire l’imbarazzo in caso loro ne fossero oltraggiate o disgustate, o se parli seriamente ma intendi la proposta in senso astratto, come domanda ipotetica del tipo [f.d.d.] Cosa faresti con un milione di dollari? allo scopo di estorcere informazioni sulla loro personalità per valutare l’eventualità di un quarto appuntamento. Eccetera eccetera eccetera. O se invece si tratta davvero di una proposta seria. Anche mentre... ti guardano perché cercano di studiarti. Di giudicarti, come a quanto pare tu hai fatto con loro, come la proposta sembra prevedere. Per questo lo propongo sempre senza mezzi termini e rinunciando apertamente a umorismo, o bruschi trapassi o preparazione o infiorettatura nell’esposizione della possibilità contrattuale. Voglio comunicare nel modo migliore possibile che la proposta è seria e concreta. Che sto aprendo la mia coscienza a loro e all’eventualità del rifiuto o addirittura del disgusto. Per questo rispondo al loro sguardo intenso con uno sguardo mite e non dico niente per abbellire o complicare o infiorettare o interrompere il processo della loro reazione psichica interiore. Le costringo a riconoscere con se stesse che tanto io che la proposta siamo assolutamente seri.
D...
– Ma la prego ancora una volta di notare che non sono assolutamente aggressivo o minaccioso al riguardo. È questo che intendevo con [f.d.d.] sguardo mite. Non lo propongo in modo subdolo o lascivo, e non do in nessun modo l’impressione di essere ansioso o esitante o lacerato. E nemmeno aggressivo o minaccioso. Questo è fondamentale. Lei saprà sicuramente, per esperienza, che la reazione inconscia naturale di una persona, quando il linguaggio del corpo di un altro indica un ritrarsi, un farsi indietro, è automaticamente quella di farsi o spingersi avanti, per compensare o mantenere il rapporto spaziale originario. Io evito consapevolmente questo riflesso. Questo è di estrema importanza. Uno non si sposta nervosamente o si sporge o si lecca le labbra o si stringe il nodo della cravatta mentre una simile proposta si imprime. Una volta, a un terzo appuntamento, mi sono ritrovato con uno di quei fastidiosi muscoli saltellanti isolati o contrazioni nel cuoio capelluto che per tutta la sera ha fatto su e giú e, sull’ottomana, dava l’impressione che alzassi e abbassassi un sopracciglio in modo rapido e lascivo cosa che, nel momento psichicamente caricato seguito all’improvvisa proposta, ha mandato tutto a carte quarantotto. E quel soggetto non era nemmeno per sogno un gallo – se non era una gallina quella vuol dire che non ne ho mai vista una – eppure una contrazione involontaria del sopracciglio ha mandato a monte ogni possibilità, tanto che il soggetto in questione non solo se n’è andato in una frenesia di disgusto conflittuale tale da farle dimenticare la borsetta che poi non è tornata a riprendere ma ha rifiutato perfino di rispondere ai messaggi telefonici che le ho lasciato varie volte offrendole semplicemente di restituirle la borsetta in un ambiente pubblico neutrale. La delusione ha comunque fruttato un’importante lezione su come questo momento successivo alla proposta possa essere una fase delicata di elaborazione e cartografia interiore. Il problema di mia madre era che nei miei confronti – il figlio maggiore, il maggiore dei gemelli, faccio presente – il suo istinto educativo andava eccentricamente da un estremo all’altro di per cosí dire [f.d.d.] bollente e freddo. In un momento sapeva essere molto, molto, molto calda e materna, e poi in un batter d’occhio si arrabbiava con me per una sciocchezza reale o presunta privandomi completamente del suo affetto. Diventava fredda e ostile, respingendo qualsiasi tentativo da parte mia da piccolo di ricevere rassicurazione e affetto, certe volte spedendomi da solo in camera mia e rifiutando di farmi uscire per un periodo rigidamente stabilito mentre la mia gemella continuava a godersi una libertà di movimenti per la casa senza restrizioni e continuava anche a ricevere calore e affetto materno. Poi, finito l’inflessibile periodo di confinamento – e dico nel preciso istante in cui la mia [f.d.d.] sospensione si era conclusa – mamma apriva la porta e mi abbracciava calorosamente e mi asciugava le lacrime con la manica e mi diceva che era tutto perdonato, che era di nuovo tutto a posto. Quell’ondata di rassicurazione e nutrimento mi induceva di nuovo a [f.d.d.] fidarmi di lei e a venerarla e a soccombere al suo potere emotivo, rendendomi di nuovo vulnerabile alla devastazione ogni volta che le girava di diventare nuovamente fredda e di guardarmi come se fossi una specie di esemplare da laboratorio che non aveva mai visto. Questo ciclo si è andato ripetendo per tutto il nostro rapporto nel periodo dell’infanzia, ahimè.
D.
– Sí, aggravato dal fatto che lei era per vocazione una professionista in campo clinico, un’assistente sociale psichiatrica che forniva test e esercizi diagnostici a un sanatorio per malattie mentali di un centro poco distante. Un’attività che ha ripreso appena io e mia sorella quando muovevamo i primi passi siamo stati affidati all’apparato scolastico. L’imago di mia madre domina incontrastata la mia vita psicologica di adulto, ne sono consapevole, costringendomi ripetutamente a proporre e superare rituali contrattati in cui il potere viene liberamente dato e preso e la sottomissione ritualizzata e il controllo ceduto e poi restituito di mia spontanea volontà. [Risata]. O dovrei dire del soggetto. Volontà. È un’altra eredità di mia madre il fatto che so esattamente da dove deriva, da dove viene il mio interesse nella valutazione accurata di un soggetto e nell’improvvisa proposta al terzo appuntamento di permettermi di immobilizzarlo con dei vincoli di raso. Anche buona parte del gergo noioso e pignolo che uso per descrivere i rituali deriva da mia madre, che ha plasmato, molto piú di quanto non abbia fatto il nostro dolce ma represso e direi castrato padre, il linguaggio e il comportamento di noi bambini. Di me e di mia sorella. Mia madre aveva un Dottorato di Assistenza Sociale Clinica [prolungata f.d.d.], uno dei primi conferiti a un diagnosta donna nel Midwest settentrionale. Mia sorella è casalinga e madre e non aspira a essere altro, almeno non consciamente. Per esempio, [f.d.d.] ottomana era un termine che usava mamma sia per il sofà sia per il divanetto a due posti che c’era in soggiorno. Il sofà di casa mia ha schienale e braccioli e, tecnicamente, neanche a dirlo, è un sofà o divano, ma io sembro inconsciamente incaponito a chiamarlo ottomana. È un’abitudine inconscia che sembro incapace di cambiare. In realtà non ci provo neanche piú. A certi complessi è meglio semplicemente arrendersi e accettarli anziché lottare contro l’imago per pura forza di volontà. Mamma – che era, naturalmente, dopo tutto, lei capisce, una la cui professione presupponeva il fatto di tenere delle persone rinchiuse e studiarle e esaminarle e spezzarle e piegarle alla volontà di quella che le autorità statali giudicavano salute mentale – prestissimo ha spezzato senza speranza la mia di volontà. Io ho accettato e accondisceso a questa cosa e ho eretto una complessa struttura per venirci simbolicamente a patti e eliminarla. È di questo che si tratta. Né il marito di mia sorella né mio padre hanno mai avuto niente a che fare con la pollicoltura. Mio padre, prima che gli venisse un colpo apoplettico, era un piccolo dirigente del ramo assicurativo. Anche se naturalmente il termine [f.d.d.] pollo veniva spesso usato nel nostro quartiere – dai bambini con cui giocavo e inscenavo vari rituali primitivi di socializzazione – per descrivere un individuo debole, codardo, uno dalla volontà facile da piegare ai fini degli altri. Può darsi che io, inconsciamente, nel descrivere i rituali contrattuali utilizzi metafore della pollicoltura per rivendicare simbolicamente il mio potere su chi, paradossalmente, accetta autonomamente di sottomettersi. Senza tanto clamore ci trasferiamo nell’altra stanza, al letto. Io sono eccitatissimo. I miei modi sono cambiati, in qualche misura, nel senso di una condotta piú imperiosa, autoritaria. Ma non subdola né minacciosa. Alcuni soggetti hanno dichiarato di trovarla [f.d.d.] intimidatoria, ma le posso assicurare che non c’è nessuna intenzione intimidatoria. Ciò che a questo punto si comunica è un certo ordine autoritario basato esclusivamente su un’esperienza contrattuale mentre informo il soggetto in questione che sto per impartire degli [niente f.d.d.] ordini. Emano una competenza che, lo ammetto, può apparire intimidatoria a chi ha un particolare temperamento psicologico. Soltanto i volatili piú temprati cominciano a chiedermi cosa voglio che facciano. Io, d’altro canto, escludo molto deliberatamente la parola [f.d.d.] volere e i suoi affini dalle mie istruzioni. Qui non si tratta di esprimere desideri, o chiedere o supplicare o convincere, le informo. Non è di questo che si tratta. Ora siamo nella mia camera da letto, che è piccola e dominata da un maxi letto in stile edoardiano a quattro colonne. Il letto, che appare enorme e ingannevolmente solido, potrebbe comunicare una certa intimidazione, comprensibilmente, dato il contratto che abbiamo stipulato. Io la metto sempre in questi termini [niente f.d.d.] Questo è ciò che devi fare, Devi fare questo e quest’altro eccetera eccetera eccetera. Gli dico come stare e quando girarsi e come guardarmi. I capi d’abbigliamento vanno tolti secondo un particolarissimo ordine ben preciso.
D.
– Sí ma l’ordine è meno importante del fatto che ci sia un ordine e che loro lo osservino. La biancheria viene sempre per ultima. Io sono intensamente ma non convenzionalmente eccitato. I miei modi sono bruschi e autoritari ma non intimidatori. Non è una sciocchezza. Certe sembrano nervose, certe fingono di sembrare nervose. Alcune strabuzzano gli occhi e fanno delle battutine pungenti per rassicurarsi sul fatto che stanno semplicemente [f.d.d.] collaborando. Devono piegare i vestiti e metterli ai piedi del letto e adagiarsi e stendersi supine e cancellare qualsiasi traccia di emozione o espressione dalla faccia mentre io mi tolgo i vestiti.
D.
– A volte sí, altre no. L’eccitazione è intensa ma non strettamente genitale. Io mi sono spogliato in modo funzionale. Né cerimonioso né affrettato. Emano autorità. Poche si tirano indietro a metà della cosa, davvero pochissime. Quelle che se ne vogliono andare, se ne vanno. La reclusione è molto astratta. Le cinghie sono di raso nero, ordinate per posta. Ne rimarrebbe sorpresa. Mentre assecondano qualsiasi richiesta, ordine, io dico poche parole di incoraggiamento, come, per esempio, Bene e Sei una brava bambina. Dico che i nodi sono doppi scorsoi e se loro si agitano o fanno resistenza si stringono automaticamente. In realtà non è vero. In realtà non esistono doppi nodi scorsoi. Il momento cruciale è quando sono stese nude davanti a me, legate saldamente polsi e caviglie alle quattro colonne del letto. Loro non lo sanno, ma le colonne del letto sono ornamentali e tutt’altro che solide, una mossa decisa per liberarsi basterebbe sicuramente a spezzarle. Io dico: Ora sei completamente in mio potere. Si ricordi che è a braccia e gambe aperte legata alle colonne del letto. Io sono in piedi senza vestiti ai piedi del letto. A quel punto altero consapevolmente l’espressione del viso e chiedo: Hai paura? A seconda della loro condotta a volte lo modifico in: Non hai paura? È questo il momento cruciale. È questo il momento della verità. Tutto il rituale – forse cerimonia sarebbe piú appropriato, piú evocativo, perché noi – naturalmente tutto quanto dalla proposta in avanti riguarda la cerimonia – e il culmine è rappresentato dalla risposta del soggetto a questa incitazine. A Hai paura? Qui è richiesta una doppia ammissione. Lei deve ammettere di essere completamente in mio potere in quel momento. E deve anche dire che si fida di me. Deve ammettere di non aver paura che tradirò o abuserò del potere che mi è stato consegnato. Nel corso di questo scambio l’eccitazione arriva al suo acme assoluto, raggiungendo un culmine prolungato che dura esattamente per tutto il tempo necessario a estorcere queste conferme.
D.
– Prego?
D.
– Gliel’ho già detto. Piango. È a quel punto che piango. Ma è stata almeno un po’ attenta o no, stravaccata là sopra? Mi stendo accanto a loro e piango e spiego le origini psicologiche del gioco e i bisogni che soddisfa in me. Rivelo la mia psiche piú intima e imploro compassione. È raro il soggetto che non ne risulti profondamente, profondamente commosso. Loro mi confortano meglio che possono, limitate come sono dai vincoli che gli ho messo.
D.
– Se sfocia in un rapporto vero e proprio dipende. È imprevedibile. Non c’è modo di saperlo.
D...
– A volte bisogna seguire l’impulso.
B.I. n. 51, novembre ’97
FORT DODGE, IOWA
– Penso sempre: «E se non ci riesco?» Poi penso sempre: «Che cazzo, non ci pensare». Perché se ci pensi potrebbe succedere. Non è che sia successo tanto spesso. Ma mi prende la paura. Prende a tutti. Tutti quanti dicono che a loro non gli prende, ma è una stronzata. Hanno paura che gli può succedere. Poi penso sempre: «Se questa non fosse qui non mi preoccuperei per niente». Poi mi incazzo. Penso che è come se lei si aspettasse qualcosa. Che se non se ne stesse stesa lí a aspettarselo e a fantasticare e, che so, a valutare, non mi sarebbe nemmeno passato per la mente. Poi mi viene una specie di incazzatura. Divento cosí incazzato, che non me ne frega piú un cazzo se ci riesco o no. È come se volessi fargliela pagare. Una cosa tipo: «OK, puttana, te la sei voluta». Poi va tutto bene.
B.I. n. 19, ottobre ’96
NEWPORT, OREGON
– Perché? Perché. Be’, non è solo che sei bella. Anche se lo sei. È che sei maledettamente intelligente. Ecco. Ecco perché. Le ragazze belle te le tirano dietro, ma no... ehi, diciamocelo, le persone veramente intelligenti sono rare. Maschi o femmine. E tu lo sai. Per quanto mi riguarda, è soprattutto la tua intelligenza.
D.
– Ah. È possibile, direi, dal tuo punto di vista. Direi che potrebbe essere. Però pensaci un attimo: un’occasione del genere si sarebbe mai presentata a una ragazza che non era cosí maledettamente intelligente? Una stupida sarebbe arrivata a sospettarlo?
D.
– E tu in un certo senso mi hai dato ragione. Cosí mo’ ci credi che faccio sul serio invece di liquidarlo come una specie di adescamento. Dico bene?
D...
– Dài, vieni qui.
B.I. n. 46, luglio ’97
NUTLEY, NEW JERSEY
– Io dico solo che... oppure prendi l’Olocausto. Che, l’Olocausto è stata una buona cosa? Macché. Qualcuno pensa che è un bene che c’è stato? Macché. Ma l’hai mai letto Viktor Frankl? Alla ricerca di un significato della vita di Viktor Frankl? È un libro davvero fantastico. Frankl è stato in un campo di concentramento durante l’Olocausto e il libro nasce da quell’esperienza, parla della sua esperienza del Lato Oscuro dell’uomo e di come lui ha conservato la sua identità di uomo malgrado l’abbrutimento e la violenza dei campi di concentramento e di come ha dovuto subire la completa estirpazione dell’identità. È un libro davvero straordinario e adesso pensaci, se non ci fosse stata una cosa come l’Olocausto non ci sarebbe un libro come Alla ricerca di un significato della vita.
D.
– Io cercavo di dire solo che bisogna stare attenti ad assumere un atteggiamento stereotipato sulla violenza e l’abbrutimento anche nel caso delle donne. Avere un atteggiamento stereotipato nei confronti di qualsiasi cosa è un grande errore, questo dico. Ma dico specialmente nel caso delle donne, dove si va ad aggiungere a questo limitatissimo condiscendente fatto di dire che sono oggetti fragili o delicati e le puoi distruggere come niente. Manco le dovessimo avvolgere nella bambagia e proteggerle come chissà che. Questo è stereotipato e condiscendente. Io parlo di dignità e rispetto, non di trattarle come se fossero bambolette fragili o che so io. Succede a tutti di venire feriti e oltraggiati e spezzati, che hanno le donne di tanto speciale?
D.
– Io dico solo chi siamo noi per dire che subire un incesto o un abuso o una violenza o una qualunque di queste cose alla lunga non può avere anche i suoi lati positivi per un essere umano. Non dico mica che è necessariamente vero ogni volta, ma chi siamo noi per dire in modo stereotipato che non è mai vero? Non dico mica che uno deve per forza farsi stuprare o violentare, né che non è una cosa assolutamente orribile e negativa e sbagliata mentre succede, e che scherziamo? Nessuno lo dovrebbe mai dire. Ma questo mentre succede. Lo stupro o la violenza o l’incesto o l’abuso, mentre succede. E che mi dici di dopo? Che mi dici dell’insieme, che mi dici del quadro piú vasto che dopo lei ha di come la sua mente fa i conti con quanto è successo, si regola per farci i conti, di come quanto è successo diventa parte della sua persona? Io dico solo che non è impossibile che in certi casi ti possa arricchire. Renderti piú di quanto eri prima. Piú simile a un essere umano completo. Come Viktor Frankl. O quel vecchio detto che fa: quello che non ti uccide ti rende piú forte. Secondo te chiunque l’abbia detto approvava lo stupro di una donna? Macché. È solo che non ragionava per stereotipi.
D...
– Io non dico che le vittime non esistono. Io dico solo che certe volte tendiamo ad avere il paraocchi sull’infinità di cose che contribuiscono a rendere qualcuno quello che è. Dico solo che diventiamo cosí stereotipati e condiscendenti sui diritti e l’assoluta correttezza e la protezione delle persone che non ci fermiamo a ricordare che nessuno è soltanto vittima e niente è soltanto negativo e soltanto scorretto... quasi niente lo è. Io dico... come sia possibile che anche le cose peggiori che ti possono capitare finiscono magari col diventare fattori positivi per la persona che sei. Per quello che sei, cioè un essere umano completo invece che soltanto un... pensa, subire uno stupro collettivo e essere umiliata e picchiata a sangue fin quasi a rimetterci la pelle per esempio. Nessuno direbbe che è una bella cosa, non dico questo, nessuno direbbe che quei bastardi depravati non dovrebbero finire in prigione. Nessuno insinua che a lei sia piaciuto mentre succedeva né che doveva succedere. Ma cerchiamo di vedere in prospettiva un paio di cose. Una è che dopo lei sa qualcosa sul proprio conto che prima non sapeva.
D.
– Quello che sa è che la cosa in assoluto piú umiliante che poteva anche solo lontanamente immaginare succedesse a lei ora le è successa per davvero. E lei è sopravvissuta. È ancora qui. Non dico che è elettrizzata, non dico che la cosa la elettrizza o che si sente in gran forma o che fa i salti di gioia per quanto le è successo, ma è ancora qui, e lo sa, e adesso sa qualcosa. Voglio dire sa per davvero. Ora l’idea che ha di se stessa e di cosa è capace di sopportare eppure sopravvivere è piú grande. Ampliata, piú vasta, piú profonda. Lei è piú forte di quanto in fondo non pensasse, e adesso lo sa, sa di essere forte in modo completamente diverso da come lo sai soltanto perché te lo dicono i tuoi o qualche oratore a un’assemblea della scuola non fa che ripeterti in continuazione che sei Qualcuno che sei Forte. Io dico solo che lei non è piú la stessa e alcuni dei modi in cui non è piú la stessa... tipo, se a mezzanotte andando nel garage dove ha parcheggiato la macchina o altrove ha ancora paura che il branco le salti addosso per stuprarla, ora ha paura in un altro modo. Mica vuole che succeda di nuovo, uno stupro collettivo, macché. Ma ora sa che non la ucciderà, che è in grado di sopravvivere, che non la annullerà né la renderà, insomma, subumana.
D...
– E inoltre adesso sa anche di piú sulla condizione umana e la sofferenza e il terrore e l’abbrutimento. Voglio dire, tutti ammettiamo che la sofferenza e l’orrore rientrano nel fatto di essere vivi e di esistere, o almeno a parole la conosciamo tutti, la condizione umana. Ma ora lei la conosce per davvero. Non dico che la cosa la elettrizza. Ma pensa ora quant’è piú grande la sua visione del mondo, quanto piú vasto e profondo è ora il grande quadro nella sua mente. È in grado di capire la sofferenza in modo completamente diverso. È piú di quanto era prima. È questo che dico. È piú un essere umano. Ora sa qualcosa che tu non sai.
D.
– Eccola la reazione stereotipata, ecco di cosa parlavo, prendere tutto quello che dico e prenderlo e filtrarlo attraverso la tua visione limitata del mondo e dire che quello che dico è Oh, sicché il branco che l’ha stuprata le ha fatto un favore, perché non è questo che dico. Non dico che è stato bello o giusto o che doveva succedere né che non l’ha completamente distrutta e devastata e tantomeno che dovesse mai succedere. In ogni singolo caso di una donna che subisce uno stupro collettivo o una violenza o quello che ti pare, se io fossi presente e avessi il potere di dire Avanti o Ferma, io lo fermerei. Ma non ce l’ho. Nessuno ce l’ha. Succedono cose davvero terribili. L’esistenza e la vita spezzano continuamente le persone in tutti i cazzo di modi possibili e immaginabili. Dammi retta, io lo so, ci sono passato, io.
D.
– E ho la sensazione che la vera differenza sta proprio qui. Io e te qui. Perché qui non si parla di politica o di femminismo o che so io. Per te queste sono tutte idee, secondo te stiamo parlando di idee. Tu non ci sei passata. Non dico che non ti è mai capitato niente di brutto, non sei mica brutta e scommetto che qualche umiliazione o che so io ti sarà capitata nella vita. Non dico questo. Ma qui stiamo parlando di Alla ricerca di un significato della vita di Frankl... qui abbiamo violenza e sofferenza e terrore totali stile Olocausto. Il vero Lato Oscuro. E tu carina mi basta darti un’occhiata per capirlo tu quando mai. Mica ti metteresti addosso quello che porti, dammi retta.
D.
– Ammetterai anche che sí ok la condizione umana è piena di oscena spaventosa sofferenza umana e si può sopravvivere a quasi tutto o che so io. E magari ci credi per davvero. Ci credi, già, e se ti dicessi che io non è che ci credo ma lo so? Cambia qualcosa in quello che dico? E se ti raccontassi che mia moglie ha subito uno stupro collettivo? Non sei piú tanto sicura del fatto tuo adesso, eh. E se ti raccontassi la storiella di una ragazza di sedici anni che è andata alla festa sbagliata con il tipo sbagliato e i suoi compari e ha finito con l’essere... le hanno fatto praticamente tutto quello che quattro tipi ti possono fare in fatto di violenza. Sei settimane in ospedale. E se ti dicessi che ancora deve andare due volte a settimana in ospedale, tanto l’hanno ridotta male?
D.
– E se ti dicessi che non direbbe mai che se l’è andata a cercare o che si è divertita o che le è piaciuto o che le piace avere solo mezzo rene e che se potesse tornare indietro e ci fosse un modo per impedirlo lo farebbe ma prova a chiederle se potesse entrare nella propria testa e dimenticarlo o che so cancellare il nastro della cosa che si ripete nella sua memoria, secondo te che direbbe? Sei tanto sicura di cosa direbbe? Che non avrebbe mai voluto, insomma, dover impostare la propria mente in modo da fare i conti col fatto che era successo a lei o da scoprire all’improvviso che il mondo può spezzarti: cosí. Scoprire che un altro essere umano, quei tizi, ti possono guardare stesa lí e considerarti nel modo piú profondo e assoluto come una cosa, non una persona una cosa, una bambola di gomma o un tirassegno o un buco, semplicemente un buco dove ficcare una bottiglia di Jack Daniels talmente a fondo da farti scoppiare i reni... e se dopo dicesse che, per quanto assolutamente negativo, adesso almeno capiva che era possibile, che la gente ne è capace?
D.
– Di vederti come una cosa, sono capaci di vederti come una cosa. Lo sai che vuol dire? È spaventoso, noi sappiamo quant’è spaventosa come idea, e che è sbagliato, e ci crediamo di sapere tutte queste cose sui diritti umani e la dignità umana e quant’è terribile privare qualcuno della propria umanità di quella che noi chiamiamo l’umanità di qualcuno, ma metti che succede a te, allora sí che lo sai per davvero. Adesso non è piú solo un’idea o una causa da reazioni stereotipate. Aspetta che succeda a te e allora sí che assapori il Lato Oscuro. Non l’idea di oscurità, l’autentico Lato Oscuro. E adesso ne conosci il potere. Il potere assoluto. Perché se sei davvero capace di vedere un altro soltanto come una cosa allora sei capace di fargli qualsiasi cosa, non si accettano piú scommesse, umanità e dignità e diritti e correttezza... non si accettano piú scommesse. Io dico... e se lei dicesse che è come un rapido costoso giretto su un versante della condizione umana di cui tutti parlano come se lo conoscessero ma in realtà manco se lo immaginano, non per davvero, a meno di non esserci passati. E se tutto si riducesse al fatto che la sua visione del mondo si è ampliata, se ti dicessi questo? Che ne diresti? E di se stessa, di come considerava se stessa. Che adesso capiva di poter essere considerata come una cosa. Ti rendi conto di quanto questo cambierebbe... strapperebbe, di quanto questo strapperebbe via? Di te stessa, di te, di quella che pensavi fosse te stessa? Strapperebbe via tutto quanto. E poi che resterebbe? Riesci anche solo a immaginarlo di’ ci pensi? È come Viktor Frankl che nel suo libro dice che quando hai toccato il fondo nel campo di concentramento durante l’Olocausto, quando sei privato della libertà e dell’intimità e della dignità perché sei nudo in un campo pieno di gente e devi andare in bagno davanti a tutti perché una cosa come l’intimità non esiste piú, e tua moglie è morta e i tuoi figli sono morti a poco a poco di fame mentre tu stavi a guardare e non hai né cibo né riscaldamento né coperte e ti trattano come i topi perché per loro sei davvero come i topi non sei un essere umano, e ti vengono a prendere e ti portano dentro per torturarti, una tortura scientifica cosí ti dimostrano che ti possono privare perfino del corpo, il tuo corpo non è nemmeno piú te è il nemico è questa cosa che adoperano per torturarti perché per loro è solo una cosa e ci fanno gli esperimenti di laboratorio, non è nemmeno sadismo non sono sadici perché per loro non è un essere umano quello che torturano... che quando tutto quello che ha un vago legame con il te che credi di essere viene strappato via e ora non rimane altro che: cosa, cosa rimane, è rimasto qualcosa? Sei ancora vivo perciò quello che rimane sei tu? Cos’è? Cosa vuol dire tu adesso? Capisci è questo il gran momento, quando scopri quello che sei perfino per te stesso. Cosa che la maggior parte delle persone con tanto di dignità e umanità e diritti e compagnia bella non verrà mai a sapere. Quello che è possibile. Che niente è automaticamente sacro. È di questo che parla Frankl. Che è attraverso la sofferenza e il terrore e il Lato Oscuro che quanto rimane esce allo scoperto, dopodiché sai.
D.
– E se ti dicessi che lei ha detto che non è stata la violenza o il terrore o il dolore o niente del genere, che... che la parte piú impegnativa, dopo, nel cercare di impostare la mente, di adattare quello che era successo al proprio mondo, che la parte peggiore la parte piú difficile era che adesso sapeva di poter pensare anche lei a se stessa in quel modo se voleva? Come a una cosa. Che è assolutamente possibile pensare a te stesso non come te o come una persona ma semplicemente come cosa, tale e quale a quei quattro tizi. E quant’era facile e che potere dava farlo, pensarlo, anche mentre era in corso la violenza, semplicemente spaccarti in due e galleggiare su verso il soffitto ed eccoti là a guardare giú a quella cosa che subisce cose sempre peggiori e quella cosa sei tu e non significa niente, non c’è niente che automaticamente significhi, e sotto molti aspetti questi sono una libertà e un potere intensissimi, che ora non si accettano piú scommesse e tutto è stato portato via e tu puoi fare qualsiasi cosa a chiunque perfino a te stesso se vuoi perché tanto chi se ne frega perché in realtà che importa perché in fondo cosa sei solo quella cosa dove ficcare una bottiglia di Jack Daniels, e chi se ne frega se è una bottiglia che differenza fa se è un cazzo o un pugno o uno sturalavandini o questo bastone qui... come sarebbe farcela a essere cosí? Credi di riuscire a immaginarlo. Credi di riuscirci ma non puoi? E se ti dicessi che lei adesso ci riuscirebbe? E se ti raccontassi che ci riuscirebbe proprio perché le è successa quella cosa e lei sa perfettamente che è possibile essere soltanto una cosa proprio come dice Viktor Frankl che da quel momento in poi ogni minuto un minuto dopo l’altro se vuoi puoi scegliere di essere di piú se vuoi, puoi scegliere di essere un essere umano e farlo significare qualcosa? Che diresti in quel caso?
D.
– Sono calmo, non preoccuparti per me. È come la cosa di Frankl di imparare che non è automatico, come è una questione di scelta essere un essere umano con dei diritti sacrosanti invece di una cosa o un topo e la maggior parte delle persone sono cosí compiaciute e stereotipate e sonnambule da non sapere nemmeno che è davvero una cosa che devi scegliere da solo che ha un significato solo quando tutto l’apparato e il materiale scenico che ti permettono di andartene in giro tutto compiaciuto credendo di non essere una cosa vengono strappati via e distrutti perché tutt’a un tratto ora il mondo ti considera come una cosa, tutti pensano che sei un topo o una cosa e ora tocca a te, sei tu l’unico a poter decidere se sei qualcosa di piú. E se ti dicessi che non sono nemmeno sposato? Allora? Allora è il gran momento, credi a me bambina, credi a me che a chi non è mai successo di subire un’aggressione e una violenza del genere dove tutto ciò che pensava nato automaticamente con lui gli permette di andare in giro tutto gongolante credendo di essere automaticamente piú di una cosa che viene scorticata viva e appalottolata e trafitta da una bottiglia di Jack Daniel’s che ti cacciano su per il culo quattro ubriachi per i quali la tua sofferenza e il tuo stupro sono solo un passatempo come un altro, un modo di ammazzare un paio d’ore, niente di speciale, magari nessuno di loro manco se ne ricorda piú, che a chi non è successa veramente una cosa del genere non arriverà mai a essere cosí aperto dopo, a sapere sempre nel suo intimo che è sempre una scelta, che sei tu che costruisci te stesso un secondo dopo l’altro ogni secondo a partire da adesso, che l’unico a pensare ogni secondo che sei una persona sei tu e tu potresti smettere quando vuoi e ogni volta che vuoi tornare a essere soltanto una cosa che mangia scopa caca cerca di dormire va a fare la dialisi e si becca una bottiglia quadrata tanto su per il culo che si rompe e questo da quattro tizi che ti prendono a ginocchiate nei coglioni per farti piegare e tu manco li conosci o li hai mai visti né gli hai mai fatto niente per dargli una scusa che è una per volerti a quattro zampe o stuprarti e tantomeno ti sei andato a cercare un’umiliazione cosí assoluta. Che manco sanno come ti chiami, che ti fanno questo e manco sanno come ti chiami, che un nome tu manco ce l’hai. Tu non hai automaticamente un nome, non è una cosa che ce l’hai e basta, capisci. Arrivare a scoprire che devi addirittura scegliere di avere un nome o di essere piú di una semplice macchina programmata con reazioni diverse quando ti fanno cose diverse quando gli gira per passare il tempo finché non si stufano e che, dopo, ogni secondo dipende solo da te, e se ti dicessi che è successo a me? Cambierebbe qualcosa? Tu che sei tutta piena di politica stereotipata sulle tue idee sulle vittime? Dev’essere per forza una donna? Tu credi, magari tu credi di poterlo immaginare meglio se è una donna perché l’apparato esterno somiglia piú al tuo perciò è piú facile vederla come un essere umano che è stato violentato e se invece fosse uno con un cazzo e senza tette non sarebbe altrettanto reale per te? E se non fossero gli ebrei nell’Olocausto se nell’Olocausto fosse il sottoscritto? Allora a chi credi che gliene fregherebbe? Ti credi che di Viktor Frankl gliene fregava a qualcuno o che ammiravano la sua umanità finché non gli ha dato Alla ricerca di un significato della vita? Non sto dicendo che è successo a me o a lui o a mia moglie e nemmeno che è successo ma mettiamo che sia successo. Mettiamo che io lo facessi a te. Proprio qui. Stuprata con una bottiglia. Ti credi che cambierebbe qualcosa? Perché? Cosa sei tu? Come fai a saperlo? Tu non sai un cazzo.
Ottetto
Quiz a sorpresa 4
Due drogati terminali all’ultimo stadio erano seduti contro il muro di un vicolo senza niente da iniettarsi, niente di niente, nessun posto dove andare o stare. Uno soltanto aveva un cappotto. Faceva freddo, e uno dei drogati terminali batteva i denti e sudava e tremava per la febbre. Sembrava gravemente malato. Puzzava da fare schifo. Stava seduto contro il muro con la testa sulle ginocchia. Questo succedeva a Cambridge, Massachusetts in un vicolo dietro il Commonwealth Centre per il Recupero delle Lattine di Alluminio di Massachusetts Avenue nelle prime ore del 12 gennaio 1993. Il drogato terminale col cappotto si tolse il cappotto e corse a rannicchiarsi vicino al drogato terminale gravemente malato e prese e stese il cappotto in modo che li coprisse tutti e due e poi si rannicchiò un altro poco tanto da ritrovarsi schiacciato contro l’altro e lo circondò con un braccio e lasciò che si sentisse male sul suo braccio, e rimasero cosí insieme contro il muro per tutta la notte.
D: Quale dei due è sopravvissuto.
Quiz a sorpresa 6
Due uomini, X e Y, sono intimi amici, ma poi Y fa qualcosa per offendere, allontanare, e/o fare infuriare X. Erano stati molto intimi. Anzi si può dire che la famiglia di X aveva quasi adottato Y quando era arrivato in città da solo e ancora non aveva famiglia né amici e aveva trovato un posto nello stesso reparto della stessa azienda dove lavorava X, e X e Y lavoravano fianco a fianco e diventarono compari, e di lí a poco Y è sempre a casa di X e sta con la sua famiglia quasi ogni sera dopo il lavoro, e questo va avanti un pezzo. Ma poi Y fa a X una specie di torto, una cosa come scrivere la Valutazione di un Collega accurata ma negativa su X all’azienda, o rifiutarsi di coprire X quando commette un grave errore di giudizio e si ficca nei guai e ha bisogno che Y menta per coprirlo in qualche modo. Il punto è che Y ha fatto un qualcosa di onorevole/onesto che X vede come sleale e/o offensivo, e X ora è veramente furioso con Y, e ora quando Y va ogni sera a casa della famiglia di X per stare con loro come al solito X è glaciale con lui, o sprezzante da raggelare, o certe volte addirittura sbraita con Y davanti alla moglie e ai figli della famiglia di X. In risposta a tutto questo, però, Y continua semplicemente a andare a casa della famiglia di X e a stare con loro e a subire tutte le offese che X spiattella, annuendo con aria meditabonda in risposta ma senza dire niente né rispondere in altro modo all’ostilità di X. In una particolare occasione X urla letteralmente a Y di «andar[sen] e all’inferno» lontano dalla casa della sua famiglia e lo prende a mezzi pugni e mezzi schiaffi, proprio davanti a uno dei bambini della famiglia, tanto forte da far volare gli occhiali di Y, e Y in risposta non fa altro che tenersi la guancia e annuire con aria meditabonda al pavimento mentre raccoglie gli occhiali e aggiusta meglio che può con le mani il perno di una stanghetta che si è storta, e anche dopo questo continua ancora a presentarsi e a stare a casa di X come un membro adottato dalla famiglia e a restarsene lí a subire tutto quello che X spiattella come ritorsione per qualunque cosa Y possa avergli fatto. Perché Y lo faccia (cioè continui a presentarsi e a stare dagli X) non è chiaro. Forse Y è fondamentalmente un tipo patetico e senza spina dorsale e non sa dove altro andare e con chi stare. O magari Y è uno di quei tipi tranquilli con una spina dorsale d’acciaio che sono tanto forti interiormente da non lasciarsi toccare da nessun tipo di insulto o umiliazione, ed è capace di scorgere (Y è capace) attraverso l’attuale risentimento di X l’amico generoso e fidato che prima era sempre stato per Y, e ha deciso (Y ha deciso, forse) di andare da loro e tenere duro e continuare a farsi vedere lasciando stoicamente che X sfoghi qualunque accesso di collera sente il bisogno di sfogare, e alla fine X probabilmente si stuferà di essere incazzato per tanto tempo con Y che non reagisce né contraccambia né fa niente per aggravare ulteriormente la situazione. In altre parole, non è chiaro se Y è patetico e senza spina dorsale o incredibilmente forte e compassionevole e saggio. In un’unica specifica ulteriore occasione, quando X salta letteralmente su un’estremità del tavolo di fronte a tutta la famiglia X e urla a Y di «alza[re] il culo e i tacchi e porta[r]li fuori dalla casa della [sua, cioè di X] cazzo di famiglia e resta[r] ci», Y se ne va davvero per le cose che X dice, ma anche dopo quell’ulteriore episodio Y torna di nuovo lí a ciondolare davanti alla casa degli X la sera immediatamente successiva dopo il lavoro. Forse a Y la moglie e i figli di X piacciono proprio tanto, e per questo ritiene che valga la pena continuare a presentarsi e sopportare il vetriolo di X. Forse Y è in qualche modo sia patetico sia forte... Benché risulta difficile vedere Y come patetico e debole sapendo il po’ po’ di spina dorsale che dev’esserci voluta per scrivere una Valutazione di un Collega negativamene veritiera o per rifiutarsi di mentire o fare qualunque cosa X non gli ha perdonato di aver fatto. Per di piú non è chiaro come la cosa va a finire: cioè se la tenacia passiva di Y si risolve con X che finalmente smette di essere furioso e «perdona» Y e diventa di nuovo il suo compare, o se Y non riesce piú a reggere l’ostilità e alla fine smette di ciondolare attorno alla casa di X... o se tutta la situazione incredibilmente tesa e poco chiara continua semplicemente all’infinito. Si era trattato di un mezzo schiaffo perché X aveva la mano parzialmente aperta quella volta che aveva colpito Y. C’è da aggiungere come la dichiarata inimicizia di X verso Y e la reazione passiva di Y abbia influito su alcune dinamiche entro le mura domestiche della famiglia X, cioè se la moglie e i figli di X sono inorriditi da come X tratta Y oppure se concordano con X sul fatto che Y in qualche modo gliel’ha messo al culo e quindi fondamentalmente condividono la rabbia di X. Questo potrebbe influire su come prendono il fatto che Y continua a presentarsi ogni sera e a ciondolare davanti a casa loro anche se X gli ha detto chiaro e tondo che non è piú il benvenuto, cioè se ammirano la fermezza stoica di Y o la trovano raccapricciante e patetica e vorrebbero che alla fine ricevesse il messaggio smettendola di comportarsi come se fosse ancora un membro onorario della famiglia, o quant’altro. In effetti qui salta fuori che tutta la mise en scène sembra troppo carica di ambiguità per ricavarne un buon Quiz a Sorpresa.
Quiz a sorpresa 7
Una signora sposa un uomo che appartiene a una famiglia ricchissima e fanno un figlio e lo amano molto tutti e due, anche se col passare del tempo sono sempre meno presi l’uno dall’altra, finché alla fine la signora sottopone all’uomo i documenti per il divorzio. La signora e l’uomo vogliono tutti e due la custodia del bambino, ma la signora naturalmente presume che alla fine sarà lei a ottenerla perché è cosí che di solito vanno le cose nelle cause di divorzio. Ma l’uomo ci tiene davvero tanto a ottenere l’affidamento. Che sia perché ha un forte istinto paterno e ci tiene davvero a allevare il figlio o perché si vuole vendicare del fatto che gli sono stati notificati i documenti per il divorzio e vuole farla pagare alla signora negandole la custodia non è chiaro. Ma non importa, perché se c’è una cosa chiara è che tutta la ricca e potente famiglia dell’uomo si schiera dietro l’uomo in questo frangente e ritiene che sia lui a dover ottenere la custodia (probabilmente perché credono che l’uomo, essendo un rampollo della famiglia, debba ottenere tutto quello che vuole – è una famiglia di quel genere). Cosí la famiglia dell’uomo si presenta dalla signora e le dice che se lei contrasta il loro rampollo per la custodia del figlio loro per ritorsione ritireranno il generoso fondo fiduciario che avevano istituito alla nascita del bambino, un fondo fiduciario sufficiente a garantirne la sicurezza finanziaria per tutta la vita. Niente Custodia Niente Fondo Fiduciario, dicono. Cosí la signora (che, a proposito, aveva firmato un documento prima del matrimonio, e non percepisce assolutamente nulla in termini di retribuzione o di assegni matrimoniali a seguito degli accordi sul divorzio indipendentemente da come si risolve la questione della custodia) si ritira dalla battaglia per la custodia lasciando che l’uomo e la sua odiosa famiglia ottengano la custodia del bambino che cosí continuerà a godere del fondo fiduciario.
D: (A) È una buona madre 1.
Quiz a sorpresa 6(a)
Ritenta. Stesso X del QAS6. Al vecchio padre della moglie di X viene diagnosticato un cancro al cervello inoperabile. La smisurata famiglia della moglie di X è davvero legata e interconnessa, e vivono tutti lí nella stessa città di X e della moglie e del suocero e di sua moglie, e dal momento che si apprende la diagnosi la famiglia è percorsa da una vena indubbiamente wagneriana di preoccupazione e angoscia e dolore; e la moglie e i figli di X, piú a portata di mano, per cosí dire, sono terribilmente sconvolti dall’inoperabile cancro al cervello del vecchio anche perché la moglie di X è sempre stata legatissima al padre e i figli di X amano il nonnino alla follia e sono spudoratamente viziati dato che lui in cambio si compra il loro affetto; e adesso il padre della moglie di X va progressivamente indebolendosi e soffrendo e morendo di cancro al cervello, e tutta la famiglia di X e la famiglia acquisita sembrano piangere in anticipo la morte effettiva del vecchio e non fanno che essere tutti incredibilmente e ininterrottamente distrutti e isterici e tristi.
Lo stesso X si trova in una posizione delicata rispetto a tutta la faccenda del suocero-con-un-cancro-inoperabile-al-cervello. Lui e il padre della moglie non erano mai stati in rapporti molto intimi e amichevoli, e in realtà una volta il vecchio aveva letteralmente esortato la moglie di X a divorziare da X durante un periodo di maretta qualche anno prima quando nel loro matrimonio c’era stata maretta e X aveva commesso alcuni spiacevoli errori di giudizio e aveva riferito delle indiscrezioni che una delle sorelle patologicamente ficcanaso e ciarliera di sua moglie era andata a spifferare al padre e che il padre com’è tipico aveva preso in modo censorio e bigotto comunicando a gran voce a ogni singolo membro della famiglia che considerava il comportamento di X disgustoso e assolutamente infra-dignitater, e aveva esortato la moglie di X a lasciarlo (a lasciare X), e X non l’aveva affatto dimenticato con gli anni, tutt’altro, perché dopo quel periodo di maretta e le condanne del vecchio X si è sentito in qualche modo di passaggio e tangenziale e persona non grata rispetto all’intera brulicante interconnessa legatissima famiglia della moglie, famiglia che a quel punto include le consorti e relativi figli dei sei fratelli di sua moglie e vari prozii e prozie toporagneschi e una schiera disparata di cugini, tanto che ogni estate tocca affittare un’intera sala conferenze del sindacato locale per la tradizionale Riunione di Famiglia (le maiuscole sono loro) della famiglia acquisita, e a quell’evento annuale X in qualche modo viene sempre fatto sentire di passaggio sempre guardato con occhio diffidente e sentenzioso, tale e quale il classico intruso che dà una sbirciatina.
Il senso di alienazione di X dalla famiglia della moglie si è ora ulteriormente intensificato, perché tutto quell’enorme fastidioso branco ora sembra incapace di pensare o parlare d’altro che del cancro al cervello del vecchio patriarca dagli occhi d’acciaio e delle spietate varianti del trattamento e dell’infermità e del costante deperimento e delle possibilità evidentemente scarsissime di durare piú di qualche mese al massimo, e sembra che non la smettano piú di parlare di questo ma soltanto fra loro, di modo che ogni volta che X è a fianco della moglie durante uno qualsiasi di quei lugubri consigli di famiglia si sente sempre marginale e superfluo e subdolamente escluso, come se la legatissima famiglia della moglie in quel frangente di crisi si avvolgesse ancora piú strettamente intorno a se stessa, facendo sentire X ancora piú respinto ai margini. E gli incontri di X con lo stesso suocero, ogni volta che X accompagna la moglie nelle sue continue visite alla stanza del vecchio nella opulenta casa neoromanica sua (cioè del vecchio) e di sua moglie all’altro capo della città (e in quella che sembra una galassia economica completamente a parte) rispetto a casa degli X che è alquanto modesta, sono particolarmente strazianti, per tutte le ragioni suddette piú il fatto che il padre della moglie di X – il quale, anche se a quest’ora è relegato su uno speciale esclusivo letto ospedaliero regolabile fatto portare dalla famiglia, e ogni volta che X è lí giace fuori combattimento nello speciale letto ad alta tecnologia assistito da un infermiere specializzato portoricano, è comunque sempre sbarbato in modo impeccabile e agghindato e vestito di tutto punto, con la sua brava cravatta a strisce diagonali a nodo doppio e i lucenti occhiali trifocali d’acciaio, come se da un momento all’altro dovesse balzare su e farsi dare dal portoricano il suo vestito di Pucci e la toga e tornarsene al 7° Tribunale Federale di Prima Istanza a pronunciare qualche sentenza spietatamente ben ponderata, una veste e una condotta che tutta la famiglia sconvolta sembra considerare un ulteriore segno della straziante dignità e dum spero joie de vivre e forza di volontà della vecchia quercia – che il suocero sembra sempre palesemente gelido e distaccato nel modo di trattare X durante quelle visite doverose, mentre X da parte sua, goffamente in piedi dietro la moglie attirata lacrimevolmente a chinarsi sul letto del malato come un cucchiaio o una bacchetta di metallo attirato e piegato dall’oscena forza di volontà di un sensitivo, di solito si sente sopraffare prima dall’alienazione poi dal disgusto e dal risentimento e infine da vero e proprio malanimo nei confronti del vecchio dagli occhi d’acciaio che, a dire la verità, X ha sempre segretamente pensato fosse un coglione di prima categoria, e ora scopre che basta anche solo lo scintillio delle lenti trifocali del suocero a dargli il tormento, e non può fare a meno di sentire che lo odia; e il suocero, da parte sua, sembra cogliere il celato odio involontario di X e di rimando dà la chiara impressione di non essere affatto allietato o rincuorato o confortato dalla presenza di X e di non desiderare affatto la presenza di X nella stanza con la signora X e l’unto infermiere professionale, desiderio che trova X amaramente concorde interiormente anche se si sforza di sfoggiare un sorriso ancora piú ampio e partecipe e compassionevole nello spazio della stanza, cosí che X si sente sempre confuso e disgustato e furioso nella stanza del vecchio con la moglie e finisce sempre col chiedersi che ci sta a fare lí tanto per cominciare.
X, però, naturalmente, si vergogna sempre anche un po’ di provare tanta avversione e risentimento in presenza di un essere umano nonché parente legittimo in costante e inoperabile declino, e dopo ogni visita al lustro capezzale del vecchio, riconducendo l’afflitta consorte a casa in silenzio, X redarguisce segretamente se stesso e si chiede dove stanno il suo decoro e la sua compassione di fondo. Localizza una fonte ancora piú profonda di vergogna nel fatto che da quando si è saputo della diagnosi terminale del suocero, lui (cioè X) ha speso tanto di quel tempo e di quelle energie a pensare solo a se stesso e alle sue sensazioni di rancorosa esclusione dal Drang del clan familiare della moglie quando, in fondo, il padre della moglie sta soffrendo e morendo proprio davanti ai loro occhi e l’adorante moglie di X è quasi prostrata dall’angoscia e dal dolore e i sensibili e innocenti figli degli X soffrono anche loro terribilmente. X si preoccupa segretamente che l’evidente egoismo delle sue sensazioni interiori durante quel periodo di autentica crisi familiare in cui la moglie e i figli meritano tanto chiaramente la sua compassione e il suo sostegno potrebbe rappresentare la prova di un orribile difetto nella sua struttura umana, una specie di ignobile ghiaccio centrale dove dovrebbero risiedere i nodi cardiaci della partecipazione e dell’interessamento per gli altri, ed è sempre piú tormentato dalla vergogna e dall’incertezza, e perciò si vergogna e si preoccupa doppiamente del fatto che vergogna e incertezza siano già di per sé un autocompiacimento e perciò compromettano ulteriormente la sua capacità di essere sinceramente preoccupato e presente verso la moglie e i figli; e si tiene per sé tutte le sensazioni segrete di alienazione e disgusto e risentimento oltre alla vergogna e all’autourticazione relativa alla vergogna stessa, e non gli sembra il caso di andare dalla moglie afflitta e opprimerla/inorridirla ulteriormente con il suo pons asinorum autocompiaciuto, anzi prova talmente tanto disgusto e vergogna per quello che teme di aver scoperto sulla struttura del proprio cuore da essere insolitamente sottomesso e riservato e reticente con chiunque nei primi vari mesi della malattia del suocero e da non parlare a nessuno delle tempeste che infuriano con moto centripeto dentro di lui.
La penosa malattia tumorale inoperabile e degenerativa del suocero si protrae per tanto di quel tempo, però – vuoi perché è una forma insolitamente lenta di cancro al cervello vuoi perché il suocero è il tipo dell’infame vecchia quercia che si aggrappa ferocemente alla vita il piú a lungo possibile, il classico caso per cui è stata originariamente concepita l’eutanasia è opinione personalissima di X, vale a dire che è uno di quei pazienti che continua a trascinarsi e a degenerare e a soffrire orribilmente ma non ne vuole sapere di accettare l’inevitabile e tirare quelle cazzo di cuoia e non sembra preoccuparsi minimamente della sofferenza involontaria che quell’ignobile indugiare degenerativo infligge a chi, per una qualche ragione imperscrutabile, gli vuole bene, vuoi per tutti e due i motivi – e il segreto conflitto e la vergogna corrosiva di X finiscono per logorarlo a tal punto e renderlo cosí inetto sul lavoro e catatonico a casa che alla fine getta l’orgoglio alle ortiche e va con la coda tra le gambe dal suo fidato amico e collega Y e gli espone tutta la situazione ab initio ad mala, confidando a Y il glaciale egoismo dei suoi (di X) sentimenti piú profondi durante la crisi della sua famiglia e descrivendo dettagliatamente la sua intima vergogna per l’antipatia che prova quando sta in piedi dietro la sedia della moglie al capezzale in lega d’acciaio completamente regolabile da 6500 dollari del suo ora grottescamente emaciato e incontinente suocero con la lingua del vecchio che penzola e la faccia che si contorce in raccapriccianti spasmi clonici e agli angoli della sua (del suocero) bocca deformata si raccoglie continuamente una schiuma giallognola nel tentativo di parlare e la sua 2 testa ormai asimmetricamente protuberante e oscenamente fuori misura sulla federa di lino italiano a 300 filati e gli occhi del vecchio offuscati ma ancora crudelmente ferrigni dietro gli occhiali d’acciaio trifocali vagano scavalcando la faccia angosciata della signora X per andare a posarsi sulla rigida espressione accorata di commiserazione e sostegno che X in macchina fa di tutto per plasmare e assumere in occasione di quelle visite strazianti e roteano allontanandosi immediatamente nella direzione opposta – gli occhi del suocero roteano – sempre accompagnati da una stridula esalazione di disprezzo, come se leggessero senza difficoltà la mendace ipocrisia dell’espressione di X e scorgessero l’antipatia e l’egoismo che nasconde e tornassero ancora a mettere in discussione il senno della figlia nel restare legata a un commercialista insignificante e riprovevole; e X confessa a Y di aver cominciato, durante quelle visite al capezzale del vecchio coglione incontinente, a fare silenziosamente il tifo per il tumore, brindando mentalmente alla sua salute e desiderando che continui la sua crescita metastasica, e di aver segretamente cominciato a considerare quelle visite come rituali di commiserazione e sostegno verso il tumore maligno nel ponte di Varolio del vecchio, sí è cosí, mentre alla povera moglie X lascia credere di essere lí al suo fianco perché compassionevolmente partecipe della preoccupazione per il vecchio... ora X sta vomitando fino all’ultima goccia il conflitto e l’alienazione e l’autocastigo interiori dei mesi precedenti implorando Y di capire quanto sia difficile per X raccontare ad anima viva la sua vergogna segreta e di sentirsi onorato e obbligato per la fiducia che X ripone in lui e di trovare nel proprio cuore la compassione di astenersi dal giudicare X e per l’amor del cielo di non raccontare a nessuno del cuore criovelato e malignamente egoista che X teme possano aver rivelato i suoi sentimenti piú intimamente segreti durante l’infernale prova.
Se questo scambio catartico avvenga prima che Y faccia qualunque cosa abbia fatto per rendere X cosí furioso con lui 3, o se lo scambio sia avvenuto dopo e dunque questo indica che la passività stoica di Y nel tenere duro sotto le ingiurie di X ha dato i suoi frutti e tra loro si è ristabilita l’amicizia – o magari se addirittura sia stato proprio questo scambio a scatenare la rabbia di X per il presunto «tradimento» di Y, cioè se X in seguito s’è fatto l’idea che Y sia andato a spifferare qualcosa alla signora X riguardo al fatto che il marito era tutto preso da sé durante quello che per lei fino a quel momento rappresentava forse l’unico vero periodo di cataclisma emotivo della propria vita – niente di tutto ciò è chiaro, ma questa volta non c’è problema perché non ha un’importanza fondamentale perché la cosa che ha un’importanza fondamentale è che X, per una combinazione di dolore e estrema fatica, alla fine fa atto di sottomissione e mette a nudo il proprio cuore necrotico davanti a Y e chiede a Y quello che secondo Y lui (X) dovrebbe fare per risolvere il conflitto interiore e porre fine alla vergogna segreta e essere sinceramente capace di perdonare il suocero morente per il fatto di essere un tale coglione titanico nella vita e per buttarsi il passato alle spalle e ignorare in qualche modo i giudizi farisaici e la palese avversione del vecchio coglione compiaciuto nonché le sensazioni di X di essere persona non grata marginalizzata e in un certo senso starsene lí a cercare di dare sostegno al vecchio e sentirsi partecipe con l’intera massa isterica e brulicante della famiglia di sua moglie e di essere davvero lí e dare sostegno e stare al fianco della signora X e dei piccoli X in quel loro momento di crisi e per una volta pensare davvero a loro invece di restare ripiegato sulle proprie sensazioni segrete di esclusione e risentimento e viva cancrosum nonché di autoodio e autourticazione e vergogna bruciante.
Come è probabilmente emerso dal non riuscito QAS6, è nella natura di Y essere laconico e schivo al punto che ci vuole quasi una mezza nelson come presa per indurlo a fare una cosa presuntuosa come dare dei consigli. Ma X, ricorrendo a Y per condurre un esperimento immaginario dove Y fa finta di essere X e riflette ad alta voce su quello che lui (intendendo Y nei panni di X) farebbe di fronte a quell’orripilante e maligno pons asinorum, induce infine Y a dichiarare che probabilmente la cosa migliore che lui (cioè Y nei panni di X, e dunque in senso lato lo stesso X) possa fare in quella situazione è semplicemente di presenziare passivamente, cioè limitarsi a Farsi Vedere, continuare a Esserci – almeno fisicamente se non altro – ai margini dei consigli di famiglia e al fianco della signora X nella stanza del padre. In altre parole, dice Y, far sí che il presenziare e sopportare in silenzio i sentimenti di ripugnanza e ipocrisia e egoismo e disapprovazione diventino la sua penitenza segreta e il suo regalo al vecchio, senza per questo smettere di accompagnare la moglie né andare a far visita al vecchio né fare atto di presenza ai consigli di famiglia, in altre parole X deve semplicemente limitarsi agli atti e processi fisici puri e semplici, smettere di tormentarsi il cuore e di preoccuparsi della sua struttura e semplicemente Presenziare 4... e quando X ribatte che per l’amor del cielo è quello che già ha fatto per tutto il tempo, Y gli dà una timida pacca sulla sua (cioè di X) spalla e si arrischia a dire che a lui (=Y) X ha sempre dato l’impressione di essere molto piú forte e saggio e compassionevole di quanto lui, X, non voglia riconoscere.
Tutto questo fa sentire X un po’ meglio – vuoi perché il consiglio di Y è sentito e incoraggiante o vuoi piuttosto semplicemente perché X ha tratto un certo sollievo dal vomitare finalmente i segreti maligni che gli danno la sensazione di averlo corroso – e le cose procedono piú o meno come prima con il lento declino dell’odioso suocero e il dolore della moglie di X e le infinite sceneggiate e consigli di famiglia, e con X che, dietro il suo rigido sorriso accorato, continua a sentirsi carico d’odio e confuso e autourticante ma che ora si sforza di considerare questo infetto maelstrom emotivo come un sentito regalo per la cara moglie e – sussulto – il suocero, e l’unico altro sviluppo significativo degli ultimi sei mesi è che la moglie dagli occhi infossati di X e una delle sorelle prendono l’antidepressivo Paxil e che due nipoti acquisiti vengono fermati per presunte molestie a una handicappata mentale nell’ala adibita ai corsi di sostegno della loro scuola media.
E le cose procedono in questo modo – con X che ora periodicamente va con la coda tra le gambe da Y per trovare un ascoltatore comprensivo e fare di quando in quando un esperimento immaginario, e presenzia passivamente ma con prepotente costanza al capezzale del patriarca e ai relativi consigli di famiglia, tanto che i prozii piú burloni della famiglia della moglie di X cominciano a fare delle battutine sul fatto che sarebbe il caso di spolverarlo – e, alla fine, una mattina presto a circa un anno di distanza dalla diagnosi iniziale, l’inoperabilmente devastato e straziato e illucido vecchio suocero si decide a tirare le cuoia, spirando col possente fremito di un tarpone atlantico preso a randellate 5, e viene imbalsamato e imbellettato e abbigliato (come da codicillo) con la sua toga e commemorato in una funzione dove il feretro è tenuto per tutto il tempo su un catafalco che domina gli astanti, e dove gli occhi della povera moglie di X sembrano due enormi bruciature di sigaretta fresche su una coperta acrilica, e dove X al suo fianco – suscitando in un primo momento il sospetto e poi la sorpresa commossa della massa dei suoi congiunti di nero vestiti – piange piú a lungo e piú forte di chiunque altro, e la sua sofferenza è tanto estrema e sincera che, uscendo dalla sagrestia episcopale, è la stessa sparuta suocera a mettere il proprio fazzoletto in mano a X e a consolarlo con una breve pressione sul braccio sinistro mentre viene aiutata a salire sulla limousine, e quel pomeriggio stesso X viene invitato tramite una telefonata personale dal figlio maggiore e piú occhi d’acciaio del suocero a partecipare, insieme alla signora X, a una privatissima e esclusivissima Riunione post-inumazione della cerchia piú intima della famiglia orbata nella biblioteca dell’opulenta casa del defunto giudice, un gesto mirato a includerlo che suscita nella signora X le prime lacrime di gioia da molto prima che cominciasse a prendere il Paxil.
La stessa riunione esclusiva – che, secondo un calcolo che X fa lí per lí, vede presente meno del 38% del totale della sua famiglia acquisita, e sfoggia coppe da brandy di Remy Martin preriscaldate e sigari cubani sfacciatamente verdeggianti per gli uomini – prevede che divani di pelle e antiche ottomane e sedie con lo schienale alto e solide scalette da biblioteca a tre pioli Willis & Geiger vengano disposti in un grande cerchio, e intorno a quel cerchio il 37,5% dei membri piú interni e ora a quanto pare piú intimi della famiglia acquisita di X deve sedere e declamare brevemente a turno i propri ricordi e sentimenti relativi al defunto suocero e il rapporto personale speciale e esclusivo avuto con lui durante la sua vita lunga e straordinariamente illustre. E X – che è seduto goffamente su una scaletta di quercia accanto alla sedia con lo schienale alto della moglie, e stando alla sua posizione nel cerchio dovrebbe essere il quart’ultimo a parlare, e che è al quinto bicchiere di brandy, e il cui sigaro per qualche misteriosa ragione continua a spegnersi, e che sente delle fitte alla prostata da moderate a violente dovute alla struttura a strisce dell’ultimo piolo della scala – scopre, mentre aneddoti ed encomi sentiti e a volte piuttosto commoventi circoscrivono quell’intima cerchia, che ha sempre meno idea di cosa dire.
D: (A) Ovvia.
(B) Durante quell’intero anno di malattia terminale del padre, la signora X non ha dato segno di sapere niente del conflitto interiore e dell’orrore autoinfetto di X. X è dunque riuscito a tenere segreta la propria condizione interiore, cosa che per tutto l’anno ha professato di desiderare. Va tenuto presente che non è la prima volta che X nasconde dei segreti alla signora X. Parte della confusione e dell’instabilità interiori di quell’intervallo premortem, però – come X confida a Y dopo che il vecchio bastardo finalmente è schiattato – è dipesa da questo: per la prima volta da quando sono sposati, il fatto che la moglie di X non sapesse di X qualcosa che X non voleva che lei sapesse, non ha fatto sentire X sollevato o sicuro o in gamba ma al contrario triste e alienato e solo e addolorato. Il punto: ora X, dietro le espressioni di commiserazione e i gesti solleciti, si scopre segretamente arrabbiato con la moglie per un’ignoranza che lui ha fatto di tutto per coltivare, e mantenere. Dare una valutazione.
Quiz a sorpresa 9
Sei, purtroppo per te, uno scrittore di narrativa. Ti stai misurando con un ciclo di brevissimi brani bellettristici, brani che guarda caso non sono esattamente contes philosophiques né schizzi o scenari o allegorie o fiabe, per quanto non possano essere qualificati come veri e propri «racconti» (e nemmeno come quelle raffinatissime microarchitettate Storie Lampo che negli ultimi anni vanno tanto di moda – anche se questi brani bellettristici sono davvero brevi, non funzionano affatto come dovrebbero le Storie Lampo). È difficile descrivere esattamente come dovrebbero funzionare i brevi brani del ciclo. Diciamo che in un certo senso dovrebbero costituire una sorta di «interrogazione» alla persona che li legge – cioè palpazioni, sonde negli interstizi della sua sensibilità verso qualcosa, ecc... per quanto definire esattamente cosa sia questo «qualcosa» resta di una difficoltà esasperante, anche solo per te mentre lavori ai brani (brani che stanno richiedendo una quantità di tempo davvero folle, tra l’altro, un tempo decisamente maggiore del dovuto a paragone della loro lunghezza e «peso» estetico, ecc. – in fondo, tu non sei diverso da tutti gli altri, è solo che hai un sacco di tempo a disposizione e lo devi distribuire giudiziosamente, soprattutto visto che c’è di mezzo la carriera (già: siamo arrivati al punto che persino gli scrittori di narrativa bellettristica ritengono di avere una «carriera»)). Sai per certo, però, che i brani narrativi sono davvero soltanto «brani» e nient’altro, cioè è il modo come si combinano all’interno del piú ampio ciclo che li contiene a essere cruciale per quel «qualcosa» che vuoi «interrogare» nella «sensibilità» umana, e via dicendo.
Cosí crei un ciclo in otto parti di questi piccoli brani a mortasa e tenone 6. E si rivela un fiasco totale. Cinque degli otto brani non funzionano affatto – nel senso che non interrogano né palpano come volevi, e per di piú sono troppo artificiosi o troppo caricaturali o troppo irritanti o tutt’e tre le cose – e ti tocca buttarli via. Il sesto brano funziona solo dopo averlo rifatto da cima a fondo in un modo che è cosí imperviamente lungo e carico di digressioni e, temi, forse cosí denso e ripiegato su se stesso che nessuno arriverà mai alla parte interrogatoria finale; per di piú poi nella temuta Fase della Revisione Finale ti rendi conto che la riscrittura del 6° brano dipende in modo cosí massiccio dalla prima versione che devi di nuovo inserire anche la prima versione nell’ottociclo, anche se questa (cioè la prima versione del 6° brano) per un buon 75% fa acqua da tutte le parti. Ti risolvi a un tentativo di rimediare al disastro estetico di dover inserire la prima versione del 6° brano anteponendo direttamente il fatto che quella prima versione fa acqua da tutte le parti e non funziona come «Quiz a Sorpresa» e facendo cominciare la riscrittura del 6° brano con l’ammissione secca e senza tante scuse che si tratta di un altro «tentativo» di ottenere quanto cercavi di palpare nell’interrogabilità nella prima versione. Queste ammissioni intranarrative presentano l’ulteriore vantaggio di diluire leggermente la pretenziosità di dare ai brevi brani la struttura di cosiddetti Quiz, ma presentano anche lo svantaggio di strizzare l’occhio a un’autoreferenzialità metanarrativa – vale a dire il fatto di avere «Questo Quiz a Sorpresa non funziona» e «Questo è un altro tentativo del n° 6» all’interno del testo stesso – che a fine anni Novanta, quando perfino Wes Craven sfrutta al botteghino l’autoreferenzialità metanarrativa, potrebbe risultare zoppicante e trita e facile e corre anche il rischio di compromettere la curiosa pressione verso quanto tu senti di volere che i brani interroghino in chiunque li legga. È una pressione che tu, lo scrittore di narrativa, senti molto... be’, pressante, e vuoi che la senta anche la lettrice – vale a dire che non vuoi assolutamente che la lettrice finisca col pensare che il ciclo è solo un furbesco esercizio formale in fatto di struttura interrogativa e metatesto di routine 7.
Tutto questo provoca un serio (e spaventosamente dispendioso in termini di tempo) rompicapo. Non solo ti ritrovi con utilizzabile soltanto la metà dell’ottetto che avevi concepito in origine 8 – e una metà dichiaratamente arrangiata e imperfetta – ma c’è anche la questione del modo pressante e necessario in cui prevedevi che gli otto brani bellettristici originari dovessero unirsi per formare un unico insieme ottuplicato, che doveva finire per interrogare sottilmente la lettrice sul solo argomento proteiforme ma comunque unificato che tutte le esplicite, tutt’altro che sottili «D» alla fine di ciascun Quiz a Sorpresa – sempre che questi quesiti si vadano anche loro a incastrare nel contesto organico del piú vasto insieme – finiscono per palpare. Questa stramba esigenza pressante univoca può o meno avere senso per chiunque altro, ma aveva senso per te, e era sembrata... be’, ancora una volta, pressante, tanto da valere il rischio di dare una prima impressione di vacuo esercizio formale o di colpi bassi pseudometabellettristici alla struttura non convenzionale modello «Quiz a Sorpresa» dei brani. Eri pronto a scommettere che la strana pressione emergente dall’insieme organicamente unificato dei brani due-per-due-per-due dell’ottetto (che ti immaginavi come una dualità manichea elevata alla potenza una e trina di una sorta di sintesi hegeliana rispetto a argomenti sui quali erano chiamati a «decidere» sia i personaggi sia i lettori) avrebbe attenuato l’impressione iniziale di cazzata metaformale postintelligente finendo (speravi) per interrogare davvero la tentazione iniziale della lettrice di liquidare i brani come «vacui esercizi formali» semplicemente sulla base delle strutture formali che hanno in comune, costringendola a riconoscere che il fatto di liquidarli in quel modo si basava esattamente sullo stesso genere di vacue preoccupazioni formalistiche di cui lei (almeno all’inizio) accusava l’ottetto.
Solo che – e qui arriviamo al rompicapo – anche se hai buttato e riscritto e rinserito quasi interamente i brani di quello che ormai è un quartetto 9 senza pre-occuparti minimamente dell’unità organica e della pressione comunicativa implicate, ora non sei affatto sicuro che qualcuno possa avere la piú remota idea di come i quattro 10 brani dell’ottetto finiscono per «combinarsi» o per «avere in comune», cioè di come si vanno a aggiungere a un autentico «ciclo» unificato la cui pressione trascende la pressione aggiuntiva delle singole parti che lo compongono. Cosí ora ti trovi nella scomoda posizione di cercare di leggere il semiquartetto «oggettivamente» cercando di capire se la stramba pressione ambiente che come tu stesso avverti permea tutti i brani sopravvissuti può essere avvertita o anche solo intuita da qualcun altro, cioè da una perfetta estranea che magari si mette seduta dopo una lunga giornata di lavoro e cerca di rilassarsi leggendo questo «Ottetto» bellettristico 11. E lo sai che ti sei andato a ficcare in un vicolo cieco dei peggiori, come scrittore di narrativa. Esistono modi giusti e proficui di «immedesimarsi» nella lettrice, e dover cercare di immaginarti nei panni della lettrice non è tra questi; anzi, è pericolosamente vicino alla temuta trappola di cercare di indovinare se alla lettrice «piacerà» ciò a cui stai lavorando, e sia tu sia i pochissimi amici scrittori di narrativa che hai sanno che non c’è modo piú rapido di metterti l’ansia addosso e stroncare qualsiasi pressione umana nella cosa a cui stai lavorando che cercare di calcolare in anticipo se quella cosa «piacerà». È semplicemente letale. Una analogia potrebbe essere: Immagina di essere andato a una festa dove non conosci quasi nessuno, e poi tornando a casa all’improvviso ti rendi conto che per tutta la festa ti sei talmente preoccupato di capire se piacevi o no ai presenti che adesso non hai la minima idea se a te è piaciuto qualcuno di loro. Chiunque abbia avuto una simile esperienza sa che è assolutamente letale presentarsi a una festa con un simile atteggiamento. (Per non dire che naturalmente quasi sempre salta fuori che in effetti non sei piaciuto agli intervenuti, per la semplice ragione che per tutto il tempo sei sembrato cosí ripiegato su te stesso e impacciato che hanno avuto la raccapricciante sensazione subliminale che stessi usando la festa semplicemente come una specie di palco dove esibirti e che loro nemmeno li hai notati e che te ne sei andato senza avere nemmeno la vaga idea se loro ti piacevano o no, cosa che li offende e fa sí che tu non gli piaccia (loro, in fondo, sono solo degli esseri umani, e hanno le stesse insicurezze sul fatto di piacere che hai tu)).
Ma dopo il necessario concentrato di preoccupazione e paura e procrastinazione e sperpero di Kleenex e rosicchiamento di nocche, tutt’a un tratto capisci che è possibilissimo che la struttura formale interrogativa / «dialogica» del semiottetto – quella stessa struttura che all’inizio sembrava pressante perché era un modo di strizzare l’occhio alla potenziale comparsa di cazzate metatestuali per ragioni che sarebbero (avevi sperato) apparse altrettanto profonde e di gran lunga piú pressanti del solito trito e ritrito programma «Ehi-guarda-me-che-guardo-te-che-guardi-me» della solita trita e ritrita metanarrativa di routine, ma che poi ti ha cacciato in un rompicapo costringendoti a buttare i Quiz a Sorpesa che non funzionavano o che finivano per risultare scontati e leziosi oltremisura anziché pressantemente onesti e di riscrivere il QAS6 in un modo che sembrava pericolosamente meta-eggiante lasciandoti con un mezzo ottetto dissolto e campato palesemente in aria dalla pressione ambiente originale ma univoca che ora non eri piú affatto sicuro sarebbe pervenuto a qualcun altro dopo tutti i tagli e le rielaborazioni e la perdita di tempo in generale, ficcandoti nel letale vicolo cieco bellettristico di cercare di prevedere i meccanismi della mente e del cuore della lettrice – che proprio questa forma euristica avanguardesca dall’aria potenzialmente disastrosa potesse fornirti una via di fuga dal soffocante rompicapo, un’occasione di rimediare al fiasco potenziale di te che senti che i brani 2 + (2(1)) si vanno a aggiungere a qualcosa di pressante e umano mentre la lettrice non sente niente di tutto questo. Perché adesso ti viene in mente che potresti semplicemente chiederlo a lei. Alla lettrice. Che puoi cacciare il naso fuori dal buco nel muro che il «6 non funziona come Quiz a Sorpresa» e «Questo è un altro tentativo» ecc. hanno già fatto e rivolgerti direttamente alla lettrice chiedendole senza mezzi termini se lei sente qualcosa di quello che senti tu.
La chiave per la soluzione è che dovresti essere onesto al 100%. E questo non significa semplicemente sincero ma pressoché nudo. Peggio che nudo – piú disarmato diciamo. Indifeso. «Questa cosa che sento, non so definirla chiaramente ma sembra importante, la senti anche tu?» – questo genere di domanda diretta non fa per i pudibondi. Tanto per cominciare, è pericolosamente vicina a «Ti piaccio? Vorrei tanto piacerti», e sai benissimo che il 99% di tutta la manipolazione interumana e degli stronzissimi colpi bassi che avvengono avvengono proprio perché l’idea di dire chiara e tonda una cosa del genere in qualche modo è considerata oscena. In effetti uno dei pochi ultimissimi tabú interpersonali che ci rimangono è questo tipo di interrogazione diretta oscenamente nuda rivolta a un altro. Sembra patetica e disperata. È cosí che sembrerà alla lettrice. E cosí dovrà essere. Non c’è verso. Se ti fai avanti e le chiedi se e cosa sente, non ci può essere niente di lezioso o di retorico o di finto-onesto-per-piacerle nella cosa. Lo liquida in partenza. Lo capisci? Un briciolo meno della sincerità inerme patetica nuda e cruda e ti ritrovi dritto nel funesto rompicapo. Ti devi presentare a lei con la coda tra le gambe al 100%.
In altre parole quello che potresti fare a questo punto è creare un «Quiz a Sorpresa» aggiuntivo – e in tutto sarebbe il nono, ma in un altro senso solo il quinto o addirittura il quarto, e forse in realtà nessuno di questi perché non sarebbe tanto un Quiz quanto una specie di (ops) metaQuiz – dove cerchi di fare del tuo nudo meglio per descrivere il rompicapo e il potenziale fallimento del semiottetto e la tua sensazione che i brani semiutilizzabili sopravvissuti sembrano tutti cercare di dimostrare 12 una specie di strana identità ambiente nei rapporti 13 umani di vario genere, un «prezzo» indefinibile ma inevitabile che prima o poi tutti gli esseri umani si ritrovano a dover pagare se vogliono davvero «stare con» 14 un’altra persona e non soltanto usarla in qualche modo (come per esempio usare la persona semplicemente come pubblico, o strumento per i propri fini egoistici, o come una specie di attrezzo da ginnastica morale sul quale poter dimostrare il proprio carattere virtuoso (come per le persone che sono generose con gli altri solo perché vogliono essere considerate generose, e in realtà segretamente gli piace quando quelli che le circondano fanno bancarotta o finiscono nei guai, perché significa che cosí si possono precipitare generosamente e far vedere che li aiutano – chiunque ha incontrato persone del genere), o una proiezione narcisisticamente catessica di se stessi, ecc.) 15, un prezzo strambo e indefinibile ma a quanto pare ineluttabile che in effetti in certi casi può equivalere alla morte stessa, o quantomeno di solito equivale a rinunciare a qualcosa (a una cosa o a una persona o a un prezioso sentimento 16 che si nutre da tanto o a una qualche idea di te stesso e della tua virtú/merito/identità) la cui perdita verrà sentita, in modo sincero e pressante, come una specie di morte, e dire che il fatto che ci possa essere (a tuo parere) un’identità cosí schiacciante e elementare in situazioni e mise en scène e rompicapi cosí agli antipodi – cioè che questi «Quiz a Sorpresa» apparentemente diversi e formalmente (ammettilo) un po’ artificiali e leziosetti, alla fine possano essere ridotti tutti alla stessa domanda (qualunque sia esattamente questa domanda) – ti sembra pressante, davvero pressante, qualcosa per cui vale la pena sgattaiolare su per i comignoli e urlare dai tetti. 17
Il che equivale ancora una volta a dire che tu – lo sventurato scrittore di narrativa – dovrai aprire il proscenio 18 e presentarti sul palco nudo (a parte la coda tra le gambe) e dire questa roba direttamente a una persona che non ti conosce o alla quale in un modo o nell’altro non gliene può fregare meno di te e che probabilmente voleva solo tornarsene a casa e tirare su i piedi dopo una lunga giornata e rilassarsi in uno dei pochi modi sicuri e innocui di rilassarsi ormai rimasti 19. Dopodiché ti toccherà chiedere chiaro e tondo alla lettrice se anche lei sente questa curiosa indefinibile identità ambiente pressante e interumana. Il che significa che ti toccherà chiederle se secondo lei l’intero euristico semiottetto campato in aria e scampato per un pelo «funziona» come insieme bellettristico organicamente unificato o no. Proprio mentre legge. Ripeto: considera la cosa attentamente. Non dovresti mettere in campo questa tattica finché non hai considerato lucidamente quello che potrebbe costare. Quello che lei potrebbe pensare di te. Perché se prendi e lo fai (cioè glielo chiedi chiaro e tondo) tutta questa cosa dell’«interrogazione» non sarà piú un innocuo espediente formale bellettristico. Sarà reale. Le romperai le scatole, proprio come a te rompe le scatole un piazzista che ti telefona appena ti sei seduto per rilassarti davanti a una bella cena 20. E considera con che razza di domanda le romperai le scatole. «Funziona, ti piace», ecc. Considera cosa potrebbe pensare di te anche solo per il fatto che chiedi certe cose. Può darsi benissimo che tu (cioè lo scrittore di narrativa della mise en scène) ne venga fuori come il genere di persona che non solo va a una festa ossessionato dall’idea di piacere o meno ma che di fatto se ne va in giro per la festa a chiedere agli estranei se lui a loro piace o no. Cosa pensano di lui, che effetto produce su di loro, se l’immagine che hanno di lui coincide con il complesso palpito dell’idea che lui ha di se stesso, ecc. Presentarti davanti a esseri umani ingenui che volevano solo andare a una festa e rilassarsi un po’ e magari conoscere gente nuova in un’atmosfera informale che non ha niente di minaccioso e piazzarti dritto nel loro campo visivo infrangendo tutte le tacite regole base dell’etichetta sulle feste e sul primo incontro fra estranei e interrogarli esplicitamente proprio sulla cosa che ti fa sentire ripiegato su te stesso e impacciato 21. Prova un momento a immaginare le facce delle persone a una festa dove fai una cosa del genere. Immagina l’espressione delle facce a tutto tondo, coi colori vividi e in tre dimensioni, e poi immagina quell’espressione rivolta a te. Perché sarà questo il rischio corso, il possibile prezzo della tattica dell’onestà – e tieni presente che potrebbe non servire a niente: non è affatto detto che, se il precedente quartetto di brevi quart d’heures a mortasa e tenone non è riuscito a «interrogare» la lettrice o a trasmettere alcuna «identità» o «pressione» sentite, venirsene fuori con la coda tra le gambe a un passo dalla fine e cercare di interrogarla direttamente possa stimolare alcun tipo di rivelazione o pressante identità che poi in qualche modo si ripercuoterà sui brani del ciclo facendo sí che lei li veda sotto una luce diversa. Può darsi benissimo che avrà il solo effetto di farti sembrare un babbeo ripiegato con impaccio su se stesso, o uno dei tanti Artisti Cazzari manipolatori pseudopostmoderni che cerca di rimediare a un fiasco ritirandosi in una metadimensione a commentare il fallimento stesso 22. Anche dalla prospettiva piú magnanima, sembra proprio una situazione disperata. Per non dire patetica. In ogni caso non ti farà apparire saggio o sicuro o abile o nessuna delle cose che di solito i lettori vogliono fingere di credere sia l’artista letterario che ha scritto quello che leggono quando si mettono seduti e cercano di evadere dal flusso insolubile di se stessi per entrare in un mondo di significato precostituito. Semmai ti farà sembrare fondamentalmente smarrito e confuso e spaventato e insicuro sul fatto di poterti fidare anche solo delle tue piú fondamentali intuizioni sulla pressione e l’identità e sul fatto che gli altri dentro di sé vivono le cose in un modo che somiglia vagamente al tuo... piú come un lettore, in altre parole, che se ne sta quaggiú a tremare nel fango della trincea insieme a tutti noi, anziché come uno Scrittore, che nella nostra immaginazione 23 è pulito e asciutto e irradia una presenza autoritaria e convinzioni incrollabili mentre dalle retrovie coordina l’intera campagna in un luccicante astratto quartier generale olimpico.
Perciò decidi.
1 (B) (facoltativa) Spiega se e come ricevere l’informazione aggiuntiva che la signora era lei stessa cresciuta in un ambiente di incredibile e estrema povertà inciderebbe sulla tua risposta a (A).
2 (Cioè del suocero).
3 Vedi sopra il non riuscito QAS6.
4 (Y dice cose come «presenziare» e «esserci» in un modo tale che X in un certo senso immagina quei cliché con la lettera maiuscola, in maniera non dissimile da come sente la famiglia della moglie parlare dell’insopportabile «Riunione» annuale nel salone del sindacato).
5 (Questa la versione di uno dei cognati di X, uno dei membri piú giovani dei Magnifici Sei che non era molto piú affezionato al vecchio di X, e che quando era successo si trovava proprio accanto al capezzale con la moglie imbottita di serotonina).
6 (Fin dall’inizio hai immaginato la serie come un ottetto o ottociclo, va’ a capire perché).
7 (Anche se il tutto si complica un po’, perché in parte vuoi che questi brevi Quiz a Sorpresa abbattano il proscenio testuale e in un certo senso prendano di petto (o «interroghino») la lettrice, desiderio in qualche modo legato al vecchio desiderio del «meta»-espediente di aprire una sorta di proscenio di pretesa realistica, anche se a quanto pare non viene aperto niente di reale se non un velo di impersonalità o annullamento che avvolge lo scrittore stesso; cioè con l’ormai trita «meta»-roba di routine è piú il drammaturgo a comparire sul palco da dietro le quinte per ricordarti che quanto sta accadendo è artificiale e che l’artefice è lui (il drammaturgo) ma se non altro ti rispetta abbastanza come lettore/spettatore da essere onesto sul fatto che lui è là dietro a muovere i fili, «onestà» che a te personalmente ha sempre dato in realtà la sensazione di essere una falsa onestà altamente retorica che vorrebbe portarti a nutrire apprezzamento e approvazione nei suoi (cioè del «meta»-tipo di scrittore) confronti e a sentirti lusingato dal fatto che a quanto pare ti ritiene abbastanza adulto da reggere la notizia che ti ritrovi nel bel mezzo di una cosa artificiale (come se già non lo sapessi, come se avessi bisogno di sentirtelo continuamente ribadire manco fossi un bambino miope che non vede quello che ha a un palmo dal naso), che piú di ogni altra cosa sembra somigliare al tipo di persona appartenente al mondo reale che cerca di manipolarti per farsi apprezzare da te dilungandosi su quanto lui sia aperto e onesto e non manipoli mai nessuno, un tipo ancora piú irritante di quello che cerca di manipolarti mentendoti spudoratamente, visto che quest’ultimo se non altro non sta continuamente a congratularsi con se stesso per non avere fatto esattamente quello che le stesse autocongratulazioni finiscono col fare, vale a dire non interrogarti o avere un qualche tipo di interscambio o addirittura parlare con te, ma semmai recitare* in modo fortemente consapevole e manipolatorio.
Niente di tutto questo è esposto con molta chiarezza e potrebbe anzi dovrebbe essere tagliato. Può darsi che non sia possibile in nessun modo affrontare questa roba sulla vera-onestà-narrativa contro la falsa-onestà-narrativa in modo diretto.
* [Kundera qui direbbe «danzare», e in effetti lui è un esempio perfetto del bellettrista dall’onestà intermuraria tanto formalmente irreprensibile quanto messa al proprio completo servizio: il classico retore postmoderno].
8 Nota – nello spirito del candore al 100% – che non sono in alcun modo dei criteri olimpici altamente estetici ad averti fatto buttare il 63% dell’ottetto originario. È semplicemente che i cinque brani inutilizzabili non funzionavano. Uno, per esempio, riguardava un brillante psicofarmacologo che aveva brevettato un tipo incredibilmente valido di antidepressivo postProzac e Zoloft talmente efficace da eliminare completamente nei pazienti qualsiasi traccia residua di disforia/ anedonia/ agorafobia/disperazione esistenziale e da sostituire il loro disadattamento affettivo con un enorme senso di fiducia personale e joie de vivre, una capacità illimitata di palpitanti rapporti interpersonali, e una convinzione quasi mistica della loro unione sineddochica con l’universo e tutto quanto esso contiene, come pure una gratitudine travolgente e esuberante per tutte le suddette sensazioni; per di piú il nuovo antidepressivo non aveva assolutamente nessun effetto collaterale o controindicazione o interazione pericolosa con altri prodotti farmaceutici e praticamente aveva ottenuto a occhi chiusi l’appprovazione della Food and Drugs Administration; per di piú la materia era sufficientemente semplice e a buon mercato da sintetizzare e lavorare tanto che lo psicofarmacologo poteva prodursela da solo nel suo piccolo laboratorio nello scantinato di casa e venderla a prezzo di costo direttamente per posta agli psichiatri professionisti autorizzati, aggirando i rapaci margini di profitto delle grandi industrie farmaceutiche; e quell’antidepressivo apriva letteralmente una nuova prospettiva nella vita di migliaia e migliaia di americani ciclotimici, molti dei quali erano stati i pazienti piú endogeni e turbolentemente penosi per i loro psichiatri, e ora se ne stavano lí a sprizzare joie de vivre e energia produttiva e un caloroso umile senso della loro immensa fortuna per le stesse, e avevano scoperto l’indirizzo di casa del brillante psicofarmacologo (cioè alcuni dei pazienti l’avevano scoperto, cosa che si era rivelata alquanto facile, visto che lo psicofarmacologo inviava l’antidepressivo direttamente per posta, e a chiunque bastava guardare l’indirizzo del mittente sulle economiche buste imbottite che usava per inviare quella roba), e avevano cominciato a presentarsi a casa sua, prima uno alla volta, poi a gruppetti, e dopo un po’ avevano preso a confluire in numero via via maggiore verso la modesta abitazione privata dello psicofarmacologo, e volevano solo guardare eloquentemente il grande uomo negli occhi e stringergli la mano e ringraziarlo dal profondo del cuore che si era rimesso spiritualmente in moto; e le folle di pazienti grati fuori dalla casa dello psicofarmacologo cominciano a aumentare sempre piú, e alcuni dei pazienti piú risolutamente grati fra la folla hanno montato tende e case mobili coi tubi per le acque di scolo che vanno a scaricare nel canale per le acque piovane ai bordi della strada, e il campanello e il telefono dello psicofarmacologo non fanno che suonare, e i cortili dei vicini vengono calpestati e usati come parcheggio, e vengono infrante dozzine e dozzine di ordinanze sanitarie municipali; e lo psicofarmacologo intrappolato dentro casa alla fine deve fare gli ordinativi per telefono e installare speciali imposte extra-opache alle finestre della facciata anteriore e tenerle sempre chiuse perché non appena la folla all’esterno intravede anche solo una parte di lui muoversi all’interno della casa un’enorme esuberante acclamazione di gratitudine e orgoglio si leva dalle migliaia di persone ammassate e parte una carica dall’aspetto quasi minaccioso verso il portico e il campanello della modesta casetta con i pazienti tornati sani sopraffatti en masse da un sincero desiderio di stingere semplicemente la mano dello psicofarmacologo fra tutt’e due le loro e di dirgli che grande e brillante e altruista santo vivente è e di dirgli che se c’è qualsiasi cosa che possono fare per ripagarlo anche solo in parte per quanto ha fatto per loro e le loro famiglie e l’umanità tutta, be’ , gli basta aprire la bocca, qualsiasi cosa; e cosí naturalmente lo psicofarmacologo finisce in sostanza per diventare prigioniero nella sua stessa casa, con le speciali imposte chiuse e il telefono sganciato e il campanello staccato e i tappi di schiuma a espansione multipla sempre ficcati nelle orecchie per soffocare il rumore della folla, nell’impossibilità di uscire di casa e già all’ultima lattina del niente affatto appetitoso cibo in scatola estratto dai recessi della dispensa e sempre piú prossimo o a recidersi le arterie radiali o a sgattaiolare su per il comignolo del tetto con un megafono e dire alla folla grata e esasperantemente esuberante di cittadini tornati sani di andarsene affanculo e di lasciarlo ai cazzi suoi perché per l’amore di quel cazzo di cielo lui ne ha le balle piene... dopodiché secondo lo schema del «Quiz a Sorpresa» del ciclo ci sono delle domande facilmente prevedibili riguardo a se e perché lo psicofarmacologo possa aver meritato quanto gli è successo e se è vero che ogni mutamento significativo nel rapporto complessivo gioia/disperazione nel mondo debba sempre essere compensato da un aumento radicale all’altro capo dell’equazione, ecc... e il tutto va avanti troppo a lungo ed è al tempo stesso troppo ovvio e troppo oscuro (per es. la seconda parte della parte sulla «D» del Quiz spreca cinque righe a costruire una possibile analogia tra il rapporto mondiale gioia/disperazione e l’equazione seminale della partita doppia «A=L+E» della moderna ragioneria, neanche gliene potesse fregare qualcosa a piú di una persona su mille), in piú tutta la mise en scène è troppo caricaturale, tanto che dà l’impressione di cercare di essere solo grottescamente divertente anziché grottescamente divertente e grottescamente seria allo stesso tempo, tanto che qualsiasi vera pressione umana nello scenario e nelle palpazioni del Quiz viene oscurata da quella che sembra essere piú una commedia commerciale cinica di quelle da scompisciarsi, che tanto per cominciare ha già succhiato tanta di quella pressione sentita dalla vita morale contemporanea, un difetto che ironicamente è quasi l’opposto di quello che impone la cancellatura di un altro degli otto brevi brani originari, un «QAS» su un gruppo di immigranti del primo ’900 provenienti da una zona esotica dell’Europa orientale che sbarcano a Ellis Island e vengono ispezionati e dopo aver superato l’esame per la TBC hanno la sfortuna di capitare con un certo Ispettore Ufficiale d’Ammissione di Ellis Island che è psicoticamente sciovinista e sadico e sui loro documenti d’ammissione trasforma l’esotico cognome originario di ciascun immigrante in ogni sorta di disgustoso ridicolo indecente termine inglese che lo ricorda vagamente – Pavel Leckmerd, Milorad Kazzalcul, Djerdap Mocch, tanto per darti un’idea – e naturalmente gli immigranti che ignorano la lingua del paese non si oppongono e nemmeno se ne accorgono, ma naturalmente la cosa ben presto diventa e rimane un infernale motivo di ridicolo e vergogna e discriminazione che pesa sulle loro vite americane nonché motivo di un torturante risentimento del tipo vendetta est-europea che permane ininterrottamente fino alla casa di riposo di Brooklyn NY dove in vecchiaia finiscono un certo numero di quegli immigranti nomologicamente tormentati; finché un bel giorno improvvisamente alla casa di riposo compare una vecchia faccia devastata ma misteriosamente familiare mentre il proprietario della faccia viene ispezionato e ammesso e spinto con il suo serbatoio dell’ossigeno portatile tra i vecchi immigranti nella sala della TV, e prima il vecchio occhio di lince Ephrosin Stockazzish e poi via via tutti gli altri improvvisamente riconoscono nel nuovo arrivato la malandata carcassa senescente del malvagio I.U.A. di Ellis Island, ormai paralizzato e muto e enfisematico e totalmente fuori uso; e il gruppo di una dozzina circa di immigranti raggirati che si sono portati appresso il ridicolo e l’offesa e la rabbia quasi ogni giorno delle ultime cinque decadi devono decidere se sfruttare quell’occasione perfetta di ottenere vendetta: ne nasce un lungo dibattito se sia giustificato tagliare il filo dell’O2 al vecchio paralitico o qualcosa del genere e se non sia stato un Dio est-europeo giusto e misericordioso a volere che il vecchio sadico ex I.U.A. venisse portato proprio in quella particolare casa di riposo o se invece vendicarsi dei loro nomi ridicoli torturando/uccidendo un vecchio invalido non trasformerebbe gli immigranti nell’incarnazione vivente di quell’infamia e quel disgusto impliciti nei loro stessi nomi, cioè se vendicando l’offesa di quei nomi non arriverebbero, alla fine, a meritarseli... tutto questo in realtà (secondo te) è un po’ freddo, e lo scenario e la controversia recano tracce di quella strana pressione grottesca/redentiva che volevi l’ottetto comunicasse; ma il problema è che gli argomenti spirituali/morali/umani/ sui quali le «domande-Quiz» ((a), (b), eccetera eccetera) di questo brano interrogherebbero il lettore sono già sviscerati per una durata enorme ma narrativamente necessaria al clima del dibattito stile dodici-immigranti-arrabbiati del brano che qui rende la «D» post-scenario poco piú di un referendum a risposta Sí/No; per di piú è anche saltato fuori che il brano non si combinava con gli altri brani piú «utilizzabili» per formare il genere di increspato-ma-pur-sempre-pressantemente-unificato Insieme che renderebbe il ciclo una vera opera d’arte bellettristica anziché un semplice esercizio modaiolo ammiccante pseudoavanguardistico; e cosí per quanto trovi gravido di significato e di pressione nella storia il tema dei «nomi» e dei nomi che si «adattano» anziché semplicemente denotare o connotare, ti mordi il labbro e butti il pezzo fuori dall’ottetto... il che di fatto probabilmente significa che riveli di avere eccome dei criteri, magari non olimpici ma pur sempre criteri e convinzioni, e per quanto l’ottetto si sia rivelato un fiasco con relativa enorme perdita di tempo dovrebbe comunque essere motivo di una sia pur minima consolazione.
9 (O meglio «due-piú-tentativi-duali-di-ottenere-il-terzo», qualunque sia il quantificatore di derivazione latina).
10 (O quello che sono).
11 (Tu sei sempre dell’idea di intitolare il ciclo «Ottetto». Non importa se per gli altri ha senso o no. Su questo punto sei intransigente. Che questa intransigenza sia una specie di integrità o semplicemente follia è argomento sul quale ti rifiuti di rimuginare sprecando ore di lavoro. Hai deciso per «Ottetto» e «Ottetto» sarà.)
12 (Forse non è la parola giusta... troppo pedantesca; forse è il caso di usare la parola trasmettere o evocare se non addirittura tratteggiare (palpare è già stata troppo usata, ed è possibile che della stramba ispezione psicospirituale che volevi indicare con l’analogia medica non se ne accorgerà nessuno, e fino a un certo punto va anche bene, perché la lettrice in un certo senso può saltare le singole parole senza stare a farsi grossi problemi, ma non ha senso forzare la tua buona sorte battendo e ribattendo all’infinito su palpare). Se tratteggiare non finisce col sembrare sfacciatamente pretenzioso io sarei per usare tratteggiare).
13 (È bene che tu sappia che questo è un termine, rapporto, venuto quasi alla nausea nell’uso contemporaneo, reso stucchevole dallo stesso genere di persone che usa l’aggettivo genitoriale e dice esternare nel senso di parlare, e una lettrice della fine degli anni ’90 ne stillerà ogni sorta di stomachevoli associazioni con PC e New Age; ma se decidi di impiegare la tattica dello pseudometaQuiz e la nuda onestà che comporta il tentativo di rimediare al fiasco, probabilmente ti toccherà deciderti a usarlo – il temuto termine che inizia per «R» – a qualunque costo).
14 (Ibid. anche usando il verbo stare in questo modo culturalmente avvelenato, come in «Stare Insieme», diventato il genere di vuoto scibboleth allo zucchero filato che non comunica niente all’infuori di una certa cretineria scriteriata in chi parla. Non facciamo tanto gli ingenui su cosa ti costerà questa tattica della nuda interrogazione al 100% onesta rivolta alla lettrice se decidi di sperimentarla. Ti toccherà ingoiare il rospo e tirare avanti e usare davvero termini come stare con e rapporto, e usarli sinceramente – cioè senza virgolette o sarcasmi o ammiccamenti di alcun genere – se vuoi essere veramente onesto nello pseudometaQuiz e non soltanto strattonare ironicamente a destra e sinistra la povera lettrice (che capirà benissimo quale delle due cose fai; anche se non saprà esprimerlo a parole capirà se stai cercando di salvare il tuo culo bellettristico manipolandola – fidati).
15 Puoi desiderare o meno di sprecare un paio di righe per invitare la lettrice a considerare se non è strano che i modi di «usare» qualcuno sono letteralmente un miliardo in piú rispetto a quelli di «stare con» loro onestamente. Dipende da quanto vuoi che sia lungo e/o contorto questo QAS9. Io propenderei per non farlo (probabilmente piú per la paura di apparire potenzialmente pio o ovvio o prolisso che per qualche preoccupazione disinteressata per la brevità e il punto essenziale), ma per te si tratterà di suonare in un certo senso a orecchio.
16 Ibid. Anche le note 15 e 16 su sentimento/sentimenti – insomma, nessuno ha detto che sarebbe stato indolore o gratis. Si tratta di un’operazione di salvataggio in extremis. Non è priva di rischi. Vedersi costretti a usare parole come rapporto e sentimento potrebbe peggiorare le cose. Non ci sono garanzie. Io non posso fare altro che essere onesto e metterti davanti alcuni dei prezzi e dei rischi piú terrificanti e sollecitarti a prenderne atto e avvisarti di ponderarli molto attentamente prima di decidere. Onestamente non vedo cos’altro potrei fare.
17 Ebbene sí: risulterai pio e melodrammatico. Che ci vuoi fare?
18 (Tra le tante cose che dovrai aprire).
19 Ebbene sí: siamo arrivati al punto che ormai la narrativa bellettristica viene considerata sicura e innocua (il primo attributo probabilmente è derivato o contenuto dal secondo, se ci pensi), ma al posto tuo eviterei di tirare in ballo la politica culturale.
20 (... Solo peggio, in realtà, perché in tal caso sarebbe piú come se ti comprassi in un ristorante una cena da asporto dal prezzo esorbitante e la portassi a casa e fossi sul punto di sederti per cercare di gustartela quando squilla il telefono ed è lo chef o il ristoratore o chiunque sia quello che ti ha appena venduto la cena che adesso chiama e ti rompe le scatole proprio mentre sei lí che cerchi di mangiarla per chiederti com’è la cena e se te la stai gustando e se «funziona» o meno come cena. Immagina cosa sentiresti nei confronti di un ristoratore che ti fa una cosa del genere).
21 (... che poi naturalmente con tutta probabilità è l’argomento che fa sentire impacciati anche loro – riguardo a se stessi e se loro piacciono alle altre persone presenti alla festa – e perciò è un tacito assioma dell’etichetta festaiola che tu non faccia a bruciapelo certe domande, o che non ti comporti in modo da far piombare un’interazione festaiola in questo genere di maelstrom da ansia interpersonale: perché una volta che anche soltanto una conversazione festaiola raggiunge questo genere di pressante livello smascherato di esprimi-i-tuoi-pensieri-piú-riposti la cosa si diffonde in modo quasi metastatico, e in men che non si dica tutti i presenti attaccherebbero a parlare unicamente delle proprie speranze e paure su quello che gli altri intervenuti pensano di loro, e questo significa che tutte le caratteristiche che contraddistinguono la personalità superficiale delle varie persone verrebbero annullate, e tutti i presenti ne risulterebbero piú o meno esattamente identici, e la festa raggiungerebbe una sorta di omeostasi entropica di identità scopertamente ossessionata da se stessa, e diventerebbe di una noia mortale*, oltre al fatto paradossale che le pittoresche caratteristiche superficiali tra le persone sulle quali gli altri basano il proprio piacere o dispiacere verso quelle persone svanirebbero, e dunque la domanda «Ti piaccio» cesserebbe di avere una base per una risposta significativa, e tutta la festa andrebbe incontro a una specie di stramba implosione logica o metafisica, e nessuna delle persone intervenute riuscirebbe piú ad agire in modo sensato nel mondo esterno**.
* (È forse interessante notare che questo corrisponde rigorosamente all’idea che la maggior parte degli atei hanno del paradiso, cosa che a sua volta aiuta a spiegare la relativa popolarità dell’ateismo)**.
** (Però, se fossi in te, tutto questo lo lascerei implicito).
22 A volte questa tattica, ai convegni di narrativa bellettristica o cos’altro, viene chiamata «Carsoneggiamento» o «Manovra di Carson» in onore del fatto che l’ex conduttore del Tonight Show Johnny Carson salvava una battuta infelice assumendo un’espressione impacciata e mortificata che in un certo senso metacommentava l’infelicità della battuta e mostrava al pubblico che lui sapeva benissimo che era infelice, strategia che di anno in anno e di decennio in decennio spesso provocava nel pubblico una risata piú grande e divertita di quanto non avrebbe fatto la battuta originaria riuscita... e il fatto che Carson si sia avvalso di questa Manovra nell’intrattenimento commerciale al minimo comune denominatore già a partire dalla fine degli anni ’60 dimostra che non è esattamente uno stratagemma mozzafiato originale. Forse vorrai prendere in considerazione l’idea di inserire alcune di queste informazioni nel «QAS9» allo scopo di dimostrare alla lettrice che sei consapevole del fatto che ormai il metacommento non regge e sa di muffa e da solo non rimedia piú a niente – questo può conferire credibilità alla tua pretesa che quanto stai cercando di fare in realtà è molto piú pressante e reale. Ripeto, spetta a te deciderlo. Nessuno ti terrà per la manina.
23 (Nella mia, almeno...).
Mondo adulto (I)
Prima parte. L’andamento altalenante dello yen
Durante i primi tre anni, la moglie temeva che fare l’amore insieme in qualche modo gli bistrattasse il pisello. L’infiammazione e la tenerezza e il rosa ceffone della punta del pisello. Il leggero sussulto appena la penetrava. Il vago sapore un po’ scottalingua dell’infiammazione quando glielo prendeva in bocca – raramente glielo prendeva in bocca, però; sentiva che qualcosa in quel gesto a lui non piaceva per niente.
Durante i primi tre-tre anni e mezzo di matrimonio, questa moglie, essendo giovane – e piena di sé (come si rese conto solo in seguito) –, aveva creduto che dipendesse da lei. Il problema. Temeva che qualcosa in lei non andasse. Nella sua tecnica amorosa. O magari che un’insolita ruvidezza o spessore o intoppo là sotto gli bistrattassero il pisello, gli facessero male. Si era accorta che le piaceva premere l’osso pubico e la base del sedere contro di lui e strofinarsi quando facevano l’amore insieme, certe volte. Si strofinava contro di lui con tutta la delicatezza che riusciva a imporsi, ma si era accorta che spesso lo faceva quando stava per raggiungere l’orgasmo e certe volte perdeva la testa, e dopo temeva sempre di essersi egoisticamente dimenticata del pisello bistrattandolo un po’ troppo.
Erano una giovane coppia senza figli, anche se a volte parlavano di averne, e dei cambiamenti e delle responsabilità irrevocabili che questo avrebbe comportato.
La moglie usava come metodo contraccettivo un diaframma finché non cominciò a temere che qualcosa nella struttura del bordo o nel modo come lo inseriva o lo teneva potesse non andare e fargli male, aggiungendosi a quel non so che nel loro modo di fare l’amore insieme che sembrava bistrattargli il pisello. Lei lo guardava attentamente in faccia quando la penetrava; si ricordava di tenere gli occhi aperti in attesa di quel lieve sussulto che poteva o meno (capí soltanto in seguito, una volta acquisita una prospettiva piú matura) essere stato davvero piacere, poteva essere lo stesso tipo di piacere illuminante dato dal venire all’unisono di due corpi sposati e avvertiva il calore e la vicinanza che le rendevano cosí difficile tenere gli occhi aperti e i sensi vigili a qualunque cosa lei potesse fare di sbagliato.
In quei primi anni, la moglie si sentiva veramente felice della realtà della loro vita sessuale insieme. Il marito era un magnifico amante, dotato di una sollecitudine e una dolcezza e un’abilità che la facevano quasi impazzire dal piacere, sentiva la moglie. L’unico lato negativo era quella paura irrazionale che qualcosa in lei non andava o che facesse qualcosa di sbagliato impedendogli di godere della loro vita sessuale insieme quanto lei. Temeva che il marito fosse troppo premuroso e altruista per correre il rischio di urtare la sua sensibilità parlando di quello che non andava. Non si era mai lamentato di escoriazioni o infiammazioni o di quel lieve sussulto quando la penetrava, né aveva mai detto altro se non che l’amava e che là sotto l’amava piú di quanto non sapesse dire. Diceva che era indescrivibilmente morbida e calda e dolce là sotto e che entrare dentro di lei era una meraviglia indescrivibile. Diceva che quasi impazziva d’amore e desiderio quando si strofinava contro di lui sul punto di raggiungere l’orgasmo. Non diceva altro che cose generose e rassicuranti sulla loro vita sessuale insieme. Le sussurrava sempre dei complimenti dopo che avevano fatto l’amore, e la stringeva fra le braccia e le rimboccava premurosamente le coperte intorno alle gambe mentre le pulsazioni sessuali della moglie rallentavano e lei cominciava a sentire freddo. Lei amava sentire le gambe ancora leggermente tremolanti sotto il bozzolo di coperte che lui le rimboccava delicatamente. Nell’intimità lui prese anche l’abitudine di accenderle una delle sue Virginia Slims dopo che avevano fatto l’amore insieme.
La giovane moglie sentiva che il marito faceva l’amore in modo semplicemente magnifico, che era un compagno premuroso e attento e altruista e virile e dolce, molto piú di quanto probabilmente lei meritasse; e mentre lui dormiva, o se si alzava nel cuore della notte per controllare i mercati esteri e accendeva la luce nel bagno padronale accanto alla loro stanza e inavvertitamente la svegliava (lei, si rese conto in seguito, aveva il sonno leggero in quei primi anni), la moglie sveglia nel letto riversava tutti i propri timori su di sé. Certe volte mentre era sveglia si toccava là sotto, ma non era piacevole. Il marito dormiva sul fianco destro, girato dall’altra parte. Lo stress lavorativo gli rendeva difficile prendere sonno, e ci riusciva soltanto in quella posizione. Certe volte lei lo guardava dormire. La loro camera da letto padronale aveva un lumino da notte in basso vicino allo zoccolo. Lei credeva che la notte si alzasse per controllare l’andamento dello yen. A causa dell’insonnia poteva capitargli di prendere la macchina nel cuore della notte e arrivare in centro per andare in azienda. C’era da controllare anche l’andamento della rupia e del won e del baht. Aveva anche l’incarico della spesa settimanale dal droghiere, e anche quella di norma la faceva a notte fonda. La cosa sorprendente (lei se ne rese conto solo in seguito, dopo aver avuto un’epifania che l’aveva fatta maturare in fretta), è che non le era mai passato per la mente di fare controlli di nessun tipo.
Adorava che lui le praticasse il sesso orale ma temeva che a lui non piacesse altrettanto quando lei glielo prendeva a sua volta in bocca. Quasi sempre poco dopo la fermava, dicendo che gli faceva venire voglia di stare dentro di lei là sotto invece che nella bocca. Secondo lei doveva esserci qualcosa che non andava nella sua tecnica di sesso orale, e per questo a lui non piaceva quanto a lei, o gli faceva male. Lui aveva raggiunto l’orgasmo dentro la bocca di lei soltanto due volte nel corso del loro matrimonio, e tutt’e due le volte c’era voluta una vita. Tutt’e due le volte c’era voluto tanto di quel tempo che il giorno dopo lei aveva il collo anchilosato, e temeva che non gli fosse piaciuto anche se aveva detto che non trovava le parole per descrivere quanto gli era piaciuto. Lei una volta prese il coraggio a due mani e andò in macchina da Mondo Adulto a comprare un Fallo finto, ma solo per esercitarsi nella tecnica di sesso orale. Aveva poca esperienza in quel campo, lo sapeva. La lieve tensione o turbamento che le sembrava di avvertire nel marito quando lei scendeva lungo il letto e gli prendeva il pisello in bocca forse era solo frutto della sua immaginazione egoista; temeva che il problema fosse tutto nella sua testa. Da Mondo Adulto si era sentita tesa e a disagio. A parte la cassiera, era l’unica donna nel negozio, e la cassiera le aveva lanciato un’occhiata che a lei non era sembrata né opportuna né tantomeno improntata a cortesia professionale, e la giovane moglie aveva portato la busta scura di plastica con dentro il Fallo finto in macchina e era uscita dall’affollato parcheggio cosí in fretta che per poco non sgommava.
Il marito non dormiva mai nudo – metteva mutande pulite e maglietta.
Certe volte lei sognava che andavano in macchina insieme da qualche parte e tutti gli altri mezzi in circolazione erano ambulanze.
Il marito non diceva mai niente riguardo al sesso orale se non che l’amava e che lo faceva impazzire dal desiderio quando glielo prendeva in bocca. Ma quando lei glielo prendeva in bocca e appiattiva la lingua per reprimere il noto Effetto Vomito e muoveva la testa su e giú nei limiti delle sue capacità, stringendo pollice e indice ad anello per stimolare la parte della verga che non riusciva ad accogliere in bocca, praticandogli il sesso orale, la moglie avvertiva sempre una tensione in lui; le sembrava sempre di individuare una lieve rigidità nei muscoli dell’addome e delle gambe e temeva che fosse teso o turbato. Il pisello aveva sempre un sapore infiammato e/o escoriato, e lei aveva paura di irritarlo con i denti o con la saliva impedendogli di provare piacere. Temeva di sbagliare tecnica, e si esercitava in segreto. Certe volte, durante il sesso orale quando facevano l’amore insieme, lei aveva come la sensazione che lui cercasse di arrivare rapidamente all’orgasmo in modo che il sesso orale finisse il prima possibile e che per questo rinunciava subito, di solito. Lei cercava di emettere versi di piacere e eccitazione con la bocca piena del suo pisello; poi, quando piú tardi restava sveglia, certe volte temeva che magari quei versi erano sembrati soffocati o penosi contribuendo ad aumentare la tensione del marito.
La notte del loro terzo anniversario di matrimonio questa giovane moglie immatura, inesperta e emotivamente labile era sola nel letto a tarda ora. Il marito, la cui carriera era molto stressante e gli procurava insonnia e frequenti risvegli, si era alzato per andare nel bagno padronale e poi di sotto nel suo studio, e piú tardi lei aveva sentito il rumore della macchina. Il Fallo finto, che teneva nascosto in fondo al cassetto delle borse, era cosí inumano e impersonale e aveva un sapore cosí orribile che doveva fare appello a tutte le sue forze per esercitarsi. Certe volte lui prendeva la macchina e andava in ufficio nel cuore della notte per controllare in modo piú approfondito i mercati d’oltreoceano; tra le tante valute del mondo il commercio da qualche parte non si arrestava mai. Lei sempre piú spesso restava a letto sveglia ad angustiarsi. Alla loro cena di anniversario si era sbronzata rischiando di rovinare la serata. A volte, quando ce l’aveva in bocca, si sentiva quasi schiacciare dalla paura che il marito non godesse, e le prendeva la smania di portarlo all’orgasmo il prima possibile in modo da avere una «prova» egoistica che lui godeva a starle bocca, e certe volte perdeva il controllo dimenticando le tecniche su cui si era esercitata e cominciava a dimenare la testa quasi freneticamente e a muovere freneticamente il polso su e giú per il pisello, certe volte succhiando letteralmente il buchino sul pisello, esercitando una vera suzione, e nel frattempo temeva di irritarlo o piegarlo o fargli male. Temeva che il marito potesse inconsciamente avvertire la sua ansia di non sapere se lui godeva a tenergli il pisello in bocca e che fosse proprio questo a impedirgli di godere insieme del sesso orale tanto quanto ne godeva lei. Certe volte lei si rimproverava per le proprie insicurezze – il marito era già abbastanza stressato, a causa della carriera. Aveva la sensazione che la sua fosse una paura egoistica, e temeva che il marito avvertisse la sua paura e il suo egoismo e che questo creasse dei malintesi nella loro intimità. La notte bisognava controllare anche il riyal, la dirham, la kyat birmana. L’Australia usava il dollaro ma era un dollaro diverso e bisognava controllarne l’andamento. Taiwan, Singapore, lo Zimbabwe, la Liberia, la Nuova Zelanda: tutte impiegavano dollari di valore fluttuante. I fattori che determinavano l’andamento altalenante dello yen erano molto complessi. La promozione del marito gli guadagnò il nuovo titolo di Analista Valutario Stocastico; titolo che compariva in tutti i suoi biglietti da visita e sulla carta intestata. C’erano complesse equazioni. La perfetta conoscenza che il marito aveva dei programmi finanziari computerizzati e del software valutario era già leggendaria all’azienda, le aveva detto un collega a una festa mentre il marito era andato ancora una volta in bagno.
Lei temeva che qualunque fosse il suo problema, tutto sembrava fuorché risolvibile razionalmente nella sua testa. Parlarne con lui non era pensabile – alla moglie non passava nemmeno per la testa di affrontare un simile argomento. Certe volte lei si schiariva la gola in quel particolare modo che segnalava che aveva qualcosa in mente, ma poi la mente si gelava. Chiedendogli se in lei c’era qualcosa che non andava, l’avrebbe indotto a credere che chiedeva rassicurazioni e lui l’avrebbe rassicurata all’istante – lo conosceva. Era uno specialista dello yen, che però veniva influenzato da altre valute e andava costantemente analizzato. Anche il dollaro di Hong Kong era diverso e influenzava l’andamento dello yen. Certe volte la notte lei temeva di essere pazza. Aveva già rovinato un precedente rapporto intimo con sensazioni e paure irrazionali, lo sapeva. Quasi suo malgrado, in seguito tornò da Mondo Adulto a comprare una videocassetta vietata ai minori, conservandola con tutta la custodia nello stesso nascondiglio del Fallo finto, decisa a studiare e confrontare le tecniche sessuali delle donne nel video. A volte, quando lui dormiva sul suo lato del letto, la moglie si alzava e girava intorno al letto portandosi sull’altro lato e si inginocchiava in terra a guardare il marito al fioco bagliore del lumino da notte, scrutava la faccia addormentata, sperando quasi di scoprirci qualcosa di tacito che l’avrebbe aiutata a non avere piú timori e a sentirsi piú sicura che la loro vita sessuale gli piacesse quanto a lei. La videocassetta vietata ai minori conteneva esplicite immagini a colori di donne che praticavano al partner sesso orale lí sullo schermo. Stocastico significava casuale o congetturale o contenente numerose variabili che andavano tutte controllate attentamente; certe volte il marito diceva scherzando che significava farti pagare per diventare matto.
Mondo Adulto, che aveva una parete di coadiuvanti coniugali e tre di film vietati ai minori, oltre a un corridoietto buio che portava a qualcos’altro sul retro e a un monitor che proiettava un’esplicita scena vietata ai minori proprio lí sopra il registratore di cassa, puzzava da fare schifo in un modo che nei ricordi della moglie non aveva assolutamente precedenti. In seguito avvolse il Fallo finto in vari sacchetti di plastica e andò a buttarlo nel cassonetto la notte prima della raccolta rifiuti. L’unica cosa importante che sentiva di avere imparato studiando la videocassetta era che spesso gli uomini davano l’impressione che gli piacesse guardare quando le donne glielo prendevano in bocca e vedere il loro pisello entrare e uscire dalla bocca della donna. Secondo lei questo poteva spiegare benissimo la tensione muscolare sull’addome del marito quando lei glielo prendeva in bocca – magari si sollevava un po’ per guardare – e cominciò a chiedersi se forse i suoi capelli troppo lunghi non gli impedivano di vedere il pisello entrarle e uscirle dalla bocca durante il sesso orale, e cominciò a chiedersi se fosse o meno il caso di tagliarseli. Fu un sollievo non dover temere di essere meno attraente o sexy delle attrici nella videocassetta vietata ai minori: erano donne di stazza debordante con protesi vistose (per non parlare delle leggere asimmetrie, notò), i capelli tinti, decolorati, e bistrattati che non facevano venire nessuna voglia di toccarli o accarezzarli. In particolare, gli occhi di quelle donne erano vuoti e duri – si capiva benissimo che non vivevano un’esperienza intima o piacevole e non erano minimamente interessate al piacere del compagno.
Certe volte il marito si alzava di notte, e usava il bagno padronale e poi andava nella sua officina vicino al garage e cercava di rilassarsi un paio d’ore con il suo hobby di restaurare mobili.
Mondo Adulto era all’altro capo della città, in una zona degradata di fast food e concessionarie di automobili a un’uscita della superstrada; nessuna delle due volte che era andata via in fretta e furia dal parcheggio la giovane moglie aveva notato macchine che conosceva. Prima del matrimonio il marito aveva spiegato che dormiva in mutande pulite e maglietta da quando era piccolo – semplicemente perché non si sentiva a suo agio a dormire nudo. Lei faceva brutti sogni ricorrenti, e lui l’abbracciava e le diceva cose rassicuranti finché non si riaddormentava. Le poste nel Gioco delle Valute Estere erano alte, e lo studio che lui aveva al piano di sotto restava chiuso a chiave quando non lo usava. Lei cominciò a prendere in considerazione la psicoterapia.
Insonnia in realtà non indicava una difficoltà nel prendere sonno ma un risveglio precoce e irrevocabile, aveva spiegato lui.
Mai una volta nei primi tre anni e mezzo di matrimonio aveva chiesto al marito perché aveva il pisello sbucciato o infiammato, o cosa lei potesse fare di diverso, o qual era la causa. Le sembrava semplicemente impossibile fare una cosa simile. (Il ricordo di quella sensazione di paralisi l’avrebbe sbalordita in seguito, quando diventò una persona assai diversa.) Nel sonno, il marito addormentato su un fianco certe volte sembrava un bambino, tutto rannicchiato su se stesso, un pugno vicino alla faccia, la faccia accesa e l’espressione cosí concentrata da sembrare quasi arrabbiato. Lei si inginocchiava accanto al letto leggermente di sbieco rispetto al marito per consentire alla debole luce del lumino da notte sullo zoccolo di illuminargli la faccia e gli osservava la faccia interrogandosi preoccupata sul perché, irrazionalmente, sembrava impossibile chiederglielo. Non aveva idea del perché lui la sopportasse o di cosa trovasse in lei. Che lo amava moltissimo.
La sera del terzo anniversario di matrimonio, la giovane moglie era svenuta nello speciale ristorante dove lui l’aveva portata a festeggiare. Un attimo prima stava cercando di deglutire il sorbetto guardando il marito da sopra la candela e quello dopo lo guardava inginocchiarsi su di lei chiedendole cosa aveva, la faccia spiaccicata e distorta come il riflesso di una faccia in un cucchiaio. Era spaventata e imbarazzata. I brutti sogni notturni erano brevi e sconvolgenti e sembravano sempre riguardare il marito o la sua macchina ma in modo indecifrabile. Mai cercato un elemento di prova che è uno. Non le era mai venuto in mente di indagare sul perché il marito insistesse a fare tutta la spesa in drogheria a notte fonda; si vergognava solo di come la generosità di lui mettesse in risalto il suo egoismo irrazionale. Quando, in seguito (molto dopo il sogno galvanizzante, la telefonata, il prudente incontro, la domanda, le lacrime, e la sua epifania alla finestra), rifletté su quanto la sua ingenuità fosse tutta presa da se stessa in quegli anni, la moglie sentiva sempre un misto di disprezzo e compassione per la bambina integrale che era stata. Non era mai stata quella che viene definita una stupida. Da Mondo Adulto tutte e due le volte aveva pagato in contanti. Le carte di credito erano intestate al marito.
Giunse cosí alla conclusione che qualcosa in lei non andava: o in lei c’era davvero qualcosa che non andava, o in lei qualcosa non andava per via del timore irrazionale che qualcosa in lei non andasse. Sembrava di una logica a tutta prova. La notte stesa nel letto teneva quella conclusione nella mente e la girava e la rigirava osservandola riflettersi al suo stesso interno come un diamante puro.
Prima di conoscere il marito, la giovane moglie aveva avuto soltanto un altro amante. Era inesperta e lo sapeva. Sospettava che i brevi strani brutti sogni potessero dipendere dal suo Io inesperto che cercava di scaricare l’ansia sul marito, di proteggersi dal fatto di sapere che qualcosa in lei non andava e la rendeva sessualmente molesta o sgradevole. Col primo amante le cose erano finite male, lo sapeva benissimo. Il lucchetto sulla porta dell’officina accanto al garage non era immotivato: attrezzi a motore e mobili antichi restaurati avevano il loro valore. In uno dei brutti sogni, lei e il marito erano stesi insieme dopo aver fatto l’amore, a coccolarsi tutti contenti, e il marito le accendeva una Virginia Slims e poi non gliela voleva dare, tenendola lontana dalla sua portata finché non si consumava da sola. In un altro, erano di nuovo stesi tutti contenti dopo aver fatto l’amore insieme, e lui le chiedeva se per lui era stato bello come per lei. Quella dello studio era l’unica altra porta che restava chiusa a chiave – dentro c’erano un sacco di sofisticati computer e apparecchiature di telecomunicazioni, che fornivano al marito informazioni in tempo reale sull’andamento delle valute nei mercati esteri.
In un altro dei brutti sogni, il marito faceva uno starnuto e poi andava avanti a starnutire, a ripetizione, e per quanto lei facesse niente serviva a farlo smettere. In un altro, lei era il marito che penetrava la moglie, steso sopra di lei nella Posizione del Missionario, e spingeva con forza, e lui (cioè la moglie, che sognava) sentiva la moglie strofinare freneticamente il pube contro di lui prossima all’orgasmo, e a quel punto lui cominciava deliberatamente a spingere piú veloce e a emettere deliberatamente versi maschili di piacere e poi simulava l’orgasmo, facendo deliberatamente i versi e le espressioni di chi ha un orgasmo ma lo trattiene, l’orgasmo, e poi dopo andava nel bagno padronale e si faceva smorfie e boccacce allo specchio mentre raggiungeva l’orgasmo nel gabinetto. L’andamento di alcune valute può subire violente fluttuazioni nel corso di una sola notte, aveva spiegato il marito. Ogni volta che lei si svegliava da un brutto sogno, si svegliava sempre anche lui, e la abbracciava e le chiedeva cosa avesse, e le accendeva una sigaretta o le accarezzava il fianco con estrema sollecitudine e la rassicurava sul fatto che andava tutto bene. Poi si alzava, visto che ormai era sveglio, e scendeva a controllare l’andamento dello yen. Alla moglie piaceva dormire nuda dopo aver fatto l’amore insieme, ma il marito si rimetteva quasi sempre le mutande pulite prima di andare in bagno o girarsi sul fianco per dormire. La moglie restava sveglia e cercava di non rovinare una cosa tanto meravigliosa diventando matta a furia di angustiarsi. Temeva che la lingua le fosse diventata ruvida e pastosa per via del fumo e gli scorticasse il pisello, o che senza volerlo gli raschiava il pisello coi denti quando lo prendeva in bocca per fare sesso orale. Temeva che il nuovo taglio di capelli fosse troppo corto e le facesse la faccia paffuta. Temeva per l’aspetto dei propri seni. Temeva per quell’aria che a volte aveva la faccia del marito quando facevano l’amore insieme.
In un altro brutto sogno, che tornò piú volte, c’era la strada in centro dove si trovava l’azienda del marito, un’immagine della strada vuota a notte fonda, sotto una sottile pioggerella, e la macchina del marito con la targa personalizzata con cui l’aveva sorpreso a Natale che percorreva lentamente la strada verso l’azienda che poi oltrepassava senza fermarsi per tirare dritto lungo la strada bagnata verso un’altra destinazione. La moglie si preoccupava del fatto che quel sogno la sconvolgesse tanto – niente in quel sogno giustificava la sensazione raccapricciante che le dava – e di come sembrava non risolversi a parlare apertamente con lui di quei sogni. Aveva paura che le sarebbe sembrato di accusarlo. Non sapeva spiegare quella sensazione, che la divorava. Né le veniva in mente un modo per chiedere al marito di prendere in esame l’idea della psicoterapia – sapeva che sarebbe stato subito d’accordo, ma si sarebbe preoccupato, e la moglie era terrorizzata all’idea di non riuscire a dare nessuna spiegazione razionale che lo tranquillizzasse. Si sentiva abbandonata e intrappolata nelle proprie paure; era sola.
Mentre facevano l’amore insieme, a volte la faccia del marito assumeva quella che a volte sembrava piú un’intensa concentrazione che un’espressione di piacere, come se fosse sul punto di starnutire e cercasse di trattenersi.
All’inizio del quarto anno di matrimonio, la moglie cominciò a sentirsi ossessionata dal sospetto irrazionale che il marito la notte raggiungesse l’orgasmo nel gabinetto del bagno padronale. Ispezionava attentamente il bordo del gabinetto e il cestino dei rifiuti del bagno quasi ogni giorno, col pretesto di pulire, sentendo che perdeva sempre piú il controllo. Ogni tanto si riaffacciava quel vecchio problema di deglutizione. Cominciava a sentirsi ossessionata dal sospetto che forse il marito non provava un vero piacere quando facevano l’amore insieme ma era tutto concentrato soltanto a far provare piacere a lei, costringendola a provare piacere e desiderio; la notte, sveglia, temeva che lui provasse come un piacere contorto nell’imporle il piacere. Eppure, sapendo quanto basta da essere piena di dubbi (e di sé) in quella fase ancora ingenua, la giovane moglie credeva anche che quei sospetti e quelle ossessioni irrazionali fossero soltanto il suo Io giovanile, egocentrico che scaricava le sue inadeguatezze e paure di una sincera intimità sul marito innocente; e lei cercava disperatamente di non rovinare il loro rapporto con sospetti folli e mal riposti, proprio come aveva distrutto e fatto fallire il rapporto col precedente amante con le sue paure irrazionali.
E cosí la moglie lottava con tutte le forze contro la propria mente implume e inesperta (credeva allora), convinta che il vero problema fosse nella sua immaginazione egoista e/o nella sua inadeguata persona sessuale. Lottava contro la preoccupazione che sentiva per come, quasi sempre, quando a letto scendeva lungo il corpo del marito e glielo prendeva in bocca, lui quasi sempre (sembrava allora), dopo aver aspettato con il pisello nella sua bocca e i muscoli addominali tesi e rigidi per quella che sembrava esattamente la premurosa quantità minima di tempo, allungava sempre dolcemente le braccia verso di lei e dolcemente ma fermamente la faceva risalire lungo il proprio corpo per baciarla appassionatamente e penetrarla da sotto, fissandola negli occhi con espressione concentratissima mentre lei gli montava sopra a cavalcioni, sedendosi sempre leggermente curva per l’imbarazzo dovuto alla lieve asimmetria dei seni. Il modo come lui emetteva un rantolo di passione o di fastidio e allungava le braccia per tirarla su e le infilava dentro il pisello con un solo gesto fluido, quel rantolo che sembrava involontario, come a volerla convincere che il solo fatto di avere il pisello nella sua bocca lo faceva impazzire dal desiderio di penetrarla da sotto, diceva, e di possederla, diceva, «su da vicino» accanto a sé anziché da «cosí lontano» in fondo al corpo. Questo quasi sempre la faceva sentire a disagio quando si metteva a cavalcioni, curva e dondolante e con le mani del marito sui fianchi e a volte perdeva la testa e strofinava l’osso pubico contro il pube di lui, con la paura che quello strofinare unito al proprio peso potesse provocare delle ferite ma il piú delle volte perdeva la testa e premeva involontariamente un poco di traverso e si strofinava contro di lui con sempre minor cautela, a volte addirittura inarcando la schiena e offrendo i seni per farseli toccare, fino al momento che lui quasi sempre – diciamo nove volte su dieci – emetteva un altro rantolo di passione o impazienza e ruotava un poco su un lato tenendole le mani sui fianchi, e la faceva rotolare dolcemente ma fermamente insieme a lui finché non ce l’aveva sotto e le si piazzava sopra con il pisello ancora affondato nel suo corpo oppure la ripenetrava con fluidità da sopra; i suoi erano gesti fluidi e delicati e non le faceva mai male cambiando posizione e raramente doveva ripenetrarla, ma la moglie, dopo, ogni volta si preoccupava che lui quasi mai arrivava all’orgasmo (sempre che ci fosse mai arrivato davvero) quando le stava sotto, che appena sentiva l’orgasmo crescere dentro di sé sembrava avvertire un bisogno ossessivo di ruotare e penetrarla da sopra, dalla familiare Posizione del Missionario di dominio maschile, e anche se cosí il pisello affondava meglio là sotto, cosa che la faceva godere moltissimo, temeva che il bisogno del marito di averla sotto durante l’orgasmo indicasse che quando stava a cavalcioni e si muoveva sopra di lui faceva qualcosa che o gli faceva male o gli impediva quel piacere intenso che lo avrebbe portato all’orgasmo; e cosí la moglie a volte soffriva nel ritrovarsi assillata dai timori anche quando avevano finito e lei aveva un’altra piccola scossa post-orgasmica strofinandosi dolcemente contro di lui da sotto e cercava sul viso del marito la prova di un orgasmo autentico e a volte gemeva di piacere sotto di lui con una voce che, le capitava di pensare, somigliava sempre meno alla propria.
La relazione sessuale che la moglie aveva avuto prima di conoscere il marito si era verificata quando era ancora giovanissima – poco piú che una bambina, si rese conto in seguito. Si era trattato di una relazione seria, monogama, con un giovane al quale si era sentita molto legata e che era un magnifico amante, appassionato e generoso e molto esperto (le era sembrato) nella tecnica sessuale, molto chiacchierone e affettuoso durante il rapporto amoroso, e sollecito, e amava che lei glielo prendesse in bocca per fare sesso orale, e non aveva mai dato l’impressione di essere ferito o infiammato o turbato quando lei perdeva la testa e si strofinava contro di lui, e chiudeva sempre gli occhi dal piacere appassionato quando si muoveva in modo incontrollato durante l’orgasmo, e lei (a quella tenera età) sentiva di amarlo e amava stare con lui e non le riusciva difficile immaginare di sposarlo e legarsi seriamente a lui per sempre – finché non aveva cominciato, verso la fine del primo anno della loro storia, a soffrire del sospetto irrazionale che quando facevano l’amore insieme lui immaginasse di fare l’amore con altre donne. Il fatto che l’amante chiudesse gli occhi quando provava un intenso piacere con lei, cosa che all’inizio l’aveva fatta sentire sessualmente sicura e compiaciuta, cominciò a preoccuparla moltissimo, e il sospetto che immaginasse di essere dentro altre donne quando era dentro di lei diventò sempre piú un’orribile convinzione, pur sapendo che era infondata e irrazionale, che esisteva solo nella sua mente, e che parlandone al suo amante l’avrebbe offeso mortalmente, finché non diventò un’ossessione, anche se non esistevano prove evidenti e lei non ne aveva mai fatto parola; e anche se credeva che tutta la cosa esistesse quasi sicuramente solo nella sua testa, l’ossessione diventò cosí terribile e schiacciante che cominciò a evitare di fare l’amore con lui, e cominciò ad avere improvvise esplosioni emotive irrazionali per delle sciocchezze, esplosioni di rabbia isterica o di lacrime che di fatto erano esplosioni del timore irrazionale che lui fantasticasse di rapporti sessuali con altre donne. Verso la fine della relazione, lei si era sentita completamente inadeguata e autodistruttiva e pazza, ed era uscita da quella storia con una paura terribile per la capacità che la sua mente aveva di tormentarla con sospetti irrazionali e di avvelenare una relazione seria, e questo si andava ad aggiungere al tormento provato per il timore ossessivo che adesso viveva nella relazione sessuale col marito, una relazione che, all’inizio, era sembrata anche piú stretta e intima e appagante di quanto non credesse razionalmente di meritare, sapendo sul proprio conto tutto quello che credeva di sapere.
Parte seconda. YEN4u
Una volta lei, quand’era adolescente, in un bagno femminile lungo l’Interstatale, su un muro, in alto a destra rispetto al distributore automatico di tamponi e prodotti per l’igiene femminile, aveva visto, circondata da declamazioni oscene e da rudimentali disegni di genitali e dalle semplici e in un certo senso sonore oscenità incise da varie mani anonime, spiccare per colore e forza un’unica poesiola scritta a lettere maiuscole e con un pennarello rosso,
IN TEMPI ANDATI
LA DONNE NON LE AVEVANO INVENTATE
E GLI UOMINI SAPIENTI
TROVAVANO RIFUGIO
IN OGNI ALTRO PERTUGIO
ED ERANO FELICI
E ANCHE CONTENTI [,]
minuscola e precisa e in qualche modo sembrava – per qualcosa nella minuscola precisione della calligrafia circondata com’era da tutti quegli scarabocchi – non tanto volgare o rude quanto semplicemente triste, e da allora l’aveva sempre tenuta a mente, e a volte ci pensava, senza alcun motivo, nel buio degli anni immaturi del suo matrimonio, anche se, per quanto avrebbe ricordato in seguito, l’unico vero significato che aveva attribuito a quel ricordo era che è buffo quello che ti rimane impresso.
Parte terza. Mondo adulto
Nel frattempo, tornando al presente, la moglie immatura sprofondava sempre piú dentro se stessa e dentro i propri timori diventando sempre piú infelice.
A cambiare e salvare tutto fu l’epifania che ebbe. Ebbe un’epifania a tre anni e sette mesi dal matrimonio.
Nella terminologia profana dello sviluppo psichico, epifania è quando all’improvviso si capisce qualcosa che ti cambia la vita, e spesso catalizza la maturazione emotiva di un individuo. L’individuo, in un lampo accecante, «cresce», «diventa grande». «Liquida le cose infantili». Libera illusioni ammuffite e irrancidite dalla stretta degli anni. Diventa, nel bene e nel male, cittadino della realtà.
In realtà, le epifanie autentiche sono estremamente rare. Nella vita adulta contemporanea, maturazione e acquiescenza verso la realtà sono processi graduali, incrementali e spesso impercettibili, non dissimili dalla formazione di un calcolo renale. Nell’uso moderno di solito epifania viene utilizzato come metafora. Di solito è soltanto nelle rappresentazioni teatrali, nell’iconografia religiosa, e nel «pensiero magico» dei bambini che il frutto dell’intuizione è compresso in un unico lampo accecante.
A provocare l’improvvisa accecante epifania della giovane moglie fu l’abbandono dell’attività mentale in favore dell’azione concreta e forsennata 1. Bruscamente (decidendo nel giro di poche ore) e forsennatamente telefonò all’ex amante col quale aveva avuto in precedenza una storia seria, che ora a quanto pareva era socio dirigente di un’autoconcessionaria locale, implorandolo di fissare un appuntamento perché gli doveva parlare. Quella telefonata fu una delle cose piú difficili e imbarazzanti che la moglie (si chiamava Jeni) avesse mai fatto. Appariva irrazionale e rischiava di sembrare completamente inopportuna e sleale: lei era sposata, quello era il suo ex-amante, in quasi cinque anni non si erano mai rivolti la parola, la loro storia era finita male. Ma lei era in crisi – temeva, come disse al suo ex amante al telefono, per la propria salute mentale e aveva bisogno di aiuto e, se necessario, l’avrebbe elemosinato. L’ex amante accettò di incontrare la moglie a pranzo il giorno successivo in un fast food vicino all’autoconcessionaria.
La crisi che aveva galvanizzato la moglie, Jeni Roberts, spingendola all’azione era a sua volta provocata semplicemente da un altro dei suoi brutti sogni, che però costituiva una sorta di compendio di molti altri brutti sogni che l’avevano tormentata durante i primi anni di matrimonio. Il sogno di per sé non era un’epifania, ma il suo effetto fu galvanizzante. La macchina del marito passa lentamente davanti alla sua azienda in centro e tira dritto sotto una sottile pioggerella, la targa personalizzata YEN4u che rimpicciolisce, seguita dalla macchina di Jeni Roberts. Poi Jeni Roberts sta guidando sulla trafficatissima superstrada che gira attorno alla città, cercando disperatamente di non perdere di vista la macchina del marito. Il battito del tergicristallo va a ritmo col suo cuore. Non vede piú la macchina con la sua speciale targa personalizzata da nessuna parte ma ha quella specie di angosciosa certezza onirica tutta particolare che sia lí. Nel sogno, tutti gli altri veicoli sulla superstrada hanno un’associazione simbolica con l’emergenza e la crisi – le sei corsie sono tutte piene di ambulanze, macchine della polizia, furgoni cellulari, autopompe antincendio, volanti di pattuglia, e veicoli di emergenza di ogni sorta, tutti con le sirene che cantano le loro arie da sincope e tutti con le luci accese e lampeggianti sotto la pioggia tanto che a Jeni Roberts sembra che la macchina nuoti nel colore. Un’ambulanza proprio davanti a lei non la lascia passare; cambia corsia ogni volta che lei si sposta. L’angoscia senza nome del sogno è di un orrore indescrivibile – la moglie, Jeni, sente che deve (tergicristallo) deve (tergicristallo) deve assolutamente raggiungere la macchina del marito per prevenire un disastro cosí orribile da non avere nome. Sulla corsia di emergenza della superstrada scorre quello che sembra un fiume di Kleenex fradici soffiati dal vento; Jeni si sente la bocca piena di escoriazioni brucianti; è notte, è bagnato e tutta la strada è immersa nei colori di emergenza – rosa ceffone, rosso scappellotto e il blu dell’asfissia acuta. È quando sono bagnati che capisci perché chiamano i Kleenex fazzolettini di tessuto, che scorrono accanto. I tergicristalli vanno al ritmo affannato del suo cuore, e l’ambulanza, nel sogno, ancora non la lascia passare; lei schiaffeggia forsennatamente il volante in preda alla disperazione. E ora al finestrino posteriore dell’ambulanza, come in risposta, appare una solitaria mano aperta sul vetro, che preme e schiaffeggia il vetro, una mano che si tende da una specie di barella o lettiga del pronto soccorso e si apre a ragno per percuotere e schiaffeggiare e premere sbiancando contro il vetro del finestrino posteriore perfettamente visibile alla luce dei fari retrattili alogeni della Accord di Jeni Roberts che vede distintamente l’anello all’anulare della mano maschile aperta forsennatamente contro il vetro di emergenza e urla (nel sogno) riconoscendola e sterza bruscamente a sinistra senza mettere la freccia, tagliando la strada a vari altri veicoli d’emergenza e si accosta all’ambulanza dicendo per favore di fermarsi perché il marito stocastico che ama e deve in qualche modo raggiungere è lí dentro su una barella a starnutire ininterrottamente e a schiaffeggiare forsennatamente il finestrino perché qualcuno che ama lo raggiunga e lo aiuti; ma poi (e la forza trascinante del sogno è tale che la moglie letteralmente bagna il letto, come scopre al risveglio) ma poi mentre si porta a sinistra all’altezza dell’ambulanza e sotto la pioggia abbassa il finestrino con il congegno automatico della Accord e gesticola verso il guidatore dell’ambulanza per fargli abbassare il suo finestrino cosí da poterlo implorare di fermarsi è (nel sogno) il marito a guidare l’ambulanza, è il suo profilo sinistro al volante – che la moglie in qualche modo ha sempre capito lui preferisce al profilo destro e solitamente dorme sul fianco destro in parte con questa idea in mente, anche se non hanno mai parlato apertamente delle possibili insicurezze del marito circa il suo profilo destro – ma poi mentre il marito gira la faccia da dietro il finestrino verso Jeni Roberts e la pioggia illuminata mentre lei gesticola, al tempo stesso sembra essere lui e non lui, la faccia familiare e tanto amata del marito distorta sotto il pulsare della luce rossa e con un’espressione facciale che si può definire solo come Oscena.
Fu quello sguardo sulla faccia che (lentamente) si girava a sinistra per guardarla dall’ambulanza – una faccia che nel modo assolutamente piú enuretico e inquietante al tempo stesso era e non era la faccia del marito che amava – a galvanizzare Jeni Roberts da sveglia e a spingerla a raccogliere fino all’ultima briciola di coraggio per fare quella telefonata forsennatamente umiliante all’uomo che un tempo aveva pensato seriamente di sposare, un socio dirigente delle vendite candidato al Rotary la cui asimmetria facciale – da piccolo aveva avuto un incidente traumatico che aveva provocato un diverso sviluppo della parte sinistra della faccia rispetto alla destra; la narice sinistra era insolitamente larga, e spalancata, e l’occhio sinistro, che sembrava quasi tutto iride, era circondato da anelli concentrici e sacche di carne floscia che si contraevano e pulsavano in continuazione quando i nervi danneggiati in modo irreversibile si infiammavano – aveva contribuito, una deduzione di Jeni dopo che la loro relazione era colata a picco, a fomentare il suo sospetto incontrollabile che in una parte segreta e impenetrabile del suo carattere lui fantasticasse di fare l’amore con altre donne anche mentre il suo pisello sano, perfettamente simmetrico, e apparentemente invulnerabile era dentro di lei. L’occhio sinistro del suo ex-amante inoltre si rivolgeva e scrutava in una direzione notevolmente diversa rispetto al destro, che aveva conosciuto uno sviluppo piú normale, caratteristica che in un certo senso costituiva un vantaggio nella sua carriera di venditore di macchine, cercò di spiegarle.
Crisi galvanizzante o no, Jeni Roberts si sentiva goffa e quasi mortificata dall’imbarazzo mentre lei e il suo ex amante si incontravano e sceglievano i piatti e si sedevano insieme in un separé di plastica sagomata accanto alla finestra e scambiavano due chiacchiere di un’incongurenza madornale mentre lei si predisponeva a cercare di fare la domanda che avrebbe involontariamente provocato la sua epifania e un’intera nuova fase meno innocente e illusa della sua vita da sposata. Lei aveva preso un decaffeinato in una tazza usa e getta e ci aveva versato dentro sei confezioni di panna liquida preconfezionata mentre il suo ex amante sedeva davanti a un primo dentro un contenitore di plastica ancora sigillato e guardava sia fuori dalla finestra sia lei. Portava un anello al mignolo e teneva la giacca sportiva abbottonata, e la camicia bianca sotto la giacca aveva le pieghe inconfondibili di una camicia di tela Oxford appena uscita dalla confezione. Il sole dietro la grande finestra aveva il colore della luna e faceva sembrare l’affollato fast-food una serra; non si respirava. Il socio dirigente delle vendite la osservava staccare i coperchi dalle confezioni di panna con i denti per non rovinarsi le unghie e toglierli e appoggiarli sul vassoio di carta metallizzata e versare il contenuto nella tazza usa e getta e mescolarle una dopo l’altra con un cucchiaino omaggio dalla punta piatta, e lo sguardo nel suo occhio debitamente sviluppato era lo sguardo lutulento della nostalgia. Lei stava ancora scialacquando con la panna. Aveva sia la fede sia un anello di fidanzamento con un diamante, e si vedeva lontano un miglio che non era una pietra economica. L’ex-amante sentí una fitta allo stomaco e i tessuti dell’occhio erano pieni di tic perché si era ormai arrivati ai temuti ultimi tre giorni bancari del mese e la Hyundai di Mad Mike faceva pressioni incredibili sui rappresentanti perché smerciassero le vetture in quegli ultimi tre giorni cosí da poter gonfiare i libri contabili del mese per quei buffoni dell’ufficio provinciale. La giovane moglie si schiarí la gola varie volte in quello speciale modo che il responsabile unico di tutti i rappresentanti di Mad Mike ricordava fin troppo bene, producendo con la gola quel suono secco e nervoso per comunicare che si rendeva conto di quanto una domanda del genere potesse risultare inappropriata in quel frangente, con loro due e la loro storia infelice e ormai senza piú nessun tipo di legame, con lei felicemente sposata, e che si sentiva in imbarazzo ma al tempo stesso si trovava in una specie di, stava dicendo, situazione di autentica crisi interiore riguardo a qualcosa, e era disperata – come di solito soltanto seri problemi economici fanno apparire le persone cosí disperate e intrappolate – con negli occhi quello sguardo di chi affoga e lo stava implorando di non approfittarsi assolutamente della sua posizione disperata anche solo per giudicarla o metterla in ridicolo. Per giunta lei beveva sempre il caffè stringendo tutt’e due le mani intorno alla tazza anche in un ambiente surriscaldato come quello. Il volume, i margini e i termini finanziari della Hyundai americana rientravano nelle infinite situazioni economiche influenzate dalle fluttuazioni nel valore dello yen e delle relative valute del Pacifico. La giovane moglie era stata un’ora davanti allo specchio a scegliere la camicia informe e i pantaloni a tubo che indossava, e si era tolta anche le lenti a contatto morbide per mettersi gli occhiali, e sulla faccia alla luce della finestra non mostrava altro che una rapida passata di lucidalabbra. Il traffico intenso sulla superstrada scintillava al di là della finestra dove il sole le illuminava il lato destro; e al di là del vetro il parcheggio di Mad Mike, con le sue bandierine di plastica e un uomo sulla sedia a rotelle con la moglie o magari l’infermiera e ciccio Kidder che se lo lavorava in camice da ospedale e protesi come una freccia che trapassava la testa da parte a parte e che tutti i rappresentanti dovevano portare nei giorni che Messerly andava a controllare i conti, era anche all’interno del campo visivo scisso dell’ex amante del separé – che ancora amava lei, Jeni Ann Orzolek di Marketing 204, e non la sua attuale fidanzata, si rese conto con il sussulto straziante di una ferita mortale riaperta – e appena oltre, scintillante nel calore, l’area di parcheggio di Mondo Adulto, con veicoli di tutte le marche e classi giorno e notte, in un viavai che Mike Messerly neanche si sognava.
1 (In questo, l’epifania era in pieno accordo con la tradizione occidentale, dove l’intuizione è il prodotto dell’esperienza vissuta anziché della mera speculazione).
Mondo adulto (II)
Parte: 4
Formato: schema
Titolo: una stessa carne
«Fulmineamente e drammaticamente accecante come risulta qualsiasi domanda relativa all’immaginario sessuale di un uomo, non fu la domanda in sé a provocare l’epifania e la rapida maturazione di Jeni Roberts, bensí quello che si sorprese a fissare mentre la poneva».
— epigrafe Parte 4, stesso stile artefatto di «Mondo Adulto (I)»
[ → vistoso cambiamento di formato da drammatico/stocastico a schematico/ordinato]
1a. Jeni Roberts chiede all’ex amante se nel corso della loro passata relazione ha mai fantasticato di altre donne facendo l’amore con lei.
1a (1). Inserire all’inizio della domanda la frase participiale «Dopo essersi scusata per quanto potesse sembrare irrazionale e inopportuno dopo tanto tempo...»
1b. A un certo punto, mentre fa la domanda, J. segue lo sguardo di F.L. fuori dal vetro del fast food & vede la speciale vanesia targa personalizzata del marito fra i veicoli nel parcheggio di Mondo Adulto: → epifania. L’epif. si svela piú o meno per conto suo mentre F.L. dalla faccia asimmetrica risponde alla domanda di J.
1c. Asciutta descr. narr. dell’improvviso pallore & incapacità di J. di tenere fermo il decaff. mentre J. ha l’improvv. rivelaz. accecante che il mar. è un Masturbatore Segreto Coatto & che insonnia/yen servono a nascondere viaggi segreti a Mondo Adulto per comprare/vedere/masturbarsi all’ultimo sangue con film & immagini vietatissime, & che i sospetti sull’ambivalenza del mar. circa la loro «vita sess. insieme» in realtà sono state intuizioni preveggenti & che il mar. chiaramente soffre di scompensi interiori/dolore psichico di cui J. non aveva idea perché presa dalle sue ansie imbarazzanti [p.to di vista (1c) tutto oggettivo, solo descr. esteriori].
2a. Nel frattempo F.L. risponde alla dom. originaria di J. negando categoricam., le lacrime agli occhi: porca merda no dio no, no, mai, l’ha sempre amata, mai stato cosí «presente» come quando lui e J. facevano l’amore [se dal p.to di vista di J., inserire «insieme» dopo «amore»].
2a (1) Al culmine emotivo del dialogo, lacrime che scorrono su 1/2 faccia, F.L. confessa/dichiara che ama ancora J., l’ha amata per tutto quel tempo, 5 anni, anzi certe volte ancora pensa a J. mentre fa l’amore con la sua fid. att., cosa che lo fa sentire in colpa (cioè «come se non fossi davvero presente») mentre fa ses. con fid. [Trascriz. dir. dell’intera risp./confess. di F.L. → la concentraz. emotiva della scena non è su J. mentre J. vive il trauma dell’improvv. rivelaz. che il mar. è un Masturbatore Segreto Coatto → evita lo spin. probl. di mostrare l’epif. nell’espos. narr.].
2b. Coincidenza [N.B.: esagerato?]: F.L. confessa che a volte anche lui ancora si masturba ricordando quando faceva l’amore con J., a volte al punto di farsi escoriaz./infiammaz. [→ la «confessione» di F.L. rafforza l’epif. di J. nei confr. della masturbazione masch. & le fornisce una utilissima iniezione di stima sessuale (cioè «non era colpa sua»). [N.B. Rif. Tema: tristezza implicita di F.L. che si confessa col cuore in mano mentre J. è 1/2 distratta dal trauma dell’epif. di (1b) / (1c); cioè = altre reti di mancato contatto, asimmetria emotiva]).
2b (1). Tono della confess. di F.L. estrem. commov. & molto efficace & J. (anche se traumatizz. dalla devastante epif. di (1b)/(1c)) non dubita nemmeno per un nanosec. la verità di quanto F.L. dice; sente di «conoscere davvero quell’uomo» ecc.
2b (1a). Il narr. [non J.] nota l’improvv. appariz. di bagliore rosso & demoniaco nell’iride ipertrofica dell’occhio sinistro [«brutto»?] di F.L., che potrebbe essere un gioco di luce o un autentico sguardo demoniaco [= spostam. p.to di vista/intrus. del narr.].
2c. Nel fratt. F.L., interpretando pallore & paralisi delle dita di J. come ricambio reaz. posit. alle sue dichiaraz. di amore imperituro, la implora di lasciare il mar. per lui, o in altern. («almeno» di seguirlo all’Holiday Inn in fondo alla superstr. & tascorrere il resto del pomeriggio facendo appassionatam. l’amore [→ con sinistro bagliore demoniaco ecc.].
2d. J. (ancora 100% pallida alla Nastas’ja F. di Dostoevskij) accetta all’istante interludio adulterino all’Holiday Inn [tono secco = «Hm, OK» disse.]. F.L. spazza via vassoio con primo non mangiato & tazza & cont. di panna vuoti e segue J. nel parch. del fast food. J. aspetta nella Accord mentre F.L. cerca di sgattaiolare con la Ford Probe [N.B.: esagerato?] dal parcheggio della M.M. Hyundai con Messerly o rappr. delle vendite che lo vedono andar via prima in un intensa giornata di vendite di fine mese.
2d (1). Lasciare poco chiaro perché esattam. J. accetta interludio all’Holiday Inn [→ di conseg. (2d) è solo dal p.to di vista di F.L.]. Descr. comica di F.L. che sgattaiola a 4 zampe tra file di macchine per infilarsi nella Probe senza farsi vedere dalla sala di esposizione M.M. ha un che di raccapricciante [→ congruenza con sottotemi di segreto, incongruenza raccapricciante, oscura vergogna].
3a. L’Accord di J. segue la Probe di F.L. sulla superstr. verso Hday Inn. Improvv. sgrullone costringe J. a mettere in funz. i tergicristalli.
3b. F.L. svolta nel parch. di Hday Inn, aspetta di vedere l’Accord di J. svoltare dietro di lui. L’Accord non svolta, tira dritto sulla superstr. [Brusco cambiam. p.to di vista →] J., attraversando la città diretta a casa, immagina F.L. balzare fuori dalla Probe & correre disperatam. per il parch. dell’Hday Inn sotto l’acquaz. fino al margine della superstr. rombante & vedere l’Accord allontanarsi, sparendo gradualm. nel traffico. J. immagina l’immagine bagnata/sconsolata/asimmetr. di F.L. rimpicciolire nello spec. retr.
3c. Quasi a casa, J. si sorprende a piangere per F.L & l’imm. rimpicc. di F.L. anziché per se stessa. Piange per il mar.: «... quanto deve averlo fatto sentire solo il suo segreto» [p.to di vista?]. Nota questo e elucubra sul sign. di «piangere per» [= «a favore»?] gli uomini. All’inizio di (3c), pensieri & elucubraz. di J. rivelano raffinamento/comprensione/maturità nuove. Si ferma nel vialetto di casa sentendosi «[...] stranamente esultante».
3d. Intrusione del narr., mostra Jeni Roberts [stesso tono secco e pedante di parr.¶ 3-4 di «M.A.(I)» p.to3]: Seguendo la Probe verde bottiglia di F.L. lungo la superstr., J. non aveva «cambiato idea» sul fatto di fare segretam. sesso adulterino con F.L., è solo che «... capí che non era necessario». Capisce di aver avuto un’epifania che le ha cambiato la vita, è diventata «... donna oltre che moglie» ecc. ecc.
3d (1) J. da qui indicata dal narr. come «Sig.ra Jeni Orzolek Roberts»; il mar. come «il Masturbatore Segreto Coatto».
4a (I). L’epilogo mostra J.O.R. → estensione dell’arco narrativo: «La sig.ra Jeni Orzolek Roberts, a partire da quel giorno, conservò fedelmente nella memoria il ricordo della faccia 1/2 fradicia, disperata del suo amante» ecc. Capisce che il mar. ha delle «carenze interiori» che «... non aveva[no] niente a che fare con lei come moglie [/donna]» ecc. Sopravvive a questa scossa di assestamento epifanica, + varie altre normali scosse di assestamento. [Possibile accenno alla psicoterapia, ma ora in termini ottimistici: psicoter. ora come «libera scelta» e non come «filo al quale attaccarsi disperatam».] J.O.R. decide di investire tanto in operazioni a termine quanto in titoli a forte capitalizzazione. Smette di fumare con l’aiuto dei cerotti. Capisce/accetta gradualm. che il mar. ama la propria solitudine segreta & le proprie «carenze interiori» piú di quanto ami [/sia capace di amare] lei; accetta la propria «immutabile impotenza» sulla segreta coaz. del mar. [possibile accenno a esoterici Gruppi di Sostegno per mogli dei M.S.C. – una cosa del genere? «MastAnon»? «Io&Lui»? (N.B. evitare facili battute)]. Capisce che la vera sorgente dell’amore, della sicurezza, della gratificazione, deve avere origine dentro se stessi 1 ; e capendo questo, J.O.R. si unisce al resto della razza umana adulta, non piú «piena di sé»/«immatura»/«irrazionale»/«giovane».
4a (II). Ora il matrimonio entra in una nuova fase piú adulta [«la luna di miele è finita» facile battuta?] Nei segg. anni di matr. J.O.R. & mar. non discutono mai del M.S.C. di lui o dei suoi dolore/solitudine/«deficit» interiori [N.B.: insistito gioco di parole fiduciario]. J.O.R. non sa se il mar. ha qualche sospetto che lei sa del suo M.S.C. o che ha le prove che frequenta Mondo Adulto; scopre che non gliene importa. J.O.R. riflette con divertita ironia sul nuovo «significato» dell’insist. ricordo adolescenz. del graffito al bagno della staz. di servizio. Il mar. [/il M.S.C.] continua a alzarsi & lasciare il bagno padr. alle ore piccole; a volte J.O.R. sente avviare la macchina e «... si muove appena rimettendosi subito a dormire» ecc. Non la preoccupa piú se il mar. gode della «vita sessuale» con lei; continua a amare [« »?] il mar. anche se non lo ritiene piú un «meraviglioso» [/«premuroso»?] amante. Il sesso fra loro trova un suo livello; al 5° anno + o – ogni 2 settimane. Il sesso che fanno ora definibile come «carino» – meno intenso ma anche meno spaurito [/«solitario»]. J.O.R. non cerca piú la faccia del mar. durante il sesso [→ metafora: Tema → occhi chiusi = «occhi aperti»].
4a (II(1)). Assumendosi «la responsabilità autentica della propria persona», J.O.R. «... comincia gradualmente a esplorare la masturbazione come fonte di piacere personale» ecc. Torna da Mondo Adulto varie volte; diventa quasi cliente fissa. Compra 2° fallo finto [N.B.: ora «fallo» non è maiusc.], poi «Penetrator!»®, fallo con vibratore, poi «Pink Pistolero ® Massaggiatore a Calcio di Pistola», infine «Giardino Scarlatto MX-1000 ® Vibratore con Suzione Clitoridea e Stimolatore Uterino Elettrico di 35 Centimetri» [«$179.99 al dettaglio»]. Il narr. aggiunge che il nuovo armadio di J.O.R. non contiene cass. per le borse. [Ironie: le nuove apparecchiature masturbatorie hi-tech di J.O.R. sono (a) prodotte in Asia & (b) esposte sulla parete di Mondo Adulto etichettata COADIUVANTI CONIUGALI (2 esag./ovvio?).] Al 6° anno di matrim. il mar. è spesso via per «viaggi urgenti sulla costa occidentale del Pacifico»; J.O.R. si masturba quasi quotidianam.
4a (II(1a)). Intrus. del narr.: fantasia masturbat. piú frequente/piacevole di J.O.R. al 6° anno di matr. = una figura maschile ipertrofica e senza faccia che ama ma non può avere J.O.R. rifiuta tutte le altre donne & sceglie invece di masturb. quotidianam. su fant. di sesso con J.O.R.
4a (III). Concl. par.¶: 7°, 8° anno: il mar. si mast. segretam., J.O.R. apertam. Ora il sesso bimestr. è «... sia una sottomissione a che un festeggiamento di alcune realtà liberamente abbracciate». Nessuno dei due sembra preoccuparsene. Narr.: a unirli ora è quella profonda & tacita complicità che nel matrimonio adulto è alleanza/amore → «Ora erano davvero sposati, una cosa 2, una stessa carne, [un’unione che] procurava a Jeni O. Roberts una nuova, solida gioia...»
4b . Concl. [inser.] «... erano dunque pronti a cominciare, con calma e nel rispetto reciproco, a considerare l’idea di avere un figlio [insieme]».
1 [N.B.: qui tono narr. assolutam. piano/impersonale/distante/secco ‡ niente avvaloramento ravvisabile di cliché.]
2 [/«sola»? (evitare facili batt.)].
Il diavolo è un tipo impegnato
Tre settimane fa, ho fatto un bel gesto per qualcuno. Non posso dire di piú, altrimenti priverei quanto ho fatto del suo vero, supremo valore. Posso soltanto dire: un bel gesto. In senso lato, c’entravano i soldi. Non si è trattato esattamente di «dare dei soldi» a qualcuno. Ma quasi. Era classificabile piú come «stornare» del denaro verso qualcuno che ne aveva «bisogno». Quanto a me, non posso dire niente di piú preciso.
È stato due settimane e sei giorni fa che ho fatto quel bel gesto. Posso anche accennare al fatto che mi trovavo fuori città – come dire, in altre parole, che non mi trovavo dove abito. Spiegare perché mi trovavo fuori città, o dove mi trovavo, o qual era la situazione in generale, però, purtroppo, comprometterebbe il valore di quanto ho fatto in seguito. Perciò, ho detto espressamente alla donna che la persona alla quale erano destinati quei soldi non doveva in alcun modo sapere chi li aveva stornati su di loro. Sono state espressamente eseguite tutte le procedure necessarie affinché potessi mantenere l’anonimato nell’accordo che prevedeva lo storno del denaro. (Anche se il denaro, tecnicamente, non era mio, l’accordo riservato con il quale l’ho stornato era perfettamente legale. Questo potrebbe portare a chiedersi in che senso il denaro non era «mio», ma, purtroppo, non posso spiegarlo nei particolari. In ogni caso, è vero). Il motivo è questo. La mancanza di anonimato da parte mia avrebbe distrutto il valore supremo del bel gesto. Nel senso che avrebbe corrotto la «motivazione» della mia buona azione – nel senso, in altre parole, che in parte non l’avrei fatto spinto da generosità, ma col desiderio di ricavarne gratitudine, affetto e approvazione. La motivazione egoistica avrebbe privato senza speranza il bel gesto di un qualsivoglia valore supremo, facendo sí che ancora una volta fallissi nel mio sforzo di essere classificato come una persona buona o «brava».
Perciò, non ho voluto assolutamente transigere sul segreto del mio nome nell’accordo, e l’unica altra persona coinvolta e a conoscenza dell’accordo, una donna (lei, dato il suo lavoro, potrebbe essere classificata come «lo strumento» dello storno del denaro), per quanto mi è dato sapere ha accettato senza riserve.
Due settimane e cinque giorni dopo, una delle persone per le quali avevo compiuto il bel gesto (il generoso storno di fondi era destinato a due persone – per essere piú precisi, una coppia non regolarmente sposata – ma fu soltanto uno dei due a telefonare) telefonò, dicendo: «pronto,» non è che io, per puro caso, sapevo chi era il responsabile del _______________, perché lui voleva soltanto dire a quella persona: «grazie!», e che manna dal cielo erano quei _____ dollari piovuti, apparentemente, dal nulla dal__________________, ecc.
Lí per lí, essendomi già premurato di fare lunghe prove in vista di una simile eventualità, dissi, freddamente, e senza traccia di emozione: «no», e che stavano prendendo una bella cantonata se credevano che sapessi qualcosa. Dentro di me, però, morivo quasi dalla tentazione. Come è risaputo, è difficilissimo fare un bel gesto per qualcuno senza volere, disperatamente, che quel qualcuno sappia che l’identità dell’individuo che l’ha fatto è la tua, e che senta gratitudine e approvazione nei tuoi confronti, e che dica a una miriade di altre persone che tu hai «fatto» quella cosa per lui, di modo che tutti sappiano che sei una brava persona. Al pari delle forze delle tenebre, del male, e della disperazione sparse per il mondo, questa tentazione spesso può vincere ogni resistenza.
Perciò, impulsivamente, nel corso della grata, ma indiscreta, telefonata, ignaro di ogni pericolo, dissi, dopo aver detto, in modo gelido: «no», e «cantonata», che, anche se non ne sapevo niente, potevo benissimo immaginare che chiunque, in realtà, fosse il misterioso responsabile del _________________ sarebbe stato entusiasta di sapere come quel denaro cosí necessario da loro ricevuto sarebbe stato impiegato – cioè, per esempio, se ora avrebbero finalmente progettato di fare quell’assicurazione sanitaria per il loro bambino appena nato, o ammortizzato gli interessi sul debito nel quale si erano impelagati, o ecc.?
Queste mie parole, però, furono, in un attimo fatale, interpretate da quella persona come un accenno indiretto al fatto che fossi proprio io, malgrado il precedente diniego, l’individuo responsabile del bel gesto generoso, e lui, per tutto il resto della telefonata, si sperticò in dettagli su come il denaro sarebbe stato impiegato per far fronte proprio a quei bisogni, sottolineando che era stato una vera manna dal cielo, con un tono nell’emozione della voce che comunicava sí gratitudine e approvazione, ma anche qualcos’altro (piú in particolare, qualcosa di quasi ostile, o imbarazzato, o tutt’e due le cose, per quanto non so fornire una descrizione adeguata del particolare tono che attirò la mia attenzione su quell’emozione). Questa ondata di emozione, da parte sua, mi fece rendere conto, penosamente, troppo tardi, che, nel corso della telefonata, non solo gli avevo appena fatto sapere che l’individuo responsabile dell’atto di generosità ero io, ma che l’avevo fatto in un modo subdolo, ingannevole che sembrava, insinuosamente, eufemisticamente, significare, impiegando l’eufemismo: «chiunque fosse il responsabile del_______________», che, combinato all’interesse da me dimostrato per l’«impiego» che avrebbero fatto del denaro, non avrebbe ingannato nessuno sul fatto che ero io il supremo responsabile, e produsse l’effetto, insidiosamente, di insinuare che, non solo ero io ad aver fatto una cosa tanto bella e generosa, ma, anche, che ero una persona cosí «buona» – intendendo, in altre parole «modesta», «generosa», o, «non tentata dal desiderio della loro gratitudine» – da non volergli nemmeno far sapere che ero io il responsabile. E, per giunta, mi ero lasciato sfuggire, pericolosamente, quelle insinuazioni cosí «subdolamente», che nemmeno io, se non dopo – cioè dopo che la telefonata era finita –, sapevo cosa avevo fatto. Perciò, dimostrai un’abilità inconscia e, a quanto pare, naturale, automatica, nell’ingannare sia me stesso sia gli altri, che, a «livello motivazionale», non solo privava completamente la cosa generosa che avevo cercato di fare di qualsiasi autentico valore, facendomi fallire, ancora una volta, nei miei tentativi di essere sinceramente quello che qualcuno avrebbe classificato come una persona autenticamente «buona» o «brava», ma mi metteva, pericolosamente, in una luce tale da poter essere classificato come «tenebroso», «malvagio», o «senza alcuna speranza di diventare sinceramente buono».
Chiesa fatta senza le mani
(per E. Shofstahl, 1977-1987)
Arte
Palpebre chiuse uno schermo di pelle, onirodipinti attraversano l’oscurità colorata di Giorno. Stanotte, in una pausa non sfiorata dalle ali del tempo, lui viaggia a quanto pare all’indietro. Rimpicciolisce, piú liscio, perde la pancia e le leggere cicatrici dell’acne. Allampanato con le ossa da uccellino; capelli a scodella e orecchie a manico di tazza; la pelle risucchia i peli, il naso si ritrae nella faccia; lui si fascia coi pantaloni e poi si raggomitola, rosa e muto e piú piccolo finché non si sente lacerare in una parte che serpeggia e una che gira. Niente si stende e tende sopra ogni altra cosa. Un punto nero ruota. Il punto si rompe in due, seghettato. La sua anima naviga verso un colore unico.
Uccelli, luce grigia. Giorno apre un occhio. È steso mezzo fuori dal letto dove Sarah respira. Vede il parallelogramma della finestra, dall’angolo.
Giorno è dietro una finestra quadrata con una tazza di qualcosa di caldo. Un Cezanne morto fa quest’alba di agosto a patacche onniangolari di rosso variegato, un azzurro che si abbuia. Un’ombra del monte di venere si ritrae verso un capezzolo smussato: fuoco.
Sarah si sveglia al minimo tocco. Restano stesi a occhi aperti e in silenzio, illuminandosi sotto un lenzuolo. I colombi azionano il mattino, rumore dalla pancia. Lo stampato del lenzuolo sbiadisce dalla pelle di Sarah.
Sarah si lega i capelli per la messa del mattino. Giorno prepara un altro scatolone per Esther. Si veste. Non trova una scarpa. Al bordo del grande letto, una sola scarpa, guarda la lanugine ruotare tra le colonne gialloburro di un mattino che si attarda.
Arte nera
Quel giorno lui compra una scopa da portinaio. Scopa la pioggia dall’incerata sopra la piscina di Sarah.
Quella notte Sarah rimane con Esther. Tocca metallo tutta la notte. Giorno dorme solo.
Giorno è dietro la finestra nera nella camera da letto di Sarah. Sopra il Massachusetts il cielo è imbrattato di stelle. Le stelle trascorrono a rilento dietro il vetro.
Quel giorno va da Esther con Sarah. L’acciaio del letto di Esther luccica nella stanza luminosa. Esther sorride ottusamente mentre Giorno legge di giganti.
– Sono un gigante, – legge:
– Sono un gigante, una montagna, un pianeta. Tutto il resto sta molto piú in basso. Le impronte dei miei piedi sono contee, la mia ombra è un fuso orario. Mi affaccio a alte finestre. Mi lavo in alte nuvole.
– Sono un gigante, – cerca di dire Esther.
Sarah, allergica, starnutisce.
Giorno: – Sí.
Bianco e nero
«Tutta la vera arte è musica» (un altro insegnante). «Le arti visive non sono che un angolo della sala onnicomprensiva da vera musica» (ibid.)
La musica si rivela come un rapporto fra una chiave e due note chiuse da quella chiave nella danza. Ritmo. E anche nei presogni in boccio di Giorno la musica divora ogni legge: quanto c’è di piú solido qui si rivela ritmo e nient’altro. I ritmi sono rapporti fra quello che credi e quello che credevi prima.
Stanotte il sacerdote appare in monocromia e collare.
Benedicimi
Vuoi tu prendere questa donna Sarah
Come mia
Per quanto tempo
Perché ho
dall’ultima volta che ti sei confessato a un corpo che ha il potere di assolvere. Bisogno di confessione
Come me quelli che hanno nuotato al mio fianco
non comporta assoluzione, mette a nudo, la confessione in assenza della consapevolezza del peccato,
Benedicimi padre perché non ci può essere consapevolezza del peccato senza consapevolezza della trasgressione senza consapevolezza del limite
Piena di Grazie
animale mai sentito. Preghiamo insieme per una rivelazione del limite
Nuvole rosse nel caffè di Warhol
Crea dentro te stesso una consapevolezza di.
Colore unico
Quel giorno ritorna alla prima settimana di lavoro. La luce del sole capovolge il rosa di ASSISTENZA SANITARIA attraverso l’adesivo sul parabrezza. Giorno passa davanti a una fabbrica con la macchina della contea.
– Habla Espanol? – chiede Eric Yang dal lato del passeggero.
Il fumo di una ciminiera pende frastagliato mentre Giorno annuisce.
– Volevi vedere le corde, – dice Yang. Tiene gli occhi chiusi mentre fa ruotare. – Ti faccio vedere una corda. Habla?
– Sí, – dice Giorno. – Hablo.
Passano davanti a delle case.
Lo speciale talento di Eric Yang è la rotazione mentale di oggetti tridimensionali.
– Questo caso parla solo spagnolo, – dice Yang. – Il figlio della donna s’è fatto uccidere il mese scorso. Dentro casa. Orribile. Sedici anni. Storia di bande, storia di droga. Una chiazza cosí di sangue del ragazzo sul pavimento della cucina.
Passano davanti a elmetti protettivi e martelli pneumatici.
– Quella dice che non le resta altro di lui! – urla Yang. – Non ci lascia pulire. Dice che quello è lui, – dice.
La rotazione mentale è l’hobby di Yang. È consulente legale autorizzato e assistente sociale.
– Il tuo lavoro oggi, – Yang fa mulinare una corda immaginaria, prende qualcosa di mentale al lasso sul cruscotto, – è convincerla a disegnarlo. Anche solo il sangue. Ndiawar dice che per lui uno dei due va bene. Cosí lei ne ha un’immagine dice. E noi magari possiamo pulire il sangue.
Nello specchietto retrovisore, dietro di lui, Giorno vede lo scatolone di provviste sul sedile posteriore. Non dovrebbe stare al sole.
– Convincila a farlo, – dice Yang, liberando una corda che Giorno non vede. Yang chiude di nuovo gli occhi. – Ora cerco di far ruotare la bolletta del telefono di questo mese.
Giorno sorpassa un lento furgoncino bianco. Ha i vetri colorati. Borchie di ruggine sulla fiancata.
– Oggi vediamo la donna povera che ama il sangue e l’uomo ricco che chiede tempo.
– Un mio vecchio insegnante. L’ho detto a Ndiawar. – Giorno controlla a sinistra. – Insegnante d’arte, in una vita precedente.
– Lo scocciatore della quiete pubblica, lo chiama Ndiawar, – dice Yang. Si corruga, concentrandosi. – Sto facendo ruotare la tabella di marcia. Passiamo direttamente da lui. Tanto è di strada. Ma non è il primo sulla tabella di marcia.
– Era un mio insegnante, – ripete Giorno. – Ce l’avevo a scuola.
– Seguiamo la tabella.
– Mi ha influenzato. Nel mio lavoro.
Passano davanti a un terreno secco.
Arte
Stanotte, alla finestra, sotto stelle che rifiutano di spostarsi, Giorno quasi riesce a onirodipingere da sveglio.
Nel dipinto lui è in piedi sulla floscia incerata della piscina quando si solleva verso il cielo dell’ora di pranzo. Ascende senza peso, né tirato da sopra né spinto da sotto, una linea perfetta verso un punto nel cielo sovrastante. Le montagne gravano smussate, l’umidità si avvolge nelle valli come garza. Holyoke e poi Springfield e Chicopee e Longmeadow e Hadley sono opache monete deformi.
Giorno sale in cielo. L’aria si fa via via piú azzurra. Qualcosa nel cielo ammicca, e lui non c’è piú.
– Colori, – dice al lattice nero dello schermo.
Lo schermo ha l’alito di menta.
– Lei si lamenta che divento a colori quando dormo, – dice Giorno.
– C’è qualcosa che capisce, – alita lo schermo, – di sicuro.
Le ginocchia infiammate, Giorno fa tintinnare le tasche con le mani. Quante monete.
Due colori
Gli occhi azzurri dietro la sua scrivania di Direttore dell’Igiene Mentale della Contea, il dottor Ndiawar è un tipo pelato e scuro dall’aria vagamente forestiera. Gli piace formare una guglia con le mani e guardarla mentre parla.
– Tu dipingi, – dice. – Da studente, c’era scultura. Hai fatto psicologia. – Alza gli occhi. – In dosi massicce? Conosci le lingue?
Il lento cenno di assenso di Giorno crea un puntino di luce d’ufficio riflessa sul cranio di Ndiawar. Giorno genera il puntino e lo uccide. La scrivania del Direttore è grande e stranamente pulita. Il curriculum di Giorno sembra minuscolo in mezzo a quella distesa.
– Sarà, ma a me resta qualche dubbio, – dice Ndiawar. Allarga leggermente l’angolo delle mani. – Soldi qui non se ne vedono.
Giorno dà due brevi vite al puntino.
– Tu però dichiari di avere mezzi indipendenti, dal matrimonio.
– E le mostre, – dice Giorno senza scomporsi. – Le vendite. – Una bugia scarlatta.
– Tu vendi arte che hai prodotto in passato, hai dichiarato, – dice Ndiawar.
Eric Yang è alto, vicino alla trentina, con capelli lunghi e occhi opachi che si aprono e si chiudono invece di battere.
Giorno stringe la mano a Yang. – Come va?
– Sorprendentemente bene.
Ndiawar è chino su un cassetto aperto. – Il tuo nuovo addetto alla terapia artistica, – dice a Yang.
Yang guarda Giorno nell’occhio. – Ehi, amico, – dice. – Io faccio ruotare oggetti tridimensionali. Con la mente.
– Tu e tu, a mezza giornata, diventate una squadra operativa che si fa i reparti di tutta la contea e dintorni, – legge Ndiawar a Giorno da un testo prestabilito. Regge la pagina con tutt’e due le mani. – Yang è il capo quando, insieme, visitate gli internati. Quelli conciati proprio male. Quelli che nessuno vuole.
– Ho questo talento, io, – dice Yang, pettinandosi la frangia con quattro dita. – Chiudo gli occhi e creo l’immagine di un oggetto in tutti i suoi particolari. Da tutte le angolazioni. Poi lo faccio ruotare.
– Passate da tutti gli internati segnati sulla tabella stabilita, – legge Ndiawar. – Yang, che è il capo, offre consulenza a quei disgraziati, mentre tu li incoraggi con la tua perizia a esprimere le sensazioni scombinate con gesti artistici.
– Riesco anche a vedere la trama e le imperfezioni e i giochi di luci e ombre sugli oggetti che faccio ruotare, – dice Yang. Fa piccoli gesti con la mano che non sembrano avere un significato particolare. – Si tratta di un talento tutto personale. – Guarda Ndiawar. – Voglio soltanto stare in prima linea col ragazzo.
Il dottor Ndiawar ignora Yang. – Spingendoli a indirizzare sentimenti aberranti o disfunzionali su cose che riproducono artisticamente, – legge in tono monotono. – Su oggetti che non possono essere danneggiati. È questo un modello di intervento operativo. La creta, per esempio, che come oggetto va bene.
– Praticamente sono un dottore, – dice Yang, battendosi una sigaretta sulla nocca.
Ndiawar si appoggia all’indietro e la guglia riappare. – Yang è un assistente sociale che sperpera medicine. Però è economico, e in quella carcassa si ritrova un buon cuore...
Yang fissa il direttore. – Quali medicine?
– ... che offre agli altri.
Giorno si alza in piedi. – Ho bisogno di sapere quando comincio.
Ndiawar allunga tutt’e due le mani. – Compra la creta.
La notte prima che Esther si faccia male Sarah conduce Giorno alla piscina. Chiede a Giorno di sfiorare l’acqua che è illuminata dal basso da lampade sul basamento. Lui vede lo scarico al centro e quello che fa all’acqua circostante. L’acqua è cosí azzurra che sa perfino di azzurro, dice.
Lei gli chiede di immergersi nella parte piú bassa.
Giorno e Sarah fanno sesso nella parte piú bassa della piscina azzurra della casa dove Sarah ha trascorso l’infanzia. Sarah intorno a lui è acqua calda nell’acqua fredda. Giorno raggiunge l’orgasmo dentro di lei. Il bocchettone dello scarico sbatacchia e gorgheggia. Sarah comincia a avere l’orgasmo, le palpebre che vibrano, Giorno cerca di tenergliele aperte con le dita bagnate, lei gli si aggrappa, sbatte all’indietro contro il bordo piastrellato con un ritmico suono frusciante, bisbigliando: – Oh.
Quattro colori
– Non so chi è Soutine, – dice Yang mentre si allontanano in macchina dalla casa della donna che parla solo spagnolo. – Ti è sembrato che somigliasse a Soutine?
Il colore della macchina è un noncolore, né marrone né verde. Giorno non ha mai visto niente del genere. Si asciuga il sudore dalla faccia. – Sí. – Il suo scatolone delle provviste è dietro sotto un secchio di acciaio. Il manico di uno scopettone sferraglia contro il secchio. È Sarah che ha pagato per lo scatolone e le provviste.
Yang dà una botta al cruscotto. Il condizionatore d’aria sputacchia una puzza di muffa. Nella macchina il calore è intenso.
– Fai la bolletta del telefono, – dice Giorno, mettendosi dietro un autobus di linea imbrattato di vernice spray. I vapori dell’autobus sono dolciastri.
Yang abbassa il finestrino e si accende una sigaretta. La luce del sole rende pallide le esalazioni.
– Ndiawar mi ha raccontato della figlioletta di tua moglie. Scusa per quella battuta sulla vacanza la prima settimana di lavoro. Scusa, non lo sapevo.
Giorno vede il profilo di Yang con la coda dell’occhio. – Mi è sempre piaciuto l’azzurro delle bollette telefoniche.
Il condizionatore d’aria comincia a reagire alla sua stessa puzza.
Yang ha i capelli nerissimi e una sottile cravatta di lana e gli occhi color trota. Li chiude. – Ora ho piegato la bolletta a triangolo. Ma un angolo non arriva a toccare la base. Ma è pur sempre un triangolo. Una cosa del genere ordine nel caos.
Giorno vede qualcosa di giallo lungo la strada.
– Eric?
– La bolletta è un po’ strappata sul lato destro del triangolo, – dice Yang, – e sono sessanta dollari. Lo strappo è minuscolo e bianco e con una specie di peluria. Devono essere le fibre della carta o qualcosa del genere.
Giorno va a tutto gas per sorpassare un autocarro carico di polli. Sventagliata di grano e piume.
– Sto facendo ruotare lo strappo in modo che non si veda, – bisbiglia Yang. Il lato della faccia si sfalda in mezzelune. – Ora c’è soltanto l’azzurro bolletta del telefono.
Un clacson e lo strattone di una sterzata.
Yang apre gli occhi. – Uau!
– Scusa.
Passano davanti a edifici scuri senza vetri alle finestre. Un ragazzino sporco lancia una palla da tennis contro un muro.
– Lo spero proprio, – sta dicendo Yang.
– Cosa?
– Che acciuffino il guidatore ubriaco.
Giorno guarda verso Yang.
Yang lo guarda. – Quello che ha messo sotto la tua piccola.
– Che guidatore?
– Spero proprio che lo acciuffino quel bastardo.
Giorno guarda il parabrezza. – Esther ha avuto un incidente in piscina.
– Voialtri avete una piscina?
– Mia moglie. È stato un incidente. Esther si è fatta male.
– Ndiawar mi ha detto che l’hanno messa sotto.
– Il bocchettone dello scarico si è bloccato. Il risucchio dell’acqua l’ha risucchiata.
– Cristo santo.
– È stata sotto un bel pezzo.
– Mi dispiace.
– Io non so nuotare.
– Cristo.
– La vedevo benissimo. La piscina è limpidissima.
– Ndiawar ha detto che tu hai detto che il guidatore era ubriaco.
– È ancora in ospedale. Ci saranno danni cerebrali.
Yang lo sta guardando. – Dovevi proprio essere qui oggi?
Giorno allunga il collo per vedere le indicazioni. Sono fermi a un semaforo. – Da che parte.
Yang guarda il libretto di immatricolazione attaccato al parasole. La fascetta di plastica un tempo era verde. Punti.
Altissimo
Anche le pennellate del lavoro meglio sognato si possono vedere come ritmi. Il dipinto di questo giorno svela i suoi ritmi contro un terreno dove la luce è soggetta agli influssi del vento. È un vento che soffia forte e incostante sul campus della vecchia università, fischia contro la torre campanaria dechirichiana che ha raschiato di ogni ombra. È un terreno dove momenti di calma si alternano a raffiche di luce. Dove gli spazi aperti lampeggiano come nervi malati e alberi chini pendono con un’aura vischiosa che si dispone ad appiccare un fuoco fluorescente all’erba, dove fascine di luce si accatastano alla base delle staccionate, dei muri, e ondeggiano e rifulgono. Gli orli aguzzi della torre campanaria frangono le raffiche in spettri prismatici. Alti ragazzi in giacca sportiva solcano come lame un lucore che si scinde, gli album da disegno tenuti all’altezza degli occhi, preceduti dalle loro ombre in fuga. I venti scintillanti si placano a raccolta, sembrano avvoltolarsi, poi si azzuffano e fischiano e corruscano e combattono per filtrare in rosa tenue attraverso il rosone dell’Aula d’Arte. Gli appunti di Giorno si accendono. Sugli schermi di fronte illuminati artificialmente, due diapositive della stessa cosa proiettano l’ombra fragile e palmata del professore d’arte sul podio, un vecchio gesuita arido, che sibila le esse nel microfono mal collegato, leggendo una lezione a un’aula mezza piena di ragazzi. Quando si porta le mani agli occhi la sua è ombra d’insetto contro la colorata Delft di Vermeer.
Il prete avvizzito legge la sua lezione su Vermeer e la limpidezza e la luminosità nonché sulla luce come attaccamento/paramento al contorno degli oggetti. Morto nel 1675. Sconosciuto ai suoi tempi si capisce perché ha dipinto cosí poco. Ma ora noi sappiamo, è vero, ahm. Le tonalità giallo-azzurre dominano come contro ahm diciamo de Hooch. Gli studenti hanno giacche blu. Una luce figurativa senza precedenti serve sottilmente a glorificare Dio. Ahm, anche se qualcuno la definirebbe blasfema. Vedete. La vedete. Un conferenziere famigeratamente noioso. Un’immortalità aprioristica data per scontata nello spettatore. La ahm vedete. «La bellissima terribile immobilità di Delft» nella seminale frase di. L’aula è buia dietro la fila accesa di Giorno. Ai ragazzi è permesso esprimere un tocco personale nella scelta della cravatta. L’uniformità irreale della messa a fuoco che trasforma il dipinto in quello che il vetro nei sogni piú cari al vetro forse vorrebbe essere. «Finestre sopra interni dove ogni conflitto è stato risolto» nelle parole spesso citate di. Tutto illuminato e di una chiarezza tagliente vedete e ahm. Si tiene mart./giov. dopo il pranzo e la distribuzione della posta. Risolve i conflitti, organici e divini. Carne e spirito. Giorno sente aprire una busta. Lo spettatore vede come vede Dio, in altre ahm. Illuminato attraverso il tempo vedete. Il passato. Qualcuno fa schioccare una gomma da masticare. Risatine soffocate provenienti da una delle file dietro. L’aula è scarsamente illuminata. Un ragazzo alla destra di Giorno mugola e si dimena in un sonno profondo. Il professore è, è vero, assolutamente arido, indifferente, privo di vita. Il ragazzo accanto a Giorno è sempre piú interessato alla parte del suo polso circondata dall’orologio.
Il professore d’arte è un sessantenne vergine in bianco e nero che legge in tono monotono di come le particolari pennellate di un olandese ammazzano il tempo a Delft. Teste pettinate con cura si voltano obliquamente a guardare l’angolo delle lancette scintillanti dell’orologio. La famigerata eternità delle lezioni del gesuita. L’orologio è sul muro nero, tra finestre dai pannelli teatrali che sbattono contro il vetro a ogni raffica.
Giorno, magro e pustoloso, si rende conto che è l’angolazione della brezza radiosa contro lo schermo a far luccicare la faccia umida contro l’ombra illuminata del prete. Sulla lezione dattiloscritta del vecchio brillano grosse lacrime gelatinose. Giorno guarda una lacrima infilarsi in un’altra sulla guancia dell’insegnante d’arte. Il professore continua a leggere dell’uso di una tonalità a quattro colori nel riflesso del sole sul fiume a Delft, Olanda. Le due lacrime si fondono, acquistano velocità lungo la guancia, prendono la via del testo.
Quattro finestre
E ora nel terzo riquadro del dipinto illuminato dalle stelle il prete è davvero vecchio. Un insegnante in una vita precedente. Si inginocchia nel campo crocchiante al limitare di una zona industriale. I palmi giunti in atteggiamento di antica devozione: una posa da patrono. Giorno, che ha fallito due volte, è in un certo senso fuori dalla figura trilaterale che formano le altre figure sul campo. Le cicale sbraitano tra le erbacce secche. Le erbacce di un giallo smorto e la lunghezza e gli angoli delle loro ombre non hanno senso; il sole d’agosto ha idee tutte sue.
«È prevista...» Ndiawar dalla testa accecante legge nel sole da un appunto prestabilito. Yang protegge la sigaretta dalla brezza.
«... la detenzione come naturale conseguenza per aver adottato comportamenti verso gli altri che risultano aberranti», legge Ndiawar.
Il piccolo pianeta bianco che Giorno vede su uno stelo è un soffione in boccio.
Yang si siede a gambe incrociate tangenzialmente rispetto all’ombra inginocchiata, fuma. La sua T-shirt dice CHIEDETEMI DEI MIEI NEMICI INVISIBILI. Si pettina con la mano. – È questione di competenza territoriale, signore, – dice. – Cosí all’aperto, diventa una questione pubblica. Dico bene dottor Ndiawar.
– Lo informi che una comunità di altre persone non è uno spazio vuoto.
– Lei qui non è in uno spazio vuoto, signore, – dice Yang.
– I diritti esistono in uno stato di tensione. Diritti necessariamente tesi. Ndiawar sta scorrendo.
Yang seppellisce una cicca. – Veniamo al dunque, signore, padre se mi consente. Lei vuole pregare rivolto a un’immagine di se stesso che prega, e va bene. Nessun problema. È nel suo diritto. Però non dove gli altri la possono vedere. Gli altri hanno il diritto di non doverla vedere contro la propria volontà, li turba. Non le sembra piú che ragionevole?
Giorno assiste allo scambio da sopra il suo leccalecca di neve. La tela è inchiodata a un cavalletto fermato sul campo con un peso. Il riquadro dell’ombra è distorto. L’ex insegnante d’arte gesuita è in ginocchio, nel dipinto.
– È prevista – Ndiawar – una detenzione aggiuntiva per il fatto di mettersi pubblicamente agli angoli delle strade a chiedere ai passanti di concedere minuti della loro giornata.
– Uno soltanto.
– Non esiste il diritto di avvicinare, disturbare o molestare un innocente.
Yang non ha ombra.
– Un minuto, – dice il professore d’arte nel dipinto fermato con un peso. – Chi non ha un minuto da perdere.
– Competenza territoriale piú molestie uguale detenzione, signore, – dice Yang.
– Avvicinarli e costringerli a guardare il... quei passanti sono innocenti, diglielo.
– Accetto il tempo che mi vorrete concedere. Fate voi.
– Farsi rinchiudere un’altra volta. Chiedigli se gli piacerebbe. Ricordagli del rilascio a termine.
– Uno spazio vuoto è una cosa, – dice Yang, lanciando una rapida occhiata da sopra la spalla come segnale per Giorno. – Solo non per la strada. – Ma Giorno non è dietro di lui.
Il direttore sta rimettendo l’appunto in una cartella di cartone. Un accenno di guglia mentre osserva il campo. Gli occhi del gesuita non abbandonano mai il riquadro del cavalletto. Perché la tela è il punto d’accesso dello spettatore all’onirodipinto, la per cosí dire finestra che si affaccia sulla scena, e perciò ha gli occhi puntati su Giorno, fra loro un minuscolo globo di pappo morto. La prospettiva non ha senso. L’ombra acefala di Ndiawar ora è sopra Giorno, sopra la bianca sfera di lanugine, vede. – Si richiede perizia, – dice Ndiawar, – e di brutto!
Idee tutte sue.
Il respiro di Giorno rompe in due la sfera.
Limite
La testa di Esther è avvolta nella garza. La testa di Giorno è china su una pagina. La testa di Sarah è sul grembo del sacerdote nell’angolo luminoso della stanza. La stanza è bianca. La testa del sacerdote è buttata all’indietro, occhi al soffitto.
– Mi dispiace, – dice la testa di Sarah al grembo nero. – Il telefono. Il bocchettone. Lo scarico. Il risucchio. Lei diventa bianca e lui diventa a colori. Chiedo scusa.
– Anche se i giganti, – legge Giorno a voce alta. – Anche se i giganti sono tutti della stessa misura, hanno forme diverse. Ci sono i Ciclopi greci e il Pantagruele francese e il Bunyan americano. Ci sono ampi cicli multiculturali che presentano giganti come colonne di fiamma, come nuvole con le gambe, come montagne che camminano al contrario mentre tutto il mondo dorme.
– No, io chiedo scusa, – dice la testa del sacerdote. Una mano bianca accarezza i capelli legati di Sarah.
– Ci sono giganti arroventati e giganti caldi, – legge Giorno. – Ci sono anche giganti freddi. Sono forme. Una forma di gigante freddo è descritta nei cicli come uno scheletro alto un miglio tutto fatto di vetro colorato. Il gigante di vetro vive in una foresta di puro ghiaccio bianco.
– Giganti freddi.
– Dopo di lei, – bisbiglia Sarah, aprendo la porta della stanza di Esther.
– È il padrone di questa foresta.
La testa sopra il bianco e nero sorride. – Dopo di lei.
– La falcata del gigante di vetro copre un miglio. Cammina tutti i giorni tutto il giorno. Non si ferma mai . Non si può riposare. Perché vive nel terrore che la sua foresta ghiacciata si sciolga. Il terrore lo fa camminare senza posa.
– Non dorme, – dice Esther.
– No, non dorme mai, il gigante di vetro cammina per tutta la foresta bianca, con falcate di un miglio, giorno e notte, e il calore delle falcate scioglie la foresta alle sue spalle.
Esther cerca di sorridere alla porta che si richiude. La sua garza è immacolata. – L’arcobaleno.
– Sí. – Giorno mostra l’immagine. – La foresta sciolta piove, e il gigante di vetro è l’arcobaleno. Questo è il ciclo.
– Le foreste sciolte sono pioggia.
Sarah fa uno starnuto, soffocato, in corridoio. Giorno aspetta che il sacerdote lo dica.
Chiudili
– Regola la velocità del respiro, – lo istruisce l’ex gesuita essiccato e veramente vecchio. Yang e Ndiawar sono nella schiuma ai margini del mare azzurro del campo.
– Respira aria, – dice il professore d’arte, mimando la bracciata. – Sputa acqua. Un ritmo. Dentro. Fuori.
Giorno imita la bracciata.
Eric Yang chiude gli occhi. – È tornato lo strappo sulla bolletta.
L’onirodipinto dell’insegnante in preghiera ininterrotta è inchiodato allo schermo fermato con un peso. Si alza il vento; neve di soffioni intorno a loro. Le api operano nel giallo del campo contro un azzurro crescente.
– Inspira da sopra. Espira da sotto, – lo istruisce il vecchio. – Il crawl.
Il campo arido è un’isola. L’acqua azzurra tutto intorno è resa bianca da una costellazione di isole aride. Esther è stesa su un letto d’acciaio stretto e pulito sull’isola vicina. L’acqua si muove nel canale fra di loro.
Giorno imita la bracciata. Le mani in pronazione abbattono semi bianchi. Una pianta è germogliata in un batter d’occhio. Lo stelo arriva già alle ginocchia di Giorno.
Yang parla a Ndiawar della trama della bolletta mentale. Ndiawar si lamenta con Yang che la sua chiesa preferita non lascia una mano libera per aprire la porta. Il simbolismo dello scambio è inequivocabile.
L’insegnante d’arte si è allontanato nuotando a dorso dalla crescita ondeggiante della pianta nera. Giorno si dimena nel polline, cercando di stabilire un ritmo.
Sarah galleggia supina nel canale davanti all’isola di Esther. Poi l’ombra della pianta interrompe la luce. L’ombra è la cosa piú grossa che Giorno abbia mai visto. La sua facciata si dilata fino a scomparire, reclama il prefisso bronto-. Il terreno rimbomba sotto il peso di un contrafforte. Il contrafforte si curva verso l’alto scomparendo dalla vista verso la facciata. Un rosone balugina al limite estremo del cielo. Il cavalletto cade in terra. Le porte di quella cosa sono spuntate dal nulla, torcendosi come labbra. La cosa si avventa contro di loro.
– Aiuto! – dice Esther, piano piano, prima che la chiesa del quadro li inglobi. Giorno sente lo scricchiolio distante della crescita continua. La chiesa incostruita è buia, riceve luce solo dal vetro colorato. Le porte si sono lanciate dietro di loro, scomparendo.
Il rosone continua a salire. È rotondo e rosso. Le lance rifrante si irraggiano. All’interno della finestra una donna triste cerca con il sorriso di uscire dal vetro.
Giorno mima ancora il crawl, unico stile che conosce.
La finestra lascia entrare luce e nient’altro, la colora.
– Chiudi gli occhi che hai nella testa, – arriva l’eco smorzata di Ndiawar.
Yang è di fronte alla navata. – Chiudili.
Volte a botte si abbuiano sopra il rosone. La finestra capovolge ogni normale rivelazione – ogni cosa solida qui è nera, tutto quanto è luce è colore brillante. Giorno, inspirando, ne vede la forma. Il colore si affievolisce dalla finestra, si assottiglia in una lancia rifranta, l’estremità è una punta scura. Intorno gli turbina qualcosa in bianco.
Giorno si dirige a bracciate di crawl verso l’estremità appuntita, ascendendo senza peso.
Il professore d’arte spretato mette l’orologio subacqueo di Giorno sull’altare. Ci si inginocchia davanti, bestemmiando.
Avvolta nella garza Esther galleggia nel punto scuro in cima al colore di forma acuminata del rosone rosso. Giorno vede la punta attraverso l’umido sipario stellato che le sue braccia hanno teso. L’azzurro dell’aria sembra nero – lui nuota attraverso la tenda, stelle piovono verso l’alto dalle sue bracciate. Mima la bracciata del crawl attraverso le stelle. La vede chiaramente, sta turbinando.
– Non guardare!w
E ancora una volta è guardando in basso che fallisce. Voleva solo vedere da dove era salito. Un secondo – anche meno – tanto basta perché tutto frani. Comincia dall’abside. L’oriente si precipita a occidente e la facciata occidentale non lo regge, rovinando. I muri sembrano fare spallucce mentre franano su se stessi. Il punto nero sulla lancia rossa si squarcia. Esther si dimena mulinando tra le sue metà frastagliate, precipitando incontro al rosone proprio mentre la finestra si rovescia. È tutto di una chiarezza fotografica. Yang dice Uau. Il contrafforte si piega in avanti torcendosi. La caduta di Esther richiede tempo. Il corpo ruota lentamente nell’aria, trascinando una cometa di garza. Il rosone le piomba incontro. Un uomo alto un miglio potrebbe afferrarla nelle mani a coppa in mezzo alle stelle cadenti; la garza verrebbe dietro. È il respiro mancato di Giorno a farlo diventare blu. La lastra di vetro color sangue trattiene la madre all’interno, aspettando che la liberi la figlia.
Si sente il rumore dell’impatto a una grande altezza di vetro: terribile, versicolore.
Ruota
Il cielo è un occhio.
Il crepuscolo e l’alba sono il sangue che nutre l’occhio.
La notte è la palpebra chiusa dell’occhio
Ogni giorno la palpebra si riapre, svelando sangue, e l’iride azzurra di un gigante prono.