mercoledì 11 settembre 2024


NEMICO, AMICO, AMANTE...
Alice Munro.

Nove racconti perfetti: la musica del quotidiano, il gioco smorzato dei sentimenti e delle allusioni. Da Flannery O'Connor a Henry James, da Cechov a Tolstoj, non c'è un autore di racconti al quale Alice Munro non sia stata paragonata. Ma la sua capacità di dipanare in un lampo l'irriducibile complessità della natura umana è incomparabile. Questi racconti possiedono la straordinaria capacità di trascinare il lettore nei meandri di una memoria che non è la sua per risvegliare emozioni che sono di tutti. La scrittura della Munro è aperta, lussureggiante, fitta di accadimenti e particolari necessari. Il paesaggio canadese, la natura selvaggia del Nord Ovest partecipano alle emozioni dei personaggi, integrano la loro storia, determinano le loro decisioni. 

Alice Munro è la più importante autrice canadese contemporanea. È cresciuta a Wingham, Ontano; è sposata, con tre figlie, e vive tra Clinton, Ontario e Comox, British Columbia. Ha scritto numerose raccolte di racconti. Nella sua lunga carriera ha ricevuto una quantità di premi letterari, tra cui il National Book Critics Circle Award. Oltre a Nemico, amico, amante... Einaudi ha pubblicato: Il sogno di mia madre (2001] e In fuga (2004). 
***

Indice.
Nemico, amico, amante...
Il ponte galleggiante
Mobili di famiglia
Conforto
Ortiche
Post and Beam
Quello che si ricorda
Queenie
The Bear Came Over the Mountain


  Nemico, amico, amante...
   Anni fa, prima che tanti treni su linee secondarie venissero soppressi, una donna dalla fronte alta e lentigginosa e una matassa crespa di capelli rossi, si presentò in stazione per informarsi riguardo alla spedizione di certi mobili.
   L'impiegato faceva sempre un po' lo spiritoso con le donne, specie con quelle bruttine, che sembravano apprezzare.
- Mobili? - disse, come se nessuno avesse mai avuto prima un'idea simile. - Dunque, vediamo. Di che genere di mobili stiamo parlando?
- Un tavolo da pranzo con sei sedie. Una camera da letto completa, un divano, un tavolo basso, alcuni tavolini, una lampada a stelo. E anche una cristalliera e una credenza.
- Accidenti. Una casa intera.
- Non direi proprio, - ribatté lei. - Mancano le cose di cucina e ci sono mobili per una sola camera da letto.
   Aveva tutti i denti ammucchiati davanti, come se fossero pronti a litigare.
- Le servirà il furgone, - fece lui.
- No, voglio spedirli per ferrovia. Vanno a ovest, nel Saskatchewan.
   Gli si rivolgeva a voce alta, come se fosse sordo o scemo, e c'era qualcosa di strano nel modo in cui pronunciava le parole. Un accento. Olandese, pensò lui - c'era parecchio movimento di olandesi in quella zona -, anche se, delle donne olandesi, a questa mancava la stazza o la bella carnagione rosea o i capelli biondi. Poteva essere sotto i quaranta, ma che importanza aveva? Miss bellezza non doveva esserlo stata mai.
   L'uomo si fece molto professionale.
- Prima di tutto le ci vorrà il furgone per trasferire la roba qui da dovunque si trovi. E poi, sarà meglio controllare che in questo posto nel Saskatchewan ci passi il treno. Se no, dovrò farla venire a prendere, che so, a Regina.
- E’ Gdynia, - disse. - Il treno ci passa.
   Lui prese una guida cincischiata che stava appesa a un chiodo, e le chiese come si scriveva. Lei si servì della matita a sua volta legata a una corda e scrisse su un pezzo di carta estratto dalla borsetta: GDYNIA.    - E che razza di nome sarebbe?
   Disse che non lo sapeva.
   Le prese la matita per scorrere rigo a rigo.
- Un sacco di posti da quelle parti sono pieni di cechi, di ungheresi e di ucraini, - commentò. Mentre lo diceva gli venne in mente che la donna poteva essere una di loro. Be', e allora? Stava solo esprimendo un dato di fatto.
- Eccola qui. Tutto a posto. C'è la ferrovia.
- Sì, - disse lei. - Voglio spedire la roba venerdì. E’ possibile?
- Possiamo spedirla, ma non posso prometterle che arriverà in un certo giorno, - fece lui. - Tutto dipende dalle priorità. Ci sarà qualcuno a occuparsene quando arriva?
- Sì.
- E’ un treno misto, merci e passeggeri, quello di venerdì, delle quattordici e diciotto. Il furgone passa a ritirare la roba venerdì mattina. Lei abita qui in paese?
   Annuì, mentre scriveva il suo indirizzo: 106, Exhibition Road.
   Era da poco che in comune avevano distribuito i numeri civici, perciò lui non riusciva a immaginare il punto esatto, pur sapendo dove si trovava Exhibition Road. Se lei avesse fatto il nome di McCauley, in quel momento, l'uomo avrebbe forse mostrato maggior interesse, e le cose avrebbero magari preso una piega diversa. C'erano abitazioni nuove in quella zona, costruite dopo il conflitto, anche se la gente le chiamava le «case del tempo di guerra». Immaginò che si trattasse di una di quelle.
- Pagamento alla spedizione, - le disse.
- Voglio anche un biglietto per me sullo stesso treno. Venerdì pomeriggio.
- Stessa destinazione?
- Sì.
- Può viaggiare sullo stesso treno fino a Toronto, ma poi dovrà aspettare il transcontinentale che parte alle dieci e mezza di sera. Vuole un vagone letto o regolare? Nel vagone letto avrà la cuccetta, in quello regolare dovrà stare seduta.
   Disse che seduta andava bene.
- A Sudbury dovrà aspettare il Montreal, ma senza scendere: smistano solo le carrozze, e le attaccano alla motrice del Montreal. Lo stesso a Port Arthur, e poi a Kenora. Lei resta sul treno fino a Regina; lì invece cambia, e prende il locale.
   Annuì, come per dirgli di non farla lunga e di darle il biglietto.
   Rallentando, lui disse: - Ma non le assicuro che i mobili arriveranno insieme a lei, anzi, credo che ci metteranno un paio di giorni in più. E’ questione di precedenze. Qualcuno viene a prenderla?
- Sì.
- Bene. Perché è probabile che non sia granché, come stazione. Da quelle parti, i paesi non sono come qui. Sono posti abbastanza rudimentali.
   Pagò il suo biglietto, sfilando il denaro da un rotolo di banconote in un sacchetto di tela che teneva in borsa. Come una vecchietta. Contò anche il resto. Ma non come avrebbe fatto una vecchia. Passò in rassegna rapidamente gli spiccioli sulla mano, ma era chiaro che non le stava sfuggendo un centesimo. Poi girò sui tacchi e se ne andò senza salutare.
- A venerdì, - le disse lui.
   In quella tiepida giornata di settembre, la donna indossava un soprabito lungo e semplice, su scarpe sfondate coi lacci, e calzini alla caviglia.
   L'impiegato si stava versando del caffè dal thermos quando lei tornò indietro e batté sul vetro dello sportello.
- I mobili che spedisco, - disse. - E tutta roba buona, come nuova. Non vorrei che si graffiassero, o si ammaccassero, che si danneggiassero, insomma. E non vorrei neppure che arrivassero puzzolenti di carro bestiame.
- Be', senta, - disse lui. - Qui in ferrovia siamo piuttosto esperti in fatto di spedizioni. Tendiamo a non usare gli stessi vagoni per mobili e maiali, ad esempio.
- Voglio solo assicurarmi che arrivino a destinazione nelle stesse condizioni in cui sono partiti di qui.    - Stia a sentire: quando lei compra dei mobili, va in un negozio, giusto? Ha mai pensato come ci sono arrivati? Non li hanno certo fatti sul posto, dico bene? No, li hanno fatti in fabbrica da qualche parte e poi li hanno spediti al negozio, probabilmente col treno. Perciò, stando così le cose, non le pare che le ferrovie dovrebbero sapere il fatto loro?
   Lei non smise mai di guardarlo, senza un sorriso, e tutt'altro che convinta di dover ammettere di aver avuto solo paure cretine, da donna.
- Lo spero proprio, - disse. - Spero che sia così.
   L'impiegato delle ferrovie avrebbe dichiarato senza pensarci su che conosceva tutti in paese. Il che voleva dire che conosceva circa metà della gente. Per lo più lo zoccolo duro della popolazione, quelli che si consideravano davvero «del posto», nel senso che non erano arrivati il giorno prima e non intendevano trasferirsi l'indomani. Non conosceva la donna in partenza per il Saskatchewan, perché non era un membro della loro chiesa, non era l'insegnante dei suoi figli e non lavorava in nessun negozio, ufficio o ristorante che lui frequentasse. E non era nemmeno sposata con qualcuno di sua conoscenza, socio degli Elks o degli Oddfellows, o del Lions Club o degli Ex Combattenti. Un'occhiata alla mano sinistra mentre lei prendeva i soldi gli aveva chiarito - senza peraltro meravigliarlo - che non era sposata e basta. Con quelle scarpe e i calzini, anziché le calze di nylon, e senza guanti e cappello di pomeriggio, avrebbe potuto essere una contadina. Ma le mancavano i modi esitanti, l'imbarazzo. Non aveva maniere da contadina - a dirla tutta, non aveva affatto buone maniere. Lo aveva trattato come una specie di macchina sputainformazioni. E poi, gli aveva dato un indirizzo del centro: Exhibition Road. In realtà, la persona che gli ricordava di più era una suora in abiti borghesi che aveva visto in Tv, parlare del suo missionariato in qualche angolo della foresta vergine: probabilmente aveva smesso gli abiti religiosi per muoversi più agevolmente durante il lavoro laggiù. La monaca aveva sorriso, di quando in quando, per mostrare che la sua fede la faceva felice, ma per lo più aveva fissato il pubblico con l'aria di chi pensava che gli altri stessero al mondo solo per farsi comandare da lei.
   C'era un'altra cosa che Johanna voleva fare e che rimandava da un pezzo. Doveva entrare nel negozio di Milady e comprarsi un tailleur. Non ci aveva mai messo piede; quando doveva prendersi qualcosa, tipo un paio di calze, andava da Callaghans Abbigliamento per Uomo Donna e Bambino. Aveva un mucchio di vestiti ereditati dalla signora Willets, roba tipo quel soprabito che non si sarebbe consumato mai. E Sabitha - la ragazza alla quale badava, in casa McCauley - riceveva montagne di abiti smessi dalle cugine
   Nella vetrina di Milady c'erano due manichini con indosso tailleur dalla gonna piuttosto corta e dalla giacca di taglio diritto. Uno dei due era di un bel ruggine dorato, e l'altro di un riposante verde intenso. Vistose foglie di acero fatte di carta erano sparse ai piedi dei manichini e incollate qua e là sul vetro. Proprio nel periodo dell'anno in cui la gente aveva il problema di rastrellare le foglie e bruciarle, qui erano diventate una scelta decorativa. Un cartello scritto in svolazzante corsivo nero tagliava l'intera vetrata in diagonale. Diceva:
Eleganza Sobria, la Moda d'Autunno.
   Aprì la porta ed entrò.
   All'ingresso, in uno specchio a figura intera, si vide con il raffinato mantello informe della signora Willets, che le scopriva pochi centimetri di gamba nuda sopra i calzini.
   Lo facevano apposta, era chiaro. Avevano piazzato lì lo specchio, di modo che i clienti potessero rendersi conto subito delle proprie magagne per poi - si sperava - giungere alla conclusione che era il caso di acquistare qualcosa per modificare l'effetto. Un espediente così scoperto l'avrebbe fatta uscire senz'altro dal negozio, se non fosse già entrata decisa, sapendo che cosa doveva comprare.
Lungo una parete erano allineati gli abiti da sera, tutti a misura di reginetta del ballo, con tanto di raso e tulle e colori incantati. Più in là, in un armadio a vetri per evitare che dita profane potessero sfiorarli, stavano una mezza dozzina di abiti da sposa: una spuma bianchissima di raso fior di vaniglia e di pizzi avorio, ricamati a perline e giaietto. Bustini ridottissimi, colli smerlati, gonne sontuose. Nemmeno da giovane si sarebbe mai concessa certe stravaganze, e non solo per una questione di soldi, ma per la presunzione che avrebbero significato, per la speranza immodesta di meritare una simile trasformazione, e la felicità.
   Passarono due o tre minuti prima che arrivasse qualcuno. Magari avevano uno spioncino dal quale la osservavano, pensando che non era il loro genere di cliente, e sperando che se ne andasse.
   Macché. Si scostò dalla linea dello specchio - passando dal linoleum accanto alla porta a una fitta moquette - e finalmente, dalla tenda in fondo al negozio, uscì Milady in persona, in tailleur nero dai bottoni luccicanti. Tacchi alti, caviglie sottili, addome fasciato così stretto che le calze raschiavano l'una contro l'altra, capelli biondo oro tirati indietro, faccia truccata.
- Pensavo di provarmi il tailleur che ha in vetrina, - disse Johanna, che si era preparata la frase. - Quello verde.
- Oh, un bel capo, - disse la donna. - Quello in vetrina mi pare sia una taglia quaranta. Vediamo, lei cosa sarà? Una quarantaquattro?
   Passò frusciando davanti a Johanna fino all'angolo del negozio in cui stavano appesi i capi normali, tailleur e abiti da giorno.
- E’ fortunata. Ecco qui una quarantaquattro.
   Per prima cosa, Johanna guardò il cartellino del prezzo. Tranquillamente il doppio di quanto si aspettasse, e non era sua intenzione far finta di niente.
- E’ parecchio caro.
- E’ di ottima lana -. La donna armeggiò con la stoffa finché non trovò l'etichetta, e lesse la composizione del tessuto, ma Johanna non stava davvero ascoltando perché intanto osservava l'orlo per controllarne la cucitura.
- E’ leggero come una seta, ma cade come un piombo. Come vede è tutto foderato: fodera completa in rayon e seta. Non si stropiccia sul dietro e tiene la piega; mica come certi completi a buon mercato. Guardi questi polsini, il colletto in velluto, e i bottoncini in velluto sulla manica.
- Li vedo.
- Dettagli simili costano, si capisce, non si trovano dappertutto. Senta la morbidezza del velluto. C'è solo sul verde, sa? Quello color albicocca è senza, eppure hanno esattamente lo stesso prezzo.
   In effetti erano colletto e polsini di velluto a conferire al tailleur, secondo Johanna, quel tocco di lusso che gliel'aveva fatto desiderare. Ma non intendeva ammetterlo.
- Tanto vale che me lo provi.
   Dopo tutto era entrata decisa a farlo. Biancheria pulita e una spolverata di borotalco sotto le ascelle.    La donna fu abbastanza sensata da lasciarla sola nello spogliatoio. Johanna evitò come veleno lo specchio finché non ebbe sistemato la gonna e non si fu abbottonata la giacca.
   Dapprima osservò solo l'abito. La taglia era giusta: la gonna, più corta delle sue solite gonne, ma d'altra parte quelle erano fuori moda. No, nessun problema rispetto al tailleur. Il problema semmai dipendeva da ciò che ne spuntava fuori. Il collo, la faccia, i capelli, le mani grosse e le gambe tozze.
- Come va? Posso dare un'occhiata?
   Da' pure tutte le occhiate che vuoi, pensò Johanna, tanto è il classico caso di perle ai porci, vedrai.
   La donna provò a osservare da un lato, poi dall'altro.
- Certo, ci vogliono le calze di nylon e le scarpe col tacco. Come se lo sente? Comodo?
- Sì, sì, per quello... - disse Johanna. - Il tailleur non ha niente che non va.
   La faccia della donna cambiò nello specchio. Smise di sorridere. Sembrava delusa e stanca, ma più gentile.    - Certe volte è proprio così. Non si può mai dire finché non si provano le cose. Il fatto è, - disse, mentre le cresceva nella voce una convinzione nuova, più moderata, - il fatto è che lei ha una bella figura, ma un po' forte. Lei è di ossatura robusta, e allora? Dov'è il problema? Certo i bottoncini foderati di velluto non fanno per lei. Lasci perdere. Se lo tolga.
   Poi, quando Johanna fu di nuovo in sottoveste, una mano tamburellò sulla parete e si infilò oltre la tenda.    - Si metta questo, tanto per provare.
   Un vestito di lana marrone, foderato, ampia gonna di linea morbida, manica a tre-quarti e scollo rotondo, classico. Il massimo della semplicità, fatta eccezione per una cinturina dorata in vita. Non caro come il tailleur, anche se il prezzo pareva comunque alto, considerato il modello.
   Se non altro la gonna era di lunghezza più decorosa, e il tessuto avvolgeva le gambe in un panneggio elegante. Johanna si fece forza e guardò nello specchio.
   Questa volta non pareva che l'avessero infilata dentro un vestito per farle uno scherzo.
   La donna arrivò e le si mise accanto, e rise, ma di sollievo.
- Ha lo stesso colore dei suoi occhi. Non le serve il velluto; ha già occhi di velluto, lei.
   Era il genere di complimento di cui Johanna di solito si sarebbe sentita in dovere di ridere, non fosse stato che in quel momento le parve sincero. Non aveva occhi grandi e, se le avessero chiesto di che colore erano, avrebbe risposto: «Ma, più o meno marroni, direi». Però adesso parevano proprio di un marrone intenso, morbido e luminoso.
   Non che si fosse improvvisamente messa in testa di essere bella, o roba del genere. Era solo che gli occhi avevano un bel colore, se fossero stati un pezzo di stoffa.
- Be', immagino che lei non porti spesso scarpe eleganti, - disse la donna. - Ma con un paio di calze di nylon e una semplice scarpa décolleté... Scommetto anche che non si mette gioielli, e in questo caso fa bene, non ce n'è bisogno, con quella cintura.
   Per tagliare corto sulla tirata imbonitrice Johanna disse: - Va bene, meglio che me lo levi, così me lo può incartare -. Le dispiacque dover rinunciare alla leggerezza della gonna e al vezzo discreto dell'oro intorno ai fianchi. Non aveva mai provato in vita sua la sciocca sensazione di venire valorizzata da qualcosa che aveva addosso.
- Spero solo che sia per un'occasione speciale, - disse la donna alzando la voce, mentre Johanna si ricacciava in fretta nei vestiti di sempre, che adesso parevano decisamente squallidi.
- E’ molto probabile che me lo metta per sposarmi, - disse Johanna.
   Si sorprese, sentendo quelle parole uscirle di bocca. Nessun grave errore - la donna non sapeva chi fosse, e con ogni probabilità non ne avrebbe parlato con qualcuno di sua conoscenza. Nonostante questo, aveva creduto di non volerlo dire proprio a nessuno. Doveva essersi sentita in debito con quella persona - forse perché avevano vissuto insieme il disastro del tailleur verde e la scoperta del vestito marrone e questo le aveva legate. Che stupidaggini. La donna vendeva abiti per mestiere, ed era semplicemente riuscita a convincerla.
- Oh! - esclamò la donna. - Oh, ma è meraviglioso!
   Be', pensò Johanna, può darsi, ma può anche darsi di no.
Poteva essere in procinto di sposare chiunque. Un contadino spiantato al quale serviva un cavallo da tiro in casa, o magari un vecchio bavoso e invalido a caccia di un'infermiera. Quella donna non aveva idea del tipo d'uomo che l'aspettava, e comunque non erano fatti suoi.
- Sono sicura che è un matrimonio d'amore, - disse l'altra, come se avesse letto nei suoi pensieri scontrosi. - Ecco il perché della luce che aveva negli occhi allo specchio. Gliel'ho avvolto bene nella carta velina, basterà che lo appenda e il tessuto andrà a posto perfettamente. Può dargli un colpo di ferro se vuole, ma non credo che ce ne sarà bisogno.
   Poi venne il momento di tirar fuori il denaro. Finsero entrambe di non farci caso, ma non era vero per nessuna delle due.
- Sono soldi ben spesi, - disse la donna. - Ci si sposa una volta sola, no? Be', in certi casi non è esattamente così...
- Nel mio caso sarà così, - disse Johanna. Si sentiva il viso in fiamme, perché in effetti di matrimonio non si era mai parlato. Nemmeno nell'ultima lettera. Aveva rivelato a quella donna le sue speranze, il che forse non era di buon auspicio.
- Dove vi siete conosciuti? - chiese l'altra, con lo stesso tono di assorta allegria. - Com'è stato il vostro primo incontro?
- Tramite parenti, - rispose sincera Johanna. Non intendeva aggiungere altro, ma sentì la propria voce proseguire. - Alla Fiera dell'Ovest. Quella di London.
- La Fiera dell'Ovest, - ripetè la donna. - A London -. Con quel tono, avrebbe potuto anche dire «Al Ballo di Corte».
- Con noi c'erano anche sua figlia e una sua amichetta,
- aggiunse Johanna, pensando che sarebbe stato più esatto affermare che lui, Sabitha e Edith avevano portato lei, Johanna, alla fiera.
- Be', posso dire che non ho sprecato la mia giornata, allora. Ho fornito il vestito a una futura sposa felice. Mi basta a giustificare la mia esistenza -. La donna annodò un nastro rosa intorno alla scatola del vestito, e lo chiuse con un grosso fiocco superfluo al quale assestò una rapida sforbiciata.
- Me ne sto qui tutto il giorno, - disse. - E certe volte non so bene cosa ci faccio. Mi chiedo, Ma che ci fai sempre qui? Cambio disposizione alla vetrina, e invento cose per attirare la gente in negozio, ma ci sono dei giorni - ci sono giornate intere - in cui da quella porta non vedo entrare anima viva. Lo so, la gente pensa che questi vestiti sono troppo cari, ma sono di qualità. Se si vuole la qualità, bisogna essere disposti a spendere.
- Devono per forza venire qui, quando vogliono abiti come quelli, - disse Johanna, indicando con gli occhi i vestiti da sera. - Dove altro potrebbero andare?
- E invece no. Non ci vengono. Vanno in città, ecco dove vanno. Sono disposte a farsi cinquanta, cento chilometri, senza badare alla benzina, e si convincono di poter trovare di meglio rispetto a quello che ho io. E non è vero. Non trovano né miglior qualità, né più assortimento. Niente. E’ solo che si vergognano di dire che hanno comprato il vestito da sposa in paese. Oppure entrano, provano, e poi dicono che ci devono pensare. Torno domani, dicono. E io penso, Ma sì, certo, come se non sapessi cosa vuol dire. Vuol dire che cercheranno di trovare la stessa cosa più a buon prezzo a London o a Kitchener, e se non sarà meno cara, finiranno per prenderla lì lo stesso, dopo che si sono fatte tutti quei chilometri e sono stanche di cercare.    - Non so, - aggiunse. - Forse se fossi del posto, sarebbe diverso. Da queste parti l'ambiente è molto chiuso, secondo me. Lei non è di qui, vero?
- No, - disse Johanna.
- Non li trova chiusi anche lei?
- Chiusi.
- Voglio dire che è difficile per un forestiero inserirsi.
- Ci sono abituata, a stare per conto mio.
- Ma qualcuno lei l'ha trovato. Non dovrà più stare per conto suo. Non è una gran bella cosa? Certi giorni penso che vorrei tanto essere sposata e starmene a casa. Del resto, una volta lo ero, e lavoravo lo stesso. Pazienza. Magari un giorno entrerà in negozio un marziano, si innamorerà di me, e allora si sistemerà tutto!
   Johanna dovette affrettarsi - il bisogno di chiacchierare di quella donna le aveva fatto perdere tempo. Si stava precipitando a casa per riporre il suo acquisto prima che Sabitha rientrasse da scuola.
   Poi ricordò che Sabitha non c'era; l'aveva portata via nel weekend la cugina della madre, la zia Roxanne: si sarebbe stabilita a Toronto a vivere da vera ragazza ricca, frequentando una scuola per ragazze ricche. Ma Johanna continuò a camminare veloce, così veloce che un babbeo appoggiato in ozio contro il muro del drugstore le gridò appresso: - E’ scoppiato un incendio? - e allora lei rallentò un poco il passo, per non attirare l'attenzione.
   La scatola del vestito era imbarazzante - chi andava a immaginare che il negozio disponesse di quegli scatoloni rosa, con tanto di Milady's stampato in corsivo viola lungo la diagonale? Che figura.
   Si sentiva una stupida, per essersi lasciata scappare la storia del matrimonio, quando lui non ne aveva mai fatto parola e lei avrebbe dovuto non dimenticarlo. Il fatto è che erano state dette - o scritte - così tante cose, con tale esplicita tenerezza e passione, da lasciar credere di poter dare per scontato il concetto di nozze in sé. Come uno potrebbe parlare di alzarsi al mattino, senza specificare che farà colazione, pur intendendo ovviamente farla.
   Nonostante questo, avrebbe dovuto tenere la bocca chiusa.
   Vide il signor McCauley procedere in direzione opposta sull'altro lato della via. Nessun problema: quand'anche si fossero incontrati faccia a faccia, lui non avrebbe mai fatto caso alla scatola. Si sarebbe limitato a portarsi un dito al cappello e l'avrebbe superata, forse notando che si trattava della sua domestica, ma forse no. Aveva ben altro per la testa e, per quanto ne sapeva la gente, il suo sguardo si sarebbe potuto posare su tutt'altro paese rispetto a quello che vedeva il resto della popolazione. La mattina di ogni giorno feriale - e talvolta, per distrazione, anche di domenica e nelle feste comandate - indossava uno dei suoi completi a tre pezzi con il soprabito leggero, oppure il cappotto pesante, il cappello grigio e le scarpe lustre, e percorreva a piedi Exhibition Road diretto in centro, all'ufficio che ancora occupava sopra la bottega di finimenti e pelletteria. Lo si definiva un Ufficio Assicurazioni, anche se era passato ormai un bel po' di tempo dall'ultima volta che aveva effettivamente venduto una polizza assicurativa. Ogni tanto la gente saliva da lui, magari per chiedergli qualche cosa su vecchie assicurazioni e, più ancora, su certi terreni confinanti, sulla storia di determinate proprietà in paese, o di fattorie in aperta campagna. Il suo ufficio era pieno di mappe vecchie e nuove, e lui non vedeva l'ora di srotolarle sul tavolo e imbarcarsi in discussioni che andavano ben al di là della richiesta ricevuta. Tre o quattro volte al giorno usciva e percorreva a piedi la via, come adesso. Durante la guerra aveva riposto la McLaughlin-Buick nel fienile e aveva preso l'abitudine di andare dovunque a piedi per dare l'esempio. A quanto pareva, continuava a dare l'esempio quindici anni dopo. Procedendo con le mani intrecciate dietro la schiena, sembrava un padrone gentile a spasso per la sua proprietà, o un parroco soddisfatto del suo gregge d'anime. Va da sé che metà della gente, incontrandolo, non aveva idea di chi fosse.
   Il paese era cambiato, perfino nel poco tempo da quando Johanna era arrivata. Il commercio si era spostato verso la statale, dove adesso c'erano un nuovo supermercato discount, una filiale della Canadian Tire e un motel con night-club e spettacoli di spogliarello. Alcuni negozi del centro avevano tentato di darsi una rinfrescata ricorrendo a pareti rosa, lilla o verde oliva, ma la pittura si scrostava già sui mattoni vecchi, e certi locali erano vuoti. Milady's era destinato quasi di sicuro a fare la stessa fine.
   Che avrebbe fatto Johanna se fosse stata lei la titolare? Mai e poi mai si sarebbe riempita il negozio di quegli impossibili vestiti da sera, per cominciare. Per sostituirli con cosa? Passando a capi più economici, si sarebbe solo messa in concorrenza con Callaghans e con il discount, e molto probabilmente non ci sarebbe stato lavoro per tutti. Allora perché non tentare con abbigliamento di qualità per neonati e bambini, cercando di tirare dentro le nonne e le zie che avevano soldi e che li avrebbero spesi volentieri per quel genere di articolo? E lasciar perdere le madri, che avrebbero continuato a servirsi da Callaghans, avendo meno disponibilità e più buonsenso.
   Solo che se in negozio ci fosse stata lei - Johanna - non sarebbe mai riuscita a farci entrare nessuno. Era in grado di capire cosa andava fatto, e come, e anche di trovare e gestire il personale, ma non aveva il minimo talento nel persuadere e incantare la gente. Prendere o lasciare, ecco quale sarebbe stato il suo stile. E di sicuro i clienti avrebbero lasciato.
Erano rarissime le persone che l'avevano in simpatia, questo l'aveva capito da un pezzo. Di certo Sabitha non aveva versato fiumi di lacrime andando via, anche se Johanna in effetti era stata per lei quanto di più simile a una madre, dopo la morte della madre vera. Al signor McCauley sarebbe seccato di dover rinunciare a lei, perché gli aveva reso buoni servizi e perché non sarebbe stato facile rimpiazzarla, ma niente di più. Tanto lui quanto la nipote erano persone egoiste e viziate. I vicini di casa poi, avrebbero addirittura festeggiato. Johanna aveva avuto problemi con tutte e due le famiglie. Da un lato, c'era il cane che veniva a scavare nel suo giardino per seppellire e stanare la sua riserva di ossa, cosa che, secondo lei, avrebbe potuto benissimo fare a casa propria. E dall'altro, c'era il ciliegio che stava sulla proprietà dei McCauley, ma che metteva i frutti per lo più sui rami spioventi nel cortile accanto. In entrambi i casi aveva piantato una grana, e vinto. Il cane era stato legato e gli altri vicini avevano lasciato in pace le ciliegie. Salendo sulla scala arrivava ancora a sporgersi di parecchio nel cortile adiacente, ma loro non mettevano più in fuga gli uccelli dai rami, il che faceva una bella differenza in termini di raccolto.
   Il signor McCauley avrebbe chiuso un occhio con le ciliegie. E avrebbe lasciato che il cane venisse a scavare le sue buche. Avrebbe permesso che approfittassero di lui. In parte perché quella era gente nuova che abitava in case nuove e lui preferiva non averci a che fare. Ai suoi tempi in Exhibition Road c'erano solo tre o quattro grandi ville. Di fronte a loro c'era lo spiazzo dove ogni anno veniva allestita la fiera d'autunno (ufficialmente chiamata Agricultural Exhibition, da cui il nome della via), e in mezzo erano tutti orti o piccoli prati. Poi, circa una dozzina di anni prima, la terra era stata venduta in lotti regolari ed edificata: villette alternate, un tipo con piano rialzato e un tipo senza. Certe incominciavano già ad assumere un aspetto piuttosto squallido.
   Erano solo un paio le case di cui il signor McCauley conosceva gli inquilini, con i quali intratteneva rapporti cordiali - quella della maestra, la signorina Hood, e di sua madre, e quella degli Shultz, che gestivano il laboratorio di calzolaio. Edith, la figlia dei coniugi Shultz, era o era stata grande amica di Sabitha. Naturale, visto che frequentavano la stessa classe - per lo meno l'ultimo anno, dopo che Sabitha era stata bocciata - e abitavano così vicine. Il signor McCauley non aveva sollevato obiezioni, forse sapeva già che Sabitha si sarebbe trasferita presto a Toronto e avrebbe cambiato vita. Johanna invece non aveva simpatia per Edith, sebbene la ragazzina non fosse mai stata scortese e non avesse mai combinato guai quando veniva in casa. Oltre tutto non era stupida. Ma forse era proprio quello il problema: che lei era sveglia e Sabitha non altrettanto. Con lei Sabitha era diventata maliziosa.
   Acqua passata, ormai. Dopo l'arrivo della cugina Roxanne, la signora Huber, la figlia degli Shultz era entrata a far parte dell'infanzia trascorsa di Sabitha.
   Ho provveduto a spedirti tutti i mobili per ferrovia appena possibile, pagando in anticipo appena mi diranno quanto costa. Arriveremo il più presto possibile. Ho pensato che dovevano servirti. Immagino che non sarai tanto stupito che abbia pensato non ti dispiacesse se ti raggiungevo per esserti d'aiuto, come spero.    Questa era la lettera che aveva spedito dall'Ufficio postale, prima di andare a informarsi per i mobili alla stazione. Era la prima che mandava a lui direttamente. Le altre, le aveva infilate nella busta insieme a quelle che faceva scrivere a Sabitha. Le sue a lei erano arrivate nello stesso modo, ben ripiegate e con il suo nome, Johanna, battuto a macchina sul retro del foglio per non creare confusione. così gli impiegati dell'Ufficio postale ne sarebbero rimasti fuori, e poi non era mai male risparmiare un francobollo. Certo Sabitha avrebbe potuto riferire tutto al nonno, o perfino leggere la parte di Johanna, ma a Sabitha non interessavano le lettere - quelle scritte da lei come quelle che riceveva - più di quanto le interessasse comunicare col vecchio. I mobili erano riposti nel fienile, che ormai era in realtà un deposito, e non un vero fienile con tanto di animali e granaio. La prima volta che Johanna era andata a dare un'occhiata, circa un anno prima, li aveva trovati lerci di polvere e di escrementi di uccelli. I vari pezzi erano stati ammucchiati senza criterio e non si era badato a coprirli con un telo. Quello che era riuscita a trascinare, l'aveva portato fuori in cortile, facendo spazio nel fienile per i pezzi grossi troppo pesanti: divano, credenza, cristalliera e tavolo da pranzo. Il telaio del letto era riuscita a smontarlo. Aveva attaccato il legno prima con stracci morbidi, poi con olio di scorza di limone, e alla fine l'aveva fatto brillare come sciroppo. Sciroppo d'acero. Era legno d'acero, infatti. A lei pareva bellissimo, come i copriletti di raso e i capelli biondi. Bellissimo e moderno, non come tutto quel legno scuro e istoriato dei mobili che le toccava pulire in casa. Li aveva pensati come appartenenti a lui, e ne era ancora convinta quel mercoledì, mentre li tirava fuori. Ne aveva coperto lo strato inferiore con vecchie trapunte per proteggerli da quelli che stavano sopra, e aveva gettato lenzuola sul ripiano superiore per evitare le cacche di uccello, perciò c'era soltanto un velo di polvere, adesso. Ma li strofinò tutti quanti lo stesso e li lucidò con l'olio prima di metterli via, di nuovo coperti, in attesa del furgone che doveva venirli a prendere il venerdì.
   Gentile signor McCauley,
   parto oggi pomeriggio (venerdì) con il treno. Mi rendo conto di non averle dato il preavviso, ma rinuncerò alla mia ultima paga che sarà di tre settimane il prossimo lunedì. C'è uno stracotto di manzo nel tegame a doppio fondo sul fornello: basta scaldarlo. Ne avrà abbastanza per tre volte, magari anche quattro. Appena è caldo e se ne è servito a sufficienza, ci metta il coperchio e lo riponga in frigo. Mi raccomando, ci metta il coperchio subito per non rischiare che si guasti. I miei rispetti a lei e a Sabitha e probabilmente mi farò viva quando sarò sistemata. Johanna Parry.
   P.S. Ho spedito i mobili al signor Boudreau, perché forse ne ha bisogno. Si ricordi di guardare che ci sia abbastanza acqua nel doppio fondo del tegame, quando riscalda la carne.
   Il signor McCauley non ebbe problemi a scoprire che il biglietto acquistato da Johanna aveva come destinazione Gdynia, nel Saskatchewan. Gli bastò telefonare e chiedere all'impiegato. Non riusciva a trovare il modo di descrivere Johanna - era d'aspetto vecchio o giovanile? Magra o piuttosto massiccia? Di che colore aveva il cappotto? - ma non fu necessario, appena menzionò i mobili.
   Mentre tutto questo accadeva, in stazione c'erano un paio di persone in attesa del treno della sera.
L'impiegato cercò di non alzare la voce, in un primo tempo, ma quando sentì del mobilio rubato (il signor McCauley in effetti disse soltanto «e credo che si sia presa anche dei mobili»), si accalorò. Cominciò a giurare che se avesse saputo chi era e cosa aveva in mente di fare, non le avrebbe mai permesso di mettere piede su un treno. L'affermazione fu udita e riferita e creduta, senza che nessuno si domandasse come avrebbe fatto a fermare una donna adulta che aveva pagato regolarmente il biglietto, a meno di disporre di prove sicure che era una ladra. Le persone che riferirono le sue parole erano per lo più convinte che potesse impedirle di partire e che l'avrebbe fatto: credevano nell'autorità degli impiegati delle ferrovie nonché di anziani impettiti signori in rispettabili abiti a tre pezzi, come il signor McCauley.
   Lo stracotto di manzo era eccellente, come tutto quello che cucinava Johanna, ma il signor McCauley scoprì di non riuscire a buttarlo giù. Ignorò le istruzioni riguardo al coperchio e lasciò il tegame scoperto sul fornello senza nemmeno spegnere il fuoco fin quando l'acqua nel doppio fondo non si consumò del tutto e ad avvisarlo non fu l'odore del metallo che bruciava.
   Odore di tradimento.
   Si disse che se non altro c'era da ringraziare di non doversi preoccupare per Sabitha, dal momento che qualcuno si stava prendendo cura di lei. Sua nipote - una cugina della moglie in effetti, Roxanne - gli aveva scritto dicendogli che, per come aveva visto Sabitha nel corso della sua visita estiva al lago Simcoe, la ragazza avrebbe avuto bisogno di qualcuno che le stesse appresso.
   «Francamente non credo che né tu né la donna che hai assunto possiate essere all'altezza del compito, quando i ragazzi cominceranno a ronzarle intorno».
   Non era stata così esplicita da chiedergli se intendeva ritrovarsi fra le mani un'altra Marcelle, ma il senso delle sue parole era chiaro. Aggiunse che avrebbe sistemato Sabitha in una buona scuola dove per lo meno le avrebbero insegnato un po' di buone maniere.
   Accese il televisore per distrarsi, ma non servì a niente.
   Era la faccenda dei mobili a irritarlo. Era Ken Boudreau.
Il fatto è che tre giorni prima - esattamente quando Johanna aveva acquistato il biglietto, secondo quanto gli aveva detto l'impiegato - il signor McCauley aveva ricevuto una lettera da Ken Boudreau nella quale questi gli chiedeva a) di anticipargli parte del valore dei mobili attualmente immagazzinati nel granaio del signor McCauley, di proprietà sua (di Ken Boudreau) e della sua deceduta consorte, Marcelle, oppure b) in caso non lo ritenesse possibile, di vendere i suddetti mobili cercando di ricavarne il massimo e di spedirgli al più presto il denaro nel Saskatchewan. Nessun accenno ai precedenti prestiti già devoluti da suocero a genero, tutti a fronte del valore dei medesimi arredi e pari a una somma superiore a quella che si sarebbe mai potuta ricavare dalla loro vendita. Possibile che Ken Boudreau avesse scordato tutto questo? O sperava soltanto - cosa assai più probabile - che a scordarsene fosse il suocero?
   A sentir lui, al momento era padrone di un albergo. Ma la lettera era piena di accuse contro il precedente proprietario dell'immobile che lo aveva imbrogliato riguardo a una serie di dettagli.
   «Se soltanto riesco a superare questo ostacolo, - diceva, - sono convinto di poter ancora cavarci di che vivere». Ma di quale ostacolo stava parlando? Il bisogno di liquidità immediata, evidentemente, ma non specificava se il problema dipendesse dall'ex proprietario, dalla banca, da un privato creditore, o da altro. Era la solita vecchia storia: un tono disperato e ossequioso misto a una certa arroganza, alla convinzione di chiedere in fondo solo il dovuto, un risarcimento dei torti subiti, della vergogna patita a causa di Marcelle.    Non senza timori, ma memore del fatto che dopo tutto Ken Boudreau era suo genero e aveva combattuto in guerra e aveva passato Dio solo sa quali e quanti guai durante il matrimonio, il signor McCauley si era deciso a scrivere una lettera nella quale affermava che non aveva idea di come ricavare il massimo da quei mobili e che gli sarebbe stato enormemente difficile scoprirlo, e che pertanto allegava un assegno da considerare come un mero prestito a titolo personale. Si augurava che come tale lo intendesse il genero, senza dimenticare l'ingente numero di altri prestiti analoghi del passato - con i quali, a suo giudizio, si era già più che superato il valore dei mobili. Accludeva un elenco di date e di cifre. Fatta eccezione per una somma di cinquanta dollari restituita ormai quasi due anni addietro (con esplicita promessa di regolari pagamenti a seguire), lui non aveva visto più nulla. Il genero doveva certamente rendersi conto del fatto che, in conseguenza di tutti quei prestiti a vuoto e a interesse zero, il capitale del signor McCauley si era andato riducendo, anche perché in altre circostanze avrebbe investito il denaro.
   Aveva anche pensato di aggiungere: «Non sono poi così cretino come credi», ma cambiò idea, perché quelle parole avrebbero tradito la sua irritazione e forse la sua debolezza.
   E ora, guarda qua. L'altro lo aveva scavalcato precettando Johanna nel complotto - con le donne ci sapeva fare da sempre - ed era riuscito a mettere le mani su assegno e mobili in un colpo solo. Le spese di spedizione le aveva pagate lei; lo sapeva dall'impiegato delle ferrovie. Quelle vistose suppellettili moderne in legno d'acero erano state sopravvalutate già in precedenza e non avrebbero fruttato loro granché, specie tenendo conto della somma richiesta dalle ferrovie per trasportarle. Se fossero stati più scaltri avrebbero semplicemente preso qualcosa in casa, magari uno stipetto antico, o un canapè di quelli troppo scomodi da usare, ma costruiti e acquistati nel secolo scorso. Certo, a quel punto si sarebbe trattato di furto bello e buono, ma quello che avevano fatto non era poi tanto diverso.
   Si coricò con la ferma determinazione di denunciarli.
   Si svegliò in casa da solo, senza odore di caffè e di colazione che salisse dalla cucina; aleggiava anzi ancora un vago sentore di tegame bruciato. Un'aria fredda d'autunno si era insinuata nelle desolate stanze dai soffitti alti. Era stata tiepida, la sera prima, e quelle precedenti - la caldaia non era stata accesa e, quando il signor McCauley si decise ad accenderla, il calore arrivò accompagnato da una ventata di umidità da cantina, un lezzo di muffa e terra e marciume. Si lavò e vesti lentamente, con pause distratte, e per colazione si spalmò della crema di arachidi su una fetta di pane. Apparteneva a una generazione nella quale figuravano uomini di cui si diceva che non avrebbero saputo far bollire una pentola d'acqua, e lui rientrava nel novero. Guardò fuori dalla finestra e vide gli alberi sul lato opposto della pista inghiottiti dalla nebbia del mattino che pareva intenzionata ad avanzare anziché recedere come avrebbe dovuto, data l'ora. Ebbe l'impressione di scorgere nella bruma i vecchi edifici della Fiera Agricola: modeste, spaziose costruzioni simili a immensi granai. Erano rimaste per anni inutilizzate - per tutto il periodo della guerra - e non ricordava che fine avessero poi fatto. Erano state abbattute, o erano crollate da sole? Detestava le gare che si svolgevano ora sul terreno, con la folla, gli altoparlanti e il consumo illecito di alcolici e il chiasso scandaloso delle domeniche estive. Quando ci pensava gli tornava in mente la sua povera bambina Marcelle, seduta sui gradini della veranda a salutare i compagni di scuola ormai adulti che scendevano dalle auto parcheggiate e si affrettavano per vedere le corse. Com'era emozionata, quanto era contenta di essere tornata in paese, e abbracciava persone, tratteneva amici, chiacchierava a raffica, ricordando i giorni dell'infanzia e quanto le fossero mancati tutti quanti. Diceva che l'unico neo di tanta perfezione della vita era la nostalgia per suo marito, Ken, rimasto all'ovest per ragioni di lavoro.
   Era uscita là fuori in pigiama di seta, con i capelli scarmigliati, biondi tinti. Braccia e gambe erano sottili, ma la faccia era gonfia, e quella che spacciava per abbronzatura pareva un colorito malaticcio che non poteva aver a che fare con il sole. Itterizia, forse.
   La bambina era rimasta in casa a guardare la televisione - cartoni animati della domenica per i quali era decisamente troppo cresciuta.
   Lui non capiva quale fosse il problema, non era nemmeno sicuro che ci fosse. Marcelle era partita per London per sottoporsi a un intervento, roba da donne, ed era morta in ospedale. Quando aveva chiamato il marito per avvisarlo, Ken Boudreau aveva chiesto: «Che cosa aveva preso?»
   Se la madre di Marcelle fosse stata ancora viva, le cose sarebbero andate in modo diverso? La verità era che da viva, sua madre non era stata meno disarmata di lui. Era rimasta seduta a piangere in cucina mentre la figlia adolescente, chiusa a chiave in camera sua, si calava dalla finestra sul tetto della veranda, attesa da macchinate intere di ragazzi.
   La casa era impregnata di una implacabile sensazione di abbandono, di inganno. Lui e sua moglie erano di sicuro stati genitori indulgenti, ridotti con le spalle al muro da Marcelle. Quando poi era scappata con un aviatore, avevano sperato che si sistemasse, finalmente. Si erano mostrati generosi con entrambi, come se si fosse trattato della più regolare delle coppie. Ma era andato tutto a rotoli. Anche con Johanna Parry era stato generoso, e guarda come gli si era rivoltata contro.
   Si avviò verso il paese ed entrò nell'albergo per fare colazione. La cameriera disse: - E’ mattiniero oggi.    E mentre gli stava ancora versando il caffè, lui incominciò a raccontarle della domestica che se n'era andata senza preavviso ma che in compenso si era portata via un carico di mobili di proprietà di sua figlia e che adesso in teoria sarebbero spettati al genero, ma fino a un certo punto, visto che erano stati acquistati con la dote della figlia. Le raccontò che la figlia aveva sposato un aviatore, un bell'uomo dall'aria onesta che ne combinava di tutti i colori appena svoltava l'angolo.
   - Mi scusi, - disse la cameriera, - mi piacerebbe tanto chiacchierare, ma ho dei clienti che aspettano la colazione. Mi scusi...
   Salì in ufficio e lì, aperte sulla scrivania, trovò le vecchie mappe che aveva studiato il giorno precedente nel tentativo di localizzare il primissimo cimitero della contea (abbandonato, secondo lui, nel 1839). Accese la luce e si mise a sedere, ma scoprì di non riuscire a concentrarsi. Dopo il rimprovero della cameriera - o quello che a lui era comunque sembrato un rimprovero - non era più stato in grado di mangiare né di godersi il caffè.
Decise di uscire a fare una passeggiata per calmarsi.
   Ma anziché avviarsi nella solita direzione e salutare la gente scambiando due parole con tutti, sentì un bisogno impellente di sfogarsi. Bastava che chiunque gli chiedesse «Come va stamattina?» perché, in modo assolutamente non abituale, quasi impudente, lui desse la stura a tutti i suoi lamenti, ma, come la cameriera, la gente aveva da fare, perciò tutti annuivano frettolosi e inventavano scuse per allontanarsi. Il tempo non pareva deciso a intiepidirsi come succede in genere nelle mattine di nebbia in autunno; la sua giacca non teneva abbastanza caldo, perciò cercò conforto nei negozi.
I più sconcertati erano i conoscenti di più lunga data. Era sempre stato un tipo a dir poco reticente - un gentiluomo dalle maniere fini, una mentalità d'altri tempi, nella cui cortesia si celava un vago imbarazzo per i propri privilegi (il che conteneva una certa dose di ironia, visto che tali privilegi erano più frutto della sua visione della vita che di un riconoscimento altrui). Era l'ultima persona da cui aspettarsi il racconto dei torti subiti e la richiesta di consolazione - non l'aveva fatto alla morte della moglie, e nemmeno a quella della figlia - e invece eccolo qui a mostrare a tutti una lettera, e a domandare se non era vergognoso che quell'individuo avesse continuato a chiedergli soldi, e che perfino dopo che lui ancora una volta aveva avuto compassione, si fosse messo d'accordo con la domestica per rubargli i mobili. Alcuni pensarono che stesse parlando dei mobili di casa sua - si convinsero che il vecchio fosse rimasto senza un letto o una sedia. E gli consigliarono di rivolgersi alla polizia.
- Non serve a niente, non serve a niente, - diceva lui. – E’ come cercare di cavare sangue da una rapa.    Entrò nella bottega del ciabattino e salutò Herman Shultz.
- Ti ricordi quegli stivali che mi hai risuolato, quelli che avevo preso in Inghilterra. Me li hai risuolati quattro o cinque anni fa.
La bottega assomigliava a un antro, con varie lampadine schermate a illuminare i diversi deschi da lavoro. L'aerazione del locale era tremenda, ma gli odori intensi che vi aleggiavano - di colla e cuoio e lucido per scarpe e suole in feltro nuove e vecchie e marce - non erano sgraditi al signor McCauley. Qui il suo vicino Herman Shultz, un manovale esperto e occhialuto dal colorito giallognolo e le spalle curve, era occupato in tutte le stagioni - a imbroccare e ribattere chiodi, o a tagliare il cuoio nella forma desiderata con un trincetto ricurvo. Il feltro veniva lavorato con uno strumento che sembrava una sega circolare in miniatura. I paracolpi rendevano i suoni più attutiti e la ruota di carta vetrata raspava e la pietra a smeriglio in punta all'utensile emetteva un ronzio acuto come di insetto meccanico e la macchina per gli occhielli punzonava il cuoio con alacre ritmo industriale. Quei suoni e quegli odori di attività precise erano noti al signor McCauley ormai da anni, ma non li aveva mai riconosciuti, non ci aveva mai pensato. Ora Herman, con il suo grembiule di cuoio
annerito e uno stivale in mano, si drizzò, sorrise e annuì, e il signor McCauley rivide l'intera vita di quell'uomo nel suo antro. Avrebbe voluto esprimere simpatia o ammirazione o perfino qualcos'altro che nemmeno lui capiva.
- Sì, certo, - disse Herman. - Erano buoni stivali.
- Buoni stivali. Sai che li avevo presi in viaggio di nozze? In Inghilterra. In questo momento non ricordo dove, ma non a Londra.
- Sì, me l'aveva detto.
- Hai fatto un buon lavoro. Vanno ancora bene. Un gran bel lavoro, Herman. Sei uno che lavora bene, tu. Lavori onestamente.
- Meno male, - Herman diede un'occhiata rapida allo stivale che teneva in mano. Il signor McCauley sapeva che l'altro avrebbe voluto tornare al lavoro, ma non riusciva a lasciarlo andare.    - Mi è appena successa una cosa che mi ha aperto gli occhi. Un colpo.
- Sul serio?
   Il vecchio estrasse la lettera e prese a leggerne alcuni passi, interrompendosi ogni tanto con risatine amare.    - Bronchite. Dice che è malato, ha la bronchite. Non sa come fare. Non so a chi rivolgermi. Be', in realtà sa sempre benissimo a chi rivolgersi. Anche tutte le altre volte, è da me che è sempre venuto. Mi bastano poche centinaia di dollari per tirare avanti finché non mi sarò rimesso. Sempre a chiedere e bussare alla mia porta, e intanto complotta alle mie spalle con la domestica. Te l'ho già detto? Quella mi ha rubato un mucchio di mobili ed è scappata all'ovest. Erano d'accordo. Un uomo che ho tirato fuori dai guai chissà quante volte. Senza mai rivedere un soldo indietro. Anzi, no, devo essere onesto, cinquanta dollari me li ha resi. Cinquanta su centinaia e centinaia. Migliaia. Era in aviazione durante la guerra. Ce n'erano tanti di questi ometti piuttosto bassi di statura in aviazione. Si davano un mucchio di arie pensando di essere degli eroi di guerra. Lo so, forse non si dovrebbe parlare così, ma secondo me la guerra ne ha rovinati parecchi: non sono più riusciti ad abituarsi alla vita normale. Ma la cosa non basta a giustificarli. Dico bene? Non posso mica continuare a scusarlo solo per via della guerra.
- No, infatti.
- Ho capito che non era un tipo raccomandabile la prima volta che l'ho visto. E’ questo l'assurdo. L'ho capito eppure ho lasciato che mi imbrogliasse lo stesso. C'è gente così. Che ti fa pena per quanto è canaglia. Gli ho trovato l'impiego alle assicurazioni grazie alle mie conoscenze. E lui ha combinato solo pasticci ovviamente. Un truffatore. Certa gente ci nasce.
- Ha ragione.
   La signora Shultz non era in bottega quel giorno. Di solito era lei quella che stava al banco, a ritirare le scarpe per mostrarle al marito e poi riferire il parere di lui, preparare la ricevuta e prendere i soldi alla riconsegna delle calzature riparate. Il signor McCauley ricordò che aveva subito un intervento chirurgico durante l'estate.
- Non vedo tua moglie oggi. Sta bene?
- Ha preferito riposarsi un po'. C'è qui mia figlia.
   Herman Shultz indicò con un gesto del capo gli scaffali a destra del bancone, dove erano allineate le scarpe finite. Il signor McCauley si voltò e vide Edith, la figlia, che non aveva notato entrando. Una ragazza sottile come una bambina, che continuò a dargli le spalle mentre riordinava le scarpe sugli scaffali. Proprio come quando veniva a casa come amica di Sabitha; pareva andare e venire inosservata. Mai che si riuscisse a vederla bene in faccia.
- Dai una mano a tuo padre adesso? - chiese il signor McCauley. - Hai finito la scuola?
- E’ sabato, - disse Edith, girandosi solo a metà e accennando un vago sorriso.
- E’ vero. Be', è una bella cosa aiutare il proprio padre, comunque. Devi occuparti dei tuoi. Hanno lavorato tanto e sono brave persone -. Poi, con un'espressione un po' schiva, come rendendosi conto di poter risultare sentenzioso, il signor McCauley aggiunse: - Onora il padre e la madre, e possa il Signore concederti lunghi anni...
   Edith mormorò qualcosa senza farsi sentire da lui. Disse: - Nella bottega del ciabattino.
- Vi sto rubando tempo prezioso, ho approfittato anche troppo, - concluse sconsolato il signor McCauley. - Avete da fare.
- Non c'era bisogno di essere cinici, - disse il padre di Edith quando il vecchio fu uscito.
   La sera a cena raccontò alla madre di Edith tutta la storia del signor McCauley.
- Non sembra più lui, - disse. - Deve essergli successo qualcosa.
- Magari un leggero ictus, - fece lei. Da quando era stata operata - di calcoli biliari - parlava con toni esperti e placida soddisfazione dei mali altrui.
   Ora che Sabitha se n'era andata, inghiottita dal genere di esistenza che da sempre pareva la stesse aspettando, Edith era tornata quella di prima dell'arrivo dell'amica. «Vecchia per la sua età», diligente, critica.
Dopo tre settimane di liceo aveva capito che sarebbe andata benissimo in tutte le discipline nuove: Latino, Algebra, Letteratura inglese. Era convinta che la sua intelligenza sarebbe stata riconosciuta e apprezzata, aprendole la via a un futuro importante. Le sciocchezze dell'anno trascorso con Sabitha sbiadirono in fretta.
   Eppure, pensando alla fuga all'ovest di Johanna, un brivido l'attraversò come una minaccia invadente.
Cercò di metterci una pietra sopra, ma quella si rifiutava di far da coperchio al passato.
   Non appena ebbe finito di lavare i piatti, si ritirò in camera sua con il libro che doveva leggere per il corso di letteratura. David Copperfield.
   Da bambina era stata rimproverata poco dai suoi - genitori anziani per avere una figlia della sua età, il che si diceva spiegasse anche il suo carattere -, ma si sentiva in perfetta armonia con David Copperfield e con la sua condizione penosa. Le pareva di essere come lui, una che tanto valeva fosse stata orfana, visto che avrebbe probabilmente dovuto fuggire, darsi alla macchia, badare a se stessa, una volta venuta a galla la verità sul passato che le avrebbe impedito di realizzare il futuro.
   Tutto incominciò con Sabitha che, andando a scuola, le disse: - Dobbiamo passare all'Ufficio postale. Devo spedire una lettera a mio padre.
   Facevano insieme il tragitto di andata e ritorno tutti i giorni. A volte camminavano con gli occhi chiusi, oppure all'indietro. Altre volte, incontrando qualcuno, si allontanavano parlottando a bassa voce in una lingua inventata per confondere gli sconosciuti. Quasi tutte le trovate geniali erano di Edith. L'unica idea proposta da Sabitha fu quella di scrivere il loro nome accanto a quello di un ragazzo, poi di eliminare tutte le lettere comuni e di contare le restanti. Dopodiché si faceva la conta sulle dita con le lettere avanzate, dicendo, Nemico, amico, spasimante, amante, sposo, finché non si arrivava al verdetto riguardo alla possibile relazione fra loro e il ragazzo in questione.
- Che lettera spessa, - disse Edith. Notava ogni dettaglio e ricordava tutto, imparando a memoria intere pagine di libri di testo in un modo che gli altri bambini trovavano sinistro. - Avevi un mucchio di cose da dire a tuo padre, - disse, sbigottita, perché non le pareva possibile, o per lo meno non le pareva possibile che Sabitha le avesse messe nero su bianco.
- No, io ho scritto solo una pagina, - ribatté Sabitha soppesando la busta.
- A-ha, - disse Edith. - Ah. Ha.
- A-ha cosa?
- Scommetto che è stata lei a metterci dentro altri fogli. Johanna.
   L'esito di tutto ciò fu che non portarono la lettera direttamente all'Ufficio postale, ma se la tennero e, dopo la scuola, l'aprirono da Edith con il vapore. A casa sua si potevano fare cose del genere perché sua madre lavorava tutto il giorno in bottega.    Caro signor Ken Boudreau, ho pensato di scriverle due righe per ringraziarla delle cose gentili che ha detto di me nella lettera a sua figlia.
Non deve avere paura che io me ne vada. Dice che le sembro una persona di cui ci si può fidare. O almeno così mi pare di aver capito, e per quanto ne so, è vero. Le sono grata per averlo detto, perché certa gente giudica le persone di cui non si conosce il passato, Inaccettabili. così ho deciso che volevo raccontarle un po' la mia vita. Sono nata a Glasgow, ma mia madre ha dovuto disfarsi di me quando si è sposata. Sono entrata in Istituto a cinque anni. Io speravo sempre che lei tornasse, ma non è successo e io mi sono abituata a vivere lì dove non erano poi così Cattivi. A undici anni mi hanno portata in Canada con un Progetto e sono andata a vivere dai Dixon, lavorando nel loro Vivaio. La scuola faceva parte del Progetto, ma ne ho vista ben poca. In inverno lavoravo in casa per la Signora, ma le circostanze mi hanno convinta che era meglio andar via ed essendo una ragazza forte e robusta per la mia età, sono stata assunta in una Casa di Riposo per badare ai vecchi. Il lavoro non mi dispiaceva, ma per guadagnare qualcosa di più mi sono trovata un posto in una Fabbrica di Scope. Il signor Willets, il proprietario, aveva una vecchia madre che ogni tanto veniva a vedere come andavano le cose e per qualche motivo io e lei ci siamo piaciute. L'aria in fabbrica mi dava problemi di respirazione, così quando la signora Willets mi ha chiesto se volevo andare a lavorare per lei ho accettato. Ho vissuto con lei 12 anni su un lago che si chiama Mourning Dove Lake, su al nord. C'eravamo soltanto noi due, ma io potevo occuparmi di tutto, in casa e fuori, perfino di guidare la barca e la macchina. Ho imparato a leggere bene, perché lei stava perdendo la vista e le piaceva che leggessi ad alta voce. E’ morta a 96 anni. Magari lei sta pensando, Che vita per una ragazza giovane, ma io ero felice. Mangiavamo insieme mattina e sera, e nell'ultimo anno e mezzo ho sempre dormito in camera sua. Quando è morta, però, la famiglia mi ha dato una settimana di tempo per fare i bagagli. Mi aveva lasciato un po' di soldi e credo che questo li infastidisse. Voleva che li usassi per farmi un'Istruzione, ma avrei dovuto rimettermi in classe con dei ragazzini. E così, quando ho visto l'annuncio del signor McCauley sul Globe and Mail, mi sono presentata. Mi serviva un lavoro per superare la nostalgia della signora Willets. Ora credo di averla annoiata abbastanza con la mia Storia, e sarà contento che siamo arrivati a Oggi. Grazie per la buona opinione che ha di me, e per avermi portata alla Fiera. Non sono il tipo da giostre e da mangiar porcherie in giro, ma mi ha fatto comunque piacere essere invitata.
La sua amica, Johanna Parry
   Edith lesse la lettera di Johanna con tono di voce implorante e un'espressione sconsolata.    - «Sono nata a Glasgow, ma mia madre ha dovuto disfarsi di me appena mi ha vista... »    - Smettila, - disse Sabitha. - Tra poco vomito, a furia di ridere.
- Come ha fatto ad aggiungere la sua lettera senza che te ne accorgessi?
- E’ sempre lei che prepara la busta e ci scrive l'indirizzo perché dice che la mia scrittura non è abbastanza chiara.
   Edith dovette risigillare la busta con il nastro adesivo, perché non c'era più colla a sufficienza. - E’ innamorata di lui, - disse.
- Ba', che schifo, - fece Sabitha, tenendosi lo stomaco.
- Com'è possibile? La vecchia Johanna.
- Lui che cosa aveva detto di lei, comunque?
- Niente, solo che dovevo portarle rispetto e che sarebbe stato un peccato se se ne fosse andata e che eravamo fortunati ad averla trovata, perché lui non aveva una casa per me, e il nonno non poteva crescere una bambina da solo e bla- bla. Ha detto che era una signora. E che lui le sapeva distinguere.
- Ecco perché lei si è innamorata.
   Edith tenne la lettera per quella notte, per evitare che Johanna potesse scoprire che non era stata spedita e che era chiusa col nastro adesivo. La portarono all'Ufficio postale il mattino dopo.    - E adesso staremo a vedere che cosa le risponde. Attenzione, - disse Edith.
   Non ci fu nessuna risposta per un bel pezzo. E quando infine arrivò, fu una delusione. Aprirono la busta con il vapore in casa di Edith, ma dentro non trovarono niente per Johanna.    Cara Sabitha,    quest'anno mi trovo un po' a corto di denaro per Natale. Scusa, ma posso mandarti soltanto un paio di dollari. Spero comunque che tu stia bene, che passi un Natale felice e che stia facendo progressi a scuola. Quanto a me, ultimamente non sono stato in gran forma. Mi sono preso la bronchite, come a quanto pare mi capita ogni inverno, anche se questa è la prima volta che mi ritrovo a letto ancor prima di Natale. Come vedi dall'indirizzo, mi sono trasferito. L'appartamento era in una zona rumorosissima e c'era troppo viavai di persone che passavano a trovarmi sperando di mangiare e bere gratis. Ora sto in una pensione, e mi trovo benissimo anche perché fare la spesa e cucinare non è mai stato il mio forte. Buon Natale.
   Con affetto, Papà
- Poveva Johanna, - commentò Edith. - Le si spezzevà il cuove.
   E Sabitha: - Pazienza.
- A meno che non ci pensiamo noi, - disse Edith.    - Cosa?
- A meno che non le rispondiamo.
   Occorreva battere a macchina la lettera, altrimenti Johanna si sarebbe accorta che non era scritta con la grafia del padre di Sabitha, ma battere a macchina non fu un problema. In soggiorno, a casa di Edith c'era una macchina per scrivere su un tavolo da gioco. Prima di sposarsi, la madre aveva lavorato in un ufficio e qualche volta si guadagnava ancora qualcosa copiando lettere che la gente voleva avessero un aspetto formale. Aveva insegnato a Edith le basi della dattilografia, nella speranza che un giorno o l'altro la figlia potesse trovare impiego in un ufficio.
- Cara Johanna, - prese a dire Sabitha, - mi spiace ma non mi posso innamorare di te perché hai la faccia tutta piena di brutte macchie...
- Io faccio sul serio, - disse Edith. - Perciò chiudi la bocca.
   Si mise a scrivere: - Mi ha fatto tanto piacere ricevere la sua lettera... - Sillabava a voce alta le parole del testo, si interrompeva per riflettere mentre la sua voce si faceva sempre più solenne e intenerita. Sabitha si rovesciò a ridere sul divano. A un certo punto accese il televisore, ma Edith disse: - Ti prego. Secondo te come faccio a concentrarmi sui miei sentimenti con tutte quelle stronzate nelle orecchie?
   Edith e Sabitha facevano uso delle parole «stronzate» e «puttana» e «Cristo» quando erano sole.
   Cara Johanna,    mi ha fatto tanto piacere ricevere la sua lettera insieme a quella di Sabitha e scoprire qualcosa di più sul suo conto. Deve aver sofferto molto ed essere stata parecchio sola nella vita, anche se la signora Willets mi sembra sia stata un incontro prezioso. Lei comunque si è sempre data da fare senza lamentarsi e devo dire che l'ammiro moltissimo. Quanto a me, ne ho viste di tutti i colori e non sono mai riuscito a trovare pace. Non so da dove mi venga questa inquietudine interiore, ma sembra far parte del mio destino. Non faccio che incontrare persone e parlare con tutti, ma certe volte mi chiedo, Chi è davvero mio amico? E poi, tutto a un tratto, arriva la sua lettera e lei si firma, La sua amica. E io mi domando, Ma dirà sul serio? E che bel regalo di Natale sarebbe per me se Johanna mi dicesse che è davvero mia amica. Magari a lei era parso soltanto un modo gentile di chiudere una lettera e non mi conosce neppure abbastanza. In ogni caso, Buon Natale.
   Il suo amico, Ken Boudreau
La lettera arrivò a casa, a Johanna. Anche quella di Sabitha alla fine era stata copiata a macchina, perché come spiegare che una fosse scritta a macchina e l'altra a mano? Questa volta c'erano andate caute con il vapore e avevano aperto la busta con estrema cura, in modo da evitare di tradirsi con il nastro adesivo.    - Perché non battiamo anche la busta? Non farebbe così uno che abbia scritto a macchina le lettere? - disse Sabitha pensando di essere astuta.
- Perché su una busta nuova non ci sarebbe il francobollo, babbea.
- E se lei gli risponde?
- Noi la leggiamo.
- Brava, e se risponde a lui direttamente?
   Edith non aveva voglia di ammettere che non ci aveva pensato.
- Figurati. E’ furba quella. Tu, comunque, rispondigli subito così lei avrà idea di poter infilare la sua lettera insieme alla tua.
- Detesto scrivere queste lettere cretine.
- E dài. Mica ti ammazzi di fatica. Non sei curiosa di vedere cosa gli dice?
   Caro Amico,
   mi chiede se la conosco abbastanza da poter essere sua amica e io le rispondo che credo di sì. In vita mia ho avuto una sola Amica, la signora Willets, le ho voluto bene e lei è stata buona con me, ma adesso è morta. Era molto più vecchia di me e il guaio con gli amici più vecchi è che muoiono e ti lasciano sola. Era così vecchia che certe volte mi chiamava con un altro nome. A me non dava fastidio però.
Voglio dirle una cosa strana. Quella foto che ha fatto scattare al fotografo alla Fiera, quella con lei e Sabitha, la sua amica Edith e me, l'ho fatta ingrandire e incorniciare poi l'ho appesa in salotto. Non è una meraviglia di foto, e l'ha di sicuro pagata un'esagerazione per quello che vale, ma è meglio di niente. E l'altro giorno mentre spolveravo mi sono immaginata di sentire la sua voce che mi salutava. Ciao, mi diceva, e io ho fissato la sua faccia quanto potevo, trattandosi di una fotografia e mi sono detta, Be', forse stai diventando matta. O forse questo è segno che sta per arrivare una lettera. Scherzavo ovviamente, io non credo a cose del genere. Ma ieri una lettera è arrivata. Perciò come vede non è affatto troppo chiedermi di esserle amica. Un modo per tenermi occupata lo so trovare da sempre, ma un vero Amico è una cosa diversa.
   La sua Amica, Johanna Parry
   Naturalmente, non si potè rimettere il foglio nella busta. Il padre di Sabitha avrebbe colto qualcosa di strano nei rimandi a un testo che lui non aveva mai scritto. Le parole di Johanna dovettero essere ridotte in coriandoli e poi buttate nel gabinetto a casa di Edith.
   Quando giunse la lettera che parlava dell'albergo erano passati mesi e mesi. Era estate. E fu un puro caso che Sabitha riuscisse a intercettare la busta, dal momento che era stata via per tre settimane, in villeggiatura sul lago Simcoe a casa della zia Roxanne e dello zio Clark.
   Quasi la prima cosa che Sabitha disse, entrando in casa di Edith, fu: - Puah-puah. Che puzza qui dentro.
   «Puah-puah» era un'espressione che aveva appreso dalle cugine.
   Edith annusò l'aria. - Io non sento nessuna puzza.
- E’ la stessa che c'è da tuo padre in bottega, solo meno forte. Probabilmente la portano in casa loro, impregnata dentro i vestiti.
   Edith procedette all'apertura della busta con il vapore. Sulla via del ritorno dall'Ufficio postale, Sabitha aveva comprato due grossi bignè alla cioccolata. Adesso stava sdraiata sul divano a mangiare il suo.    - Una sola lettera. Per te, - disse Edith. - Povera vecchia Johanna. C'è da dire però che lui non ha mai ricevuto la sua.
- Leggimela tu, - disse Sabitha annoiata. - Ho tutte le mani appiccicose di glassa.
   Edith lesse a velocità notarile, senza quasi fermarsi tra un paragrafo e l'altro.
   Dunque, Sabitha, la mia sorte ha preso una piega diversa, come vedi non sono più a Brandon, ma in un paese che si chiama Gdynia. E non lavoro più per la stessa compagnia. Ho passato un inverno tremendo a causa dei miei problemi respiratori e quelli, vale a dire i miei datori di lavoro, hanno pensato bene di mettermi sulla strada anche se rischiavo di prendermi una polmonite; ne è nato un discreto litigio e alla fine abbiamo deciso di salutarci. La fortuna però è una cosa strana, e più o meno nello stesso periodo sono entrato in possesso di un albergo. Sarebbe troppo complicato spiegare l'intera vicenda, ma se tuo nonno vuole saperne di più, digli che un tale che mi doveva dei soldi e non poteva pagarmi mi ha ceduto in cambio l'hotel. Perciò sono passato da una stanza in affitto a un edificio con dodici camere, e dal non possedere nemmeno il letto in cui dormivo, all'averne d'avanzo.
E’ fantastico svegliarsi al mattino e sapere che sei tu il padrone di te stesso. Ci sono dei lavori da fare, parecchi, anzi, e intendo occuparmene appena il clima si farà più mite. Dovrò assumere qualcuno che mi aiuti e in seguito prenderò anche un cuoco per il ristorante e il bar. Dovrebbe funzionare alla grande perché qui in paese non esiste niente del genere. Spero che tu sia in salute, che studi e che ti comporti bene.
   Con affetto, Papà
   Sabitha disse: - Hai del caffè?
- Solubile, - rispose Edith. - Perché?
   Sabitha disse che al cottage non si faceva che bere caffè freddo e che tutti ne andavano pazzi. Ne andava pazza anche lei. Si alzò e si mise ad armeggiare in cucina facendo bollire l'acqua e mescolando latte e caffè con cubetti di ghiaccio.
- Quel che ci vorrebbe in realtà è del gelato alla vaniglia, - disse. - Mioddio, non sai quanto è buono. Non lo mangi il bignè?
   Mioddio.
- Sì, certo, - rispose Edith, scortese.
   Com'era cambiata Sabitha in sole tre settimane; per tutto quel tempo Edith aveva lavorato in bottega mentre sua madre si riprendeva dall'operazione. Sabitha aveva la pelle di un appetitoso color biscotto, si era fatta i capelli più corti e li portava vaporosi intorno al viso. Glieli avevano tagliati le sue cugine che poi le avevano fatto la permanente. Indossava una specie di tuta con i calzoncini trasformati in gonna abbottonata davanti e con i fiocchi sulle spalle di un bell'azzurro che le donava. Si era fatta più in carne e, chinandosi per raccogliere il bicchiere di caffè freddo che stava a terra, mostrò un lieve incavo morbido e liscio.    Aveva il seno. Doveva aver cominciato a crescerle prima che partisse, ma Edith non se n'era accorta. O magari succedeva che una mattina uno si svegliava e aveva il seno. O non ce l'aveva.
   Ma comunque si presentasse, pareva sottolineare un vantaggio del tutto ingiusto e immeritato.
   Sabitha non faceva che parlare delle sue cugine e delle giornate al cottage. Diceva: - Ascolta, questa te la devo proprio raccontare, è da urlo... - e partiva a spiegare quello che la zia Roxanne diceva a zio Clark quando litigavano, e di quella volta che Mary Jo aveva guidato l'auto di Stan (chi era poi questo Stan?) senza patente e con la capote abbassata e le aveva portate tutte al drive-in e quale fosse la parte da urlo della vicenda restava un punto piuttosto oscuro.
   Dopo un po' tuttavia alcune cose divennero chiare. Quali fossero state le vere avventure di quell'estate. Le ragazze più grandi - Sabitha compresa - dormivano al piano di sopra di una rimessa per barche. Ogni tanto si facevano vere e proprie battaglie di solletico: tutte alleate contro una sola, che tormentavano finché la poverina non implorava pietà e accettava di calarsi i pantaloni del pigiama per mostrare se aveva i peli. Si raccontavano storie di certe cose che alcune ragazze in collegio facevano con i manici delle spazzole e degli spazzolini da denti. Puah. Puah. Una volta due sue cugine avevano dato spettacolo: una si era messa sull'altra fingendo di essere un maschio e poi si erano avvinghiate con le gambe gemendo e ansimando e facendo anche i gesti.
La sorella dello zio Clark era venuta in visita con il marito per la luna di miele e avevano visto lui infilarle una mano nel costume da bagno.
- Si amavano proprio, non pensavano ad altro giorno e notte, - disse Sabitha. Si strinse al petto un cuscino. - Non si può farne a meno quando si è innamorati.
   Una delle cugine l'aveva già fatto con un ragazzo. Lui era un aiuto-giardiniere nel villaggio turistico sullo stradone. L'aveva caricata in barca e aveva minacciato di spingerla in acqua se non ci stava. Perciò lei non aveva colpa.
- Non sapeva nuotare? - chiese Edith.
   Sabitha si tirò il cuscino in mezzo alle cosce. - Uuh, - disse. - Che bello!
   Anche Edith sapeva tutto dei piaceri struggenti di cui parlava Sabitha, ma era sconvolta che qualcuno potesse renderli pubblici. Lei ad esempio ne aveva paura. Anni prima, quando nemmeno sapeva che cosa stava facendo, si era messa a letto con una coperta tra le gambe e sua madre l'aveva sorpresa e le aveva raccontato di una ragazza di sua conoscenza che faceva quelle cose tutto il tempo e alla fine aveva dovuto essere operata per risolvere il problema.
   «Prima le hanno buttato addosso dell'acqua fredda, ma non è servito, - aveva detto sua madre. - E così hanno dovuto tagliarla».
   Altrimenti le si sarebbero congestionati gli organi e avrebbe potuto morire.
- Piantala, - disse a Sabitha, ma quella intanto gemeva con aria di sfida, e ribatté: - Non è niente. Lo facevamo tutte. Non ce l'hai un cuscino?
   Edith si alzò per andare in cucina e riempì d'acqua il bicchiere del caffè freddo. Al suo ritorno Sabitha giaceva abbandonata sul divano, con il cuscino gettato a terra, e rideva.
- Cosa credevi che stessi facendo? - le chiese. - Non hai capito che era uno scherzo?
- Avevo sete, - disse Edith.
- Hai appena bevuto un bicchiere di caffè freddo.
- Avevo sete d'acqua.
- Non c'è divertimento con te -. Sabitha si rizzò a sedere: - Allora bevi, se hai tanta sete.
Calò tra loro un silenzio stizzito, finché Sabitha in tono deluso ma conciliante disse: - Non vogliamo scrivere un'altra lettera a Johanna? Dài, scriviamole una letterina d'amore.
   Edith aveva perso gran parte dell'interesse per quelle lettere, ma le fece piacere constatare che per Sabitha non era così. Recuperò un poco la sensazione di avere un ascendente sull'amica a dispetto di lago Simcoe e del suo seno nuovo di zecca. Con un finto sospiro di riluttanza, si alzò e sfilò la fodera dalla macchina per scrivere.
- Mia adorata Johanna, - prese a dire Sabitha.
- No. Troppo sdolcinato.
- A lei piacerà.
- Non è vero, - ribatté Edith.
   Si chiese se non fosse il caso di informare Sabitha riguardo al rischio di congestione degli organi. Decise di no. Prima di tutto l'informazione rientrava nel novero delle raccomandazioni ricevute dalla madre e di cui non aveva mai capito fino in fondo se fosse giusto fidarsi o meno. Non arrivava per ora ai livelli di inattendibilità di quell'altro avvertimento, quello di non portare le galosce in casa perché faceva male alla vista, ma chi poteva dirlo - un giorno magari sarebbe successo.
   Senza contare un'altra cosa: Sabitha si sarebbe messa a ridere. I consigli la facevano sempre ridere:
compreso quello che i bignè facevano ingrassare.
- La tua ultima lettera mi ha fatto tanto piacere...
- La tua ultima lettera mi ha mandato in estasi... - disse Sabitha.
- ... ho scoperto di avere al mondo un'amica sincera, e quell'amica sei tu...
- Non ho chiuso occhio per tutta la notte dalla voglia di stringerti fra le braccia... - Sabitha si cinse con le braccia e prese a dondolarsi avanti e indietro.
- No. Mi sono spesso sentito molto solo e, benché non mi ritenga un misantropo, non avevo nessuno a cui rivolgermi...
- Che cosa vuol dire «misantropo»? Lei di sicuro non sa cosa vuol dire.
- Lei lo sa, invece.
Il che zittì Sabitha, e forse ferì il suo orgoglio. Perciò alla fine Edith lesse ad alta voce: - Devo proprio salutarti e non posso fare altro che immaginarti mentre leggi queste parole e arrossisci... così ti suona meglio?    - Sdraiata a letto in camicia da notte, - proseguì Sabitha, che si faceva recuperare in fretta, - a pensare a come ti stringerei fra le braccia e ti succhierei le tette...
   Mia cara Johanna,
   la tua ultima lettera mi ha fatto tanto piacere; ho scoperto di avere al mondo un'amica sincera, e quell'amica sei tu. Mi sono spesso sentito molto solo e, benché non mi ritenga un misantropo, non avevo nessuno a cui rivolgermi.
   Dunque, ho scritto a Sabitha nella mia ultima lettera della fortuna che mi è toccata e del fatto che sto per dedicarmi al settore alberghiero. Non le ho detto esattamente quanto sia stato ammalato l'inverno scorso perché non volevo metterla in ansia. Non voglio preoccupare nemmeno te, Johanna cara, ma solo farti sapere che ti ho pensata tanto e che vorrei con tutto il cuore rivedere il tuo dolce viso. Quando avevo la febbre, mi è capitato di credere di vederti davvero china su di me, di udire la tua voce ripetermi che presto sarei guarito, e di sentire le cure delle tue mani gentili. Al tempo, stavo in pensione e, passata la febbre, non sono mancate le battute scherzose tipo, Ma si può sapere chi è questa Johanna? Io però ero inconsolabile avendo scoperto che tu non c'eri. Mi sono chiesto seriamente se era possibile che tu fossi venuta in volo fino a me, pur sapendo che cose del genere non succedono. Ti prego, credimi se ti dico che la più affascinante stella del cinema non mi avrebbe fatto altrettanto felice. Non so se è il caso che ti riferisca anche le altre cose che mi dicevi, perché erano intime e dolcissime, ma potrebbero metterti in imbarazzo. Non ho voglia di chiudere questa lettera perché ora mi sembra di averti tra le braccia e di poterti parlare a bassa voce nel buio della nostra stanza, ma devo proprio salutarti e non posso fare altro che immaginarti mentre leggi queste parole e arrossisci. Sarebbe stupendo se lo facessi sdraiata a letto in camicia da notte, con il pensiero di me che vorrei tanto stringerti forte.
   Tuo, Ken Boudreau
   Strano a dirsi, a questa lettera non seguì alcuna risposta. Dopo che Sabitha ebbe scritto la sua mezza pagina, Johanna infilò il foglio nella busta e si limitò a compilare l'indirizzo.
   Quando Johanna scese dal treno, non c'era nessuno ad accoglierla. Non si lasciò turbare - dopo tutto, si era detta, la sua lettera poteva non essere ancora arrivata. (In realtà era arrivata e giaceva ancora all'Ufficio postale, perché Ken Boudreau, che l'inverno prima non era poi stato tanto male, ora aveva sul serio una brutta bronchite e da parecchi giorni non passava a ritirare la posta. Proprio quel giorno, alla lettera si era aggiunta una seconda busta che conteneva l'assegno del signor McCauley. Il quale però aveva già provveduto a bloccarlo).
   A preoccuparla di più semmai era il fatto che non sembrava esserci nessun paese. La stazione era una semplice tettoia chiusa, con qualche panca lungo le pareti e una saracinesca di legno abbassata sullo sportello della biglietteria. C'era poi un deposito merci, le cui porte scorrevoli erano bloccate. Johanna sbirciò dall'esterno attraverso le assi finché i suoi occhi non si abituarono al buio e finalmente vide che era tutto vuoto e sporco per terra. Niente casse piene di mobili. Provò a dire «C'è nessuno? C'è nessuno?» diverse volte, ma non si aspettava risposta.
   Sola sulla pensilina, cercò di orientarsi.
   A meno di un chilometro da lì c'era un dosso, ben visibile grazie alla corona di alberi che vi cresceva in cima. E il viottolo color terra che, visto dal treno, le era sembrato un sentiero di campagna tra campi coltivati, quello doveva essere lo stradone. Incominciava a distinguere le sagome di edifici bassi qua e là tra gli alberi - e un serbatoio dell'acqua, che a quella distanza pareva un giocattolo, un soldatino di latta dalle gambe sproporzionate.
   Sollevò la valigia - non era quello il problema; dopo tutto se l'era già portata da Exhibition Road fino alla stazione - e si incamminò.
   Tirava vento. Ma la giornata era calda - più calda rispetto al clima che aveva lasciato in Ontario -, e perfino il vento pareva scottare. Sul vestito nuovo indossava il vecchio soprabito che avrebbe occupato troppo spazio in valigia. Non vedeva l'ora di raggiungere l'ombra in paese, ma quando ci arrivò scoprì che gli alberi erano abeti, troppo fitti e troppo sottili per fare ombra, oppure pioppi neri dalle foglie rade, spazzate dal vento e attraversate comunque dal sole. Il posto mostrava una scoraggiante assenza di strutture, di organizzazione degli spazi. Niente marciapiedi, né strade asfaltate, non un solo edificio imponente, fatta eccezione per una grossa chiesa che sembrava un granaio in muratura. Il dipinto sopra il portale rappresentava la Sacra Famiglia con facce color terracotta e fissi occhi celesti. La chiesa era dedicata a un santo mai sentito nominare, un certo St Voytech.
   Le abitazioni non rivelavano particolare attenzione né a livello di progetto né di manutenzione. Costruite ad angolature diverse rispetto alla strada, erano per lo più traforate a casaccio da finestre piccole, e dotate di una tettoia antineve incassata intorno alla porta come uno scatolone.
   Fuori non c'era nessuno; del resto, a che scopo, visto che non c'era niente da coltivare, giusto ciuffi d'erba marrone e, in un solo caso, una distesa di rabarbaro officinale ormai inselvatichito.
   Lo stradone, a volerlo chiamare così, disponeva di una passatoia in legno lungo un lato soltanto e ospitava alcuni edifici cadenti; di questi, soltanto una bottega di alimentari (con Ufficio postale annesso) e una rimessa per auto parevano abitati. C'era un'unica costruzione a due piani, e Johanna pensò che potesse trattarsi dell'hotel, ma era invece una banca, e chiusa, per giunta.
   Il primo essere umano che vide - anche se due cani avevano latrato al suo passaggio - fu un tale davanti al garage, indaffarato a caricare delle catene sul cassone di un camion.
- Albergo? - le disse. – E’ venuta troppo in qua.
Le spiegò che stava vicino alla stazione, che costeggiava per un tratto il lato opposto dei binari, che era intonacato di azzurro: non si poteva sbagliare.
   Johanna appoggiò la valigia, non per sconforto, ma perché aveva bisogno di un attimo di riposo.    L'uomo le disse che se aspettava un minuto poteva darle un passaggio. E sebbene per lei fosse una novità accettare simili offerte, di li a poco si ritrovò a viaggiare nella torrida cabina bisunta del camion che sferragliava sulla pista sterrata da lei appena percorsa, con le catene che facevano intanto un baccano d'inferno nel retro.
- Allora... da dove arriva, che ci ha portato questa ondata di caldo? - le chiese.
   Rispose Ontario con un tono che non prometteva niente di più.
- Ontario, - ribatté l'altro deluso. - Be', ci siamo. Ecco il suo hotel.
   Sollevò una mano dal volante. Il camion diede un sobbalzo accompagnando il gesto di lui che con il braccio indicava l'edificio piatto a due piani: Johanna in effetti l'aveva visto dal treno, all'arrivo in stazione. Solo che in quel momento l'aveva preso per una casa privata grande e decrepita, forse perfino deserta. Ora che aveva visto le case in paese, sapeva che non avrebbe dovuto liquidarlo con tanta fretta. Era coperto da fogli in lamiera battuta a disegni di finti mattoni, e dipinto di azzurro chiaro. Sulla porta, un'unica scritta HOTEL in tubi al neon, ma spenti.
- Che asina sono, - disse offrendo un dollaro all'uomo per il passaggio.
   Lui rise. - Si tenga i soldi. Potrebbe averne bisogno, chi lo sa.
   Una macchina dall'aspetto abbastanza decoroso, una Plymouth, era parcheggiata davanti all'hotel. Era sporchissima, ma non c'era da stupirsi, con quella strada.
Sulla porta erano appiccicate le pubblicità di una marca di sigarette e di una birra. Johanna aspettò che il camion svoltasse prima di bussare; e bussò perché non si aveva proprio l'impressione che il locale fosse in qualche modo aperto al pubblico. Poi provò la maniglia per vedere se la porta era aperta ed entrò in un piccolo vano polveroso a fondo scala, dal quale si accedeva a un ampio salone con un tavolo da biliardo e un fetore di birra e di pavimenti sporchi. Dallo scorcio di una stanza laterale intravide il luccichio di uno specchio, dei ripiani a muro vuoti e un bancone. In tutti i locali le tapparelle erano abbassate. La sola luce proveniva da due finestrini tondi che si rivelarono gli oblò di una doppia porta a va e vieni. Attraversandola, si ritrovò in cucina. Qui c'era un po' più di luce, grazie a una serie di finestre alte - e luride - allineate sulla parete opposta. E notò anche i primi segni di vita: qualcuno aveva mangiato lasciando sul tavolo il piatto sporco di ketchup secco e una tazza mezza piena di caffè ormai freddo.
   Delle varie porte che si aprivano sulla cucina, una dava sull'esterno, ed era chiusa; un'altra, su una dispensa con svariate provviste di cibo in scatola; una, su un armadio delle scope, e l'ultima su una scala interna. Johanna salì i gradini spingendo avanti la valigia perché lo spazio era scarso. Dritto di fronte a sé, al piano, vide un water con l'asse alzata.
   La porta della camera da letto in fondo al corridoio era aperta: lì trovò Ken Boudreau.
   Prima di lui, vide i suoi vestiti. La giacca appesa a un angolo della porta e i pantaloni alla maniglia, così da strisciare sul pavimento. Pensò subito che non era il modo di trattare dei vestiti buoni, ed entrò decisa nella stanza - lasciando la valigia in corridoio - con l'idea di appenderli come si deve.
   Lui era a letto, coperto solo da un lenzuolo. Plaid e camicia stavano a terra. Aveva il respiro inquieto come se stesse per svegliarsi, perciò lei disse: - Buongiorno. Buonasera.
   La luce violenta del sole entrava nella stanza fino quasi a colpirlo in piena faccia. La finestra era chiusa e l'aria, tremendamente viziata, puzzava per giunta del posacenere pieno di cicche poggiato sulla sedia che fungeva da tavolino da notte.
   Aveva brutte abitudini: fumava a letto.
   Non si svegliò al suono della sua voce, o comunque si svegliò solo in parte. Incominciò a tossire.
Era una brutta tosse, la riconobbe: una tosse da malato. Faticò a rizzarsi a sedere, senza aprire gli occhi, e Johanna si avvicinò al letto per sollevarlo. Cercò un fazzoletto o una scatola di kleenex, ma non trovò nulla, perciò prese da terra la camicia, poteva lavarla dopo. Voleva controllare bene quello che sputava.    Dopo aver espettorato il necessario, lui mormorò qualcosa e sprofondò nel letto ansimando, con la bella faccia impertinente che Johanna ricordava, contratta da una smorfia di disgusto. Toccandolo, si era resa conto che aveva la febbre.
   Il catarro era di un giallo verdastro, senza tracce color ruggine. Portò la camicia al lavabo del gabinetto dove, con sorpresa, trovò un pezzo di sapone; la lavò e la appese al gancio della porta, poi si strofinò bene le mani. Per asciugarle dovette usare la gonna del vestito marrone, quello nuovo. Se l'era messo in treno, nella toilette per signore, non più di un paio d'ore prima. Si era anche chiesta se non fosse il caso di truccarsi un po'.
   Dentro un armadio a muro in corridoio trovò un rotolo di carta igienica: lo prese e lo portò nella stanza per il prossimo accesso di tosse. Tirò su la coperta e lo coprì bene, abbassò la tapparella fino in fondo e, con fatica, aprì di qualche centimetro la finestra che poi tenne sollevata infilandoci sotto il posacenere svuotato. Poi si cambiò, in corridoio: tolse il vestito marrone e si mise degli abiti vecchi presi dalla valigia. Sai che se ne faceva, adesso, di un bel vestito e di tutti i cosmetici del mondo.
Non poteva dire con certezza quanto fosse grave, ma aveva curato la signora Willets - grande fumatrice pure lei - per diverse bronchiti e le parve di potersela momentaneamente cavare senza bisogno di chiamare il medico. Nello stesso armadio a muro c'era una pila di asciugamani lisi, ma puliti: ne inumidì uno e glielo passò su gambe e braccia per cercare di abbassargli la temperatura. Mentre lo rinfrescava, lui riprese a tossire in una sorta di dormiveglia. Johanna lo sostenne e lo fece sputare nella carta igienica, controllò di nuovo il catarro, gettò tutto nel water e si lavò le mani. Questa volta aveva dove asciugarsele. Scese in cucina, trovò un bicchiere e riempì d'acqua una grossa bottiglia vuota di gingersoda. Provò a farlo bere. Prese un po' d'acqua, protestò e lei gli permise di rimettersi giù. Cinque minuti dopo, però, tornò all'attacco. E continuò a farlo finché non le parve che avesse buttato giù quanto riusciva a mettere in corpo senza vomitare.
   Di quando in quando lui tossiva e lei lo sosteneva con un braccio, mentre con l'altra mano gli batteva piano sulla schiena per aiutarlo a liberarsi del peso che gli opprimeva il petto. Più di una volta aprì gli occhi e parve accogliere la presenza di lei senza sorpresa o allarme, né gratitudine, del resto. Gli fece un'altra spugnatura fredda, avendo cura di ricoprire subito la parte appena rinfrescata.
   Notò che intanto si andava facendo buio e scese in cucina. Trovò l'interruttore: luci e cucina elettrica funzionavano. Aprì e riscaldò una lattina di brodo di pollo con riso, lo portò di sopra e svegliò l'ammalato. Riuscì a fargliene sorbire qualche cucchiaio. Johanna approfittò del momento di veglia per chiedergli se avesse una confezione di aspirine. Lui annuì ma si confuse molto cercando di spiegarle dove la teneva. - Sarà nel cestino dei rifiuti, - disse.
- No, no, - disse lei. - Non può essere.
- Nel... nel...
   Cercò di indicare la forma di qualcosa con le mani. Gli si riempirono gli occhi di lacrime.
- Non fa niente, - disse Johanna. - Non fa niente.
   La febbre scese comunque. Dormì per più di un'ora senza tossire. Poi lo sentì scottare di nuovo. A quel punto però aveva trovato le aspirine in un cassetto in cucina - insieme a oggetti vari, tipo un cacciavite, delle lampadine e un rotolo di spago - e gliene aveva fatte prendere due. Di lì a poco ebbe un violento accesso, ma non le parve che le avesse vomitate. Quando si fu sdraiato, gli posò l'orecchio sul petto per auscultare il rantolo. Aveva anche pensato di preparargli un senapismo, ma a quanto pareva in casa non c'era l'occorrente. Scese da basso e riscaldò dell'acqua che poi portò su, dentro un catino. Provò a farcelo chinare sopra, coprendogli la testa con un asciugamano, per fargli respirare il vapore. Lui collaborò per poco tempo, ma male non gli fece: espettorò infatti una buona dose di catarro.
La febbre calò di nuovo e potè dormire più tranquillo. Johanna si trascinò una poltrona scovata in un'altra stanza e dormì anche lei, a tratti, fra risvegli continui nei quali si chiedeva dove fosse. Poi se lo ricordava e si tirava su e andava a toccarlo - la febbre non sembrava risalire - e gli rimboccava le coperte. Per coprire se stessa invece utilizzò l'eterno soprabito di tweed per il quale doveva dire grazie alla signora Willets.
   Lui si svegliò. Era giorno fatto. - Che ci fa qui? - disse con un filo di voce, roca.
- Sono qui da ieri, - rispose lei. - Le ho portato i mobili. Non ci sono ancora, ma sono partiti. Stava male quando sono arrivata ed è stato male tutta la notte. Adesso come va?
- Meglio, - disse lui, e cominciò a tossire. Non fu necessario sostenerlo, si tirò su da solo, ma Johanna si accostò al letto e gli batté sulla schiena. Alla fine lui disse: - Grazie.
   Ora aveva la pelle fresca come la sua. E liscia: niente nei sporgenti, non un filo di grasso. Gli sentiva le ossa del costato. Sembrava un ragazzino delicato, cagionevole. Odorava di granturco.
- Ha inghiottito il catarro, - disse. - Non lo faccia, non le fa bene. Qui c'è la carta igienica, deve espettorare. Potrebbe avere conseguenze ai reni, se no.
- Mai saputo, - fece lui. - Ha trovato il caffè?
   La macchinetta era tutta nera all'interno. Johanna cercò di lavarla come meglio potè, e mise su l'acqua a bollire. Poi andò a lavarsi e a darsi una rinfrescata, domandandosi che cosa potesse dargli da mangiare per colazione. In dispensa c'era una scatola di preparato per biscotti. In un primo tempo temette di doverli impastare con l'acqua, ma poi trovò anche una confezione di latte in polvere. Mentre il caffè saliva, aveva già infornato una teglia di biscotti.
   Appena la sentì armeggiare in cucina, lui si alzò per andare in gabinetto. Era più debole del previsto: dovette appoggiarsi e tenere una mano sulla vaschetta. Trovò della biancheria in fondo all'armadio a muro del corridoio, dove teneva gli abiti puliti. Ormai aveva messo a fuoco chi fosse quella donna. Aveva detto di essere venuta a portargli i mobili, benché lui non avesse mai chiesto a lei o ad altri di farlo: non aveva mai voluto quei mobili, solo i soldi. In teoria, doveva sapere come si chiamava, ma non riusciva a ricordarselo.
Ecco perché aprì la sua borsetta che era per terra in corridoio, accanto alla valigia. Cucita sulla fodera, c'era un'etichetta.
   Johanna Parry, e l'indirizzo del suocero in Exhibition Road.
   E qualche altra cosa. Un sacchetto di tela con dentro un po' di soldi. Ventisette dollari. Un altro borsellino per gli spiccioli che non si prese la briga di contare. Un libretto bancario di un azzurro deciso. Lo aprì automaticamente, senza aspettarsi niente di inconsueto.
   Un paio di settimane prima Johanna era riuscita a trasferire l'intera somma ereditata dalla signora Willets sul suo conto corrente, aggiungendola ai propri risparmi. Al direttore della banca aveva spiegato che non sapeva quando il denaro le sarebbe stato utile.
   La cifra non era strabiliante, ma ragguardevole. Le garantiva una certa solidità. Agli occhi di Ken Boudreau si trasformò in una fodera di seta intorno al nome di Johanna Parry.
- Era vestita di marrone? - le chiese quando lei si presentò con il caffè.
- Sì. Appena arrivata, sì.
- Credevo di sognare. E invece era lei.
- Come nell'altro sogno, - disse Johanna, la cui fronte lentigginosa si fece di fuoco. Lui non capì di che stesse parlando, ma non ebbe l'energia per informarsi. Magari un sogno da cui si era svegliato nella notte, in sua presenza, e che adesso non riusciva a ricordare. Tossì di nuovo, ma in modo più pacato, mentre lei gli porgeva della carta igienica.
- Allora, - disse, - dove vuole che sistemiamo il caffè? - Spinse avanti la poltrona che aveva trasferito per potergli essere più vicina. - Ecco qua, - disse. Lo sollevò, tenendolo sotto le braccia, e gli infilò un cuscino dietro la schiena. Il cuscino era sporco, senza federa, ma la sera prima l'aveva avvolto in un asciugamano.
- Può vedere se di sotto ci sono delle sigarette?
   Johanna scosse la testa, ma rispose: - Vado a vedere. Ho messo dei biscotti in forno.
   Ken Boudreau aveva il vizio di prestare soldi, oltre che di farseli prestare. Molti dei guai che gli erano successi - o nei quali si era andato a cacciare, per dirla in altri termini - avevano a che fare con la sua incapacità di dire di no a un amico. Lealtà, la chiamava. Non era stato espulso dall'aviazione in tempo di pace ad esempio; si era dimesso lui per lealtà nei riguardi di un compagno accusato di oltraggio a un ufficiale di comando durante una festa in sala mensa. Ma alle feste in sala mensa doveva vigere un clima scherzoso e nessuno aveva il diritto di offendersi, non era giusto. L'impiego nella ditta di fertilizzanti invece l'aveva perso perché si era impossessato di un furgone e aveva varcato il confine statunitense senza permesso, di domenica, solo per andare a prendere un amico nei guai, che aveva paura di essere beccato e denunciato.
   La difficoltà di rapporti con i datori di lavoro era parte integrante del senso di lealtà verso gli amici. Anche se era pronto ad ammettere che gli costava fatica obbedire. «Sissignore» e «Nossignore» erano espressioni poco frequenti nel suo vocabolario d'elezione. Dalla compagnia di assicurazioni nessuno lo aveva cacciato, ma lo emarginavano con tanta frequenza che pareva volessero convincerlo a licenziarsi, cosa che puntualmente si verificò.
   L'alcol aveva fatto la sua parte, bisogna dire. Insieme all'idea che la vita dovesse essere un'avventura più eroica di quanto non sembrasse al giorno d'oggi.
   Gli piaceva raccontare in giro di aver vinto l'albergo con una partita a poker. Non che fosse un gran giocatore, ma alle donne piaceva la parola azzardo. E poi non gli andava di ammettere che l'aveva accettato a occhi chiusi in risarcimento di un debito. E anche dopo averlo visto, si era detto che in fondo era recuperabile. L'idea di mettersi in proprio lo allettava parecchio. Non lo vedeva come un posto in cui la gente avrebbe soggiornato, se non magari qualche cacciatore in autunno. Aveva in mente un bar, con ristorante. Sempre che riuscisse a trovare un cuoco come si deve. Ma prima di tutto bisognava spenderci dei soldi. Fare dei lavori: più di quanti non fosse in grado di portare a termine da solo, nonostante la sua discreta manualità. Se fosse riuscito a passare l'inverno, facendo quello che poteva, dimostrando di avere buone intenzioni, chissà, magari avrebbe potuto sperare in un prestito dalla banca. Ma una somma più modesta gli serviva subito, giusto per tirare primavera: ecco dove era entrato in scena il suocero. Avrebbe preferito rivolgersi altrove, ma non conosceva nessuno tanto ricco da potergli anticipare del denaro senza risentirne affatto.    Gli era parsa una buona idea avanzare la richiesta sotto forma di proposta di vendita dei mobili, ben sapendo che il vecchio non si sarebbe mai dato abbastanza da fare da riuscire a piazzarli da solo. Aveva memoria, benché non molto precisa, di certi prestiti ancora in sospeso dal passato, ma riusciva a pensarli come risarcimenti a cui aveva diritto per aver sopportato Marcelle quando si comportava in modo assai discutibile (lei, perché al tempo lui non aveva ancora incominciato), e per aver riconosciuto la paternità di Sabitha, pur nutrendo seri dubbi in proposito. Inoltre, i McCauley erano le uniche persone di sua conoscenza a disporre di denaro che nessuno ancora vivo in famiglia avesse guadagnato personalmente.    Le ho portato i mobili.
   Non riusciva a capire che cosa potesse significare per lui quella frase, al momento. Era troppo stanco. Aveva più voglia di dormire che di mangiare, quando Johanna arrivò coi biscotti (e senza le sigarette). Per farle piacere ne mangiò mezzo. Poi sprofondò in un sonno pesante. Rimase in una specie di dormiveglia anche quando lei lo girò su un fianco, e poi sull'altro, sfilandogli il lenzuolo sporco da sotto per poi sistemarlo allo stesso modo su uno pulito, senza mai farlo alzare dal letto né svegliarlo del tutto.
   - Ho trovato un lenzuolo pulito, ma è liso come uno straccio, - disse lei. - Non aveva un buon odore, così l'ho appeso fuori per un po'.
   Più tardi lui si rese conto che il rumore che aveva accompagnato a lungo il suo sonno era il ronzio della lavatrice. Si chiese come fosse possibile, visto che il boiler era defunto. Doveva aver scaldato tegami e tegami d'acqua sul gas. Qualche tempo dopo invece, udì l'inconfondibile rumore della sua automobile che si allontanava. Probabilmente aveva trovato le chiavi nella tasca dei suoi pantaloni.
   Magari se ne stava andando con l'unica sua proprietà di qualche valore; lasciandolo lì da solo, senza nemmeno la possibilità di chiamare la polizia per fermarla. Il telefono era inutilizzabile, ammesso che riuscisse a raggiungerlo.
   Certo, l'eventualità di ritrovarsi abbandonato e derubato esisteva, ma preferì concentrarsi sul lenzuolo che aveva odore di vento e di prato, e si rimise a dormire, sicuro che lei fosse andata soltanto a comprare latte e uova e burro e pane e altre provviste - forse perfino le sigarette - necessarie per condurre una vita decente, e che sarebbe tornata per darsi da fare al piano di sotto, e che il rumore del suo trafficare sarebbe stato una rete sotto la sua persona, una rete mandata dal cielo, un dono da non discutere.
   Al momento c'era nella sua vita un problema di donne. Due, per l'esattezza, una più giovane e una meno (vale a dire, grosso modo, sua coetanea), entrambe al corrente dell'esistenza dell'altra e pronte a strapparsi reciprocamente i capelli. Di recente da loro non aveva avuto che urla e lamenti intervallati dalle rispettive colleriche dichiarazioni di amore sincero.
   Forse era arrivata una soluzione anche per quel problema.
Mentre faceva la spesa al negozio, Johanna udì un treno e di ritorno all'hotel vide una macchina parcheggiata davanti alla stazione. Prima ancora di avere accostato l'auto di Ken, intravide le casse dei mobili ammucchiate sul marciapiede. Parlò con l'impiegato - la macchina era sua -, che le parve molto sorpreso e irritato dall'arrivo di quelle grandi casse. Non appena riuscì a estorcergli il nome di un autotrasportatore - fidato e pulito, si raccomandò Johanna - che abitava a una trentina di chilometri da lì e che occasionalmente si prestava per servizi del genere, usò il telefono della stazione per chiamarlo e chiedergli in tono tra il supplichevole e il perentorio di venire subito. Poi chiarì all'impiegato che era suo dovere non muoversi fino all'arrivo del furgone. Entro l'ora di cena, il camion era a destinazione e l'uomo e suo figlio avevano provveduto a scaricare i mobili e trasferirli nella sala centrale dell'albergo.
   L'indomani Johanna si guardò intorno per bene. Doveva decidere il da farsi.
   Il giorno dopo le parve che Ken Boudreau fosse in grado di mettersi seduto e ascoltare ciò che aveva da dirgli: - Questo posto è un pozzo succhiasoldi. Il paese stesso è agli sgoccioli. Bisognerebbe tirare fuori tutto quello che può fruttare qualcosa in contanti, e venderlo. Non mi riferisco ai mobili appena arrivati, intendo roba come il tavolo da biliardo e l'attrezzatura da cucina. Poi dovremmo farci fuori i muri; venderli a qualcuno che stacchi la copertura in lamiera e la rivenda a uno smaltitore. Si riesce sempre a mettere insieme qualche soldo, anche con cose che non si sarebbe mai detto avessero un valore. E poi... tu che intenzioni avevi prima di diventare padrone dell'albergo?
   Lui rispose che aveva pensato di trasferirsi nel British Columbia, a Salmon Arm, dove stava un suo amico che una volta gli aveva detto di potergli trovare un lavoro come gestore di vivai. Non ci era potuto andare per via della macchina, che aveva bisogno di un treno di gomme nuove e di altre riparazioni per affrontare un viaggio lungo, mentre lui spendeva fino all'ultimo centesimo solo per tirare avanti. A quel punto, gli era capitato tra capo e collo l'albergo.
   - Un mucchio di macerie, - commentò lei. - Le gomme e le riparazioni sono un investimento, al confronto; sempre meglio che buttare via i soldi qua dentro. Bisognerebbe riuscire ad andarsene prima che venga la neve. E farci spedire di nuovo i mobili per ferrovia, in modo da utilizzarli quando arriviamo. Abbiamo il necessario per mettere su casa.
   Forse l'offerta di quel lavoro non era poi tanto sicura. Johanna disse: - Lo so. Ma mi sta bene.
   E lui capì che era vero: lei sapeva e le stava bene, le sarebbe stato bene così. Si poteva addirittura dire che era la situazione perfetta, per una donna del genere.
   Non che non le sarebbe stato riconoscente, comunque. Era arrivato al punto in cui la gratitudine non rappresentava più un peso, ma un sentimento spontaneo, specie quando nessuno la pretendeva.
   Incominciava a pensare a una possibile rinascita. Ecco il cambiamento di cui ho bisogno. Se l'era detto altre volte, e di sicuro prima o poi la previsione si sarebbe avverata. Inverni miti, profumo di foreste sempreverdi, mele mature. Il necessario per mettere su casa.
   Lui aveva dell'amor proprio, però. Bisognava tenerne conto. Probabilmente era meglio non nominare le lettere in cui si era dichiarato. In ogni caso, lei le aveva distrutte, prima di partire. Anzi, le aveva distrutte a una a una subito dopo averle lette quanto bastava per ricordarle a memoria; non c'era voluto granché. Di certo non le andava che potessero finire nelle mani della piccola Sabitha e di quella canaglia della sua amica.    Specie una frase dell'ultima lettera, quella della camicia da notte e di lei a letto. Non che certe cose non succedessero, ma metterle nero su bianco poteva essere considerato volgare o stupido, o esporla al ridicolo.    Non credeva che avrebbero visto spesso Sabitha. Ma non gli avrebbe mai impedito di vederla, se era quello che lui voleva.
   L'esperienza non era del tutto nuova, quel senso improvviso di crescita e di responsabilità. Aveva provato qualcosa di analogo per la signora Willets; un'altra persona bella e volubile, bisognosa di cure e di qualcuno che la tenesse a bada. Ken Boudreau apparteneva alla categoria un po' più di quanto si fosse aspettata, e c'erano le ovvie differenze dovute al fatto che si trattava di un uomo, ma di certo niente di cui non si sentisse all'altezza.
   Dopo la signora Willets, il cuore le si era infeltrito, e aveva creduto che potesse restare così per sempre. E invece, quanta emozione, quanto subbuglio d'amore.
Il signor McCauley morì circa due anni dopo la partenza di Johanna. Il suo fu l'ultimo funerale celebrato nella chiesa anglicana. Vi parteciparono in molti. Sabitha - che arrivò con la cugina materna, la donna di Toronto - era diventata una donna graziosa, seria e notevolmente, sorprendentemente sottile. Indossava un sofisticato cappello nero, e non parlò con nessuno di sua iniziativa. Anche rispondendo ai vari interlocutori, dava l'impressione di non ricordare chi fossero.
   Dal necrologio sul giornale si deduceva che della famiglia McCauley restavano la nipote Sabitha Boudreau e il genero del defunto con la moglie Johanna e il piccolo Omar, di Salmón Arm, British Columbia.    La madre di Edith lo lesse ad alta voce: Edith non leggeva mai la stampa locale. Naturalmente entrambe erano al corrente del matrimonio - lo sapeva anche il padre di Edith, che adesso stava seduto di là, a guardare la televisione. La voce era arrivata in paese. L'unica vera notizia era Omar.
   - Ha avuto un bambino, - esclamò la madre di Edith.
   La ragazza stava lavorando a una versione di latino sul tavolo di cucina. Tu ne quaesierìs, scire nefas, quem mihi, quem tibi...
   In chiesa si era cautelata decidendo di non parlare a Sabitha per prima, per evitare che fosse l'amica a fingere di non conoscerla.
   Non che avesse davvero paura, ormai, di essere smascherata, anche se tuttora non capiva come avessero fatto a passarla liscia. E in un certo senso pareva più che normale che le vestigia della se stessa di un tempo non avessero più legami con la persona attuale, né tanto meno con quella vera che secondo lei avrebbe preso il sopravvento non appena se ne fosse andata dal paese e da tutta quella gente che immaginava di conoscerla.
Era solo l'intrico delle conseguenze a lasciarla sconcertata: le pareva irreale e al tempo stesso insignificante. Dove mai, infatti, sulla lista delle mete che si era posta nella vita, si faceva menzione del suo essere responsabile dell'esistenza terrena di una persona di nome Omar?
   Ignorando sua madre, scrisse: «Non domandare, a noi non è dato sapere...»
   Si fermò, mordicchiando la matita; poi concluse il pensiero con un brivido di soddisfazione: «... che cosa il destino abbia in serbo per me, che cosa per te...»
***

Il ponte galleggiante.
   Una volta lo aveva lasciato. Per un motivo fortuito abbastanza insignificante: insieme a un paio di Giovani Detenuti (lui li chiamava Yo-yo) si era ingozzato di una torta allo zenzero appena sfornata che lei intendeva servire quella sera dopo una riunione. Inosservata - almeno per quanto riguarda Neal e gli Yo-yo - era uscita di casa ed era andata a sedersi sotto la tettoia chiusa su tre lati sullo stradone, alla fermata dell'autobus che passava due volte al giorno, diretto in città. Non ci aveva mai messo piede prima, e aveva due ore d'attesa davanti a sé. Seduta là sotto, lesse ogni singola parola scritta o incisa sulle pareti di legno. Un certo numero di iniziali si amavano reciprocamente x sempre. Laurie G. faceva pompini. Dunk Cultis era finocchio. Come pure il signor Garner (prof di mate).
   Fanculo H.W. Potere al Gange. Osa o Muori. Dio maledice gli impuri. A Kevin S. non gli si rizza. Amanda W. è una donna dolce e bellissima e vorrei che non l'avessero messa in galera perché mi manca da morire. Voglio scopare V. P. Le signore sedute qui sono costrette a leggere tutte 'ste porcherie che scrivete.    Osservando quella congerie di messaggi umani - con particolare perplessità riguardo alla frase accorata e perfino formalmente decorosa sul conto di Amanda W. -, Jinny si chiese se mentre scrivevano quelle cose, le persone fossero sole. E fantasticò di se stessa seduta lì o in un luogo analogo, in attesa di un autobus, sola, come di certo si sarebbe ritrovata in futuro nel caso avesse deciso di attuare il piano che aveva in mente. Avrebbe sentito il bisogno di incidere dichiarazioni sui muri pubblici?
In quel preciso momento le pareva di essere in sintonia con il modo in cui dovevano sentirsi le persone quando provavano l'impulso di scrivere quelle cose; era in sintonia la sua rabbia, la sua furia meschina (che fosse poi proprio meschina?), e l'eccitazione che le procurava ciò che stava facendo a Neal per fargliela pagare. Ma la vita nella quale avrebbe precipitato se stessa poteva non riservarle nessuno con cui infuriarsi, nessuno che fosse in debito con lei di qualcosa, nessuno su cui riversare eventuali ricompense e castighi, nessuno veramente toccato da una sua qualsivoglia presa di posizione. Quello che lei provava poteva rivelarsi di nessun peso per tutti tranne lei stessa, pur gonfiandole il petto di angoscia, pur strozzandole il cuore e il respiro.
   Dopo tutto, non era certo una di quelle persone costantemente circondate da stuoli di ammiratori. E ciononostante era selettiva, a suo modo.
   L'autobus ancora non si vedeva quando si alzò per riavviarsi verso casa.
   Neal era fuori. Aveva riaccompagnato i ragazzi alla scuola, e al suo ritorno qualcuno era già arrivato, in anticipo sulla riunione. Gli raccontò quello che aveva fatto quando fu certa di aver ben superato la cosa e di poterci ridere sopra. In effetti, l'episodio si trasformò in un aneddoto divertente da ripetere in compagnia - omettendo o descrivendo in termini generali le scritte che aveva letto sui muri.
- Ti sarebbe mai passato per la mente di venirmi a cercare? - domandò a Neal.
- Di sicuro. Prima o poi.
L'oncologo aveva maniere da prete e indossava per giunta un dolcevita nero sotto un camice bianco - abbigliamento che faceva pensare fosse appena arrivato dalla somministrazione rituale di chemio. Aveva la pelle giovane e liscia, color caramello. Sulla cima del cranio spuntava una modesta peluria nera, delicati germogli assai simili alla lanugine rimasta sul capo della stessa Jinny. Anche se la sua era di un bruno grigiastro, tipo pelo di topo. In un primo momento Jinny si era chiesta se il dottore potesse essere al tempo stesso un paziente. In seguito, se avesse adottato quel taglio per far sentire i malati a loro agio. Più probabile che si trattasse di un trapianto. O molto semplicemente, del suo gusto in fatto di capelli.
   Impossibile pensare di chiederglielo. Arrivava dalla Siria, o dalla Giordania, o comunque da uno di quei posti dove i medici si mantengono a dignitosa distanza. La sua cortesia era priva di ogni calore.
- Dunque, - le disse. - Non vorrei darle un'impressione sbagliata.
   Dall'aria condizionata dell'edificio, uscì nel bagliore abbacinante di un tardo pomeriggio d'agosto nell'Ontario. A momenti il sole bruciava nel cielo, a tratti restava nascosto dal velo di nuvole, ma faceva un caldo tremendo comunque. Le auto parcheggiate, il marciapiede, i mattoni degli altri edifici, sembrava che tutto la bombardasse letteralmente, come una serie di fenomeni separati che si susseguissero a velocità esilarante. Ultimamente non accoglieva bene i mutamenti di scenario; voleva che tutto si mantenesse stabile e noto. Valeva lo stesso per le informazioni.
   Vide il furgone scostarsi dal cordolo e avviarsi per venirla a prendere. Era di un celeste pallido, scintillante, nauseabondo. Più chiaro nei punti ridipinti sopra le chiazze di ruggine. Gli adesivi dicevano: QUESTO VI
SEMBRA UN CATORCIO? DOVRESTE VEDERE CASA MIA, oppure ONORA TUA MADRE, LA
TERRA, e ancora (quest'ultimo più recente) Sì AI PESTICIDI, SI AI DISERBANTI, SOSTIENI LA CAUSA DEL CANCRO.
   Neal fece il giro per aiutarla.
- Lei è già in macchina, - disse. C'era un che di premuroso nel tono della sua voce, qualcosa a metà tra l'avvertimento e la supplica. Come un fremito intorno a lui, una tensione: Jinny vi lesse il messaggio che non era il momento di comunicargli la novità, se così la si voleva chiamare. In presenza di altri, anche di una sola persona oltre a Jinny, il comportamento di Neal cambiava, si faceva più animato, entusiasta, compiacente. Ormai Jinny non ci faceva più caso - stavano insieme da ventun anni. Del resto, cambiava anche lei - per reazione, pensava una volta -, diventava più riservata e vagamente ironica. Certe finzioni erano necessarie, o forse solo troppo consuete per essere interrotte. Come lo stile anacronistico di Neal: la bandanna intorno alla fronte, l'ispida coda di capelli grigi, il piccolo cerchio all'orecchio che scintillava alla luce come la corona d'oro intorno ai denti, gli abiti informi da fuorilegge.
   Mentre lei era dal dottore, Neal era passato a prendere la ragazza che li avrebbe aiutati in casa. L'aveva conosciuta presso l'Istituto Correzionale per Giovani Detenuti, dove lui faceva l'insegnante e lei lavorava in cucina. L'Istituto Correzionale era all'estrema periferia della cittadina in cui abitavano, a una trentina di chilometri da lì. La ragazza aveva lasciato l'impiego in cucina pochi mesi prima ed era stata assunta come aiutante da una famiglia di agricoltori, perché la madre era malata. Da qualche parte, non lontano dalla cittadina. Per fortuna adesso era libera.
- Che cosa è successo alla donna? - aveva chiesto Jinny. – E’ morta?
E Neal: - L'hanno ricoverata in ospedale. - Più o meno.
   Avevano dovuto provvedere a una serie di accorgimenti pratici in tempi piuttosto brevi. Sbarazzare il soggiorno di casa di tutti i file, i giornali e le riviste contenenti articoli interessanti non ancora messi su disco - montagne di roba ammucchiata sugli scaffali a muro fino al soffitto. Poi dei due computer, della vecchia macchina per scrivere e della stampante. A tutto ciò si dovette trovare una sistemazione - provvisoria, anche se nessuno osava dirlo - in casa d'altri, il soggiorno sarebbe diventato la camera dell'ammalata.
   Jinny aveva detto a Neal che almeno un computer poteva tenerlo, nella stanza da letto. Ma lui non aveva voluto saperne. Non lo disse, ma Jinny capì che non credeva avrebbe avuto il tempo di usarlo. Negli anni trascorsi insieme, Neal aveva passato quasi tutte le ore libere a organizzare e portare avanti campagne. Non solo campagne politiche (anche quelle, certo), ma soprattutto battaglie per la salvaguardia di edifici storici, ponti e cimiteri, per impedire l'abbattimento di alberi sia lungo le vie cittadine sia in tratti isolati di antica foresta, per salvare i fiumi dall'inquinamento di scarichi tossici, i terreni migliori dalle società immobiliari e la popolazione locale dai casinò. Era stato un continuo scrivere lettere e petizioni, avanzare proteste presso vari ministeri, distribuire volantini, organizzare manifestazioni. Il soggiorno era stato teatro di furie indignate (che procuravano tanta soddisfazione alla gente, secondo Jinny) e di propositi farraginosi, e di liti, e dell'ottimismo impudente di Neal. E ora che all'improvviso lo si sbarazzava, le tornava in mente la prima volta che, dal minialloggio soppalcato dei suoi, con le tendine a festoni, aveva messo piede in quella casa e aveva riflettuto su tutti gli scaffali stipati di libri, sulle ante di legno alle finestre, e sui magnifici tappeti orientali di cui regolarmente scordava il nome, distesi sui pavimenti tirati a cera. E sulla stampa del Canaletto comprata per l'unica parete vuota della sua stanza al college. Giornata del Lord Mayor sul Tamigi.
In effetti l'aveva appesa, ma in seguito non l'aveva più degnata di uno sguardo.
   Noleggiarono un letto da ospedale - non ne avevano ancora bisogno, per ora, ma era meglio procurarsene uno per tempo, visto che spesso scarseggiavano. Pensò a tutto Neal. Sistemò alle finestre delle tende pesanti che erano state appese nella sala da pranzo di un amico. Sul tessuto stampato si alternavano boccali e staffe d'ottone, e Jinny le trovava molto brutte. Ma ormai sapeva che nella vita viene il momento in cui brutto e bello svolgono più o meno la stessa funzione, quando tutto ciò che guardi altro non è che un gancio a cui appendere le sensazioni scomposte del corpo, e i brandelli della mente.
Aveva quarantadue anni, e fino a poco prima ne aveva sempre dimostrati meno. Neal ne aveva sedici di più. Perciò Jinny aveva ritenuto che, secondo il corso naturale delle cose, sarebbe toccato a lei il ruolo che adesso era di Neal, e qualche volta si era anche chiesta con apprensione come se la sarebbe cavata. Una sera a letto, prima di addormentarsi, mentre gli teneva la mano, una mano calda e viva, aveva pensato che almeno una volta nella vita avrebbe stretto nella sua, toccato, la mano di Neal ormai morto. E che non sarebbe stata in grado di farsene una ragione. Di credere al fatto che lui potesse essere morto e inerte. Per quanto prevedibile e prevista fosse quella condizione, lei non sarebbe mai riuscita ad accettarla. A credere che, in fondo a qualche misterioso abisso, lui non fosse consapevole di quell'istante. Di lei. Pensare a lui privo di quella facoltà le procurava una specie di vertigine emotiva, la sensazione orrenda di precipitare.
   E al tempo stesso, una forma di eccitazione. L'ineffabile eccitazione che si prova quando un disastro imminente promette di sollevarci da ogni responsabilità collegata alla vita. In quei casi, un senso di pudore costringe a darsi un contegno e a restare immobili.
- Dove vai? - le aveva chiesto lui, sentendole ritirare la mano.
- Da nessuna parte. Mi giro soltanto.
   Non sapeva se anche Neal provasse sensazioni analoghe, ora che era successo a lei. Gli aveva chiesto se fosse riuscito ad abituarsi all'idea. E lui aveva scosso la testa.
- Neanch'io.
   Poi aveva aggiunto: - Ti prego soltanto di non far entrare in casa quelli della Lega Antidolore. Magari si aggirano già in zona. Pronti a un'incursione preventiva.
- Smettila di tormentarmi, - disse lui in tono insolitamente rabbioso.
- Scusa.
- Non sempre è il momento di prendere le cose alla leggera.
- Lo so, - disse lei. Ma la verità era che con tutto quello che stava capitando, il presente la assorbiva al punto da renderle difficile prendere le cose in qualunque modo.
- Questa è Helen, - disse Neal. - La persona che si occuperà di noi d'ora in avanti. Anche lei non vuol sentire stupidaggini.
- Buon per lei, - disse Jinny. Mentre saliva in macchina, le tese la mano. Ma forse la ragazza non la vide, in basso, in mezzo ai sedili anteriori.
O forse non sapeva come reagire. Neal le aveva spiegato che aveva alle spalle una situazione incredibile, una famiglia a dir poco barbarica. Le erano successe cose che uno non immagina possano ancora capitare al giorno d'oggi. Fattoria isolata, madre morta, figlia ritardata, vecchio padre tirannico folle e incestuoso, più le due ragazzine. Helen, la maggiore, fuggita di casa a quattordici anni dopo aver fracassato di botte il vecchio. Aveva trovato rifugio da una vicina che aveva chiamato la polizia. Gli agenti erano arrivati, avevano preso anche la sorella minore e avevano affidato entrambe al Chil- dren's Aid. Il vecchio e la figlia - vale a dire padre e madre delle piccole - furono ricoverati entrambi in un ospedale psichiatrico. Helen e la sorella, essendo mentalmente e fisicamente normali, vennero accolte da una famiglia adottiva. Le iscrissero a scuola, dove si trovarono malissimo, dovendo essere inserite in prima elementare. Ma impararono quanto bastava a trovarsi un lavoro.
   Quando Neal accese il motore del furgone, la ragazza si decise a parlare.
- Ha scelto una giornata ben calda per andarsene in giro, - disse. Era il genere di frase con la quale forse aveva sentito qualcuno avviare una conversazione. Aveva un tono di voce duro, uniforme, carico di ostilità e di sfiducia, ma ormai Jinny aveva capito che neanche quello andava interpretato in modo personale.
In quella parte del mondo certe persone - specie se di campagna - semplicemente parlavano così.
- Se hai caldo puoi accendere l'aria condizionata, - disse Neal. - Abbiamo il tipo vecchio: basta tirare giù il finestrino.
   All'angolo successivo svoltarono in una direzione che Jinny non aveva previsto.
- Dobbiamo passare dall'ospedale, - disse Neal. - Niente paura. Ci lavora sua sorella e Helen vuole fermarsi a prendere una cosa. Dico bene, Helen?
   Helen rispose: - Sì. Le mie scarpe buone.
- Le scarpe buone di Helen, - ripetè Neal guardando nello specchietto retrovisore. - Le scarpe buone di Helen Rosie.
- Io non mi chiamo Helen Rosie, - fece lei. Dal tono, sembrava non fosse la prima volta che lo diceva.    - Ti ho chiamata così perché hai la pelle fresca come una rosa, - ribatté Neal.
- Non è vero.
- Invece sì. Dico bene, Jinny? Jinny è d'accordo con me. Sei fresca come una rosa, Helen Rosie.    La ragazza aveva in effetti la carnagione rosea e liscia. Jinny aveva anche notato le ciglia e le sopracciglia quasi bianche, i capelli biondissimi e lanuginosi come quelli di un bebé, e la bocca che appariva più nuda del normale, non solo come una bocca senza rossetto. Aveva un'aria da pulcino appena uscito dall'uovo, come se le mancasse uno strato di pelle, e non le fossero ancora spuntati i capelli più forti e definitivi. Doveva andare soggetta a eruzioni cutanee e infiammazioni, mostrare subito il segno di lividi ed escoriazioni, coprirsi di vesciche intorno alle labbra e di orzaioli in mezzo a quelle ciglia chiarissime. Eppure non dava l'idea di essere fragile. Aveva le spalle larghe, era magra ma di ossatura robusta. Non sembrava nemmeno una stupida, pur avendo un'espressione disarmante come quella di un vitello o di un cervo. Doveva essere un tipo senza segreti, dalla personalità aperta e le intenzioni esplicite, dotata di una forza ingenua e, agli occhi di Jinny, sgradevole.
   Stavano percorrendo la lunga salita verso l'ospedale - lo stesso nel quale Jinny era stata operata e dove aveva fatto il primo ciclo di chemio. Di fronte agli edifici c'era un cimitero. La strada era centrale e ogni volta che facevano quel tragitto - ai vecchi tempi, quando ancora venivano in città per la spesa o per il raro diversivo di un cinema - Jinny diceva sempre qualcosa tipo «Che desolazione» oppure «Questo si chiama esagerare con l'efficienza».
   Ora non disse niente. Il cimitero non la turbava. Si rese conto che non aveva importanza.
   Doveva averlo capito anche Neal. Rivolto allo specchietto, disse: - Secondo te, quanti sono i morti in quel cimitero?
   Helen tacque per un momento. Poi, senza convinzione, rispose: - Non saprei.
- Sono tutti morti là dentro.
- Ci sono cascata anch'io, - disse Jinny. – E’ una battuta da quarta elementare.
   Helen non fece commenti. Probabilmente alla quarta non era mai arrivata.
   Accostarono all'ingresso principale, ma su indicazione di Helen proseguirono fino al retro dell'edificio.
C'era gente in pigiama, alcuni con tanto di flebo al seguito, uscita in cortile a fumare.
- Vedi quella panchina, - disse Jinny. - Ah, non fa niente, l'abbiamo superata. C'è sopra un cartello che dice, SI PREGA DI NON FUMARE. Ma l'hanno messa lì apposta per quando la gente esce a farsi un giro. E che cosa escono a fare? A fumare. Dunque, com'è, non dovrebbero sedersi? Io non capisco.
- La sorella di Helen lavora in lavanderia, - disse Neal. - Come si chiama, Helen? Come si chiama tua sorella?
- Lois, - disse Helen. - Fermati qui. Si, qui va bene.
   Erano in un parcheggio di fronte all'ala posteriore dell'ospedale. Sul muro del pianoterra non si aprivano porte tranne un'uscita di servizio, sprangata. Sugli altri tre piani c'erano invece le porte che davano sulle scale antincendio.
   Helen stava scendendo dalla macchina.
- Sai da che parte entrare?
- Sì, certo.
   La scala antincendio si interrompeva a più di un metro da terra, ma in capo a pochi secondi Helen riuscì ad aggrapparsi al mancorrente e a issarsi sulla piattaforma, forse facendo leva col piede contro un mattone smosso. Jinny non capì come avesse fatto. Neal rideva.    - E chi la ferma, la ragazzina?

Non c'è un altro modo? - domandò Jinny.
   Helen intanto era arrivata al terzo piano, sparita.
- Se c'è, direi che non ha intenzione di usarlo, - disse Neal.
- E’ piena di grinta, - si sforzò di commentare Jinny.
- Altrimenti non se la sarebbe mai cavata, - rispose lui.
- Ha avuto bisogno di tutta la grinta possibile in vita sua.
   Jinny aveva in testa un ampio cappello di paglia. Se lo tolse e prese a sventolarsi.
   Neal disse: - Mi spiace. Non c'era un angolo all'ombra per parcheggiare. Non ci metterà molto.
- Metto paura così? - chiese Jinny. Lui era abituato a quel genere di domande.
- Figurati. E comunque qui intorno non c'è nessuno.
- Il tizio che ho visto oggi, non era lo stesso di sempre. Credo che questo sia uno che conta di più. La cosa buffa è che aveva uno scalpo che assomiglia al mio. Magari lo porta per far sentire i pazienti a loro agio.    Aveva in mente di proseguire e di riferirgli quel che le aveva detto il dottore, ma lui la interruppe: - L'altra sorella non è in gamba come lei. Helen le dà un'occhiata e le dice che cosa fare. La storia delle scarpe: tipica. Non è neanche capace di comprarsi un paio di scarpe. Non ha nemmeno una casa; abita ancora con la famiglia che le ha adottate, in campagna chissà dove.
   Jinny non proseguì. Sventolare il cappello le impegnava quasi tutte le energie. Neal continuava a osservare l'edificio.
- Cristo, speriamo bene che non l'abbiano ripresa per essere entrata in quel modo, - disse. - Ha violato il regolamento. Non mi pare sia il tipo da regolamenti.
   Dopo svariati minuti si lasciò sfuggire un fischio.
- Eccola che arriva. Eccola-che-arriva. Giù, a rotta di collo. Avrà spero abbastan... dico, avrà abbastanza cervello da fermarsi prima di saltare? Speriamo almeno che guardi dove mette i piedi. Sì?
Macché. Macché. Manco per sogno.
   Helen non aveva nessun paio di scarpe in mano. Saltò sul furgone sbattendo la portiera e disse: - Pezzi di cretini. Prima entro e uno stronzo si mette di mezzo. Dove ce l'hai la targhetta? Devi avere la targhetta. Non puoi entrare qua dentro senza targhetta. Ti ho vista salire dalla scala antincendio, non si può. Va bene, va bene, devo vedere mia sorella. Adesso non puoi perché non è in pausa. Lo so anch'io, se no mica salivo dalla scala antincendio; sono solo venuta a prendere una cosa. Non voglio parlarle, non le rubo del tempo, voglio solo prendere una cosa. Be', invece non puoi. E invece sì. E invece no. A quel punto mi metto a strillare.
Lois. Lois. Ma non so se da dov'è mi sente. Comunque arriva di corsa e appena mi vede, fa, Oh merda. Merda, mi sono scordata. Si è scordata di portare le mie scarpe. L'ho chiamata apposta ieri sera per ricordarglielo e lei? Merda, è capace di dire, mi sono scordata. L'avrei picchiata. E adesso vattene, dice il tipo. Scendi e vattene. Ma non dalla scala antincendio, perché è illegale. Ma va' a cagare.
   Neal rideva come un matto scuotendo la testa.
- E allora com'è finita? Non ti ha portato le scarpe?
- Le ha lasciate a casa di June e Matt.
- Una vera tragedia.
   Jinny disse: - Ti dispiacerebbe partire adesso, così entra un po' d'aria? Mi pare che il cappello non faccia granché.
- Certo, - disse Neal. Fece retromarcia e inversione e si ritrovarono di nuovo a percorrere la nota via dell'ospedale con gli stessi o altri fumatori erranti in patetica tenuta da ospedale e treppiede da flebo. - Basta che Helen ci faccia strada.
   Si voltò verso il sedile posteriore: - Helen?
- Che c'è?
- Dove devo svoltare per andare a casa di costoro?
- A casa di chi?
- Dove abita tua sorella. Dove stanno le scarpe. Dicci come fare per arrivarci.
- Non te lo dico, perché non ci andiamo.
   Neal riprese la via percorsa all'andata.
- Allora io proseguo finché non ti raccapezzi. Cosa è meglio, che prenda la tangenziale? O che passi dal centro? Da dove è meglio partire?
- Da nessuna parte. Non ci andiamo.
- Non è lontanissimo, giusto? Perché non ci vuoi andare?
- Mi avete già fatto un favore, basta così -. Helen si spinse più avanti che potè e infilò la testa tra i sedili di Neal e di Jinny. - Mi avete già portata all'ospedale; basta, no? Non è il caso che facciate un mucchio di strada solo per fare piacere a me.
   Rallentarono e imboccarono una traversa.
Non diciamo sciocchezze, - disse Neal. - Vieni a stare a una trentina di chilometri da casa, e può darsi che per un po' tu non passi da queste parti. Quelle scarpe ti possono servire.
   Nessuna risposta. Tornò all'attacco.
- O magari non sai come arrivarci? Non conosci il tragitto da qui?
- Lo conosco. Ma non lo voglio dire.
- Allora saremo costretti a girare in tondo. Continueremo a girare finché non ti deciderai a dirlo.
- Ma io non mi decido. Non mi decido e basta.
- Potremmo tornare da tua sorella. Scommetto che lei ce lo dice. Ormai avrà quasi finito il turno, possiamo darle un passaggio.
- Fa l'ultimo turno, perciò figuriamoci.
   Stavano attraversando una zona della città che Jinny non conosceva. Procedevano molto lentamente e svoltavano spesso, cosicché in macchina circolava pochissima aria. Una fabbrica abbandonata, alcuni discount, qualche banco dei pegni. Un'insegna luminosa sopra una finestra sbarrata diceva SALDI, SALDI, SALDI. Ma c'erano anche le abitazioni: pietosi villini bifamiliari, e prefabbricati di legno tirati su in fretta e furia durante la seconda guerra mondiale. Un cortile minuscolo era stipato di mercanzia: vestiti appesi a una corda da bucato, tavoli carichi di piatti e stoviglie varie. Sotto uno di questi, un cane si aggirava annusando dappertutto; poteva far cadere la pila da un momento all'altro, ma la donna seduta sul gradino di casa a fumare e a osservare la mancanza di clientela, sembrava del tutto indifferente.
   Davanti a un negozio d'angolo alcuni bambini succhiavano un ghiacciolo. Il piccolo ai margini del gruppo - non doveva avere più di quattro o cinque anni - scagliò il ghiacciolo contro il furgone. Un lancio di insospettabile potenza. Il gelato colpì la portiera poco sotto il braccio di Jinny, che diede in un piccolo grido.    Helen ficcò la testa fuori dal finestrino posteriore.
- Vuoi un braccio al collo?
   Il bambino si mise a frignare. Non doveva aver messo in conto la presenza di Helen, e forse neanche il fatto che il ghiacciolo sarebbe andato perso una volta per tutte.
   Rientrata nel furgone, Helen si rivolse a Neal.
- Stai solo sprecando benzina.
- Vado a nord? - disse Neal. - A sud? Nord, sud, est, ovest, Helen, dicci da che parte andiamo.
- Te l'ho detto. Per oggi hai fatto abbastanza per me.
- Te l'ho già detto anch'io. Prima di tornare a casa, passiamo a prendere queste scarpe.
   Per quanto severo fosse il tono di voce, Neal sorrideva. Aveva in faccia un'espressione di consapevole quanto impotente scempiaggine. Segnali di un'imminente beatitudine. L'intera persona di Neal ne era invasa, traboccava di sciocca felicità.
- Sei soltanto testardo, - disse Helen.
- Vedrai quanto so esserlo.
- Perché, io? Sono testarda almeno quanto te.
   A Jinny pareva di sentire il calore della guancia di Helen, vicinissima alla sua. E di sicuro udiva il respiro della ragazza, affannato per la concitazione e leggermente asmatico. La presenza di Helen era come quella di un gatto domestico che non avrebbe mai dovuto essere portato in macchina, troppo nervoso per comportarsi bene, troppo soggetto a improvvisi balzi da un sedile all'altro.
   Il sole si era di nuovo bruciato un varco tra le nuvole. Era ancora alto e metallico in cielo.
   Neal svoltò in una via fiancheggiata da grandi alberi fronzuti, e case un po' più dignitose.    - Qui va meglio? - chiese rivolto a Jinny. - Un po' d'ombra per te? - Parlava piano, in tono confidenziale, come se il bisticcio con la ragazza potesse essere accantonato per un momento, come se fossero tutte sciocchezze.
- Ci facciamo un bel giro turistico, - disse poi, alzando di nuovo la voce in direzione del sedile posteriore. - Ci facciamo un bel giro turistico oggi, per gentile concessione della qui presente signorina Helen Rosie.
- Forse dovremmo lasciar perdere, - disse Jinny. - Forse sarebbe meglio andare a casa.
   Helen sbottò, quasi urlando: - Io non voglio impedire a nessuno di andare a casa.
- Allora, puoi finalmente darmi indicazioni, - ribatté Neal. Si sforzava in tutti i modi di mantenere il controllo delle sue parole, di farle apparire sobrie. E di bandire il sorriso, che continuava a insinuarsi sulle sue labbra, per quanto più volte cacciato. - Andiamo dove dobbiamo andare, facciamo la nostra commissione e torniamo a casa.
   Dopo un altro mezzo isolato a passo d'uomo, Helen brontolò:
- Se proprio devo, mi sa che devo.
   Il posto non era poi tanto lontano. Costeggiarono un terreno lottizzato e Neal, rivolgendosi di nuovo a Jinny, disse: - Non vedo nessun rio. E nessuna tenuta.    Jinny rispose: - Che cosa?
Tenuta Rio d'Argento. così diceva il cartello.
   Doveva aver letto un cartello che a Jinny era sfuggito.
- Gira, - disse Helen.
- Sinistra o destra? - chiese Neal.
- Dopo lo sfasciacarrozze.
   Superarono il parcheggio del demolitore, con le carcasse delle auto solo in parte nascoste da un recinto di lamiera ammaccata. Poi presero una salita e varcarono i cancelli di una cava di ghiaia che si presentava come un gran vuoto nel ventre della collina.
- Eccoli. Quella lì più avanti è la loro cassetta della posta, - esclamò Helen dandosi un po' d'importanza, e quando furono più vicini lesse ad alta voce il nome:
- Matt e June Bergson. Sono loro.
   Due cani uscirono abbaiando sul vialetto d'ingresso. Uno era grosso e nero, l'altro piccolo e marrone rossiccio, con l'aria da cucciolo. Presero a zampettare intorno al furgone, e Neal suonò il clacson. A quel punto un terzo cane - più aggressivo e determinato, con il pelo lucido a chiazze nerazzurre - venne fuori dall'erba alta.
   Helen ordinò loro di stare zitti, mettersi a cuccia, non rompere.
- Non dovete avere paura; solo di Pinto, - disse. - Gli altri due sono dei vigliacchi.
   Si fermarono in un ampio spiazzo mal delineato, cosparso di ghiaia. Da un lato c'era un granaio, o una rimessa dal tetto in lamiera, e a fianco, al margine di un campo di mais, un rudere ormai quasi privo di mattoni, di cui restavano solo pareti di legno scuro. La casa attualmente abitata era una roulotte, con tanto di verandina coperta e di una specie di giardino delle bambole con il suo bravo steccato. Roulotte e giardino erano ben tenuti e ordinati, mentre il resto del terreno appariva ingombro di rottami che forse servivano ancora o forse se ne stavano lì a mettere ruggine e basta.
   Helen balzò giù dal furgone e cercò di placare i cani. Ma quelli continuavano a correre avanti e indietro, saltando e abbaiando alla macchina, finché dalla rimessa non uscì un uomo a chiamarli. Le urla e le minacce che pronunciò non risultarono comprensibili a Jinny, ma i cani si tranquillizzarono.
   Jinny si mise il cappello. L'aveva sempre tenuto in mano.
- Si danno solo delle arie, - disse Helen.
   Scese anche Neal e si rivolse alle bestie in tono risoluto. L'uomo della rimessa venne loro incontro. Indossava una maglietta viola fradicia di sudore che gli aderiva al torace e alla pancia. Era grasso da avere le tette e gli si vedeva l'ombelico sporgere come quello di una donna incinta. Gli galleggiava sul ventre come su un puntaspilli di dimensioni gigantesche.
   Neal si diresse verso di lui tendendo la mano. L'uomo batté la sua sulla tela dei pantaloni, rise e strinse quella di Neal. Jinny non riusciva a sentire che cosa dicessero. Dalla roulotte venne fuori una donna che aprì il cancelletto giocattolo e se lo richiuse alle spalle.
- Lois è uscita e si è scordata che doveva portarmi le scarpe, - le disse Helen. - Le avevo anche telefonato, ma se n'è scordata comunque, così il signor Lockyer mi ha accompagnata a prenderle.
   Anche la donna era grassa, sebbene non come suo marito. Indossava un camicione hawaiano rosa stampato a soli aztechi e aveva i capelli striati di biondo. Avanzava sulla ghiaia con fare tranquillo e ospitale. Neal si voltò per stringerle la mano, poi la accompagnò al furgone per presentargli anche Jinny.
- Lieta di conoscerla, - disse la donna. - Lei è la signora che non sta bene?
- Sto abbastanza bene, - disse Jinny.
- Be', visto che siete qui, perché non entrate. Togliamoci da questo caldo.
- Oh, non ci fermiamo, - disse Neal.
   L'uomo si era avvicinato. - Dentro abbiamo l'aria condizionata, - disse. Stava esaminando il furgone e aveva un'espressione cordiale ma un po' sprezzante.
- Siamo solo venuti a prendere le scarpe, - disse Jinny.
- Ma adesso che siete qui, dovete fermarvi un momento, - disse la donna, June, e rideva come se l'idea di non entrare in casa fosse una specie di battuta oscena. - Entrate e riposatevi un attimo.
- Non vorremmo disturbare all'ora di cena, - disse Neal.
- Abbiamo già cenato, - ribatté Matt. - Mangiamo presto.
- Ma è avanzato un mucchio di chili, - disse June. - Dovete per forza aiutarci a finirlo.
   Jinny disse: - La ringrazio tanto, ma non credo di poter mangiare. Non mi sento mai di mangiare quando fa questo caldo.
- Allora può bere qualcosa, - disse June. - C'è del gingerino, della Coca-Cola. Degli aperitivi alla pesca.
- Birra, - disse Matt, rivolgendosi a Neal. - Le va una Blue?
   Jinny fece cenno a Neal di avvicinarsi al furgone.
- Non ce la faccio, - disse. - Di' che non ce la faccio.
Ci resteranno male, lo sai, - bisbigliò lui. - Cercano solo di essere gentili.
- Sì, ma io non ce la faccio. Va' tu, magari.
   Neal si chinò, facendosi più vicino. - Hai presente che figura facciamo se tu non vieni. Dà l'impressione che tu non ti voglia abbassare.
- Vacci tu.
- Una volta dentro, starai benissimo. L'aria condizionata ti farà bene.
   Jinny scosse la testa.
   Neal si raddrizzò.
- Jinny pensa che per lei sia meglio starsene a riposare qui all'ombra.
   E June: - Ma ci farebbe piacere se venisse a riposarsi in casa...
- Io una birretta me la farei, a essere sincero, - disse Neal. Si voltò verso Jinny con un sorriso teso. Sembrava deluso e in collera. - Sicura di star bene? - domandò ad alta voce per farsi sentire da tutti. - Proprio sicura? Non ti spiace se entro un minuto?
- Figurati.
   Neal appoggiò una mano sulla spalla di Helen e una su quella di June, e le scortò cordialmente verso la roulotte. Matt rivolse a Jinny un sorriso curioso, e li seguì.
   Questa volta, quando chiamò a sé i tre cani, Jinny fu in grado di individuare i loro nomi.
   Goober. Sally. Pinto.
   Il furgone era parcheggiato sotto un filare di salici. Erano grandi alberi vecchi, ma le foglie sottili garantivano soltanto un'ombra tremula. Ritrovarsi sola comunque fu un sollievo notevole.
   Qualche ora prima, percorrendo la statale dal paese dove abitavano, si erano fermati a una bancarella improvvisata per comprare delle mele primaticce. Jinny ne estrasse una dal sacchetto che aveva accanto ai piedi e ne prese un piccolo morso: più che altro per vedere se riusciva a sentire i sapori, deglutire e trattenere del cibo nello stomaco. Le serviva qualcosa per contrastare il pensiero del chili, e del formidabile ombelico di Matt.
   Tutto bene. La mela era croccante e acidula, ma non troppo, e se faceva bocconi piccoli e masticava con calma, poteva cavarsela.
   Aveva già visto Neal così - o più o meno così - qualche altra volta in passato. Era successo per certi ragazzi della scuola. Un nome buttato là con fare sbrigativo, per non dire sprezzante. Uno sguardo languido, un accesso di risa pieno di vergogna ma anche di sfida.
   Solo che non si era mai trattato di qualcuno che le toccasse avere in giro per casa, e non se n'era mai fatto niente. Il tempo scadeva, e il ragazzo spariva.
   Così sarebbe stato anche questa volta. Non avrebbe dovuto fare differenza.
   Dovette chiedersi se ieri avrebbe fatto differenza più o meno di oggi.
   Scese dal furgone, lasciando la portiera aperta in modo da potersi aggrappare alla maniglia interna. Qualunque oggetto esterno era troppo rovente per poterlo toccare più a lungo. Doveva assicurarsi di poter mantenere l'equilibrio. Poi avanzò un poco nell'ombra. Alcune foglie dei salici stavano ingiallendo. Erano cadute a terra. Si sporse dall'ombra per guardare le cose sparpagliate in cortile.
   Un furgoncino per le consegne tutto ammaccato, senza i fanali e con la vernice del nome scrostata sul fianco. Un passeggino a cui i cani avevano masticato il sedile, un carico di legna da ardere mai accatastata, una pila di enormi pneumatici, svariate caraffe di plastica e alcune latte da olio, vecchi pezzi d'arredamento, un paio di teli gommati arancione appoggiati alla parete della rimessa. Dentro quest'ultima c'erano un autocarro GM, un camioncino Mazda in pessime condizioni e un trattore da giardino, oltre ad attrezzi più o meno rotti e a ruote, manubri e sbarre che potevano essere utili o no, a seconda della capacità di immaginarne l'impiego. Quante cose teneva la gente! Come lei del resto, con tutte quelle fotografie, lettere ufficiali, minute di varie riunioni, ritagli di giornale, migliaia di categorie da lei stessa individuate e che stava passando su disco quando era incominciata la chemio e ogni cosa aveva dovuto essere sbarazzata. Chissà, magari sarebbe stato tutto buttato via. Come ciascuno di questi oggetti, in caso Matt fosse morto.
   Era il campo di mais, il posto dove voleva arrivare. Il granturco era più alto di lei ormai, forse perfino più alto di Neal: voleva infilarsi dentro la sua ombra. Attraversò il cortile con quell'unico pensiero in mente.
Grazie a Dio i cani dovevano essere in casa.
   Non c'era steccato. Il campo andava semplicemente a morire ai margini del cortile. Jinny vi penetrò, seguendo il solco stretto tra due filari. Le foglie le strusciavano braccia e viso come festoni di tela cerata. Dovette levarsi il cappello per evitare che glielo facessero cadere. Ogni fusto aveva la sua pannocchia, come un neonato avvolto in un velo. C'era un odore fortissimo, quasi nauseabondo, di crescita vegetale, di amido verde e di linfa calda.
   Quello che aveva pensato di fare, una volta là dentro, era di sdraiarsi a terra. Sdraiarsi all'ombra di quelle grandi ruvide foglie e non uscire finché non avesse sentito la voce di Neal chiamare il suo nome. Forse

nemmeno allora. Ma i filari erano troppo vicini per consentirglielo, e lei era troppo presa dai suoi pensieri per farci caso. Era furiosa.
   Non per un episodio accaduto negli ultimi tempi. Le era tornata in mente una sera in cui un gruppo di persone sedute sul pavimento del suo salotto - o sala riunioni - faceva uno di quei giochi psicologici molto seri. Di quelli che dovrebbero rendere la gente più sincera e più disponibile. Bisognava dire la prima cosa che ti passava in testa guardando in faccia ciascuno dei presenti. E una signora dai capelli bianchi di nome Addie Norton, un'amica di Neal, le aveva detto: «Mi spiace dirtelo, Jinny, ma ogni volta che vedo te non riesco a pensare ad altro che: Santerellina».
   Jinny non ricordava di aver reagito in alcun modo, al tempo. Forse il gioco non lo prevedeva. Il commento che fece ora, nella sua testa, fu «Perché dici che ti dispiace dirmelo? Hai mai notato che quando qualcuno dice che gli dispiace dire qualcosa, in realtà non vede l'ora di dirla? Non credi che dovendo essere sinceri, questo potrebbe rivelarsi un buon punto di partenza?»
   Non era la prima volta che si rigirava nella mente quella risposta. E che, sempre mentalmente, faceva notare a Neal come quel gioco fosse tutta una farsa. Perché quando arrivava il turno di Addie, forse che qualcuno aveva il coraggio di dirle qualcosa di sgradevole? Oh, no. «Esuberante» la definivano, oppure «Sincera come uno scroscio d'acqua gelata». Avevano paura di lei, ecco tutto.
   Ripetè «Scroscio d'acqua gelata» a voce alta, in tono sarcastico.
   Altre persone le avevano detto cose più gentili. «Fiorellino», oppure «Madonna della sorgente». E pur sapendo che chiunque avesse usato quell'espressione in realtà intendeva «Manon della Sorgente», Jinny non si degnò mai di correggerla. Era furiosa all'idea di doversene stare lì inerme ad ascoltare quello che la gente pensava di lei. Si sbagliavano tutti. Non era né timida, né arrendevole, né spontanea, né pura.
   Una volta morti, ovviamente, simili opinioni sbagliate erano tutto ciò che restava.
   Mentre nella sua testa passavano questi pensieri, Jinny aveva fatto la cosa più semplice che possa succedere in un campo di mais: si era persa. Era passata da un filare a un altro, a un altro ancora, e con ogni probabilità si era confusa. Provò a tornare sui propri passi, ma evidentemente prese la direzione sbagliata. Le nuvole avevano di nuovo coperto il sole, perciò non sapeva dire da che parte fosse l'ovest. E comunque non aveva fatto caso alla direzione, inoltrandosi nel campo, perciò non sarebbe servito a nulla saperlo. Si fermò e riuscì a udire soltanto il fruscio del granturco, e il rumore lontano del traffico.
   Il cuore le batteva come un qualsiasi cuore che abbia davanti a sé anni e anni di vita.
   Poi si aprì una porta, e Jinny sentì i cani abbaiare, Matt che strillava e la porta che si richiudeva sbattendo. Si fece largo tra i fusti e le foglie in direzione di quel rumore.
   E scoprì di non essersi allontanata granché, anzi. Non aveva fatto altro che girare incespicando in un ben ridotto angolo del campo.
   Matt le fece un cenno con la mano e tenne a bada i cani.
- Niente paura, niente paura, - disse. Si dirigeva come lei al furgone, anche se da un punto di partenza diverso. Mentre si avvicinavano l'uno all'altra, abbassò la voce fino a raggiungere un tono quasi confidenziale.
- Perché non è venuta a bussare?
   Credeva che fosse andata nel campo a fare pipì.
- Ho detto a suo marito che venivo a vedere se stava bene.    Jinny disse: - Sto bene. Grazie -. Montò sul furgone, ma lasciò la portiera aperta. Avrebbe potuto offenderlo se l'avesse chiusa. E poi, si sentiva troppo debole.    - Deve vedere come si è spazzolato quel chili.
   Di chi stava parlando?
   Di Neal.
   Jinny tremava e sudava e aveva un ronzio nella testa, come se qualcuno pizzicasse una corda tesa tra le sue orecchie.
- Posso portargliene un po' qua fuori, se le va.
   Scosse la testa, con un sorriso. Lui levò in aria la bottiglia di birra, in una specie di saluto militare.
- Qualcosa da bere?
   Scosse di nuovo la testa, sempre sorridendo.
- Nemmeno un po' d'acqua? Abbiamo acqua buona, da queste parti.
- No grazie.
   Se si fosse voltata a guardare il suo ombelico viola, le sarebbe venuta la nausea.
- La sa quella di quel tale, - fece lui, cambiando voce, per assumere un tono scanzonato, ridanciano. - Quel tale che esce di casa con in mano un ferro di cavallo e suo padre gli chiede, Dove vai con quel ferro di cavallo?
   E lui fa: Vado a cercare un cavallo.
   Non penserai di prendere un cavallo con un ferro di cavallo.
   L'indomani, il figlio ritorna con il più bel cavallo mai visto. Guarda qui il mio cavallo, dice. E lo mette nella stalla.
   Non voglio darle un'impressione sbagliata. Non dobbiamo lasciarci prendere dall'ottimismo. Ma si direbbe che abbiamo ottenuto dei risultati insperati.
- Il giorno dopo il padre lo vede uscire di nuovo di casa. Questa volta il figlio marcia facendo il passo dell'oca. E adesso dove stai andando?
   Be', ho sentito mamma dire che per cena le sarebbe piaciuta un'oca.
   Ma sei tutto scemo? Credi di prendere un'oca facendo il passo dell'oca?
   Aspetta e vedrai.
   L'indomani il figlio ritorna con una bella oca grassa sotto il braccio.
   Sembra che la massa si sia notevolmente ridotta. Come speravamo in effetti, ma a essere sinceri, non ce l'aspettavamo. Non voglio cantare vittoria troppo presto, ma si tratta senz'altro di un segnale positivo.
- Il padre non sa cosa pensare. Non sa più cosa dire.
   La sera dopo, vede suo figlio uscire di casa con un fascio d'erba sotto il braccio.
   Un segnale molto positivo. Non possiamo essere certi che non ci saranno altri problemi in futuro, ma possiamo concederci un cauto ottimismo.
- Che cos'è quell'erba che hai in mano?
   Questa? E’ erba passera.
   Aspetta, fa il padre. Aspetta un momento.
   Solo un minuto, prendo il cappello. Prendo il cappello e vengo con te.
- Questo è troppo, - disse Jinny alzando la voce.
   Nella sua testa si stava rivolgendo al dottore.
- Cosa? - domandò Matt. Gli era calata sul viso un'espressione avvilita e puerile, mentre ancora sghignazzava. - Adesso cosa c'è?
   Jinny scuoteva la testa, premendosi una mano sulla bocca.
- Era solo una barzelletta, - disse lui. - Senza offesa.
   E Jinny: - No, no. Io... no.
   - Non fa niente, torno in casa. Non voglio farle perdere altro tempo -. E le voltò le spalle, senza nemmeno preoccuparsi di portare via i cani.
   Non aveva detto niente del genere al medico. Come avrebbe potuto? Lui non aveva colpa. Però era così. Era troppo. Quello che le aveva detto rendeva le cose molto più difficili. La obbligava a tornare indietro e a ricominciare quell'anno tutto da capo. Eliminava una certa soglia di libertà. Una sottile membrana protettiva della cui esistenza non si era nemmeno accorta fino a quando non gliel'avevano sottratta lasciandola nuda.    La convinzione di Matt che lei fosse andata nel campo per fare pipì, le fece venire in mente che in effetti ne aveva bisogno. Scese dal furgone, trovò l'equilibrio, divaricò bene le gambe e sollevò l'ampia gonna di cotone. Quell'estate aveva preso l'abitudine di portare gonne larghe senza mutande perché non aveva più un controllo perfetto della vescica.
   Un rivolo scuro corse ai suoi piedi in mezzo alla ghiaia. Il sole era calato, si faceva sera. All'orizzonte, cielo sereno; le nuvole si erano dissolte.
   Uno dei cani abbaiò svogliato, per avvisare che stava arrivando qualcuno, ma che era una persona nota.
Quando Jinny era scesa dall'auto, non erano venuti a darle fastidio; ormai si erano abituati alla sua presenza. Si precipitarono incontro al nuovo arrivato senza furia né agitazione.
   Era un ragazzo, o un giovane uomo, in sella a una bicicletta. Svoltò accanto al furgone e Jinny scese per andargli incontro, appoggiando una mano sulla carrozzeria ancora calda, ma sopportabile. Non voleva parlargli proprio accanto alla pozza della sua urina. E forse fu per evitare che rivolgesse anche solo lo sguardo a terra, che parlò lei per prima:
- Salve, - disse. - Sei venuto a consegnare qualcosa?
   Lui rise, saltando giù dalla bici e lasciandola cadere a terra in un unico gesto.
- Io abito qui, - disse. - Torno adesso dal lavoro.
   Jinny pensò che avrebbe dovuto spiegare chi era lei, come mai si trovava lì e da quanto tempo. Ma era troppo complicato. Aggrappata in quel modo al furgone, doveva aver l'aria di una sopravvissuta a un naufragio.
- Sì, abito qui, - proseguì il giovane. - Ma lavoro in un ristorante in città. Da Sammy's.
   Cameriere. Quella camicia bianchissima e i pantaloni neri erano una divisa da cameriere. Aveva anche l'aria paziente e zelante del cameriere.
- Sono Jinny Lockyer, - disse lei. - Helen. Helen è...
- Ah sì, lo so, - disse lui. - Lei è quella da cui Helen andrà a lavorare. E Helen dov'è?
- In casa.
- Nessuno le ha detto di accomodarsi?
   Doveva avere più o meno l'età di Helen, pensò. Diciassette, diciotto anni. Magro, ben fatto e impertinente, con una carica di ingenuo entusiasmo che probabilmente non l'avrebbe portato lontano quanto sperava. Ne aveva già visti altri del genere finire tra i Giovani Detenuti.
   Questo però pareva aver afferrato la situazione. Sembrava avesse capito che lei era esausta e confusa.
- C'è anche June? - chiese lui. - June è mia madre.
   Aveva i capelli come June, a strisce bionde su una radice più scura. Li portava piuttosto lunghi, spartiti in mezzo e sciolti sul collo.
- C'è pure Matt? - chiese.
- E’ mio marito. Sì.
- Che vergogna.
- Oh, no, - disse lei. - Mi hanno chiesto di entrare. Sono stata io a dire che preferivo aspettare qui.    Qualche volta in passato Neal aveva portato a casa un paio di Yo-yo, per farsi aiutare a rasare l'erba in giardino, pitturare qualcosa o sbrigare piccoli lavori di carpenteria. Secondo lui era una bella cosa per loro venire accolti in casa d'altri. Ogni tanto Jinny aveva flirtato con quei ragazzi, in un modo di cui nessuno avrebbe mai potuto accusarla. Giusto un tono di voce gentile, un farli sentire consapevoli della morbidezza di una gonna, del profumo fruttato del sapone che usava. Non era per questo che Neal aveva smesso di portarli in casa. Gli avevano detto che era contrario al regolamento.
- E comunque, da quanto è qui che aspetta?
- Non saprei, - disse Jinny. - Non porto l'orologio.
- Ma davvero? - ribatté lui. - Nemmeno io. Non mi è quasi mai capitato di conoscere qualcuno che non portasse l'orologio. Non l'ha mai portato?
   Jinny rispose: - No. Mai.
- Neanch'io. Mai, mai. Non mi è mai piaciuto. Non so perché. Non l'ho mai voluto. Oltre tutto, mi sembra di sapere sempre lo stesso che ora è. Posso scartare di un paio di minuti. Cinque al massimo. E so sempre dove c'è un orologio. Magari sono in bici, sto andando a lavorare e penso adesso controllo, giusto per sapere l'ora esatta. E so subito qual è il primo posto dove riuscirò a vedere l'orologio del tribunale in mezzo alle case. Non mi sbaglio mai di più di tre o quattro minuti. A volte capita che un cliente mi chieda, Scusi ha l'ora, e io gliela dico. Non si accorgono nemmeno che non ho l'orologio. Poi appena posso vado a controllare, c'è un orologio in cucina. Ma non mi è mai successo di dover tornare indietro a dire che mi ero sbagliato.
- Anch'io ci sono riuscita, qualche volta, - disse Jinny.
- Immagino che se uno non porta mai l'orologio, in effetti sviluppa una specie di sesto senso.
- Infatti, succede proprio così.
- Allora, secondo te adesso che ore sono?
   Lui rise. Alzò gli occhi al cielo.
- Manca poco alle otto. Sei/sette minuti alle otto? Però ho un vantaggio. So a che ora sono uscito dal lavoro e poi sono andato a comprare le sigarette al negozio e mi sono fermato un paio di minuti a parlare con dei ragazzi e poi sono venuto a casa in bici. Lei non abita in città, giusto?    Jinny disse di no.
- E dove abita?
   Glielo disse.
- E’ stanca? Vuole andare a casa? Vuole che entri a dire a suo marito che vuole andare a casa?
- No. Meglio di no, - disse lei.
- Okay. Okay. Non ci vado. Probabile che June stia leggendo il futuro a tutti là dentro. Sa fare le carte.
- Davvero?
- Certo. Viene al ristorante un paio di volte la settimana. Lo fa anche col tè. Legge le foglie del tè.
   Tirò su la bici e la scostò dal passaggio del furgone. Poi guardò dentro attraverso il finestrino del guidatore.    - Ha lasciato le chiavi, - disse. - Allora... vuole che la accompagni a casa? Posso mettere la bici nel retro. Suo marito e Helen possono farsi dare un passaggio da Matt quando hanno finito. E se Matt ha da fare, c'è sempre June. June è mia madre, ma Matt non è mio padre, lei non guida, giusto?
- No, - disse Jinny. Non guidava da mesi.
- No. Mi pareva. D'accordo allora? Le va?
- Facciamo una strada che conosco io. Vedrà: non ci mettiamo di più che a prendere la statale.    Non avevano superato la zona lottizzata. In effetti si erano diretti dalla parte opposta, imboccando una strada che pareva girare intorno alla cava. Se non altro ora viaggiavano verso ovest, verso la parte più luminosa del cielo. Ricky - così le aveva detto di chiamarsi - non aveva acceso le luci.
- Non c'è pericolo che incontriamo qualcuno, - disse. - Non credo di aver mai incontrato una sola macchina su questa strada, mai. E che siamo in pochissimi a sapere che esiste.
- E poi se accendo le luci adesso, - aggiunse, - il cielo diventa buio e diventa tutto scuro e non si vede più dove siamo. Diamogli ancora un momento, e quando incominciamo a vedere le stelle, allora sì, accendiamo le luci.
   Il cielo era una specie di vetro colorato rosso pallido, giallo, verde o azzurro a seconda del punto in cui si guardava.
- Niente in contrario?
- No, - disse Jinny.
   Una volta accese le luci, alberi e cespugli sarebbero diventati neri. Sarebbero rimasti solo dei ciuffi neri lungo la strada e la massa scura di alberi indistinti alle loro spalle, anziché, come adesso, il singolo abete rosso ancora riconoscibile e il cedro e la nuvola d'aghi del larice e la pianta del vetro con i suoi fiori simili a bocche di fuoco ammiccanti. Sembrava di poterli toccare, e procedevano lenti. Jinny mise fuori una mano.
   Non proprio. Ma poco mancava. La strada non sembrava molto più larga del furgone.    Le parve di scorgere il luccichio di un fossato più avanti.
- C'è dell'acqua laggiù? - chiese.
- Laggiù? - disse Ricky. - Laggiù, come dappertutto. C'è acqua su tutti e due i lati e in parecchi punti, anche sotto di noi. Vuole vedere?
   Rallentò. Si fermò. - Guardi di lato, - disse. - Apra la portiera e guardi.
   Così facendo Jinny scoprì che erano su un ponte. Un piccolo ponte non più lungo di tre metri, fatto d'assi trasversali. Niente parapetto. E acqua immobile sotto di loro.
- Sono tutti ponti qui, - disse il ragazzo. - E dove non sono ponti, sono fossi. Perché l'acqua va avanti e indietro sotto tutta la strada. Oppure se ne sta ferma senza scorrere da nessuna parte.
- Quanto è alta?
- Non tanto. Non in questa stagione. Almeno finché non arriviamo allo stagno grande, là è più fonda. E in primavera invade tutta la strada, non si può più passare, allora sì che è alta. Questa strada corre in pianura per miglia e miglia, dritta da un capo all'altro. Mai un incrocio. E’ la sola via che conosco sulla Palude del Borneo.
- Palude del Borneo? - ripetè Jinny.
- E’ così che dovrebbe chiamarsi.
- Esiste un'isola con quel nome, - disse lei. - Sta dall'altra parte del mondo.
- Mai sentito parlare. Io so soltanto della Palude del Borneo.
   C'era una striscia di erba scura adesso, a segnare la mezzavia.
- E’ ora di accendere le luci, - disse lui. Appena lo fece, si ritrovarono in un tunnel di notte improvvisa.    - Una volta ho acceso le luci, - disse. - Come adesso, e c'era un porcospino. Fermo in mezzo alla strada. Se ne stava ritto sulle zampe di dietro e mi guardava fisso. Come un vecchietto. Aveva talmente paura che non riusciva a muoversi. Gli vedevo i dentini gialli tremare.
   Jinny pensò: E’ qui che porta le ragazze.
- E allora, che faccio? Provo a dare un colpo di clacson e quello, niente. Non avevo voglia di scendere e farlo scappare. Era spaventato, ma era pur sempre un porcospino e avrebbe potuto attaccarmi. Perciò ho parcheggiato. Non avevo fretta. Quando ho riacceso le luci, non c'era più.
   Ora i rami erano davvero vicinissimi e strusciavano contro la portiera, ma se c'erano anche fiori, Jinny non riusciva a vederli.
- Voglio mostrarle una cosa, - disse lui. - Voglio mostrarle una cosa che scommetto non ha mai visto prima.
   Se tutto questo fosse successo nella sua vita normale di un tempo, forse a quel punto avrebbe incominciato ad avere paura. Ma nella sua vita normale di un tempo lei non si sarebbe mai trovata lì.
- Vuoi mostrarmi un porcospino, - disse.
- Ah, ah. Non è quello. E’ una cosa ancora più rara dei porcospini. Almeno per quanto ne so io.
   Dopo più o meno un chilometro, il giovane spense le luci.
- Vede le stelle? - disse. - Lo dicevo io. Stelle.
   Fermò il furgone. Intorno, ci fu prima di tutto un profondo silenzio. Poi in quel silenzio cominciò a riversarsi un ronzio, forse del traffico in lontananza, e piccoli rumori che svanivano prima ancora di essere uditi davvero, magari di predatori notturni o rapaci o pipistrelli.
- Se vieni qua in primavera, - disse lui, - non senti altro che le rane. Fanno un baccano che sembra di diventare sordi.
   Aprì la portiera dal suo lato.
- Allora. Scenda e venga con me.
   Jinny obbedì. Procedette in uno dei solchi delle ruote, e lui nell'altro. Il cielo sembrava schiarirsi più avanti, e cambiava anche il rumore: era come un vociare cadenzato e tenue.    La strada diventò di legno e non c'erano più alberi sui due lati.
- Vada avanti, - disse lui. - Su.
   Si avvicinò e le sfiorò la vita come se volesse guidarla. Poi ritrasse la mano e la lasciò camminare su quelle assi che parevano il ponte di una barca. E come il ponte di una barca andavano su e giù. Ma non era il moto di un'onda a causare la lieve oscillazione sulle tavole di legno, bensì i loro passi, i suoi e quelli di lui.
- Adesso, lo sa dov'è? - le chiese.
- Su un molo? - rispose lei.
- Su un ponte. Questo è un ponte galleggiante.
   Finalmente capiva: la strada di legno appena pochi centimetri sopra il pelo dell'acqua. La tirò da una parte e guardarono giù. C'erano delle stelle a galla sulla palude.
- Che acqua scura, - disse lei. - Voglio dire, non solo perché è notte.
- E’ sempre scura, - fece lui orgoglioso. - Perché è una palude. C'è dentro la stessa roba che c'è nel tè, e infatti sembra tè nero.
   Jinny intravedeva il contorno della riva e i canneti. Acqua tra le canne, uno sciacquettio d'acqua, ecco cos'era quel rumore.
- Tannino, - esclamò il ragazzo, pronunciando la parola con fierezza, come se l'avesse strappata al buio circostante.
   Il lieve moto del ponte le fece immaginare che tutti quegli alberi come pure le canne crescessero su dischi di terra e che la strada fosse un nastro di terra affiorante sotto cui si stendeva una vastità d'acqua. Che sembrava fermissima, ma non doveva esserlo, in effetti, perché se cercavi di guardare fisso un'unica stella, ti accorgevi di quanto fremesse cambiando forma e svanendo alla vista. Per poi ritornare, ma forse non era la stessa.
   Fu solo in quel momento che Jinny si rese conto che non aveva il cappello. Non solo non l'aveva in testa, ma non era neppure in macchina. Non l'aveva più addosso da quando era scesa per fare la pipì e poi si era messa a parlare con Ricky. Non l'aveva nemmeno quando si era seduta in macchina con la testa appoggiata al sedile e gli occhi chiusi, mentre Matt le raccontava la barzelletta. Doveva esserle caduto nel campo di mais, e nella confusione doveva averlo lasciato là.
   Mentre lei si preoccupava di non guardare la protuberanza dell'ombelico di Matt, con la maglietta viola incollata dal sudore, lui non aveva fatto caso alla sua boccia glabra.
- Peccato che non ci sia ancora la luna, - disse Ricky. – E’ proprio bello qui quando c'è la luna.
- E’ bello anche così.
   Le passò le braccia intorno alla vita come se fosse un gesto più che naturale e come se avesse a disposizione tutto il tempo del mondo. La baciò sulla bocca. A Jinny quella sembrò la prima volta che le capitava di essere coinvolta in un bacio che era un evento in sé. L'intera vicenda, in sé e per sé. Il prologo delicato, la stretta sapiente, l'osare e il ricevere disinvolti, l'indugio di un grazie, il ritirarsi appagato.
- Oh, - disse il giovane. - Oh.
   La fece girare, e ripercorsero il tratto di strada.
- Allora, era la prima volta che camminava su un ponte galleggiante?
   Lei disse di sì.
   Le prese la mano e gliela fece ondeggiare come se volesse lanciarla in aria.    - E per me è la prima volta che bacio una donna sposata.
- Probabilmente ne bacerai parecchie, - disse lei, - prima di dire basta.
   Lui sospirò. - Eh già, - disse. Era stupito e serio all'idea di tutto ciò che lo aspettava. - Sì, è probabile.    All'improvviso Jinny si ricordò di Neal, là sulla terra ferma. Neal, frastornato e dubbioso, nell'atto di aprire la mano e mostrarla alla donna coi capelli striati, la chiaroveggente. Neal, in bilico sul suo destino.
   Non importava.
   Quello che provava era una specie di leggerezza indulgente, quasi una voglia di ridere. Un fremito di affettuosa ilarità, che ebbe la meglio su tutto il dolore e il senso di vuoto, per il momento. ***

Mobili di famiglia.
   Alfrida. Mio padre la chiamava Freddie. Erano cugini e avevano abitato in due fattorie vicine, poi, per un certo periodo, nella stessa. Una volta erano fuori, in un campo di stoppie, a giocare con il cane di mio padre, che si chiamava Mack. Il sole, quel giorno, non riusciva a sciogliere il ghiaccio in mezzo ai solchi. Loro due lo pestavano per sentire il bel rumore che faceva sotto i piedi.
   Figurati se si ricorda una cosa del genere, disse mio padre. Se l'è inventata, aggiunse.    - Non è vero, - disse lei.
- Invece sì.
- Invece no.
   Tutt'a un tratto udirono le campane suonare a distesa, le sirene fischiare. Suonavano insieme quelle del municipio e quelle della chiesa. E le sirene della fabbrica a cinque chilometri da lì. Il mondo si spalancava alla gioia, e Mack scappò sulla strada, sicuro che stesse arrivando la banda. Era la fine della prima guerra mondiale.
   Tre volte la settimana leggevamo il nome di Alfrida sul giornale. Soltanto il nome: Alfrida. Era stampato in corsivo, come se fosse scritto a mano: uno svolazzo di firma a penna stilografica. Un Giro in Città, con
Alfrida. La località in questione non era il piccolo centro vicino, ma la città vera e propria, a sud, dove Alfrida abitava e dove la mia famiglia si recava più o meno ogni due o tre anni.
   E’ giunto il momento che tutte voi, prossime spose di giugno, vi affrettiate a manifestare le vostre preferenze alla Cristalliera; e vi confesso che se fossi anch'io una futura sposina - che purtroppo non sono - non cambierei con un qualsiasi servizio da tavola decorato, per quanto prezioso, il bianco perlaceo dell'ultramoderno Rosenthal...
   I trattamenti cosmetici lasciano spesso il tempo che trovano, ma le maschere di bellezza del salone Vantine's vi garantiscono - a proposito di spose - una pelle da fiori d'arancio. Quanto alle madri della sposa - e naturalmente le zie e, perché no, anche le nonne - si sentiranno come dopo un tuffo nella Fontana della Giovinezza...
   Da come parlava Alfrida, non si sarebbe mai immaginato che potesse scrivere così.
   Era anche una delle persone che pubblicavano col nome di Flora Simpson sulla Pagina della Massaia di Flora Simpson. Donne di tutta la zona erano convinte di scrivere lettere alla paffuta signora dagli ondulati capelli grigi e dal sorriso indulgente la cui fotografia occupava l'angolo in alto della pagina. La verità - quella che mi si chiedeva di non rivelare - era che i commenti a fondo lettera erano opera di Alfrida e di un tale che lei chiamava Horse Henry e che di solito si occupava di necrologi. Le donne si attribuivano nomi come Stella del Mattino, Mughetto, Pollice Verde, Piccola Annie o Principessa degli Stracci. Certi nomi erano così ricorrenti da costringere la redazione a numerarli: Ricciolidoro 1, Ric- ciolidoro 2, Ricciolidoro 3.    Cara Stella del Mattino, scrivevano Alfrida o Horse Henry, l'eczema è davvero un tormento, specie con il caldo torrido di questi giorni, e spero che il bicarbonato ti dia sollievo. Le cure domestiche godono di tutto il nostro rispetto, ma chiedere consiglio al proprio medico curante non fa mai male. La notizia che il tuo maritino è in piedi e in salute è fantastica. Non deve essere stato facile ritrovarsi tutti e due fuori uso...    Nei piccoli centri di quella parte dell'Ontario, le massaie iscritte al Club Flora Simpson organizzavano ogni anno un picnic estivo. Flora spediva immancabilmente un saluto speciale, ma spiegava che erano troppe le occasioni perché potesse presenziare a tutte e che non le andava di fare preferenze. Alfrida raccontava che si era parlato di mandarci Horse Henry travestito, con parrucca e tette di gomma piuma, o magari lei stessa in maliziosa tenuta da Strega di Babilonia (nemmeno lei, in casa dei miei genitori, era in grado di citare la Bibbia correttamente e di dire «Meretrice»), con una cicca incollata al rossetto. Solo che, aggiunse, al giornale mi ucciderebbero. E poi, comunque, sarebbe un dispetto tremendo.
   Chiamava sempre cicche le sigarette. Una volta, quando avevo quindici o sedici anni, si sporse sul tavolo e mi chiese: - Non andrebbe anche a te una cicca? - Avevamo finito di mangiare, e mio fratello e sorella minori si erano già alzati da tavola. Mio padre scosse la testa. Si mise ad arrotolare una sigaretta delle sue.
   La ringraziai e le permisi di accendermi la cicca, e per la prima volta fumai in presenza dei miei genitori.
   Finsero di trovare la cosa molto divertente.
- Ehi, ma da' un'occhiata a tua figlia, - disse mia madre a mio padre. Alzò gli occhi al cielo e si batté le mani sul petto parlando con un filo di voce languida e innaturale. - Roba da matti.
- Sarà meglio che tiri fuori la frusta, - ribatté mio padre, facendo l'atto di alzarsi.
   Fu un momento straordinario, come se Alfrida ci avesse trasformati in persone nuove. Di norma, mia madre avrebbe detto che non le piaceva vedere una donna fumare. Non arrivava a definire la cosa indecente o sguaiata, ma sosteneva che non era di suo gusto. E quando adottava quel tono particolare per dirmi che qualcosa non le andava a genio, non sembrava ammettere una propria illogica antipatia, ma al contrario attingere a una fonte di personale saggezza, inattaccabile e pressoché sacra. Ed era proprio quando sfoderava quel tono, con l'annessa espressione di ascolto estatico di una voce interiore, che la detestavo di più.    Quanto a mio padre, mi aveva picchiata, in quella stessa stanza, non con la frusta ma con la cinta dei pantaloni, per aver disubbidito a mia madre, per averla fatta soffrire e per averle risposto male. Ma in quel momento parve che botte del genere potessero verificarsi solo in un altro universo.
   I miei genitori erano stati messi alle corde da Alfrida - e anche da me - ma avevano reagito con tanto garbato coraggio da far pensare davvero che tutti e tre - mia madre, mio padre e io - avessimo raggiunto un livello superiore di disinvoltura e di aplomb. In quell'istante riuscii a vederli - mia madre in particolare - come esseri capaci di una sorta di inaudita spensieratezza.
   E tutto per merito di Alfrida.
   Di Alfrida si parlava sempre come di una ragazza ambiziosa. Questo la faceva apparire ai miei occhi più giovane dei miei genitori, benché sapessi che aveva più o meno la loro età. Si diceva anche che fosse una cittadina. Intendendo per città la metropoli in cui lavorava e abitava, ma anche qualcos'altro; non solo l'agglomerato di edifici e di strade marciapiedi e tramvai, e neppure soltanto l'affollarsi di una massa di individui. Ci si riferiva a un concetto più astratto e ripetibile all'infinito, qualcosa di analogo all'irrequieta funzionalità di un alveare, non precisamente inutile o illecita, ma inquietante e talvolta pericolosa. La gente vi si recava quando non poteva farne a meno, ed era sempre felice di andarsene. Non mancava tuttavia chi ne era attratto - come doveva essere capitato ad Alfrida tanto tempo prima, e come ora succedeva a me, mentre tiravo boccate di fumo da una sigaretta che cercavo di maneggiare con spregiudicata disinvoltura, anche se tra le mie dita pareva aver assunto le dimensioni di una mazza da baseball.
   I miei non avevano una vita sociale: a casa nostra nessuno era mai invitato a pranzo, figuriamoci a una festa. Questione di classe, suppongo. I genitori del giovane che sposai circa cinque anni dopo l'episodio della sigaretta a tavola invitavano a cena persone estranee alla famiglia, e frequentavano certe feste pomeridiane che senza pudore definivano cocktail party. Conducevano una vita come quelle di cui avevo letto sui rotocalchi, il che mi pareva collocarli in un mondo di privilegi fiabeschi.
   In casa mia ci si limitava ad aggiungere un asse di legno al tavolo della sala da pranzo due o tre volte l'anno per intrattenere la nonna, le zie - sorelle maggiori di papà - e i loro mariti. Lo facevamo a Natale e per il giorno del Ringraziamento, quando toccava a noi, e anche quando un parente veniva a trovarci da un'altra zona del paese. L'ospite era immancabilmente qualcuno che assomigliava molto alle zie e ai loro mariti, e mai neanche un po' ad Alfrida.
   Mia madre e io cominciavamo a spignattare per quei pranzi un paio di giorni prima. Stiravamo la tovaglia buona, pesante come un copriletto, e lavavamo i piatti del servizio, dimenticati nella credenza a raccogliere polvere; preparavamo gelatine, crostate e torte da servire insieme ai piatti forti - tacchino arrosto o prosciutto al forno - e a grandi ciotole di verdure. Doveva esserci decisamente troppo da mangiare, e i discorsi a tavola dovevano vertere per lo più sul cibo, con gli ospiti che ripetevano quanto fosse squisito e che, sollecitati a prenderne ancora, giuravano di non potercela fare, sazi com'erano, per poi cedere a un bis, gli uomini, e prenderne ancora un boccone, le zie, dicendo che non avrebbero proprio dovuto, che si sentivano scoppiare.
   E dire che ancora non era arrivato il dolce.
   Mancava quasi del tutto il concetto di conversazione generica, anzi si aveva il sospetto che chiunque superasse certi limiti impliciti volesse creare scompiglio al solo scopo di mettersi in mostra. Mia madre non disponeva di un'adeguata consapevolezza di questi limiti, e qualche volta si dimostrava incapace di rispettare le debite pause e di assecondare le attese dell'interlocutore. Perciò, se qualcuno diceva: «Ieri ho incontrato Harley in piazza», lei poteva uscirsene con un: «Secondo voi uno come Harley non si sposerà mai? O pensate che debba ancora incontrare la persona giusta?»
   Come se, una volta nominata una persona, ci si sentisse in dovere di aggiungere sul suo conto qualcosa di interessante.
   A quel punto poteva calare il silenzio, non perché gli ospiti intendessero mostrarsi scortesi, ma perché si sentivano a disagio. Fino a quando mio padre non diceva imbarazzato, come lanciandole un rimprovero indiretto: «A me pare che se la cavi benone da solo».
   In assenza dei suoi parenti avrebbe probabilmente evitato l'uso del colloquiale «benone».
   E tutti riprendevano a tagliare, sorbire, ingoiare, illuminati dal candore abbacinante della tovaglia fresca di bucato, mentre la luce violenta entrava a fiotti dai vetri appena puliti. I pranzi avvenivano sempre in pieno giorno.
   I convitati erano perfettamente in grado di sostenere una conversazione. Lavando e asciugando i piatti, in cucina, le zie raccontavano di chi aveva un tumore, chi un'infezione alla gola, e chi una brutta orticaria. Dissertavano sul funzionamento del proprio apparato digerente, dei reni e del sistema nervoso. Nessun riferimento, per quanto intimo, a problemi corporali pareva mai sconveniente o sospetto quanto l'accenno a qualcosa che si fosse letto sul giornale o sentito in un notiziario; era in qualche modo scorretto prestare attenzione a qualunque aspetto non pratico della vita. Frattanto, seduti in veranda o nel corso di brevi passeggiate per dare un'occhiata al raccolto, i mariti delle zie potevano passarsi la notizia che qualcuno era finito in cattive acque con la banca, o che ancora era pieno di debiti per l'acquisto di una macchina costosa, o che aveva investito in un toro da monta non all'altezza delle aspettative.
   Chissà, forse si sentivano in soggezione per la solennità della sala da pranzo, la presenza dei piattini per il pane e burro e dei cucchiai da dolce, quando era loro abitudine appoggiare semplicemente la fetta di torta sul piatto del secondo dopo averlo pulito col pane. (E d'altra parte sarebbe stato offensivo non apparecchiare per bene. Anche in casa loro, in occasioni analoghe, avrebbero imposto agli ospiti la medesima procedura). O forse era solo che una cosa è mangiare, e un'altra chiacchierare.
   Quando veniva Alfrida era tutto diverso. Si metteva la tovaglia bella e si tiravano fuori i piatti del servizio. Mia madre si affannava a cucinare e si preoccupava moltissimo del risultato - magari mettendo da parte il solito menu a base di tacchino ripieno e purè di patate per darsi a qualcosa di strano, tipo insalata di pollo servita con uno sformato di riso ai pimientos, seguita da un dolce che prevedeva gelatine, albumi a neve e panna montata, e che impiegava un'eternità a rassodarsi in ghiacciaia, prima di essere messo al fresco in cantina. Ma il senso di costrizione, la cappa opprimente a tavola, non c'erano mai. Non solo Alfrida accettava seconde porzioni; le chiedeva. E lo faceva quasi distrattamente, come distrattamente si complimentava per il cibo, quasi considerasse il pasto in sé un piacere secondario rispetto a quello primario di conversare e ascoltare gli altri; tanto che, di qualunque cosa mi venisse voglia di parlare, avevo la sensazione che le stesse bene.
   Veniva sempre a trovarci in estate, e di solito aveva addosso dei prendisole di seta a righe, sbracciati e che le lasciavano nuda metà della schiena. Non aveva una bella schiena, piena com'era di piccoli nei, e le spalle ossute, e il petto praticamente piatto. Mio padre diceva sempre che poteva mangiare come un lupo e rimanere magrissima. Oppure capovolgeva la verità, sottolineando come, nonostante mangiasse come un uccellino, si fosse rimpannucciata ben bene di lardo. (In casa nostra non era considerato sconveniente fare commenti sul peso, o sul colorito, o sulla calvizie della gente).
   Portava i capelli bruni gonfi intorno al viso, secondo la moda di allora. Aveva la pelle piuttosto scura, attraversata da un reticolo sottile di rughe, e la bocca grande, dal labbro inferiore più spesso, quasi cascante, dipinta di un rosso vivace con cui macchiava la tazza del tè e il bicchiere dell'acqua. Quando la spalancava - come faceva di continuo, parlando e ridendo - si vedeva che in fondo le mancava qualche dente.
   Nessuno l'avrebbe mai definita bella; per me, del resto, qualsiasi donna dopo i venticinque anni si era ormai lasciata alle spalle ogni possibilità, ogni diritto e forse perfino ogni desiderio di esserlo. Ma era febbrile e impetuosa. Tutta pepe, come diceva mio padre con aria assorta.
   Alfrida con lui parlava delle cose del mondo, di politica. Mio padre leggeva il giornale, ascoltava la radio, aveva le sue idee, ma gli capitava di rado l'occasione di discuterne. Anche i mariti delle zie avevano idee, ma laconiche, e intramontabili, e si esprimevano in eterna sfiducia verso ogni figura pubblica specie se forestiera, cosicché quello che usciva loro di bocca era al massimo qualche borbottio diffidente. Mia nonna era sorda: nessuno poteva dire quanto fosse informata né cosa pensasse di ogni questione, e quanto alle zie, parevano piuttosto orgogliose della loro diffusa ignoranza e scontata disattenzione. Mia madre era stata maestra, e non avrebbe fatto fatica a riconoscere su una carta geografica tutti gli stati d'Europa, ma vedeva le cose in un'ottica personale, che dilatava l'Impero britannico e la famiglia reale come la luce di un faro e riduceva il resto a un ammasso caotico indegno di nota.
   Le idee di Alfrida non erano poi tanto diverse da quelle degli zii. Almeno apparentemente. Ma anziché grugnire e liquidare il discorso, lei sbottava nella sua sonora risata, e raccontava aneddoti su primi ministri e sul presidente americano e su John L. Lewis e sul sindaco di Montreal - aneddoti nei quali facevano tutti invariabilmente ben magre figure. Ne raccontava anche sulla famiglia reale, ma in quel caso distingueva tra i buoni, come il re e la regina e la splendida Duchessa di Kent, e i cattivi, come i Windsor e il vecchio re Edoardo che - secondo lei - aveva quel certo male e che aveva lasciato i segni sul collo di sua moglie tentando di strangolarla, per questo ora lei doveva portare sempre numerosi giri di perle. Questa distinzione coincideva abbastanza con il parere di mia madre, sebbene espresso molto di rado, perciò lei non sollevava obiezioni, anche se l'accenno alla sifilide la imbarazzava un po'.
   Io ne sorridevo, con il fare temerario di chi la sa lunga.
   Alfrida inventava nomi ridicoli per i russi. Mikoyanskij. Zio Joeskij. Era convinta che volessero foderare gli occhi del mondo di pelle di salame, e che le Nazioni Unite fossero una burletta che non avrebbe mai funzionato, e che il Giappone si sarebbe risollevato, dato che non l'avevano annientato quando ce n'era stata l'occasione. Non si fidava nemmeno del Quebec. Né del papa. Aveva anche un problema personale con il senatore McCarthy: avrebbe voluto stare dalla sua parte, ma il fatto che fosse cattolico la bloccava. Chiamava il papa popò. La affascinava il pensiero di quanti cialtroni e canaglie ci fossero al mondo.
   Certe volte pareva volesse solo far scena, forse per prendere in giro mio padre. Per mandarlo in bestia, come diceva lui, per esasperarlo. Ma non per fargli dispetto, e nemmeno per il piacere di metterlo a disagio. Anzi. Non è escluso che lo tormentasse come fanno le ragazzine con i compagni di scuola, quando litigare è fonte di garantito piacere da entrambe le parti e gli insulti nascondono dei complimenti. Mio padre discuteva con lei senza mai alzare la voce, ma era evidente che gli piaceva provocarla. Certe volte cambiava bandiera all'improvviso, dicendo che forse aveva ragione lei - che forse lavorando al giornale raccoglieva informazioni per lui irraggiungibili. Mi hai proprio convinto, diceva, se fossi un uomo di buonsenso dovrei ammettere che ti sono grato. E lei ribatteva, Non rifilarmi tutte 'ste balle.
   - Voi due, - interveniva mia madre, fingendosi disperata, o forse veramente esausta, e Alfrida allora le consigliava di andare a sdraiarsi: se lo meritava, dopo quel pranzo coi fiocchi; io e lei intanto ci saremmo occupate dei piatti. Mia madre andava soggetta a un tremore al braccio destro, un indolenzimento alle dita, che pensava si manifestasse quando era particolarmente stanca.
   Mentre rigovernavamo in cucina Alfrida mi parlava di varie celebrità: attori, stelle del cinema di secondo piano, di passaggio nella città dove lei abitava. Con la voce roca ancora spezzata da scoppi di risa dissacranti, mi raccontava dei loro comportamenti discutibili, e dei piccoli scandali finiti sulle pagine dei rotocalchi.
Parlava di checche, di seni rifatti, di triangoli sentimentali - tutte cose in cui mi ero già imbattuta leggendo, ma che mi mandava in visibilio ritrovare nella vita vera, anche se in base a testimonianze di terza o quarta mano.
   I denti di Alfrida catturavano invariabilmente la mia attenzione, al punto che mi capitava di perdere il filo dei suoi discorsi anche più confidenziali. I denti rimasti, quelli davanti, erano ciascuno di un colore leggermente diverso dall'altro, non ce n'erano due uguali. Alcuni, dallo smalto abbastanza robusto, tendevano all'avorio scuro, altri erano opalescenti, con sfumature lilla, e si accendevano di luccichii argentei intorno alla corona, talvolta anche di un bagliore dorato. In quei giorni era raro che i denti delle persone offrissero uno spettacolo compatto e gradevole come succede oggi, a meno che non fossero falsi. Ma i denti di Alfrida erano insoliti per la singolarità di ognuno e per le dimensioni. Quando pronunciava una battuta sarcastica volutamente provocatoria, quei denti parevano balzare in avanti come sentinelle a guardia di un palazzo, come grotteschi alabardieri.
- In effetti ha sempre avuto dei problemi con i denti, - dicevano le zie. - Ti ricordi quando le era venuto quell'ascesso? L'infezione si era sparsa dappertutto.
   Com'era da loro, pensavo, liquidare così il genio e lo stile di Alfrida, trasformando i suoi denti in un banale problema.
- Chissà perché non se li fa togliere e non la fa finita una volta per tutte, - dicevano.
- Probabile che non se lo possa permettere, - replicava mia nonna, sorprendendo tutti quanti, come a volte succedeva, con la conferma di aver seguito gli sviluppi dell'intera conversazione.
   E sorprendendo me con quella luce nuova e ordinaria che gettava sulla vita di Alfrida. Ero sempre stata convinta che Alfrida fosse ricca - almeno in confronto al resto della famiglia. Abitava in un appartamento - io non l'avevo mai visto, ma ai miei occhi il fatto in sé trasmetteva un concetto di vita raffinatissima -, non indossava abiti fatti in casa, e le sue scarpe non erano basse e stringate come quelle di praticamente tutte le donne adulte di mia conoscenza; erano sandali moderni fatti di strisce colorate di plastica. Difficile dire se mia nonna esprimesse soltanto un concetto dei tempi andati, quando la spesa per la dentiera rappresentava un momento solenne e cruciale dell'esistenza, o se fosse al corrente di episodi della vita di Alfrida che io non avrei mai nemmeno potuto immaginare.
   Gli altri membri della famiglia non c'erano mai, quando Alfrida veniva a pranzo da noi. Lei andava a trovare la nonna, che era sua zia, sorella della madre. La nonna non stava più a casa sua, ma a turno in casa di una delle zie, e Alfrida le faceva visita a seconda di dove sapeva di trovarla, però allora escludeva l'altra zia, che pure era sua cugina non meno di mio padre. E a pranzo non si fermava mai da nessuna delle due. Di solito passava prima da noi e poi si decideva ad andare a fare la sua visita, come se non ne avesse voglia. Quando tornava, e ci mettevamo a tavola, non esprimeva mai giudizi apertamente negativi sulle zie o sui loro mariti, e meno che mai commenti irrispettosi nei riguardi della nonna. Anzi, era proprio il modo in cui la sentivo parlare della nonna - quel tono improvvisamente serio e preoccupato, perfino un po' ansioso (come andava la pressione, era stata dal medico di recente, che cosa le aveva detto?) - a farmi percepire la differenza, la freddezza e la scarsa cordialità con la quale chiedeva notizie degli altri. Alle sue domande rispondeva mia madre con analoga reticenza, o mio padre con un eccesso di serietà - o per meglio dire, di seriosità -, che dimostravano quanto fossero tutti d'accordo su qualche cosa che non potevano dire.    Il giorno in cui fumai quella sigaretta, Alfrida decise di spingersi un tantino oltre, e sentenziò: - E che mi dite di Asa? Sempre il solito inguaribile chiacchierone?
   Mio padre scosse la testa, come se il pensiero della loquacità di mio zio potesse travolgerci.
- Come no? - disse. - Come no?
   Allora colsi la mia occasione.
- Sembra proprio che i maiali si siano beccati i vermi, - dissi. - Sì, sì.
   A parte il «Sì, sì», erano le parole esatte di mio zio, pronunciate a quel tavolo, come provocate da un'insolita urgenza di rompere il silenzio o di comunicare qualcosa di fondamentale che gli aveva appena attraversato la mente. E le riferii con la stessa solenne ringhiosità, con lo stesso composto candore.
   Alfrida diede in una fragorosa risata di approvazione, sfoderando i dentoni allegri. - Preciso, è proprio lui.    Mio padre si chinò sul piatto, come per nascondere che stava ridendo anche lui, senza riuscirci, ovviamente, e mia madre scosse il capo, mordendosi le labbra in un sorriso teso. Mi godevo il trionfo. Nessuno mi rimise a posto, nessun rimprovero per quello che certe volte veniva definito sarcasmo, la mia smania di fare la furba. Furbo era un aggettivo che, in casa, usato in riferimento a me, poteva significare in gamba - e allora lo si pronunciava con cupa parsimonia: «Oh, quando vuole la furbizia non le manca... » - oppure insolente, villana, irrispettosa. Non fare la furba, sai?
   A volte mia madre diceva: - Tu hai una lingua tremenda.
   A volte - ed era assai peggio - mio padre non si capacitava di me.
   - Che cosa ti fa pensare di avere il diritto di prendertela con le persone per bene?
   Quel giorno non accadde nulla di simile - sembrava che io godessi della stessa libertà di un ospite a tavola, di Alfri- da quasi, e che potessi esprimermi sotto il generoso vessillo della mia personalità.
   Ma stava per spalancarsi un abisso, e forse quella fu proprio l'ultima volta che Alfrida sedette alla nostra tavola. Continuammo a scambiarci gli auguri a Natale, perfino qualche lettera - fino a quando mia madre fu in grado di tenere in mano una penna -, e leggevamo sempre il nome di Alfrida sui giornali, ma non riesco a ricordare una sola visita negli ultimi due anni che trascorsi a casa.
   E’ possibile che Alfrida avesse chiesto il permesso di portare il suo amico e che le fosse stato negato. Se già abitavano insieme, quella poteva essere una ragione, e se lui era lo stesso uomo con cui restò in seguito, il fatto che fosse sposato poteva essere un'altra. Su questo fronte, i miei si sarebbero trovati in accordo. Mia madre aveva orrore del sesso libero o trasgressivo - del sesso tout court, diciamo, visto che quello lecito tra marito e moglie non era riconosciuto come tale -, e anche mio padre in quel periodo della vita giudicava certe cose con occhio severo. Inoltre poteva avere speciali riserve nei riguardi di un uomo che avesse messo le mani su Alfrida.
   Ai loro occhi Alfrida doveva aver perso la dignità. Me li posso immaginare, sia uno che l'altra, a dire:
Chissà perché ha dovuto scendere così in basso.
   Ma è anche possibile che non avesse chiesto un bel niente, che li conoscesse quanto bastava per non farlo. Forse durante il periodo delle precedenti visite spensierate non c'era un uomo nella sua vita, e forse quando ne comparve uno la sua attenzione si spostò altrove. Forse si trasformò in una persona diversa, come di certo accadde più tardi.
   O forse la intimidiva quella particolare atmosfera che si crea in casa di una persona malata che potrà solo peggiorare e mai più star meglio. Era il caso di mia madre, i cui sintomi si moltiplicarono segnando una svolta dopo la quale, da apprensione e sgomento, divennero semplicemente destino.
   - Povera creatura, - dicevano le zie.
   E mentre mia madre passava dal ruolo di madre a quello di una presenza ferita in giro per la casa, queste altre, relegate in passato a figure femminili di secondo piano, parvero a poco a poco rinvigorirsi e acquisire maggior competenza del mondo. Mia nonna mise l'apparecchio acustico, cosa che nessuno avrebbe mai osato suggerirle. Uno dei mariti delle zie - non Asa, l'altro, quello di nome Irvine - morì, e la zia che era stata sua moglie imparò a guidare, si trovò un lavoro come sarta in un negozio di confezioni e smise di mettersi la retina in testa.
   Venivano a trovare mia madre, e constatavano sempre la stessa cosa: che la più bella di loro, quella che non aveva mai permesso a nessuno di dimenticare che era stata maestra, mese dopo mese si faceva più impacciata e legnosa nel movimento degli arti e più impedita e inarticolata nel dire, e che niente avrebbe potuto aiutarla.    Mi dicevano di prendermi buona cura di lei.
- E’ tua madre, - mi ricordavano.
- Povera creatura.
   Alfrida non avrebbe saputo dire frasi del genere, e forse non sarebbe riuscita a trovarne di diverse.    Il fatto che non venisse più a casa nostra non mi turbava. Non avevo voglia di vedere gente. Non avevo tempo per nessuno, ero diventata una massaia furiosa - davo la cera ai pavimenti e stiravo anche gli strofinacci da cucina, e tutto questo per dare agli altri l'impressione di vivere con i miei genitori e mio fratello e mia sorella in una famiglia normale e in una casa normale -, solo che nell'attimo in cui qualcuno varcava la nostra soglia e vedeva mia madre, sapeva subito che così non era e incominciava a compatirci. E questo non lo potevo sopportare.
   Vinsi una borsa di studio. Non rimasi a casa per occuparmi di mia madre e così via. Me ne andai all'università. Il college era nella città dove abitava Alfrida. Dopo qualche mese, mi invitò a cena, ma io dovetti rifiutare perché lavoravo ogni sera della settimana eccetto la domenica. Lavoravo nella biblioteca civica, in centro, e in quella di facoltà, ed entrambe restavano aperte fino alle nove. Qualche tempo dopo, in inverno, Alfrida mi chiamò di nuovo, e questa volta l'invito era per la domenica. Le dissi che non potevo accettarlo perché dovevo andare a un concerto.
- Qu, esci con un ragazzo? - fece lei, e io dissi di sì, anche se al tempo non era vero. Andavo ai concerti gratuiti della domenica nell'auditorio del college insieme a un'altra ragazza, a volte a due o tre, tanto per fare qualcosa e nella vaga speranza di incontrare qualcuno di sesso maschile.
- Be', un giorno o l'altro dovrai portare anche lui, - disse Alfrida. - Non vedo l'ora di conoscerlo.    Verso la fine dell'anno in effetti avrei avuto qualcuno da portarle, e il caso vuole che l'avessi conosciuto proprio a un concerto. O almeno lui mi aveva vista a un concerto e mi aveva telefonato per invitarmi a uscire. Ma non l'avrei mai e poi mai portato da Alfrida. Non ci avrei mai portato nessuno dei miei amici. I miei nuovi amici erano persone che chiedevano, Hai mai letto Angelo, guarda il passatoi Devi leggerlo assolutamente. Hai letto I Buddenbrook? Erano persone con cui andavo a vedere Giochi proibiti e Les Enfants du Paradis quando arrivavano al cinefórum. Il ragazzo con cui uscivo e con il quale in seguito mi fidanzai mi aveva portata all'auditorio, dove, all'ora di pranzo, si poteva ascoltare musica. Mi fece conoscere Gounod e, grazie a Gounod, mi appassionai all'opera e, grazie all'opera, mi innamorai di Mozart.
   Quando Alfrida lasciò un messaggio al pensionato, dicendo di richiamarla, non lo feci. Dopodiché non si fece più sentire.
   Scriveva ancora per il giornale - ogni tanto davo un'occhiata a una delle sue rapsodie sulle ceramiche Royal Doulton, su esotici biscotti allo zenzero o biancheria da luna di miele. E’ molto probabile che rispondesse ancora alle lettere delle massaie di Flora Simpson e che continuasse a riderne. Ora che anch'io vivevo in città, leggevo di rado il giornale che un tempo mi sembrava il cuore della vita metropolitana, per non dire il cuore della nostra stessa esistenza, a cento chilometri di distanza. Quel tipo di presa in giro, l'ipocrisia incrollabile di persone come Alfrida e Horse Henry, mi sembravano adesso noiose e volgari.
   Non mi preoccupava l'idea di incontrarla per caso, sebbene il centrocittà non fosse poi smisurato. Non frequentavo i negozi nominati nella sua rubrica. Non avevo occasione di passare davanti alla redazione del giornale, e Alfrida abitava molto lontano dal mio pensionato, da qualche parte nella zona meridionale della città.
   E nemmeno credevo che Alfrida fosse il tipo da presentarsi in biblioteca. La sola parola «biblioteca» sarebbe probabilmente bastata a farle torcere in giù la grande bocca in un'espressione di comico avvilimento, come faceva sempre davanti alla libreria di casa nostra, piena di libri che risalivano a prima della mia nascita, alcuni vinti al liceo dai miei genitori (c'era sopra il nome di mia madre da ragazza, nella sua bella grafia perduta), libri che a me non parevano affatto oggetti comprati, ma eterne presenze domestiche, così come gli alberi fuori dalla finestra non erano piante, ma presenze radicate nel terreno. Il mulino sulla Floss, Il richiamo della foresta, Le prigioni di Edimburgo. «C'è un mucchio di roba seria qua dentro, - aveva commentato Alfrida. - Scommetto che non li apri molto spesso». E mio padre aveva risposto «No, in effetti», assumendo a sua volta un tono di indifferenza, per non dire di scherno, e in un certo senso mentendo, perché invece li apriva ogni tanto, quando trovava il tempo.
   Era quello il genere di bugia che speravo di non dover mai più dire, il disprezzo che mi auguravo di non dover mai più mostrare, quello per le cose davvero importanti per me. E per evitarlo, dovevo in pratica stare alla larga dalle persone di mia conoscenza.
   Alla fine del secondo anno dovetti lasciare il college - la borsa di studio copriva le spese solo per un biennio. Ma non importava; avevo comunque deciso di diventare scrittrice. Nonché di sposarmi.
   Alfrida lo venne a sapere, e si rimise in contatto con me.
   - Devi avere avuto troppo da fare per chiamarmi, o magari non ti hanno mai riferito i miei messaggi, - mi disse.
   Risposi che probabilmente era andata proprio così.
   Questa volta accettai il suo invito. Una visita non mi pareva impegnativa, ormai, dal momento che in futuro mi sarei trasferita altrove. Scelsi una domenica, subito dopo la fine degli esami, perché il mio fidanzato doveva recarsi a Ottawa per un colloquio di lavoro. La giornata era luminosa e serena, poteva essere l'inizio di maggio. Decisi di andare a piedi. Non ero quasi mai stata oltre Dundas Street verso sud, né oltre Adelaide, a est, perciò c'erano zone della città a me totalmente sconosciute. Gli alberi dei viali nella parte settentrionale del centro avevano appena messo le foglie, e lillà, meli selvatici e aiuole di tulipani erano in piena fioritura su prati verdi come tappeti nuovi. Dopo un po' tuttavia mi ritrovai a camminare per strade senza un filo d'ombra, con case addossate al marciapiede e lillà - perché i lillà crescono dovunque - pallidi, come sbiaditi dal sole, e senza profumo.
   Su queste strade, oltre che case, si affacciavano anche condomini angusti a non più di due o tre piani, alcuni con il funzionale decoro di una cornice in mattoni intorno all'ingresso, e altri dalle cui finestre semiaperte fluttuavano sul davanzale lembi di tendine molli.
   Alfrida stava in una casa, non in un condominio. Occupava tutto il piano rialzato. Il piano di sotto, almeno la parte che dava sulla via, era stato trasformato in negozio, ma era chiuso, essendo domenica. Vi si vendevano articoli di seconda mano, dalla vetrina sporca riuscivo a intravedere una serie di mobili non meglio identificati, carichi di vecchi piatti e attrezzi vari. L'unico oggetto che attirò il mio sguardo fu un vaso da miele, identico a quello con sopra l'alveare celeste e oro in cui portavo il pranzo a scuola quando avevo sei o sette anni. Mi ricordo che continuavo a leggere e rileggere le parole stampate di lato.
   Il miele di qualità genuina cristallizza.
   Non avevo la minima idea di che cosa volesse dire «cristallizzare», ma mi piaceva il suono di quella parola.
Mi pareva elegante e squisito.
   Ci avevo messo più tempo del previsto ad arrivare, ed ero molto accaldata. Non mi era passato per la mente che, invitandomi a pranzo di domenica, Alfrida intendesse servirmi un pasto completo come quelli di casa, ma fu proprio odore di arrosto e contorno quello che sentii mentre salivo i gradini esterni.
- Credevo ti fossi persa, - mi urlò Alfrida dalla cima delle scale. - Stavo per chiamare la squadra di soccorso.
   Anziché un prendisole, indossava una camicetta rosa con un vezzoso fiocco al collo, infilata dentro una gonna a pieghe marrone. Non aveva più i capelli a boccoli, ma corti e ricci, e il loro castano naturale era striato da pesanti sfumature rosse. La faccia, che ricordavo sottile e abbronzata, era ingrassata e un po' imbolsita. Il trucco le stava sulla pelle come uno strato di vernice arancione, alla luce del mezzogiorno.    Ma la differenza più significativa era data dai denti falsi, di colore uniforme, che le riempivano troppo la bocca, conferendo alla sua antica espressione di disinvolto entusiasmo un che di ansioso.
- Però... ti sei fatta più in carne, - disse. - Una volta eri pelle e ossa.
   Era vero, ma non mi piaceva sentirmelo dire. Come tutte le altre ragazze del pensionato, mangiavo porcherie - abbondanti cene precotte e biscotti ripieni di marmellata. Il mio fidanzato, ostinatamente e possessivamente favorevole a tutto ciò che mi riguardava, sosteneva di amare le donne formose e aggiungeva che gli ricordavo Jane Russell. Non mi dava fastidio, detto da lui, ma di solito mi offendevo quando la gente faceva commenti sul mio aspetto fisico. Specie se si trattava di qualcuno tipo Alfrida, che non aveva più nessuna importanza nella mia vita. Ero convinta che persone del genere non avessero il diritto di guardarmi, o di farsi un'opinione sul mio conto, né tanto meno di esprimerla.
   La casa era stretta di facciata, ma si allungava sul retro. C'erano un soggiorno con le pareti mansardate e le finestre che si affacciavano sulla via, una specie di sala da pranzo senza finestre perché collegata alle camere da letto dotate di abbaini, una cucina, un bagno, cieco anche quello, che prendeva luce dal vetro zigrinato sulla porta, e infine, alle spalle dell'edificio, una veranda.
   Le pareti inclinate conferivano ai vani una certa provvisorietà, come se si sforzassero inutilmente di non sembrare camere da letto. Eppure erano stipate di mobili di tutto rispetto: tavolo da pranzo e da cucina con relative sedie, divano e poltrona allungabile, tutta roba pensata per stanze vere, assai più spaziose. Centrini sui tavoli, riquadri bianchi di stoffa ricamata a proteggere braccioli e schienali di poltrone e sofà, tende leggere ai vetri e pesanti tendoni a fiori - l'effetto era molto più simile a quello di una casa delle zie di quanto non ritenessi possibile. E su una parete in sala da pranzo - non in bagno o in cucina ma proprio in sala da pranzo - era appeso il quadro di una damina, tutto fatto con nastri di raso rosa.
   Una striscia di spesso linoleum attraversava la sala da pranzo segnando il percorso dal soggiorno e dalla cucina.
   Alfrida dovette immaginare parte di quello che mi passava per la testa.
- Lo so, c'è troppa roba qui dentro, - disse. - Ma erano cose dei miei. Mobili di famiglia, e non me la sentivo di buttarli via.
   Non avevo mai pensato che avesse dei genitori. La madre era morta tantissimo tempo prima, e lei era stata allevata da mia nonna, che era sua zia.
- Di papà e mamma, - aggiunse Alfrida. - Quando papà se ne andò, tua nonna volle tenere ogni cosa perché diceva che da grande dovevo riprendermi tutto, perciò ecco qua. Non potevo sbarazzarmene, con tutta la fatica che aveva fatto.
   A quel punto mi tornò in mente la parte dell'esistenza di Alfrida che avevo dimenticato. Suo padre si era risposato. Aveva lasciato la terra per un lavoro alle ferrovie. C'erano stati altri figli, la famiglia si era dovuta spostare da un luogo all'altro, e qualche volta Alfrida li nominava, scherzando su tutti quei pargoli sfornati a ripetizione e su tutti quei traslochi coatti.
   - Vieni, ti presento Bill, - disse Alfrida.
   Bill era fuori in veranda. Se ne stava seduto, come in attesa di essere chiamato, su un divano basso, una branda, coperta da un plaid marrone. Il plaid era stropicciato - Bill doveva aver sonnecchiato fino a poco prima -, e tutte le tende erano tirate giù fin sul davanzale. La luce nella stanza - la luce calda del sole attraverso le tende gialle e striate di pioggia - insieme al mucchio informe della coperta, al cuscino stinto e ammaccato, e perfino all'odore del plaid e delle ciabatte da uomo, vecchie ciabatte deformate dall'uso, mi ricordarono, come i centrini e i mobili lustri delle altre stanze e la damina di raso sul muro, le case delle zie. Anche in quelle capitava di imbattersi in analoghi covi maschili grevi di un lezzo tenace e decisi a contraddire con un pizzico di vergogna ma molta ostinazione il dominio femminile.
   Bill tuttavia si alzò e mi strinse la mano come nessuno degli zii avrebbe mai fatto con una sconosciuta. Anzi, con qualunque ragazza. A trattenerli non sarebbe stata una deliberata scortesia, ma il terrore di apparire cerimoniosi.
   Era un uomo alto, dai capelli grigi ondulati e lucidi e la faccia liscia che però non sembrava giovane. Un bell'uomo, anche se ormai l'ascendente della bellezza se n'era andato, chissà, forse a causa della cattiva salute, di qualche sventura, o per una certa mancanza di grinta. Conservava però una galanteria consumata, un certo modo di chinarsi verso una donna, come se fosse sicuro che la conoscenza sarebbe stata un piacere per entrambi.
   Alfrida ci guidò nella sala da pranzo senza finestre dove la luce doveva restare accesa anche in pieno giorno. Ebbi l'impressione che il pranzo fosse pronto da un pezzo, e che il mio ritardo avesse scompaginato le loro abitudini. Bill servì il pollo arrosto e la salsa. Alfrida, il contorno. Poi si rivolse a Bill per dirgli: - Tesoro, tu come chiami quella cosa accanto al piatto? - e solo allora lui ricordò di spiegare il tovagliolo.    Non aveva molto da dire. Passava il condimento, mi domandava se preferivo la mostarda o solo sale e pepe, seguiva la conversazione spostando lo sguardo su Alfrida e su me.
Di quando in quando emetteva un sibilo lieve tra i denti, un risucchio tremulo che voleva esprimere cordialità e ammirazione e che in un primo tempo pensai fosse solo il preludio a successivi commenti. Ma non era così, e Alfrida non interrompeva neppure il discorso. In seguito ho conosciuto ex etilisti che si comportavano più o meno allo stesso modo - pronti a mostrare il proprio consenso, ma incapaci di andare più in là di quello, disperatamente assorti in se stessi. Non ho mai saputo se fosse il caso di Bill, ma aveva in effetti l'aria di chi si porta appresso una storia di fallimenti, di pene sofferte e lezioni imparate. E aveva anche l'aria di chi si rassegna da sempre a scelte sbagliate e occasioni perdute.
   Sono piselli e carote surgelate, disse Alfrida. I surgelati erano ancora una novità al tempo.
   - Sono meglio di quelli in scatola, - disse. - Quasi all'altezza di quelli freschi.
   A quel punto Bill si lanciò in una frase completa. Disse che erano anche meglio della verdura fresca. Colore, sapore, erano meglio in tutti i sensi. Aggiunse che era incredibile cosa riuscissero a fare oggigiorno e cosa avrebbero fatto in futuro nel campo della surgelazione.
   Alfrida si chinò sul piatto sorridendo. Sembrava quasi trattenere il fiato, come le madri quando osservano il figlio muovere i primi passi senza sostegno, o pedalare traballando per la prima volta da soli in bicicletta.    Oramai erano in grado di iniettare qualcosa nei polli, ci spiegava intanto lui, era un sistema nuovo grazie al quale i polli sarebbero venuti su tutti uguali, belli tondi e gustosi. Finito il tempo in cui si rischiava di portarsi a casa un pollo scadente.
   - Bill è nel ramo della chimica, - disse Alfrida.
   E dato che io non trovavo nulla da ribattere al riguardo, aggiunse: - Lavorava per la Gooderhams.
   Ancora niente.
- La distilleria, - disse. - Sai, il whisky Gooderhams.
   La ragione per cui non avevo nulla da dire non dipendeva dal volermi mostrare scortese o annoiata (non più scortese di quanto fossi d'abitudine al tempo, né più annoiata di quanto mi aspettassi nella circostanza specifica), ma dal fatto che non capivo di dover fare delle domande - in pratica una domanda qualsiasi - allo scopo di trascinare nella conversazione un soggetto maschile intimidito, di scuoterlo dal suo isolamento e restituirgli un ruolo per così dire autorevole, quello dell'uomo di casa, insomma. Non capivo come mai Alfrida continuasse a guardarlo con quell'ostinato sorriso di incoraggiamento. La mia esperienza di donna in presenza di uomini, di donna che ascolta il suo uomo nell'acuta speranza che si manifesti come qualcuno di cui lei possa ragionevolmente andar fiera, apparteneva ancora al futuro. Le uniche coppie che avevo avuto occasione di osservare erano quelle di zie e zii, e di mia madre e mio padre, ma si trattava di mariti e mogli che davano l'impressione di condividere legami stanchi e formali, senza alcuna palese dipendenza l'uno dall'altra.
   Bill continuò a mangiare come se non avesse udito il riferimento alla sua professione né ai suoi datori di lavoro, e Alfrida incominciò a chiedermi dei miei studi. Il suo sorriso, pur senza spegnersi, era cambiato. Tradiva ora un fremito di impazienza e di insoddisfazione, come se fosse solo in attesa che io concludessi la spiegazione per poter dire, come in effetti fece: - Non leggerei roba del genere nemmeno per un milione di dollari.
- La vita non dura abbastanza, - aggiunse. - Sai, al giornale ogni tanto ci capita qualcuno che ha fatto quel percorso. Trenta e lode in Letteratura. Trenta e lode in Filosofia. Non si sa mai cosa farne. Non sanno scrivere una riga che valga due soldi. Quante volte te l'ho detto, eh? - concluse, rivolta a Bill, che alzò lo sguardo e ricambiò con il dovuto sorriso.
   Alfrida lasciò perdere.
- E per divertirti che fai, invece?
   Al momento un teatro di Toronto aveva in cartellone Un tram che si chiama desiderio-, le dissi che avevo preso un treno insieme a un paio di amiche per andare a vederlo.
   Alfrida lasciò cadere rumorosamente coltello e forchetta sul piatto.
- Quella porcheria, - esclamò. La sua faccia, segnata dal disgusto, pareva sul punto di assalirmi.
Quando parlò il tono era più calmo, ma la disapprovazione ancora violenta.
- Siete andate fino a Toronto per vedere quella porcheria?
   Avevamo finito il dolce, e Bill approfittò di quell'istante per alzarsi da tavola, col nostro permesso. Lo chiese prima ad Alfrida, e poi a me, rivolgendomi un impercettibile inchino. Se ne tornò in veranda, e di li a poco sentimmo l'odore della sua pipa. Vedendolo uscire, Alfrida parve scordarsi di me e del mio spettacolo teatrale. Il suo volto si caricò di una tale dolente espressione di affetto che quando la vidi alzarsi pensai che l'avrebbe seguito. Andò invece soltanto a prendersi le sigarette.
   Mi porse la scatola aperta e, quando ne presi una, disse, con un deliberato sforzo di cordialità: - Vedo che hai mantenuto la brutta abitudine che ti ho insegnato -. Forse aveva capito che non ero più una bambina, che non mi trovavo in casa sua per dovere, e che non aveva senso fare di me una nemica. Quanto a me, non intendevo litigare - non mi importava del parere di Alfrida su Tennessee Williams. Né su tutto il resto.    - In fondo sono fatti tuoi, - disse. - Sei libera di andare dove ti pare -. E poi aggiunse: - Dopo tutto, tra non molto sarai una donna sposata.
   A giudicare dal tono, poteva voler dire, a scelta, «Devo ammettere che ormai sei adulta», oppure «Tra poco toccherà anche a te metterti in riga».
   Ci alzammo per sparecchiare. Lavorando gomito a gomito nel poco spazio tra il tavolo di cucina, il ripiano e il frigorifero, sviluppammo in breve senza bisogno di parole un ritmo ordinato fatto di chi scrostava i piatti e li impilava, chi ritirava gli avanzi in contenitori più piccoli per conservarli, chi riempiva l'acquaio di acqua bollente e sapone e chi spolverava le posate intatte e le infilava nel panno a scomparti dentro il cassetto della credenza in sala da pranzo. Portammo il posacenere in cucina e ci prendemmo di tanto in tanto una pausa per tirare una boccata di fumo ristoratrice. Ci sono cose su cui le donne vanno d'accordo o non vanno d'accordo, quando lavorano insieme: ad esempio, se è consentito fumare, o preferibile non farlo perché un po' di cenere potrebbe volare su un piatto pulito; oppure, se ogni cosa che sia stata in tavola debba essere lavata indipendentemente dall'uso. Alfrida e io scoprimmo di andare d'accordo. Inoltre, il pensiero di potermene andare, una volta finiti i piatti, mi faceva sentire più rilassata e generosa. Avevo già detto che nel pomeriggio dovevo incontrare un amico.
- Che belli, questi piatti, - dissi. Erano color latte, tendente al giallino, con un fregio di fiori azzurri.    - Sì, sono il servizio di nozze di mia madre, - disse Alfrida. - Ecco un'altra cosa buona che tua nonna fece per me. Imballò tutti i piatti di mia madre e li ripose per conservarli fino a quando non ne avessi avuto bisogno. Jeanie non ha mai saputo della loro esistenza. Non sarebbero durati tanto, con quella gente.
   Jeanie. Quella gente. La sua matrigna, i fratellastri e le sorellastre.
- Tu la sai, la storia, giusto? - disse Alfrida. - Lo sai che cosa è successo a mia madre?
   Certo che lo sapevo. La madre di Alfrida era morta perché una lampada le era esplosa fra le mani - o meglio, era morta in seguito alle ustioni provocate dall'incidente -, e mia madre e le zie ne parlavano spesso. Di fatto non si poteva nominare la madre o il padre di Alfrida, e nemmeno lei, quasi, senza trascinarsi appresso il racconto di quella morte. Era per quella ragione che il padre di Alfrida aveva lasciato la fattoria (un gesto immancabilmente considerato come un fallimento morale, se non finanziario). Era per quello che bisognava fare estrema attenzione nel maneggiare il cherosene, e non smettere mai di ringraziare il Signore per l'avvento dell'elettricità, per quanto potesse costare. Ed era stata una disgrazia tremenda per una bambina dell'età di Alfrida, comunque. (Vale a dire, comunque avesse poi deciso di vivere la sua vita).
   Se non fosse stato per il temporale, non avrebbe dovuto accendere quella lampada a metà pomeriggio.    Sopravvisse tutta la notte, e l'indomani, e la notte successiva, ma la cosa migliore per lei sarebbe stata andarsene subito.
   E dire che solo un anno dopo arrivò l'azienda elettrica, e non ci fu più bisogno di lampade a cherosene.    Capitava di rado che mia madre e le zie la pensassero allo stesso modo su qualche cosa, ma quella vicenda faceva eccezione. Ogni volta che nominavano la madre di Alfrida, avevano un tono di voce commosso. La storia sembrava rappresentare ai loro occhi un tremendo tesoro, appannaggio esclusivo della nostra famiglia, un segno di distinzione al quale non avrebbero mai rinunciato. Ogni volta che le ascoltavo parlarne, mi pareva di percepire nei loro discorsi una nota di osceno compiacimento, l'acuto piacere di rovistare nel macabro e nel disastroso. Le loro voci mi davano l'impressione di vermi striscianti nelle mie viscere.    Gli uomini erano diversi, nella mia esperienza. Gli uomini distoglievano lo sguardo da tutto ciò che faceva paura il più in fretta possibile, e si comportavano come se, a cose avvenute, non avesse alcun senso parlarne o pensarci. Non avevano voglia di tormentare se stessi, né gli altri.
   Perciò, se adesso Alfrida si era messa in mente di ritornare sull'argomento, ero contenta, pensai, che il mio fidanzato non fosse con me. Era meglio che non sentisse la storia della madre di Alfrida, che non venisse a conoscenza della relativa, o considerevole, miseria di mia madre e della mia famiglia. Amava l'opera, lui, e l'Amleto di Laurence Olivier, ma per le tragedie della vita di tutti i giorni, con il loro squallore, non aveva tempo. I suoi genitori erano sani e belli e benestanti (anche se lui li definiva ovviamente noiosi), e dava l'impressione di non aver mai dovuto frequentare nessuno che non se la passasse piuttosto bene. I fallimenti esistenziali - rovesci di fortuna, problemi di salute, crolli finanziari - sapevano sempre di errori, per lui, e la sua risoluta approvazione della mia persona non si estendeva fino alle mie origini sgangherate.    - Non mi diedero il permesso di andarla a trovare, in ospedale, - disse Alfrida, che se non altro aveva adottato un tono di voce normale, senza prepararsi la strada con particolari vittimismi o viscide commozioni. - Be', è probabile che nei loro panni avrei fatto lo stesso. Non ho idea di come fosse ridotta. Tutta fasciata come una mummia, credo. E se non lo era, avrebbe dovuto esserlo. Io non ero in casa, al momento dell'incidente; ero a scuola. Venne buio all'improvviso e la maestra accese le luci - a scuola avevamo già la corrente - e ci fece restare tutti fino alla fine del temporale. Poi la zia Lily - sì, insomma, tua nonna - venne a prendermi e mi portò a casa sua. Non ho mai più rivisto mia madre.
   Pensavo che non avrebbe aggiunto altro, ma di lì a un attimo riprese a parlare, e in effetti la voce le si era fatta più allegra, come se si preparasse a scoppiare in una risata.
   - Piansi e strillai come una matta, urlando che la volevo vedere. E non la finivo più, così quando capirono che non c'era niente da fare per farmi tacere, tua nonna mi disse: «E’ meglio se non la vedi. Se solo sapessi com'è ridotta adesso ti passerebbe la voglia di vederla. Non vorresti mai ricordarla così».
   E vuoi sapere cosa risposi? Me lo ricordo benissimo. Dissi, Ma lei forse vuole vedere me. Lei forse vuole vedere me.
   E a quel punto rise davvero, o comunque emise dal naso un suono evasivo e sprezzante.
   - Chissà chi credevo di essere, eh? Lei forse vuole vedere me.
   Quella parte della storia non l'avevo mai sentita.
   E nell'istante in cui la udii per la prima volta, accadde qualcosa. Come se, nella mia testa, fosse scattata la trappola che tratteneva quelle parole. Non capivo esattamente che uso ne avrei fatto. Sapevo soltanto quanto mi avessero scossa liberandomi dentro, d'un colpo, la possibilità di respirare un'aria diversa, disponibile a me soltanto.
   Lei forse vuole vedere me.
   La storia che scrissi e che le conteneva, fu composta anni più tardi, non prima che fosse ormai divenuto irrilevante scoprire chi per primo mi avesse fornito l'idea.
   Ringraziai Alfrida e dissi che dovevo rientrare. Alfrida andò a chiamare Bill per i saluti, ma tornò dicendo che si era addormentato.
- Si prenderà a schiaffi quando si sveglia, - disse. - Gli ha fatto piacere conoscerti.
   Si tolse il grembiule e mi accompagnò fino in fondo alle scale. Dall'ultimo gradino partiva un sentiero di ghiaia che faceva il giro fino al marciapiede. La ghiaia scricchiolava sotto i nostri piedi e lei inciampò a causa della suola sottile delle pantofole.
   Esclamò: - Ahi! Accidenti, - e si appoggiò alla mia spalla.
- Tuo padre come sta? - aggiunse.
- Sta bene.
- Lavora troppo.
   E io: - Non può fare altro.
- Oh, lo so bene. E tua madre?
- Più o meno come sempre.
   Si volse di lato, verso la vetrina del negozio.
- Ma chi credono che se lo compri, questo vecchiume? Guarda solo quel vaso da miele. Tuo padre e io portavamo il pranzo a scuola in un vaso identico a quello.
- Anch'io, - dissi.
- Davvero? - Mi strinse forte. - Di' ai tuoi che li penso spesso, d'accordo?
   Alfrida non venne al funerale di mio padre. Mi chiesi se fosse perché non aveva voglia di vedermi. Per quanto ne so, non disse a nessuno perché mi portasse rancore; nessun altro lo scoprì mai. Ma mio padre l'aveva saputo. Quando andai a casa a trovarlo, e mi dissero che Alfrida abitava poco lontano - per l'esattezza nella casa di mia nonna, che alla fine aveva ereditato -, suggerii di farle una visita. Accadeva nel turbine tra i miei due matrimoni, mentre ero di umore espansivo, liberata di fresco e in grado di mettermi in contatto con chiunque volessi.
   Mio padre disse: - Be', sai, Alfrida è rimasta un po' male.
   La chiamava Alfrida anche lui, adesso. Da quando?
   In un primo momento, non riuscii nemmeno a immaginare che cosa potesse averla fatta star male. Toccò a mio padre ricordarmi del racconto uscito anni addietro, e io fui sorpresa, spazientita e perfino irritata dal fatto che Alfrida potesse disapprovare una cosa che ormai pareva avere così poco a che fare con lei.
   - Quella non era affatto Alfrida, - dissi a mio padre. - L'ho cambiata, non stavo nemmeno pensando a lei. Era un personaggio. Se ne sarebbe accorto chiunque.
   Ma in effetti restava la lampada esplosa, la madre bendata come una mummia, la risoluta bambina orfana.    - Comunque, - disse mio padre. In linea generale era abbastanza contento che fossi diventata scrittrice, ma nutriva qualche riserva sulla mia definizione di personaggio. Sul fatto che avessi messo fine al matrimonio per ragioni personali - vale a dire, arbitrarie - e sul modo in cui me ne andavo in giro a giustificarmi - o forse, come avrebbe detto lui, a evitare di assumermi ogni responsabilità. Ma non lo diceva più, non erano più affari suoi.
   Gli chiesi come facesse a sapere che Alfrida la pensava così.    Lui disse: - Una lettera.
   Una lettera, nonostante abitassero così vicini. Mi rincrebbe davvero pensare che avesse dovuto sobbarcarsi le conseguenze di quella che poteva essere vista come una mia leggerezza, o perfino un mio torto. E che tra lui e Alfrida i rapporti sembrassero ormai tanto formali. Mi chiesi che cosa mi stesse tacendo. Si era forse sentito in dovere di difendermi di fronte ad Alfrida, come aveva dovuto difendere la mia scrittura agli occhi della gente? Adesso lo faceva, anche se non gli veniva facile. E nel suo impacciato desiderio di proteggermi, poteva aver detto qualcosa di offensivo.
   Tramite me, gli erano toccati un bel po' di insoliti guai.
   Scattava un pericolo, ogni volta che ritornavo a giocare in casa. Era il pericolo di guardare alla mia vita attraverso occhi che non fossero i miei. Di vederla come una crescente matassa di filo spinato fatto di parole, intricate, angosciose, sconcertanti, messe a confronto con la cornucopia di cibo, di fiori, di lavori a maglia, della fatica domestica delle altre donne. Diventava più duro sostenere che ne valesse la pena.
   La mia pena sì, forse, ma che dire di quella degli altri?
   Mio padre mi aveva detto che ora Alfrida abitava da sola. Gli chiesi che ne fosse stato di Bill. Rispose che erano faccende che non lo riguardavano. Ma che pensava ci fosse stata un'operazione di recupero.
- Di Bill? Come mai? Chi lo reclamava?
- Be', credo ci fosse di mezzo una moglie.
- L'ho incontrato una volta a casa di Alfrida. Mi piaceva.
- Infatti, piaceva. Soprattutto alle donne.
   Dovetti raccontarmi che la rottura poteva non aver nulla a che fare con me. La mia matrigna aveva portato mio padre su strade di vita diverse. Andavano a giocare a bowling e a curling, e incontravano regolarmente altre coppie di coniugi da Tim Horton, davanti a una tazza di caffè e una ciambella calda. Lei era stata vedova a lungo, prima di risposarsi, e aveva conservato parecchi amici del passato che divennero amici nuovi per lui. Quel che era successo tra mio padre e Alfrida poteva essere solo uno dei tanti cambiamenti, il logorarsi di vecchi legami, un concetto che comprendevo benissimo in quella fase della mia vita, ma che non mi aspettavo potesse accadere a persone anziane, e soprattutto, avrei detto, a persone di famiglia.
   La mia matrigna morì pochissimo tempo prima di mio padre. Dopo quel loro breve matrimonio felice, vennero rispediti in cimiteri separati, e sepolti accanto ai loro primi e di gran lunga più problematici coniugi. Alfrida era tornata a trasferirsi in città prima di entrambi i decessi. Non vendette la casa, si limitò a lasciarla e ad andarsene. Mio padre mi scrisse: «Un modo di comportarsi ben strano».
   C'era un mucchio di gente al funerale di mio padre, persone che non conoscevo. Al cimitero, una donna mi venne incontro sul prato per parlarmi - da principio pensai che fosse un'amica della mia matrigna. Poi però mi accorsi che aveva solo qualche anno più di me. La struttura robusta, la corona di riccioli biondo-grigi e la giacca a fiori la facevano sembrare più vecchia.
- Ti ho riconosciuta dalla fotografia, - disse. - Una volta Alfrida non faceva che parlare di te.
   Io dissi: - Alfrida non è morta?
- Oh no, - rispose la donna, e prese a dirmi che Alfrida stava in una casa di riposo in un piccolo centro a nord di Toronto.
- L'ho fatta mettere li, in modo da poterla tenere d'occhio.
   Adesso era chiaro - perfino dal tono di voce - che quella persona apparteneva alla mia generazione, e mi venne il sospetto che potesse trattarsi di un membro dell'altra famiglia, una sorellastra di Alfrida, venuta al mondo quando lei era già quasi adulta.
   Mi disse il cognome, ma naturalmente non era lo stesso: doveva essersi sposata. E non ricordavo di aver mai sentito Alfrida citare nessuna sorellastra per nome.
   Le chiesi come stesse Alfrida, e la donna disse che la vista le era tanto peggiorata da poterla ormai definire cieca. Inoltre aveva avuto un problema serio ai reni, perciò adesso era in dialisi due volte la settimana.    - A parte questo...? - disse, ridendo. Pensai, Sì, è sua sorella, perché avevo riconosciuto qualcosa di Alfrida in quella risata impetuosa.
- Perciò non viaggia molto facilmente, - disse. - Altrimenti l'avrei portata con me. Si fa ancora mandare il giornale di qui, e qualche volta glielo leggo. E’ così che ho saputo di tuo padre.
   D'impulso mi domandai a voce alta se non fosse il caso di andarla a trovare nella casa di riposo. A suggerirlo fu l'emozione del funerale - quel misto di affetto, sollievo e benevolenza che la morte di mio padre in tarda età aveva innescato dentro di me. Non sarebbe stato facile portare a termine l'intenzione. Mio marito - il mio secondo marito - e io avevamo solo due giorni di tempo prima di partire per l'Europa per una vacanza già rimandata.
- Non so se ne caveresti granché, - disse la donna. - Ha le sue giornate buone. Ma ha anche quelle non buone. Certe volte mi pare che finga. Tipo, se ne sta seduta li tutto il giorno e qualsiasi cosa tu le dica non fa che ripetere la stessa cosa. Fresca come una rosa e pronta per l'amore. Non dice altro per l'intera giornata. Fresca come una rosa e pronta per l'amore. C'è da diventare matti. Altri giorni invece ti risponde a tono.
   Di nuovo la voce e la risata - questa volta più sommessa - mi ricordarono Alfrida, e dissi: - Sai, io devo averti già incontrata; una volta la matrigna e il padre di Alfrida vennero a salutarci, o forse era solo suo padre, con qualche bambino...
- No, non sono io di sicuro, - mi interruppe la donna. - Hai pensato che fossi la sorella di Alfrida? Buon Dio. Li porto proprio male allora i miei anni.
   Presi a dire che non la vedevo bene, ed era vero. Il sole di quel pomeriggio di ottobre era basso e mi puntava dritto negli occhi. La donna era controluce, perciò era difficile distinguerne i tratti e l'espressione.
   Si scosse in un fremito nervoso e risoluto delle spalle. E disse: - Alfrida è la mia vera mamma.
   Mamma. Madre.
   Poi mi raccontò, senza dilungarsi troppo, una storia che doveva aver ripetuto chissà quante volte, perché riguardava un evento cruciale della sua esistenza e un'avventura verso la quale si era imbarcata da sola. Era stata adottata da una famiglia dell'Ontario; la sola famiglia che avesse mai conosciuto («... e che amo profondamente»), si era sposata e aveva avuto dei figli, e questi a loro volta erano cresciuti prima che lei sentisse il bisogno di scoprire chi fosse la sua vera madre. Non era stato facilissimo, per il disordine dei documenti anagrafici, e per la riservatezza («La mia nascita era stata tenuta segreta al cento per cento»), ma qualche anno prima era riuscita a mettersi sulle tracce di Alfrida.
- Appena in tempo, oltre tutto, - aggiunse. - Voglio dire, era ora che arrivasse qualcuno a prendersi cura di lei. Per quanto possibile.
   Dissi: - Non l'ho mai saputo.
- No. Al tempo, immagino fossero in pochi a saperlo. Ti mettono in guardia, quando decidi di fare queste ricerche: la tua comparsa potrebbe rappresentare uno shock. Sono anziani, è sempre un colpo.
Comunque. Non credo che l'abbia patito. Prima, forse, l'avrebbe accusato di più.
   C'era nella sua voce qualcosa di trionfale, una sensazione non difficile da comprendere. Se uno ha da raccontare una storia che spiazzerà l'interlocutore, e l'ha detta ottenendo l'effetto, deve godersi il piacere del potere che esercita. Nel caso specifico il suo successo fu tale che sentì il bisogno di chiedere scusa.
- Ti prego, scusami, ho parlato solo di me e non ti ho nemmeno detto quanto mi spiace per tuo padre.
   La ringraziai.
- Sai, Alfrida mi ha raccontato che un giorno lei e tuo padre tornavano a casa da scuola, ai tempi del liceo. Non potevano fare tutta la strada insieme perché, puoi capire, allora un ragazzo e una ragazza si sarebbero tirati appresso chissà quante maldicenze. Perciò, se lui usciva per primo, l'aspettava nel punto in cui il tragitto deviava dallo stradone, fuori dal centro abitato, e se usciva per prima lei, faceva lo stesso. E quel giorno camminavano insieme e sentirono le campane suonare a distesa e sai che cos'era? Era la fine della prima guerra mondiale.
   Le dissi che avevo sentito anch'io quella storia.
- Solo, credevo che fossero bambini.
- Ma come avrebbero fatto a tornare a casa dal liceo, se fossero stati bambini?
   Risposi che ero convinta fossero fuori a giocare nei campi. - Con loro c'era anche il cane di mio padre. Si chiamava Mack.
- E’ possibile che ci fosse anche il cane. Magari gli era andato incontro. Ma non credo che possa essersi confusa mentre me lo raccontava. Era piuttosto precisa nel ricordare qualunque cosa avesse a che fare con tuo padre.
   Ora, due cose sapevo per certo. Primo, che mio padre era nato nel 1902, e che Alfrida aveva più o meno la stessa età. Perciò era assai più probabile che stessero tornando dal liceo e non che giocassero nei campi, ed era stranissimo che non ci avessi mai fatto caso prima. Forse avevano detto che si trovavano nei campi per dire che tornavano a casa passando dai campi. Forse non avevano mai pronunciato il verbo «giocare».    Secondo, che la mite cordialità, la benevolenza che avevo sentito poc'anzi in quella donna, adesso non c'era più.
   Dissi: - Le cose cambiano aspetto a volte.
- E’ vero, - disse la donna. – E’ la gente, a cambiarle. Vuoi sapere che cosa diceva sempre Alfrida di te?
   Ecco. Ora sapevo che stava per arrivare.
- Che cosa?
- Diceva che tu eri furba, ma che non sei mai stata furba come credevi.
   Mi costrinsi a guardare dritto nella faccia buia in controluce.
Furba, sei troppo furba, non fare la furba. Chiesi: - Nient'altro?
- Diceva anche che eri senza cuore. Parole sue, non mie. Io non ce l'ho di certo con te.
   Quella domenica, dopo il pranzo da Alfrida, mi incamminai sulla via del ritorno verso il pensionato. Facendola a piedi due volte, calcolai che avrei coperto una quindicina di chilometri, il che sarebbe dovuto bastare a contrastare gli effetti del pasto che avevo consumato. Mi sentivo sazia, non solo di cibo, ma anche di tutto quello che avevo visto e sentito nell'appartamento. Di tutti quei vecchi mobili fuori moda. Dei silenzi di Bill. Della tenerezza di Alfrida, densa come morchia, e sconveniente, e insulsa, ai miei occhi, non fosse altro che per ragioni di età.
   Dopo aver proceduto per un po', il mio stomaco incominciò ad alleggerirsi. Feci voto solenne di non toccare cibo per le prossime ventiquattr'ore. Camminai diretta verso nord-ovest, per le vie linde della piccola città rettangolare. La domenica pomeriggio il traffico era quasi del tutto assente, fatta eccezione per le grandi arterie. A tratti il mio percorso coincideva per qualche isolato con quello di un autobus. Magari ne passava uno con due o tre passeggeri a bordo. Gente che non conoscevo e che non conosceva me. Che benedizione.    Avevo mentito, non dovevo incontrare nessuno. I miei amici per lo più erano tornati a casa, dovunque abitassero. Il mio fidanzato sarebbe stato via fino all'indomani - era andato a trovare i suoi, a Cobourg, sulla strada per Ottawa. Non ci sarebbe stato nessuno nel pensionato al mio arrivo - nessuno da intrattenere conversando, né da ascoltare. Non avevo niente da fare.
   Dopo un'ora circa di cammino, vidi un drugstore aperto. Entrai e presi una tazza di caffè. Era caffè riscaldato, nero e amarissimo; sapeva di medicina, proprio quello di cui avevo bisogno. Provavo già un certo sollievo, ma a quel punto incominciai a sentirmi felice. Che gioia, essere sola. Vedere la luce calda del tardo pomeriggio sul marciapiede, i rami di un albero, rinverditi da poco, proiettare le loro ombre scarne. Sentire dal retrobottega il suono della partita che l'uomo al banco stava ascoltando alla radio. Non pensai alla storia che avrei scritto su Alfrida - non a quella in particolare - ma al lavoro a cui volevo dedicarmi, più simile a una mano che acciuffi qualcosa nell'aria che alla costruzione di storie. Le grida della folla mi arrivavano come un violento battito cardiaco, pieno di sofferenza. Solenni, splendide onde sonore con il loro remoto consenso e il loro lamento quasi sovrumano.
   Era questo che volevo, questo su cui pensavo di dovermi concentrare; così volevo la vita. ***

Conforto.
   Nina aveva ripreso a giocare a tennis nel tardo pomeriggio, sui campi del liceo. Per un certo periodo li aveva boicottati, dopo che Lewis aveva lasciato la scuola, ma ormai era passato quasi un anno e la sua amica Margaret, altra insegnante a riposo il cui pensionamento, tuttavia, a differenza di quello di Lewis, era avvenuto in modo tranquillo e cerimonioso, l'aveva convinta a tornare.
- Ti conviene uscire un po', finché puoi.
   Margaret era già andata via quando erano incominciati i guai per Lewis. Aveva scritto una lettera dalla Scozia offrendo la propria solidarietà. Ma era una persona dalle simpatie talmente vaste e onnicomprensive, una donna così cordiale con tutti, che forse quella lettera non ebbe molto peso. La solita generosità d'animo di Margaret.
- Come sta Lewis? - chiese, mentre Nina la riaccompagnava a casa in macchina quel pomeriggio.
   Nina disse: - Si tiene a galla.
   Il sole era già calato fin quasi al bordo del lago. Certi alberi ancora aggrappati alle loro foglie erano fiaccole d'oro, ma il tepore estivo del pomeriggio era sparito. Gli arbusti davanti alla casa di Margaret erano tutti fasciati dentro i sacchi come mummie.
   Quest'ora del giorno ricordava a Nina le passeggiate con Lewis dopo la scuola e prima di cena. Percorsi brevi, per forza, mano a mano che le giornate si accorciavano, lungo viottoli fuori dell'abitato e sponde ferroviarie. Ma ricchi di quello spirito preciso di osservazione, tacito o esplicito, che Nina aveva imparato o assorbito da Lewis. Insetti, lombrichi, muschi, giunchi nel fossato e sterpaglie lanuginose tra l'erba, impronte di animali, bacche, mirtilli selvatici, un inquieto pot-pourri, ogni giorno un po' diverso. E ogni volta più vicino di un passo all'inverno; maggiore parsimonia, un inaridimento.
   La casa in cui abitavano Nina e Lewis era stata costruita intorno al 1840, addossata al marciapiede come si usava ai tempi. Dal soggiorno si sentivano non solo lo scalpiccio ma perfino le conversazioni dei passanti.
Nina immaginava che Lewis avesse sentito sbattere la portiera della macchina.
   Entrò fischiettando meglio che poteva. «See the conquering hero comes».
   - Ho vinto. Ho vinto. C'è nessuno?
   Ma mentre lei era fuori, Lewis moriva. Anzi, si ammazzava. Sul comodino da notte c'erano quattro confezioni di plastica foderate di stagnola. Ogni cartina conteneva due potenti analgesici. Accanto a queste, altre due intatte, con le capsule bianche che ancora occupavano le piccole bolle di plastica. Più tardi, quando Nina le raccolse, vide che una presentava un breve taglio sulla stagnola, come se Lewis avesse incominciato a inciderla con l'unghia e poi avesse rinunciato, forse decidendo che ne aveva già prese abbastanza, o forse perché in quel momento aveva perso i sensi.
   Il bicchiere d'acqua era quasi vuoto. Non ne aveva versato una goccia.
   Di questa cosa avevano parlato. Avevano anche programmato il da farsi, ma intendendolo sempre come una possibilità, un'eventualità futura. Nina aveva dato per scontato che lei sarebbe stata presente, e che l'evento si sarebbe svolto secondo una sorta di cerimoniale. Musica. I cuscini ben sistemati e una sedia accostata al letto in modo che lei potesse tenergli la mano. Due elementi erano sfuggiti alla sua riflessione: il fatto che Lewis detestasse ogni genere di rito, e il fardello che una simile forma di partecipazione le avrebbe scaricato sulle spalle. Domande a cui rispondere, giudizi contrastanti, il suo coinvolgimento in quanto parte attiva nel gesto.    Facendolo in questo modo, lui aveva ridotto al minimo lo scalpore degno di curiosità e la necessità di mentire.
   Si mise a cercare un biglietto. Che cosa si aspettava di trovarci? Non aveva bisogno di istruzioni. Di certo non le occorreva una spiegazione, e meno che mai una richiesta di scuse. Qualunque biglietto non avrebbe potuto dirle niente che già non sapesse. Perfino alla domanda, Perché così presto?, sapeva rispondere da sé. Avevano parlato - anzi, lui aveva parlato - della soglia tollerabile di invalidità, dolore fisico e ripugnanza, di come fosse essenziale riconoscerla e non superarla. Meglio troppo presto che troppo tardi.
   Eppure pareva impensabile che non avesse ancora qualcosa da dirle. Controllò prima per terra, pensando che potesse aver fatto cadere il foglio dal tavolino con la manica del pigiama quando aveva appoggiato il bicchiere d'acqua per l'ultima volta. O forse, invece, si era preoccupato proprio di non farlo: quindi guardò sotto la lampada. Poi nel cassetto del comodino. Sotto e dentro le pantofole. Scosse le pagine del libro che leggeva da ultimo, un manuale di paleontologia sul fenomeno che le pareva rispondere alla denominazione di esplosione cambriana di forme di vita pluricellulari.    Niente.
   Incominciò a frugare tra le coperte. Sollevò il piumino, il lenzuolo di sopra. Lui era lì, con addosso il pigiama di seta blu che gli aveva comprato un paio di settimane prima. Si era lamentato del freddo - proprio lui che non aveva mai avuto freddo a letto in vita sua - e così Nina era uscita a comprargli i pigiami più cari del negozio. Li aveva presi di seta perché erano leggeri e caldi e poi perché tutti gli altri che aveva visto - con quelle righe, o quei messaggi frivoli o allusivi - le facevano venire in mente dei vecchi, o dei mariti da barzelletta, dei relitti in ciabatte. Le lenzuola erano quasi dello stesso colore, perciò ben poco di lui spiccava sullo sfondo. Piedi, caviglie e stinchi. Mani, polsi, collo, testa. Stava sdraiato sul fianco, dandole le spalle.
Ancora a caccia del biglietto, Nina spostò il cuscino; glielo sfilò bruscamente da sotto la testa.
   No. No.
   Trascinata dal cuscino al materasso, la testa produsse un suono, ma un suono più pesante di quanto si aspettasse. E fu proprio quello, insieme alla porzione vuota di lenzuolo, a darle l'impressione che la sua ricerca fosse inutile.
   I farmaci dovevano averlo addormentato, interrompendo di nascosto ogni contatto, cosicché il corpo non presentava lo sguardo fisso né l'espressione contratta di un morto. La bocca era socchiusa, ma asciutta. Negli ultimi due mesi era cambiato parecchio: soltanto adesso se ne rendeva conto fino in fondo. Con gli occhi aperti, ma perfino nel sonno, una sorta di lotta aveva mantenuto viva l'illusione che il danno fosse provvisorio, che tra le pieghe di quella pelle livida, sotto l'implacabile stato di all'erta del male, ci fosse ancora la faccia di un sessantaduenne vigoroso, sempre potenzialmente aggressivo. Non era mai stata la struttura ossea a conferire al suo viso una fisionomia volitiva e scattante; dipendeva tutto dai profondi occhi accesi, dalla mobilità delle labbra e dalla naturalezza espressiva, quel rapido campionario di corrugamenti che costituiva il suo repertorio di scherno, incredulità, pazienza ironica, dolente disgusto. Un repertorio professionale, non sempre confinato tra le pareti di un'aula scolastica.
   Niente. Più niente. Adesso, a un paio d'ore dalla morte (perché doveva essersi dato da fare non appena lei era uscita, non volendo rischiare di prolungare la faccenda fino al suo ritorno), adesso era evidente che sfinimento e devastazione avevano avuto la meglio e che la sua faccia si era ridotta ai minimi termini. Era sigillata, distante, puerile e vecchissima, forse come quella di un bambino nato morto.
   La malattia si manifestava con attacchi di tre tipi diversi. Uno comprometteva mani e braccia. Le dita si intorpidivano, la stretta si faceva prima inefficace, poi impossibile. Oppure erano le gambe a indebolirsi per prime; i piedi cominciavano a inciampare e presto si rifiutavano di sollevarsi per montare su un gradino o addirittura sul bordo di un tappeto. Il terzo tipo di attacco, probabilmente il peggiore, colpiva la gola e la lingua. La deglutizione cessava di essere un fatto automatico e si faceva temibile, drammatica minaccia di soffocamento, mentre il discorso diventava un grumoso flusso di sillabe inopportune. Toccava sempre alla muscolatura volontaria essere aggredita, e la cosa, in un primo momento, pareva costituire un male minore.
Niente cilecche cardiache o cerebrali, niente segnali errati, nessun mutamento malevolo della personalità. Vista e udito, gusto e tatto, ma soprattutto l'intelligenza, vivaci e forti come sempre. Il cervello si manteneva occupato a monitorare la progressiva serrata periferica, scommettendo su diserzioni e impoverimenti a venire.
Non era forse preferibile?
   Certamente, aveva detto Lewis. Ma soltanto per l'opportunità offerta di prendere provvedimenti.
   Nel suo caso, i problemi erano incominciati dalle gambe. Si era iscritto a un corso di Ginnastica per la Terza Età (benché detestasse l'idea) per vedere se riusciva a ricacciarsi a forza un po' di vigore nei muscoli. Per un paio di settimane gli parve che stesse funzionando. Poi però vennero i piedi di piombo, il trascinamento, l'incespicamento e, di li a poco, la diagnosi. Appena l'ebbero saputo, parlarono del da farsi quando fosse arrivato il momento. Al principio dell'estate, camminava con due bastoni. Entro fine stagione, non camminava affatto. Ma con le mani riusciva ancora a sfogliare un libro e a cavarsela, non senza difficoltà, con una forchetta, un cucchiaio, una penna. A Nina pareva che la parola non fosse stata quasi toccata, anche se chi lo veniva a trovare faceva fatica a capirlo. In ogni caso, Lewis aveva deciso di sospendere tutte le visite. La sua dieta era stata modificata per agevolare la deglutizione, e ogni tanto passava intere giornate senza problemi di sorta.
   Nina si era informata per l'acquisto di una sedia a rotelle. E lui non si era opposto. Tra di loro non parlavano più di quella che avevano battezzato la Serrata Generale. Nina si era perfino chiesta se entrambi - o lui solo - non stessero per caso entrando in quella fase di cui aveva letto sui libri, un cambiamento che talvolta si verifica in persone afflitte da una malattia incurabile: l'insorgere di una certa dose di ottimismo, del tutto ingiustificato, ma prodotto dal fatto che l'intera esperienza sia ormai una realtà e non una mera astrazione, che le misure da prendere per contrastarla siano permanenti e non temporanee seccature.
   La fine non è ancora arrivata. Vivi alla giornata. Cogli l'attimo.
   Quel genere di sviluppo non sembrava compatibile con il temperamento di Lewis. Nina lo avrebbe giudicato incapace anche del più utile degli autoinganni. Del resto, non riusciva neppure a immaginarlo sopraffatto da un crollo fisico. E dal momento che una delle condizioni improbabili si era verificata, non poteva valere lo stesso anche per le altre? Non era possibile che i cambiamenti avvenuti in altre persone, accadessero anche in lui? Le speranze segrete, le rimozioni, i patteggiamenti sleali.
   No.
   Afferrò la guida del telefono sul tavolino da notte e cercò la voce «Funerali», ma naturalmente non la trovò. «Onoranze Funebri». L'irritazione che provò fu del tipo che di norma avrebbe condiviso con lui. Funerali, santo Iddio, perché non chiamarli funerali? Si voltò verso Lewis e si rese conto di come lo aveva lasciato, vergognosamente scoperto. Prima di comporre il numero, lo ricoprì con lenzuolo e piumino.
   Una giovane voce maschile le chiese se il dottore fosse presente, se fosse già stato lì.
- Non gli serviva un dottore. Quando sono arrivata era già morto.
- E quando è rientrata?
- Non saprei, diciamo venti minuti fa.
- Ed era già deceduto, dice. Allora, chi è il vostro medico curante? Posso chiamarlo io e mandarglielo.    Nelle loro pacate conversazioni sul tema del suicidio, per quanto ricordava, non avevano mai stabilito se il fatto dovesse rimanere segreto o no. Sotto certi aspetti, era sicura che Lewis avrebbe voluto renderlo noto. Avrebbe voluto far sapere che quella era la sua idea di un modo decoroso e ragionevole per reagire alla situazione nella quale era venuto a trovarsi. Ma per altri versi avrebbe anche potuto dichiararsi contrario a simili rivelazioni. Non avrebbe voluto ad esempio che qualcuno attribuisse il fatto alla perdita del posto di lavoro, al fallimento della sua battaglia a scuola. Lasciar credere che si fosse isolato dal resto del mondo in seguito alla sconfitta su quel fronte lo avrebbe fatto infuriare.
   Raccolse le cartine dei farmaci, le piene come le vuote, e gettò tutto quanto nel water.
   Gli uomini delle Onoranze Funebri erano ragazzoni del posto, ex studenti, un po' più agitati di quanto volessero dare a vedere. Anche il dottore era giovane, e forestiero: il medico curante di Lewis era in vacanza, in Grecia.
- Una benedizione, insomma, - disse il medico, una volta messo al corrente dei fatti. Nina provò un certo stupore nel sentirglielo ammettere così apertamente e pensò che se Lewis avesse potuto udirlo avrebbe colto nella dichiarazione uno sgradito sentore di religione. Ciò che il dottore aggiunse fu invece meno sorprendente.
- Desidera parlarne con qualcuno? Abbiamo persone che - come dire? - possono aiutarla a elaborare il dolore.
- No, no. Grazie. Sto bene.
- Abitate qui da parecchio? Ha degli amici ai quali rivolgersi?
- Oh, sì, sì.
- Vuole chiamare qualcuno subito?
- Sì, - disse Nina. Mentiva. Non appena il medico e i giovani necrofori e Lewis ebbero lasciato la casa - Lewis trasportato come un mobile, avvolto in una coperta per evitare eventuali spigoli - dovette riprendere le ricerche. Le pareva adesso di essere stata sciocca, limitandosi a cercare in prossimità del letto. Si ritrovò a cercare nelle tasche della propria vestaglia, appesa dietro la porta della camera. Un nascondiglio eccellente, essendo quello l'indumento che si infilava addosso ogni mattina, prima di correre a fare il caffè, e dal momento che ne esplorava regolarmente le tasche a caccia di un kleenex, o del burro di cacao. Solo che Lewis si sarebbe dovuto alzare dal letto per attraversare la stanza, un uomo che da settimane ormai non faceva un passo senza il suo aiuto. Del resto, perché pensare che il biglietto dovesse essere stato scritto e nascosto soltanto ieri? Non avrebbe avuto più senso prepararlo e sistemarlo una settimana prima, specie considerando che Lewis non sapeva a che velocità si sarebbe deteriorata la sua capacità di scrivere? In tal caso, poteva trovarsi dovunque. Nei cassetti della sua scrivania - nei quali stava rovistando adesso. O sotto la bottiglia di champagne che lei aveva comperato per brindare al suo compleanno e che aveva messo sul cassettone per ricordargli la data, di lì a due settimane - o tra le pagine di uno qualsiasi dei libri che lei consultava ultimamente. In effetti, non molto tempo fa le aveva chiesto: «Che cosa stai leggendo per conto tuo adesso?» Intendeva, oltre al libro che leggeva a voce alta per lui: Federico il Grande di Nancy Mitford. Nina sceglieva libri di storia poco impegnativi - la narrativa lui non la sopportava - e lasciava che dei testi scientifici si occupasse da sé. Gli aveva risposto: «Oh, dei racconti giapponesi», mostrandogli il volume. Ora rovistò tra gli altri per rintracciare quel libro e lo rovesciò per scuoterne bene le pagine. Lo stesso trattamento venne poi riservato a tutti i libri messi da parte. I cuscini della poltrona dove sedeva di solito furono gettati a terra per controllare se dietro ci fosse qualcosa. Alla fine fece altrettanto con quelli del divano. Poi rovesciò il caffè in grani dal barattolo per accertarsi che non ci avesse (uno scherzo, chissà) nascosto dentro un addio.    Non aveva voluto nessuno presente, nessuno che la osservasse impegnata nelle ricerche, sebbene le conducesse con tutte le luci accese e le tende aperte. Nessuno a ricordarle che doveva cercare di ricomporsi. Era già buio da un pezzo quando si rese conto che doveva mangiare qualcosa. Magari poteva chiamare
Margaret. Ma non fece nessuna di queste cose. Si alzò, pensando di chiudere le tende, e invece spense le luci.    Nina era alta più di un metro e ottanta. Sin dall'adolescenza, tutti quanti, dagli insegnanti di educazione fisica ai counselor scolastici, a certe premurose amiche della madre, le consigliavano di stare diritta con la schiena. Lei faceva del suo meglio, ma anche adesso, quando guardava le vecchie fotografie, si scoraggiava nel constatare la sua postura dimessa: spalle raccolte, testa inclinata, il tipico atteggiamento sorridente e servizievole. Da ragazza si era abituata agli incontri organizzati da amiche che la accoppiavano a partner alti. Pareva che in un uomo avesse poca importanza tutto il resto: se superava ampiamente il metro e ottanta, era destinato a far coppia con Nina. Non di rado la situazione non li entusiasmava; dopo tutto i ragazzi alti potevano permettersi di scegliere, e Nina, sempre curva e sorridente, si sentiva invadere dall'imbarazzo.    I suoi genitori, se non altro, si comportavano come se la sua vita fosse affar suo. Erano entrambi dottori in una piccola città del Michigan. Nina tornò a stare con loro dopo il college. Insegnava latino presso il liceo locale. Passava le vacanze in Europa con le compagne di università non ancora inghiottite da matrimoni a catena e probabilmente ormai al riparo dall'esperienza. Durante un'escursione nei Cairngorms, lei e il suo gruppo si erano imbattute in una compagnia di australiani e neozelandesi, hippie a tempo determinato, il cui leader pareva essere Lewis. Aveva qualche anno più degli altri, era un consumato girovago più che un autentico hippie, e di sicuro una persona cui fare riferimento in caso di grane o di difficoltà. Pur non essendo particolarmente alto - una buona mezza dozzina di centimetri meno di lei - prese a fare coppia fissa con Nina, la persuase a cambiare itinerario e ad andarsene via con lui, a sua volta spensieratamente disposto ad abbandonare gli amici alle loro inclinazioni.
   Saltò fuori che non ne poteva più di viaggiare e che aveva una buona laurea in Biologia e un'abilitazione all'insegnamento conseguite in Nuova Zelanda. Nina gli raccontò della cittadina sulla costa orientale del lago Huron, in Canada, dove da bambina andava a trovare dei parenti. Ne descrisse gli alberi alti che costeggiavano le strade, le vecchie, semplici case, i tramonti sull'acqua: un posto eccellente per andare a vivere, anche perché, grazie ai privilegi riservati ai paesi membri del Commonwealth, Lewis avrebbe trovato facilmente lavoro. E lo trovarono infatti, entrambi, presso il liceo, anche se Nina smise di insegnare pochi anni dopo, quando il latino venne gradualmente eliminato. Avrebbe potuto seguire dei corsi di aggiornamento, prepararsi per insegnare altrove, ma in cuor suo non le dispiaceva affatto di non dover più essere una collega di Lewis, per di più nella stessa scuola. La forza della sua personalità, e lo stile di insegnamento, piuttosto sconcertante, gli procuravano amici, ma anche nemici, e fu un sollievo per lei non trovarsi coinvolta.
   Avevano sempre rimandato l'ipotesi di un figlio. Nina sospettava che fossero tutti e due un po' troppo presuntuosi per accettare l'idea di doversi accontentare di identità riduttive e vagamente comiche come quelle di mamma e papà. Entrambi, ma Lewis in modo particolare, ammiravano gli studenti perché non assomigliavano agli adulti di loro conoscenza. Più vigorosi nella mente e nel fisico, più complessi e vivaci, e in grado di cavare qualcosa di buono dalla vita.
   Si iscrisse a una corale. Molti concerti avvenivano all'interno di chiese e fu allora che Nina scoprì quanto Lewis detestasse quei posti. Gli spiegò che spesso non si poteva disporre di altri locali adatti, e che non per questo la musica doveva essere necessariamente religiosa (tesi non semplicissima da sostenere, trattandosi del Messia). Aggiunse che si dimostrava poco moderno e che al giorno d'oggi le religioni potevano fare ben pochi danni. Ebbero una grossa lite. Dovettero precipitarsi a chiudere le finestre di modo che le voci alterate non arrivassero al marciapiede in quella tiepida sera estiva.
   Un litigio del genere era stupefacente e segnalava non solo quanto lui fosse all'erta rispetto a eventuali nemici, ma anche quanto lei fosse incapace di abbandonare una discussione quando i toni trascendevano in collera. Nessuno dei due era disposto a fare marcia indietro, si accanivano entrambi per questioni di principio.
   Non puoi accettare che la gente non sia tutta uguale, cosa c'è poi di tanto importante?
   Se non è importante questo, dimmi che cosa lo è.
   L'atmosfera si fece greve di odio. Il tutto per una questione che nessuno avrebbe mai potuto risolvere. Si coricarono senza rivolgersi la parola, si separarono senza parlare il mattino dopo, e nel corso della giornata furono sopraffatti dallo spavento; lei ebbe paura che lui non tornasse a casa, e lui di tornare e di non trovarla. La sorte invece fu generosa. Si incontrarono nel tardo pomeriggio, pallidi di pentimento, tremanti d'amore come chi, scampato per un pelo al terremoto, vaghi senza meta in preda a una confusione palese.    Quella non fu l'ultima volta. Nina, educata a mostrarsi sempre accomodante, si chiese se la vita normale fosse così. Con lui, non poteva discuterne; le loro rappacificazioni erano troppo appassionate, troppo affettuose e insulse. Lui la chiamava Nina la Dolce Iena, e lei chiamava lui Lewis Cielo Sereno.
   Qualche anno prima, lungo le strade, era comparso un nuovo poster. Da un pezzo ormai non si vedevano manifesti che invitassero alla conversione, né altri con grandi cuori rosa che scoraggiavano dal ricorso all'aborto. La novità era costituita dai testi, tratti dalla Genesi.
In principio Dio creò il Cielo e la Terra. Dio disse, Sia fatta la Luce, e la Luce fu. Dio creò l'Uomo a Sua immagine.
   Maschio e Femmina li creò.
Di solito accanto alle parole c'era un arcobaleno o una rosa, o un altro simbolo di bellezza da paradiso terrestre.
- Che vuol dire tutto questo? - disse Nina. – E’ comunque un cambiamento. Rispetto a «Dio ha amato tanto il mondo».
- E’ creazionismo, - disse Lewis.
- Ci arrivavo da sola. Quel che voglio dire è, come mai salta fuori da tutte le parti?
   Lewis rispose che si era formato un movimento deciso a rafforzare la credenza letterale nella storia raccontata dalla Bibbia.
- Adamo ed Eva. La solita menata.
   Lui non pareva particolarmente turbato, non più di quanto fosse ogni anno davanti al presepe allestito, anziché sul sagrato di una chiesa, nel prato del Palazzo municipale. Un conto era farlo sulla proprietà della chiesa, diceva, altro era usare terreno pubblico. L'educazione quacchera ricevuta da Nina non aveva insistito molto sull'episodio di Adamo ed Eva, perciò una volta a casa andò a prendere la Bibbia di Re Giacomo e lesse la storia dal principio alla fine. Rimase incantata dalla maestosità creativa di quei primi sei giorni: la separazione delle acque e l'installazione di Sole e Luna nonché la comparsa di tutte le creature che strisciano sulla terra e degli uccelli nell'aria e così via.
- E’ bellissimo, - disse. - Altissima poesia. La gente dovrebbe leggerla.
   Lui rispose che non era né meglio né peggio della miriade di cosmologie scaturite in ogni angolo della terra, e aggiunse che non ne poteva più di sentire la storia di quanto fosse bella, e di quanto fosse poetica.
- E’ una cortina di fumo, - disse. - Quella è gente che se ne fotte della poesia.
   Nina scoppiò a ridere. - Gli angoli della terra, - disse. - Che diavolo di espressione sarebbe questa per uno scienziato? Scommetto che viene dalla Bibbia.
   Di quando in quando decideva di rischiare, e lo prendeva in giro su questo argomento. Ma doveva fare attenzione a non esagerare. Essere certa di riconoscere la soglia intorno alla quale Lewis avrebbe percepito la minaccia mortale, l'oltraggio disonorevole.
   Ogni tanto trovava degli opuscoli nella posta. Non li leggeva da cima a fondo, e per un po' credette che li ricevessero tutti, insieme alla varia carta straccia con offerte di vacanze tropicali e altre scioccanti fortune inattese. Poi scoprì che Lewis riceveva lo stesso materiale anche a scuola - «propaganda creazionista», la definiva lui. Gliela lasciavano sulla scrivania, oppure la infilavano nella buca del suo ufficio.
- Gli studenti hanno accesso al mio studio, ma si può sapere chi mi intasa la cassetta delle lettere? - aveva domandato al preside.
   Il preside aveva risposto di non averne la minima idea; li riceveva anche lui. Lewis fece il nome di un paio di docenti che definì cripto-cristiani, ma il preside ribatté che non valeva la pena di sollevare grane in proposito: era più semplice disfarsi di quelle cartacce.
   In classe qualcuno incominciò a fare domande. O meglio, santarelline e secchioni di entrambi i sessi pronti a scagliare un'ascia di guerra contro l'evoluzionismo ce n'erano sempre stati; Lewis aveva il suo metodo provato e sicuro per metterli a tacere. Diceva ai provocatori che se desideravano un'interpretazione religiosa della storia del mondo, la città vicina ospitava una Scuola Confessionale, e li invitava calorosamente a frequentarla. Quando le domande si fecero più assidue, aggiunse che un comodo autobus ce li avrebbe portati, e che potevano raccogliere i loro libri e andarsene quel giorno stesso, anzi, anche subito, se lo desideravano.
- Santi e secchioni, fuori dai... - disse. Più tardi si cercò di stabilire se avesse effettivamente pronunciato il termine «coglioni» o se l'avesse lasciato aleggiare in silenzio nell'aria. Ma se anche non l'aveva detto espressamente, l'offesa senz'altro restava, visto che tutti immaginarono la probabile conclusione di quel motto.
   Di recente gli studenti avevano assunto una strategia diversa.
- Noi non pretendiamo una visione religiosa delle cose. Ci chiediamo soltanto come mai non si possa garantirle pari opportunità.
   Lewis si lasciò trascinare nella discussione.
- Perché mi pagano per insegnarvi scienze, non religione.    Così disse di aver detto. Non mancò chi invece sostenne
di avergli sentito dire: - Perché non mi pagano per insegnarvi delle stronzate -. E in effetti, in effetti, disse Lewis, alla quarta o quinta interruzione, sempre per la solita domanda formulata in modo leggermente diverso («Che male ci sarebbe ad ascoltare l'altra versione dei fatti? L'insegnamento dell'ateismo non è a sua volta una forma di indottrinamento?»), non escludeva che quella parola potesse essergli sfuggita ma, sentendosi provocato con tanta insistenza, non riteneva di doversene scusare.
- Si dà il caso che in questa classe comandi io e perciò sta a me decidere che cosa insegnare.
- Credevo che comandasse soltanto Iddio, signore.
   Qualcuno venne cacciato dall'aula. Si presentarono dei genitori per un colloquio con il preside. O forse la loro intenzione era quella di parlare con Lewis, ma il preside si assicurò che non accadesse. Lewis seppe di questi colloqui soltanto in seguito, dai commenti, per lo più scherzosi, scambiati in sala insegnanti.    - Non è il caso che ti preoccupi, - disse il preside. Si chiamava Paul Gibbings, e aveva qualche anno meno di lui.
- Hanno solo bisogno di sentirsi ascoltati. Di qualcuno che li comprenda.
- Li avrei compresi io, - disse Lewis.
- Già. Ma non è esattamente il tipo di comprensione che avevo in mente.
- Dovremmo mettere un bel cartello. E’ vietato l'accesso a cani e genitori.
- Capisco che cosa vuoi dire, - ribatté Gibbings, sospirando affettuoso. - Credo però che abbiano dei diritti anche loro.
   I giornali locali cominciarono a pubblicare certe lettere. Più o meno una ogni due settimane, firmata «Un genitore preoccupato» oppure «Un contribuente cristiano» o ancora «Dove vogliamo arrivare?» Erano testi ben scritti, composti con buona padronanza sintattica e lessicale, tanto da far nascere il sospetto che fossero stati commissionati. Vi si sosteneva che non tutte le famiglie potevano permettersi la retta delle scuole private confessionali, ma che tutti in compenso pagavano le tasse. Pertanto era loro diritto iscrivere i figli a una scuola pubblica dove la fede non venisse oltraggiata o deliberatamente vilipesa. Utilizzando un linguaggio scientifico, qualcuno spiegò come la storia fosse piena di malintesi, e come certe scoperte che potevano sostenere le tesi evoluzionistiche si fossero poi rivelate autentiche conferme dell'assunto biblico. Seguivano citazioni di testi biblici che pronosticavano i falsi insegnanti del mondo moderno e il conseguente abbandono di ogni morale applicata alla vita.
   Col passare del tempo il tono cambiò; divenne collerico. Agenti dell'Anticristo a capo del governo e delle aule scolastiche. Gli artigli di Satana pronti a ghermire l'anima dei ragazzi, costretti a recitare, durante gli esami, il catechismo della dannazione.
- Che differenza c'è tra Satana e l'Anticristo, ammesso che ci sia una differenza? - domandò Nina. - I quaccheri sono poco ferrati sull'argomento.
   Lewis rispose pregandola di non buttarla sullo scherzo.
- Scusa, - replicò lei seria. - Secondo te, chi scrive queste cose? Un prete?
   No, rispose lui. Un prete ne avrebbe curato meglio la struttura. No, doveva trattarsi di una campagna di propaganda, di una casa madre che forniva lettere a vari indirizzi decentrati. Dubitava che la vicenda potesse avere avuto inizio nelle sue classi. Era tutto organizzato, e le scuole venivano prese di mira, soprattutto nelle zone dove c'era buona speranza di incontrare adesioni da parte del pubblico.
- Lo vedi. Niente di personale.
- Non mi pare una consolazione.
- Ah no? Credevo lo fosse, invece.
   Qualcuno scrisse «Tizzone d'Inferno» sull'auto di Lewis. Non con la vernice spray. Solo con il dito passato nella polvere.
   Le lezioni dell'ultimo corso cominciarono a venir boicottate da una minoranza di studenti che si sedeva a terra davanti alla porta, esibendo tanto di giustificazione firmata dai genitori. Quando Lewis iniziava a parlare, quelli intonavano un canto.
   All things brighi and beautiful
   All creatures great and small
   All things tvise and wonderful    The Lord God made them ali1.
   Il preside proibì con una circolare di occupare lo spazio dell'atrio, ma non ordinò ai manifestanti di rientrare in classe. Gli studenti dovettero riunirsi in un magazzino dietro la palestra, dove proseguirono coi canti; un intero repertorio di inni. Le loro voci si mescolavano in modo stridente ai bruschi comandi dell'insegnante di educazione fisica e ai tonfi sordi sul pavimento della palestra.
   Un lunedì mattina sulla scrivania del preside comparve una petizione firmata, copia della quale veniva intanto recapitata alla sede del giornale locale. Le firme erano state raccolte non solo tra i genitori dei ragazzi coinvolti, ma anche da varie congregazioni religiose della città. Per lo più provenivano da comunità integraliste. Ma ce n'erano alcune anche della Chiesa Unitaria, Anglicana e Presbiteriana.    Nella petizione non si faceva parola di tizzoni d'inferno.

1. Tutte le cose belle e luminose / Tutte le creature grandi e piccole / Tutte le cose sagge e meravigliose / Sono opera del Signore [N. d. T].

E neppure di Satana, né dell'Anticristo. Si chiedeva soltanto di garantire all'interpretazione biblica della creazione pari opportunità, e di rispettarla come ogni altra scelta.
   « I firmatari del presente documento ritengono che la voce di Dio sia rimasta troppo a lungo inascoltata».
- Tutte idiozie, - commentò Lewis. - Ma se non credono né alle pari opportunità, né alla libera scelta.
Sono solo dei fanatici, ecco che cosa sono. Dei fascisti.
   Paul Gibbings andò a casa di Lewis e Nina. Non gli andava di discutere della vicenda dove potevano esserci spie in ascolto. (Una delle segretarie era membro della Bible Chapel). Non si faceva grosse illusioni sulla possibilità di persuadere Lewis, ma sentiva di dover fare un tentativo.
- Mi hanno messo con le spalle al muro, mondo boia, - disse.
- Licenziami, - disse Lewis. - Assumi un qualunque coglione creazionista al mio posto.
   Il figlio di puttana ci sta provando gusto, pensò Paul. Ma si controllò. Ultimamente pareva essere diventata quella, la sua attività primaria: esercitare il controllo.
- Non sono venuto per parlare di questo. Voglio dire che per un mucchio di persone questa gente si sta solo dimostrando ragionevole. E mi riferisco anche a membri del consiglio d'istituto.
- Falli contenti. Licenziami. Spalanca le porte ad Adamo ed Eva.
   Nina portò il caffè. Paul la ringraziò cercando di incrociarne lo sguardo per cogliere un'eventuale possibilità di sostegno. Macché.
- Sì, certo, - disse. - Ma se non potrei farlo neanche volendo. E non voglio. Avrei il sindacato sul collo. La storia farebbe il giro di tutta la provincia, potrebbe diventare perfino motivo di sciopero; dobbiamo pensare ai ragazzi.
   L'appello al bene dei ragazzi poteva far centro, con uno come Lewis. Ma ormai era perso in una delle sue fissazioni.
- Spalanca le porte ad Adamo ed Eva. Con o senza foglia di fico.
- Tutto quello che chiedo è un discorsetto che spieghi come questa sia solo un'interpretazione, e come la gente abbia il diritto di credere in cose diverse. Riduci la vicenda della Genesi a un quarto d'ora, venti minuti. Leggila ad alta voce. Ma fallo con rispetto. Lo sai bene anche tu qual è il punto, no? E che la gente si sente trattata male. Alla gente non va giù di sentirsi trattata male, tutto qui.
   Lewis restò in silenzio per un tempo sufficiente a creare una speranza - in Paul e forse anche in Nina, chi poteva dirlo? - ma si scoprì alla fine che la lunga pausa era solo un espediente per lasciar decantare quello che lui giudicava il livello inqualificabile della richiesta.
- Allora? - fece Paul prudente.
- Posso anche leggere la Genesi ad alta voce da cima a fondo, ma poi dichiarerò che contiene solo un'accozzaglia di presuntuosi concetti teologici per lo più presi a prestito da altre culture migliori.
- Miti, - intervenne Nina. - Dopo tutto un mito non è una menzogna, è solo...
   Paul non ritenne importante prestarle attenzione. Lewis del resto non lo stava facendo.
   Lewis scrisse una lettera al giornale. Nella prima parte mantenne un tono moderato e accademico; descrisse la deriva dei continenti, la formazione degli oceani e la formidabile nascita della vita sul pianeta in condizioni assai poco favorevoli. Organismi primordiali, oceani vuoti di pesci e cieli sgombri di uccelli. Ere rigogliose e catastrofi, i regni di anfibi, rettili, dinosauri, i mutamenti climatici, la comparsa dei primi mammiferi. Il processo di adeguamento per successivi errori, la tarda e poco promettente entrata in scena dei primati, gli umanoidi che si ergono sulle zampe posteriori e producono il fuoco, affilano pietre, segnano il territorio e, in una recente accelerazione del processo, costruiscono navi e piramidi e bombe, inventano lingue e divinità sacrificandosi e assassinandosi reciprocamente. Che lottano per stabilire se Dio si debba chiamare Jehovah o
Krishna (a questo punto il tono si fece più veemente) o se sia bene mangiare carne di maiale; che si genuflettono strepitando preghiere rivolte a un Vegliardo abitatore del cielo che ha molto a cuore le sorti di guerre e partite di calcio. Che infine, sorprendentemente, elaborano alcuni concetti e avviano un percorso di conoscenza di sé e dell'universo in cui si trovano a vivere, per poi decidere che è più conveniente gettare alle ortiche tutto quel faticoso sapere, rispolverare il Vegliardo e rimettere tutti in ginocchio, pronti a farsi imbottire di vecchie chiacchiere. Tanto valeva ricacciare fuori l'idea che la terra è piatta, visto che c'erano.
   Affettuosamente Vostro, Lewis Spiers.
   Il direttore del giornale veniva da fuori e si era da poco diplomato presso la Scuola di Giornalismo. Fu soddisfatto del clamore suscitato e continuò a pubblicare le risposte («Non Si Mette Dio Alla Berlina», firmata dall'intera congregazione della Bible Chapel; «L'Autore Svilisce Il Dibattito», di un tollerante ma amareggiato ministro della Chiesa Unitaria, offeso dall'impiego del termine «chiacchiere», e «Vegliardo»), finché l'editore della rete di quotidiani gli rese noto che quel genere di cagnara era anacronistica e inopportuna e che scoraggiava gli inserzionisti. Ci metta un coperchio, gli disse.
   Lewis scrisse un'altra lettera, questa volta di dimissioni. Accolta con rammarico, dichiarò Paul Gibbings, sempre sul giornale, anche perché si parlava di motivi di salute.
   Motivi veri, sebbene Lewis, dal canto suo, avrebbe preferito non renderli noti al pubblico. Da parecchie settimane avvertiva un senso di fiacchezza alle gambe. Proprio in un momento in cui sarebbe stato importante per lui dominare la classe, passeggiare avanti e indietro davanti alla cattedra, si sentiva tremante, desideroso di stare seduto. Non cedette mai, ma certe volte dovette aggrapparsi allo schienale della sedia in un gesto spacciato per enfasi. E di quando in quando si rese conto che non avrebbe saputo dire dove aveva i piedi. Se a terra ci fosse stato un tappeto avrebbe potuto inciampare nella minima piega, e perfino in classe, dove tappeti non ce n'erano, un pezzetto di gesso caduto, una matita, potevano trasformarsi in minacce.
   Era furioso per quel malessere, che interpretava come reazione psicosomatica. Non gli era mai capitato di avere disturbi nervosi di fronte agli allievi né a qualunque altro tipo di pubblico. Quando ricevette la diagnosi autentica, nello studio del neurologo, la sua prima reazione - lo disse a Nina - fu di ridicolo sollievo.
- Temevo di essere diventato nevrotico, - disse, e scoppiarono a ridere insieme.
- Temevo di essere diventato nevrotico, e invece ho solo una sclerosi laterale amiotrofica -. Risero, incespicando nel corridoio moquettato; poi entrarono in ascensore dove la gente li fissò stupefatta: il riso era tra le manifestazioni più insolite da quelle parti.
   L'agenzia di Onoranze Funebri LakeShore aveva sede in un vasto edificio moderno in mattoni chiari - tanto recente che il terreno circostante non aveva ancora assunto l'aspetto di un prato con siepi ornamentali. Non fosse stato per l'insegna, la si sarebbe potuta credere una clinica, o un centro di uffici amministrativi. La denominazione LakeShore non dipendeva dal fatto che la costruzione si affacciasse sul lago; si trattava di una deliberata arguzia linguistica studiata per inserire il cognome del titolare: Bruce Shore. A certi la cosa appariva sconveniente. Quando ancora a ospitare la ditta era una massiccia villa vittoriana del centro, l'azienda, gestita dal padre di Bruce, si chiamava semplicemente Onoranze Funebri Shore. Ai tempi in effetti l'edificio era anche abitazione, con ampio spazio per Ed e Kitty Shore e i loro cinque figli al secondo e al terzo piano.
   Nel nuovo edificio invece non abitava nessuno, ma c'erano una stanza, un angolo cottura e una doccia. Nel caso Bruce Shore avesse dovuto trovare più comodo fermarsi per la notte anziché farsi venticinque chilometri di strada per raggiungere la casa di campagna dove lui e sua moglie allevavano cavalli.
   Era successo così la sera prima, a causa di un incidente a nord della città. Un'auto carica di ragazzi era andata a schiantarsi contro la spalletta di un ponte. Circostanze del genere
- guidatore fresco di patente o addirittura sprovvisto della medesima, equipaggio ubriaco fradicio - si verificavano di solito in primavera, intorno al periodo degli esami finali, o nell'eccitazione delle prime settimane di scuola, a settembre. Questo era invece il momento dell'anno più adatto alle fatalità dei forestieri - l'anno prima era toccato a un gruppo di infermiere arrivate dalle Filippine -, colti di sorpresa dal primo impatto con le insidie della neve.
   Eppure in una notte perfettamente serena e su una strada asciutta, era toccato a due diciassettenni, entrambi del posto. E poco prima era arrivato Lewis Spiers. Bruce aveva da fare fin sopra i capelli - il lavoro per rendere presentabili quei due ragazzi lo impegnò fino a tarda sera. Aveva chiamato suo padre. Ed e Kitty, che trascorrevano l'estate nella casa di città, non erano ancora partiti per la Florida, e così Ed era venuto a occuparsi di Lewis.
   Bruce era andato a correre per rilassarsi un po'. Non aveva neppure fatto colazione quando, ancora in tuta da jogging, vide la signora Spiers accostare a bordo della vecchia Honda Accord. Si precipitò in sala d'attesa ad aprirle la porta.
   Era una donna alta e magrissima, grigia di capelli ma agile e scattante nel movimento. Quella mattina non sembrava poi tanto malmessa, anche se Bruce non mancò di notare che si era scordata di infilarsi un cappotto.    - Mi scusi. Mi scusi, - le disse. - Torno adesso da un po' di esercizio. Shirley non è ancora arrivata, purtroppo. Siamo molto addolorati per la sua perdita.
- Sì, - disse lei.
- Il signor Spiers è stato il mio insegnante di scienze in terza e in quarta superiore ed è l'unico insegnante che non scorderò mai. Vuole accomodarsi? Lo so che in un certo senso era preparata, ma è un'esperienza per la quale non si è mai pronti del tutto. Vuole che ci occupiamo adesso del necrologio o preferisce vedere suo marito?
   Lei disse: - Volevamo soltanto una cremazione.
   Bruce annuì. - Certo. Dopo.
- No. Deve essere cremato subito. Voleva così. Pensavo di poter ritirare le ceneri.
- Be', non avevamo ricevuto istruzioni in tal senso, - ribatté lui deciso. - Abbiamo preparato il corpo. Ha un ottimo aspetto, mi creda. Le piacerà, ne sono certo.
   Lei restò in piedi a fissarlo.
- Ma non preferisce sedersi? - disse lui. - Aveva in mente di organizzare comunque qualcosa, giusto? Un rito di qualche genere. Chissà quanta gente vorrà dare un estremo saluto al signor Spiers. Non è la prima volta, sa, che ci occupiamo del funerale di persone non religiose. Basta qualcuno che pronunci un elogio, al posto del sacerdote. Oppure, se non le piace nemmeno quel genere di formalità, si può dire alle persone di esprimere un pensiero ad alta voce. Sta a lei decidere se vuole il feretro chiuso o aperto. Di solito, in zona, lo preferiscono aperto. Nei casi di cremazione ovviamente c'è meno scelta di bare. Ne abbiamo di un tipo molto decoroso a vedersi, ma di gran lunga più economico.
   Lei lo fissava sbalordita.
   Il fatto è che il lavoro era stato concluso e nessuno aveva dato ordine di non procedere. Un lavoro come un altro, da pagare. Senza considerare il materiale.
- Le sto solo illustrando quello che credo potrà desiderare, appena si sarà data il tempo di mettersi seduta a pensarci un attimo. Noi siamo qui per accontentarla...
   Forse si era spinto un po' troppo in là.
- Ma abbiamo proceduto in questo modo perché nessuno ci ha detto di non farlo.
   Un'auto si fermò all'esterno, si sentì sbattere la portiera; Ed Shore entrò nella stanza. Bruce provò un enorme sollievo. Aveva ancora tanto da imparare in quel mestiere. Per esempio, i rapporti con i parenti del defunto.
   Ed disse: - Ciao, Nina. Ho visto la tua macchina. Volevo solo dirti che mi spiace tanto.
   Nina aveva trascorso la notte in soggiorno. Immaginava di aver dormito, ma di un sonno talmente leggero da sapere per tutto il tempo dove si trovava - sul divano in soggiorno - e dov'era Lewis - nella camera ardente.
   Quando provò a parlare, scoprì che le battevano i denti.
Il fatto la colse del tutto alla sprovvista.
   Quel che cercava di dire, quel che incominciò a dire pensando di esprimersi in modo assolutamente normale, era «Volevo farlo cremare subito», invece udì, o percepì, i propri singhiozzi e il balbettio incontrollabile.
- Voglio... vorrei... lui voleva...
   Ed Shore la prese per un polso e con l'altro braccio le cinse le spalle. Anche Bruce aveva teso le braccia, ma non la sfiorò.
- Dovevo farla sedere, - disse in tono mesto.
- E’ tutto a posto, - disse Ed. - Te la senti di arrivare fino alla macchina, Nina? Hai bisogno di una boccata d'aria fresca.
   Ed guidò con i finestrini abbassati verso la parte vecchia della città, fino a una strada cieca che terminava con una rotonda panoramica sul lago. Di giorno la gente ci veniva per godersi il paesaggio - magari mangiando il panino del pranzo. Ma la notte quello era un posto da innamorati. Il pensiero poteva aver sfiorato anche Ed, oltre che Nina, mentre parcheggiava.
- Pensi che possa bastare, l'aria? - disse. - Non vorrai prenderti un raffreddore, così, senza una giacca.
   Nina rispose in tono circospetto: - Fa abbastanza caldo. Come ieri.
   Non erano mai stati seduti vicini in macchina, né al buio né in pieno giorno; non avevano mai cercato un posto dove stare un po' soli.
   Sembrava una riflessione di cattivo gusto in quel momento.
- Mi dispiace, - disse Nina. - Ho perso il controllo. Volevo dire soltanto che noi due... che lui...
   E le successe di nuovo. Tutto da capo. I denti che le battevano, il tremore, il confondersi delle parole. Orrendo, pietoso. Non era nemmeno espressione di ciò che provava davvero. Prima, si era sentita invadere di rabbia impotente, parlando con Bruce, o meglio, ascoltandolo. Ma adesso si era convinta di essere calmissima e ragionevole.
   Questa volta, visto che erano soli, lui non la toccò. Si mise solo a parlare. Non stare a preoccuparti di niente. Ci penso io. Subito. Farò in modo che si sistemi tutto. Ho capito. Cremazione.
- Respira con calma, - disse. - Inspira. Trattieni il fiato. Espira.
- Sto bene.
- Ma certo.
- Non so che mi prende.
- E’ lo shock, - disse lui pacato.
- Ma non è da me.
- Guarda verso l'orizzonte.
   Stava estraendo qualcosa dalla tasca. Un fazzoletto? Ma non le serviva nessun fazzoletto. Non piangeva con le lacrime. Erano solo singhiozzi.
   Era un pezzo di carta ben ripiegato.
- Ti ho tenuto questo da parte, - disse. - Ce l'aveva nella tasca del pigiama.
   Nina infilò il foglio nella borsetta, con un gesto attento e tranquillo, come se si trattasse di una ricetta medica. A quel punto capì il senso di ciò che Ed le aveva detto finora.
- C'eri quando l'hanno portato.
- Mi sono occupato io di lui. Bruce mi ha chiamato. C'è stato un incidente stradale e da solo non riusciva a cavarsela.
   Non chiese neppure quale incidente. Non le importava. In quel momento voleva soltanto restare sola per leggere il messaggio di Lewis.
   La tasca del pigiama. L'unico posto dove non aveva guardato. Non l'aveva neppure sfiorato, il corpo.    Dopo che Ed l'ebbe riaccompagnata, tornò a casa con la sua macchina. Appena si fu allontanata abbastanza da lui, che la salutava con la mano, accostò. Con una mano già rovistava nella borsetta, prima ancora di fermare l'auto. Lesse il messaggio senza spegnere il motore, poi proseguì.
   Sul marciapiede di fronte a casa trovò un altro messaggio.
   Dio ha voluto così.
   Il tratto era frettoloso, incerto, tracciato col gesso. Sarebbe stato facile da pulire.
   Quello che Lewis aveva scritto e lasciato apposta per lei era una poesia. Una manciata di versi scherzosi e scadenti.
Aveva un titolo: La Lotta tra Genesitici e Figli di Darwin per l'Anima di una Generazione di Smidollati.
C'era un Santuario di conoscenza Che sulla riva del lago affacciava Dove campioni di ottusa ignoranza Ascoltavan le prediche di chi li tediava...
E il Numero Uno, il più gran Seccatore, Era uno stronzo ognor sorridente Che aveva un'unica idea fissa in mente: Dir loro quello che avevano a cuore.
   Un inverno, a Margaret era venuta l'idea di organizzare una serie di serate alle quali varie persone avrebbero tenuto discorsi - non troppo lunghi - su temi e argomenti di loro interesse e competenza specifici. L'aveva pensata destinata agli insegnanti («Agli insegnanti tocca di solito starsene in piedi a blaterare di fronte a un pubblico privo di scelta, - disse. - Hanno bisogno per una volta di stare a sentire qualcuno che racconti qualcosa a loro»), ma poi decise che sarebbe stato più interessante invitare anche rappresentanti di altre professioni. Prima ci sarebbe stata una cena con piatti a sorpresa, da Margaret.
   Fu così che in una fredda sera stellata, Nina si ritrovò davanti alla porta di servizio di Margaret, nell'atrio buio stipato di giacche, zaini e mazze da hockey dei figli di Margaret: al tempo infatti erano ancora tutti a casa. Nel soggiorno - dal quale nessun rumore riusciva più a filtrare - Kitty Shore procedeva con il suo argomento a scelta, vale a dire le vite dei santi. Kitty e Ed Shore appartenevano al gruppo della «gente vera» invitata al raduno; erano anche i vicini di Margaret. Ed aveva parlato un'altra sera, di alpinismo. Lo aveva praticato un poco, sulle Montagne Rocciose, ma per lo più riferì delle spedizioni tragiche e avventurose di cui amava leggere. (Quella sera, mentre andavano in cucina a prendere il caffè, Margaret aveva detto a Nina: «Avevo paura che ci parlasse di imbalsamazione», e Nina era scoppiata a ridere e aveva ribattuto: «Ma no, non è il suo argomento preferito. Non rientra nella categoria degli hobby. Non credo siano in tanti ad avere l'hobby dell'imbalsamazione»).
   Ed e Kitty erano una bella coppia. Margaret e Nina concordavano, in confidenza, sul fatto che Ed sarebbe stato molto attraente, se non fosse stato per il suo mestiere. Il lustro pallore delle sue lunghe mani sapienti era straordinario e suggeriva spontanea la domanda, Ma cos'avrà mai fatto con quelle mani? La formosa Kitty veniva sovente definita una delizia: era piccola e pettoruta, una brunetta dagli occhi caldi e la voce carica di entusiasmo. Era entusiasta del suo matrimonio, dei figli, delle stagioni, della città e, soprattutto, della sua religione. In seno alla Chiesa Anglicana, di cui era membro, gli entusiasti come lei costituivano una rarità, e girava voce che la si considerasse un tormento, per il suo rigore, certi fanatismi e la predilezione per cerimonie arcaiche come l'Ordinamento femminile. Anche Nina e Margaret la trovavano piuttosto pesante, mentre per Lewis era veleno puro. Ma quasi tutti gli altri ne erano innamorati.
   Quella sera indossava un abito di lana rosso cupo e gli orecchini che uno dei figli le aveva fatto e regalato per Natale. Sedeva in un angolo del divano con le gambe ripiegate sotto il corpo. Finché si limitò a trattare dell'incidenza storica e geografica dei santi andò tutto bene, o meglio, bene per Nina, la quale sperava che Lewis non avrebbe ritenuto necessario passare all'attacco.
   Kitty si disse costretta a escludere dal discorso tutti i santi dell'Europa orientale per concentrarsi essenzialmente su quelli delle isole britanniche, in particolare gli originari di Cornovaglia, Galles e Irlanda, santi celtici dai nomi meravigliosi, i suoi preferiti. Ma quando prese a elencare prodigi e miracoli, e soprattutto quando la sua voce si fece più estatica e fiduciosa e gli orecchini si misero a tintinnare, Nina venne colta da una certa apprensione. Sapeva che tanti potevano giudicarla superficiale, disse Kitty, per l'abitudine di rivolgere preghiere ai santi in casi come un fallimento ai fornelli, eppure lei era proprio convinta che i santi esistessero a quello scopo. Non erano troppo sublimi e potenti per interessarsi a simili tribolazioni, a quei dettagli dell'esistenza per i quali ci si vergognava di disturbare Iddio e l'Universo. Con l'aiuto dei santi si poteva indugiare un poco in un mondo bambino, nella puerile speranza di ottenere soccorso e consolazione. Dovete diventare come fanciulli. Del resto, erano i piccoli miracoli, certo, solo i piccoli miracoli, a prepararci per quelli grandi, giusto?
   Allora, c'erano domande?
   Qualcuno chiese quale fosse il prestigio accordato ai santi all'interno della Chiesa Anglicana. Della Chiesa Protestante in genere.
   - Be', a rigor di termini, io non ritengo che quella Anglicana sia da considerare una Chiesa Protestante, - rispose Kitty. - Ma non voglio approfondire questo argomento. Quando, recitando il Credo, diciamo «Credo nella Santa Chiesa Cattolica», secondo me intendiamo la grande, universale Chiesa Cristiana. Poi diciamo anche «Credo nella Comunione dei santi». Certo, non ci sono statue nelle chiese. Anche se personalmente sono del parere che ci starebbero benissimo.
   Margaret disse: - Caffè? - e tutti capirono che la parte formale della serata era conclusa. Ma Lewis avvicinò la sedia a Kitty e, in tono quasi gioviale, disse: - Dunque? Dobbiamo dedurne che lei crede a questi miracoli?
   Kitty scoppiò a ridere. - Assolutamente. Non potrei vivere se non credessi ai miracoli.
   A quel punto Nina sapeva che cosa sarebbe accaduto. La lenta e implacabile avanzata di Lewis, mentre Kitty lo contrastava con gioiosa determinazione e con quelle che lei avrebbe definito le sue incantevoli assurdità femminili. Ecco su cosa si fondava la sua sicurezza: sul fascino. Ma Lewis non era tipo da farsi incantare. Lui avrebbe voluto sapere. Che forma assumono questi santi al momento attuale? In paradiso, occupano lo stesso territorio dei morti qualsiasi, dei virtuosi antenati? E come vengono selezionati? Si concorre per titoli, in base ai miracoli certificati? E come si riesce a certificare un miracolo di qualcuno vissuto quindici secoli prima? Anzi, un miracolo in genere? Nel caso dei pani e dei pesci, ad esempio, si conta. Ma è poi contare sul serio, o solo far finta? Fede? Ah, certo. Dunque è tutta questione di fede. Nelle vicende quotidiane, nella vita insomma, Kitty viveva di fede?
   Esatto.
   Perciò non si affidava mai alla scienza. Certo che no. Quando i suoi figli si ammalavano, non li curava con le medicine. Non si preoccupava di fare il pieno dell'auto, perché aveva la fede...
   Intorno a loro sono ormai scaturite una dozzina di conversazioni eppure, a causa dell'intensità e del livello di rischio - la voce di Kitty ora si alza e si abbassa con il saltellio di un passerotto sopra un filo, mentre ripete «Ma non sia sciocco» oppure «Mi crede forse una pazza scriteriata», e il tono scherzoso di Lewis si carica di scherno, di serio disprezzo -, queste parole avranno la meglio su tutte le altre, in ogni istante e in ogni angolo della stanza.
   Nina ha la bocca amara. Va in cucina ad aiutare Margaret. Si sfiorano, mentre Margaret torna portando il caffè. Nina prosegue verso la cucina e raggiunge l'atrio di servizio. Dal riquadro di vetro nella porta, sbircia fuori nella notte senza luna, e osserva le sponde di neve lungo la strada, le stelle. Appoggia la guancia calda contro il vetro.
   Si tira su di scatto sentendo la porta della cucina aprirsi; si volta, sorride, ed è sul punto di dire: «Sono solo venuta a vedere che tempo faceva». Ma quando vede la faccia di Ed Shore stagliarsi nella luce, un attimo prima che richiuda la porta, si convince di non aver bisogno di pronunciare quelle parole. Si salutano scambiandosi una breve risata cordiale, che contiene un vago accenno di scuse e la volontà di dissociarsi; una risata in grado di comunicare con successo un mucchio di cose.
   Stanno disertando Kitty e Lewis. Appena per un momento: Kitty e Lewis non se ne accorgeranno. Lewis non si ridurrà a secco di carburante e Kitty troverà il modo - provare pena per Lewis potrebbe già essere uno - per scampare al pericolo di ritrovarsi sconfitta. Kitty e Lewis non si sentiranno nauseati di se stessi.    E’ questo che provano Ed e Nina? Nausea per gli altri due, o almeno per l'aggressività razionale e per la convinzione cieca? Sfinimento, per l'incapacità di cedere a quei caratteri battaglieri?
   Non si esprimerebbero esattamente così. Direbbero solo che sono stanchi.
   Ed Shore cinge Nina con un braccio. La bacia - non sulla bocca e nemmeno sul viso, ma sulla gola. Nel punto in cui potrebbe pulsare il suo battito accelerato, la gola.
   E’ un uomo che deve abbassarsi per farlo. Per molti altri, sarebbe il punto più naturale su cui appoggiare le labbra. Ma lui è così alto da doversi chinare, e la bacia perciò deliberatamente in quel punto tenero e nudo.
- Prenderai freddo qui fuori, - le dice.
- Lo so. Adesso rientro.
   A tutt'oggi Nina non ha mai fatto sesso con altri che Lewis. Non ci si è mai nemmeno avvicinata.    Fatto sesso. Fare sesso. Per molto tempo non è stata in grado di dirlo. Diceva fare l'amore. Lewis non diceva niente. Era un partner fantasioso e prestante e, sul piano fisico, piuttosto premuroso. Mai distratto. All'erta in compenso contro qualsiasi manifestazione che potesse sfociare nel sentimentalismo e, per come la vedeva lui, ce n'erano parecchie. Nina finì per diventare molto sensibile a quel suo disgusto, quasi a condividerlo.
   Il ricordo del bacio di Ed Shore sulla porta della cucina le divenne comunque prezioso. Quando, ogni anno a Natale, Ed cantava l'assolo da tenore nell'esecuzione della corale del Messia, le ritornava in mente quell'attimo. Il «Sii di conforto al mio popolo» le penetrava la gola come punte di stelle. Come se in quel momento ogni cosa di lei venisse riconosciuta e onorata e inondata di luce.
   Paul Gibbings non si era aspettato grane da Nina. L'aveva sempre giudicata una persona affettuosa, in quel suo modo schivo. Non caustica come Lewis. Ma intelligente. - No, - disse lei. - Lui non avrebbe voluto.
- Nina. Insegnare era la sua vita. Ci si è dedicato tanto.
C'è un mucchio di persone, non so se hai idea di quante siano, che si ricordano di quando ascoltavano incantate le sue lezioni. E’ probabile che di tutto il liceo non ricordino nessuno come Lewis. Aveva carisma, Nina. Uno o ce l'ha o non ce l'ha. E lui ne aveva a palate.
- Non lo metto in dubbio.
- Perciò adesso questa gente desidera dirgli addio. Abbiamo tutti bisogno di dirgli addio. E di rendergli onore. Sai cosa intendo? Dopo tutta la storia. Di chiudere.
- Sì, capisco. Di chiudere.
   Un tono un po' acido, pensò Paul Gibbings. Ma lo ignorò. - Non occorre metterci di mezzo la religione. Niente preghiere. Nessuna predica. So bene quanto te che le avrebbe detestate.
- Esatto.
- Lo so. Potrei fare io da cerimoniere, sempre che l'espressione non sia fuori luogo. Ho già idea di quali potrebbero essere le persone giuste a cui chiedere un breve ricordo. Magari una mezza dozzina, e io direi due parole in chiusura. Il termine esatto, credo sia «elogio», ma io preferisco ricordo.
- Lewis preferirebbe niente.
- E possiamo inserire la tua partecipazione quando e quanto desideri...
- Paul. Ascolta. Adesso ascolta me.
- Ma certo. Ti ascolto.
- Se decidi di farlo, io parteciperò.
- Bene. Benissimo.
- Alla sua morte, Lewis ha lasciato... si tratta di una poesia, in effetti. Se tu decidi di procedere, io la leggerò.
- Sì?
- Voglio dire che la leggerò ad alta voce davanti a tutti. Te ne faccio sentire un pezzetto subito.    - D'accordo. Sentiamo.
   C'era un Santuario di conoscenza
   Che sulla riva del lago affacciava
   Dove campioni di ottusa ignoranza    Ascoltavan le prediche di chi li tediava...
- Decisamente Lewis, direi.    E il Numero Uno, il più gran Seccatore,    Era uno stronzo ognor sorridente...
- Nina. Okay. Okay. Ho capito. Allora è questo che vuoi? L'Associazione Genitori Insegnanti di Harper Valley?
- C'è dell'altro.
- Non ne dubito. Devi essere molto sconvolta, Nina. Non credo che ti comporteresti in questo modo, altrimenti. E quando ti sentirai meglio, ti dispiacerà.
- No.
- Io credo che ti dispiacerà. Adesso ti lascio, metto giù. Devo proprio salutarti.
- Accidenti, - disse Margaret. - Come l'ha presa?
- Ha detto che doveva proprio salutarmi.
- Vuoi che venga li? Potrei farti compagnia.    - No. Grazie.
- Non vuoi compagnia?
- Direi di no. Non adesso.
- Sei sicura? Stai bene?
- Sono a posto.
   In realtà non era tanto soddisfatta delle proprie reazioni durante quella conversazione telefonica. Lewis le aveva detto: «Mi raccomando, stroncali se incominciano a rompere con l'idea di una qualsiasi stronzata funebre. Quel paraculo è capace di farlo». Perciò si era vista costretta a bloccare Paul in qualche modo, ma quello adottato le era parso volgarmente melodrammatico. L'indignazione era l'unica risorsa rimasta a Lewis, la ritorsione, suo appannaggio privato: lei non aveva saputo far altro che citare parole sue.
   Andava al di là delle sue forze, immaginare come sarebbe riuscita a vivere, solo con le sue vecchie, tranquille abitudini. Svogliata e muta, senza di lui.
   Più tardi quella sera, Ed bussò alla porta di servizio. Aveva in mano la cassetta con le ceneri e un mazzo di rose bianche.
   Le diede prima le ceneri.
- Oh, - disse lei. - Già fatto.
   Sentì un tepore attraverso il cartone pesante. Non le arrivò subito ma a poco a poco, come il calore del sangue attraverso la pelle.
   Dove doveva appoggiarle? Non sul tavolo di cucina accanto alla cena praticamente intatta. Uova strapazzate e salsa piccante, una combinazione che pregustava sempre quando Lewis per qualche ragione faceva tardi e si fermava a mangiare con altri insegnanti da Tim Horton o al pub. Ma oggi era risultata un'idea poco felice.
   Nemmeno sulla credenza però. Sarebbero sembrate una grossa scatola di roba da mangiare. E neanche per terra, dove sarebbe stato più facile non farci caso ma avrebbero dato l'impressione di essere relegate in un luogo umiliante, come se la cassetta contenesse, che so, sabbia per gatti o fertilizzante da giardino, qualcosa che non doveva stare nei pressi dei piatti e del cibo.
   In effetti avrebbe voluto portarle in un'altra stanza, deporre la cassetta da qualche parte in una delle camere buie sul lato anteriore della casa. O meglio ancora, su uno scaffale nella dispensa. Ma era troppo presto per bandirle così dalla vista. E poi, considerando che Ed Shore la stava osservando, poteva apparire come un gesto sbrigativo, un brutale far piazza pulita, un volgare invito.
   Alla fine appoggiò la cassetta sul tavolino basso del telefono. - Non volevo farti restare in piedi, - disse. - Accomodati, prego.
- Ho interrotto la tua cena.
- Non ne avevo più voglia.
   Aveva ancora i fiori in mano. Nina disse: - Sono per me? - L'immagine di lui con il mazzo di fiori, con le ceneri e il mazzo di fiori, nel vano della porta, ora che ci pensava, le apparve grottesca e orribilmente comica. Era il genere di visione su cui avrebbe potuto ridere in modo irrefrenabile, raccontandola a qualcuno. A Margaret per esempio. Si augurò di non farlo mai.
   Quelli sono per me?
   Potevano anche essere per il morto. Fiori per la casa del morto. Si mise a cercare un vaso, poi riempì il bollitore dicendo: - Stavo giusto per mettere su il tè, - tornò alla ricerca del vaso, lo trovò, lo riempì d'acqua, prese le forbici per spuntare gli steli e finalmente gli liberò le mani dai fiori. A quel punto si accorse che non aveva acceso il gas sotto l'acqua. Era fuori di sé. Le pareva che avrebbe potuto benissimo scaraventare a terra le rose, fracassare il vaso, ammucchiare tutto quanto nel piatto della cena. Ma perché? Non era in collera. Era solo talmente assurda la fatica di continuare a fare una cosa dopo l'altra. Ora avrebbe dovuto scaldare la teiera, dosare il tè.
   Disse: - Hai letto il foglio che hai trovato dentro la tasca di Lewis?
   Lui scosse il capo senza guardarla. Sapeva che stava mentendo. Mentiva, era scosso, e forse intendeva insinuarsi nella sua vita. E se lei avesse ceduto e gli avesse raccontato del proprio sbigottimento, anzi, perché non dirlo, del senso di freddo che le era calato nel cuore di fronte a quello che Lewis aveva scritto? Quando aveva capito che non aveva scritto altro.
- Non fa niente, - disse. - Erano solo versi.
   Erano una coppia di persone senza terra di mezzo, senza niente che separasse i convenevoli beneducati da un'intimità travolgente. Quello che c'era stato tra loro, in tutti quegli anni, si era mantenuto in equilibrio grazie ai rispettivi matrimoni. Erano i matrimoni l'autentico contenuto delle loro esistenze: il suo con Lewis era il contenuto della sua vita, ineluttabile, duro talvolta, e talvolta addirittura sbalorditivo. Quest'altra cosa dipendeva dai matrimoni, ne ricavava dolcezza, la promessa di un conforto. Era improbabile che si trattasse di qualcosa di autonomo, anche se entrambi fossero stati liberi. Eppure non era nemmeno insignificante. Il pericolo era metterla alla prova, vederla andare in pezzi e pensare che non fosse stata un bel niente.    Nina accese il gas, aveva la teiera pronta da riscaldare.
Disse: - Tu sei stato così gentile e io non ti ho nemmeno ringraziato. Devi bere una tazza di tè.
- Volentieri, - rispose lui.
   E quando si furono seduti al tavolo, dopo che il tè fu versato e latte e zucchero offerti - in quell'attimo che avrebbe potuto riempirsi di angoscia -, Nina ebbe un'ispirazione molto bizzarra.    Disse: - In che cosa consiste davvero il tuo lavoro?
- In che senso?
- Voglio dire: cosa gli hai fatto ieri sera? Magari non te lo domandano mai.
- Non così esplicitamente.
- Ti dà fastidio? In tal caso, non devi rispondermi.
- Non mi dà fastidio. Sono solo sorpreso.
- Anch'io sono sorpresa di avertelo chiesto.
- Be', vediamo, - disse lui, riappoggiando la tazza sul piattino. - Fondamentalmente quello che si deve fare è drenare i vasi sanguigni e la cavità addominale: qualche problema può nascere da eventuali coaguli e simili, perciò si prendono delle precauzioni per evitare che succeda. Nella maggior parte dei casi si utilizza la giugulare, ma capita anche di dover lavorare sul cuore. Per la cavità addominale invece si adopera uno strumento chiamato trequarti; è una specie di ago lungo e sottile attaccato a un tubo flessibile. Naturalmente è diverso se c'è stata un'autopsia e gli organi sono stati estratti. Allora occorre inserire dei tamponi di ovatta per restituire al corpo la forma naturale...
   Mentre le diceva tutto questo non la perse mai d'occhio, e procedette con cautela. Nessun problema: quel che Nina sentiva dentro era solo un'impassibile e vasta curiosità.
- Era questo il genere di cose che volevi sapere?
- Sì, - rispose lei decisa.
   Lui capì che era tutto a posto. Ne fu sollevato. E forse riconoscente. Doveva essere abituato a gente che evitava del tutto di parlare del suo mestiere, oppure che ci scherzava sopra.
- E poi si inietta il liquido, che è una soluzione di formaldeide, fenolo e alcol, e spesso si aggiunge un po' di colorante per le mani e il viso. La faccia è considerata importante e richiede un mucchio di lavoro sulle fosse oculari e sulle gengive. Poi si deve massaggiare la pelle e ritoccare le ciglia con cosmetici particolari. Ma la gente è capace di concentrarsi anche solo sulle mani e di pretenderle soffici e naturali, senza grinze sui polpastrelli.
- Hai fatto tutto questo lavoro...
- Non fa niente. Non era quello che volevi. Noi ci occupiamo per lo più di cosmesi. Al giorno d'oggi è questo che ci interessa, più che la preservazione sui tempi lunghi. Anche col vecchio Lenin, sai, dovevano continuare a iniettargli liquido in modo che non si disidratasse e non scolorisse; non so se lo fanno ancora.
   La digressione, o la disinvoltura, combinata con la serietà del tono della sua voce, le fecero tornare in mente Lewis. Ricordò il Lewis di due sere prima che, indebolito ma soddisfatto, le parlava di quelle creature monocellulari - senza nucleo, senza coppie cromosomiche, senza che altro? - che erano state l'unica forma di vita sulla terra per quasi due terzi della storia del pianeta.
- Prendiamo il caso degli antichi egizi, - disse Ed. - Loro erano convinti che l'anima facesse un viaggio della durata complessiva di tremila anni e poi ritornasse al corpo. Il quale perciò doveva cercare di mantenersi in discreta forma. Quindi a loro stava soprattutto a cuore la preservazione, mentre noi oggi ce ne interessiamo molto, molto di meno.
   ... senza cloroplasti e senza... mitocondri.
- Tremila anni, - disse. - E poi fa ritorno al corpo.
- Be', secondo loro, - disse lui. Appoggiò la tazzina vuota e aggiunse che era meglio se andava a casa.
- Grazie, - disse Nina. Poi, frettolosamente: - Tu credi che esistano le anime?
   Lui si alzò, con le mani appoggiate sul tavolo di cucina. Sospirò, scosse la testa e disse: - Sì.
   Poco dopo che se ne fu andato, Nina prese le ceneri e le sistemò in macchina sul sedile del passeggero. Poi rientrò in casa e tornò con le chiavi e la giacca. Guidò per un paio di chilometri fuori città, fino a un incrocio, poi parcheggiò e si incamminò per un viottolo, con la cassetta in mano. L'aria della notte era fredda e senza vento; la luna già alta.
   All'inizio la strada tagliava per un terreno paludoso dove crescevano delle stiance; attualmente erano secche, alte, invernali. C'erano anche delle asclepiadi dai baccelli vuoti e lustri come conchiglie. Ogni cosa era nitida sotto la luna. Sentiva odore di cavalli. Sì, ce n'erano due nelle vicinanze, massicce sagome nere oltre le stiance e la palizzata. Sfregavano i grandi corpi l'uno contro l'altro, osservandola.
   Aprì la cassetta e infilò la mano nelle ceneri fresche prima di rovesciarle a terra - insieme a brandelli minuscoli e resistenti di materia - tra le piante cresciute lungo la strada. Compiere quel gesto era come mettere le gambe in acqua e infine tuffarsi nel lago per la prima gelida nuotata di giugno. Da principio, un brivido nauseante, poi lo stupore di riuscire comunque a muoversi, sollevata da una corrente di ferrea devozione, calma sullo specchio d'acqua della vita, sebbene il dolore del freddo continuasse a entrarle a ondate nel corpo.
Ortiche. 
   Nell'estate del 1979, entrai in cucina, a casa della mia amica Sunny nei pressi di Uxbridge, Ontario, e vidi un uomo in piedi davanti al tavolo di lavoro, intento a prepararsi un tramezzino al ketchup. 
   Ho poi girato in macchina sulle colline a nord-est di Toronto con mio marito - il secondo, non quello che mi ero lasciata alle spalle quell'estate - e ho cercato la casa con svogliata insistenza, ho provato a rintracciare la strada su cui si affacciava, ma non ci sono mai riuscita. Sunny e suo marito la vendettero qualche anno dopo la mia visita. Era troppo lontana da Ottawa, dove abitavano, per funzionare come casa per le vacanze. I loro figli, una volta adolescenti, non avevano più avuto voglia di andarci. Inoltre richiedeva troppo lavoro di manutenzione, e Johnston, il marito di Sunny, nei fine settimana voleva giocare a golf. 
   Il campo da golf l'ho trovato - credo sia quello giusto, anche se i bordi ineguali del green sono stati risistemati e la sede del circolo è di gran lunga più chic. 
   Nella casa di campagna dove sono cresciuta, d'estate si prosciugavano i pozzi. Succedeva più o meno ogni cinque o sei anni, quando non pioveva abbastanza. I pozzi erano fosse scavate nel terreno. Il nostro era più profondo della media, ma ci serviva una buona riserva d'acqua per gli animali - mio padre allevava volpi argentate e visoni -, perciò un giorno si presentò il perforatore di pozzi con un equipaggiamento impressionante, e prese a scavare giù, giù dentro la terra, finché non arrivò all'acqua nella roccia. Da allora potemmo pompare acqua pura e fredda in qualunque stagione dell'anno e indipendentemente dal clima più o meno asciutto. Era una cosa di cui andare orgogliosi. Appeso alla pompa c'era un boccale di latta, e quando bevevo, nei giorni infuocati, immaginavo le rocce nere dalle quali l'acqua sgorgava chiara come uno sfavillio di diamanti. 
   Il perforatore di pozzi - lo si chiamava così qualche volta, perforatore di pozzi, come se nessuno avesse voglia di essere più preciso su ciò che faceva e adottasse per comodità la vecchia definizione - era un tale di nome Mike McCallum. Abitava nel paese vicino alla nostra fattoria, ma non aveva una casa. Stava al Clark Hotel - era arrivato in primavera e sarebbe rimasto fino a quando non avesse finito il lavoro trovato in quella zona. Dopodiché si sarebbe spostato altrove. 
   Mike McCallum era più giovane di mio padre, ma aveva un figlio di un anno e due mesi maggiore di me. Il ragazzo viveva con il genitore in stanze d'albergo e pensioni, dovunque suo padre avesse da fare, e frequentava ogni volta la scuola più vicina. Si chiamava anche lui Mike McCallum. 
   Conosco esattamente la sua età perché quella è una cosa di cui i bambini si informano subito, uno degli elementi base su cui negoziare la possibilità di un'amicizia. Lui aveva nove anni, io otto. Lui era nato in aprile, io in giugno. Le vacanze estive erano cominciate da un pezzo quando arrivò in casa nostra col padre.    Il padre guidava un furgone rosso scuro sempre sporco di polvere e fango. Mike e io ci salivamo quando si metteva a piovere. Non ricordo se suo padre entrasse nella nostra cucina per farsi una sigaretta e una tazza di tè o se rimanesse sotto un albero o continuasse semplicemente a lavorare. La pioggia scrosciava sui finestrini e faceva un baccano infernale sul tetto. C'era odore di uomini: di tute da lavoro, attrezzi e tabacco, scarponi luridi e calzini marci. E poi di cane bagnato, perché portavamo con noi anche Ranger. Io Ranger lo davo per scontato, ero abituata ad averlo sempre al seguito dovunque andassi, e qualche volta, senza motivo, gli ordinavo di starsene a casa, di filare nel granaio, di lasciarmi in pace. A Mike però Ranger piaceva tantissimo, ed era sempre gentile con lui e lo chiamava per nome e gli raccontava i nostri progetti e lo aspettava quando si distraeva appresso a una delle sue trovate da cane, tipo correre dietro a marmotte e conigli. Vivendo in quel modo con suo padre, Mike non aveva mai potuto avere un cane suo. 
   Un giorno che era con noi, Ranger si mise a inseguire una puzzola, e quella si rivoltò e gli spruzzò addosso il suo odore. Mike e io fummo ritenuti in parte responsabili. Mia madre dovette interrompere quello che stava facendo e precipitarsi in città a comprare svariate lattine di salsa di pomodoro. Mike convinse Ranger a entrare dentro una vasca, lo inondò di succo di pomodoro e glielo spazzolò bene sul pelo. Sembrava che gli stessimo facendo il bagno nel sangue. Chissà quanta gente ci sarebbe voluta per racimolare tutto quel sangue, ci chiedevamo. Quanti cavalli? Quanti elefanti? 
   In confronto a Mike, io la sapevo lunga in fatto di sangue e di come si uccidono gli animali. Lo portai a vedere l'angolo del pascolo accanto al cortile del granaio dove mio padre sparava ai cavalli che macellava per darli in pasto alle volpi e ai visoni. Il terreno era brullo in quel punto a furia di calpestarlo, e si vedeva una gran chiazza di sangue, una specie di impronta rosso ruggine. Poi lo portai allo scannatoio in cortile, dove le carcasse dei cavalli venivano appese prima di essere tritate e diventare mangime. Lo scannatoio era solo una 
tettoia cintata di filo di ferro, con le pareti nere di mosche, ubriache per il fetore delle carogne. Ci procurammo dei sassi piatti e cominciammo a schiacciarle. 
   La fattoria era piccola, nove acri di terra. Abbastanza piccola perché l'avessi esplorata tutta quanta, e ogni sua parte aveva caratteristiche particolari che non avrei saputo descrivere a parole. Non è difficile capire che cosa ci sia di speciale nella tettoia cintata con le lunghe carcasse pallide appese a quei barbari ganci, o nella chiazza inzuppata di sangue dove i cavalli passavano dalla condizione di animali vivi a quella di carne commestibile. Ma c'erano anche altre cose, come le pietre su entrambi i lati della passerella verso il granaio, che avevano a loro volta un mucchio di cose da dirmi, anche se non vi era mai accaduto niente di memorabile. Da una parte sporgeva un pietrone liscio e biancastro che dominava su tutti gli altri, perciò quel lato aveva ai miei occhi un aspetto più accessibile e pubblico, e infatti sceglievo sempre di entrare da lì anziché dall'altro versante dove le pietre erano scure e ammassate con più cattiveria. Ogni albero aveva a sua volta un atteggiamento e una personalità - l'olmo sembrava sereno e la quercia minacciosa, gli aceri cordiali e semplici, il biancospino scontroso e decrepito. Perfino le pozze lungo le sponde del fiume - da cui mio padre anni prima aveva estratto e venduto ghiaia - avevano ognuna la propria indole, forse più facile da individuare se avevi occasione di vederle piene d'acqua dopo il disgelo primaverile. Ce n'era una piccola e tonda, profonda e perfetta; una allungata e sinuosa come una coda, e una larga e indecisa e sempre interrotta nel mezzo da un po' di terra, tanto bassa era l'acqua. 
   Mike vedeva tutte queste cose con occhi diversi. E io pure, adesso che ero con lui. Le vedevo a modo suo e a modo mio, ma il modo mio era incomunicabile per natura e perciò doveva restare segreto. Il suo invece aveva a che fare con l'utilità immediata. Il sasso pallido e grande della passerella serviva per saltarci sopra, prendere la rincorsa e lanciarsi in aria, scavalcare le pietre sottostanti, più piccole, e atterrare sulla terra compatta davanti alla porta della stalla. Gli alberi servivano tutti per arrampicarsi, in particolare l'acero accanto alla casa, con quel ramo su cui si poteva strisciare per poi lasciarsi cadere sul tetto della veranda. E le pozze erano solo lì per saltarci dentro, urlando come animali nell'atto di agguantare la preda, dopo una corsa furiosa nell'erba alta. Se fosse stato un po' prima nell'anno, commentò Mike, quando c'era più acqua, avremmo potuto costruirci una zattera. 
   L'idea fu considerata in relazione al fiume. Ma questo in agosto assomigliava quasi di più a una strada di sassi che a un corso d'acqua, perciò, anziché provare a galleggiarci sopra o a nuotarci dentro, ci togliemmo le scarpe e lo guadammo, saltando sulle pietre bianche come ossa spolpate e scivolando sui sassi vischiosi sotto la superficie, avanzando su tappeti di ninfee dalle foglie piatte e altre piante di cui non ricordo o non ho mai saputo il nome (crescione selvatico? cicuta acquatica?) Crescevano talmente fitte che parevano germogliare su isolotti, su terra ferma, e invece spuntavano dalla fanghiglia del fondo e ci intrappolavano le gambe con le radici tortili. 
   Quello era lo stesso fiume che scorreva pubblicamente in paese, perciò, procedendo controcorrente, arrivammo in vista del ponte a doppia campata della statale. Da sola, o con Ranger, non mi ero mai spinta fin lì, perché di solito c'era gente. Qualcuno ci veniva a pescare e, se l'acqua era abbastanza alta, i ragazzi si tuffavano dal parapetto. Non certo in quella stagione, ma con ogni probabilità qualcuno sarebbe stato di sotto a sguazzare: villani e ostili come erano sempre i ragazzi del paese. 
   Un'altra possibilità erano i vagabondi. Ma con Mike non ne feci parola; lui proseguiva davanti a me come se il ponte fosse una destinazione qualsiasi senza alcun lato temibile o proibito. Ci giunse un suono di voci; come mi aspettavo si trattava delle grida dei ragazzi: a sentirli pareva che fossero i proprietari del ponte. Ranger ci aveva seguiti fino a quel punto, senza entusiasmo, ma ora virò verso riva. Ormai era un vecchio cane, e non aveva comunque mai amato i bambini in modo indiscriminato. 
   C'era un pescatore, ma non sul ponte, a riva: imprecò perché Ranger gli agitava l'acqua. Ci chiese se non potevamo tenerci a casa il nostro maledetto cane. Mike proseguì impassibile come se l'uomo ci avesse solo rivolto un fischio; poi ci inoltrammo sotto l'ombra del ponte, dove non ero mai stata in vita mia.    L'impiantito ci faceva da tetto, e strisce di sole filtravano tra un asse e l'altro. Poi una macchina lo attraversò tuonando e oscurando del tutto la luce. L'evento ci immobilizzò, con il naso all'insù. Il sottoponte era un posto tutto particolare, non solo un breve tratto di fiume. Quando l'auto finì di passare e il sole filtrò di nuovo sull'acqua, il suo riflesso prese a formare onde luminose, curiose bolle di luce sui grandi pilastri in cemento. Mike gridò per vedere se c'era l'eco, e io lo imitai, ma più piano, perché i ragazzi a riva, gli sconosciuti sull'altro lato del ponte, mi facevano più paura di eventuali vagabondi. 
   Frequentavo la piccola scuola dietro la fattoria. Le iscrizioni erano diminuite al punto che ero rimasta l'unica allieva della mia classe. Mike invece andava alla scuola del paese dall'inizio della primavera, e quei ragazzi per lui non erano sconosciuti. Probabilmente sarebbe stato lì a giocare con loro e non con me, se suo padre non avesse avuto l'idea di portarselo appresso al lavoro, in modo da potergli dare un'occhiata di tanto in tanto. 
   Dovette esserci uno scambio di saluti, tra i ragazzini del paese e Mike.    Ehi. Che ci fai da queste parti? 
   Niente. E voi? 
   Niente. Chi è quella con te? 
   Nessuno. Lei. 
   Ah-ah. Lei, eh? 
   In effetti era in corso un gioco che stava focalizzando l'attenzione di tutti. Per tutti si intende pure le femmine - c'erano delle bambine più su, sulla sponda, intente a fare qualcosa - anche se avevamo ormai superato ampiamente l'età in cui maschi e femmine di solito giocano insieme. Forse avevano seguito i ragazzi fuori dal paese - facendo finta di niente - o magari erano stati i maschi a seguire loro, con l'intenzione di tormentarle, ma una volta riuniti era nato quel gioco per il quale c'era bisogno di tutti e così le restrizioni consuete avevano registrato una tregua. E più gente partecipava, meglio era, perciò a Mike non fu difficile lasciarsi coinvolgere e tirare dentro anche me. 
   Era un gioco di guerra. I maschi si erano divisi in due eserciti e si combattevano da dietro barricate allestite alla meglio con rami d'albero, ma anche protetti dall'erba alta e tagliente, e da giunchi e piante acquatiche più alti di noi. Il grosso delle munizioni erano palle di fango argilloso, più o meno delle dimensioni di una pallina da baseball. A quanto pare c'era una miniera speciale di questo fango, una pozza grigia, seminascosta dall'erba, in parte su per la sponda (l'idea del gioco poteva essere nata in seguito a quella scoperta), ed era lì che le femmine lavoravano alla preparazione dei proiettili. Bisognava spremere e rendere compatta l'argilla appiccicosa trasformandola in una palla il più dura possibile - poteva esserci dentro un po' di ghiaia, e del materiale fasciante come erba, foglie, rametti raccolti sul posto, ma non pietre aggiunte volutamente - e occorreva preparare una notevole quantità di queste munizioni, perché erano utilizzabili una volta sola. Non era possibile raccogliere le palle non mandate a segno, rimodellarle e lanciarle ancora. 
   Le regole della guerra erano facili. Se si veniva colpiti - la definizione ufficiale dei proiettili era palla di cannone - su viso, testa o corpo, bisognava morire. Chi era colpito su braccia e gambe, doveva cadere, ma risultava soltanto ferito. A quel punto, un altro compito delle femmine era di strisciare fuori e trascinare i caduti fino a una specie di radura che era l'ospedale. I feriti venivano curati con impacchi di foglie e dovevano restare fermi e contare fino a cento. Arrivati a cento, potevano alzarsi e ricominciare a combattere. I morti non si potevano alzare finché non era finita la guerra, e la guerra non era finita fino a quando uno dei due eserciti veniva sterminato. 
   Anche le femmine, come i maschi, erano divise in due fazioni, ma dal momento che c'erano molti più maschi che femmine, noi non potevamo impastare palle di cannone e fare le infermiere per un solo combattente. Si stabilivano comunque delle alleanze. Ogni bambina aveva accanto il suo mucchio di palle e lavorava per determinati soldati, e quando un bambino veniva ferito chiamava il nome di una femmina per farsi venire a prendere e curare il più in fretta possibile. Io preparavo munizioni per Mike e mio fu il nome che lui chiamò. C'era un tale baccano - urla continue di «Sei morto» ora in tono trionfante, ora con rabbia, perché ovviamente i presunti morti cercavano di fare i furbi e di tornare a combattere, e l'abbaiare di un cane, non Ranger che in qualche modo era finito nella mischia -, un tale baccano, insomma, che bisognava restare sempre all'erta per sentire la voce del bambino che ti chiamava. Quando il grido arrivava provavi una scossa acuta, un brivido per tutto il corpo, un senso di devozione fanatica. (Almeno così era per me che, a differenza delle altre bambine, prestavo servizio a un solo guerriero). 
   Per giunta non avevo mai giocato in gruppo prima di allora. Era una tale gioia il fatto di partecipare a un'impresa estrema con tante persone, e sentirsi scelta tra gli altri, essenzialmente votata alle cure di un combattente. Quando lo ferirono, Mike non aprì nemmeno gli occhi: se ne rimase sdraiato immobile mentre io gli premevo le foglie umidicce su fronte e gola e - dopo avergli aperto la camicia - anche sulla pancia morbida e chiara, con quell'ombelico tenero e inerme. 
   Non vinse nessuno. Il gioco si disintegrò, a lungo andare, in una serie di liti e resurrezioni di massa. Sulla via del ritorno, cercammo di ripulirci dal fango stendendoci dentro l'acqua del fiume. Avevamo camicia e pantaloncini luridi e grondanti. 
   Era tardo pomeriggio. Il padre di Mike si preparava ad andar via. 
- Cristo santo, - disse. 
   C'era un tale che mio padre ingaggiava occasionalmente per farsi aiutare quando c'era lavoro extra o doveva macellare. Aveva un'aria da vecchio bambino e il respiro affannoso da asmatico. Gli piaceva acchiapparmi e farmi il solletico finché non mi sentivo soffocare. Nessuno interveniva mai in mia difesa. A mia madre la cosa non piaceva, ma mio padre le diceva che era solo un gioco. 
   Era in cortile, stava aiutando il padre di Mike. 
- Vi siete rotolati insieme nel fango, - disse. - Adesso vi tocca per forza sposarvi. 
   Mia madre sentì la battuta da dietro la porta. (Se gli uomini avessero saputo che era lì, nessuno dei due avrebbe parlato in quel modo). Mia madre uscì e si rivolse al manovale con voce bassa e carica di disprezzo, prima ancora di dire qualcosa sullo stato in cui eravamo. 
   Udii in parte quello che disse. 
   Come fratello e sorella. 
   L'uomo si guardava le scarpe, con un sorriso imbarazzato. 
   Si sbagliava, mia madre. Dei due era il manovale quello più vicino alla verità. Non eravamo affatto come fratello e sorella, almeno non come quelli di mia conoscenza. Il mio unico fratello era poco più di un poppante, perciò non avevo esperienza diretta in quel senso. Ma non eravamo nemmeno come i mariti e le mogli che conoscevo, perché prima di tutto quelli erano vecchi, e poi abitavano mondi talmente diversi che a stento parevano riconoscersi. Noi eravamo come una solida coppia di fidanzati, il cui legame non ha bisogno di tante manifestazioni esterne. E almeno per me, quella era una condizione solenne ed emozionante.    Sapevo che il manovale stava parlando di sesso, anche se non conoscevo l'uso di quella parola. E lo odiai ancor più del solito. Nel caso specifico, si sbagliava. Non ci interessava mostrare, strofinare e sperimentare intimità scandalose - niente affannate ricerche di nascondigli, niente piaceri frementi accompagnati da frustrazione e da un senso di cruda, immediata vergogna. Scene di quel tipo le avevo vissute con un cuginetto e con un paio di bambine più grandi, due sorelle che frequentavano la mia scuola. Compagni di gioco che non mi piacevano prima e avevano continuato a non piacermi dopo; avrei negato con rabbia, perfino a me stessa, che quelle cose fossero successe. Simili scappatelle non avrebbero mai potuto riguardare chiunque mi piacesse davvero o che rispettassi, ma solo persone che mi disgustavano, così come quelle voglie orrende e grossolane mi facevano provare disgusto per me stessa. 
   Nel sentimento per Mike il demone localizzato si trasformava in un'eccitazione diffusa e in una tenerezza sotto pelle, un piacere degli occhi e delle orecchie e una gioia cristallina in presenza dell'altro. Mi svegliavo ogni mattina con la fame di vederlo, di udire il furgone del perforatore di pozzi che avanzava sferragliando lungo il viottolo. Adoravo di nascosto la curva della sua nuca e la forma della sua testa, la linea seria delle sopracciglia, le lunghe dita nude dei piedi, i suoi gomiti sporchi, la voce forte e sicura, il suo odore. Accettavo senza riserve, e devotamente, ruoli che tra noi non occorreva spiegare né assegnare: io l'avrei soccorso e ammirato, lui mi avrebbe impartito ordini, sempre pronto a elargirmi protezione. 
   E un giorno il furgone non arrivò. Naturale, il lavoro era finito: il pozzo venne chiuso, la pompa rimessa in funzione, e tutti fecero grandi feste all'acqua. Mancavano due sedie intorno al tavolo del pranzo. Sia il vecchio Mike che il giovane avevano sempre pranzato insieme a noi. Il giovane e io non parlavamo, e a stento ci guardavamo. A lui piaceva spalmarsi il ketchup sul pane. Suo padre parlava con il mio, per lo più di pozzi, incidenti, falde acquifere. Un uomo serio. Tutto lavoro, diceva mio padre. Eppure lui, il padre di Mike, finiva quasi ogni frase con una risata. Quelle risate avevano un'eco malinconica, come se arrivassero ancora dal fondo del pozzo. 
   Non vennero più. Il lavoro era finito, non avevano più ragione di venire. E si scoprì che il nostro era l'ultimo incarico del perforatore nella zona. Aveva già preso altri lavori altrove, e voleva raggiungere le località il più presto possibile, finché durava il bel tempo. Vivendo in albergo, gli bastava fare le valigie e andarsene. E così aveva fatto. 
   Perché non riuscivo a capire cosa stava succedendo? Non ci eravamo forse salutati, non avevo capito, quell'ultimo pomeriggio, quando Mike era montato sul furgone, che se ne stava andando per sempre? Nessun cenno con la mano, nessuna testa voltata all'indietro verso di me - o al contrario, non voltata, apposta - quando il furgone ormai pesante sotto il carico dell'attrezzatura si era allontanato sobbalzando per l'ultima volta? Quando l'acqua sgorgò dalla pompa - me la ricordo ancora, e ricordo che tutti quanti ci radunammo intorno a bere -, come mai non avevo capito che cosa si stava concludendo, per me? Mi chiedo ora se non ci sia stata una volontà precisa di ridimensionare il più possibile l'evento, per evitare scene d'addio e impedire che io - o tutti e due - potessimo mostrarci infelici o fare storie. 
   Non mi pare probabile che al tempo qualcuno potesse tenere in tale considerazione i sentimenti di due bambini. Toccava a noi, soffrire o soffocarli. 
   Non feci storie. Dopo il primo shock non permisi a nessuno di accorgersi di nulla. Il manovale mi prendeva in giro ogni volta che mi incontrava («Il tuo fidanzato ti ha abbandonata, eh?»), ma io non lo degnavo di uno sguardo. 
   Dovevo sapere che Mike se ne sarebbe andato. Esattamente come sapevo che Ranger era vecchio e che prima o poi sarebbe morto. L'assenza futura la accettavo - solo che non avevo idea, finché Mike non scomparve, di come potesse essere un'assenza. Di come il mio intero territorio si sarebbe modificato, come se una frana ci si fosse riversata sopra facendo piazza pulita di ogni significato tranne che della perdita di Mike. Non riuscii più a guardare il sasso bianco della passerella senza pensare a lui, perciò sviluppai un senso di avversione per quella pietra. Provai la stessa cosa anche per il ramo dell'acero, e quando mio padre lo tagliò dicendo che era troppo vicino a casa, trasferii l'avversione sulla cicatrice rimasta nel tronco. 
   Un giorno, settimane dopo, quando ormai avevo addosso la giacca autunnale, stavo accanto alla porta di un negozio di scarpe mentre mia madre se ne provava un paio, e sentii una donna chiamare «Mike». Superò di corsa il negozio, strillando «Mike». Mi convinsi all'istante che quella donna sconosciuta fosse la madre di Mike - sapevo, anche se non da lui, che era separata dal padre, non morta - e che fossero tornati in paese per qualche ragione. Non mi chiesi se quel ritorno potesse essere provvisorio o definitivo, mi dissi solo - mentre già mi precipitavo fuori dal negozio - che di li a un attimo avrei rivisto Mike. 
   La donna aveva raggiunto un bambino di circa cinque anni, che aveva preso una mela da una cassetta esposta sul marciapiede davanti al fruttivendolo senza chiedere il permesso. 
   Mi bloccai a fissare incredula il bambino, come se sotto i miei occhi si stesse verificando un prodigio infame e ingiusto. 
   Un nome diffuso. La stupida faccia inespressiva di quel bambino biondo coi capelli sporchi. 
   Il cuore mi batteva a colpi forti, come se mi risuonassero urla dentro il petto. 
   Sunny venne a prendermi all'autobus di Uxbridge. Era una donna di ossatura grossa, viso intenso; portava i capelli ricci ravviati all'indietro da due pettinini spaiati. Nemmeno prendendo peso - cosa che era successa - riuscì ad avere un aspetto matronale; principesco, piuttosto. 
   Mi trascinò dentro la sua vita come aveva fatto sempre, raccontandomi che aveva creduto di fare tardi perché quella mattina a Claire era entrato un insetto nell'orecchio e perciò l'aveva dovuta portare al pronto soccorso per farglielo levare, poi il cane aveva vomitato sulla porta di cucina, probabilmente perché aveva patito il viaggio e detestava la casa e la campagna, e quando lei, Sunny, era uscita per venirmi a prendere, Johnston stava intimando ai ragazzi di pulire tutto perché erano stati loro a volere il cane; intanto Claire frignava dicendo di sentire ancora qualcosa che le faceva bzz-bzz dentro l'orecchio. 
   - Perciò, che ne diresti se ci trovassimo un bel posto tranquillo per sbronzarci e non tornare a casa mai più? - disse. - Solo che non si può. Johnston ha invitato un amico che ha moglie e figli in Irlanda, e vogliono andare a giocare a golf. 
   Sunny e io eravamo state amiche a Vancouver. Le nostre gravidanze si erano incastrate alla perfezione, permettendoci di comprare un solo guardaroba pre-maman. Nella mia cucina o nella sua, più o meno una volta la settimana, distratte dai bambini e non di rado barcollanti per le notti insonni, ci tenevamo su a forza di caffè nero e sigarette e sfogandoci a parlare del matrimonio, dei litigi, delle nostre personali 
manchevolezze, delle nostre ragioni più o meno opinabili e interessanti, delle passate ambizioni. Leggevamo Jung tutte e due, e cercavamo di non dimenticare quello che avevamo sognato. Durante quel periodo della vita che dovrebbe coincidere con una sorta di sbalordimento riproduttivo, con la mente femminile in teoria a bagno in un concentrato di ormoni della maternità, noi ci sentivamo comunque in dovere di discutere di Simone de Beauvoir e di Arthur Koestler e di The Cocktail Party. 
   I nostri mariti non condividevano affatto queste tendenze. Quando tentavamo di parlare con loro di cose del genere, dicevano: «Ah, è solo letteratura», oppure «Parli come un manuale di filosofia».    Adesso entrambe avevamo lasciato Vancouver. Solo che Sunny l'aveva fatto con marito, figli e suppellettili, secondo la consuetudine e per il solito motivo: suo marito aveva cambiato lavoro. Mentre io mi ero spostata per una modernissima ragione sostenuta con forza, ma solo a tratti, e solo in ambienti molto particolari: quella di lasciare marito e casa e ogni bene acquisito con il matrimonio (tranne ovviamente i figli, che andavano avanti e indietro come pacchi), nella speranza di poter vivere una vita senza ipocrisie, privazioni e vergogna. 
   Ora abitavo al secondo piano di una casa di Toronto. Quelli del piano di sotto - i padroni di casa - erano arrivati da Trinidad una dozzina d'anni prima. Su e giù per la via, le vecchie costruzioni di mattoni con veranda e finestre alte e strette, un tempo residenza di metodisti e presbiteriani con cognomi tipo Henderson e Grisham e McAllister, si andavano affollando di gente con la pelle scura e olivastra, gente che parlava un inglese a me ignoto, quando lo parlava, e che a tutte le ore riempiva l'aria del profumo dolce e speziato della loro cucina. Tutto questo a me piaceva - mi dava la sensazione di un cambiamento vero, di un lungo viaggio ineluttabile, lontano dalla casa coniugale. Ma sperare che le mie figlie di dieci e dodici anni potessero pensarla allo stesso modo era chiedere troppo. Avevo lasciato Vancouver in primavera, e loro erano venute a trovarmi all'inizio delle vacanze estive, in teoria con l'intenzione di fermarsi per due mesi. Trovavano gli odori della strada nauseanti e il baccano insopportabile. Faceva caldo e non riuscivano a dormire nemmeno con il ventilatore che avevo comprato. Dovevano tenere le finestre aperte, e le feste in cortile qualche volta duravano fino alle quattro. 
   Escursioni al Palazzo delle Scienze, alla C.N. Tower, al museo e allo zoo, piccoli lussi come pranzi nei ristoranti climatizzati dei grandi magazzini, una gita in barca sull'isola di Toronto, non riuscirono a compensare l'assenza degli amici, né a riconciliarle con la messinscena di casa che avevo allestito per loro. Sentivano la mancanza dei gatti. Desideravano le loro stanze, la libertà di cui godevano nel quartiere, l'indolenza di certe giornate passate in casa. 
   Per un po' non si lamentarono. Sentii la grande dire alla piccola, Facciamo credere alla mamma che siamo contente. Se no, ci rimane male. 
   Poi, all'improvviso, l'esplosione. Accuse, confessioni di tristezza (perfino esagerate, secondo me, e pronunciate a mio esclusivo beneficio). La piccola piangeva, Ma perché non puoi venire a casa?, e la grande rispondeva amara, Perché odia papà. 
   Chiamai mio marito - il quale mi rivolse più o meno le stesse domande, e si fornì, da solo, più o meno le stesse risposte. Cambiai i biglietti, aiutai le mie figlie a fare i bagagli e le accompagnai in aeroporto. Per tutto il tragitto facemmo un gioco insulso proposto dalla maggiore. Bisognava dire un numero - 27, 42 - e poi guardare dal finestrino e contare gli uomini che si superavano: il ventisettesimo, o il quarantaduesimo, o che altro, sarebbe stato l'uomo che avremmo sposato. Tornata a casa, radunai tutte le cose che me le avrebbero ricordate - un fumetto che la piccola aveva disegnato, un numero di «Glamour» comprato dalla grande, bigiotteria varia e indumenti che potevano mettersi a Toronto ma non a casa - e le infilai in un sacco della spazzatura. E feci più o meno la stessa cosa ogni volta che mi tornavano in mente: sigillavo il cervello. C'erano tristezze che riuscivo a sopportare, quelle legate agli uomini. Poi ce n'erano altre - legate ai figli - che non potevo reggere. 
   Tornai a vivere come prima del loro arrivo. Smisi di preparare la colazione e ripresi a uscire ogni mattina per andare a prendermi un caffè e una brioche calda in una pasticceria italiana. L'idea di essere completamente libera da ogni obbligo domestico mi affascinava. Ora però, a differenza di prima, notavo l'espressione di chi la mattina sedeva sugli sgabelli alti dietro la vetrina, oppure ai tavolini fuori: persone per le quali quella non era affatto un'esperienza elettrizzante, ma l'abitudine stantia di una vita di solitudine.    Una volta a casa, sedevo per ore a scrivere a un tavolo di legno sistemato sotto le finestre di una ex veranda riadattata a cucina di fortuna. Speravo di guadagnarmi da vivere come scrittrice. In breve il sole riscaldava la piccola stanza, e l'interno delle mie gambe - mettevo sempre i pantaloncini corti - si appiccicava alla sedia. Sentivo il particolare odore chimico, dolciastro, dei sandali di gomma che assorbivano il sudore dei piedi. Mi piaceva: era l'odore della mia alacrità e della possibilità di farcela, almeno così speravo. Ciò che scrivevo non era migliore di quanto ero riuscita a scrivere nella vita di prima, mentre le patate bollivano e il bucato sbatacchiava nel cestello, obbediente al programma di lavaggio. Solo più abbondante, e non peggiore, tutto qui. 
   Più tardi nel corso della giornata mi sarei fatta un bagno e sarei andata a trovare una delle mie amiche. 
Bevevamo un bicchiere di vino nei dehors di piccoli ristoranti su Queen Street o Baldwin Street o Brunswick Street, e parlavamo della vita: degli amori, per lo più, ma avevamo qualche riserva a usare la parola «amante» e così dicevamo «l'uomo che sto vedendo». E qualche volta vedevo l'uomo che stavo vedendo. Mentre le bambine erano da me, l'avevo bandito dalla mia vita, anche se poi avevo infranto la regola un paio di sere, lasciando le ragazze sole in una gelida sala cinematografica. 
   Lo conoscevo da prima della rottura del mio matrimonio, anzi, era stato lui la ragione immediata di quella rottura, anche se con lui e con tutti gli altri avevo finto che così non fosse. Quando lo incontravo mi sforzavo di essere spensierata e di avere uno spirito indipendente. Ci scambiavamo notizie - mi assicuravo di averne sempre di fresche - e ridevamo e facevamo passeggiate nel bosco, ma la sola cosa che mi interessava davvero era eccitarlo sessualmente, perché ritenevo che l'entusiasmo ebbro del sesso sapesse fondere i lati migliori delle persone. Ero stupida, su quel fronte, in un modo molto rischioso, soprattutto per una donna della mia età. Certe volte, dopo i nostri incontri, ero felice, stordita e sicura, ma altre volte mi ritrovavo impietrita dai cattivi presentimenti. Dopo che si era staccato da me, sentivo le lacrime scorrermi per le guance, prima ancora di sapere che stavo piangendo. E questo, a causa di un'ombra che avevo colto nel suo sguardo, o di un'eccessiva disinvoltura, o di un avvertimento indiretto che lui mi aveva rivolto. Fuori dalle finestre, con il calare del buio, vedevo l'inizio delle feste nei cortili, musica e urla e provocazioni che potevano girare in risse, e avevo paura, non di eventuali ostilità, ma di una specie di non-esistenza. 
   In quello stato d'animo avevo telefonato a Sunny ed ero stata invitata da lei a trascorrere il fine settimana in campagna. 
   - E’ bellissimo qui, - dissi. 
   Ma la campagna che stavamo attraversando non significava niente per me. Le colline erano un susseguirsi di gobbe verdi, alcune con qualche mucca sopra. C'erano ponti bassi di cemento su corsi d'acqua soffocati dalla vegetazione. Il fieno veniva raccolto con un metodo nuovo, pressato in rotoballe e lasciato sui campi.    - Aspetta di vedere la casa, - disse Sunny. – E’ un disastro. Avevamo un topo nell'impianto idraulico. Morto. Continuavamo a vedere peluzzi neri nell'acqua del bagno. Adesso è tutto risolto, ma non sai mai cosa ti può capitare. 
   Non mi chiese niente - delicatezza o disapprovazione? - della mia nuova vita. Forse semplicemente non sapeva da dove cominciare, non aveva idea. In ogni caso le avrei risposto con delle bugie, o mezze bugie. E’ stato difficile arrivare alla rottura, ma non c'era altro da fare. Le bambine mi mancano da morire, ma ogni esperienza ha il suo prezzo. Sto imparando a lasciare libero un uomo e a prendermi anch'io la mia libertà. Sto imparando a prendere il sesso con allegria, il che non è facile per me, perché non è così che ho incominciato, e non sono più giovane, ma sto imparando lo stesso. 
   Un fine settimana, pensai. Mi pareva un tempo lunghissimo. 
   I mattoni della casa mostravano una cicatrice lungo la linea del perimetro, nel punto in cui era stata rimossa una veranda. I figli di Sunny stavano razzolando in cortile. 
- Mark ha perso la palla, - urlò il grande, Gregory.    Sunny gli disse di salutarmi. 
- Ciao. Mark ha lanciato la palla oltre la rimessa e adesso non la troviamo più. 
   La piccola di tre anni, nata dopo l'ultima volta che avevo visto Sunny, uscì correndo dalla cucina e si bloccò di colpo, sorpresa alla vista di un'estranea. Ma si riprese subito e mi disse: - Lo sai che mi è volata una bestiolina dentro la testa? 
   Sunny la prese in braccio, io raccattai la mia borsa da viaggio ed entrammo in cucina, dove Mike McCallum si stava spalmando di ketchup una fetta di pane. 
- Sei proprio tu, - dicemmo entrambi, quasi d'un fiato. Scoppiammo a ridere, gli andai incontro e anche lui mosse verso di me. Ci stringemmo la mano. 
- Ho pensato che fossi tuo padre, - dissi. 
   Non so se mi ero proprio spinta con il pensiero fino al perforatore di pozzi. Mi ero detta, Chi è quest'uomo? Ha un'aria di famiglia. Un uomo che si muove con agilità, come se non avesse il minimo problema a calarsi in un pozzo e a risalirne. Capelli a spazzola, brizzolati, occhi chiari, infossati. Viso magro, espressione austera, ma cordiale. Un'abituale riservatezza, non sgradevole. 
- Impossibile, - disse. - Papà è morto. 
   Johnston entrò in cucina con le sacche da golf, mi salutò e disse a Mike di muoversi, e Sunny disse: - Amore, si conoscono. Si conoscevano già. Pensa un po'. 
- Da bambini, - disse Mike. 
   E Johnston: - Davvero? Incredibile -. E tutti insieme dicemmo quello che stava per dire lui: 
   - Com'è piccolo il mondo. 
   Mike e io ci stavamo ancora guardando, e ridevamo; pareva volessimo rendere ben chiaro all'altro come quella scoperta che Sunny e Johnston ritenevano incredibile, rappresentasse per noi un fulminante, esilarante colpo di fortuna. 
   Per tutto il pomeriggio, mentre gli uomini erano fuori, mi sentii piena di un'energia felice. Preparai una torta di pesche per la cena e lessi una fiaba a Claire in modo che accettasse di fare il sonnellino, mentre Sunny accompagnava i ragazzi a una sfortunata pesca nel rio fangoso. Poi io e lei sedemmo sul pavimento del soggiorno con una bottiglia di vino e ritornammo amiche, parlando di libri anziché della vita. 
   Le cose che Mike ricordava erano diverse da quelle che ricordavo io. Lui ricordava di aver camminato sul cornicione stretto di certe vecchie fondazioni di cemento, fingendo che fossero alte come un grattacielo e che se fossimo caduti saremmo morti. Io dissi che doveva essere successo altrove, poi però mi ricordai di un garage che non si era mai finito di costruire, all'incrocio con la via di casa. Che avessimo camminato lì sopra? 
   Esatto. 
   Io ricordavo di aver avuto voglia di urlare forte sotto il ponte, ma anche paura dei bambini del paese. Lui non ricordava nessun ponte. 
   Tutti e due ci ricordavamo delle palle di cannone fatte col fango, e della guerra. 
   Lavammo i piatti insieme, in modo da poter chiacchierare senza apparire scortesi. 
   Mi raccontò com'era morto suo padre. Era rimasto ucciso in un incidente stradale, di ritorno da un lavoro nei pressi di Bancroft. 
   - I tuoi sono ancora vivi? 
   Dissi che mia madre era morta e che mio padre si era risposato. 
   A un certo punto gli dissi che mi ero separata da mio marito, e che stavo a Toronto. Dissi che le bambine erano state per un po' con me, ma adesso erano in vacanza con il padre. 
   Lui mi disse che abitava a Kingston, ma non da molto. Aveva conosciuto Johnston di recente, sul lavoro. Erano tutti e due ingegneri civili. Sua moglie era un'irlandese, proprio nata in Irlanda, anche se lui l'aveva conosciuta in Canada, dove lavorava come infermiera. Attualmente era tornata in Irlanda, nella County Clare, per far visita ai suoi. Aveva portato anche i figli. 
- Quanti sono? 
- Tre. 
   Finiti i piatti, raggiungemmo gli altri in soggiorno e ci offrimmo di giocare a Scarabeo con i ragazzi, così che Sunny e Johnston potessero andare a fare una passeggiata. Solo una partita, poi, in teoria, sarebbe stata ora di andare a letto. Ma ci convinsero a un secondo giro, e stavamo ancora giocando quando i genitori rientrarono. 
- Che cosa vi avevo detto? - disse Johnston. 
- È sempre la stessa partita, - disse Gregory. - Tu avevi detto che potevamo finire la partita ed è ancora quella. 
- Sì, come no? - replicò Sunny. 
   Disse che era una bella serata, e che lei e Johnston si sentivano viziati, ora che avevano ben due baby-sitter a disposizione. 
- Ieri sera siamo perfino andati al cinema, e Mike è rimasto a casa coi bambini. Un vecchio film. Il ponte sopra il fiume Kwai. 
- Sul, - la corresse Johnston. - Sul fiume Kwai.    Mike disse: - L'avevo già visto, comunque. Anni fa. 
- Non era male, - disse Sunny. - Solo che non mi è piaciuta la fine. Secondo me era sbagliata. Sai quando Alee Guinness vede il cavo nell'acqua, al mattino, e capisce che qualcuno farà saltare in aria il ponte? E a quel punto dà in escandescenze e ogni cosa si complica e finisce che tutti si fanno ammazzare? Be', secondo me avrebbe dovuto vedere il cavo, rendersi conto di quello che stava per succedere, ma rimanere sul ponte e saltare in aria a sua volta. Sono convinta che il suo personaggio si sarebbe comportato così se fosse stato costruito in modo più credibile sul piano drammatico. 
- No, invece, - disse Johnston, con il tono di chi ha già fatto questa discussione in passato. - Dove andrebbe a finire la suspense? 
- Sono d'accordo con Sunny, - dissi. - Mi ricordo che avevo trovato anch'io il finale troppo complicato. 
- Mike? - chiese Johnston. 
- A me pareva abbastanza buono, - disse Mike. - così com'era. 
- Maschi contro femmine, - commentò Johnston. - Vincono i maschi. 
   Poi disse ai ragazzi di mettere via lo Scarabeo e loro obbedirono. Gregory però ebbe l'idea di chiedere se potevano uscire a vedere le stelle. - Questo è l'unico posto dove le possiamo vedere, - disse. - A casa è pieno di luci e di porcherie nell'aria. 
- Attento a non esagerare, - rispose il padre. Ma lui ribatté, D'accordo, soltanto cinque minuti, e uscimmo tutti fuori a guardare il cielo. Cercammo la Stella Pilota, vicinissima alla seconda stella del manico del Grande Carro. Se riuscivi a vederla, disse Johnston, allora avevi la vista abbastanza buona da farti prendere in aviazione, o per lo meno così funzionava durante la seconda guerra mondiale. 
   Sunny disse: - Be', io la vedo, ma lo sapevo da prima che c'era. 
   Mike disse, Idem per me. 
- Io la vedrei comunque, - disse Gregory sprezzante. - La vedrei anche se non sapessi che c'è. 
- E io pure, - gli fece eco Mark. 
   Mike stava appena davanti a me, un po' spostato di lato. In effetti era più vicino a Sunny che a me. Dietro di noi non c'era nessuno, e io avevo voglia di sfiorarlo - con leggerezza, come per caso -, di toccargli un braccio, una spalla. Poi, se lui non si fosse ritirato - per gentilezza, o convinto che fosse un gesto casuale? - gli avrei appoggiato un dito sul collo nudo. Avrebbe avuto lo stesso desiderio anche lui, se si fosse trovato in piedi dietro di me? Si sarebbe concentrato anche lui su questo pensiero, anziché sulle stelle? 
   Avevo la sensazione, tuttavia, che Mike fosse un uomo scrupoloso, che si sarebbe trattenuto. 
   E per la stessa ragione, sicuramente, non sarebbe venuto nel mio letto quella notte. Era talmente rischioso da essere impossibile, comunque. Al piano di sopra c'erano tre camere da letto: la stanza degli ospiti e la camera matrimoniale, tutte e due di fronte alla stanza più ampia, dove dormivano i bambini. Mike, che la notte prima aveva dormito nella camera degli ospiti, era stato trasferito di sotto, sul divano letto del soggiorno. Sunny aveva dato a lui un paio di lenzuola pulite, anziché stare a disfare e rifare il letto per me. 
   - E’ una persona molto pulita, - disse. - E poi è un tuo vecchio amico. 
   Coricarmi fra quelle lenzuola non mi aiutò a passare una notte tranquilla. Nel sogno, anche se non nella realtà, odoravano di erba di fiume, fango e canneti al sole. 
   Sapevo che non sarebbe venuto da me indipendentemente dall'entità del rischio. Sarebbe stato un gesto squallido, in casa di amici che sarebbero senz'altro diventati amici anche della moglie, se già non lo erano. E poi, come poteva essere certo che fosse quello che volevo? O che io fossi quella che voleva lui? Non ne ero certa neppure io. Fino a questo momento ero sempre riuscita a considerarmi una donna fedele alla persona con la quale mi coricavo la sera. 
   Il mio sonno fu leggero, i sogni di un erotismo monotono attraversato da episodi sgradevoli e irritanti. A tratti Mike era pronto a collaborare, ma incontravamo sempre nuovi ostacoli. Qualche volta si faceva distrarre, come quando si mise a dire che mi aveva portato un regalo ma che non sapeva più dove fosse, ed era importantissimo per lui ritrovarlo. Io gli dicevo di non preoccuparsi perché il mio regalo era lui, la persona che amavo e che avevo sempre amato, dicevo. Ma lui era in ansia. E in certi momenti mi rimproverava. 
   Per tutta la notte - o per lo meno ogni volta che mi svegliavo, e mi svegliai spesso - i grilli non smisero di cantare fuori dalla mia finestra. In principio pensai che fossero uccelli, un coro infaticabile di uccelli notturni. Ero vissuta in città quanto bastava per aver scordato come i grilli possano produrre un assoluto fragore di suono. 
   Va anche detto che ogni tanto, svegliandomi, mi ritrovavo arenata sulla sabbia asciutta di una indesiderata lucidità. Che cosa sai veramente di quest'uomo? E lui di te? Che musica gli piace, per chi vota? Che idee si è fatto sulle donne? 
   - Avete dormito bene voi due? - domandò Sunny.    Mike disse: - Come un sasso. 
   E io: - Sì, sì, bene. 
   Eravamo tutti invitati a un brunch, quel mattino, da certi vicini che avevano la piscina. Mike disse che avrebbe preferito fare un salto al golf, se agli altri non dispiaceva. 
   Sunny disse: - Figurati, - e guardò me. Io dissi: - Be', io non so se... - e Mike: - Tu non giochi a golf, dico bene? 
- No. 
- Non fa niente. Potresti farmi da caddie. 
- Vengo io a farti da caddie, - disse Gregory. Era pronto ad aderire a qualunque nostra iniziativa, sicuro che saremmo stati più indulgenti e spassosi dei suoi genitori. 
   Sunny disse di no. - Tu vieni con noi. Non vuoi andare in piscina? 
- Ci fanno tutti la pipì, in quella piscina. Questo almeno lo sai, spero. 
   Prima che uscissimo, Johnston ci aveva avvertiti che le previsioni annunciavano pioggia. Mike aveva risposto che avremmo sfidato la fortuna. Mi piacque sentirgli usare quel plurale, e mi piacque viaggiare in macchina accanto a lui, al posto della moglie. Provavo piacere all'idea di noi due come coppia, un piacere che sapevo frivolo come quello di un'adolescente. Il pensiero di essere moglie mi seduceva, come se non lo fossi mai stata in vita mia. Questa sensazione non si verificava con l'uomo che era il mio amante. Era forse pensabile che riuscissi a placarmi, con un vero amore, a liberarmi di tutte quelle parti di me che non funzionavano, ed essere felice? 
   Adesso che eravamo soli, però, provavo una certa soggezione. 
- Non è bellissima la campagna, da queste parti? - dissi. E oggi dicevo sul serio. Sotto il cielo coperto, le colline parevano più dolci di quanto non fossero sembrate il giorno prima al sole infuocato. Gli alberi, a fine stagione, avevano fronde stracciate, con parecchie foglie che già incominciavano ad arrugginire ai bordi, alcune decisamente rosse o brune. Ora riconoscevo le diverse foglie. Dissi: - Sono querce. 
- Questa è terra sabbiosa, - ribatté Mike. - Tutta questa zona, la chiamano il Crinale delle Querce. 
   Dissi che immaginavo che l'Irlanda fosse stupenda. 
- In certi tratti è molto brulla. Tutta sassi. 
- Tua moglie è cresciuta lì? Le è rimasto quel bell'accento? 
- Sentendola parlare, diresti di sì. Ma quando torna a casa, le dicono che l'ha perso. Che parla come un'americana. Americana, dicono sempre, non stanno a sottilizzare con canadese.    - E i bambini... immagino che non abbiano nessun accento irlandese. 
- Macché. 
- A proposito, che cosa sono, maschi o femmine? 
- Due maschi e una femmina. 
   Provai l'urgenza di comunicargli le contraddizioni, i dolori e i bisogni della mia vita. Dissi: - Mi mancano le mie figlie. 
   Ma lui non disse nulla. Non una parola di comprensione, non un incoraggiamento. Forse riteneva sconveniente che parlassimo dei nostri coniugi e dei figli, date le circostanze. 
   Di lì a poco posteggiammo nello spiazzo accanto alla sede del circolo e Mike disse: - A quanto pare la paura della pioggia ha tenuto a casa i golfisti della domenica -. Il tono era cordiale, come se volesse fare ammenda per il mutismo di prima. Nel parcheggio c'era solo una macchina. 
   Mike uscì e andò nell'ufficio a pagare la tariffa visitatori. 
   Non ero mai stata su un campo da golf. Avevo visto pezzi di partita in televisione un paio di volte, e mai per mia scelta, e avevo il vago ricordo che certe mazze si chiamassero ferri, o certi ferri mazze; e che ce n'era una in particolare detta niblick, mentre il campo si chiamava links. Quando gli dissi tutto questo, Mike commentò: - Probabilmente ti annoierai a morte. 
   - In tal caso andrò a fare una passeggiata. 
   Questo parve soddisfarlo. Appoggiò il peso della mano calda sulla mia spalla e disse: - Sarà meglio, in effetti. 
   La mia ignoranza non ebbe conseguenze - ovviamente non dovetti fargli da caddie - e io non mi annoiai. Tutto quello che dovevo fare era seguirlo e stare a guardare. Anzi, nemmeno stare a guardare lui. Potevo osservare gli alberi ai margini del campo: erano alberi altissimi, con il tronco sottile e le fronde piumate, del cui nome non ero certissima - acacie, forse? -, e scossi da improvvisi fiati di vento che noi dal basso non percepivamo affatto. C'erano anche stormi di uccelli, forse merli, o storni, che volavano sopra di noi come mossi da un'energia comune, ma solo dalla cima di un albero all'altra. Improvvisamente mi ricordai che gli uccelli fanno così; in agosto, e a volte già dalla fine di luglio, cominciano a radunarsi in masse chiassose, in preparazione del gran volo a sud. 
   Mike diceva qualcosa di tanto in tanto, ma non parlava con me. Non occorreva che rispondessi, e in effetti non sarei stata in grado di farlo. Pensai tuttavia che parlasse più di quanto non avrebbe fatto se fosse stato lì a giocare da solo. Le sue parole sconnesse contenevano rimproveri o caute congratulazioni o avvertimenti fatti a se stesso, e a volte non erano neanche parole compiute, ma solo quel tipo di versi che dovrebbero comunicare qualcosa e che in effetti acquistano un significato all'interno della consolidata intimità di vite vissute in deliberata vicinanza. 
   Ecco allora cosa si aspettava da me, che gli offrissi una consapevolezza amplificata ed espansa della sua persona. Una consapevolezza più serena, si potrebbe dire, la sensazione rassicurante di qualcuno che foderasse di calore umano la sua solitudine. Non se lo sarebbe aspettato esattamente allo stesso modo, né sarebbe stato in grado di chiederlo con tanta disinvoltura, se fossi stata un uomo anch'io. O se fossi stata una donna con la quale non sentisse un legame profondo. 
   Non formulai questi pensieri per esteso. Li sentivo nel piacere che provai durante il nostro giro del campo. Il desiderio che mi aveva procurato fitte di dolore nel corso della notte era adesso purificato e convogliato in un ardore pacato, premuroso, coniugale. Lo seguivo con lo sguardo mentre si preparava, impostava il colpo, valutava, socchiudeva gli occhi e lanciava, e osservavo la traiettoria della palla, che a me pareva sempre un trionfo e a lui sempre un problema, fino al punto della nostra prossima sfida, fino al nostro immediato futuro.    Durante il percorso, parlavamo pochissimo. Pioverà? ci chiedevamo. Hai sentito una goccia? Mi è sembrato di sentire una goccia. Forse no. Non si trattava di chiacchiere sul tempo fatte per senso del dovere, no, erano in assoluto contesto con il gioco. Saremmo riusciti a fare tutte le buche o no? 
   Il caso volle che non ci riuscissimo. Arrivò una goccia di pioggia, decisamente, poi un'altra, e poi una spruzzata d'acqua. Mike puntò lo sguardo verso il fondo del campo, dove le nuvole avevano cambiato colore e da bianche si erano fatte blu scuro, e disse qualcosa in tono non particolarmente allarmato né deluso: - Ecco il nostro temporale che arriva -. Poi incominciò a mettere via le mazze con calma. 
   Eravamo alla massima distanza possibile dalla sede del circolo. Gli uccelli facevano più baccano di prima, e sforbiciavano intorno voli agitati e indecisi. Le cime degli alberi ondeggiavano, e c'era un suono che pareva arrivare dall'alto, come il rumore di un'onda piena di sassi nell'atto di schiantarsi contro la riva. Mike disse: - Allora. Sarà meglio che ci ripariamo -. Mi prese per mano e attraversammo di corsa il prato per inoltrarci sotto gli arbusti e l'erba alta che cresceva tra il campo da golf e il corso del fiume. 
   I cespugli ai margini del campo avevano foglie scure e un aspetto ordinato, quasi da vera siepe sistemata apposta in quel punto. In realtà crescevano a chiazze, selvatici. Sembravano anche impenetrabili, ma da più vicino si scorgevano piccole brecce, varchi prodotti dagli animali o da gente venuta fin lì a cercare le palle da golf. Il terreno declinava appena, e una volta superato il muro ineguale della vegetazione si intravedevano macchie di fiume - quel fiume che era di fatto la ragione del cartello all'ingresso, su cui stava scritto il nome del circolo: Riverside Golf Club. L'acqua era grigio acciaio, e più ancora che scorrere pareva ribollire come la superficie di uno stagno sotto la sferza delle intemperie. Tra il fiume e noi si stendeva un prato incolto, tutto fiorito. Verghe d'oro e non-mi-toccare dalle campanule gialle e rosse e poi quelle che mi sembravano ortiche in fiore, con i loro piccoli grappoli rosa- violacei, e aster selvatici. E poi vite vergine, avviluppata intorno a tutto quel che trovava e aggrovigliata a terra. Il terreno era morbido, non proprio vischioso. Perfino le piante dagli steli più fragili e delicati erano cresciute fino a raggiungere, se non superare, l'altezza delle nostre teste. Quando ci fermammo e guardammo attraverso l'intrico, vedemmo a poca distanza alcuni alberi piegare le fronde come mazzi di fiori recisi. E qualcosa intanto avanzava, dalla direzione delle nuvole buie come la notte. Era la pioggia vera, che ci raggiungeva dopo gli spruzzi iniziali, ma che dava l'impressione di essere tanto di più che non semplice pioggia. Era come se una vasta porzione di cielo si fosse staccata e stesse franando a terra, fragorosa e decisa, assumendo una forma animata non del tutto riconoscibile. Cortine d'acqua - non veli, ma vere e proprie cortine fitte e battenti in modo selvaggio - ne costituivano l'avanguardia. Le vedevamo distintamente, quando tutto ciò che sentivamo per ora erano solo pigre gocce isolate. Era quasi come se stessimo guardando dai vetri di una finestra, e non potessimo credere che prima o poi la finestra sarebbe andata in frantumi e pioggia e vento ci avrebbero investiti, d'un colpo; mi sentii rizzare i capelli a ventaglio intorno alla testa. Ebbi la sensazione che potesse succedere lo stesso anche alla mia pelle.    Cercai allora di voltarmi - sentii il bisogno che non avevo sentito prima, di correre fuori dai cespugli e precipitarmi verso la sede del circolo. Ma non riuscivo a muovermi. Era già abbastanza difficile restare in piedi: fuori all'aperto, il vento mi avrebbe abbattuta all'istante. 
   Piegato in avanti, con la testa tra l'erba e contro il soffiare del vento, Mike mi stava davanti, senza mai lasciare andare il mio braccio. Poi mi si mise di fronte, con il corpo tra me e la tempesta. Uno stuzzicadenti avrebbe ottenuto più o meno lo stesso risultato. Gridava, ma non una sillaba di quel che diceva riusciva a raggiungermi. Adesso mi aveva afferrato entrambe le braccia; scese a stringermi i polsi e li tenne forte. Mi tirò giù - barcollammo entrambi, nell'attimo in cui cercammo di cambiare posizione - e ci ritrovammo tutti e due accucciati a terra. Eravamo talmente vicini da non riuscire a vederci; potevamo soltanto guardare in basso, verso i minuscoli fiumi che già si facevano strada fra i nostri piedi, e l'erba travolta, e le scarpe inzuppate. E anche questo ci toccava osservarlo attraverso lo scroscio d'acqua che ci inondava la faccia.    Mike mi liberò i polsi per piazzarmi le mani sulle spalle. La sua stretta era ancora coercitiva, più che confortante. 
   Rimanemmo così fino a che non si placò il vento. Non poté essere questione di più di cinque minuti, forse solo due o tre. Continuava a piovere, ma ormai si trattava di un normale acquazzone. Mike ritirò le mani e ci alzammo tremanti. Camicia e pantaloni ci aderivano addosso completamente. I capelli mi ricadevano sulla faccia in lunghi viticci da strega, mentre i suoi si incollavano alla fronte a piccole ciocche. Cercammo di sorridere, ma quasi ce ne mancava la forza. Poi ci baciammo e restammo un attimo stretti. Fu piuttosto un rituale, un prendere atto della nostra sopravvivenza, che non l'abbandonarsi alle inclinazioni del corpo. Le nostre labbra scivolarono le une sulle altre, umide e fresche, mentre la stretta dell'abbraccio ci fece sentire un po' di freddo, perché dai vestiti fuoriusciva acqua piovana. 
   La pioggia diminuiva di minuto in minuto. Ci incamminammo, vacillando leggermente, tra l'erba mezza pesta del prato, poi in mezzo ai cespugli grondanti. Grossi rami d'albero erano stati scaraventati in giro per tutto il campo. Soltanto più tardi pensai che ne sarebbe bastato uno solo per ammazzarci. 
   Uscimmo all'aperto, girando intorno alle frasche cadute. La pioggia era quasi cessata, e l'aria si era schiarita. Camminavo a testa china - in modo da far grondare a terra anziché sulla faccia l'acqua dei capelli -, e sentii il calore del sole colpirmi le spalle prima ancora di levare gli occhi e coglierne la luce da giorno di festa. 
   Mi fermai, feci un lungo respiro, e scostai i capelli dal viso. Adesso era il momento, ora che eravamo fradici e salvi e immersi in tanta radiosità. Adesso bisognava dire qualcosa. 
- C'è una cosa di cui non ti ho parlato. 
   La voce di lui mi sorprese, come il sole. Ma in senso opposto. Conteneva l'annuncio di un peso, un avvertimento - era determinata ma apologetica. 
- Riguarda il nostro bambino più piccolo, - disse. - Il nostro bambino più piccolo è morto l'estate scorsa. 
   Oh. 
- Travolto da una macchina. - disse. - Al volante c'ero io. Stavo facendo marcia indietro nel viale di casa. 
   Mi fermai di nuovo. Lui fece lo stesso. Entrambi tenevamo lo sguardo fisso in avanti. 
- Si chiamava Brian. Aveva tre anni. Il fatto è che io lo credevo a letto in casa. Gli altri erano ancora in piedi, ma lui era stato messo a dormire. Poi si era alzato di nuovo. Però avrei dovuto guardare. Avrei dovuto guardare meglio. 
   Pensai al momento in cui Mike era sceso dalla macchina. Al rumore che doveva aver fatto. Al momento in cui la madre del bambino era uscita fuori di corsa. Non è lui, lui non è qui, non è successo niente. In casa, a letto. 
   Riprese a camminare, avviandosi verso il parcheggio. Io lo seguivo a qualche passo di distanza. E non dissi nulla - nemmeno una parola gentile, banale, inutile. Avevamo superato quello stadio. 
   Lui non disse, E’ stata colpa mia, non mi passerà mai. Non potrò mai perdonarmi. Ma faccio del mio meglio. 
   E nemmeno, Mia moglie mi ha perdonato ma anche lei non ne uscirà mai. 
   Sapevo già tutto. Adesso sapevo che Mike aveva toccato il fondo. Mike sapeva con esattezza - come io non potevo sapere e nemmeno lontanamente immaginare - che cosa sia il fondo. Lui e sua moglie l'avevano scoperto insieme, e questo li aveva legati, come una cosa che può soltanto separare per sempre o legare per tutta la vita. Non che avrebbero continuato a vivere là, sul fondo. Ma gliene sarebbe rimasta la consapevolezza, sarebbe rimasta la conoscenza di quello spazio chiuso, centrale, vuoto e senza calore. 
   Poteva succedere a chiunque. 
   Certo. Ma non è così che sembra. Sembra invece che capiti a questa particolare persona, a quella, selezionate dal mucchio, apposta, una alla volta. 
   Dissi: - Non è giusto -. Mi riferivo alla distribuzione di questi castighi casuali, di questi colpi devastanti e maligni. Peggiori in circostanze del genere, forse, che non quando avvengono fra mille disgrazie, nel mezzo di una guerra o di un'altra catastrofe umana. Peggio che mai quando esiste un individuo il cui gesto, magari nemmeno consueto, è da ritenersi per sempre l'unico responsabile dell'accaduto. 
   Era a questo che mi riferivo. Ma volevo anche dire, Non è giusto. Tutto questo che c'entra con noi due? 
   Una protesta talmente brutale da sembrare quasi innocente, scaturita dal cuore vivo della mia persona. 
Innocente, s'intende, se tu sei colui da cui nasce, e se non l'hai resa manifesta. 
- Comunque, - disse Mike, con voce gentile. Il giusto non sta di casa da nessuna parte, in fondo.    - Sunny e Johnston non lo sanno, - disse. - Non lo sa nessuno di quelli che abbiamo conosciuto dopo esserci trasferiti. 
Ci è sembrato che potesse funzionare meglio così. Anche gli altri bambini, non ne parlano quasi mai. Non fanno mai il suo nome. 
   Io non rientravo nella categoria di persone conosciute dopo il trasferimento. Non ero una delle persone in mezzo alle quali si sarebbero fatti una nuova faticosissima vita normale. Io ero una che sapeva, punto e basta. 
Una che apparteneva soltanto a lui, e che sapeva. 
- Che strano, - disse, guardandosi intorno prima di aprire il portabagagli per infilarci la sacca da golf.    - Che cosa sarà successo al tipo che aveva parcheggiato qui? Non hai notato un'altra macchina posteggiata qui quando siamo arrivati? Però sul campo non ho visto nessuno. Ora che ci penso. E tu? 
   Dissi di no. 
- Mistero, - disse lui. E poi, come prima: - Comunque. 
   Era un'espressione che avevo sentito usare piuttosto spesso da bambina, pronunciata con quello stesso tono di voce. Era un ponte tra una cosa e l'altra, o una conclusione, oppure un modo per comunicare qualcosa che non poteva essere formulato o pensato più compiutamente. 
- Comunque, i misteri, come i pozzi, sono solo dei buchi in terra, comunque Quella fu la risposta scherzosa. 
   Il temporale aveva messo fine alla festa in piscina. C'era troppa gente perché si potesse pensare di ammucchiarsi tutti dentro casa, e gli ospiti con bambini avevano preferito andare via. 
   Durante il tragitto di ritorno in macchina, sia Mike sia io avevamo notato una sensazione di bruciore, un prurito acuto e diffuso sugli avambracci, sul dorso delle mani e intorno alle caviglie. Tutte le parti del corpo che non erano state protette dai vestiti, quando ci eravamo accucciati nell'erba. Mi ricordai delle ortiche.    Seduti nella cucina di campagna di Sunny, ormai in abiti asciutti, raccontammo la nostra avventura e mostrammo lo sfogo sulla pelle. 
   Sunny sapeva che cosa fare per noi. La corsa del giorno prima con Claire al pronto soccorso dell'ospedale locale non era certo stata la prima. In un precedente fine settimana i ragazzi si erano incamminati in un prato incolto dal fondo fangoso alle spalle del granaio ed erano rientrati coperti di chiazze e di bolle. Il dottore disse che dovevano essere finiti in mezzo alle ortiche. Che dovevano essercisi rotolati dentro, così disse. Ordinò impacchi freddi, un antistaminico e delle pastiglie. Era avanzata un po' di lozione antistaminica, e anche qualche pastiglia, perché Mark e Gregory si erano ripresi in fretta. 
   Rifiutammo le pillole: il nostro caso non ci pareva abbastanza grave. 
   Sunny disse che aveva parlato con la signora sulla statale, quella che le faceva il pieno all'auto, e la donna le aveva detto che esisteva una pianta dalle cui foglie si ricavava il miglior cataplasma contro il prurito da ortiche. Non c'è bisogno di pillole e altri pasticci, aveva detto. La pianta aveva un nome tipo piede di vitello. 
Piede di qualcosa. La donna le aveva detto che si poteva trovare su una certa strada, nei pressi di un ponte.    Sunny era pronta a cercarla. Le piaceva l'idea di un rimedio popolare. Dovemmo farle notare che l'antistaminico era già in casa, pagato. 
   Le piaceva curarci. Anzi, il nostro stato di salute mise di buonumore l'intera famiglia, stanando i membri dalla depressione prodotta dalla giornata di pioggia e dai programmi saltati. Il fatto che avessimo deciso di andarcene per conto nostro e che avessimo avuto quell'avventura - un'esperienza che aveva lasciato i segni sul nostro corpo - pareva aver risvegliato in Sunny e Johnston la voglia di scherzare. Occhiate buffe da parte di lui, un'allegra solerzia da parte di lei. Se fossimo tornati con i segni di una condotta sconveniente - infiammazione sulle natiche, chiazze rosse su cosce e pancia - non si sarebbero di certo mostrati altrettanto indulgenti e gentili. 
   I ragazzi trovavano divertente vederci seduti con i piedi a bagno e braccia e mani avvolte nelle pezze di tela. Claire in particolare trovava esilarante la vista dei nostri stupidi piedi da adulti. Mike dimenò per bene le dita, apposta per lei, procurandole allarmati scoppi di risa. 
   Comunque. Sarebbe la stessa identica cosa, se ci incontrassimo ancora. Oppure no. Un amore non utilizzabile, che sapeva stare al suo posto (qualcuno lo definirebbe non vero, perché non rischierebbe mai di farsi tirare il collo, né di trasformarsi in una battuta volgare, né di consumarsi penosamente). Un amore che non rischia niente, ma che si mantiene vivo come una goccia di miele, una risorsa sotterranea. Con il peso di questo nuovo silenzio venuto a sigillarlo. 
   Non chiesi mai a Sunny notizie di lui, né lei me ne diede, in tutti gli anni che la nostra amicizia impiegò a morire. 
   Quelle piante dai grandi fiori rosa-violacei non sono ortiche. Ho scoperto che si chiamano eupatorium purpureum. Le ortiche nelle quali dovevamo essere finiti sono una specie assai più ordinaria, dai fiori viola più pallido, con steli dotati per tutta la lunghezza di una crescita fitta di spine urticanti. Dovevano esserci anche quelle, inosservate, in mezzo al rigoglio del prato incolto. 
*** 

Post and Beam. 
   Lionel raccontò loro come era morta sua madre. 
   Aveva chiesto il necessario per truccarsi. Lionel le teneva lo specchio. 
- Ci vorrà più o meno un'ora, - disse lei. 
   Fondotinta, cipria, matita per le sopracciglia, mascara, contorno labbra, rossetto, fard. Era lenta e malferma, ma il risultato fu dignitoso. 
- Non ci hai messo un'ora, - disse Lionel. 
   No, disse lei, non era quello che intendeva. 
   Intendeva, per morire. 
   Lui le aveva chiesto se voleva che chiamasse suo padre. Suo padre, il marito di lei, il ministro. 
   Lei disse, Per cosa? 
   Non si era sbagliata di più di cinque minuti, con la sua previsione. 
   Sedevano dietro casa - la casa di Lorna e Brendan -, su un terrazzino che si affacciava su Burrard Inlet e sulle luci di Point Grey. Brendan si alzò per spostare l'innaffiatoio a girandola su un'altra porzione di prato.    Lorna aveva conosciuto la madre di Lionel solo pochi mesi prima. Una graziosa vecchietta dai capelli bianchi e dal fascino intraprendente, giunta a Vancouver da una cittadina delle Montagne Rocciose per assistere a una rappresentazione della Comédie Française. Lionel aveva invitato anche Lorna. Dopo lo spettacolo, mentre Lionel le teneva aperto il mantello di velluto blu, la madre di Lionel aveva detto a Lorna: - Sono così contenta di conoscere la belle-amie di mio figlio. 
- Adesso non esageriamo con il francese, - disse Lionel. 
   Lorna non sapeva nemmeno con certezza che cosa significasse. Belle-amie. Bella amica? Amante?    Lionel aveva alzato le sopracciglia, oltre la testa di sua madre. Come a dire, Qualsiasi cosa si sia messa in mente, la colpa non è mia. 
   Lionel era stato in passato studente di Brendan, all'università. Un autentico prodigio, a sedici anni. Il più vivace talento matematico che Brendan avesse mai conosciuto. Col senno di poi, Lorna si chiese se Brendan non avesse calcato un po' la mano, per la sua consueta generosità nei confronti di studenti dotati. Anche per come erano andate a finire le cose. Brendan aveva voltato le spalle all'intero pacchetto irlandese - famiglia, chiesa e canzoni sentimentali - ma aveva conservato un debole per i racconti a tinte forti. E infatti, dopo un inizio folgorante, Lionel era andato incontro a una specie di crollo nervoso, era finito in ospedale, sparito dalla circolazione. Fino al giorno in cui Brendan l'aveva incontrato al supermercato e aveva scoperto che abitava a un paio di chilometri da casa loro, proprio lì a North Vancouver. Aveva completamente abbandonato la matematica e lavorava per la casa editrice della Chiesa Anglicana. 
- Vieni a trovarci, - gli aveva detto Brendan. Lionel gli era parso un po' trasandato, e solo. - Ti presento mia moglie. 
   Era contento di avere una casa, adesso, di poter invitare qualcuno. 
- E così non sapevo come potevi essere, - disse Lionel quando riferì l'episodio a Lorna. - Per me, potevi anche essere tremenda. 
- Oh, - ribatté Lorna. - E perché? 
- Che ne so? Mogli. 
   Veniva a trovarli la sera, quando i figli erano già a letto. Il raro intromettersi della vita domestica - il pianto di un bambino attraverso una finestra aperta, il rimprovero che di quando in quando Brendan doveva rivolgere a Lorna per i giocattoli rimasti in giro sull'erba anziché riposti nella sabbiera, l'urlo dalla cucina per chiederle se si era ricordata di comprare i lime per il gin tonic - tutto questo pareva scatenare un brivido, una tensione nel corpo alto, sottile e scattante di Lionel, come sulla sua faccia ombrosa. A quel punto era necessaria una pausa, il recupero di un livello degno di contatto umano. Una volta, sulla melodia di O Tannenbaum, aveva canticchiato pianissimo «O married life, o married life». E aveva fatto un mezzo sorriso nel buio, o almeno a Lorna era sembrato così. Quel sorriso le ricordava quello di Elizabeth, la sua bambina di quattro anni, quando bisbigliava in pubblico a sua madre qualcosa di vagamente scandaloso. Un sorrisetto segreto, e un tantino allarmato. 
   Lionel saliva su per la collina in sella alla vecchia bici - in un periodo in cui ancora nessuno andava in bicicletta, tranne i bambini. Non si cambiava gli abiti da lavoro. Calzoni scuri, camicia bianca sempre lisa e bisunta intorno a collo e polsini, una cravatta non meglio identificata. Quando erano stati a vedere la 
Comédie Française, aveva aggiunto a quell'abbigliamento una giacca di tweed troppo larga di spalle e corta di maniche. Forse non aveva altri vestiti. 
- Mi rompo la schiena per una miseria, - diceva. - E nemmeno nella vigna di Nostro Signore. Solo nella diocesi dell'arcivescovo. 
   Oppure: - Certe volte mi pare di vivere dentro un romanzo di Dickens. E la cosa buffa è che Dickens nemmeno mi piace. 
   Parlava con la testa inclinata di lato, di solito, lo sguardo fisso in un punto appena oltre la testa di Lorna. 
Aveva una voce sottile e precipitosa, attraversata di quando in quando da uno squittio di ilarità spazientita. Diceva ogni cosa con una specie di vago stupore. Raccontava dell'ufficio nel quale lavorava, nell'edificio alle spalle della cattedrale. Delle piccole finestre gotiche e degli infissi di legno lucido e scuro (che conferivano all'ambiente un tocco ecclesiastico), dell'attaccapanni e del portaombrelli (che per qualche ragione lo riempivano di malinconia), di Janine, la dattilografa, e della direttrice del bollettino ecclesiastico, la signora Penfound. Dell'occasionale comparsa dell'arcivescovo, dall'aria spettrale e distratta. Esisteva un'antica discordia tra Janine, in favore del tè in bustine, e la signora Penfound, contraria. Ciascuno degli impiegati mangiucchiava in segreto qualcosa, senza offrire agli altri. Nel caso di Janine, si trattava di caramelle mou, mentre Lionel andava ghiotto di mandorle ricoperte di zucchero. Quanto al piacere segreto della signora Penfound, lui e Janine ancora non erano riusciti a scoprirlo, perché la signora non gettava le carte nel cestino. 
Ma le sue mandibole non facevano che lavorare di nascosto. 
   Accennò all'ospedale in cui era stato ricoverato per un certo periodo e sottolineò quanto assomigliasse all'ufficio in termini di segreti peccati di gola. Di segreti in genere, anzi. Ma la differenza consisteva nel fatto che in ospedale ogni tanto arrivavano, ti legavano, ti portavano via e ti attaccavano, diceva lui, alla corrente. 
   - Esperienza interessante. Elettrizzante, direi. Ma non sono in grado di descriverla. E’ questa la cosa strana. 
Riesco a ricordarla, ma non a descriverla. 
   A causa di quegli episodi in ospedale, disse, era un po' a corto di ricordi. Di dettagli, quanto meno. E gli piaceva farsi raccontare da Lorna i suoi. 
   Lei gli parlò della sua vita prima di Brendan. Delle due case assolutamente identiche, una accanto all'altra, nella cittadina dove era cresciuta. Davanti a loro scorreva un rio profondo che si chiamava Dye Creek perché l'acqua era colorata dalle tinture usate nel lanificio della zona. Alle spalle delle case c'era un prato dove in teoria alle ragazze era proibito andare. In una casa abitava lei con suo padre - nell'altra stavano sua nonna, la zia Beatrice e sua cugina Polly. 
   Polly non aveva un padre. così le avevano detto, e così Lorna per un po' aveva sinceramente creduto. Polly non aveva un padre, come certe razze di gatti non hanno la coda. 
   Nel soggiorno della nonna c'era una mappa della Terra Santa che mostrava le località bibliche, lavorate in diverse tonalità di lana. Nel testamento la nonna la lasciò alla Scuola di Catechismo della Chiesa Unitaria. La zia Beatrice non aveva più avuto vita sociale, vale a dire che non aveva più frequentato un uomo, dal tempo della sua sciagura infamante, ed era talmente meticolosa, talmente ossessiva riguardo alla giusta condotta di vita, da lasciar facilmente credere che Polly potesse essere il frutto di un concepimento senza peccato. L'unica cosa che Lorna avesse mai imparato dalla zia Beatrice era che bisogna sempre stirare le asole di lato e non di fronte, in modo che non si noti il segno del ferro, e che non si deve mai indossare una camicetta leggera senza una sottoveste che nasconda le spalline del reggiseno. 
- O sì. Sì, - diceva Lionel. E allungava le gambe, come se la soddisfazione potesse arrivargli fino alle dita dei piedi. - E veniamo a Polly. Dato questo focolare affettuoso, Polly com'era? 
   Polly era in gamba, rispose Lorna. Piena di energia e di socievolezza, generosa e sicura di sé.    - Oh, - disse Lionel. - Raccontami della cucina. 
- Quale cucina? 
- Quella senza canarino. 
- La nostra -. Descrisse come sfregava il gas con i sacchetti di carta cerata per farlo brillare, e poi gli scaffali anneriti su cui poggiavano le padelle, e il lavandino con sopra il piccolo specchio al quale mancava un triangolino di vetro, e la piccola conca di latta - fatta da suo padre - nella quale c'era sempre un pettine, e il vecchio manico di una tazza, e un astuccio di fard in polvere che un tempo doveva essere stato di sua madre.    Gli raccontò l'unico ricordo che aveva di lei. Erano in centro insieme, un giorno d'inverno. C'era la neve tra il marciapiede e la strada. Aveva appena imparato a leggere l'ora: guardò in alto verso l'orologio dell'Ufficio postale e si rese conto che stava per incominciare lo sceneggiato radiofonico che tutti i giorni lei e sua madre ascoltavano. Era preoccupatissima, non perché si stava perdendo la storia, ma perché si domandava cosa sarebbe successo alle persone della vicenda, con la radio spenta, se lei e sua madre non l'accendevano. Era più di una semplice preoccupazione, era autentico orrore, al pensiero di come le cose possano andare perdute, possano non accadere, in virtù di un'assenza fortuita o del caso. 
   E perfino in quel ricordo sua madre era soltanto un fianco e una spalla, dentro un cappotto pesante.    Lionel disse che lui quasi non riusciva a mettere insieme la figura di suo padre meglio di così, e dire che suo padre era ancora vivo. Il fruscio di una cotta ecclesiastica? Lionel e sua madre solevano fare scommesse su quanto tempo il genitore potesse restare in silenzio, senza rivolgere loro nemmeno una parola. Una volta aveva chiesto a sua madre che cosa facesse arrabbiare tanto il padre, e lei gli aveva risposto che francamente non lo sapeva. 
   - Secondo me non gli piace il lavoro che fa, - disse. 
   E Lionel: - Perché non se ne cerca un altro? 
- Forse non riesce a immaginarne uno che gli piaccia. 
   Poi Lionel si era ricordato di quando lei lo aveva portato al museo e lui si era spaventato vedendo le mummie; lei gli aveva raccontato che non erano morte davvero, ma che potevano uscire dalle casse quando tutti erano tornati a casa. E allora lui aveva detto: «Papà non potrebbe fare la mummia?» Sua madre aveva confuso mummia con mamma, e in seguito aveva raccontato l'episodio come una specie di barzelletta, e lui si era sentito troppo scoraggiato per correggerla. Scoraggiato, a dispetto della tenera età, per la forza schiacciante del problema dell'incomunicabilità. 
   Quello era uno dei pochi ricordi che gli rimanevano. 
   Brendan rise - rise di quella storiella più di quanto non fecero Lorna e Lionel. Brendan sedeva con loro per un poco, dicendo «Si può sapere che avete voi due da ciarlare?» e poi, con un certo sollievo, come se avesse per il momento fatto il proprio dovere, si alzava, annunciava di avere del lavoro da sbrigare e rientrava in casa. Come se fosse contento della loro amicizia, se in qualche modo l'avesse prevista e anche favorita - ma la loro conversazione lo rendeva inquieto. 
- Gli fa bene venire quassù e sentirsi normale per qualche ora, anziché starsene seduto nella sua stanza, - diceva a Lorna. - E naturalmente stravede per te. Povero diavolo. 
   Gli piaceva dire che gli uomini stravedevano per Lorna. Specie dopo un ricevimento di facoltà, dove lei era la moglie più giovane tra quelle presenti. Lorna sarebbe stata a disagio se qualcuno lo avesse sentito; temeva la si potesse considerare un'esagerazione sciocca e presuntuosa. Ma qualche volta, specie se aveva bevuto un po' troppo, il pensiero di poter essere universalmente desiderata eccitava lei quanto Brendan. Nel caso di Lionel, tuttavia, era abbastanza sicura che così non fosse, e si augurava con tutto il cuore che a Brendan non venisse mai in mente di accennare a una cosa simile di fronte al ragazzo. Si ricordava dello sguardo che lui le aveva lanciato sopra la testa di sua madre. Era carico di diniego, e di un sommesso avvertimento.    A Brendan non disse delle poesie. Più o meno una volta la settimana ne arrivava una per posta, regolarmente in busta chiusa. Non erano anonime - Lionel le firmava. La sua firma era una specie di scarabocchio, abbastanza difficile da decifrare, ma del resto altrettanto poteva dirsi di ogni parola delle poesie. Per fortuna, le parole non erano molte - a volte non più di un paio di dozzine in tutto -, e disegnavano sulla pagina un curioso sentiero, come impronte incerte di uccelli. A un primo sguardo, Lorna non riusciva mai a capirci niente. Scoprì che la cosa migliore era non sforzarsi troppo, limitarsi a tenere il foglio davanti agli occhi e guardarlo fisso per un po', come in stato di trance. A quel punto, di solito, le parole affioravano. Non tutte - in ogni poesia ce n'erano due o tre che restavano oscure, ma non aveva grande importanza. Niente punteggiatura, soltanto trattini. Le parole erano quasi tutte dei sostantivi. Lorna non era digiuna di poesia, e nemmeno era tipo da darsi per vinta su quello che non afferrava subito. Ma diciamo che rispetto alle liriche di Lionel si sentiva più o meno come di fronte al buddismo: le vedeva come una risorsa alla quale in futuro avrebbe potuto attingere, nella quale sarebbe riuscita a entrare, ma non per il momento, non ora. 
   Dopo l'arrivo della prima si tormentò chiedendosi che cosa avrebbe potuto dire. Un commento positivo, possibilmente non stupido. Le uscì soltanto un «Grazie della poesia» - in un attimo in cui Brendan era fuori portata di orecchio. Si trattenne dall'aggiungere «Mi è piaciuta». Lionel replicò con un vago cenno di assenso, e fece un verso che sigillò la conversazione. Le poesie continuarono ad arrivare, e nessuno disse più nulla. Lorna cominciò a credere di poterle interpretare come offerte, anziché come messaggi. Non offerte d'amore - Brendan avrebbe potuto pensarla così. Non vi si trovava nessun riferimento ai sentimenti di Lionel per lei, nulla di personale. Le ricordavano certi segni leggeri che a volte si notano sui marciapiedi in primavera: ombre lasciate da foglie rimaste incollate per terra l'anno precedente. 
   C'era poi qualcos'altro, di ben più pressante, di cui non parlò con Brendan. E nemmeno con Lionel. Non disse a nessuno che Polly stava per venirli a trovare. Polly, sua cugina, stava arrivando da casa. 
   Polly aveva cinque anni più di Lorna, e dopo il diploma aveva sempre lavorato in banca. Già una volta era riuscita a mettere da parte il denaro necessario per quel viaggio, ma poi aveva deciso di investirlo invece in una pompa di scarico. Ora però stava per mettersi su un autobus e attraversare il paese. Le pareva la cosa più giusta e normale, fare visita a sua cugina, al marito di sua cugina e alla famiglia. A Brendan sarebbe quasi certamente sembrata un'intrusione, un'iniziativa che nessuno doveva sentirsi in diritto di prendere, senza un esplicito invito. Non era contrario alle visite - prendi il caso di Lionel - ma ci teneva a essere lui a scegliere. Ogni giorno Lorna pensava che doveva dirglielo. E ogni giorno rimandava. 
   Del resto non era neppure un argomento di cui poteva parlare con Lionel. Con lui non si poteva affrontare nulla che assomigliasse a un problema serio. Discutere un problema significava cercare una soluzione, o almeno augurarsi di trovarla. Il che non era interessante, non indicava un atteggiamento interessante nei riguardi della vita. Piuttosto, una speranza faticosa e insulsa. Ansie banali, emozioni semplici non erano il tipo di temi di cuiLionel amasse sentir parlare. Prediligeva fenomeni del tutto sbalorditivi, oppure intollerabili, anche se tollerati con ironia, con allegria addirittura. 
   Una cosa gliel'aveva detta però, che poteva rivelarsi rischiosa. Gli raccontò di come avesse pianto il giorno delle sue nozze e anche durante la cerimonia. Ma era riuscita a buttarla in scherzo, perché aveva detto di aver cercato di liberarsi la mano per prendere un fazzoletto, solo che Brendan non aveva voluto saperne di mollare la presa costringendola per tutto il tempo a tirare su col naso. E in effetti non aveva pianto perché non volesse sposarsi, o perché non amasse Brendan. Aveva pianto perché all'improvviso ogni singolo oggetto di casa le era parso talmente prezioso - benché avesse sempre programmato di andarsene - e le persone di famiglia le erano sembrate le più care che mai avesse potuto sperare di conoscere, anche se aveva sempre tenuto loro segreti i suoi sentimenti. Pianse perché il giorno prima lei e Polly avevano riso lustrando i mobili della cucina e sfregando il linoleum del pavimento, e lei aveva finto di stare dentro una commedia strappalacrime e si era messa a dire ciao, vecchio caro linoleum, ciao, teiera sbreccata, ciao, posticino dove di solito appiccicavo la gomma da masticare, ciao. 
   Perché non gli dici che non se ne fa più niente, le aveva chiesto Polly. Ma in effetti non era così, anzi Polly era fiera, e lo era anche Lorna, con i suoi diciotto anni e mai un ragazzo prima, ed eccola qui, pronta a sposarsi un bel trentenne, insegnante di professione. 
   Ciononostante piangeva, e pianse di nuovo all'arrivo delle lettere da casa nei primi tempi del matrimonio. Brendan l'aveva sorpresa, e le aveva detto: - Vuoi molto bene ai tuoi, vero? 
   Le parve che il tono di lui fosse comprensivo e disse: - Sì. 
   Lui sospirò. - Secondo me vuoi più bene a loro che a me. 
   Lorna disse che non era vero, era solo che qualche volta i suoi le facevano pena. Era dura per loro, per la nonna che anno dopo anno insegnava ai bambini di quarta elementare, anche se ormai aveva gli occhi così rovinati che a mala pena riusciva a scrivere sulla lavagna, e per la zia Beatrice talmente fragile di nervi da non potersi trovare un lavoro, e per suo padre - il padre di Lorna - che faticava al negozio di ferramenta senza nemmeno esserne il titolare. 
   - E la chiami dura? - disse Brendan. - Sono forse stati in un campo di concentramento? 
   Poi aveva aggiunto che al mondo la gente ha bisogno di grinta. E Lorna si era buttata sul letto matrimoniale e aveva dato sfogo alla sua prima crisi di pianto furioso, al cui ricordo adesso si vergognava. Dopo un po' Brendan era venuto a consolarla, ma rimaneva convinto che lei piangesse come fanno sempre le donne quando non riescono ad averla vinta in nessun altro modo. 
   Certe cose dell'aspetto fisico di Polly, Lorna le aveva dimenticate. Quanto fosse alta ad esempio, e che avesse il collo lunghissimo e la vita stretta, e il seno quasi del tutto piatto. 
Mento piccolo e irregolare, bocca sottile. Carnagione pallida, capelli castani tagliati corti, fini come piume. Aveva un'aria fragile e dura insieme, come una margherita dal gambo lungo. Indossava una gonna a balze di jeans, ricamata. 
   Brendan sapeva del suo arrivo da quarantotto ore. Aveva chiamato a carico del destinatario da Calgary, ed era andato lui a rispondere. Dopo la telefonata, furono tre le domande che rivolse a Lorna. Il tono era freddo, ma calmo. 
   Quanto si ferma? 
   Perché non me l'hai detto? 
   Come mai chiama a carico del destinatario? 
- Non lo so, - rispose lei ogni volta. 
   Ora, dalla cucina dove era intenta a preparare la cena, Lorna cercava di sentire che cosa si dicessero. Brendan era appena rientrato. Il saluto non era stata in grado di udirlo, ma la voce di Polly era suonata squillante e carica di una forzata allegria. 
- Sai, Brendan, sono proprio partita con il piede sbagliato; aspetta di sentire questa. Lorna e io stiamo arrivando a piedi dalla fermata dell'autobus e io le sto dicendo, Accidenti, ma questo è proprio un quartiere di classe, Lorna - e poi aggiungo, Ma guarda un po' quella casa, che ci fa in questa zona? Dico, Sembra un garage. 
   Peggio di così non poteva iniziare. Brendan era molto fiero della loro casa. Era una villa moderna, costruita secondo lo stile della West Coast definito Post and Beam Construction. Le ville in stile Post and Beam non erano intonacate: l'idea era di immergerle il più possibile nell'habitat naturale. Perciò l'effetto era di semplicità funzionale dall'esterno, con il tetto piatto che sporgeva oltre le pareti. All'interno, le travi risultavano a vista, e nessuna struttura in legno era ricoperta. Il caminetto era una costruzione in pietra che saliva fino al soffitto, mentre le finestre erano lunghe e strette e prive di tende. L'architettura deve dominare, aveva detto loro il progettista, e Brendan ripeteva sempre quella frase, insieme all'aggettivo «contemporanea», quando illustrava la casa a qualcuno per la prima volta. 
   Non si prese la briga di dirlo anche a Polly, né di tirare fuori la rivista su cui era uscito l'articolo sullo stile in questione, con tanto di foto, anche se non di questa villa in particolare. 
   Polly aveva portato da casa l'abitudine di incominciare ogni frase con il nome del diretto interlocutore. «Lorna...» diceva, oppure «Brendan...» Lorna aveva scordato quel caratteristico modo di conversare che ora le appariva piuttosto impertinente e maleducato. La maggior parte degli interventi di Polly al tavolo della cena incominciavano con «Lorna... » e riguardavano persone note a lei sola, oltre che a Polly. Lorna sapeva che la cugina non intendeva mostrarsi scortese, che anzi stava compiendo uno sforzo tanto strenuo quanto vano di risultare disinvolta. E in un primo momento aveva anche provato a coinvolgere Brendan. Ci avevano provato entrambe, lei e Lorna; si erano lanciate in lunghe spiegazioni riguardo ai singoli conoscenti nominati, ma non aveva funzionato. Brendan aveva aperto bocca solo per richiamare l'attenzione di Lorna su qualcosa che mancava a tavola, o per sottolineare che Daniel aveva rovesciato la pappa sul pavimento intorno al seggiolone. 
   Polly continuò a parlare mentre sbarazzava il tavolo insieme a Lorna, e anche dopo, mentre lavavano i piatti. Di solito Lorna faceva il bagno ai bambini e li metteva a letto prima di rigovernare in cucina, ma quella sera era troppo nervosa - sentiva che Polly era a un soffio dalle lacrime - per sbrigare le faccende nell'ordine consueto. Permise a Daniel di gattonare in giro per la stanza, mentre Elizabeth, sempre incuriosita dalle occasioni sociali e dalle persone nuove, indugiava per ascoltare la conversazione. Questa si protrasse fino a quando Daniel non rovesciò a terra il seggiolone - per fortuna senza tirarselo addosso, ma non senza urlare di spavento - e Brendan arrivò di corsa dal soggiorno. 
- A quanto vedo l'ora di andare a letto è stata rimandata, - disse, prendendo il figlio dalle braccia di Lorna. - Elizabeth. Va' a prepararti per il bagno. 
   Polly aveva smesso di chiacchierare dei conoscenti del paese per passare a descrivere la situazione in casa. Il proprietario del negozio di ferramenta - uomo di cui il padre di Lorna aveva sempre parlato più come di un amico che di un datore di lavoro - aveva venduto la ditta senza dire una sola parola al riguardo fino a dopo la firma dell'atto di vendita. Il nuovo titolare si era messo in mente di ingrandire l'attività proprio mentre la Canadian Tire stava per fagocitare l'azienda e non c'era giorno che non trovasse un pretesto per litigare con il padre di Lorna. Il quale arrivava a casa dal negozio talmente avvilito da non aver voglia di fare altro che starsene sdraiato sul divano. Non gli interessava nemmeno più il giornale o il notiziario. Buttava giù bicarbonato di soda ma si rifiutava di affrontare l'argomento del suo mal di stomaco. 
   Lorna fece cenno a una lettera nella quale il padre minimizzava il problema. 
- Be', è normale che lo faccia, non credi? - disse Polly. - Con te. 
   La gestione di entrambe le case, aggiunse Polly, era diventata un incubo. Si sarebbero dovuti trasferire tutti nella stessa e vendere l'altra, ma la nonna, ora che era in pensione, non faceva altro che prendersela con la madre di Polly, e il padre di Lorna non poteva tollerare l'idea di vivere con quelle due. Quante volte a Polly era venuta voglia di uscire di casa e non farsi più vedere, ma che cosa avrebbero fatto senza di lei?    - Tu dovresti farti la tua vita, - disse Lorna. Le pareva strano di essere lei a dare consigli a Polly.    - Oh, certo, certo, - ribatté Polly. - Sarei dovuta uscire di casa quando andava tutto bene, credo. Ma quando, esattamente? Non ricordo un periodo in cui le cose andassero particolarmente bene. Prima di tutto, sono rimasta bloccata per aspettare che tu finissi la scuola. 
   Lorna si espresse in tono rincresciuto e premuroso, ma si rifiutò di fermarsi a riflettere, di ascoltare le notizie di Polly con la concentrazione dovuta. Le accolse come se riguardassero persone che conosceva e amava, ma per le quali non era affatto responsabile. Pensò a suo padre sdraiato sul divano la sera a trangugiare roba per dei dolori che non voleva ammettere di avere, e alla zia Beatrice nella casa accanto, preoccupata delle chiacchiere della gente, spaventata all'idea che si potesse ridere alle sue spalle, che si scrivessero cosacce su di lei sui muri del paese. La immaginava piangere perché era andata in chiesa con la sottoveste che spuntava dalla gonna. Il pensiero di casa la faceva star male, ma Lorna non riusciva a reprimere la sensazione che Polly la stesse tormentando nella speranza di condurla a un cedimento, di coinvolgerla in un'angoscia profonda. Ed era determinata a non capitolare. 
   Ma guardati un po'. Guarda che vita fai. Tu e il tuo immacolato lavandino in acciaio inossidabile. La tua villa, esempio di architettura dominante. 
- Se dovessi decidere di andarmene via adesso, penso che mi sentirei troppo in colpa, - disse Polly. - Non potrei sopportarlo. Mi sentirei troppo colpevole di averli abbandonati. 
   Certo, c'è gente che in colpa non si sente mai. C'è gente che non ha sentimento,punto e basta. 
- Gran bella storia patetica ti è toccata, - disse Brendan quando furono coricati l'uno accanto all'altra nel buio. 
- Non sa pensare ad altro, - disse Lorna. 
- Ricordati solo che non siamo miliardari. 
   Lorna trasalì. - Non vuole soldi. 
   -No? 
- Non è per questo che mi racconta quelle cose. 
- Non ne sarei troppo sicuro. 
   Lorna si irrigidì, senza replicare. Poi le venne in mente una cosa che avrebbe potuto migliorare l'umore di Brendan. 
- Si tratterrà solo due settimane. 
   Era il suo turno di non replicare. 
- Non la trovi bella? 
- No. 
   Stava per dire che Polly le aveva confezionato il vestito da sposa. Lei aveva pensato di sposarsi in completo blue marine, e Polly, qualche giorno prima delle nozze, le aveva detto: «Non va bene». Perciò aveva tirato fuori l'abito da sera del liceo (Polly era sempre stata più corteggiata di Lorna, la invitavano ai balli) e vi aveva applicato decorazioni e mani che in pizzo bianco. Perché, diceva, una sposa non può indossare un vestito senza maniche. 
   Ma a Brendan che cosa importava? 
   Lionel era via da qualche giorno. Suo padre era andato in pensione, e Lionel lo aiutava nel trasloco dalla cittadina sulle Montagne Rocciose a Vancouver Island. Il giorno dopo l'arrivo di Polly, Lorna ricevette da lui una lettera, anche se molto breve. 
   Ho sognato che ti davo un passaggio in bicicletta. Andavamo abbastanza veloci. Non sembravi spaventata, anche se forse avresti dovuto esserlo. Non dobbiamo ritenerci in dovere di interpretare il sogno. 
   Brendan era partito presto. Insegnava ai corsi estivi, e disse che avrebbe fatto colazione in mensa. Polly uscì dalla sua stanza appena lui se ne fu andato. Indossava un paio di pantaloni, anziché la gonna a balze, e non faceva che sorridere come per una battuta segreta. Continuava a chinare la testa per evitare lo sguardo di Lorna. 
- E’ meglio che approfitti per vedermi un po' di Vancouver, - disse, - dal momento che non so se ci potrò mai tornare. 
   Lorna le segnò certi punti sulla carta, e le diede istruzioni, aggiungendo che le dispiaceva di non poterla accompagnare, ma sarebbe stato più un problema che altro, coi bambini. 
- Oh. Oh, no. Lo immaginavo. Non sono venuta qui per esserti di peso tutto il tempo. 
   Elizabeth percepì la tensione nell'aria. Disse: - Perché noi siamo un problema? 
   Lorna mise Daniel a letto presto per il sonnellino, e quando si svegliò lo caricò sul passeggino e disse a Elizabeth che sarebbero andati al parco giochi. Ne aveva scelto uno che non era il solito vicino a casa, ma quello in fondo alla discesa, non lontano dalla via dove abitava Lionel. Lorna conosceva il suo indirizzo. Sapeva che si trattava di una villetta e non di un condominio. E che lui stava in un monolocale, al primo piano. 
   Non le ci volle molto per arrivarci - anche se il ritorno avrebbe senz'altro richiesto più tempo, trattandosi di spingere il passeggino in salita. Ma era già passata nella zona vecchia di North Vancouver, quella in cui le case erano più piccole, stipate su terreni angusti. La villetta in cui abitava Lionel recava il suo nome accanto a un campanello, e il nome B. Hutchison vicino all'altro. Lorna sapeva che la signora Hut- chison era la padrona di casa. Suonò quel campanello. 
- Lo so che Lionel non c'è e mi dispiace molto disturbarla, - disse. - Ma gli ho prestato un libro della biblioteca e la data di consegna è scaduta, perciò mi chiedevo se non potessi fare un salto su da lui e vedere se riesco a trovarlo. 
   La padrona disse: - Oh -. Era una vecchia con un fazzoletto di cotone sulla testa e la faccia tutta piena di chiazze scure. 
- Mio marito e io siamo amici di Lionel. Mio marito è stato il suo professore all'università.    La parola «professore» funzionava sempre. Lorna ebbe la chiave. Parcheggiò il passeggino dentro, all'ombra, e disse a Elizabeth di non muoversi e di badare a Daniel. 
- Qui non siamo ai giardini, - disse Elizabeth. 
- Devo solo fare una corsa di sopra e tornare giù. Ci metto un minuto, okay? 
   In fondo alla stanza di Lionel c'era un vano che ospitava un fornello a due piastre e una credenza. Niente frigorifero né acquaio, solo un lavandino nel gabinetto. Una tapparella bloccata a metà finestra, e un riquadro in linoleum il cui disegno era coperto di vernice marrone. C'era un lieve odore di gas, mescolato a quello di abiti pesanti non lavati, sudore, e un decongestionante alle gocce di pino, che Lorna accolse - senza soffermarsi col pensiero e senza trovarlo affatto sgradevole - come l'odore intimo di Lionel. 
   A parte questo, il locale non offriva quasi alcuna indicazione personale. Lorna non era lì per un libro della biblioteca, naturalmente, ma per sostare un momento nello spazio dove abitava lui, respirare la sua aria, guardare fuori dalla sua finestra. La vista offriva il panorama di altre case, forse come questa suddivise in piccoli appartamenti, sulla discesa alberata di Grouse Mountain. Il rigore, l'anonimato della stanza, lanciavano una dura sfida. Letto, cassettone, tavolo, sedia. Giusto i pezzi necessari affinché sull'annuncio si potesse scrivere monolocale ammobiliato. Perfino il copriletto in ciniglia color nocciola doveva essere già lì al suo arrivo. Non un quadro - nemmeno un calendario - e, cosa anche più sorprendente, non un libro.    Le cose dovevano essere nascoste chissà dove. Nei cassetti? Non poteva aprirli. Non solo perché non c'era tempo - sentiva già la voce di Elizabeth chiamarla dal cortile - ma perché l'assenza stessa di qualsiasi effetto personale rendeva più forte la sua percezione di Lionel. Non solo nel senso della sua austerità e dei suoi segreti, ma anche di uno stato di all'erta da parte sua, come se avesse piazzato una trappola e aspettasse di coglierla in flagrante. 
   Quello che Lorna aveva davvero voglia di fare non era più cercare, ma sedersi per terra, al centro del quadrato di linoleum. Restare seduta per ore non tanto per osservare la stanza di lui, ma per sprofondarci dentro. Per rimanere in quello spazio dove nessuno la conosceva né pretendeva niente da lei. Rimanere lì un tempo lunghissimo, facendosi intanto sempre più aguzza e più sottile, leggera come un ago. 
   Il sabato seguente Lorna e Brendan e i bambini dovevano recarsi a Penticton. Un laureando li aveva invitati al suo matrimonio. Si sarebbero fermati sabato notte e tutto il giorno domenica, notte compresa, per rientrare poi il lunedì mattina. 
- Gliel'hai detto? - chiese Brendan. 
- Non fa niente. Non si aspetta che la portiamo con noi. 
- Sì, ma tu gliel'hai detto? 
   Il giovedì lo trascorsero a Ambleside Beach. Lorna e Polly e i bambini raggiunsero la spiaggia in autobus, cambiando due volte vettura, cariche di asciugamani, giochi, pannolini, cibo e il delfino gonfiabile di Elizabeth. Il disagio fisico che dovettero affrontare, unito agli sguardi spazientiti e irritati che il loro gruppo suscitava negli altri passeggeri, scatenò in loro una reazione tipicamente femminile, una sorta di sfrenato buonumore. Uscire dalla casa in cui Lorna svolgeva il ruolo di moglie aiutò non poco. Arrivarono alla spiaggia scarmigliate e trionfanti e allestirono il loro campo base, dal quale a turno si allontanavano per entrare in acqua, badare ai bambini, andare a comprare bibite fresche, ghiaccioli, patatine. 
   Lorna era leggermente abbronzata, Polly per niente. Allungò una gamba accanto a quella della cugina e disse: - Guarda qui. Pasta cruda. 
   Con tutto il lavoro che le toccava fare nelle due case più l'impiego in banca, non le restava un quarto d'ora libero per sedersi al sole. Ma adesso parlava in tono tranquillo, senza quel sottinteso di autocelebrazione e vittimismo. L'atmosfera vagamente acida che l'aveva circondata - come di vecchi stracci da cucina - si stava dissipando. Era riuscita a cavarsela da sola per Vancouver - ed era la prima volta che visitava una grande città. Si era rivolta a sconosciuti alle fermate degli autobus e aveva domandato quali fossero i panorami da non perdere e, su consiglio di un tale, aveva preso la seggiovia fino alla cima di Grouse Mountain. 
   Mentre stavano sdraiate sulla sabbia, Lorna le offrì una spiegazione. 
- Questo è sempre un brutto periodo per Brendan. Insegnare ai corsi estivi è snervante, bisogna fare un mucchio di cose così in fretta. 
   Polly disse: - Ah sì? Non sono solo io, allora? 
- Non fare la stupida. Certo che non sei tu. 
- Be', che sollievo. Pensavo che non mi potesse vedere. 
   Poi si mise a parlare di un tizio a casa che la invitava fuori. 
- E’ troppo serio. Vuole una moglie, quello. Immagino che fosse così anche Brendan, con la differenza che tu eri innamorata, immagino. 
- Lo ero e lo sono, - disse Lorna. 
- Be', io invece non credo di esserlo -. Polly parlava con la faccia schiacciata contro il gomito. - Immagino che possa funzionare se trovi qualcuno che ti piace abbastanza e incominci a uscirci e decidi di vedere i lati positivi della faccenda. 
- E quali sarebbero i lati positivi? - Lorna si era rizzata a sedere per poter controllare Elizabeth in groppa al delfino. 
- Fammici pensare un attimo, - disse Polly ridendo. - Scherzo. Ce ne sono tanti. Volevo solo fare la spiritosa. 
   Mentre radunavano giocattoli e asciugamani, disse: - Non mi dispiacerebbe per niente fare la stessa cosa anche domani. 
- Neanche a me, - replicò Lorna, - ma devo preparare i bagagli per l'Okanagan. Siamo stati invitati a un matrimonio -. Lo fece suonare come un dovere - qualcosa di cui non si era presa la pena di parlare fino a quel momento perché era troppo sgradevole e noioso. 
   Polly disse: - Oh. Be', potrei venirci da sola, allora. 
- Certo. Dovresti. 
- Dov'è l'Okanagan? 
   La sera successiva, dopo aver messo a letto i bambini, Lorna andò nella stanza dove Polly dormiva. Ci andò per prendere una valigia dall'armadio, pensando di trovare la camera vuota - Polly, secondo i suoi calcoli, doveva essere ancora in bagno, a mollo nell'acqua tiepida e bicarbonato per placare la scottatura solare. 
   Polly invece era a letto, con il lenzuolo avvolto intorno al corpo come un sudario. 
- Sei uscita dalla vasca, - disse Lorna, come se trovasse tutto ciò assolutamente normale. - Come va ora la pelle? 
- Sto bene, - disse Polly sottovoce. Lorna capì subito che Polly aveva pianto e forse stava piangendo ancora. Si fermò ai piedi del letto, incapace di uscire dalla stanza. Le era calato addosso un senso di delusione, come un malessere, un'ondata di disgusto. Polly non intendeva restare nascosta, così si girò e guardò in su con la faccia tutta stropicciata e triste, rossa di sole e di pianto. Gli occhi le si riempirono di altre lacrime. Era un mucchio compatto di tristezza, un unico tangibile atto d'accusa. 
- Che c'è? - chiese Lorna. Si finse sorpresa, si finse impietosita. 
- Tu non mi vuoi. 
   Il suo sguardo era fisso su Lorna, pieno non solo di pianto, amarezza e dell'accusa di tradimento, ma anche della pretesa furibonda di essere abbracciata, cullata, confortata. 
   Lorna sentì piuttosto l'impulso di picchiarla. Che cosa ti dà il diritto, aveva voglia di dirle. Perché ti avvinghi a me come una sanguisuga? Che cosa ti dà il diritto? 
   La famiglia. E’ la famiglia che dà a Polly il diritto. Ha risparmiato soldo su soldo e ha progettato la sua fuga, con l'idea che Lorna l'avrebbe accolta a braccia aperte. Poteva essere vero - aveva davvero sperato di restare lì e di non dover mai più tornare a casa? Di condividere la buona sorte di Lorna, il suo mondo trasformato? 
- Che cosa credi che possa fare? - chiese Lorna, cattiva, sorprendendo anche se stessa. - Pensi che io abbia potere? Ma se non mi dà nemmeno più di venti dollari per volta. 
   Trascinò la valigia fuori dalla stanza. 
   Era tutto talmente ipocrita e ripugnante - avanzare le proprie lamentele in quel modo, metterle a confronto con quelle di Polly. Che cosa c'entravano poi i venti dollari per volta? Aveva il suo conto corrente, e Brendan non le aveva mai negato nulla. 
   Non riuscì a prender sonno, e ne ritenne Polly responsabile, in cuor suo. 
   Il caldo dell'Okanagan faceva sembrare l'estate più autentica di quella sulla costa. Le colline coperte di erba sbiadita, l'ombra rada dei pini dell'entroterra, fornivano uno scenario adatto a un matrimonio tanto festoso, con le sue interminabili provviste di champagne, i balli e i corteggiamenti, lo sbocciare spontaneo di provvisorie amicizie e benevolenze. Lorna fu presto ubriaca e constatò con sorpresa quanto fosse facile, grazie all'alcol, liberarsi dei vincoli del proprio temperamento. Le nebbie della tristezza si alzarono. Si coricò ancora sbronza, e disponibile al sesso, per la gioia di Brendan. Perfino i postumi dell'indomani le parvero miti: più una purificazione che un castigo. Indebolita, ma per niente scontenta di sé, si sdraiò sulla riva del lago e osservò Brendan aiutare Elizabeth a costruire un castello di sabbia. 
- Lo sapevi che papà e mamma si sono conosciuti a un matrimonio? - chiese. 
- Un po' diverso da questo, però, - commentò Brendan. Intendeva dire che il matrimonio in questione, quello di un amico suo con una McQuaig (i McQuaig erano una delle famiglie più in vista del paese di origine di Lorna), era stata una festa ufficialmente astemia. Il ricevimento si era svolto nel refettorio della chiesa unitaria - Lorna era una delle ragazze reclutate a servire i rinfreschi -, e chi voleva bere doveva farlo frettolosamente, nell'area esterna adibita a parcheggio. Lorna non era abituata a uomini odorosi di whisky, e pensò che Brendan avesse esagerato con la dose di una misteriosa lozione per capelli. Ciononostante, ammirò le sue spalle possenti, il collo taurino, gli occhi bruno-dorati dallo sguardo imperioso e ridente. Quando scoprì che Brendan era un insegnante di matematica si innamorò anche del contenuto della sua testa. La conquistava in un uomo, qualsiasi forma di sapere a lei del tutto inattingibile. Una competenza in motori meccanici avrebbe avuto lo stesso effetto. 
   Il fatto che l'attrazione fosse reciproca assunse agli occhi di Lorna la qualità di un miracolo. Seppe solo in seguito che Brendan era in realtà in cerca di moglie; aveva l'età giusta, era venuto il momento. Voleva una ragazza giovane. Non una collega, né una studentessa, forse neppure il tipo di ragazza per la quale i genitori potessero pensare al college. Una senza grilli per la testa. Intelligente, ma senza grilli. Un fiore di campo, le diceva nella vampa di quei primi giorni, e talvolta anche adesso. 
   Sulla via del ritorno, si lasciarono alle spalle il paesaggio torrido e dorato più o meno tra Keremeos e Princeton. Ma il sole non aveva smesso di brillare, e Lorna sentiva solo un turbamento lieve nei pensieri, come un capello sugli occhi che si può allontanare con un gesto, o che magari si scosta da sé. 
   Solo che continuava a presentarsi. Si fece più malevolo e insistente, fino a che non la colse alla sprovvista e finalmente ne riconobbe il significato. 
   Aveva paura - era anzi quasi certa - che mentre loro erano nell'Okanagan Polly si fosse suicidata nella cucina di casa a North Vancouver. 
   In cucina. Era un'immagine precisa nella mente di Lorna. Vedeva esattamente come Polly avrebbe proceduto. Si sarebbe impiccata subito dietro la porta di servizio. Al loro ritorno, entrando in casa dal garage, avrebbero trovato la porta chiusa a chiave. L'avrebbero aperta e tentato di spingerla senza riuscirci perché il corpo di Polly vi premeva contro. Allora avrebbero fatto di corsa il giro della casa e sarebbero entrati in cucina per ritrovarsi di fronte lo spettacolo del cadavere di Polly. Indosso avrebbe avuto la gonna a balze di jeans e la camicetta bianca arricciata - l'abbigliamento audace con cui si era presentata sfidando il loro senso di ospitalità. Le lunghe gambe pallide ciondoloni, la testa fatalmente reclinata sul collo esile. Davanti al corpo ci sarebbe stata la sedia di cucina sulla quale doveva essere montata, prima di lasciarsi cadere, forse con un salto, per vedere come la disperazione possa mettere fine a se stessa. 
   Sola, in casa di gente che non la voleva, dove perfino i muri e le finestre e la tazza del caffè dovevano averle dato l'impressione di disprezzarla. 
   Lorna ripensò a una volta in cui era rimasta sola con Polly, affidata alle cure della cugina per un giorno, in casa della nonna. Forse suo padre era al negozio. Ma aveva l'idea che anche lui fosse via, che i tre adulti di famiglia fossero fuori dal paese. Doveva essere una circostanza insolita, perché non andavano mai insieme a fare spese, né tanto meno gite di piacere. Un funerale - sì, quasi certamente un funerale. Era di sabato, le scuole erano chiuse. E Lorna era comunque troppo piccola per andarci. I capelli non le erano ancora cresciuti abbastanza da poterli legare in due codini. Le ricadevano a ciocche intorno al viso, come quelli di Polly adesso. 
   Polly attraversava una fase in cui le piaceva realizzare dolci e prelibatezze di ogni tipo utilizzando il ricettario della nonna. Torta di cioccolato e datteri, amaretti, caramello alle noci. Era intenta a mescolare chissà cosa, quel giorno, quando si accorse di non avere in dispensa uno degli ingredienti necessari. Doveva correre in paese in bicicletta e procurarselo al negozio. Faceva freddo e c'era vento, i prati erano brulli: 
poteva essere tardo autunno o inizio primavera. Prima di uscire, Polly aprì la valvola del tiraggio della stufa a legna. Ma non potè lo stesso non pensare a storie di bambini morti in incendi domestici mentre le loro madri erano fuori per commissioni analoghe. Perciò disse a Lorna di infilarsi il cappotto, e la portò fuori, dietro l'angolo tra la cucina e il resto della villa, dove il vento soffiava meno teso. L'altra casa di famiglia doveva essere chiusa, altrimenti avrebbe potuto lasciarla lì. Le disse di non muoversi, e partì diretta al negozio. Resta qui, non ti muovere, non aver paura, le disse. Poi baciò Lorna su un orecchio. Lorna le ubbidì alla lettera. Per dieci minuti, un quarto d'ora, rimase accucciata dietro il cespuglio di lillà, imparando a memoria la forma delle pietre, le chiare e le più scure, delle fondazioni di casa. Fin quando Polly non ritornò trafelata, scaraventando la bicicletta in cortile e chiamandola a gran voce. Lorna, Lorna, urlò gettando via il sacchetto di zucchero di canna o noci, e baciandole tutta la faccia. Perché le era venuto in mente che dei rapitori in agguato - quegli uomini cattivi che erano la ragione per cui le bambine non dovevano allontanarsi nel prato dietro casa - potessero aver intravisto Lorna tra gli arbusti. Per tutto il tragitto di ritorno aveva pregato che non fosse successo. E non era successo, infatti. Spinse Lorna in casa per riscaldarle le ginocchia e le mani infreddolite. 
   Oh, povere manine, diceva. Oh, hai avuto paura? Lorna era contenta di tutte quelle premure, e aveva chinato il capo per farsi accarezzare, come un cavallino. 
   I pini cedettero al bosco fitto dei sempreverdi, le colline brune alle vette verdeazzurre. Daniel incominciò a frignare e Lorna tirò fuori il biberon di succo di frutta. Poco dopo chiese a Brendan di fermarsi in modo da poter sdraiare il piccolo sul sedile anteriore e cambiargli il pannolino. Brendan si allontanò dall'auto, per fumare una sigaretta. La cerimonia dei pannolini lo metteva sempre un po' a disagio. 
   Lorna colse anche l'occasione per recuperare un libro di fiabe di Elizabeth e, una volta ripartiti, ne lesse un brano ai bambini. Era una storia del Dottor Seuss. Elizabeth conosceva tutte le rime a memoria e anche Daniel aveva un'idea di quando intervenire con parole di sua invenzione. 
   Polly non era più la stessa persona che aveva scaldato le mani di Lorna tra le sue, quella che, a differenza di lei, sapeva ogni cosa e di cui ci si poteva fidare a occhi chiusi. Si era capovolto tutto quanto, e pareva che per gli anni dacché Lorna si era sposata, Polly non si fosse più mossa. Sua cugina l'aveva superata. E ora Lorna aveva i bambini seduti dietro in macchina da amare e accudire, e sembrava sconveniente che una persona dell'età di Polly venisse a reclamare la sua parte. 
   Non le serviva pensare tutto questo. Non faceva in tempo a ridimensionare il problema che già rivedeva il cadavere premere contro la porta mentre loro cercavano di aprirla. Un peso morto, un corpo grigio. Il corpo di Polly, al quale nessuno aveva mai dato nulla. Non si era trovata un posto dentro la famiglia, e nessuna speranza del cambiamento che doveva aver sognato si stava affacciando alla sua vita. 
- Adesso leggi Madeline, - disse Elizabeth. 
- Non credo di aver portato Madeline, - rispose Lorna. - No, infatti. Non ce l'ho. Ma non fa niente. La sai tutta a memoria. 
   Lei ed Elizabeth attaccarono a recitarla insieme. 
   In una vecchia casa di Parigi, 
   In via del muro verde trentadue    Dodici bimbe color fiordalisi    Stavano sempre in fila per due. 
   A due a due si alzavano dal letto,    Mangiavan pane e burro 
   E si infilavano il berretto... 
   Che idiozia, che melodramma, che senso di colpa. Non può essere successo. 
   Ma certe cose capitano. C'è gente che affonda, che nessuno aiuta in tempo. Che nessuno aiuta affatto. C'è gente che sprofonda nel buio. 
   Nel cuore nero della notte scura 
   Miss Clavel cercò la luce, piena di paura 
   E disse ahimè è successa una sciagura... 
   - Mamma, - disse Elizabeth. - Come mai ti sei fermata? 
   Lorna rispose: - Dovevo, solo un minuto. Avevo la bocca secca. 
   A Hope si fermarono a prendere hamburger e frappé. Poi attraversarono la Fraser Valley, con i bambini addormentati dietro. Ancora un po' di tempo. Prima di arrivare a Chilliwack, e ad Abbotsford, prima di scorgere le colline di New Westminster e i colli successivi, incoronati di case, a segnalare l'inizio della città. C'erano ancora ponti da passare, svolte da prendere, strade da percorrere, angoli da superare. Tutto questo, nel tempo che veniva prima. La prossima volta di ciascuna di queste cose sarebbe invece rientrata nel tempo che veniva dopo. 
   Quando entrarono in Stanley Park le venne in mente di pregare. Vergognoso: la preghiera opportunistica del non credente. Il farfugliamento del ti-prego-fa'-che-non-sia-così. Fa'-che-non-sia-successo. 
   La giornata era ancora serena. Dal Lion's Gate Bridge si affacciarono sullo Strait of Georgia.    - Si vede l'isola oggi? - chiese Brendan. - Guarda tu, io non posso. 
   Lorna piegò il collo per guardare. 
   - In lontananza, - rispose. - Appena appena, ma c'è. 
   E con la visione di quei dossi azzurri, sempre più scoloriti fin quasi alla totale dissolvenza, Lorna pensò che le restava ancora una cosa da fare. Un patto. Le parve ancora possibile, possibile fino all'ultimo momento, patteggiare. 
   Doveva trattarsi di un impegno serio, una promessa, un sacrificio estremo e struggente. Prenditi questo. Ti prometto questo. Basta che non sia vero, basta che non sia successo. 
   I bambini, no. Distolse il pensiero come se stesse strappando i figli a un incendio. Brendan, neppure, per la ragione opposta. Non lo amava abbastanza. Diceva di amarlo, ed entro certi limiti era anche sincera, e voleva essere amata da lui, ma c'era un fievole ronzio di odio che accompagnava l'amore, quasi sempre. Perciò sarebbe stato riprovevole - oltre che inutile - sacrificare lui. 
   Se stessa? Il suo aspetto fisico? La salute? 
   L'attraversò il pensiero di poter essere sulla pista sbagliata. In un caso simile, forse non eri tu a scegliere. A stabilire le condizioni. Forse le scoprivi sul momento. Dovevi solo promettere di rispettarle, senza sapere prima che cosa avrebbero riguardato. Promesso. 
   Ma niente a che fare coi bambini. 
   Eccoli su Capilano Road, diretti alla loro parte di città e al loro angolo di mondo, dove la vita recuperava peso e ogni azione aveva le sue conseguenze. Ecco apparire tra gli alberi la casa, con i suoi intransigenti muri di legno. 
   - Dall'ingresso principale si fa meno fatica, - disse Lorna. - Non ci sono gradini. 
   E Brendan: - Che saranno mai, un paio di gradini? 
- Non mi avete fatto vedere il ponte, - si lamentò Elizabeth, svegliandosi di colpo. - Perché non mi avete chiamata quando c'era il ponte? 
   Nessuno le rispose. 
- Daniel ha tutto il braccio rosso, - aggiunse, in tono di parziale soddisfazione. 
   Lorna udì delle voci che sembravano provenire dal giardino della casa accanto. Seguì Brendan sul retro della villa. Daniel le pesava sulla spalla, ancora pieno di sonno. Aveva preso la borsa del cambio e quella dei libri di fiabe, mentre Brendan aveva la valigia. 
   Si rese conto che le voci che aveva sentito arrivavano dal loro giardino. Polly e Lionel. Avevano trascinato fuori due sedie a sdraio per sedersi all'ombra. Davano loro le spalle. 
   Lionel. Se n'era completamente scordata. 
   Lui si alzò di scatto e andò ad aprirle la porta. 
- La spedizione fa ritorno alla base al completo di tutti i suoi membri, - disse, con un tono che Lorna era certa di non avergli mai sentito usare in passato. Conteneva una cordialità sincera, una sicurezza pacata e disinvolta. Era il tono di voce di un amico di famiglia. Tenendole la porta aperta, la guardò dritta negli occhi - cosa che non aveva fatto quasi mai - e le rivolse un sorriso totalmente privo di qualsiasi intimo sottinteso, complicità ironica e segreta devozione. Privo di complicazioni, di messaggi personali. 
   Lorna adottò un tono volutamente analogo al suo. 
- Allora... quando sei tornato? 
- Sabato, - disse lui. - Mi ero dimenticato che sareste andati via. Mi sono sfinito di fatica per venirvi a salutare e voi non c'eravate, ma c'era Polly, che naturalmente me l'ha detto, e a quel punto mi sono ricordato.    - Che cosa ti avrebbe detto Polly? - chiese Polly, arrivandogli alle spalle. Non si trattava di una domanda vera e propria, ma piuttosto del commento scherzoso di una donna consapevole del fatto che qualsiasi cosa dica sarà bene accetta. 
   La sua scottatura si era trasformata in abbronzatura, o per lo meno in un colorito diverso, su fronte e collo. 
- Da' qui, - disse a Lorna, liberandola di entrambe le borse e del biberon vuoto. - Tu tieni solo il bambino. 
   I capelli scomposti di Lionel erano meno neri del solito, più castano scuro - certo, quella era la prima volta che li vedeva in pieno sole -, e anche la sua pelle era abbronzata, quanto bastava per non mostrare più il consueto pallore traslucido sulla fronte. Indossava i pantaloni scuri di sempre, ma la camicia le era sconosciuta. Un camiciotto giallo di stoffa scadente stirata troppe volte, fuori misura sulle spalle, forse comprato a una svendita in parrocchia. 
   Lorna portò Daniel su in camera. Lo mise nel lettino e gli rimase accanto accarezzandolo sulla schiena e canticchiando a mezza voce. 
   Pensò che Lionel la stesse punendo per l'errore commesso andando da lui. La padrona di casa glielo aveva detto senz'altro. Lorna avrebbe dovuto aspettarselo, se solo si fosse fermata a riflettere. Non si era fermata a riflettere, probabilmente perché aveva idea che non importasse. Forse aveva addirittura pensato di dirglielo lei di persona. 
   Mentre andavo al parco sono passata davanti a casa tua e ho pensato di entrare a sedermi sul pavimento in mezzo alla tua stanza. Non so spiegarlo. Mi pareva che mi avrebbe dato un po' di pace, stare seduta per terra in camera tua. 
   Aveva creduto - dopo la lettera? - che tra loro due ci fosse un legame, da non rendere esplicito, ma sul quale poter contare. E si era sbagliata, lo aveva spaventato. Aveva esagerato. Girando lo sguardo, lui aveva trovato Polly. E a causa della violazione messa in atto da Lorna, si era rivolto a Polly. 
   O forse no. Forse era semplicemente cambiato. Ripensò alla straordinaria nudità di quella stanza, alla luce sulle pareti. Da quello spazio potevano emergere versioni talmente alterate di lui, partorite senza sforzo in un batter d'occhio. Poteva succedere in reazione a qualcosa che era andato un po' storto, o perché si era reso conto di non poter reggere una determinata situazione. O per nessuna ragione specifica, solo così, in un batter di ciglia. 
   Quando Daniel si fu riaddormentato sul serio, Lorna scese di sotto. In bagno scoprì che Polly aveva risciacquato bene i pannolini e li aveva messi nella bacinella, coperti di una soluzione disinfettante azzurra. Prese la valigia che era rimasta per terra in cucina, la portò di sopra e la depose sul letto matrimoniale, aprendola poi per separare quel che andava lavato da ciò che doveva essere rimesso a posto. 
   La finestra di quella stanza si affacciava sul giardino del retro. Udì delle voci - quella di Elizabeth acuta, quasi stridula per l'emozione di essere di nuovo a casa, e forse per lo sforzo di attirare l'attenzione di un pubblico allargato, e quella di Brendan, autoritaria ma gradevole, impegnata in un resoconto del viaggio.    Andò alla finestra e guardò giù. Vide Brendan dirigersi alla rimessa, aprirne la porta, e tirare fuori la piscina gonfiabile dei bambini. La porta stava per richiudersi sbattendo, e Polly accorse a tenergliela. 
   Lionel si alzò e prese a srotolare la pompa dell'acqua. Non aveva neppure idea che sapesse dove stava la pompa. 
   Brendan disse qualcosa a Polly. La ringraziava? Si sarebbe detto che andassero d'amore e d'accordo. 
   Che cosa era successo? 
   Poteva essere che Polly si sentisse ora degna di stima, grazie alla scelta di Lionel. Una scelta, non un'imposizione da parte di Lorna. 
   O forse Brendan era solo più allegro, perché erano stati via. Magari per un po' aveva deposto il fardello dell'uomo che deve gestire l'ordine all'interno della famiglia. Forse si era reso conto, non senza ragione, che questa Polly così diversa non rappresentava una minaccia. 
   Una scena del tutto normale e stupefacente, verificatasi come per incanto. Tutti contenti. 
   Brendan aveva incominciato a gonfiare il bordo della piscina di plastica, Elizabeth si era messa in mutandine e saltellava tutt'intorno impaziente. Brendan non si era dato pensiero di mandarla a mettersi il costume da bagno dicendole che le mutandine non erano adatte. Lionel aveva aperto l'acqua e, in attesa che servisse per la piscina, ne approfittava per innaffiare i nasturzi come un qualsiasi padrone di casa. Polly parlava con Brendan mentre lui teneva chiusa la valvola nella quale aveva soffiato e le passava il mucchio di plastica già gonfio a metà. 
   Lorna ricordò che era stata Polly a gonfiare il delfino in spiaggia. Come lei stessa aveva detto, aveva buoni polmoni. Soffiava senza fermarsi e senza sforzo apparente. Se ne stava li in piedi in pantaloncini con le gambe divaricate, la pelle liscia come corteccia di betulla. E Lionel la guardava. Giusto quello di cui ho bisogno, stava forse pensando. Una donna assennata e capace, disponibile e solida al tempo stesso. Una donna non vanitosa, languida o insoddisfatta. Poteva proprio essere il tipo di donna che avrebbe sposato un giorno o l'altro. Una moglie che potesse assumere il controllo. Lui poi sarebbe cambiato chissà quante volte, si sarebbe forse innamorato di un'altra, a modo suo, ma la moglie sarebbe stata troppo occupata per accorgersene. 
   Poteva succedere. Polly e Lionel. O magari no. Forse Polly sarebbe tornata a casa, come previsto, e in tal caso non ci sarebbe stato nessun cuore infranto. O comunque così pensava Lorna. Polly poteva sposarsi oppure no, ma qualunque cosa le capitasse con gli uomini, non sarebbe stato quello a spezzarle il cuore.    Di lì a poco, il bordo fu liscio e gonfio. La piscina venne appoggiata sull'erba, la pompa inserita dentro, ed Elizabeth incominciò a sguazzarci con i piedi. Alzò lo sguardo verso Lorna, come se avesse sempre saputo che era là. 
- E’ fredda, - esclamò beata. - Mamma... è fredda. A quel punto anche Brendan guardò verso di lei. 
- Che ci fai lassù? 
- Disfo i bagagli. 
- Non è il caso di farlo adesso. Vieni fuori. 
- Arrivo. Un minuto solo. 
   Da quando aveva messo piede in casa - anzi, da quando si era resa conto che le voci sentite arrivavano dal giardino ed erano di Polly e Lionel -, Lorna non aveva più pensato alla visione che, chilometro dopo chilometro, l'aveva ossessionata: la visione di Polly impiccata dietro la porta. Ne fu sorpresa adesso all'improvviso, come certe volte capita di essere sorpresi, ben dopo il risveglio, dal ricordo di un sogno. E del sogno, quell'immagine aveva la potenza e la spudoratezza. Oltre che la futilità. 
   Non proprio contemporaneamente, ma con un certo ritardo, le giunse il ricordo del patto. Di quella sua idea patetica primitiva e nevrotica di patteggiamento. 
   Ma che cosa aveva poi promesso? 
   Niente che avesse a che fare coi bambini. 
   C'entrava lei allora? 
   Aveva promesso che avrebbe fatto qualsiasi cosa le fosse stato richiesto, non appena avesse capito di che si trattava. 
   Un concetto vago, un patto che non era un patto, una promessa senza senso. 
   Ma provò a considerare varie ipotesi. Quasi come se volesse formulare la storia per raccontarla a qualcuno - non a Lionel ormai - ma a qualcuno, tanto per fare. 
   Rinunciare a leggere libri. 
   Prendere in affidamento bambini difficili provenienti da paesi poveri. Sfinirsi per curare le loro ferite e il loro senso di abbandono. 
   Andare a messa. Decidere di credere in Dio. 
   Tagliarsi i capelli, rinunciare a truccarsi, non strizzarsi mai più il petto in un reggiseno a balconcino. 
   Si lasciò cadere sul letto, stanca di tutta quell'attività, di tanta insulsaggine. 
   La cosa più sensata era che l'impegno da rispettare consistesse nel continuare a vivere come era sempre vissuta. Il patteggiamento era già in atto. Accettare l'accaduto ed essere onesta rispetto a ciò che poteva capitare. Giorni e anni in uno stato d'animo più o meno uguale, anche se i bambini sarebbero cresciuti, e forse ne sarebbe arrivato un altro paio i quali a loro volta sarebbero cresciuti, mentre lei e Brendan incominciavano a invecchiare, poi diventavano vecchi. 
   Mai fino a ora, fino a quel preciso momento, Lorna aveva visto con altrettanta chiarezza di aver sempre contato sulla possibilità che succedesse qualcosa, qualcosa che cambiasse la sua vita. Aveva accolto il proprio matrimonio come un grosso cambiamento, ma di sicuro non l'ultimo. 
   Nulla perciò, se non quello che lei o chiunque altro potesse ragionevolmente prevedere. Doveva essere quella, la felicità di cui accontentarsi, il fine ultimo del suo patteggiamento. Nessun segreto, niente stranezze.    Concentra le tue energie su questo, pensò. Le venne l'impulso teatrale di buttarsi a terra in ginocchio. Era una cosa seria. 
   Elizabeth la chiamò di nuovo: - Mamma. Vieni anche tu -. E poi anche gli altri: Brendan e Polly e Lionel, uno alla volta, la chiamarono, scherzando. 
   Dai, mamma. 
   Mamma. 
   Vieni anche tu. 
   Tutto questo accadeva tanto tempo fa. A North Vancouver, quando abitavano nella villa in stile Post and Beam. Quando Lorna aveva ventiquattro anni, ed era ancora nuova ai patteggiamenti. *** 

Quello che si ricorda. 
   In una stanza d'albergo a Vancouver, Meriel da giovane si sta infilando un paio di guanti estivi bianchi. Indossa un abito di lino beige e un vaporoso foulard bianco sui capelli. Capelli scuri, a quel tempo. Sorride, perché ha ricordato qualcosa che, secondo una rivista, ha detto, o si dice che abbia detto, Sirikit, regina di Thailandia. Citazione di una citazione: la regina Sirikit riferiva parole di Balmain. 
   «Balmain mi ha insegnato tutto. Mi diceva: Metti sempre i guanti bianchi. E’ meglio». 
   E’ meglio. Perché la fa sorridere? Sembra un consiglio talmente soave, di una saggezza tanto definitiva e assurda. Le sue mani guantate hanno un aspetto solenne, ma soffice come le zampe di un gattino. 
   Pierre domanda perché sta sorridendo e lei risponde: - Niente, - e poi glielo dice. 
   E lui: - Chi è Balmain? 
   Si preparavano per andare a un funerale. Erano arrivati la sera prima in traghetto da casa, da Vancouver Island, per non rischiare di essere in ritardo alla funzione del mattino. Era la prima volta che stavano in albergo dalla prima notte di nozze. Ora, quando andavano in vacanza, c'erano sempre anche i due bambini, e cercavano motel a buon prezzo adatti alle famiglie. 
   Quello era il loro secondo funerale da quando erano sposati. Il padre di Pierre era morto, e la madre di Meriel anche, ma quelle morti risalivano a prima che Pierre e Meriel si conoscessero. L'anno prima era morto all'improvviso un insegnante della scuola di Pierre, e c'era stata una bella cerimonia, con il coro dei bambini e le parole antiche della Celebrazione delle Esequie del sedicesimo secolo. L'uomo aveva circa sessantacinque anni e la sua scomparsa non era sembrata a Meriel e Pierre né molto sorprendente né molto triste. Dal loro punto di vista non era poi tanto diverso morire a sessantacinque, settantacinque o ottantacinque anni.    Il funerale di oggi era un'altra faccenda. Era Jonas, che stavano seppellendo. Miglior amico di Pierre per anni, e suo coetaneo: un uomo di ventinove anni. Pierre e Jonas erano cresciuti insieme a West Vancouver - la ricordavano prima del Lion's Gate Bridge, quando sembrava ancora una piccola città. I loro genitori erano amici. All'età di undici o dodici anni si erano costruiti una barca a remi e l'avevano varata al molo Dundarave. All'università si erano separati per un breve periodo: Jonas studiava Ingegneria, mentre Pierre si era iscritto a Lettere classiche, e per tradizione gli studenti di Ingegneria e di Lettere si disprezzavano a vicenda. Ma in seguito la loro amicizia si era in qualche modo consolidata di nuovo. Jonas, che non era sposato, veniva a trovare Pierre e Meriel, e certe volte si tratteneva anche un'intera settimana. 
   Entrambi i giovanotti erano stupefatti di come fossero andate le cose nella loro vita, e ci scherzavano su. Jonas era quello la cui scelta professionale era apparsa tanto rassicurante ai suoi, e aveva suscitato la tacita invidia dei genitori di Pierre; ma poi era stato Pierre a sposarsi, a trovare un lavoro nella scuola e a diventare una persona responsabile, mentre Jonas, dopo gli studi, non si era mai sistemato né con una ragazza né con un mestiere. Viveva in una specie di eterno apprendistato, che non sfociava mai in assunzione definitiva in qualche ditta, e le ragazze - almeno a sentire lui - subivano una sorte analoga. L'ultimo impiego da ingegnere l'aveva avuto nella zona settentrionale della provincia, dove era poi rimasto dopo essersi o essere stato licenziato. «Una separazione consensuale», aveva scritto a Pierre, aggiungendo che ora stava in un albergo dove alloggiava l'alta società della zona e non escludeva l'ipotesi di accettare un lavoro presso una squadra di tagliaboschi. Stava anche prendendo il brevetto di volo e aveva una mezza intenzione di diventare pilota e mettersi in proprio. Poi prometteva di scendere a trovarli non appena le attuali difficoltà finanziarie si fossero risolte. 
   Meriel aveva sperato che non succedesse. Jonas dormiva sul divano del salotto, e la mattina lasciava le coperte sul pavimento, da raccogliere. Teneva Pierre alzato metà della notte a parlare di cose che erano successe quando erano ragazzi, per non dire bambini. Pierre, lo chiamava Piss-hair, soprannome che risaliva a quegli anni, e per gli altri vecchi amici si ostinava a riesumare nomignoli come Stinkpool, Doc e Buster, e mai i nomi con i quali Meriel li aveva sempre sentiti chiamare: Stan, Don, Rick. Ricordava con rude pedanteria i dettagli di episodi che a Meriel non parevano né significativi né comici (il sacchetto di merda di cane incendiato sui gradini di casa del maestro, le molestie del vecchio che offriva spiccioli ai ragazzi perché si calassero i pantaloni), e si irritava quando la conversazione finiva per riguardare il presente. 
   Quando aveva dovuto dire a Pierre che Jonas era morto, Meriel aveva assunto un tono sgomento, colpevole. Colpevole perché Jonas non le era mai piaciuto, e sgomento perché quello era il primo loro coetaneo a morire, la prima morte davvero vicina. Pierre invece non era sembrato particolarmente colpito, né sorpreso. 
   - Suicidio, - aveva detto. 
   No, disse lei, un incidente. Era in moto, di sera, sullo sterrato, è uscito di strada. Qualcuno l'ha trovato, o forse era con lui, l'hanno soccorso subito, comunque, ma è morto nel giro di un'ora. Lesioni mortali.    Era questo che le aveva detto la madre al telefono. Lesioni mortali. Le era sembrata così rassegnata, così poco sconvolta. Come Pierre quando aveva detto: - Suicidio. 
   In seguito, Pierre e Meriel non avevano praticamente più fatto parola della morte, ma solo del funerale, la stanza d'albergo, il bisogno di trovare una baby-sitter disposta a fermarsi per la notte. C'era il completo da portare in tintoria, ci voleva una camicia bianca. Fu Meriel a organizzare tutto, e Pierre la controllava con coniugale paternalismo. Le fu subito chiaro che la voleva vedere pacata ed efficiente, come lui, senza concessioni a qualsiasi manifestazione di dolore che - ne era certo - non poteva essere sincera. Gli aveva chiesto come mai avesse pensato al suicidio e lui le aveva risposto: «E’ la prima cosa che mi è passata per la testa». Il tono sbrigativo le era parso un segnale di avvertimento, se non addirittura di un rimprovero. Come se la sospettasse di poter derivare da questa morte - o dalla loro vicinanza all'evento - una sensazione vergognosa ed egocentrica. Un'eccitazione morbosa e immodesta. 
   I giovani mariti erano severi, in quei giorni. Pochissimo tempo prima, erano stati corteggiatori, personaggi quasi comici, titubanti e devastati dalla smania di sesso. Ora però, a letto caldo, si erano fatti risoluti e critici. Uscivano di casa ogni mattina, ben rasati, il giovane collo strizzato dal nodo della cravatta, e ricomparivano la sera, pronti a dispensare occhiate di sufficienza alla cena e a spalancare il giornale, facendone una barriera contro il caos della cucina, i piccoli malesseri, le emozioni, i neonati. Quante cose avevano dovuto imparare, in poco tempo. Come lavorarsi il capo, e come dominare la moglie. Come mostrarsi autorevoli in materia di ipoteche, beni immobili, cura del prato, impianto fognario, politica, come pure riguardo al lavoro destinato a mantenere la famiglia per il successivo quarto di secolo. Solo alle donne dunque era concesso scivolare - durante le ore del giorno e sempre tenendo conto delle strepitose responsabilità scaricate sulle loro spalle dalla presenza dei bambini - in una sorta di seconda adolescenza. Una leggerezza dell'anima quando i mariti se ne andavano. Sognanti ribellioni, raduni sovversivi, accessi di ilarità che riportavano ai tempi del liceo, muffe che fiorivano sui muri a spese dei mariti, nelle ore in cui loro erano fuori. 
   Dopo il funerale alcuni dei presenti erano stati invitati a casa dei genitori di Jonas, a Dundarave. La siepe di rododendri era in fiore, tutta rossa e rosa e viola. Il padre di Jonas ricevette molti complimenti sul giardino. 
   - Ma, insomma, - si schermiva. - Abbiamo dovuto sistemarlo un po' troppo in fretta. 
   E la madre di Jonas: - Non è un vero e proprio pranzo, purtroppo. Solo uno spuntino -. Quasi tutti bevevano sherry, ma, tra gli uomini, qualcuno aveva preso un whisky. Il cibo era stato apparecchiato sul tavolo estensibile della sala da pranzo - mousse al salmone spalmata sui cracker, tartine ai funghi, sfoglie alla salsiccia, una delicata torta al limone, frutta a pezzi e biscotti alle mandorle, oltre che tramezzini ai gamberi, al prosciutto e al cetriolo e avocado. Pierre ammucchiò ogni cosa sul piattino di porcellana, e Meriel senti la madre dirgli: - Puoi sempre tornare a prenderne ancora, lo sai, vero? 
   Sua madre non abitava più a West Vancouver; era arrivata da White Rock per il funerale. E non era del tutto sicura di poter ancora rivolgere al figlio un rimprovero aperto, ora che Pierre era un insegnante e un uomo sposato. 
- Non avrai paura che non avanzi niente, - disse. 
   Pierre rispose distratto: - Potrebbe finire quello che piace a me. 
   La madre disse a Meriel: - Che bel vestito. 
- Grazie, ma guarda, - disse Meriel, lisciando le pieghe che si erano formate mentre stava seduta durante la funzione. 
- E’ quello il problema, - replicò la madre di Pierre. 
- Qual è il problema? - chiese disinvolta la madre di Jonas, facendo scivolare qualche tartina sulla piastra calda. 
- Il problema con il lino, - disse la madre di Pierre. - Meriel mi stava appunto dicendo che il suo vestito si è tutto stazzonato, - evitò di aggiungere «durante il servizio funebre», - e io le dicevo che è questo il problema con il lino. 
   Forse la madre di Jonas non stava più ascoltando. Guardando verso il fondo della stanza disse: - Quello è il medico che si è occupato di lui. E’ tornato apposta da Smithers sul suo aereo privato. Ci è sembrato un gesto così bello. 
   La madre di Pierre commentò: - Piuttosto rischioso, oltre tutto. 
- Sì. Be', credo che lo faccia d'abitudine per occuparsi dei pazienti che vivono in località isolate.    L'uomo di cui parlavano stava chiacchierando con Pierre. Non indossava un completo, anche se la giacca, su una maglia a collo alto, era dignitosa. 
- Immagino di sì, - disse la madre di Pierre, e: - Infatti, - disse la madre di Jonas, e a Meriel parve che in quel modo le due donne avessero risolto e sistemato qualcosa, che forse riguardava l'abbigliamento del dottore. 
   Lo sguardo le cadde sui tovaglioli ripiegati in quattro sulla tavola. Non erano grandi come tovaglioli da pranzo e nemmeno piccoli come tovagliolini da cocktail. Li avevano sistemati in fila, sovrapposti in modo che un angolo di ciascuno (l'angolo ricamato con un minuscolo fiore rosa, giallo o azzurro) appoggiasse sull'angolo ripiegato del vicino. Non succedeva che due tovaglioli con ricami dell'identico colore fossero uno di seguito all'altro. Non li aveva toccati nessuno o, in caso contrario - perché in giro per la stanza aveva visto qualche persona con il tovagliolo in mano -, dovevano aver preso sempre l'ultimo della fila avendo ben cura di non turbarne l'ordine. 
   Durante la funzione, il sacerdote aveva paragonato la vita terrena di Jonas alla permanenza intrauterina di un bebé. Il bambino, aveva detto, non sa nulla di altre forme di vita e abita la sua tiepida, buia grotta d'acqua senza mai sospettare l'esistenza del grande mondo luminoso nel quale sarà presto catapultato. E noi mortali abbiamo una vaga idea, ma siamo assolutamente incapaci di immaginare la luce che ci attende dopo il travaglio della morte. Se il bambino potesse essere informato di ciò che gli accadrà nel prossimo futuro, non sarebbe forse incredulo, oltre che spaventato? Lo stesso accade a noi, per lo più, ma non dovrebbe essere così, avendo ricevuto garanzie. Ciononostante la nostra mente cieca non sa immaginare, non sa concepire il luogo in cui giungeremo. Il bambino è avvolto nella sua ignoranza, nella fede del suo essere inerme e muto. Noi dunque, che non siamo del tutto ignoranti né del tutto consapevoli, dobbiamo aver cura di farci proteggere dalla nostra fede, dalla parola di nostro Signore. 
   Meriel rivolse uno sguardo al pastore, in piedi sulla soglia con il bicchiere di sherry in mano, intento ad ascoltare le chiacchiere animate di una signora dai capelli biondi cotonati. Non le sembrava che stessero parlando degli spasmi della morte e della luce futura. Come avrebbe reagito se gli si fosse avvicinata e l'avesse affrontato in modo diretto sull'argomento? 
   Nessuno era abbastanza coraggioso per farlo. O abbastanza maleducato. 
   Meriel rivolse invece l'attenzione a Pierre e al dottore del bush. Pierre parlava con una vivacità che non si riscontrava spesso in lui di questi tempi. O per lo meno che Meriel non riscontrava spesso. Finse di vederlo per la prima volta. I capelli ricci, cortissimi e molto scuri che incominciavano a scoprire le tempie su una pelle liscia d'un colore avorio dorato. Le spalle grandi e ossute; i begli arti lunghi, il cranio piccolo di bella fattura. Sorrideva in modo incantevole, mai per ragioni strategiche; dava anzi l'impressione di non fidarsi affatto dei sorrisi, da quando era diventato insegnante di classi maschili. Rughe sottili, prodotto di una latente, perenne irritazione, gli segnavano la fronte. 
   Le tornò in mente un ricevimento scolastico - più di un anno prima - durante il quale si erano trovati ai lati opposti della sala, esclusi dalle conversazioni circostanti. Meriel aveva fatto il giro della stanza e gli si era avvicinata a sua insaputa per poi cominciare a parlargli come un'estranea, flirtando con garbata malizia. Lui le aveva sorriso, come adesso - ma con l'ovvia differenza di chi si rivolga a una donna seducente -, e aveva subito colto il senso del gioco. Si erano scambiati occhiate complici e parole frivole finché non erano scoppiati tutti e due a ridere. Qualcuno poi li aveva avvicinati per dir loro che non erano ammessi gli scherzi privati coniugali. 
   - Che cosa ti fa credere che siamo veramente sposati? - aveva detto Pierre, il cui comportamento in quelle occasioni era di solito molto circospetto. 
   Attraversò anche ora la stanza per raggiungerlo, ma senza intenzioni così sciocche. Doveva ricordargli che presto sarebbero dovuti andar via, ciascuno per conto suo. Lui, in macchina fino a Horseshoe Bay in tempo per il prossimo traghetto, e lei in autobus oltre la North Shore fino a Lynn Valley. Aveva deciso di cogliere l'occasione per andare a trovare una donna alla quale sua madre aveva voluto molto bene, che aveva ammirato tanto da scegliere il nome della figlia in omaggio a lei, e che Meriel aveva sempre chiamato zia, anche se non c'erano fra loro legami di sangue. Zia Muriel. (Solo dopo essere andata via di casa per studiare al college, Meriel aveva modificato l'ortografia del proprio nome di battesimo). La vecchia signora viveva in un ricovero a Lynn Valley, e Meriel non la vedeva ormai da più di un anno. Ci voleva troppo tempo per raggiungere il posto durante i loro infrequenti viaggi a Vancouver, e poi i bambini uscivano turbati dalla casa di riposo per via dell'atmosfera che vi si respirava e dell'aspetto di certi ospiti. Succedeva pure a Pierre, anche se non gli andava di ammetterlo. Chiedeva invece quali rapporti ci fossero tra questa persona e Meriel, in definitiva. 
   Non è come se fosse una vera e propria zia. 
   E così questa volta Meriel andava a farle visita da sola. Aveva detto che si sarebbe sentita in colpa se non fosse andata avendone l'opportunità. Inoltre, benché questo l'avesse taciuto, aveva voglia di godersi il tempo lontano dalla famiglia che l'occasione le avrebbe concesso. 
- Potrei darti un passaggio, - disse Pierre. - Hai presente quanto ti toccherà aspettare l'autobus?    - Non ce la fai, - rispose lei. - Perderesti il traghetto -. Gli ricordò anche gli accordi presi con la babysitter. 
   Lui disse: - Hai ragione. 
   L'uomo con cui stava parlando - il dottore - non potè fare a meno di ascoltare questa conversazione e, inaspettatamente, disse: - Posso accompagnarla io, se mi permette. 
- Credevo che fosse arrivato in aereo, - ribatté Meriel, mentre Pierre diceva: - Questa è mia moglie, le chiedo scusa. Meriel. 
   Il dottore pronunciò un nome al quale lei non fece caso. 
- Non è molto agevole atterrare su Hollyburn Mountain, - aggiunse. - così ho lasciato l'aereo in aeroporto e ho affittato una macchina. 
   Una leggera forzatura nei modi cortesi del dottore fece pensare a Meriel di essergli risultata antipatica, forse. Il più delle volte si mostrava o troppo impertinente o troppo timida. 
- Non le darebbe davvero nessun disturbo? - chiese Pierre. - Sicuro di avere tempo? 
   Il dottore si rivolse direttamente a Meriel. Uno sguardo tutt'altro che sgradevole: non era né audace né malizioso, e non valutativo. Ma neppure deferente per rispetto delle convenzioni.    L'uomo disse: - Ma certo. 
   Perciò, si decise che avrebbero fatto così. Avrebbero incominciato subito a salutare, poi Pierre sarebbe partito per andare al traghetto, mentre Asher, era questo il nome - o il dottor Asher -, avrebbe dato un passaggio a Meriel fino a Lynn Valley. 
   Le intenzioni di Meriel erano di fare visita a zia Muriel, magari trattenendosi anche per la cena, per poi prendere l'autobus da Lynn Valley fino alla stazione dei pullman (i mezzi diretti in centro erano piuttosto frequenti); da lì poteva prendere l'ultima corsa della sera e raggiungere il traghetto che l'avrebbe riportata a casa. 
   La clinica si chiamava Maniero Principessa. Era un vasto edificio a un piano dotato di lunghe ali laterali e pitturato di un rosa tendente al marrone. La via su cui si affacciava era abbastanza trafficata, e intorno alla costruzione non esisteva un terreno né una siepe verde o un muretto che tenesse fuori il chiasso e proteggesse il misero prato dalla polvere. Da un lato si ergeva una cappella con una parodia di campanile, e dall'altro una stazione di servizio. 
- La parola «Maniero» non vuol proprio dire più niente, non trova? - disse Meriel. - Non garantisce neppure la presenza di un piano rialzato. Significa solo che uno deve convincersi di avere di fronte un posto che non fa nemmeno finta di assomigliare a quello che non è. 
   Il dottore non disse nulla - forse la sua battuta non aveva senso per lui. O magari non valeva la pena di farla, anche se era vera. Per tutto il tragitto da Dundarave si era ascoltata parlare con sgomento. Non tanto perché stesse ciarlando a vuoto - dicendo qualunque cosa le passasse per la mente: cercava invece di esprimere concetti che le parevano interessanti, o che avrebbero potuto esserlo se solo fosse riuscita a formularli. Ma queste idee probabilmente sembravano pretenziose, per non dire folli, snocciolate in quel modo. Del resto lei doveva assomigliare a una di quelle donne non disposte a rassegnarsi a una conversazione banale e decise a pretenderne invece una «autentica». E pur sapendo che non stava funzionando affatto, e che lui doveva vivere le sue chiacchiere come un'imposizione, non era in grado di fermarsi. 
   Non sapeva che cosa avesse innescato il meccanismo. L'imbarazzo, il semplice fatto che di questi tempi le capitasse così di rado di parlare con uno sconosciuto. La stranezza di stare sola in macchina con un uomo che non fosse suo marito. 
   Gli aveva addirittura chiesto, sconsideratamente, che ne pensasse dell'idea di Pierre, che l'incidente di moto fosse stato un suicidio. 
- Si potrebbero fare congetture analoghe su qualsiasi incidente grave, - aveva detto lui. 
- Non stia a entrare nel viale, - disse Meriel. - Posso scendere qui -. Era tale il disagio e la fretta di liberarsi di lui e di quella sua indifferenza appena mitigata dall'educazione, che Meriel appoggiò la mano alla portiera mentre l'auto era ancora in movimento. 
- Intendevo comunque parcheggiare, - disse lui, svoltando. - Non voglio certo lasciarla a piedi. 
   E lei: - Potrei metterci un bel po'. 
- Non fa niente. Posso aspettare. O magari entrare a dare un'occhiata. Se non le dispiace. 
   Stava per rispondergli che le case di riposo potevano rivelarsi luoghi tetri e deprimenti. Poi si ricordò che era un dottore, e che non avrebbe visto niente che non conoscesse già. E poi, qualcosa nel modo in cui aveva detto «Se non le dispiace» - il tono formale, ma anche una lieve incertezza nella voce - l'aveva sorpresa. Sembrava che l'offerta del proprio tempo e presenza avesse poco a che fare con le buone maniere, e molto di più con lei. Era una proposta pronunciata con un tocco di sincera umiltà, pur senza trasformarsi in supplica. Se gli avesse risposto che non voleva approfittare oltre della sua gentilezza, lui non avrebbe tentato ancora di convincerla, l'avrebbe salutata con pacata cortesia e se ne sarebbe andato. 
   Invece scesero dalla macchina e camminarono fianco a fianco nel parcheggio, diretti all'ingresso principale.    Numerosi vecchi e disabili sedevano fuori, su uno spiazzo circondato da qualche ispido arbusto e qualche vaso di petunie, pietosa simulazione di un giardino. La zia Muriel non era fra costoro, ma Meriel si ritrovò a elargire saluti cordiali. Le era successo qualcosa. Provava all'improvviso una misteriosa sensazione di potere e di gioia, come se a ogni passo un messaggio energetico la percorresse dal tallone al cranio. Quando più tardi gli domandò: - Come mai sei venuto là dentro con me? - si sentì rispondere: - Perché non volevo perderti di vista. 
   La zia Muriel era sola, seduta su una sedia a rotelle nel corridoio in penombra, appena fuori dalla porta della stanza. Era gonfia e scintillante, ma dipendeva soltanto dal fatto che l'avevano avvolta in un grembiulone in fibra d'amianto perché potesse fumarsi una sigaretta. A Meriel parve di ricordare che quando l'aveva salutata andandosene mesi, stagioni prima, fosse seduta sulla stessa sedia nell'identico punto, anche se non indossava il grembiule di amianto che doveva dipendere da un nuovo regolamento interno o da un progressivo declino della zia. Molto probabilmente stava seduta lì ogni giorno accanto al grande posacenere pieno di sabbia, a fissare il muro color bile - le pareti in effetti erano di un rosa-lilla, ma la luce fioca del corridoio le faceva apparire così - e la mensola con la sua cascata di edera finta. 
- Meriel? L'ho pensato, che eri tu, - disse. - L'ho capito dal passo. Dal respiro. Questa maledetta cataratta ormai è un disastro. Vedo soltanto macchie. 
- Sono proprio io, infatti. Come stai? - Meriel le baciò una tempia. - Come mai non sei fuori al sole? 
- Il sole non mi piace, - disse la vecchia. - Devo proteggere la mia carnagione. 
   Forse scherzava, ma poteva anche essere la verità. Il suo volto pallido e le mani erano coperti di ampie chiazze - macule di un bianco cadaverico che, assorbendo la poca luce del corridoio, sembravano argentee. Era stata biondissima, di pelle rosa, sottile, con i capelli diritti e ben tagliati che erano diventati bianchi prima che compisse quarant'anni. Ora invece apparivano logori, pesti a furia di poggiare sui cuscini, e i lobi delle orecchie penzolavano fuori come tettarelle schiacciate. Una volta portava due piccoli orecchini di diamanti: dove erano finiti? Diamanti alle orecchie, catene d'oro, perle vere, camicette di seta di colori insoliti - ambra, melanzana 
- e splendide scarpe affusolate. 
   Odorava del talco dell'ospedale e di quei quadretti di liquirizia che succhiava tutto il giorno tra una sigaretta razionata e l'altra. 
- Ci servono delle sedie, - disse. Si piegò in avanti, agitò in aria la mano che reggeva la sigaretta e cercò di fischiare. 
- Cameriera, per favore. Due sedie. 
   Il dottore disse: - Le prendo io. 
   La vecchia Muriel e la giovane rimasero sole. 
- Come si chiama tuo marito? 
- Pierre. 
- E avete due bambini, giusto? Jane e David? 
- Esatto. Ma l'uomo che è con me... 
- Ah, no, - disse la vecchia Muriel. - Quello non è tuo marito. 
   La zia Muriel apparteneva alla generazione della nonna di Meriel, più che a quella di sua madre. Era stata l'insegnante di arte della mamma. Prima un modello, poi un'alleata e infine un'amica. Aveva dipinto grandi quadri astratti, uno dei quali - realizzato per donarlo alla madre di Meriel - stava appeso nell'ingresso posteriore della casa in cui Meriel era cresciuta e veniva spostato in sala da pranzo a ogni visita dell'artista. Aveva colori fangosi, sul rosso cupo e marrone (il padre di Meriel lo chiamava «Mucchio di letame in fiamme»), mentre lo spirito della zia Muriel sembrava sempre fulgido e indomabile. Da giovane era vissuta a Vancouver, prima di trasferirsi in quella piccola città per insegnare. Era stata amica di artisti i cui nomi circolavano sui giornali. Non vedeva l'ora di tornare nella metropoli e alla fine lo fece: stava con una coppia di amici, ricchi mecenati, dei quali amministrava gli affari. Sembrava disporre di molto denaro, finché rimase con loro, ma alla loro morte si ritrovò spiantata. Prese a vivere della sua pensione, si diede alla pittura ad acquerello, perché non poteva più permettersi i colori a olio, digiunava (questo era il sospetto di Meriel) pur di poterla portare fuori a pranzo, quando lei era studentessa. In quelle occasioni parlava a precipizio di facezie e di cose serie, per lo più sottolineando come le opere e le idee intorno alle quali la gente si animava tanto fossero solo pattume, ma come qua e là - nella produzione di qualche oscuro contemporaneo o di figure semidimenticate di altri secoli - comparisse talvolta qualcosa di «straordinario». Era quella la sua parola forte in fatto di elogi: «straordinario». Le usciva dopo un silenzio della voce, come se in quel preciso istante, e quasi con sua stessa sorpresa, si fosse imbattuta in una qualità del mondo alla quale non era stato ancora tributato il giusto onore. 
   Il dottore fece ritorno con due sedie e si presentò con disinvoltura, come se non avesse avuto modo di farlo prima. 
- Eric Asher. 
- E’ un dottore, - disse Meriel. Stava per partire con la spiegazione del funerale, l'incidente, il volo da Smithers, ma le fu sottratta la parola. - Ma non sono qui in veste ufficiale, non si allarmi, - disse il dottore.    - Oh no, - disse zia Muriel. – E’ qui con lei. 
- Infatti, - disse lui. 
   E a quel punto allungò un braccio tra le sedie e prese la mano di Meriel, che tenne stretta per un momento, prima di lasciarla andare. Poi, rivolto a zia Muriel: - Come ha fatto a capirlo? Dal respiro? 
- Lo sapevo e basta, - ribatté lei un po' spazientita. - Sono stata un demonio anch'io ai miei tempi.    La sua voce - tremula, esitante - aveva un tono che Meriel non aveva mai sentito. Le parve che in questa vecchia improvvisamente sconosciuta si agitasse un tradimento. Tradimento del passato, della madre di Meriel forse, e di quella amicizia con una persona superiore che alla mamma era stata tanto preziosa. Oppure di quei pranzi con la stessa Meriel, di quelle conversazioni rarefatte. C'era un senso di degradazione nell'aria. Meriel ne fu turbata, nel profondo. 
- Oh, una volta avevo tanti amici, - disse zia Muriel; e Meriel: - Sì, ne aveva tantissimi -. Fece un paio di nomi. 
- Morti, - commentò zia Muriel. 
   No, disse Meriel, aveva letto qualcosa di recente sul giornale, su una retrospettiva o un premio. 
- Ah sì? Credevo fosse morto. Forse ho in mente qualcun altro... Conosceva i Delaney?    Si rivolgeva direttamente all'uomo, non a Meriel. 
- Non mi pare, - disse lui. - No. 
- Avevano una casa dove andavamo sempre tutti, a Bowen Island. I Delaney. Pensavo che potesse averli sentiti nominare. Comunque. Ne sono successe di cose, eccome. Era questo che intendevo, quando ho detto che sono stata un demonio anch'io. Avventure. O meglio. Sembravano avventure, ma erano tutte storie da copione, se sa cosa voglio dire. Nulla di particolarmente avventuroso, in effetti. Ci sbronzavamo fradici, è ovvio. Ma loro volevano che ci fossero sempre le candele accese in cerchio e la musica, ovviamente - sapeva più di rito... Ma non andava sempre così. Non era impossibile incontrare uno sconosciuto e mandare al diavolo il copione. Incontrarsi per la prima volta e incominciare a baciarsi come ossessi e scappare nel bosco. 
Al buio. Non si arrivava mai tanto lontano. Che importanza aveva. Subito a terra. 
   Si era messa a tossire; cercò di continuare a parlare tra un colpo di tosse e l'altro, ma dovette rinunciare e dar sfogo all'accesso violento. Il dottore si alzò e le batté un paio di volte sulla schiena china, con mano esperta. La tosse si placò in un rantolo. 
- Va meglio, - disse. - Oh, sapevamo benissimo che cosa ci aspettava, ma fingevamo di non saperlo. Una volta mi bendarono gli occhi. Non eravamo nel bosco, succedeva in casa. Non feci storie, acconsentii. Ma non funzionò molto bene. Voglio dire che lo sapevo lo stesso. Non c'era probabilmente uno solo tra i presenti che non avrei riconosciuto comunque. 
   Tossì di nuovo, anche se non con la stessa furia di prima. Poi sollevò la testa, fece una serie di respiri lunghi e forti per qualche minuto, con le mani tese in avanti come a bloccare la conversazione, come se avesse di lì a poco qualcos'altro da dire, qualcosa di importante. Alla fine tuttavia si limitò a farsi una risata, e disse: - Ora sono sempre bendata. La cataratta. Eppure nessuno si approfitterebbe di me, nemmeno nella più sfrenata delle orge. 
- Da quanto tempo ne soffre? - chiese il dottore con rispettoso interesse e, con grande sollievo di Meriel, prese l'avvio un dialogo intenso, un dibattito bene informato sull'insorgenza della cataratta, l'ipotesi chirurgica, i pro e i contro dell'intervento, e la sfiducia che la zia Muriel nutriva nei riguardi dell'oculista deportato - così si espresse la zia - a occuparsi di questi vecchi. Una salace fantasticheria - Meriel decise che di questo doveva essersi trattato - scivolata senza alcuna difficoltà in mezzo a chiacchiere ospedaliere, dal tono spassosamente pessimistico da parte della zia, e premurosamente rassicurante da parte del dottore. Il genere di discorso che doveva aver luogo d'abitudine fra queste mura. 
   Di lì a poco Meriel e il dottore si scambiarono un'occhiata, per chiedersi se la visita si fosse protratta a sufficienza. Uno sguardo segreto, attento, quasi coniugale, il cui inganno e la cui modesta intimità risultarono eccitanti per chi, in fondo, sposato non era. 
   Tra poco. 
   Fu la stessa zia Muriel a prendere l'iniziativa. Disse: - Mi spiace, so di essere scortese, ma ve lo devo dire: io mi stanco -. Nessuna traccia ormai, nei suoi modi, della persona che aveva intavolato la prima parte della conversazione. Confusa, tutt'altro che spontanea e con un certo senso di vergogna, Meriel si chinò per salutarla con un bacio. Ebbe la sensazione che non avrebbe più visto la zia Muriel, e non la rivide, infatti.    Svoltato l'angolo, tra porte che si aprivano su camere dove la gente dormiva o forse stava a fissare il vuoto dal letto, il dottore la sfiorò tra le scapole, poi fece scendere la mano sulla schiena fino ai fianchi. Meriel si rese conto che stava pizzicando il lino del vestito che le si era incollato alla pelle madida mentre sedeva appoggiata allo schienale. L'abito era bagnato anche sotto le ascelle. 
   E doveva andare in bagno. Si mise a cercare la Toilette dei Visitatori che le era parso di scorgere all'arrivo.    Eccola. Non si era sbagliata. Un sollievo, ma anche una difficoltà, perché dovette improvvisamente allontanarsi da lui e dire: - Scusi un attimo, - con un tono che le pareva freddo e irritato. Lui disse: - Certo, - e si diresse rapido al bagno maschile, e così la delicatezza del momento andò perduta. 
   Uscendo nel sole caldissimo, Meriel lo vide camminare accanto alla macchina, con la sigaretta in mano. Non aveva fumato prima d'ora, né in casa dei genitori di Jonas, né durante il tragitto e nemmeno con zia Muriel. Quel gesto sembrava isolarlo, rivelare in lui una certa impazienza, forse la fretta di concludere una cosa e procedere verso la successiva. In quel preciso momento Meriel era indecisa se considerare se stessa come la cosa a venire o quella da concludere. 
   - Dove si va? - chiese lui, una volta partiti. Poi, come se pensasse di essere stato troppo brusco, aggiunse: - Dove le piacerebbe andare? - Pareva che parlasse a una bambina, o a zia Muriel, qualcuno da intrattenere per un pomeriggio. E Meriel rispose: - Non so, - come se non avesse altra scelta che assumere il ruolo di quella bambina esigente. Stava trattenendo un gemito di delusione, una pretesa. Pretesa che era sembrata tanto schiva e isolata quanto inevitabile, ma che ora tutt'a un tratto veniva dichiarata sconveniente, unilaterale. Le mani di lui sul volante erano tornate solo sue, come se non l'avessero mai sfiorata.    - Che ne dice di Stanley Park? - chiese lui. - Le andrebbe una passeggiata a Stanley Park? 
   E lei: - Oh, Stanley Park. Non ci vado da secoli, - come se quell'idea la rianimasse e non sapesse immaginarne di migliori. E a rincarare la dose aggiunse: - E’ una giornata talmente stupenda. 
- Sì, infatti. 
   Si esprimevano come caricature; era insopportabile. 
- Non c'è mai la radio su queste macchine a noleggio. Cioè, a volte sì e a volte no. 
   Meriel abbassò il finestrino mentre attraversavano il Lion's Gate Bridge. Gli chiese se gli dava fastidio.    - No, anzi. 
- Per me è sempre un segnale d'estate. Finestrino giù, gomito fuori e l'aria che entra in macchina... credo che non mi abituerei mai all'aria condizionata. 
- A certe temperature, forse sì. 
   Meriel si impose di tacere fino a quando il bosco del parco non li avesse accolti, nella speranza che i fitti alberi altissimi riuscissero a inghiottire la loro mancanza di spirito e la vergogna. Poi rovinò ogni cosa con un sospiro eccessivamente soddisfatto. 
- Prospect Point -. Era lui che leggeva il cartello ad alta voce. 
   C'era parecchia gente in giro nonostante fosse un pomeriggio feriale di maggio, prima dell'inizio delle vacanze. Di lì a un minuto avrebbe potuto pronunciare un'ovvietà anche su questo. C'erano auto parcheggiate lungo tutto il viale d'accesso al ristorante, e code di persone sulla piattaforma panoramica davanti al binocolo a monete. 
- Aha -. Aveva visto una macchina uscire dal parcheggio. Un rinvio improvviso di ogni bisogno di parlare, mentre lui rallentava, faceva marcia indietro per lasciare spazio, e infine procedeva alla manovra nel posteggio appena sufficiente. Scesero contemporaneamente e fecero il giro della macchina per incontrarsi sul marciapiede. Lui si guardò intorno come per decidere da che parte andare. Di gente che passeggiava se ne vedeva in ogni direzione e su tutti i sentieri. 
   A Meriel tremarono le gambe, non ce la faceva più. 
   - Portami da un'altra parte, - disse. 
   Lui la guardò dritta negli occhi. Disse: - Sì. 
   Sul marciapiede, davanti a tutti. A baciarsi come matti. 
   Portami, aveva detto così. Portami da un'altra parte, e non Andiamo da un'altra parte. Questo è importante per lei. Il rischio, il trasferimento di potere. Rischio assoluto e totale trasferimento di potere. Andiamo avrebbe contenuto il rischio ma non l'abdicazione che per lei - ogni volta che riviveva quel momento - coincideva con l'inizio della fase erotica. E se lui avesse abdicato a sua volta? Un'altra parte, dove? Non avrebbe funzionato nemmeno così. Lui deve dire esattamente quello che ha detto. Lui deve dire, Sì.    La portò nell'appartamento in cui viveva, a Kitsilano. Era di un suo amico che stava fuori, su un peschereccio al largo della costa occidentale di Vancouver Island. L'alloggio era in un modesto edificio decoroso, di tre o quattro piani. Meriel avrebbe ricordato solo le mattonelle di vetro intorno all'ingresso e l'imponente impianto hi-fi di quegli anni, che pareva l'unico arredo del soggiorno. 
   Avrebbe preferito uno scenario diverso, e fu quella l'unica cosa che modificò nella memoria. Un albergo sottile a sei o sette piani, una volta residence alla moda, nel West End di Vancouver. Tende di pizzo ingiallito, soffitti alti, forse una griglia di ferro fino a metà finestra, un'atmosfera da allenata accoglienza di ferite private e intimi peccati. Lì, avrebbe dovuto attraversare la piccola hall a testa bassa e passo disinvolto, sentendosi il corpo tutto inondato da una vergogna deliziosa. Mentre lui si sarebbe rivolto all'impiegato sottovoce, con un tono che, senza pubblicizzarle, non avrebbe però neanche cercato di nascondere o di giustificare le loro intenzioni. 
   Poi sarebbe venuto il tragitto nell'antiquata gabbia dell'ascensore, azionata da un vecchio - o forse una vecchia, un'invalida magari, scaltra serva del vizio. 
   Perché fantasticava, perché aggiungeva quella scena? Era per l'attimo di smascheramento, il lancinante senso di vergogna e vanto che le invadeva il corpo mentre attraversava l'atrio (immaginario), e per il suono della voce di lui, la discrezione e l'autorevolezza delle sue parole rivolte all'impiegato e che lei non era in grado di distinguere. 
   Poteva essere lo stesso tono che aveva usato nella farmacia a pochi isolati dall'appartamento, dove, dopo aver parcheggiato, le aveva detto: «Mi fermo qui solo un momento». 
I preparativi pratici che diventavano penosi e scoraggianti nella vita coniugale potevano, in quelle circostanze, procurarle una vampata sottile di calore, una rinnovata mollezza, una sottomissione.    A sera, fu riportata indietro in macchina, oltre il parco, il ponte, il West Vancouver, ripassando a breve distanza dalla casa dei genitori di Jonas. Arrivò a Horseshoe Bay quasi all'ultimo minuto, e salì sul traghetto. Gli ultimi giorni di maggio sono tra i più lunghi dell'anno e, nonostante le luci del porto e quelle delle auto che entravano nel ventre della nave, Meriel riusciva a distinguere ancora dei bagliori nel cielo occidentale e contro il poggio nero di un'isola - non era Bowen, ma un'altra di cui non sapeva il nome -, netto come un budino capovolto allo sbocco della baia. 
   Dovette unirsi alla ressa di corpi in movimento su per la scala e, una volta raggiunto il ponte passeggeri, sedette al primo posto libero che vide. Non si preoccupò nemmeno, come d'abitudine, di cercarne uno accanto al finestrino. Prima dell'attracco sul lato opposto dello stretto, aveva un'ora e mezza di tempo, durante la quale doveva fare tantissimo lavoro. 
   Le persone accanto a lei incominciarono a chiacchierare ancora prima della partenza. Non erano conversatori occasionali incontratisi per caso, ma amici o parenti che si conoscevano bene e che avrebbero trovato argomenti per l'intera traversata. Perciò decise di uscire: salì sul ponte scoperto, dove c'era sempre meno gente, e sedette su uno dei bidoni che contenevano i giubbotti di salvataggio. Il corpo le doleva in punti più o meno prevedibili. 
   Il lavoro che doveva fare, secondo lei, consisteva nel ricordare tutto, e per «ricordare» intendeva rivivere un'altra volta nella mente e immagazzinare ogni cosa per sempre. L'esperienza di questa giornata messa in ordine, senza confusioni né menzogne, tutta radunata in un tesoro, e infine compiuta, conclusa.    Si aggrappava a due previsioni, la prima confortante e la seconda relativamente facile da accettare al momento, anche se destinata senz'altro a farsi più scomoda in futuro. 
   Il suo matrimonio con Pierre avrebbe retto, sarebbe durato. 
   Non avrebbe più rivisto Asher. 
   Entrambe le previsioni risultarono corrette. 
   Il matrimonio con Pierre resse - più di trent'anni da allora, fino alla morte di Pierre. Durante una fase iniziale e non particolarmente acuta del suo male, lei gli leggeva ad alta voce, ripassando alcuni libri che entrambi avevano letto anni addietro e sui quali si erano ripromessi di tornare. Uno di questi era Padri e figli. Dopo aver letto la scena in cui Bazarov dichiara il proprio violento amore ad Anna Sergeevna, che si mostra inorridita, si interruppero per una discussione. (Non un litigio - erano ormai troppo amici per litigare).    Meriel avrebbe voluto un esito diverso per quella scena. Secondo lei, Anna non avrebbe reagito così.    - E’ l'autore, - disse. - Non mi capita di solito con Turgenev, ma qui ho la sensazione che sia proprio lui a mettersi di mezzo e a separare quei due, e mi sembra che lo faccia per ragioni soltanto sue. 
   Pierre sorrideva stanco. Le sue espressioni erano diventate tutte appena abbozzate. - Secondo te avrebbe ceduto? 
- No. Non ceduto. Io non le credo. Secondo me lei è innamorata quanto lui. L'avrebbero fatto e basta.    - Questo è romanticismo. Stai manipolando le cose per arrivare al lieto fine. 
- Chi ha mai parlato della fine? 
- Ascolta, - disse Pierre, paziente. Queste discussioni gli piacevano, ma lo sfinivano anche; doveva riposarsi ogni tanto, per riprendere le forze. - Se Anna cedesse, vorrebbe dire che lo ama. E una volta fatto, lo amerebbe ancora di più. Non è così che succede alle donne? Se sono innamorate, intendo. E lui, che farebbe? 
Se ne andrebbe magari il mattino dopo senza dirle una parola. Perché è la sua natura. Lui detesta amarla. 
Perciò, in che senso credi che sarebbe meglio? 
- Almeno avrebbero qualcosa. L'esperienza. 
- Che lui probabilmente dimenticherebbe, mentre lei potrebbe morire di vergogna e di abbandono. 
Anna è intelligente. Sa tutto questo. 
- Be', - ribatté Meriel dopo una pausa, perché si sentiva con le spalle al muro. - Be', tutto questo Turgenev non lo dice. Lui dice che lei è colta completamente alla sprovvista. Dice che è fredda.    - E’ l'intelligenza a mantenerla fredda. Intelligente significa fredda, per una donna. 
- No. 
- Voglio dire nel diciannovesimo secolo. Nel diciannovesimo secolo, sì. 
   Quella sera sul traghetto, nel tempo in cui aveva pensato di riordinare ogni cosa, Meriel non fece niente del genere. Ciò che le toccò attraversare fu un susseguirsi di ondate di intensa memoria. E fu questo che avrebbe continuato a vivere - a intervalli man mano più distanti - per anni a venire. Avrebbe continuato a ripescare dettagli che le erano sfuggiti e che non cessavano di farla trasalire. Le capitava di risentire o di rivedere qualcosa - un suono che avevano fatto insieme, uno sguardo di intesa o di incoraggiamento che era passato tra di loro. Sguardi di per sé abbastanza freddi, ma che risultavano carichi di un rispetto profondo e più intimi di qualunque occhiata si potessero scambiare un marito e una moglie, o persone che si dovessero qualcosa.    Ricordava i suoi occhi grigio nocciola, la vista ravvicinata della sua pelle ruvida, il cerchio di una vecchia cicatrice vicino al naso, l'ampiezza del suo petto liscio mentre si sollevava dal suo corpo. Eppure non avrebbe saputo fornire una descrizione utile del suo aspetto. Era convinta di aver sentito la sua presenza con tanta intensità, sin dal principio, da escludere un'osservazione ordinaria. Il ricordo improvviso perfino dei primi momenti incerti e titubanti aveva ancora il potere di farla ripiegare su se stessa come a proteggere la sorpresa cruda del corpo, lo scompiglio del desiderio. Amore- mio-amore-mio, bisbigliava in tono duro, meccanico, come la formula di un medicamento segreto. 
   Quando vide la sua foto sul giornale, non provò alcun sussulto immediato. A mandare il trafiletto era stata la madre di Jonas, la quale, finché visse, volle a tutti costi mantenere i contatti e sfruttare ogni occasione per ricordare loro di Jonas. «Vi ricordate il dottore al funerale di Jonas?» aveva scritto in testa al breve articolo MEDICO PROVINCIALE MUORE IN UN INCIDENTE AEREO. Doveva essere una vecchia foto, e nella 
riproduzione del giornale risultava anche sfocata. Una faccia piuttosto in carne, aperta in un sorriso che Meriel non si sarebbe mai aspettata da lui, per l'obiettivo. Non era morto sul suo aereo, ma nello schianto di un elicottero durante un volo d'emergenza. Mostrò l'articolo a Pierre. Disse: - Tu hai capito perché fosse venuto al funerale? 
- Forse erano amici. Come tutte le anime in pena, lassù al nord. 
- Di che cosa avete parlato? 
- Mi raccontò dell'unica volta che aveva portato Jonas con sé per insegnargli a volare. «Mai più», disse. 
   Poi Pierre le chiese: - Ma non ti aveva accompagnato in macchina da qualche parte? Dov'era già? 
- A Lynn Valley. A trovare zia Muriel. 
- E voi, di che cosa avete parlato? 
- Ricordo di aver fatto fatica a conversare con lui. 
   Il fatto che fosse morto non sembrò modificare granché le sue fantasticherie, se così le vogliamo chiamare. Quelle in cui immaginava incontri casuali, o perfino faticosamente organizzati, non si erano comunque mai fondate su principi di realtà, e non fu mai necessario ritoccarle a causa della sua scomparsa. Seguivano un loro corso fino a consumarsi secondo una modalità che sfuggiva al suo controllo e alla sua capacità di comprensione. 
   Quella sera mentre rientrava a casa si era messo a piovere, non forte. Lei era rimasta sul ponte. Si era alzata, aveva camminato su e giù, e non era più riuscita a sedersi sulla cassa dei giubbotti di salvataggio, perché si sarebbe bagnata tutto il vestito. Perciò era rimasta a fissare la schiuma sollevata dalla scia della nave, e le era passato per la mente il pensiero che in un certo genere di storia - di quelle che nessuno scrive più - la cosa giusta da fare sarebbe stata gettarsi nell'acqua. così com'era, grondante felicità, soddisfatta come di certo non le sarebbe capitato di sentirsi mai più, con ogni cellula del corpo gonfia di una presunzione dolcissima. Un gesto romantico che - osservato da un punto di vita proibito - si sarebbe potuto definire di una ragionevolezza suprema. 
   Provò quella tentazione? E più probabile che si stesse solo concedendo di immaginarlo. Più probabile che non si fosse mai neppure avvicinata all'idea di abbandonarsi, anche se proprio abbandono era stato per una volta la parola d'ordine del giorno. 
   Fu soltanto dopo la morte di Pierre che ricordò un ulteriore dettaglio. 
   Asher l'aveva accompagnata in macchina fino a Horseshoe Bay, al traghetto. Era sceso dall'auto e aveva fatto il giro dalla sua parte. Lei stava lì, pronta a dirgli addio. Gli mosse incontro, per baciarlo, un gesto del tutto naturale, dopo le ore appena trascorse - ma lui le disse: - No. 
   - No. Non lo faccio mai. 
   Ovviamente non era vero che non lo faceva mai. Che non baciava mai nessuno all'aperto, sotto gli occhi di tutti. L'aveva fatto non più tardi di quel pomeriggio, a Prospect Point. No. 
   Semplice. Una precauzione. Un rifiuto. Per proteggere lei, se si vuole, oltre che se stesso. Anche se poco prima, quello stesso giorno, non se ne era preoccupato. 
   Non lo faccio mai era tutt'altra cosa però. Un genere diverso di cautela. Un'informazione che non poteva farla felice quand'anche nascesse dalla volontà di impedirle di commettere un grave errore. Di metterla al riparo dalle false speranze e dall'umiliazione di un certo tipo di abbaglio. 
   E come si erano salutati dunque? Stringendosi la mano? Non se lo ricordava. 
   Ma sentiva la sua voce, la leggerezza e al tempo stesso la serietà del tono; vedeva la faccia di lui, risoluta, una faccia in fondo appena piacente, e percepiva il lieve allontanamento dalla sua portata. Non dubitava della verità di quel ricordo. Non capiva piuttosto come avesse potuto soffocarlo così a lungo. 
   L'attraversò il pensiero che se non ne fosse stata capace, forse la sua vita sarebbe andata diversamente. 
   Come? 
   Magari non sarebbe rimasta con Pierre. Avrebbe potuto smarrire l'equilibrio. Cercare di far coincidere quanto era stato detto al porto con le parole pronunciate prima, quel giorno, l'avrebbe resa più vigile, più curiosa. L'amor proprio o lo spirito di contraddizione avrebbero potuto incidere: il bisogno di sentire un uomo rimangiarsi quanto detto; il rifiuto di imparare la lezione; ma non sarebbe stato solo quello. 
C'era un altro genere di esistenza che avrebbe potuto condurre, anche se non significava che l'avrebbe preferita. Probabilmente dipendeva dall'età (un elemento di cui dimenticava sempre di tenere conto) e dall'aria fresca e rarefatta che aveva respirato dopo la morte di Pierre, se ora poteva pensare a quell'altro genere di vita semplicemente come a una forma di percorso di ricerca con le sue trappole e coi suoi traguardi.    Forse non si veniva a capo di granché, comunque. Forse, sempre della stessa cosa all'infinito, il che poteva essere una verità anche ovvia sul proprio conto, ma non per questo meno allarmante. Nel suo caso ad esempio, il fatto che la prudenza - o per lo meno una forma di economia delle emozioni - aveva sempre costituito la sua luce guida. 
   Quel piccolo gesto di difesa, quella precauzione cortese e micidiale, quel sussulto di inflessibilità si erano irranciditi insieme a lui, come una moda superata. Riusciva ora a vederlo come una quotidiana mistificazione, come se fosse stato un marito. 
   Si chiese se sarebbe rimasto tale, o se avesse in serbo per lui qualche altro ruolo, qualche altro uso immaginario per il tempo a venire. 
*** 

Queenie. 
   - Forse dovresti smetterla di chiamarmi così, - disse Queenie quando ci incontrammo alla Union Station. 
   E io: - Così come? Queenie? 
   - A Stan non piace, - disse. - Dice che gli fa venire in mente un cavallo. 
   Mi sorprese di più sentirle dire «Stan» che non scoprire che non era più Queenie, che adesso era Lena. Del resto non potevo certo pretendere che continuasse a chiamare suo marito signor Vorguilla, dopo un anno e mezzo di matrimonio. Per tutto quel tempo non l'avevo più vista e quando, un attimo fa, l'avevo individuata con gli occhi tra la gente in attesa alla stazione, c'era mancato poco che non la riconoscessi. 
   Si era tinta i capelli di nero e li portava gonfi intorno al viso secondo lo stile che in quei giorni aveva sostituito la moda dell'acconciatura ad alveare. Perduto per sempre lo splendido color melassa - dorato sopra e scuro alla radice -, come pure la serica lunghezza. Indossava un abito giallo fantasia che le aderiva al corpo e terminava parecchi centimetri sopra il ginocchio. Il pesante trucco alla Cleopatra e l'ombretto viola le rimpicciolivano anziché ingrandirle gli occhi, come se si nascondessero apposta. Aveva i buchi alle orecchie, trafitti da due ondeggianti cerchi d'oro. 
   Notai che anche lei mi guardava un po' sorpresa. Cercai di assumere un'aria spavalda e disinvolta. Dissi: - Cos'è quello che hai intorno al sedere, una fascia o un vestito? - Rise, mentre io aggiungevo: - Dio che caldo faceva su quel treno. Sto sudando come un maiale. 
   Sentivo il suono della mia stessa voce, un vibrato cordiale come quello di Bet, la mia matrigna. 
   Sto sudando come un maiale. 
   Ora, sul tram, dirette a casa di Queenie, non riuscivo a smettere di dire cretinate. Tipo: - Siamo ancora in centro? - I grattacieli ce li eravamo lasciati presto alle spalle, ma non mi pareva che si potesse definire questa come una zona residenziale. Continuava a ripetersi un'identica teoria di negozi: una tintoria, un fioraio, un alimentari, un ristorante. Casse di frutta e verdura esposte sul marciapiede, insegne di dentisti, di sarte e di componenti idraulici alle finestre dei piani rialzati. Non c'era quasi nessun edificio più alto di così, quasi nemmeno un albero. 
- Non è il centro vero e proprio, - disse Queenie. - Ti ricordi che ti ho fatto vedere dove stava Simpson? Dove siamo salite sul tram? Ecco, quello è il centro. 
- Allora ci siamo quasi, - dissi. 
   E lei: - Ancora un momentino. 
   Poi si corresse: - Un momento. A Stan non piace che io dica momentino. 
   Il ripetersi dello scenario, o forse il caldo torrido, mi stavano rendendo ansiosa e un po' nauseata. 
Reggevamo la valigia sulle ginocchia e ad appena pochi centimetri dalle mie dita si trovavano il collo grasso e la testa calva di un uomo. Radi capelli lunghi e sudati gli piovevano sullo scalpo. Chissà come, mi ritrovai a pensare ai denti del signor Vorguilla nell'armadietto dei medicinali, quelli che mi aveva mostrato Queenie quando lavorava per i Vorguilla, nostri vicini di casa. Succedeva molto prima che si potesse pensare al signor Vorguilla come a Stan. 
   Due denti saldati insieme e posati accanto al rasoio, al pennello e alla ciotola di legno che conteneva quel suo ripugnante sapone da barba lanuginoso. 
- E’ il suo ponte, - aveva detto Queenie. 
   Ponte? 
- Il ponte dei denti. 
- Baah, - feci io. 
- Questi sono di riserva, - disse lei. - Oggi ha messo gli altri. 
- Baah. Ma non sono gialli? 
   Queenie mi aveva appoggiato una mano sulla bocca. Non voleva che la signora Vorguilla ci sentisse. La signora Vorguilla era di sotto, sdraiata sul divano della sala da pranzo. Teneva gli occhi chiusi tutto il tempo, ma poteva anche darsi che non stesse dormendo. 
   Quando alla fine scendemmo dal tram, ci toccò incamminarci per una salita ripida, cercando di dividere alla meglio il peso della valigia. Le case non erano proprio tutte uguali, anche se a prima vista lo sembravano. 
Certe avevano il tetto che spioveva in avanti come la falda di un cappello, oppure era il primo piano stesso a fungere da tetto, con una copertura di embrici. Ce n'erano di verde scuro, amaranto e marrone. Le verande sporgevano fino a pochi centimetri dal marciapiede e lo spazio tra una casa e l'altra era talmente stretto che se uno allungava un braccio dalla finestra, poteva stringere la mano al vicino. C'erano dei bambini che giocavano fuori, ma Queenie non li considerò più di quanto avrebbe fatto con degli uccellini becchettanti tra le crepe del selciato. Un uomo molto grasso, nudo dalla cintola in su, sedeva sui gradini davanti a casa, fissandoci in modo tanto assorto e malinconico che avrei giurato dovesse dirci qualcosa. Queenie lo superò impassibile. 
   A un certo punto della salita, tagliò per un sentiero sterrato tra bidoni della spazzatura. Da una finestra del piano di sopra una donna urlò qualche parola che mi risultò incomprensibile. Queenie rispose: - E’ solo mia sorella, è venuta a trovarci. 
- La nostra padrona di casa, - disse. - Abitano nelle stanze che danno sulla strada e in quelle di sopra. Sono greci. Non parla quasi una parola di inglese. 
   Poco dopo scoprii che Queenie e il signor Vorguilla dividevano il bagno con i greci. Toccava portarsi appresso il rotolo di carta igienica: se te ne scordavi, fatti tuoi. Dovetti andare subito perché avevo le mestruazioni forti e dovevo cambiarmi l'assorbente. A distanza di anni, la vista di certe vie cittadine in giornate calde, certi edifici di mattoni bruni e tetti dipinti di scuro, e il rumore dei tram, ancora mi riportano alla memoria il ricordo di crampi al bassoventre, fuoriuscite di liquido, perdite a fiotti, vampate di imbarazzo.    C'erano una camera da letto dove Queenie dormiva con il signor Vorguilla e un'altra stanza trasformata in soggiorno, una cucina stretta e una veranda. Io avrei dormito sulla rete in veranda. Fuori, a poca distanza dalla finestra, il padrone di casa e un altro tizio stavano aggiustando una moto. L'odore di olio, metallo e ingranaggi si mescolava a quello dei pomodori maturi, sotto il sole. C'era una radio che strillava musica a tutto volume, da una finestra del piano rialzato. 
- Se c'è una cosa che Stan non sopporta è quella radio, 
- disse Queenie. Tirò le tende a fiori, ma chiasso e calore entravano lo stesso. - Se solo potessi permettermi dei tendoni, - disse. 
   Io avevo in mano l'assorbente zuppo avvolto nella carta igienica. Mi portò un sacchetto e mi indicò un secchio della spazzatura fuori. - Uno di quelli, uno qualsiasi, - mi disse. 
- Fuori, subito. Non te ne scordare, per favore. E non lasciare la scatola in vista; detesta che glielo si ricordi. 
   Continuavo a sforzarmi di non badarci, di agire come se mi sentissi a casa. - Ho bisogno di un bel vestito fresco, come il tuo, - dissi. 
- Magari posso fartene uno, - disse Queenie, con la testa dentro il frigorifero. - Io bevo una Coca, ne vuoi una anche tu? Sai, mi servo in un posto dove vendono scampoli. Mi sono fatta un vestito con poco più di tre dollari. Che taglia porti adesso? 
   Mi strinsi nelle spalle. Dissi che stavo cercando di perdere peso. 
- Bene. Magari riusciamo a trovare qualcosa. 
- Sposerò una signora che ha una bambina della tua età, 
- aveva detto mio padre. - E questa bambina non ha un padre che si occupi di lei. Perciò mi devi promettere una cosa, e cioè che non la prenderai mai in giro per questo. Certe volte capiterà che litighiate o che non andiate d'accordo, come succede tra sorelle, ma quella cosa tu non la devi dire mai. E se la dice qualche altro bambino, tu non devi schierarti dalla sua parte. 
   Per puro amore del dibattito, dissi che io non avevo una madre, ma che nessuno mi diceva mai niente di cattivo sull'argomento. 
   Mio padre disse: - E’ diverso. 
   Si sbagliava su tutta la linea. Non eravamo affatto quasi coetanee, perché quando mio padre sposò Bet, Queenie aveva nove anni e io sei. Anche se più tardi, quando io saltai una classe e Queenie ne perse una, ci ritrovammo più vicine a scuola. E non ho mai conosciuto nessuno che avesse voglia di essere cattivo con Queenie. Era una di quelle persone che tutti vogliono avere per amiche. Fu la prima a essere selezionata per la squadra di baseball, pur essendo una giocatrice distratta; e la prima anche per la squadra di ortografia, nonostante facesse un mucchio di errori. Altra cosa: io e lei non litigammo mai. Nemmeno una volta. Lei si mostrò piena di gentilezza per me, e io di ammirazione per lei. L'avrei adorata per quei suoi capelli color miele scuro e quei sognanti occhi neri - solo per quanto era bella e per come rideva. Aveva una risata ruvida e dolce come zucchero di canna. Il prodigio era che, a dispetto di tanti vantaggi, sapeva essere affettuosa e gentile. 
   Appena mi svegliai, la mattina della scomparsa di Queenie, quella mattina d'inizio inverno, sentii che non c'era più. 
   Era ancora buio, tra le sei e le sette. In casa faceva freddo. Mi infilai l'immensa vestaglia di lana marrone che dividevo con Queenie. La chiamavamo Buffalo Bill e quella di noi che usciva dal letto per prima se l'accaparrava. Un mistero, da dove arrivasse. 
   - Magari era di un amico di Bet, prima che sposasse tuo padre, - spiegava Queenie. - Ma non dire niente, se no mi ammazza. 
   Il suo letto era vuoto, e in bagno non c'era. Scesi le scale senza accendere le luci per non svegliare Bet. Guardai fuori dalla finestrella sulla porta d'ingresso. Il vialetto, il marciapiede e il prato davanti a casa erano tutti bianchi di brina. La neve era in ritardo. Accesi il termostato dell'ingresso e la caldaia prese a ronzare al buio, dopo un primo brontolio confortante. Avevamo da poco la caldaia a nafta e mio padre diceva che continuava a svegliarsi alle cinque ogni mattina, con l'idea di dover scendere nel seminterrato ad accendere il fuoco. 
   Mio padre dormiva in un ex ripostiglio, dietro la cucina. Aveva una branda di ferro e una sedia con lo schienale rotto su cui ammucchiava i vecchi «National Geographic» da leggere se non riusciva a dormire. Per accendere e spegnere la luce centrale usava una corda legata alla spalliera del letto. Quel genere di sistemazione mi pareva del tutto naturale e adeguata all'uomo di casa, al padre. Era giusto che dormisse come una sentinella, sotto una coperta ruvida e con addosso un odore non addomesticato di tabacco e motori. Che leggesse e vegliasse a tutte le ore, e che si mantenesse all'erta anche nel sonno. 
   Queenie però, non l'aveva sentita. Disse che doveva essere in casa, da qualche parte. - Hai guardato in bagno? 
   E io: - Non c'è. 
- Magari è da sua madre. Avrà avuto il solito attacco, chissà. 
   Mio padre definiva attacchi i momenti in cui Bet si svegliava - oppure non si svegliava del tutto - dopo un brutto sogno. Si precipitava fuori dalla sua stanza incapace di spiegare che cosa le avesse messo paura, e toccava a Queenie riaccompagnarla a letto. Queenie le si acciambellava addosso ed emetteva suoni rassicuranti, come un cucciolo che succhia il latte, e il mattino dopo Bet non ricordava più nulla. 
   Avevo acceso la luce in cucina. 
- Non volevo svegliarla, - dissi. - Bet. 
   Guardavo il portapane metallico arrugginito per le eccessive passate di straccio umido, e i tegami sul gas, lavati ma non riposti, e il motto appeso, fornito dalla Fairholme Dairy: Il Signore è il Cuore della nostra Casa. Tutti quegli oggetti in stupida attesa che la giornata iniziasse, senza sapere che una catastrofe l'aveva svuotata. 
   La porta laterale non era chiusa a chiave. 
- E’ entrato qualcuno, - dissi. - Qualcuno è entrato e ha portato via Queenie. 
   Mio padre arrivò infilandosi i pantaloni sui mutandoni lunghi. Bet ciabattava di sotto in vestaglia di ciniglia, accendendo una luce dopo l'altra. 
- Queenie è con te per caso? - le chiese mio padre. E, rivolto a me: - La porta deve essere stata aperta dall'interno. 
   Bet disse: - Cos'è questa storia di Queenie? 
- Magari aveva solo voglia di farsi una passeggiata, - disse mio padre. 
   Bet non lo stava a sentire. Aveva sulla faccia una specie di impiastro secco di colore rosa. Faceva la rappresentante di cosmetici, e non vendeva mai niente senza averlo provato prima su se stessa.    - Va' a vedere dai Vorguilla, - mi disse. - Può darsi che le sia venuto in mente che doveva fare qualcosa. 
   Tutto questo accadeva grosso modo una settimana dopo il funerale della signora Vorguilla, ma Queenie aveva continuato a lavorare: dava una mano al signor Vorguilla a imballare i piatti e la biancheria per il trasloco in un appartamento. Lui aveva i concerti di Natale da preparare per la scuola e non poteva occuparsi di tutto da solo. Bet voleva che Queenie si licenziasse subito, perché sperava che per Natale l'assumessero come aiutante in un grande magazzino. 
   Anziché salire a cercare le mie scarpe, mi infilai gli stivali di gomma di mio padre, quelli che stavano accanto alla porta. Incespicai sul prato, raggiunsi la veranda dei Vorguilla e suonai il campanello. Era una campana a vento, una specie di biglietto da visita che annunciava la musicalità della famiglia. Mi strinsi addosso Buffalo Bill e pregai. Dài, Queenie, Queenie, accendi le luci. Dimenticavo che se Queenie fosse stata lì a lavorare, le luci sarebbero già state accese. 
   Nessuna risposta. Battei sulla porta. Il signor Vorguilla sarebbe stato di cattivo umore, quando fossi finalmente riuscita a svegliarlo. Premetti la faccia contro la porta, per sentire se qualcuno si muoveva. 
- Signor Vorguilla. Signor Vorguilla. Mi scusi per l'ora, signor Vorguilla. C'è nessuno in casa?    Qualcuno aprì una finestra nella casa dirimpetto. Ci abitava il signor Hovey, un vecchio scapolo che viveva con la sorella. 
- Ce li hai gli occhi? - mi strillò il signor Hovey. - Guarda nel viale. 
   La macchina del signor Vorguilla non c'era. 
   Il signor Hovey abbassò la finestra di scatto. 
   Quando aprii la porta di casa, trovai mio padre e Bet in cucina, seduti a tavola davanti a una tazza di tè. Per un attimo pensai che si fosse sistemato tutto. Magari era arrivata una telefonata, pensai, qualche notizia rassicurante. 
- Il signor Vorguilla non è in casa, - dissi. - Non c'è la sua macchina.    - Oh, lo sappiamo, - disse Bet. - Sappiamo già tutto.    Mio padre disse: - Guarda qua, - e mi passò un foglio di carta sul tavolo. 
   Voglio sposare il signor Vorguilla, diceva. Vostra, Queenie. 
- Era sotto la zuccheriera, - spiegò mio padre. 
   Bet lasciò cadere il cucchiaino. 
- Io lo denuncio, - strillò. - E lei finirà in riformatorio. Chiamo la polizia. 
   Mio padre disse: - Ha diciotto anni e si può sposare, se vuole. La polizia non organizzerà di certo un blocco stradale. 
- Chi ti dice che sono per strada? Si saranno sbattuti in qualche motel. Quella scema di una ragazzina e quel pezzo di merda in salamoia di Vorguilla. 
- Parlare così non la farà tornare a casa. 
- Io non ce la voglio, a casa. Nemmeno se dovesse venire strisciando. Si è fatta la cuccia e adesso può andare a starci con il suo testadicazzo. Se la può scopare quanto vuole, per quel che me ne importa. 
- Basta così. 
   Queenie mi portò un paio di aspirine da prendere con la Coca. 
- E’ incredibile come ti passano i crampi, una volta sposata. E così... tuo padre ha deciso di parlarti di noi? 
   Quando gli avevo comunicato che intendevo cercarmi un lavoro estivo, prima di entrare al college in autunno, mio padre aveva detto che forse dovevo andare a Toronto a cercare Queenie. Disse che gli aveva scritto presso la sua ditta di trasporti, chiedendogli se poteva farle avere un po' di soldi che li aiutassero a passare l'inverno. 
- Non avrei mai avuto bisogno di scrivergli, - disse Queenie, - se Stan non si fosse preso la polmonite l'anno scorso. 
   Dissi: - Ho saputo solo allora dove stavi -. Mi si riempirono gli occhi di lacrime, senza sapere perché. Perché ero stata tanto felice di scoprirlo, e tanto triste quando non lo sapevo, perché avrei voluto che lei dicesse subito: «Naturalmente è sempre stata mia intenzione mettermi in contatto con te», ma non lo disse.    - Bet non lo sa, - dissi. - Pensa che stia per conto mio. 
- Lo spero, - ribatté Queenie pacata. - Voglio dire, spero che non lo sappia. 
   Avevo un mucchio di cose da raccontarle, di casa. La informai che la ditta era passata da tre automezzi a una dozzina, che Bet si era comprata una pelliccia di topo muschiato e che si era messa in grande coi cosmetici, tanto che aveva allestito un salone di bellezza in casa. A questo scopo aveva sistemato la stanza al piano di sopra dove una volta dormiva mio padre, mentre lui si era portato branda e «National Geographic» in ufficio - un alloggio dell'Air Force sistemato nel cortile della ditta. Seduta al tavolo di cucina a studiare per gli esami di ammissione all'università, avevo ascoltato Bet dire: - Con una pelle delicata come la sua, lei non dovrebbe mai nemmeno avvicinarsi all'acqua, - prima di spalmare quintali di creme e lozioni sulla faccia rubizza di qualcuno. E altre volte, con non minor enfasi, ma maggiore accoramento: - Abitavo porta a porta con Satana in persona, mi creda, e neppure lo sospettavo. Chi l'avrebbe immaginato, dopo tutto? Io sono fatta così, penso sempre bene della gente. Fino a quando non mi prendo un gran calcio sui denti. 
- Ha ragione, - diceva la cliente. - Sono così anch'io. 
   Oppure: - Uno crede di sapere che cos'è il dolore, e invece non ne ha nemmeno idea. 
   Poi Bet rientrava dopo aver accompagnato la signora alla porta e diceva in un grugnito: - Se le tocchi la faccia al buio, la scambi per carta vetrata. 
   Queenie non sembrava incuriosita da questo genere di racconti. E poi non c'era molto tempo, comunque. Prima che finissimo di bere la nostra Coca, sentimmo dei passi pesanti sulla ghiaia, e il signor Vorguilla entrò in cucina. 
- Ehi, guarda un po' chi c'è, - esclamò Queenie. Fece l'atto di alzarsi, come se intendesse sfiorarlo, ma lui virò subito verso il lavandino. 
   La sua voce era carica di un tal senso di sorpresa che mi domandai se gli era stato detto niente della mia lettera e del fatto che stavo arrivando. 
- E’ Chrissy, - disse lei. 
- Lo vedo, - disse il signor Vorguilla. - A quanto pare ti piace il caldo, Chrissy, per venire a Toronto d'estate. 
- Si cercherà un lavoro, - intervenne Queenie. 
- Hai delle qualifiche? - chiese il signor Vorguilla. - Dico, per trovare lavoro a Toronto. 
   Queenie disse: - Ha superato gli esami d'ingresso all'università. 
- Be', speriamo che bastino, - disse il signor Vorguilla. Si riempì un bicchiere d'acqua al rubinetto e lo scolò d'un fiato, dandoci le spalle. Esattamente come faceva quando la signora Vorguilla, Queenie e io stavamo sedute al tavolo di cucina nell'altra casa, quella accanto alla nostra. Quando tornava dopo le prove, oppure si prendeva una pausa dopo aver dato una lezione di piano nell'altra stanza. Sentendo i suoi passi, la signora Vorguilla ci rivolgeva un sorriso di avvertimento. E abbassavamo tutte lo sguardo sulle nostre lettere dello Scarabeo, offrendogli la scelta se badare a noi oppure ignorarci. Qualche volta ci ignorava. L'apertura della credenza, lo scroscio del rubinetto, il gesto di poggiare il bicchiere sul ripiano di cucina erano come una serie di piccole esplosioni. Come se sfidasse chiunque a fiatare in sua presenza. 
   Quando ci insegnava musica a scuola faceva lo stesso. Entrava in classe con l'andatura di chi non ha un solo minuto da perdere, batteva una volta la bacchetta, ed era subito ora di incominciare. Andava avanti e indietro tra le file, con le orecchie tese, gli occhi azzurri e sporgenti carichi di un'attenzione vigile e severa. In qualunque momento poteva fermarsi accanto al tuo banco e mettersi in ascolto per controllare se cantavi, facevi finta, o stonavi. Poi abbassava lentamente la testa, ti puntava in faccia gli occhi e con le mani faceva cenno agli altri di tacere, per lasciarti solo con la tua vergogna. E correva voce che avesse lo stesso atteggiamento dittatoriale anche con le altre classi e con le varie corali. Eppure era molto amato dai cantanti, soprattutto dalle signore. Gli sferruzzavano dei regali per Natale. Calzettoni, paraorecchie e muffole per tenerlo caldo nei tragitti tra scuola e scuola, da un coro all'altro. 
   Quando la signora Vorguilla fu troppo malata per occuparsi della casa, e Queenie la sostituì, una volta estrasse da un cassetto un lavoro a maglia e me lo sventolò sotto il naso. Era arrivato senza il nome della donatrice. 
   Non riuscivo a capire cosa fosse. 
- E’ uno scalda-pisello, - disse Queenie. - La signora Vorguilla dice, Non farglielo vedere, se no si arrabbia. Lo sai che cos'è uno scalda-pisello? 
   Io dissi: - Che schifo. 
- E’ solo uno scherzo. 
   Sia Queenie che il signor Vorguilla dovevano andare a lavorare la sera. Lui suonava il pianoforte in un ristorante. E Queenie faceva la cassiera in un cinema. Dato che il cinema era a pochi isolati di distanza, la accompagnai a piedi. E quando la vidi seduta dietro la cassa, mi resi conto che il trucco pesante, i capelli tinti e gonfi e i cerchi alle orecchie non erano poi tanto strani. Queenie assomigliava a una delle tante ragazze che passavano per strada e che entravano al cinema con il loro fidanzato. E assomigliava anche moltissimo alle ragazze ritratte sulle locandine dei film che la circondavano. Dava l'impressione di essere in sintonia con il mondo dello spettacolo, fatto di storie d'amore passionali, di avventure, il mondo raccontato sullo schermo. 
   Dava l'impressione - per usare le parole di mio padre - di non dover essere seconda a nessuno. 
- Perché non te ne vai a fare un giro, - mi aveva detto. Ma io mi sentivo a disagio. Non riuscivo a pensare di sedermi a bere un caffè e far sapere a tutto il mondo che non avevo niente da fare e nessun posto dove rifugiarmi. O di entrare in un grande magazzino a provarmi vestiti che non avevo speranza di comprare. Mi incamminai di nuovo su per la salita. Salutai con la mano la donna greca che ci aveva parlato dalla finestra. 
Entrai in casa con la chiave di Queenie. 
   Sedetti sulla brandina in veranda. Non c'era un posto dove appendere i vestiti che mi ero portata, e comunque pensai che disfare i bagagli poteva non essere una buona idea. Al signor Vorguilla magari non sarebbe piaciuto trovare indizi della mia permanenza. 
   Pensai che anche il signor Vorguilla, come Queenie, era cambiato fisicamente. Lui però, a differenza di Queenie, non era andato assumendo quello che a me pareva una raffinatezza e un fulgore da forestiera. I capelli, che ricordavo rossi tendenti al grigio, erano ormai quasi grigi del tutto, e l'espressione della sua faccia - sempre pronta a imporporarsi di collera al minimo accenno di una presunta mancanza di rispetto o di un'esecuzione musicale inadeguata o anche solo del fatto che qualcosa in casa sua non si trovasse dove doveva essere - pareva ora rivelare un'amarezza più duratura, come se, sotto i suoi occhi, un comportamento offensivo o indisciplinato rimanesse costantemente impunito. 
   Mi alzai e feci un giro dell'appartamento. Non si può mai osservare bene una casa in presenza di chi vi abita. 
   La stanza migliore, anche se troppo buia, era la cucina. Queenie aveva fatto crescere dell'edera rampicante intorno alla finestra sopra il lavandino, e teneva i cucchiai di legno ritti in una bella brocca senza manico, proprio come la signora Vorguilla. In soggiorno c'era il pianoforte, lo stesso che era stato nel soggiorno dell'altra casa. Poi c'era una poltrona, e uno scaffale libreria fatto di assi e mattoni, e un giradischi con accanto una gran pila di dischi ammucchiati per terra. Niente televisore. Niente sedia a dondolo in noce, né tendine ricamate. E neppure la lampada a stelo con il paralume di pergamena a disegni giapponesi. Eppure tutti quei mobili erano partiti per Toronto, in un giorno di neve. Io ero tornata a casa per pranzo e avevo visto il camion dei traslochi. Bet non riusciva a staccarsi dalla finestra d'ingresso. Alla fine, dimenticando tutta la dignità che era solita mostrare di fronte agli sconosciuti, aveva aperto la porta e aveva urlato agli operai: - Quando arrivate a Toronto, ditegli pure che se mai dovesse farsi rivedere da queste parti, se ne pentirà.    I traslocatori l'avevano salutata senza scomporsi, come se fossero abituati ad assistere a scene come quella, e forse era così. Spostare mobili da una casa all'altra deve essere un mestiere che espone a una buona dose di rabbia e rancori. 
   Ma dov'era finita tutta quella roba? Venduta, pensai. Dovevano averla venduta. Secondo mio padre, il signor Vorguilla faceva fatica a rimettersi in carreggiata qui a Toronto, con il suo mestiere. E Queenie aveva in effetti accennato qualcosa rispetto a certi «debiti». Non avrebbe mai scritto a mio padre, in caso contrario. 
   Dovevano aver venduto i mobili prima che lei scrivesse. 
   Nella libreria vidi un’Enciclopedia della musica, il Compendio della lirica mondiale, le Vite dei grandi compositori. E poi il grande volume sottile dalla splendida copertina - il Rubaiyat di Omar Khayyam - che la signora Vorguilla teneva spesso accanto al divano. 
   C'era anche un altro libro decorato in modo analogo, ma di cui non ricordo il titolo esatto. Da una parola di quel titolo, tuttavia, pensai che mi sarebbe potuto piacere. Qualcosa tipo «fiorito», o forse «profumato». Lo aprii e ricordo abbastanza bene la prima frase che lessi. 
   «Alle giovani odalische dell'harim veniva anche insegnato lo squisito impiego delle unghie». 
   Non sapevo bene che cosa fosse un'odalisca, ma la parola «harim» (chissà perché non «harem»?) mi venne in aiuto. E dovetti proseguire nella lettura, per scoprire che cosa imparassero a fare con le unghie. Continuai a leggere, forse per un'ora, prima di lasciar cadere a terra il volume. Mi sentivo eccitata, incredula, disgustata. Era questo il genere di cose a cui si interessavano gli adulti veri? Perfino i disegni in copertina, quei bei rampicanti sinuosi e ritorti, avevano qualcosa di ostile e di corrotto ai miei occhi. Raccolsi il libro da terra e, mentre lo rimettevo a posto, si aprì e mi mostrò i nomi scritti sul risguardo. Stan e Marigold Vorguilla. La grafia era femminile. Stan e Marigold. 
   Pensai alla fronte bianca e spaziosa della signora Vorguilla incorniciata dai ricciolini brizzolati. Ai suoi orecchini di perle e alle camicette strette al collo con un fiocco. Era decisamente più alta del signor Vorguilla e secondo la gente era per questo che non uscivano mai insieme. Ma la verità era che a lei mancava il fiato. Ansimava quando faceva le scale, e quando stendeva il bucato. Ansimava perfino stando seduta a tavola a giocare a Scarabeo. 
   Da principio mio padre non voleva che accettassimo soldi per portarle a casa la spesa o per stenderle la biancheria - diceva che rientrava nei doveri di buon vicinato. 
   Bet disse che avrebbe provato anche lei a mettersi comoda e a vedere se arrivava qualcuno a servirla gratis.    Poi venne il signor Vorguilla a contrattare per l'assunzione di Queenie. Queenie voleva andare a lavorare perché era stata bocciata a scuola e non aveva voglia di ripetere l'anno. Alla fine Bet disse, D'accordo, ma le vietò di prestarsi come infermiera. 
- Se è troppo taccagno per assumerne una vera, tu non ci devi rimettere. 
   Queenie disse che ogni mattina il signor Vorguilla preparava le medicine e ogni sera lavava la signora Vorguilla con la spugna. Cercava perfino di lavare le sue lenzuola nella vasca da bagno, come se non ci fosse una lavatrice in casa. 
   Pensai a tutte le volte che avevamo giocato a Scarabeo in cucina e il signor Vorguilla, dopo aver bevuto il suo bicchiere d'acqua, appoggiava una mano sulla spalla della signora Vorguilla e sospirava, come se tornasse da un lungo viaggio faticoso. 
- Ciao, cucciola, - diceva. 
   La signora Vorguilla chinava la testa e gli stampava sulla mano un bacio con le labbra secche. 
- Ciao, cucciolo, - diceva. 
   Subito dopo lui guardava noi due, Queenie e me, come se la nostra presenza non lo turbasse minimamente. 
- Ciao, ragazze. 
   Più tardi io e Queenie sghignazzavamo a letto, a luci spente. 
- Buonanotte, cucciola. 
- Buonanotte, cucciolo. 
   Quanto avrei voluto tornare a quei tempi. 
   Se si esclude la visita in bagno al mattino, e la corsa fuori a buttare l'assorbente nella spazzatura, rimasi seduta sul letto rifatto finché il signor Vorguilla non uscì di casa. Temevo che non dovesse andare da nessuna parte, ma a quanto pare non era così. Appena se ne fu andato, Queenie venne da me. Mi aveva preparato una tazza di cornflakes, un'arancia e del caffè. 
- E qui c'è il giornale, - disse. - Ho guardato gli annunci di lavoro. Prima però, voglio aggiustarti i capelli. Voglio tagliarteli un po' dietro e metterti i bigodini. Ci stai? 
   Okay, dissi. Già mentre mangiavo, Queenie continuava a girarmi intorno squadrandomi, per farsi un'idea. 
Poi mi mise in piedi su uno sgabello - io stavo ancora bevendo il caffè - e prese a pettinare e tagliuzzare.    - Allora, che genere di lavoro vuoi che cerchiamo? - mi chiese. - Ho visto che cercano qualcuno in una tintoria. Al banco. Come ti sembra? 
   Dissi: - Per me va bene. 
- Pensi ancora di fare l'insegnante? 
   Risposi che non sapevo. Mi pareva che Queenie potesse considerarlo un mestiere squallido. 
- Secondo me dovresti. La testa ce l'hai. Gli insegnanti guadagnano di più. Più di gente come me, voglio dire. così uno è più indipendente. 
   Comunque non era male, disse, lavorare in un cinema. Aveva trovato l'impiego più o meno un mese prima di Natale, ed era stata contentissima, allora, perché finalmente aveva soldi suoi e poteva comprare gli ingredienti per il dolce della festa. Poi era diventata amica di un tale che vendeva alberi di Natale da un camion. Gliene aveva svenduto uno a cinquanta centesimi, e lei se l'era trascinato su per la salita da sola. Sui rami aveva appeso dei festoni di carta crespa rossa e verde, che costava poco. Altre decorazioni le aveva fatte con la stagnola incollata al cartone, e qualcuna l'aveva comprata alla vigilia, quando il negozio le liquidava. Poi aveva fatto i biscotti e aveva appeso anche quelli, come aveva visto fare su una rivista. Era una tradizione europea. 
   Voleva dare una festa, ma non sapeva chi invitare. C'erano i greci, e un paio di amici di Stan. Poi le venne l'idea di invitare i suoi studenti. 
   Ancora non mi ero abituata a sentirle dire «Stan». Non solo perché mi ricordava la sua intimità con il signor Vorguilla. Quello c'entrava, ovvio. Ma era anche che mi dava una strana sensazione, come se lei lo stesse inventando da zero. Una persona nuova. Stan. Come se non fosse mai esistito un signor Vorguilla che in passato avevamo conosciuto tutte e due - per non parlare della signora Vorguilla. 
   Gli studenti di Stan adesso erano tutti adulti - in effetti preferiva gli adulti agli scolari -, perciò non era il caso di organizzare giochi e intrattenimenti per bambini. Diedero la festa di domenica, perché tutte le altre sere Stan era impegnato al ristorante dove lavorava e Queenie al cinema. 
   I greci portarono vino fatto da loro e qualcuno tra gli studenti portò liquore all'uovo e rum e sherry. Altri invece portarono dei dischi ballabili. Avevano pensato che Stan non tenesse quel genere di musica, e non si sbagliavano. 
   Queenie preparò sfoglie alla salsiccia e pan di zenzero, e la signora greca portò i suoi biscotti. Era tutto buono. La festa fu un successo. Queenie ballò con un ragazzo cinese di nome Andrew che aveva portato un disco bellissimo. 
- Gira, gira, gira, - disse, e io girai la testa da tutte le parti. Lei rise e disse: - No, no. Non tu. Era il disco. La canzone. La cantavano i Byrds. 
- Gira, gira, gira, - cantò. - Ogni cosa ha la sua stagione... 
   Andrew era uno studente di odontoiatria. Ma voleva imparare a suonare la sonata Al chiaro di luna. Stan gli disse che ci sarebbe voluto molto tempo. Andrew non aveva fretta. Disse a Queenie che non poteva permettersi di tornare a casa dai suoi nell'Ontario settentrionale per Natale. 
- Credevo che fosse cinese, - dissi. 
- No, non cinese cinese. Un cinese di qui. 
   Un gioco da ragazzini lo fecero però. Giocarono al gioco della sedia. A quel punto erano tutti sbronzi. Perfino Stan. Ogni volta che lei gli passava accanto, se la tirava sulle ginocchia e non la lasciava più andar via. E quando erano rimasti soli, non aveva voluto che rigovernasse. Voleva che andasse subito a letto. 
- Sai come sono gli uomini, - disse Queenie. - Ce l'hai già un ragazzo, qualcuno? 
   Io dissi di no. L'ultimo dipendente che mio padre aveva assunto come autista non faceva altro che venire in casa per riferire messaggi senza importanza e mio padre diceva: «Cerca solo una scusa per parlare con Chrissy». Io però ero freddina con lui e fino a quel momento non aveva ancora trovato il coraggio di invitarmi fuori. 
- Allora non ne sai ancora niente di quella roba? - disse Queenie. 
   E io: - Come no? 
- Uh-uh, - fece lei. 
   Gli ospiti alla festa avevano mangiato quasi tutto tranne la torta. Quella, l'assaggiarono appena, ma Queenie non si offese. Era un dolce molto ricco, e quando venne il momento di mangiarlo si erano già riempiti di sfoglie alla salsiccia e tutto il resto. E poi, non aveva fatto in tempo a maturare come diceva il libro di ricette, quindi le andò benissimo che ne fosse avanzata. Prima che Stan la trascinasse via, stava pensando che avrebbe dovuto avvolgerla in un panno imbevuto di vino e poi metterla in un luogo fresco. O stava pensando di farlo, o lo stava già facendo; comunque il mattino dopo, quando vide che la torta non era sul tavolo, pensò di aver fatto quel gesto. Pensò, Meno male, la torta l'ho messa via. 
   Un paio di giorni dopo Stan disse: - Mangiamoci un pezzo di torta -. E lei, Ma no, lasciala maturare ancora un po', ma lui insistette. Lei guardò in dispensa, nel frigorifero, però non c'era. Guardò da tutte le parti, ma non riusciva a trovarla. Ripensò all'ultima volta che l'aveva vista sul tavolo. E si ricordò di aver preso un panno pulito, di averlo imbevuto nel vino e di averlo avvolto con cura intorno alla torta. Poi ricordò di aver foderato l'involto con carta oleata. Ma quando l'aveva fatto? L'aveva fatto, o l'aveva solo sognato? Dove aveva messo la torta dopo averla incartata? Cercò di vedere se stessa nell'atto di ritirare la torta, ma nella sua memoria si creò il vuoto. 
   Guardò dappertutto nella credenza, ma sapeva benissimo che la torta era troppo grossa per potersi nascondere là dentro. Poi guardò nel forno e perfino in posti assurdi, tipo i cassetti della sua stanza e sotto il letto e sullo scaffale del ripostiglio. Non c'era. 
- Se l'hai messa da qualche parte, da qualche parte deve essere, - disse Stan. 
- Infatti. L'ho messa da qualche parte, - disse Queenie. 
- Magari eri sbronza e l'hai buttata via, - disse lui. 
   E lei: - Io non ero sbronza. Non l'ho buttata via. 
   Comunque andò a controllare nella spazzatura. No. 
   Lui stava seduto a tavola e la guardava. Se l'hai messa da qualche parte, da qualche parte deve essere. 
Queenie incominciava a perdere la testa. 
- Ma sei sicura? - chiese Stan. - Sicura che non l'hai regalata? 
   Era sicura. Era certa di non averla data a nessuno. L'aveva incartata per conservarla. Era certa, era quasi certa di averla incartata per conservarla. Era certa di non averla data a nessuno. 
- Ma, non saprei, - disse Stan. - Secondo me potresti averla data a qualcuno. E credo anche di sapere a chi. 
   Queenie si immobilizzò. A chi? 
- Secondo me, l'hai data a Andrew. 
   A Andrew? 
   Oh, sì. Il povero Andrew che le diceva di non poter tornare a casa dai suoi per Natale. Le aveva fatto pena.    - E così gli hai dato la torta. 
   No, disse Queenie. Perché mai avrebbe dovuto? Non l'avrebbe mai fatto. Non aveva mai pensato di dare la torta a Andrew. 
   Stan disse: - Lena, non mentire. 
   Quello fu l'inizio della lunga disperata battaglia di Queenie. La sua sola risorsa era dire di no. No, no, non ho dato la torta a nessuno. Non ho dato la torta a Andrew. Non sto mentendo. No, no. 
- Probabilmente eri ubriaca, - disse Stan. - Eri ubriaca e adesso non ricordi bene. 
   Queenie disse che non era ubriaca. 
- Se c'era uno ubriaco, quello eri tu, - disse. 
   Lui andò verso di lei con la mano alzata, gridandole di non dirgli che era ubriaco, di non dirglielo mai.    Queenie urlò: - Va bene. Va bene. Scusami -. E lui non la picchiò. Ma lei si mise a piangere. E continuò a piangere mentre cercava di convincerlo. Perché avrebbe dovuto regalare quella torta che le era costata tanto lavoro? Perché lui non voleva crederle? Perché avrebbe dovuto mentirgli? 
- Tutti mentono, - disse Stan. E più lei piangeva e lo implorava di crederle, più lui diventava freddo e sarcastico. 
- Cerca di essere logica. Se è qui, allora alzati e trovala. Se non c'è, allora vuol dire che l'hai data a qualcuno. 
   Queenie disse che il ragionamento non era logico. Il fatto che non riuscisse a trovarla, non significava automaticamente che l'avesse regalata. A quel punto lui le si avvicinò di nuovo con un mezzo sorriso e con una tale calma, che per un istante Queenie pensò che stesse per darle un bacio. Invece, le strinse le mani intorno alla gola e per un attimo le tolse il fiato. Non le lasciò nemmeno i segni. 
- Allora, - disse lui. - Ora ti sei messa in testa di insegnarmi che cosa è la logica? 
   Poi andò a prepararsi per il lavoro al ristorante. 
   Smise di parlarle. Le scrisse un biglietto nel quale le faceva sapere che le avrebbe rivolto la parola solo quando lei gli avesse detto la verità. Per tutto il Natale, Queenie non riuscì a smettere di piangere. Lei e Stan erano stati invitati dai greci per la festa, ma non fu possibile andarci, perché lei aveva una faccia impresentabile. Stan dovette dire che non si sentiva bene. E probabile che i greci sapessero la verità, comunque. Dovevano aver sentito il putiferio attraverso la parete. 
   Queenie mise su un chilo di fondotinta e andò a lavorare, e il suo capo le disse: - Vuoi dare alla gente l'impressione che proiettiamo una storia strappalacrime? - Lei rispose che aveva la sinusite e ottenne il permesso di andare a casa. 
   Quella sera, quando Stan tornò a casa e fece finta che lei non esistesse, Queenie si voltò a guardarlo. 
Sapeva che si sarebbe coricato nel letto accanto a lei rigido come un palo e che se lei gli si fosse avvicinata, sarebbe rimasto comunque rigido come un palo fino a quando lei non si fosse spostata. Si rendeva conto che Stan avrebbe potuto andare avanti così, ma lei no. Pensò che se avesse dovuto vivere in quel modo, sarebbe morta. Proprio come se lui l'avesse strozzata sul serio, sarebbe morta. 
   E così gli disse, Perdonami. 
   Perdonami. Ho fatto come hai detto tu. Scusami. 
   Ti prego. Ti prego. Scusami. 
   Lui sedette sul letto. Senza dire nulla. 
   Lei disse che si era davvero dimenticata di aver regalato la torta, ma che adesso se lo ricordava e che le dispiaceva. 
- Non mentivo, - aggiunse. - Me n'ero scordata. 
- Ti eri scordata di aver dato la torta a Andrew? 
- Credo di sì. Me n'ero scordata. 
- A Andrew. Hai dato la torta a Andrew. 
   Sì, disse Queenie. Sì, sì, aveva fatto proprio così. E scoppiò a piangere forte aggrappandosi a lui e scongiurandolo di perdonarla. 
   D'accordo, piantala con questi isterismi, disse lui. Non le disse che la perdonava, ma prese un panno umido d'acqua tiepida e le lavò la faccia e si coricò accanto a lei e la coccolò e di lì a poco volle fare anche tutto il resto. 
- Niente più lezioni di musica per il signor Chiaro di luna. 
   Il tocco finale venne quando trovò la torta. 
   La trovò avvolta in un panno da cucina e poi nella carta oleata, esattamente come ricordava. Ritirata in un sacchetto della spesa, e appesa a un gancio nella veranda sul retro. Ma certo. La veranda era il posto ideale, perché d'inverno faceva troppo freddo per starci, ma la temperatura non scendeva mai sotto lo zero. Doveva aver pensato questo, quando aveva appeso lì la torta. Che quello fosse il posto ideale. Dopodiché se n'era dimenticata. Era in effetti un po' brilla, doveva esserlo stata. Se n'era scordata completamente. E adesso, eccola là. 
   La trovò e buttò via tutto. A Stan non lo disse mai. 
- L'ho assaggiata, - disse. - Era ancora buonissima, con quella frutta secca e tutto il resto, ma non avevo nessuna intenzione di tornare sull'argomento. Perciò l'ho buttata via. 
   La sua voce, tanto carica di pena nei passaggi più sgradevoli del racconto, si era fatta astuta e scanzonata, come se per tutto il tempo avesse voluto farmi ridere e come se il gesto di buttare via la torta rappresentasse la battuta finale della storiella. 
   Sentii il bisogno di sfilarle la mia testa dalle mani per voltarmi a guardarla. 
   Dissi: - Ma lui aveva torto. 
- Be', certo che aveva torto. Gli uomini non sono persone normali, Chrissy. Te ne dovrai accorgere anche tu, se un giorno ti sposerai. 
- Non lo farò mai, allora. Non mi sposerò mai. 
- Lui era semplicemente geloso, - disse. - Era gelosissimo. 
- Mai. 
- Sai, Chrissy, tu e io siamo così diverse. Tanto diverse -. Sospirò. Aggiunse: - Io sono fatta per amare.    Pensai che erano parole da locandina cinematografica. «Fatta per amare». Magari il poster di uno dei film proiettati nel cinema di Queenie. 
- Sarai bellissima quando ti levo i bigodini, - disse. - Non potrai continuare per molto a dire che non hai un ragazzo. Oggi però non fai più in tempo a trovartene uno. Puoi alzarti presto domattina. Se Stan ti chiede qualcosa, digli che sei stata in un paio di posti e che ti hanno chiesto il numero di telefono. Che so io, un negozio, un ristorante, basta solo che lui creda che ti stia dando da fare. 
   Fui assunta il giorno dopo nel primo posto, anche se non ce l'avevo fatta a essere poi tanto mattiniera. Queenie aveva deciso di farmi un'altra acconciatura e di truccarmi gli occhi, ma il risultato non era all'altezza delle sue aspettative. - In effetti, tu sei più il tipo acqua e sapone, - disse, e io lavai via tutto e mi passai un po' del mio rossetto che era rosso, normale, e non opalescente come il suo. 
   Si era fatto troppo tardi perché Queenie potesse uscire insieme a me e fare un salto all'Ufficio postale. Doveva prepararsi per andare al lavoro. Era sabato, perciò le toccavano sia il pomeriggio che la sera. Tirò fuori la chiave e mi chiese di passare a controllare la casella postale, per favore. Mi spiegò dove si trovava. 
- Ho dovuto prendermi una casella personale, quando ho scritto a tuo padre, - disse. 
   Trovai lavoro in un drugstore nel seminterrato di un condominio. Fui assunta per servire al banco della tavola calda. In principio, non credevo di avere speranze. L'acconciatura mi si era appiattita per il caldo e mi sentivo i baffi di sudore grondante sotto il naso. Se non altro i crampi erano migliorati. 
   Una donna in divisa bianca beveva caffè, dietro il banco.    - Sei qui per il lavoro? - mi chiese. 
   Dissi di sì. La donna aveva la faccia dura, squadrata, sopracciglia ripassate a matita e un alveare di capelli violacei. 
- Parli inglese, spero. 
- Sì. 
- Voglio dire, non l'hai solo studiato. Non sei straniera, insomma. 
   Dissi di no. 
- Nell'ultimo paio di giorni ho provato due ragazze e ho dovuto metterle fuori tutte e due. Una mi ha fatto credere che parlava inglese e non era vero, e l'altra si faceva ripetere le cose dieci volte. Lavati bene le mani al lavandino, io vado a prenderti un grembiule. Mio marito è il farmacista e io mi occupo della cassa -. (Solo allora notai, dietro un bancone alto, un uomo grigio di capelli che mi guardava facendo finta di nulla). - Ora c'è poca gente, ma tra un attimo si riempie. Qua intorno abitano tutti vecchi e, dopo il riposino, vengono a prendersi un caffè. 
   Mi allacciai un grembiule e presi posto dietro il banco. Avevo un impiego a Toronto. Cercai di scoprire dov'erano le cose senza chiedere; due domande però fui costretta a farle: come si usava la macchina per il caffè, e che ne dovevo fare dei soldi. 
- Tu prepari il conto e il cliente passa da me. Che ti credevi. 
   Andò tutto bene. La gente arrivava alla spicciolata e per lo più ordinava un caffè o una Coca. Tenevo le tazze lavate e asciutte, il banco lustro, e a quanto pare facevo i conti giusti, visto che non ci furono reclami. I clienti erano quasi tutti anziani, come aveva detto la donna. Alcuni mi parlavano con gentilezza, notando che ero nuova e a volte perfino chiedendomi da dove venissi. Altri parevano vivere in una specie di trance. Una donna mi chiese del pane tostato e glielo preparai. Poi feci un panino al prosciutto. Ci fu un attimo di trambusto quando arrivarono quattro persone insieme. Un tizio voleva la torta col gelato, e trovai il gelato da scucchiaiare duro come cemento. Ma me la cavai. Mi feci più sicura. Dicevo: - Ecco a lei, - quando consegnavo gli ordini. E: - Ora viene il peggio, - quando portavo il conto. 
   In un momento di calma, la donna lasciò la cassa e mi si avvicinò. 
- Ho visto che hai servito del pane tostato, - disse. - Sai leggere? 
   Mi indicò un cartello appeso allo specchio dietro il banco. 
   NON SERVIAMO COLAZIONE DOPO LE 11,00. 
   Dissi che pensavo si potesse tostare il pane, dal momento che servivamo panini riscaldati. 
- Pensavi sbagliato. Panini riscaldati, sì, a dieci centesimi in più. Pane tostato, no. Ti è chiaro, adesso?    Dissi di sì. Non mi avvilii quanto mi sarebbe successo in principio. Per tutte le ore che passai al lavoro, pensai solo a che sollievo sarebbe stato poter tornare a casa e dire al signor Vorguilla che, sì, mi ero trovata un impiego. così adesso potevo andare a cercarmi una stanza in affitto per conto mio. Magari l'indomani, domenica, se il drugstore era chiuso. Se avessi trovato anche solo una stanza, pensai, Queenie avrebbe avuto un posto dove rifugiarsi in caso il signor Vorguilla si fosse arrabbiato di nuovo con lei. E se Queenie avesse mai deciso di lasciarlo (continuavo a credere che fosse un'eventualità possibile, nonostante il modo in cui aveva concluso il suo racconto), allora con gli stipendi di tutti e due gli impieghi forse potevamo prenderci un piccolo appartamento. O almeno una stanza con angolo cottura e gabinetto e doccia privati. Sarebbe stato come quando eravamo a casa dai nostri genitori, solo senza di loro. 
   Guarnivo tutti i panini con una foglia di insalata e un sottaceto. Era quanto prometteva un altro cartello appeso allo specchio. Ma estraendo i cetrioli dal vaso mi erano sembrati troppo grandi, perciò presi l'abitudine di dimezzarli. Avevo appena servito un cliente in questo modo quando la cassiera mi si avvicinò di nuovo per versarsi una tazza di caffè. Si portò la tazza alla cassa e bevve il caffè senza sedersi. Quando l'uomo ebbe finito di mangiare il panino e, dopo aver pagato, uscì dal locale, lei tornò ad avvicinarsi.    - Hai servito a quel tizio mezzo cetriolo. Fai così con ogni panino? 
   Dissi di sì. 
- Non sai neanche affettare un sottaceto? Un cetriolo deve bastare per dieci panini. 
   Mi voltai verso il cartello. - Non c'è scritto una fetta. C'è scritto un sottaceto. 
- Basta così, - disse la donna. - Togliti il grembiule. Non sono abituata a farmi rispondere male da una dipendente. Questo proprio no. Puoi prendere la tua borsetta e filare. E scordati di essere pagata, visto che non mi sei stata di nessun aiuto ed eri comunque solo in prova. 
   L'uomo dai capelli grigi sbirciava da lontano, con un sorriso nervoso. 
   E così mi ritrovai un'altra volta per la strada, diretta alla fermata del tram. Ma ormai sapevo dove andavano certe vie e sapevo usare un biglietto a corsa multipla. Avevo perfino fatto l'esperienza di un impiego. Potevo dire di aver servito in una tavola calda. Se mi avessero chiesto referenze, sarebbe stato un guaio, ma potevo sempre dire che il locale era nella mia città. Mentre aspettavo il tram, tirai fuori l'elenco degli altri posti, e la cartina che mi aveva dato Queenie. Si era fatto più tardi di quanto credessi, però, e la maggior parte degli indirizzi parevano troppo lontani. Ero terrorizzata al pensiero di doverlo dire al signor Vorguilla. Decisi di tornare a piedi, nella speranza che al mio arrivo lui fosse già uscito. 
   Avevo appena imboccato la salita, quando mi ricordai dell'Ufficio postale. Tornai sui miei passi e ritirai una lettera dalla cassetta, per poi avviarmi verso casa. A quel punto, lui doveva essere uscito di sicuro. 
   E invece no. Quando passai accanto alla finestra del soggiorno che si affacciava sul viottolo di casa, sentii della musica. Non era del tipo che avrebbe ascoltato Queenie. Ma quel genere di musica complicata che ci capitava di sentire dalle finestre aperte di casa Vorguilla - musica che esigeva un ascolto attento e poi non arrivava da nessuna parte, o per lo meno non abbastanza in fretta. Classica, insomma. 
   Queenie era in cucina, truccatissima e con addosso un altro di quei vestitini attillati. Aveva dei cerchi alle braccia. Stava sistemando tazze da tè su un vassoio. Mi sentii girare la testa per un attimo, uscendo dal sole, e ogni centimetro di pelle mi si imperlò di sudore. 
- Shh, - disse Queenie, perché entrando avevo lasciato sbattere la porta. - Sono di là che ascoltano dischi. Lui e il suo amico Leslie. 
   Avevi appena finito di dirlo quando la musica si interruppe di colpo per lasciar posto a un concitato scambio di battute. 
- Uno dei due mette un disco e l'altro deve indovinare che cos'è dalle prime note, - disse Queenie. - Rimettono l'inizio cento volte. Roba da impazzire. 
   Si mise a tagliare un pollo di rosticceria a striscioline che poi adagiava su fette di pane imburrato. - Hai trovato lavoro? - disse. 
- Sì, ma niente di fisso. 
- Be', pazienza -. Non sembrava molto interessata. Quando però la musica riattaccò alzò lo sguardo e disse: - Sei passata al... - E vide la lettera che tenevo in mano. 
   Posò il coltello e mi si avvicinò, dicendo sottovoce: - Sei entrata in casa tenendola in mano. Avrei dovuto dirtelo. Mettitela in borsa. E’ la mia posta personale -. Me la sfilò e in quel preciso istante il bollitore sul gas incominciò a fischiare. 
- Oh, prendilo, Chrissy, svelta, svelta! Spegni subito o sarà qui tra un attimo, non sopporta quel fischio. 
   Si era voltata di spalle e stava aprendo la busta. 
   Tolsi il bollitore dal fuoco, e lei disse: - Puoi fare tu il tè, per piacere? - con la voce bassa e assorta di chi stia leggendo un messaggio urgente. - Basta che versi l'acqua, il tè l'ho già messo. 
   Rise come se stesse leggendo una confidenza divertente. Io versai l'acqua sul tè e lei disse: - Grazie. Oh, grazie, Chrissy; grazie -. Si voltò a guardarmi. Era rossa in faccia e i bracciali tintinnarono delicatamente. 
Ripiegò la lettera e, tirandosi su la gonna, si infilò il foglio sotto l'elastico delle mutande.    Disse: - Certe volte mi controlla la borsa. 
   E io: - Il tè è per loro? 
- Sì. Ma io devo tornare a lavorare. Oh, ma che sto facendo? Devo tagliare i tramezzini. Dove ho messo il coltello? 
   Presi il coltello, tagliai i sandwich e li disposi su un piatto. 
- Non vuoi sapere di chi è la lettera, - mi chiese. 
   Non avevo idea. 
   Dissi: - Bet? 
   Perché speravo che il perdono personale da parte di Bet potesse essere la causa del rossore di Queenie. 
   Non avevo neppure fatto caso alla grafia sulla busta. 
   Queenie cambiò espressione - per un attimo sembrò addirittura che non sapesse di chi stavo parlando. Poi recuperò il buonumore. Mi venne vicino, mi abbracciò e, con un tono di voce timido, emozionato e trionfante, mi disse all'orecchio: 
- E’ di Andrew. Puoi portarlo tu il vassoio di là? Io non posso. Adesso non posso. Oh, grazie.    Prima di uscire per andare a lavorare Queenie passò in soggiorno e baciò sia il signor Vorguilla sia il suo amico. Li baciò entrambi sulla fronte. A me rivolse uno sfarfallio della mano. - Ciao, ciao. 
   Quando ero entrata con il vassoio avevo notato l'irritazione sul viso del signor Vorguilla, perché non ero Queenie. Mi parlò tuttavia con voce stranamente tollerante e mi presentò a Leslie. Leslie era un uomo calvo e tarchiato che a prima vista dimostrava quasi la stessa età del signor Vorguilla. Ma a guardare meglio e senza considerare la calvizie, si intuiva che era molto più giovane. Non era il genere di amico che mi sarei aspettata per uno come il signor Vorguilla. Non era un tipo brusco e presuntuoso, ma placido e molto incoraggiante. Quando ad esempio raccontai del mio impiego alla tavola calda, lui disse: - Be', è davvero notevole. Essere assunta al primo colpo. Questo vuol dire che sai come comportarti per fare buona impressione. 
   Non avevo trovato imbarazzante parlare di quella esperienza. La presenza di Leslie aveva reso tutto più facile e pareva anche addolcire i modi del signor Vorguilla. Come se, di fronte al suo amico, si sentisse in dovere di mostrarsi abbastanza gentile con me. Ma poteva anche darsi che avesse percepito un cambiamento da parte mia. La gente si accorge che sei cambiato quando smetti di averne paura. Non poteva essere certo della differenza né avere idea di come fosse avvenuta, ma la cosa lo avrebbe reso perplesso, oltre che più cauto. Si dichiarò d'accordo con Leslie quando disse che un lavoro del genere era meglio perderlo che trovarlo, e aggiunse perfino che, da come ne parlavo, la donna del drugstore pareva una di quelle imbroglione incallite che capita di trovare in buchi del genere a Toronto. 
- E comunque avrebbe dovuto pagarti, - disse. 
- C'è da dire che il marito avrebbe dovuto farsi avanti, - commentò Leslie. - Se era il farmacista, doveva essere il titolare -. E il signor Vorguilla: - Chi lo sa, un giorno o l'altro potrebbe preparare una cosetta speciale. Per sua moglie. 
   Non è complicato versare il tè, offrire latte e zucchero, passare i sandwich e addirittura chiacchierare, quando si è al corrente di qualcosa che l'altro non sa e che riguarda una sua condizione di pericolo. E proprio a causa del suo non sapere, riuscivo ora a provare per il signor Vorguilla un sentimento diverso dall'odio. Di per sé lui non era cambiato - o, se lo era, il fenomeno dipendeva con ogni probabilità dal mio cambiamento.    Poco dopo disse che doveva prepararsi per andare al lavoro. Si andò a cambiare. E Leslie mi chiese se avevo voglia di cenare con lui. 
- Appena qui dietro c'è un posto dove vado sempre, - disse. - Niente di speciale. Niente a che fare con il locale di Stan. 
   Fui ben contenta di sentire che non era niente di speciale. Dissi: - Certo -. E, dopo aver scaricato il signor Vorguilla al ristorante, proseguimmo in macchina fino a un Fish & Chips. Leslie ordinò il Menu Super - benché avesse appena mangiato svariati sandwich - e io presi il Menu Completo. Lui bevve birra, io CocaCola. 
   Ero troppo assorta nei miei pensieri per domandargli anche solo che tipo di musica suonasse. Mio padre mi aveva preso un biglietto di andata e ritorno dicendo: - Non si sa mai come possono mettersi le cose con quei due -. E, vedendo Queenie infilarsi la lettera di Andrew sotto l'elastico delle mutande, avevo ripensato a quel biglietto. Pur non sapendo ancora che la lettera fosse di Andrew. 
   Non ero solo in viaggio qui a Toronto, e nemmeno in cerca di un lavoro estivo. Ero venuta per entrare a far parte della vita di Queenie. Oppure, se non se ne poteva fare a meno, della vita di Queenie e del signor Vorguilla. Anche quando avevo fantasticato sulla possibilità che Queenie venisse a stare con me, l'ipotesi aveva a che fare con il signor Vorguilla e con l'idea di fargliela pagare. 
   Ma, pensando al mio biglietto di andata e ritorno, davo per scontato anche qualcos'altro. La possibilità di tornare a stare con Bet e mio padre, di far parte ancora della loro vita. 
   Mio padre e Bet. Il signor e la signora Vorguilla. Queenie e il signor Vorguilla. Queenie e Andrew, perfino. Erano tutte coppie e ciascuna di esse, per quanto sconclusionata, disponeva, adesso o nel passato, di una tana privata fatta di calore e scompiglio, dalla quale io ero esclusa. così doveva essere, così speravo che fosse del resto, giacché in quelle vite non vedevo niente di educativo né di invitante. 
   Anche Leslie era un escluso. Eppure mi raccontò di varie persone alle quali era legato da vincoli di sangue o d'amicizia. Sua sorella e il marito. I nipoti, le coppie di amici che andava a trovare o con cui trascorreva le vacanze. Tutta gente che aveva dei problemi, ma anche un suo valore. Mi parlò dei loro mestieri, o del loro essere disoccupati, di talenti, colpi di fortuna, errori di valutazione; lo fece con grande interesse, ma senza trasporto. Sembrava immune all'affetto come al rancore. 
   Più in là nella vita, la cosa non mi sarebbe piaciuta del tutto. Avrei provato quell'insofferenza, per non dire quel sospetto, che prova una donna nei riguardi di un uomo demotivato. Di uno che abbia da offrire soltanto amicizia e che la dispensi con tale disinvoltura da lasciar credere che un eventuale rifiuto non lo turberebbe affatto. Quello non era un uomo solo, desideroso di agganciare una ragazza. Ci arrivavo perfino io. Era soltanto una persona che trovava conforto nel presente e in una specie di tranquilla facciata esistenziale.    La sua compagnia era esattamente ciò di cui avevo bisogno, anche se non me ne rendevo conto. E’ probabile che la sua cortesia nei miei riguardi fosse deliberata. Come poco prima io avevo creduto sorprendentemente di voler essere gentile con il signor Vorguilla, se non altro per proteggerlo. 
   Ero alla scuola per insegnanti quando Queenie scappò di nuovo. Ebbi la notizia per lettera, da mio padre. Diceva di non sapere né come né quando fosse successo. Per un po' il signor Vorguilla non glielo aveva fatto sapere, poi aveva cambiato idea, in caso Queenie fosse tornata a casa. Mio padre gli aveva detto che lo riteneva molto improbabile. Nella lettera a me, scrisse che almeno al momento non era quello il genere di decisione che Queenie pareva intenzionata a prendere. 
   Per anni, anche dopo il mio matrimonio, a Natale continuai a ricevere gli auguri dal signor Vorguilla. Slitte cariche di pacchi colorati, una famigliola felice che accoglie gli amici sulla porta di una casa decorata. Forse pensava che fosse il genere di immagine che mi andava a genio nella mia attuale condizione di vita. O forse li prendeva alla cieca da un espositore. Non si scordava mai di precisare il mittente - per ricordarmi della sua esistenza e farmi sapere dove si trovava, in caso ci fossero state novità. 
   Quanto a me, avevo rinunciato a sperare. Non avevo mai neppure saputo se fosse con Andrew che Queenie era scappata, o con qualcun altro. Né se stesse con Andrew, qualora fosse scappata con lui. Alla morte di mio padre, avanzò un po' di denaro e cercammo seriamente di rintracciarla, senza riuscirci. 
   Ora però qualcosa è successo. Ora che i miei figli sono grandi e mio marito è in pensione e noi due viaggiamo parecchio, ogni tanto ho la sensazione di vedere Queenie. Non capita in virtù di un desiderio né di uno sforzo particolari; e non sono neppure sicura di vedere proprio lei. 
   Una volta è stato nella folla di un aeroporto: indossava un sari e un cappello di paglia decorato di fiori. Abbronzata e frizzante, ricca e circondata di amici. Un'altra volta, in mezzo a un gruppo di donne che, fuori da una chiesa, aspettavano di vedere uscire gli sposi. Era in giacca di camoscio macchiata e non aveva un'aria particolarmente florida, né sana. Un'altra ancora, era ferma a un incrocio alla testa di una classe di bambini dell'asilo diretti in piscina o al parco. Faceva molto caldo e la sua figura di pingue donna di mezza età si esponeva agli sguardi con franca disinvoltura, in calzoncini a fiori e T-shirt coperta di scritte. 
   L'ultima volta poi, e anche la più strana, è stato in un supermercato di Twin Falls, nell'Idaho. Svoltavo l'angolo di una corsia reggendo il necessario per un pranzo al sacco, e vidi una vecchia china sul carrello, come se mi aspettasse. Una donnina vizza, dalla bocca storta, con la pelle scura e malaticcia. Capelli ispidi e striati, tra il castano e il giallo, pantaloni viola tesi sul modesto gonfiore della pancia: una di quelle magre che tuttavia, con gli anni, hanno perso il privilegio di una vita snella. I calzoni potevano arrivare da un magazzino dell'usato, come pure la maglia a colori vivaci, ma ristretta e infeltrita, abbottonata su un petto non più formoso di quello di una dodicenne. 
   Il carrello era vuoto. La donna non aveva neppure la borsetta. 
   E, a differenza delle altre, questa dava l'impressione di sapere di essere Queenie. Mi sorrise con tanta gioia nel riconoscermi e con un tale desiderio di essere a sua volta riconosciuta, da lasciar credere che si trattasse per lei di un grande evento: un attimo felice concessole un giorno su un migliaio, quando le si permetteva di uscire dal regno delle ombre. 
   Per tutta risposta, mi limitai a tendere le labbra in un sorriso impersonale, come si fa con un'estranea demente, per poi proseguire in direzione della cassa. 
   Arrivata al parcheggio però, inventai una scusa con mio marito, dissi che avevo scordato qualcosa e mi precipitai di nuovo nel negozio. Ne percorsi avanti e indietro le corsie, cercando con lo sguardo la donna. Ma in quel breve intervallo doveva essersene andata. Magari era uscita poco dopo di me; forse si era incamminata per le strade di Twin Falls. A piedi, o su una macchina guidata da un parente premuroso, un vicino di casa. Magari da lei stessa. Restava però anche la tenue speranza che fosse ancora nel supermercato e che continuassimo ad andare su e giù per le corsie senza incontrarci. Mi ritrovai a cambiare più volte direzione, rabbrividendo nel gelo dei reparti climatizzati, fissando le persone in faccia e probabilmente spaventandole con la richiesta muta di dirmi dove fosse Queenie. 
   Fino a quando non tornai in me e mi convinsi che era assurdo e che, chiunque fosse o non fosse quella donna, Queenie mi aveva abbandonata. 
*** 

The Bear Came Over the Mountain.1 

(1: verso iniziale di una famosa filastrocca infantile.) 

   Fiona abitava in casa dei suoi, nella città dove lei e Grant frequentavano l'università. Era una grande villa con finestre a bovindo che a Grant pareva al tempo stesso lussuosa e trasandata, con i tappeti storti sul pavimento e la vernice del tavolo mangiata dagli aloni delle tazze. La madre di Fiona era islandese: una donna possente con una spuma di capelli bianchi e indignate idee di estrema sinistra. Il padre era un insigne cardiologo, riverito nell'ambiente ospedaliero, ma lieto di mostrarsi sottomesso tra le pareti domestiche dove spesso gli capitava di ascoltare con un sorriso distratto lunghe invettive bizzarre. A esporle erano persone di ogni genere, più o meno raffinate, che andavano e venivano tra dibattiti e colloqui, talvolta con accento straniero. Fiona aveva la sua utilitaria personale e una pila di maglie di cachemire, ma non faceva parte di nessuna associazione universitaria femminile, forse proprio a causa di tutta l'attività che si svolgeva in casa sua. 
   Non che le importasse. Le associazioni universitarie le sembravano ridicole, come la politica del resto, anche se le piaceva ascoltare The Tour Insurgent Generali al giradischi, e qualche volta metteva su l'Internazionale a tutto volume, se c'era un ospite che pensava di poter innervosire. Un forestiero riccio di capelli e malinconico la stava corteggiando - lei lo chiamava il Visigoto -, insieme a due o tre goffi e rispettabili giovani interni. Lei li canzonava tutti, anche Grant. Lo prendeva in giro ripetendo certe sue espressioni da provinciale. Grant pensò che stesse scherzando quando gli chiese di sposarlo, in una fredda giornata di sole sulla spiaggia di Port Stanley. La sabbia li pungeva in faccia e le onde scaricavano fragorosi mucchi di pietrisco ai loro piedi. 
- Secondo te ci divertiremmo? - urlò Fiona. - Credi che ci divertiremmo se ci sposassimo? 
   Lui la prese in parola; urlò di sì. Non voleva stare lontano da lei neanche un minuto. Fiona aveva dentro il fuoco della vita. 
   Poco prima di uscire di casa Fiona notò una riga sul pavimento di cucina. A farla erano state le pantofole nere a poco prezzo che indossava poc'anzi. 
- Credevo che prima o poi smettessero di macchiare, - disse con un tono di ordinaria e perplessa irritazione, sfregando la striscia grigia che pareva tirata con un pastello a cera. 
   Commentò che non avrebbe mai più dovuto fare lo stesso gesto, dal momento che non si sarebbe portata dietro quelle pantofole. 
- Immagino che sarò sempre ben vestita, - disse. - O quasi. Sarà un po' come stare in albergo. 
   Sciacquò lo straccio che aveva utilizzato e lo appese allo stenditoio nell'armadietto sotto il lavandino. Poi si infilò la giacca a vento color champagne con il collo di pelliccia su un paio di calzoni miele fatti su misura e un dolcevita bianco. Era una donna alta, stretta di spalle, sulla settantina ma ancora snella e dritta; gambe e piedi lunghi, polsi e caviglie delicati, e orecchie piccolissime, quasi buffe. I capelli, vaporosi come bambagia, erano passati dal biondo chiaro al bianco senza che Grant sapesse dire esattamente quando, e Fiona li portava ancora sciolti sulle spalle, come aveva sempre fatto sua madre. (Era quello il dettaglio che più d'ogni altro aveva allarmato la madre di Grant, una vedova di provincia che lavorava come impiegata presso uno studio medico. I lunghi capelli bianchi della madre di Fiona, più ancora delle condizioni in cui versava la casa, non lasciavano dubbi riguardo all'indole e alle idee politiche di quella donna). 
   Per tutto il resto Fiona, con la sua ossatura minuta e gli occhi azzurro zaffiro, non assomigliava affatto alla madre. Aveva la bocca leggermente storta che si apprestò adesso a sottolineare con un rossetto vivace - di solito l'ultimo gesto che faceva prima di uscire di casa. Quel giorno era se stessa al cento per cento: franca e indecisa come sempre, ironica e gentile. 
   Più di un anno prima, Grant aveva incominciato a notare una serie di foglietti gialli appiccicati un po' dovunque in giro per la casa. Il fenomeno non era del tutto nuovo. Da sempre Fiona si appuntava le cose: titoli di romanzi che aveva sentito nominare alla radio, o le varie commissioni che intendeva sbrigare in giornata. Perfino la sua routine mattutina seguiva un orario scritto: lui trovava la cosa misteriosa e commovente, nella sua precisione. 
   Ore 7 yoga. 7,30-7,45 denti faccia capelli. 7,45-8,15 passeggiata. 8,15 Grant e colazione. 
   I biglietti nuovi però erano diversi. Incollati ai cassetti di cucina - Posate, Strofinacci, Coltelli. Perché non si limitava ad aprire il cassetto e a guardare cosa c'era dentro? Gli venne in mente una storia su certi soldati tedeschi che pattugliavano il confine con la Cecoslovacchia durante la guerra. I cechi gli avevano raccontato che al collo di ogni cane da guardia era appeso un cartello che diceva Hund. Perché? avevano chiesto i cechi, e i tedeschi avevano risposto, Perché quello è un hund. 
   Stava per raccontarla a Fiona, ma poi cambiò idea. Ridevano sempre delle stesse cose, ma se questa volta lei non avesse riso? 
   Il peggio doveva ancora venire. A volte andava in centro e gli telefonava da una cabina per chiedergli come tornare a casa. O si incamminava per una passeggiata attraverso i campi fino al bosco e ritornava seguendo la staccionata, un giro lunghissimo. Diceva di aver pensato che le staccionate portavano sempre da qualche parte. 
   Difficile raccapezzarsi. La frase sulla staccionata l'aveva detta come una battuta, e il numero di telefono se l'era ricordato senza problemi. 
- Non credo che ci si debba preoccupare, - disse. - Probabilmente mi sta andando via la testa. 
   Le chiese se avesse preso dei sonniferi di recente. 
- E chi lo sa? Non me lo ricorderei comunque, - rispose. Poi aggiunse che le spiaceva di sembrare così superficiale. 
- Sono sicura di non aver preso niente. Ma forse dovrei. Delle vitamine, magari. 
   Le vitamine non furono d'aiuto. Le capitava di fermarsi sulla porta di una stanza cercando di ricordare dove fosse diretta. Dimenticava di accendere il fuoco sotto le verdure o di mettere l'acqua nella caffettiera. Chiese a Grant a quando risalisse il loro trasferimento in quella casa. 
- E’ stato l'anno scorso o due anni fa? 
   Lui disse che stavano lì da dodici anni. 
   E lei: - Incredibile. 
- E’ sempre stata un po' così, - disse Grant al dottore. - Una volta consegnò la pelliccia in deposito e se ne scordò completamente. Al tempo viaggiavamo sempre in posti caldi d'inverno. In seguito disse che l'aveva fatto inavvertitamente apposta, disse che era un peccato da lasciarsi alle spalle. Per come certe persone l'avevano fatta sentire in colpa rispetto alle pellicce. 
   Grant cercò invano di spiegare anche qualcos'altro: e cioè come lo stupore e le giustificazioni di Fiona riguardo a tutto questo sembrassero più che altro frutto della sua buona educazione, ma non nascondessero fino in fondo una sorta di intimo divertimento. Come se le capitassero piccole avventure che non aveva previsto. O come se fosse alle prese con un gioco nel quale sperava prima o poi di coinvolgere anche lui. Da sempre si divertivano a inventarne: idioletti insensati, personaggi immaginari. Alcune delle voci che Fiona imitava, cinguettanti e lusinghiere (questo al dottore non lo potè dire), assomigliavano misteriosamente a quelle di certe sue donne passate che lei non aveva conosciuto e della cui esistenza era all'oscuro. 
- Sì, certo, - disse il dottore. - In principio il fenomeno potrebbe essere selettivo. Non possiamo ancora dirlo, giusto? Non prima almeno di riuscire a individuare il percorso del deterioramento. 
   Nel giro di poco la definizione appropriata del caso non ebbe più alcuna importanza. Fiona, che non andava più a fare la spesa da sola, sparì dal supermercato non appena Grant la perse d'occhio per un attimo. Un poliziotto la fermò mentre procedeva in mezzo alla strada, a parecchi isolati di distanza. Le chiese come si chiamava e lei non ebbe difficoltà a rispondere. Poi le domandò il nome del primo ministro in carica. 
- Be', giovanotto, se non lo sa non dovrebbe svolgere un lavoro come il suo. 
   Lui rise. Poi però Fiona commise l'errore di chiedergli se aveva visto Boris e Natasha. 
   Erano i due levrieri russi che aveva adottato qualche anno prima per fare un piacere a un amico e ai quali aveva poi dedicato ogni cura fino alla loro morte. Forse la decisione di accoglierli aveva coinciso con la scoperta che probabilmente non avrebbe avuto figli. C'era di mezzo un problema alle tube - un'occlusione, una malformazione - ora Grant non ricordava con esattezza. Aveva sempre evitato di soffermare il pensiero sull'apparato riproduttivo femminile. O magari c'entrava la morte della madre. Le lunghe zampe e il pelo serico dei cani, i loro musi stretti, mansueti e intransigenti si intonavano bene alla sua persona, quando li portava fuori a passeggiare. Del resto lo stesso Grant, in quei giorni, quando si aggiudicò il primo incarico universitario (il denaro del suocero era giunto gradito nonostante la provenienza politica sospetta), poteva apparire a qualcuno come l'ennesimo capriccio di Fiona, azzimato e riverito com'era. Anche se non se ne rese mai conto, per fortuna, fino a molto tempo dopo. 
   La sera della sua scomparsa al supermercato, gli disse: - Tu lo sai vero che cosa ti toccherà fare con me? Dovrai mettermi laggiù, al... com'è che si chiama? Lagochiaro. 
   Grant disse: - Lagoverde. Non siamo ancora a quello stadio. 
   - Lagochiaro. Lagoscuro, - ribatté Fiona, come se stessero facendo un gioco di parole. - Lagoscemo. 
Ecco, sì, Lago- scemo. 
   Lui si teneva la testa tra le mani, i gomiti poggiati sulla tavola. Disse che forse potevano prendere in considerazione l'ipotesi, ma solo in termini provvisori. Una specie di terapia sperimentale. Una cura a base di riposo. 
   Il regolamento prevedeva che non ci fossero ricoveri nel mese di dicembre. Le vacanze invernali pullulavano di trappole emotive. Perciò affrontarono i venti minuti di tragitto in macchina solo in gennaio. Prima di imboccare l'autostrada, la provinciale attraversava un bassopiano acquitrinoso al momento completamente gelato. Aceri e querce di palude proiettavano sbarre d'ombra sul bianco accecante della neve. Fiona disse: - Oh, ti ricordi? 
   E Grant: - Ci stavo pensando anch'io. 
   - Solo che allora era piena notte, - disse lei. 
   Si riferiva a quella volta in cui erano andati a sciare in una notte di luna piena sulla neve striata di nero, proprio in questo punto raggiungibile solo nel cuore dell'inverno. Avevano sentito i rami crepitare nel gelo.    Ma se ricordava quell'episodio tanto bene, possibile che le sue condizioni fossero così gravi? 
   A stento si trattenne dal fare inversione e tornare a casa. 
   C'era un'altra regola che la direttrice volle chiarire. I nuovi residenti non dovevano ricevere visite per i primi trenta giorni. Per la maggior parte di loro, si trattava del minimo necessario per ambientarsi. Prima che la norma entrasse in vigore, si erano verificate scene di suppliche, pianti e capricci perfino da parte degli ospiti volontari. Intorno al terzo o quarto giorno incominciavano a lamentarsi e a chiedere di essere riportati a casa. Alcuni parenti si lasciavano persuadere e così venivano dimesse persone che poi non se la cavavano certo meglio di prima. E in capo a sei mesi, o perfino a poche settimane, si rendeva necessario ripercorrere da capo l'intero penoso iter. 
- Mentre abbiamo constatato - aggiunse la direttrice - che, lasciati a loro stessi, di solito finiscono tranquilli come papi. Anzi, bisogna addirittura pregarli, per convincerli a montare su un autobus e andare in città. E lo stesso vale per le visite ai parenti. A quel punto non c'è più nessun problema a farli tornare a casa per un paio d'ore: saranno loro i primi a preoccuparsi di rientrare in tempo per la cena. Perché ormai è Lagoverde, la loro casa. Naturalmente questo non vale per i ricoverati del secondo piano; quelli non possiamo farli uscire. E’ troppo complicato, e comunque non saprebbero dove sono. 
- Mia moglie non starà al secondo piano, - disse Grant. 
- No, - rispose pensosa la direttrice. - Volevo solo chiarire ogni cosa fin dal principio.    Erano stati a Lagoverde qualche volta alcuni anni prima, per far visita al signor Farquar, l'anziano contadino scapolo, loro vicino di casa. Era vissuto da solo in una cascina piena di spifferi, dove l'unico cambiamento dai primi anni del secolo era stata l'introduzione di un frigorifero e di un televisore. Si presentava da Grant e Fiona di tanto in tanto, senza preavviso e, oltre che parlare di questioni locali, gli piaceva discutere dei libri che leggeva - manuali sulla Guerra di Crimea, o saggi sulle spedizioni al Polo, o sulla storia delle armi da fuoco. Ma in seguito al ricovero a Lagoverde, la sua conversazione finì con il vertere solo sulla routine quotidiana, e a loro parve di capire che quelle visite, benché gradite, costituissero per lui una fatica. E specialmente Fiona detestava il tanfo di urina e disinfettante che aleggiava nei locali, nonché i penosi bouquet di fiori finti sistemati nelle nicchie di corridoi male illuminati e dal soffitto basso.    Ora quell'edificio non c'era più, sebbene risalisse solo agli anni Cinquanta. Come del resto era scomparsa la cascina del signor Farquar, sostituita da una specie di maniero, residenza estiva di una famiglia di Toronto. Il nuovo Lagoverde era una costruzione spaziosa con i soffitti a volta, dall'aria eternamente profumata di un vago aroma di pino. Dentro enormi e numerosi vasi di coccio cresceva una profusione di autentiche piante da appartamento. 
   Nonostante questo, nel mese che dovette far passare senza poterla vedere, Grant continuò a immaginare Fiona nel vecchio edificio. Fu il mese più lungo della sua vita, secondo lui: più lungo di quello trascorso con sua madre nella Lanark County in visita a parenti vari, quando aveva tredici anni, e più lungo del mese che Jacqui Adams aveva passato in vacanza dai suoi, all'inizio della loro relazione. Telefonava a Lagoverde tutti i giorni, sempre sperando di trovare l'infermiera di nome Kristy. Costei pareva un po' sorpresa dalla sua costanza, ma gli forniva ragguagli più dettagliati di tutte le altre infermiere con le quali gli capitava di parlare.    Fiona si era presa il raffreddore, ma ai nuovi arrivati succedeva spesso. 
- Un po' come quando i bambini incominciano la scuola, - disse Kristy. - Sono esposti a un mucchio di germi nuovi, e per un certo periodo si prendono di tutto. 
   Poi il raffreddore migliorò. Aveva smesso di prendere gli antibiotici, e sembrava meno confusa di quanto non fosse i primi giorni. (Grant non aveva mai sentito parlare né di antibiotici, né di confusione mentale). Mangiava con appetito, e gradiva stare seduta al sole in veranda. Le piaceva anche guardare la televisione.    Uno degli aspetti più intollerabili del vecchio Lagoverde era proprio il televisore eternamente acceso, a soffocare pensieri e conversazioni dovunque uno decidesse di sedersi. Alcuni degli interni (allora lui e Fiona li chiamavano così, mentre adesso erano diventati «ospiti») vi rivolgevano di quando in quando uno sguardo distratto, altri intervenivano a voce alta, ma per lo più la gente si sottoponeva rassegnata all'aggressione acustica. Nell'edificio nuovo, per quanto ricordava, il televisore si trovava in un salottino separato, o nelle camere da letto. Era possibile scegliere se accenderlo o no.    Perciò Fiona doveva averlo scelto. Ma per guardare cosa? 
   Negli anni passati in quella casa, lui e Fiona avevano guardato spesso la televisione insieme. Avevano spiato la vita privata di ogni mammifero, rettile, insetto o creatura marina che una telecamera fosse stata in grado di raggiungere, e avevano seguito gli intrecci di dozzine di bei romanzi ottocenteschi vagamente simili l'uno all'altro. Si erano lasciati sedurre da uno sceneggiato inglese sulle vicende personali di impiegati in un grande magazzino, rivedendone le stesse puntate così tante volte da conoscerne a memoria le battute. Si erano afflitti per la scomparsa di attori morti nella vita vera, o passati ad altri impegni professionali, e ne avevano accolto con entusiasmo il ritorno in coincidenza con la resurrezione del rispettivo personaggio. Avevano assistito al progressivo incanutimento dell'agente di sorveglianza al grande magazzino, e l'avevano poi rivisto farsi bruno, sullo sfondo di squallidi scenari sempre uguali. Ma anche questi sbiadirono; alla fine anche gli scenari e i più indomiti capelli neri presero a sbiadire come se la fuliggine delle strade londinesi filtrasse dalle porte dell'ascensore, e c'era una tristezza in tutto questo che pareva affliggere Grant e Fiona più di qualsiasi tragedia della serie Capolavori teatrali, perciò smisero di guardare la trasmissione prima delle ultime puntate. 
   Fiona incominciava a fare amicizia, disse Kristy. Stava decisamente uscendo dal guscio. 
   Quale guscio? voleva chiedere Grant, ma si controllò, per non perdere i favori di Kristy. 
   Se qualcuno chiamava, lasciava partire la segreteria telefonica. Le persone che vedevano ogni tanto, non stavano nei dintorni: si trattava di gente che abitava in aperta campagna, pensionati come loro, che spesso se ne andavano senza avvisare. I primi anni dopo il trasferimento, Grant e Fiona non si erano mossi per tutto l'inverno. La stagione fredda in campagna era un'esperienza nuova, e poi avevano un mucchio di cose da fare per sistemare la casa. In seguito però erano entrati anche loro nell'ordine di idee di viaggiare finché potevano, e avevano visitato la Grecia, l'Australia, la Costa Rica. I loro conoscenti avrebbero pensato che fossero partiti per un altro dei soliti viaggi. 
   Sciava per tenersi in esercizio, ma non si spingeva mai fino alla palude. Andava in tondo nel campo dietro casa, mentre il sole calava lasciando il cielo rosa sopra una campagna che pareva fasciata da onde di ghiaccio bordato d'azzurro. Grant contava i giri del campo e poi tornava indietro verso la casa ormai buia, accendeva il televisore e ascoltava il telegiornale mentre si preparava da mangiare. Di solito cucinavano insieme. Uno dei due versava da bere e l'altro si occupava del fuoco, e parlavano del suo lavoro (stava scrivendo un saggio sui leggendari lupi norvegesi e in particolare sul grande lupo Fenris che divora Odino alla fine del mondo) e dei libri che Fiona leggeva e di quello che avevano pensato durante le ore di un giorno in cui erano stati divisi ma vicini. Quelli erano i momenti di migliore intimità, sebbene non mancassero, s'intende, i cinque o dieci 
minuti di tenerezza fisica appena si mettevano a letto - dolcezze che di rado sfociavano nel sesso ma che ne garantivano la possibilità, rassicurandoli. 
   Una volta Grant sognò di mostrare una lettera a un collega che aveva sempre considerato amico. La lettera era della compagna di stanza di una ragazza alla quale non pensava da un pezzo. Il tono era ipocrita e ostile, minaccioso e piagnucolante: Grant riteneva l'autrice un caso di omosessualità latente. Quanto alla ragazza in questione, l'aveva lasciata senza scorrettezze, e gli pareva improbabile che si fosse messa in testa di sollevare problemi, figuriamoci poi suicidarsi come la lettera, tra farraginosità e complicazioni, voleva lasciar intendere. 
   Il collega era uno di quei mariti e padri che tra i primi aveva gettato alle ortiche la cravatta e se n'era andato di casa per passare una notte dopo l'altra su un nudo materasso in compagnia di una giovane donna seducente, presentandosi poi negli uffici e nelle classi tutto scarmigliato e odoroso di hashish e di incenso. Al momento tuttavia assumeva una posizione vaga nei riguardi di simili bambinate, e Grant ricordava che in effetti l'amico aveva finito per sposare una di quelle ragazze, la quale si era messa a organizzare cene e a sfornare figli, come una moglie qualsiasi. 
   - Non ci riderei su, - diceva a Grant, che peraltro non credeva di aver riso. - E se fossi in te cercherei di preparare il terreno con Fiona. 
   E così Grant era andato a cercare Fiona a Lagoverde, il vecchio Lagoverde - ma si era ritrovato invece in una specie di aula magna. I presenti aspettavano che lui facesse lezione. E sedute in ultima fila, in alto, c'erano alcune giovani donne dall'espressione fredda, tutte in toga nera, a lutto. Costoro non gli toglievano di dosso gli occhi impietosi e si rifiutavano ostentatamente di prendere appunti e di prestare ascolto a quello che diceva. 
   Fiona stava in prima fila, tranquilla. Aveva trasformato l'aula magna nell'angolino che sapeva sempre scovare ai ricevimenti: una sorta di isola sicura dove poteva bere vino allungato con acqua minerale, fumare sigarette e raccontare aneddoti divertenti sui suoi cani. Resistendo alle forze della marea, insieme a qualcun altro come lei, come se i vari drammi che intanto si svolgevano altrove nella sala, nelle camere da letto e sulla veranda buia, non fossero altro che puerili commediole. Come se la castità fosse un segno di eleganza, e la reticenza una benedizione. 
   - Oh, figurati, - gli diceva Fiona. - Le ragazze di quell'età non fanno altro che dire a tutti quanti che si ammazzeranno. 
   Ma non gli bastava che lei dicesse così - al contrario, lo angosciava. Grant temeva che Fiona si sbagliasse, che fosse davvero successo qualcosa di terribile, e poi lui riusciva a vedere quello che lei non vedeva, e cioè l'anello di sagome nere nella parte alta della sala sempre più fitto, sempre più stretto intorno alla sua gola. 
   Si precipitò fuori dal sogno e prese a separare il vero da ciò che non lo era. 
   Una lettera c'era stata in effetti, la parola «SORCIO» era comparsa sulla porta del suo ufficio e Fiona, alla notizia che una ragazza si era presa una brutta cotta per lui, aveva commentato più o meno come nel sogno. Il collega non si era intromesso, le donne in nero non si erano viste in aula e nessuno si era mai suicidato. Grant non era caduto in disgrazia, se l'era anzi cavata piuttosto decorosamente se si pensa a quanto sarebbe potuto succedere solo un paio d'anni più tardi. Ma la voce circolò. Parecchi gli voltarono le spalle. Gli inviti per Natale diradarono e lui e Fiona trascorsero da soli il Capodanno. Grant si ubriacò e, senza che gli venisse chiesto - ma anche, grazie a Dio, senza commettere l'errore di una confessione -, promise a Fiona una vita nuova. 
   La vergogna che provò allora aveva a che vedere con l'essersi lasciato abbindolare, col non aver capito che era in corso un cambiamento di prospettiva. E non una sola donna si era presa la briga di metterlo al corrente. 
C'era stato il cambiamento nel passato, quando all'improvviso una moltitudine di donne si era resa disponibile - o così almeno gli era sembrato -, e ora se ne verificava un altro, in cui le stesse donne sostenevano che quanto era successo non era affatto quel che intendevano loro. Che avevano collaborato soltanto perché inermi e confuse, e che l'intera vicenda le aveva ferite senza divertirle. Perfino quando erano state loro a prendere l'iniziativa, si dichiaravano vittime di una congiura ai loro danni. 
   Da nessuna parte era venuto il riconoscimento del fatto che la vita di un dongiovanni (ammesso che Grant rientrasse nella categoria, lui che non vantava la metà delle conquiste e delle complicazioni del collega che lo aveva rimproverato nel sogno) prevedeva atti di gentilezza, di generosità, di sacrificio, perfino. Non in principio, magari, ma di certo con il procedere delle cose. Quante volte gli era successo di mettersi al servizio dell'amor proprio di una donna, della sua fragilità, offrendole più affetto - o una passione più accesa - di quanto in effetti non sentisse. Per ritrovarsi oggi accusato di crudeltà, egoismo e assenza di scrupoli. Oltre che di aver ingannato Fiona - che aveva ingannato, in effetti -, ma sarebbe stato meglio se avesse fatto come altri e l'avesse lasciata? 
   Una cosa del genere non gli era mai nemmeno passata per la testa. Non aveva mai smesso di fare l'amore con lei a dispetto delle tormentose pretese su altri fronti. Non l'aveva lasciata sola nemmeno una notte. Niente scuse elaborate per trascorrere un fine settimana a San Francisco o sotto una tenda a Manitoulin Island. Senza esagerare con droga e alcol, aveva continuato a pubblicare saggi, impegnarsi in varie commissioni, procedere nella carriera. Non era mai stata sua intenzione mandare all'aria lavoro o matrimonio, e trasferirsi in campagna per darsi alla carpenteria o all'apicultura. 
   E invece alla fine andò più o meno così. Fece domanda di prepensionamento a compenso ridotto. Il cardiologo era morto, dopo un periodo di solitudine vissuto in stoico sbalordimento nella grande casa, e Fiona aveva ereditato sia quella proprietà, sia la cascina nella quale era cresciuto il padre, nella campagna vicino a Georgian Bay. Aveva lasciato l'impiego di coordinatrice ospedaliera di servizi di volontariato (in quel mondo quotidiano, come diceva lei, in cui la gente aveva davvero problemi non legati a questioni di sesso, droga o battibecchi tra intellettuali). Una vita nuova era una vita nuova. 
   Boris e Natasha ormai erano morti. Prima s'era ammalato uno dei due - Grant non ricordava quale - e poi era morto anche l'altro, praticamente per simpatia. 
   Lui e Fiona si occuparono di rimettere a posto la casa. Si procurarono degli sci da fondo. Non erano molto socievoli, ma a poco a poco si fecero qualche amico. Finito il periodo delle scappatelle nevrotiche. Basta con le donne che gli infilavano i piedi nudi su per le gambe dei calzoni alle cene. Basta con le mogli sole da consolare. 
   Appena in tempo, riuscì a dirsi Grant quando prese a smorzarsi in lui la sensazione di aver subito un'ingiustizia. Le femministe e forse la stessa patetica sciocchina e quelle vigliacche delle sue cosiddette amiche lo avevano estromesso appena in tempo. Da una vita che in realtà gli avrebbe dato più noie che soddisfazioni. E che a lungo andare poteva costargli la perdita di Fiona. 
   La mattina del giorno in cui doveva tornare a Lagoverde per la prima visita, Grant si svegliò presto. Si sentiva carico di un'eccitazione solenne, come ai vecchi tempi, la mattina del primo appuntamento con una donna nuova. La sensazione non era esattamente di natura sessuale (lo diventava in seguito, quando gli incontri rientravano nella routine). C'era piuttosto l'attesa di una scoperta, quasi una sorta di ispirazione spirituale. E poi timidezza, umiltà, paura. 
   Uscì di casa troppo presto. I visitatori non erano ammessi fino alle due. Non aveva voglia di stare seduto nel parcheggio ad aspettare, perciò svoltò deliberatamente nella direzione sbagliata. 
   Era incominciato il disgelo. Restava ancora parecchia neve, ma lo scenario compatto e abbacinante del primo inverno si andava sciogliendo. Quei mucchi di neve butterata sotto il cielo grigio parevano rifiuti abbandonati nei campi. 
   Nel centro abitato vicino a Lagoverde trovò un fioraio e comprò un grosso bouquet. Non aveva mai regalato fiori a Fiona. Né a nessun'altra. Fece il proprio ingresso nell'edificio come uno spasimante disperato o un marito colpevole da fumetto. 
   - Accidenti. Narcisi fuori stagione, - disse Kristy. - Deve aver speso una fortuna -. Lo precedette nel corridoio e accese la luce in un ripostiglio, o cucinino, per cercare un vaso. Era giovane e grassa, e dava l'impressione di aver gettato la spugna su tutti i fronti, tranne che per i capelli. Biondi e voluminosi. Di una sontuosa vaporosità da cameriera di night o da spogliarellista, su una faccia e un corpo penosamente ordinari.    - Ecco, laggiù, - disse, indicandogli con un cenno del capo il fondo del corridoio. - Il nome è scritto sulla porta. 
   Era così in effetti, stampato su una targhetta decorata con uccellini azzurri. Si chiese se bussare e decise per il sì; poi aprì la porta e la chiamò. 
   Lei non c'era. L'armadio era chiuso, il letto rifatto. Niente sul tavolino da notte, tranne una scatola di kleenex e un bicchiere d'acqua. Non una foto né un'immagine qualsiasi, non un libro, un giornale. Forse bisognava tenere tutto nell'armadietto. 
   Grant tornò nella stanza delle infermiere, l'accettazione, o come si chiamava. Kristy disse: - No? - con uno stupore che gli parve fasullo. 
   Lui esitò, sempre coi fiori in mano. La donna disse: - Okay, okay. Mettiamo questi a posto, per il momento -. Sospirando, come avrebbe fatto con un bambino ritardato il primo giorno di scuola, lo condusse lungo un corridoio, verso la luce dell'immenso lucernario che copriva il centro del salone dal soffitto altissimo. Alcune persone occupavano poltroncine sistemate lungo le pareti, altre sedevano intorno ai tavoli centrali sul pavimento coperto da moquette. Di gente messa veramente male non se ne vedeva. Vecchi, sì - certi anche abbastanza invalidi da aver bisogno della sedia a rotelle - ma decorosi, comunque. Ai tempi in cui ci veniva con Fiona per far visita al signor Farquar, capitava di assistere a spettacoli sgradevoli. Vecchie dal mento irsuto di barba, pazienti con un occhio che pendeva dall'orbita come una prugna marcia. Creature sbavanti, ciondolanti, deliranti. Ora pareva che i casi peggiori fossero stati estirpati come erbacce. O forse i farmaci e la chirurgia avevano fatto progressi, forse c'erano modi per curare la rovina del corpo, per arginare incontinenze verbali e d'altro genere - modi che anche solo qualche anno prima non esistevano ancora.    C'era tuttavia una donna dall'aria sconsolata che, seduta al pianoforte, picchiava sui tasti con un dito, senza riuscire a produrre una melodia. Un'altra, seminascosta dietro un distributore di caffè e una pila di bicchieri di plastica, fissava lo sguardo nel vuoto, come impietrita dalla noia. Ma doveva far parte del personale, perché indossava una divisa verde pallido, come quella di Kristy. 
- Eccola, - disse Kristy abbassando la voce. - Vada a salutarla, ma non la spaventi. Si ricordi, potrebbe non... Comunque. Vada pure. 
   Grant vide Fiona di profilo: sedeva accanto a un tavolo, ma non stava giocando a carte. Gli sembrò leggermente gonfia in faccia; la carne delle guance le nascondeva gli angoli della bocca in un modo che non ricordava. Stava osservando il gioco dell'uomo al quale aveva accostato la sedia. Questi teneva le carte inclinate per fargliele vedere. Alzarono lo sguardo, tutti i giocatori del tavolo, con fastidio. Ma tornarono subito alle loro carte, come per respingere un intruso. 
   Fiona però fece quel suo sorriso obliquo, astuto, seducente e complice, spinse indietro la sedia e lo raggiunse, portandosi un dito alle labbra. 
- Bridge, - disse. - Roba serissima. Se li disturbi, possono mordere -. Lo trascinò verso il tavolino da caffè, aggiungendo: - Mi ricordo di essere stata così anch'io per un certo periodo, all'università. Marinavo le lezioni con le mie amiche e ce ne stavamo per ore in sala mensa a fumare e a giocare come dei tagliagole. 
Una si chiamava Phoebe, le altre non so più. 
- Phoebe Hart, - disse Grant. Rivide la ragazza minuta, senza seno, gli occhi scuri, che probabilmente era già morta. Avvolte da nuvole di fumo, Fiona e Phoebe e il resto del gruppo, tutte assorte come streghe.    - La conoscevi anche tu? - chiese Fiona, volgendo ora lo sguardo verso la donna impietrita. - Posso offrirti qualcosa? Una tazza di tè? Qui purtroppo il caffè non è molto buono. 
   Grant non beveva mai il tè. 
   Non se la sentiva di abbracciarla. A impedirglielo era qualcosa nella sua voce e nei suoi gesti, per quanto familiari, qualcosa nel modo in cui sembrava proteggere i giocatori, e perfino la donna dietro il distributore del caffè, da lui, e lui dalla loro irritazione. 
- Ti ho portato dei fiori, - disse. - Per rallegrare la stanza, ho pensato. Sono andato in camera tua, ma tu non c'eri. 
- Eh già, - disse lei. - Sono qui. 
   Grant aggiunse: - Ti sei fatta un amico nuovo -. E indicò con la testa l'uomo al quale Fiona era stata seduta accanto. Proprio in quel momento, lui alzò lo sguardo e Fiona si voltò a guardarlo, vuoi per quanto aveva detto Grant, vuoi perché si era sentita osservata. 
- E’ solo Aubrey, - disse lei. - La cosa divertente è che l'ho conosciuto un mucchio di anni fa. Lavorava al negozio. Il ferramenta dove si serviva mio nonno. Noi due scherzavamo sempre, ma lui non trovava mai il coraggio di invitarmi fuori. Fino all'ultimo sabato, quando mi portò alla partita. Ma alla fine comparve mio nonno per accompagnarmi a casa in macchina. Ero dai nonni per le vacanze estive. Stavo da loro, avevano una cascina. 
- Fiona, so bene dove abitavano i tuoi nonni. E dove stiamo noi adesso. Stavamo. 
- Davvero? - fece lei, un po' distratta, tuttavia, perché il giocatore di bridge le stava rivolgendo un'occhiata tutt'altro che supplichevole, imperiosa, anzi. Doveva avere all'incirca l'età di Grant, o poco più. Ispidi capelli bianchi gli ricadevano sulla fronte, e aveva la pelle coriacea ma pallida, bianco-gialliccia come quella di un vecchio guanto di capretto. Il viso lungo appariva di una nobiltà malinconica, e ricordava la bellezza avvilita di un vecchio cavallo di razza. Nei confronti di Fiona però non sembrava affatto scoraggiato.    - Sarà meglio che torni, - disse Fiona, mentre il viso ingrassato le si chiazzava di rossore. – E’ convinto di non riuscire a giocare se non sto seduta lì. Io non ricordo nemmeno bene le regole. Temo che dovrai scusarmi. 
- Non ne avrai per molto, vero? 
- Oh, non credo. Dipende. Se glielo chiedi con garbo, quella signora dall'aria severa ti darà una tazza di tè. 
- Sto bene, grazie, - disse Grant. 
- Allora io vado. Te la cavi da solo, immagino. Deve sembrarti tutto un po' strano, ma non immagini come ci si abitui in fretta. Tra poco conoscerai tutti quanti. A parte alcuni, che sono un po' nelle nuvole, sai... solo, non ti aspettare che sappiano tutti chi sei tu. 
   Tornò alla sua sedia e bisbigliò qualcosa nell'orecchio di Aubrey. Gli passò le dita sul dorso della mano.    Grant si mise in cerca di Kristy e la incontrò nell'ingresso. Spingeva un carrello carico di caraffe di succo di mela e d'uva. 
- Un secondo solo, - gli disse, infilando la testa oltre la porta di una stanza. - Cosa prendiamo qui? 
Mela? Uva? Biscotti? 
   Grant aspettò che Kristy riempisse due bicchieri di plastica e li portasse dentro la camera. Poi tornò indietro e mise due biscotti di fecola su un piatto di carta. 
- Allora, - disse. - Non le fa piacere vedere come si è inserita bene?    Grant rispose: - Sa almeno chi sono? 
   Non riusciva a capire. Poteva darsi che stesse scherzando. Sarebbe stato da lei. Si era tradita alla fine, con quella battuta, quando gli aveva parlato come se l'avesse scambiato per un eventuale nuovo residente. 
   Sempre che di messinscena si trattasse. Sempre che fingesse. 
   Ma in quel caso non gli sarebbe corsa dietro ridendo di lui, una volta finito lo scherzo? Di sicuro, non sarebbe tornata al tavolo da gioco, fingendo di scordarsi della sua presenza. così era troppo crudele. 
   Kristy disse: - L'ha solo interrotta in un momento non tanto felice. Era presa dalla partita. 
- Ma se non sta nemmeno giocando, - disse lui. 
- Be', ma il suo amico si. Aubrey. 
- E chi sarebbe Aubrey? 
- Aubrey è Aubrey. Ecco chi è. Il suo amico. Vuole un po' di succo? 
   Grant scosse la testa. 
- Oh, senta, - disse Kristy. - Queste forme di simpatia nascono qui. Per un possono la cosa più importante. Come farsi l'amica del cuore. E’ una specie di fase. 
- Mi sta dicendo che forse davvero non sa chi sono? 
- E’ possibile. Non oggi. Ma domani, chi lo sa, giusto? Le cose cambiano di giorno in giorno e non ci si può fare niente. Capirà come funziona quando incomincerà a venire regolarmente. Imparerà a non prendersela. A vivere alla giornata. 
   Vivere alla giornata. Ma non era vero che le cose cambiavano di giorno in giorno, o comunque lui non riusciva a farci l'abitudine. Fiona semmai parve abituarsi a lui, ma solo come visitatore assiduo con un interesse particolare alla sua persona. O forse addirittura come una seccatura a cui, in base alle sue vecchie regole di cortesia, occorreva evitare che si accorgesse di esserlo. Lo trattava con una gentilezza distratta e superficiale, in grado di impedirgli di rivolgerle la più ovvia e più urgente delle domande. Grant non poteva pretendere di sapere da lei se lo riconoscesse come il marito di quasi cinquant'anni vissuti insieme. Aveva l'impressione che quella domanda l'avrebbe messa a disagio - non tanto per se stessa quanto per lui. Sarebbe forse scoppiata a ridere in modo frivolo, mortificandolo con il suo educato stupore, e avrebbe finito comunque col non dire né sì né no. Oppure gli avrebbe dato una risposta affermativa o negativa, senza peraltro soddisfarlo. 
   Kristy era l'unica infermiera con cui riuscisse a parlare. Alcune delle altre trovavano la vicenda solo divertente. Una vecchia cretina arrivò a ridergli in faccia. - Aubrey e Fiona? Si sono presi una bella cotta, eh?    Kristy gli disse che Aubrey era stato il rappresentante locale di una ditta che vendeva diserbanti - «e roba simile» - ai coltivatori. 
- Era una brava persona, - aggiunse, e Grant non riuscì a capire se intendesse dire che era onesto, generoso e cordiale con la gente, o che era benvoluto, che si vestiva bene e che possedeva una bella macchina. Probabilmente tutte queste cose. 
   Poi però, prima che diventasse vecchio, e prima della pensione, addirittura, gli era capitata una brutta disgrazia. 
- Di solito è la moglie che si occupa di lui. Lo accudisce in casa. L'ha ricoverato qui solo temporaneamente per concedersi una pausa. La sorella voleva che andasse in Florida. Sa, è stato un duro colpo per lei, chi andava a immaginarsi che un uomo così... Erano in vacanza insieme e lui si è preso qualcosa, una specie di influenza per cui gli è salita tantissimo la temperatura. E’ entrato in coma, e quando ne è uscito era come lo vede adesso. 
   Lui le chiese di parlargli di quegli amori tra ricoverati. Potevano anche andare troppo in là? Era ormai in grado di mantenere un tono di voce indulgente che sperava gli risparmiasse una paternale. 
- Dipende da cosa intende, - rispose lei. Mentre decideva come rispondergli, non smise di prendere appunti sull'agenda. Quando ebbe finito di scrivere, sollevò lo sguardo su di lui e gli rivolse un sorriso sincero. 
- I guai qui dentro, può sembrare strano, succedono spesso con persone che non si stanno simpatiche per niente. Magari neppure si considerano, se non per stabilire se sono maschi o femmine. Uno immagina che siano i vecchietti a cercare di infilarsi nel letto delle donne, ma metà delle volte capita il contrario. Sono le vecchie a dar la caccia ai maschi. Si vede che non sono poi così decrepite, dico io. 
   A quel punto smise di sorridere, come se temesse di aver detto troppo, o di essere stata brutale. 
- Non mi fraintenda, - disse. - Non parlo di Fiona. Fiona è una signora. 
   Sì, d'accordo, e Aubrey? aveva voglia di chiedere Grant. Poi si ricordò che Aubrey era su una sedia a rotelle. 
- Lei è una vera signora, - disse Kristy, in tono talmente deciso e rassicurante che Grant si allarmò. Non riusciva a togliersi dalla mente l'immagine di Fiona con addosso una delle sue camicie da notte lunghe, abbottonate e infiocchettate d'azzurro, nell'atto di sollevare maliziosamente le lenzuola del letto di un vecchio. 
- Be', certe volte però mi chiedo... - disse. 
   E Kristy lo interruppe bruscamente: - Si chiede che cosa? 
- Mi chiedo se non stia facendo una specie di sciarada. 
- Una che? - disse Kristy. 
   Quasi tutti i pomeriggi la coppia era rintracciabile al tavolo da gioco. Aubrey aveva mani grandi, dita spesse. Non gli era facile maneggiare le carte. Fiona le mescolava e distribuiva per lui, e qualche volta si precipitava a raddrizzarne una che sembrava sul punto di cadérgli. Dall'angolo opposto della sala, Grant osservava il suo gesto rapido, la premura scherzosa. Quando una ciocca di capelli di Fiona sfiorava il viso di Aubrey, Grant riconosceva in lui un lieve fastidio da marito. Aubrey preferiva ignorarla, a patto che lei non si allontanasse. 
   Ma bastava che Fiona salutasse Grant con un sorriso, che scostasse la sedia per alzarsi e offrirgli una tazza di tè - mostrando di aver accettato il suo diritto di esserci, e forse una certa responsabilità nei suoi riguardi - e sul viso di Aubrey subito si dipingeva un'espressione di cupo malumore. Allora lasciava che il ventaglio di carte gli scivolasse dalle dita e cadesse a terra, rovinando il gioco. 
   Così Fiona era costretta a correre ai ripari. 
   Se non si trovavano al tavolo da bridge, potevano essere in passeggiata lungo i corridoi: Aubrey si teneva al corrimano da una parte e al braccio o alla spalla di Fiona dall'altra. Le infermiere ripetevano che era un miracolo, che fosse riuscita a farlo alzare dalla sedia a rotelle. Anche se per tragitti più lunghi - alla veranda da un lato, o alla sala della Tv dall'altro - bisognava ancora utilizzarla. 
   La televisione sembrava eternamente sintonizzata sul canale sportivo, e Aubrey guardava di tutto, ma il suo sport preferito restava il golf. A Grant non dispiaceva guardarlo insieme a loro. Si cercava una sedia un po' discosta dalle altre. Sul grande schermo un gruppetto di spettatori e commentatori seguiva il gioco sul tranquillo green, e di quando in quando, al momento giusto, rompeva in un breve applauso educato. Il silenzio era invece totale quando il giocatore preparava il colpo e la palla disegnava in cielo la sua traiettoria solitaria e precisa. Aubrey e Fiona e Grant, e forse anche altri, sedevano lì con il fiato sospeso, e il primo a esprimersi era Aubrey, con esclamazioni soddisfatte o deluse. Fiona si accordava alla stessa nota con un attimo di ritardo. 
   In veranda non regnava quel silenzio. La coppia si trovava un posto a sedere nell'intrico lussureggiante di piante tropicali - una specie di pergola, diciamo - e Grant mostrava abbastanza self-control da impedirsi di seguirli. I sussurri e le risa di Fiona si mescolavano al fruscio delle foglie e al gorgoglio dell'acqua. 
   Poi, una specie di risata chioccia. Chi dei due poteva essere? 
   Forse nessuno - forse proveniva da uno di quei vistosi uccelli impertinenti che abitavano le gabbie appese agli angoli. 
   Aubrey riusciva a parlare, anche se la sua voce non doveva più essere quella di una volta. Adesso per esempio sembrava stesse dicendo qualcosa - poche sillabe impastate. Attenta. Equi. Tesoro. 
   Sul fondo azzurro della fontana baluginavano alcune monetine portafortuna. Grant non aveva mai visto nessuno nell'atto di gettarle. Fissò gli spiccioli diversi, domandandosi se fossero incollati alle piastrelle - l'ennesimo espediente per decorare in modo incoraggiante l'edificio. 
   Adolescenti alla partita di baseball, seduti in cima alle gradinate, lontano dagli amici di lui. A separarli, pochi centimetri di legno nudo, mentre cala il buio, e rabbrividisce in fretta la sera di fine estate. Le mani sfarfallano nervose, si spostano le cosce, gli occhi restano incollati al campo. Lui si toglierà la giacca, se ne ha una, per avvolgergliela intorno alle spalle esili. Sotto il tessuto riuscirà a farsi più vicino, a premerle le dita aperte sulla carne soffice del braccio. 
   Non come oggi, che qualsiasi sconosciuto le finirebbe probabilmente dentro le mutandine al primo appuntamento. 
   Il braccio morbido e magro di Fiona. Una voglia da adolescente la sorprende e corre lungo tutti i nervi del suo delicato corpo nuovo, mentre la sera si addensa oltre il pulviscolo illuminato del campo da gioco.    Lagoverde non abbondava di specchi, perciò gli era per lo più risparmiato lo spettacolo di se stesso che incedeva impettito a caccia di prede. Ma di quando in quando lo attraversava il pensiero di quanto dovesse apparire imbecille e patetico, per non dire demente, nella sua persecuzione di Fiona e Aubrey. Senza peraltro avere mai la fortuna di uno scontro diretto con lei, né con lui. Sempre meno sicuro del proprio diritto a restare in scena, ma anche incapace di ritirarsi. Perfino a casa, mentre lavorava alla scrivania o riordinava o spalava la neve, se necessario, un metronomo ticchettante nei suoi pensieri era fisso su Lagoverde, sulla sua prossima visita. Certe volte gli pareva di assomigliare a un ragazzo testardo impegnato in un corteggiamento senza speranza, altre volte a uno di quei miserabili che seguono per la strada donne famose, convinti che un giorno si volteranno per prendere atto del loro amore. 
   Si impose uno sforzo notevole, limitando le visite al mercoledì e al sabato. Decise inoltre di concentrarsi anche su altri aspetti dell'istituto, come un osservatore generico, un ispettore o un sociologo. 
   Il sabato aleggiavano un trambusto e una tensione da giorno di festa. I parenti arrivavano a grappoli. Di solito capeggiati da madri allegre e insistenti che guidavano il gregge di uomini e figli. Gli unici a non mostrare apprensione erano i piccolissimi. Immediatamente notavano i riquadri bianchi e verdi del pavimento nei corridoi e si sceglievano un colore su cui camminare, o saltare. I più audaci potevano scroccare un passaggio appesi dietro alle sedie a rotelle. Certi insistevano con giochi simili nonostante i rimproveri, e dovevano essere riportati di peso alla macchina. E con quale gioia, con quanta sollecitudine, fratelli maggiori e padri si offrivano di occuparsi dell'allontanamento, approfittandone per metter fine alla visita.    Erano le donne a tener viva la conversazione. Gli uomini parevano intimiditi dalle circostanze, gli adolescenti offesi. I ricoverati, alla testa del corteo, circolavano in sedia a rotelle, barcollavano chini sul bastone o procedevano a passo rigido senza farsi aiutare, orgogliosi del fuoriprogramma ma in un certo senso sbalorditi, o biascicanti parole insulse per via dello stress. In quei momenti, circondati da un campionario di persone esterne, gli interni non sembravano più gente tanto normale, in fondo. Ogni pelo di barba poteva anche esser stato strappato dal mento delle vecchie; gli occhi malati potevano anche essere stati nascosti dietro bende o lenti scure, i farmaci potevano forse tenere sotto controllo i deliri più imbarazzanti, ma rimaneva la sensazione di una fissità, di un rigore spettrale, come se quegli individui si accontentassero di trasformarsi nel proprio ricordo, in estreme fotografie. 
   Grant ora capiva meglio come doveva essersi sentito il signor Farquar. Queste persone - perfino coloro che non partecipavano a nessuna attività ma passavano il tempo a fissare la porta o a guardare fuori dalla finestra - avevano un'intensa vita mentale (per non parlare di quella corporea, fatta di portentosi sconvolgimenti viscerali, di spasmi e fitte un po' dappertutto), e si trattava di esistenze che, nella maggior parte dei casi, non si prestavano a descrizioni e nemmeno ad allusioni di fronte ai visitatori. Tutto quel che potevano fare era circolare o spostarsi in qualche modo, nella speranza di riuscire a inventare qualcosa che si potesse esibire, o di cui si potesse parlare. 
   C'era ad esempio il vanto della serra, o quello del grande schermo televisivo. I padri lo trovavano davvero notevole. E le madri esclamavano che le felci erano stupende. In breve sedevano tutti quanti intorno a un tavolino a mangiare il gelato - solo i ragazzi lo rifiutavano, in preda a un disgusto mortale. Le donne asciugavano la bava dal vecchio mento tremante dei loro cari, e gli uomini distoglievano lo sguardo.    Doveva esserci una forma di soddisfazione in questo rituale, e forse un giorno perfino gli adolescenti sarebbero stati contenti di avervi partecipato. Grant non era un grande esperto, in fatto di famiglie. 
   A trovare Aubrey non venivano né figli né nipoti e, dal momento che non si poteva giocare a carte perché i tavoli erano occupati dai consumatori di gelato, lui e Fiona si tenevano alla larga dalla fiera del sabato. La veranda diventava di gran lunga troppo affollata per ospitare una delle loro consuete conversazioni private.    Che, naturalmente, potevano proseguire dietro la porta chiusa di Fiona. Grant non aveva il coraggio di bussare, anche se rimaneva per un po' a fissare quegli uccellini disneyani con un disprezzo intenso e profondamente cattivo. 
   Oppure, chissà, potevano essere in camera di Aubrey. Non sapeva nemmeno dove si trovasse. Più esplorava l'edificio, e più scopriva corridoi, salotti e rampe di scale, e nei suoi vagabondaggi gli poteva ancora capitare di perdersi. Sceglieva un certo quadro o una sedia come punto di riferimento, e la settimana dopo aveva comunque la sensazione che quell'oggetto fosse stato spostato. Non aveva voglia di parlarne con Kristy, perché temeva potesse attribuire anche a lui una forma di deterioramento mentale. Immaginò che la risistemazione continua degli spazi servisse ai residenti, a rendere più interessante il loro quotidiano esercizio fisico. 
   Evitò anche di dirle che gli capitava di vedere in lontananza una donna che scambiava per Fiona, ma poi si rendeva conto che non poteva essere lei, dati i vestiti che indossava. Quando mai Fiona aveva sfoggiato camicette a fiori vivaci e pantaloni blu elettrico? Un sabato guardò fuori dalla finestra e vide Fiona - doveva proprio essere lei - spingere la carrozzella di Aubrey lungo i sentieri di pietra ormai sgombri di neve e ghiaccio, e aveva addosso un buffo berretto di lana e una giacca infiocchettata di azzurro e viola, il genere di capo che aveva visto su certe donne del paese al supermercato. 
   Evidentemente il personale non si prendeva la briga di smistare il guardaroba delle residenti, badando solo che avessero più o meno la stessa taglia. Dopodiché contavano sul fatto che le legittime proprietarie non riconoscessero comunque i propri abiti. 
   Le avevano anche tagliato i capelli. Spogliandola della sua aura angelica. Un mercoledì, mentre tutto era più normale e le partite a carte erano riprese, e le donne nel laboratorio di arti applicate stavano confezionando fiori di seta o bambole in costume senza che nessuno le infastidisse o si sperticasse in complimenti, e mentre Aubrey e Fiona erano di nuovo usciti allo scoperto cosicché a Grant era concesso di intrattenere con la moglie una di quelle brevi conversazioni cordiali e furibonde, le disse: - Come mai ti hanno tagliato i capelli? 
   Fiona si portò le mani alla testa, per controllare. 
- Be'... non li rimpiango, - rispose. 
   Pensò di dover scoprire cosa succedeva al secondo piano, dove ricoveravano le persone che, a detta di 
Kristy, erano completamente fuori di cervello. A quanto pareva, chi deambulava di sotto chiacchierando tra 
sé o rivolgendo al passante occasionale domande insulse («Ho dimenticato in chiesa la mia maglia?») non aveva ancora raggiunto quello stadio. 
   Non era ancora all'altezza. 
   C'erano le scale, ma le porte del piano erano chiuse e solo il personale aveva le chiavi. Non si poteva salire in ascensore, a meno che qualcuno non lo chiamasse da sopra premendo un apposito pulsante da dietro una scrivania. 
   Che cosa facevano, quando erano completamente fuori di cervello? 
- Alcuni se ne stanno solo seduti, - disse Kristy. - Altri stanno seduti e piangono. Altri ancora cercano di tirare giù i muri a furia di urlare. Non sono cose piacevoli da sapere. 
   Qualche volta recuperavano. 
- Entri per un anno di seguito in camera di qualcuno che non ti distingue dal tuo collega Adam. Poi, un bel giorno, ti senti salutare e chiedere, Be', quando si torna a casa? Così, all'improvviso, sono completamente normali. 
   Ma non dura molto. 
- Non fai in tempo a dirti, però, è guarito, che gli va via la testa di nuovo -. Fece schioccare le dita. - Di colpo. 
   Nella città dove aveva lavorato c'era una libreria che Grant e Fiona frequentavano una o due volte l'anno. Ci tornò da solo. Non aveva voglia di fare acquisti, ma si era preparato un elenco, e prese un paio di libri della lista più un terzo che aveva notato per caso. Era sull'Islanda. Una raccolta di acquerelli realizzati da una viaggiatrice dell'Ottocento. 
   Fiona non aveva mai imparato la lingua di sua madre né aveva mai mostrato grande rispetto per le storie che quella lingua custodiva: le storie su cui Grant aveva tenuto corsi e su cui aveva scritto, e ancora scriveva per lavoro. Fiona chiamava gli eroi di quei racconti «il vecchio Njal» o «il vecchio Snorri». Ma negli ultimi anni aveva incominciato a interessarsi del paese e a sfogliare guide turistiche. Aveva letto del viaggio di William Morris, e di quello di Auden. Non che avesse intenzione di andarci. Diceva che il clima era troppo orrendo. E poi - diceva - doveva esserci un posto al quale uno pensa, che conosce e magari desidera vedere, ma dove non andrà mai. 
   Quando Grant incominciò a insegnare Letteratura anglosassone e nordica, le sue lezioni erano frequentate da studenti normali. Ma dopo qualche anno notò che si era verificato un cambiamento. Molte donne sposate riprendevano gli studi. Non con l'idea di sfruttare la laurea per far carriera, ma soltanto per concedersi il lusso di pensare a cose un po' più interessanti delle solite faccende domestiche e dei soliti passatempi. Per arricchirsi la vita, insomma. E forse era naturale che gli uomini impegnati a insegnare loro quelle cose diventassero parte dell'arricchimento, che quegli uomini apparissero agli occhi di quelle donne più misteriosi e desiderabili degli uomini per cui continuavano a cucinare e con cui si coricavano ogni sera.    I corsi più frequentati erano di solito Psicologia o Sociologia o Letteratura inglese. Qualche volta provavano con Archeologia o Linguistica, ma le abbandonavano appena lo studio si faceva duro. Chi si iscriveva ai corsi di Grant poteva avere origini scandinave, come Fiona, oppure aver orecchiato qualcosa sulla mitologia norrena ascoltando Wagner o leggendo romanzi storici. C'era poi chi pensava insegnasse una lingua celtica, e per certa gente qualsiasi nozione legata ai celti aveva un fascino mistico. 
   A simili aspiranti studentesse Grant parlava chiaro dall'alto della sua cattedra. 
   - Se volete imparare una lingua simpatica, iscrivetevi al corso di Spagnolo. così lo potrete sfoggiare la prossima volta che andate in Messico. 
   Alcune accettavano il consiglio e si ritiravano in buon ordine. Altre parevano toccate nell'intimo dal suo tono esigente. Ce la mettevano tutta, e scaricavano nel suo ufficio, nella sua esistenza ordinata e soddisfacente, la grandiosa sorpresa di una matura disponibilità femminile, la tremula speranza di un riconoscimento. 
   Scelse la donna che si chiamava Jacqui Adams. Era l'opposto di Fiona: bassa, tondetta, occhi scuri, espansiva. Al riparo da qualsiasi forma di ironia. La relazione durò un anno, fino al trasferimento del marito di lei. Mentre si dicevano addio, in macchina, Jacqui incominciò a tremare in modo incontrollabile. Sembrava in preda a una crisi di ipotermia. Gli scrisse qualche volta, ma Grant trovò il tono delle lettere affettato e non seppe come risponderle. Lasciò scorrere il tempo epistolare e senza accorgersene si ritrovò coinvolto nella magia di un rapporto con una ragazza abbastanza giovane da poter essere sua figlia. 
   Perché mentre lui era alle prese con Jacqui, si era verificato un ulteriore sviluppo, ancor più sbalorditivo. Il suo ufficio aveva incominciato ad affollarsi di ragazze dai capelli lunghi e i sandali ai piedi che si dichiaravano apertamente disponibili al sesso. I cauti approcci, le tenere allusioni sentimentali necessarie con Jacqui erano acqua passata. Fu risucchiato in un turbine, e come lui molti altri: il desiderio si trasformava in atto in modo tale da far sorgere il dubbio di essersi persi qualcosa. Ma chi aveva tempo per i ripensamenti? Gli giunsero voci di più relazioni simultanee, di incontri rischiosi e appassionati. Scoppiarono scandali, accompagnati da tragedie penose e violente, ma anche dalla sensazione che in un certo senso fosse meglio così. Ci furono rappresaglie, qualcuno perse il posto. Ma i licenziati trovarono lavoro presso atenei più piccoli e più tolleranti o presso centri di studio, e molte mogli abbandonate superarono lo shock e assunsero le abitudini e la disinvoltura sessuale delle ragazze che avevano sedotto i loro mariti. I ricevimenti accademici, un tempo noiosamente prevedibili, divennero campi minati. L'epidemia era scoppiata, e si diffondeva come la spagnola. Solo che questa volta la gente correva appresso al contagio, ed erano in pochi tra i sedici e i sessanta ad accettare di venir esclusi. 
   Fiona sembrava tra i pochi, tuttavia. Sua madre stava morendo, e l'esperienza in ospedale la portò a lasciare il lavoro in archivio per assumere l'incarico nuovo. Grant stesso non perse la tramontana, se non altro in confronto con certa gente. Non permise mai a nessuna donna di affezionarsi a lui come era successo a Jacqui. Quello che provava era semplicemente un formidabile miglioramento sul piano del benessere fisico. Una certa tendenza alla pinguedine della quale soffriva dall'età di dodici anni scomparve. Faceva le scale di corsa, due gradini alla volta. Apprezzava come mai in passato lo spettacolo di nubi a brandelli e tramonti invernali dalla finestra del suo ufficio, il fascino di una lampada antica accesa dietro le tende nel soggiorno di un vicino di casa, il pianto dei bambini che, al parco, la sera, non ne volevano sapere di abbandonare la discesa su cui si erano divertiti a slittare. Con l'arrivo dell'estate, imparò il nome dei fiori. In classe, dopo essersi preparato la lezione accanto alla suocera quasi del tutto afona (era afflitta da cancro alla gola), osò recitare a memoria e poi tradurre l'ode maestosa e cruenta, salvifica, l'Hofuolausn, composta in onore del re Eric il Sanguinario dallo skald condannato a morte dal sovrano. (E in seguito liberato dallo stesso re e dal potere della poesia). Applaudirono tutti - compresi i pacifisti presenti in aula che aveva poco prima scherzosamente provocato chiedendo loro se non preferissero aspettare in corridoio. Durante il tragitto in macchina verso casa, quel giorno o forse un altro, si trovò a ripetere tra sé e sé una citazione assurda e blasfema. 
   E così egli crebbe in saggezza e statura... 
   Nonché nel favore di Dio e degli uomini. 
   Questo, al tempo, l'aveva imbarazzato, procurandogli un brivido scaramantico. Tornò a provare quella sensazione. Ma dal momento che nessuno ne era al corrente, non gli parve innaturale. 
   Alla successiva visita a Lagoverde si portò appresso il libro. Era mercoledì. Andò a cercare Fiona al tavolo da gioco e non la vide. 
   Una donna gli disse: - Non c'è. Non sta bene -. Parlava con voce autorevole e concitata - carica di compiacimento per aver riconosciuto quell'uomo che non sapeva nulla di lei. Forse anche per tutto ciò che sapeva sul conto di Fiona, della sua vita tra quelle mura, probabilmente più di quanto non ne sapesse lui.    - Nemmeno lui è qui, - disse la donna. 
   Grant andò a cercare Kristy. 
   - Niente di serio, - gli disse lei, quando le chiese che cosa avesse Fiona. - Ha deciso di starsene a letto un giorno, è solo un po' scossa, tutto qui. 
   Fiona sedeva ritta sul letto. Le poche volte che era entrato in quella stanza, Grant non aveva notato che il letto era da ospedale e che perciò poteva essere piegato in quel modo. Fiona indossava una delle sue camicie da notte castigatissime, e la sua faccia aveva un pallore cereo più che niveo. 
   Aubrey le stava accanto sulla sedia a rotelle, il più vicino possibile al letto. Anziché le anonime camicie aperte che portava di solito, quel giorno indossava giacca e cravatta. Il suo bel cappello di tweed stava appoggiato sul letto. Sembrava che fosse uscito per commissioni importanti. 
   Che fosse stato dall'avvocato? In banca? A prendere accordi con l'agenzia di pompe funebri? 
   Di qualunque cosa si trattasse, era esausto. Aveva la faccia grigia anche lui. 
   Alzarono entrambi su Grant uno sguardo impaurito e addolorato che si volse in sollievo, se non proprio in gioia, appena videro che si trattava di lui. 
   E non di chi temevano potesse arrivare. 
   Si tenevano stretti per mano e non si staccarono. 
   Il cappello sul letto. La giacca e la cravatta. 
   No, Aubrey non era uscito. Il punto non era dove fosse stato o chi avesse visto. Ma dove sarebbe andato tra poco. 
   Grant posò il libro sul letto accanto alla mano libera di Fiona. 
- E’ sull'Islanda, - disse. - Ho pensato che potessi aver voglia di dargli un'occhiata. 
- Be', grazie, - disse Fiona. Non lo guardò nemmeno. Grant le spostò la mano sul libro. 
- Islanda, - disse. 
   E lei scandì: - I-slan-da -. Se la prima parte del nome sembrò produrre un barlume di interesse, già la seconda risuonò indifferente. In ogni caso, Fiona dovette tornare a occuparsi di Aubrey, che stava sfilando la grossa mano dalle sue. 
- Che c'è? - gli chiese. - Cosa c'è, tesoro bello? 
   Grant non l'aveva mai sentita utilizzare simili vezzeggiativi. 
- Su, non così, - disse. - Ecco, tieni -. Ed estrasse una manciata di fazzolettini dalla scatola accanto al suo letto. 
   Il problema di Aubrey era che aveva cominciato a piangere. Gli colava il naso, e non voleva mostrarsi patetico, specie davanti a Grant. 
- Su, su, - disse Fiona. Gli avrebbe asciugato lei stessa occhi e naso - e forse, se fossero stati soli, Aubrey le avrebbe permesso di farlo. Ma non con Grant li presente. Afferrò come poteva i fazzoletti e, con qualche gesto impacciato, riuscì a passarseli sulla faccia. 
   Mentre era impegnato, Fiona si rivolse a Grant. 
- Per caso tu conti qualcosa qua dentro? - gli chiese sottovoce. - Ti ho visto parlare con loro...    Aubrey emise un sospiro di protesta, o stanchezza, o disgusto. Poi, con la parte superiore del corpo si proiettò in avanti come se si volesse gettare contro di lei. Fiona si precipitò fuori dal letto e lo afferrò per tenerlo fermo. A Grant parve sconveniente aiutarla, ma l'avrebbe fatto di certo se avesse pensato che Aubrey stava per finire a terra. 
- Shh, - diceva intanto Fiona. - Su, caro. Shh. Ci vedremo, fidati. Assolutamente. Io verrò a trovare te. 
E tu verrai a trovare me. 
   Aubrey emise lo stesso suono di prima, con la faccia premuta sul petto di lei, e a Grant non restò altro da fare che uscire discretamente dalla stanza. 
- Vorrei solo che la moglie non ci mettesse tanto ad arrivare, - disse Kristy. - Che se lo portasse via, almeno smetterebbe di soffrire. Tra poco dobbiamo incominciare a servire la cena; come la convinciamo a buttare giù qualche cosa con lui ancora qui intorno? 
   Grant disse: - Secondo lei devo rimanere? 
- E per cosa? Lo vede anche lei che non è malata. 
- Per farle compagnia, - rispose. 
   Kristy scosse la testa. 
- Queste sono cose che devono superare da soli. Di solito il ricordo non dura molto. Non è sempre grave. 
   Kristy non era senza cuore. Da quando la conosceva, Grant aveva scoperto alcune cose sulla sua vita. Aveva quattro figli. Il marito, non sapeva dove fosse, forse ad Alberta. L'asma del figlio minore era talmente grave che una notte, a gennaio, sarebbe morto se non l'avesse portato in tempo al pronto soccorso. Il ragazzo non faceva uso di droghe illegali, ma non era certa di poter dire lo stesso di suo fratello. 
   Ai suoi occhi, Grant e Fiona e anche Aubrey dovevano sembrare fortunati. Avevano attraversato la vita senza grosse disgrazie. Poco importava cosa dovessero patire adesso, da vecchi. 
   Grant se ne andò senza ripassare dalla stanza di Fiona. Notò che il vento era tiepido, quel giorno, e che i corvi facevano un gran baccano. Nel parcheggio, una donna in tailleur pantalone scozzese estraeva dal baule dell'auto una sedia a rotelle pieghevole. 
   La strada su cui viaggiava era la Black Hawks Lane. In quella zona tutte le vie erano intitolate a vecchie squadre nazionali di hockey. Questa in particolare si trovava alle propaggini della cittadina nei pressi di Lagoverde. Lui e Fiona vi avevano fatto regolarmente la spesa, ma non conoscevano altro che lo stradone centrale. 
   Le case sembravano risalire tutte allo stesso periodo, grosso modo trenta o quarantanni prima. Le vie disegnavano curve ampie e non disponevano di marciapiede, vestigia di un tempo in cui si riteneva improbabile che qualcuno volesse continuare a fare molta strada a piedi. Certi amici di Grant e Fiona si erano trasferiti in posti del genere quando avevano avuto figli. Al principio quasi se ne scusavano. Dicevano di aver traslocato nelle «Villette Barbecue». 
   Ci abitavano ancora famiglie giovani. C'erano canestri da basket inchiodati alle porte dei garage, e tricicli nel passo carraio. Ma alcune di quelle villette erano decadute rispetto all'originaria destinazione familiare. Giardini devastati dal passaggio delle macchine, finestre stuccate con carta stagnola o adorne di bandiere sbiadite. 
   Case in affitto. Inquilini giovani, ancora scapoli, o di nuovo soli. 
   Un certo numero di villette parevano invece tenute il meglio possibile da chi vi si era trasferito quando erano nuove - gente che poi non aveva trovato i soldi per cercarsi una sistemazione migliore o non aveva sentito il bisogno di farlo. Le piante erano cresciute rigogliose, i rivestimenti di vinile a colori pastello avevano eliminato il problema della riverniciatura. Siepi e steccati perfetti indicavano che i bambini di casa erano ormai cresciuti e partiti, e che i genitori non vedevano più ragione di permettere a qualsiasi ragazzino del quartiere di scorrazzare nei loro cortili. 
   La casa registrata sulla guida telefonica a nome di Aubrey e sua moglie era una di queste. Il sentiero anteriore era lastricato e costeggiato da giacinti ora rosa ora azzurri, rigidi come fiori di porcellana.    Fiona non si era ripresa dal dolore. Saltava i pasti, anche se lo negava, nascondendo il cibo nel tovagliolo. 
Le somministravano una bevanda speciale due volte al giorno - e restava qualcuno a controllare che finisse di prenderla. Lasciò il letto e riprese a vestirsi, ma non voleva fare altro che stare nella sua stanza. Se Kristy o un'altra infermiera, oppure Grant in orario di visita, non l'avessero fatta passeggiare nei corridoi o portata fuori, non si sarebbe più mossa per niente. 
   Al sole di primavera, se ne stava seduta su una panca vicina al muro, e piangeva senza far rumore. Era ancora educata: si scusava delle lacrime e non discuteva mai un consiglio né rifiutava di rispondere a una domanda. Ma piangeva. Il pianto le aveva velato lo sguardo e arrossato le palpebre in modo permanente. Il suo golf - ammesso che fosse suo - era abbottonato storto. Non era ancora arrivata al punto di non pettinarsi o di non pulirsi le unghie, ma forse non ci mancava molto. 
   Kristy disse che le si era indebolita la muscolatura e che, se non migliorava, presto le avrebbero assegnato un girello. 
- Il fatto è che una volta abituati al girello diventano pigri e non camminano più granché; si limitano agli spostamenti obbligati. 
- Dovrà insistere un po' di più con lei, - disse a Grant. - Cercare di incoraggiarla. 
   Ma Grant non ebbe fortuna. Fiona sembrava aver sviluppato un'antipatia nei suoi confronti, anche se si sforzava di mascherarla. Forse ogni volta che lo vedeva, le tornavano in mente gli ultimi minuti con Aubrey, quando gli aveva chiesto aiuto e lui non gliel'aveva dato. 
   Grant non riteneva sensato ricordarle che erano sposati, ormai. 
   Fiona non andava più nel salone dove la maggior parte dei residenti di prima continuava a giocare a carte. E non andava nemmeno nella sala della Tv o nella serra. 
   Diceva che il grande schermo non le piaceva, che le faceva male agli occhi. Trovava irritante il chiasso degli uccelli, e avrebbe gradito che ogni tanto chiudessero l'acqua della fontana. 
   Per quanto ne sapeva Grant, non aveva dato neppure un'occhiata al libro sull'Islanda né a tutti gli altri - stranamente assai pochi - che si era portata da casa. C'era una sala di lettura che frequentava, ma per riposarsi; probabilmente sceglieva quella perché era quasi sempre deserta, e se lui prendeva un libro dagli scaffali gli permetteva di leggergliene qualche pagina. Grant sospettava che lo facesse per alleggerire il disagio della sua presenza: poteva chiudere gli occhi e sprofondare nel proprio dolore. Perché le bastava dimenticarlo anche solo un minuto perché tornasse a colpirla con più forza quando lo ricordava. Qualche volta invece pensava che chiudesse gli occhi per nascondere uno sguardo di lucida disperazione che non gli avrebbe fatto bene vedere. 
   Così se ne stava lì a leggerle uno di quei vecchi romanzi che parlano di amori casti, fortune perdute e poi ritrovate, e che potevano essere gli scarti di ex biblioteche di paese o della parrocchia. A quanto pareva nessuno si era preoccupato di mantenere aggiornato il materiale della sala di lettura, come pure quasi tutto nel resto dell'edificio. 
   Le copertine dei libri erano soffici, quasi vellutate, con decori di foglie e fiori secchi conservati in mezzo alle pagine, così da ricordare cofanetti portagioielli o scatole di cioccolatini. Che le donne - immaginava si trattasse di donne - potevano portarsi a casa come tesori. 
   La direttrice lo convocò nel suo ufficio. Disse che Fiona non stava lottando come speravano. 
- Perde peso, nonostante gli integratori alimentari. Cerchiamo di fare del nostro meglio per lei. 
   Grant disse che se ne rendeva conto. 
- Il fatto è che, come certamente saprà, il primo piano non è attrezzato per l'assistenza prolungata a residenti costretti a letto. Possiamo provvedere provvisoriamente, se qualcuno non si sente bene, ma se diventano troppo deboli per muoversi ed essere autosufficienti, siamo obbligati a considerare l'ipotesi di un trasferimento al piano di sopra. 
   Grant disse che secondo lui Fiona non era stata a letto poi tanto spesso. 
- No. Ma se non si mantiene in forze, succederà. Attualmente la consideriamo a rischio. 
   Grant disse che credeva di aver capito che al secondo piano fossero destinati i pazienti con disturbi mentali. 
- Anche, - rispose lei. 
   Non ricordava più nulla della moglie di Aubrey tranne il tailleur scozzese che le aveva visto addosso al parcheggio. Lo spacco della giacca si era aperto mentre si chinava sul baule dell'auto. Grant aveva avuto l'impressione di una vita sottile su natiche larghe. 
   Oggi non indossava il completo scozzese. Pantaloni marroni con cintura e maglia rosa. Aveva visto giusto riguardo alla vita - la cintura stretta lasciava supporre che ne facesse un vanto. Forse sarebbe stato meglio lasciar perdere, considerati i gonfiori gemelli che la compressione produceva sopra e sotto. 
   Poteva avere una dozzina d'anni meno del marito. Aveva capelli corti, ricci, di un rosso artificiale. Gli occhi azzurri - più chiari di quelli di Fiona, di un celeste uovo di pettirosso, quasi turchese - avevano un taglio a mandorla sottolineato dalla lieve bolsaggine del viso. Un discreto reticolo di rughe veniva evidenziato dal fondotinta color mallo di noce. O forse era colpa del sole della Florida. 
   Grant disse che non sapeva bene come presentarsi. 
- Vedevo sempre suo marito a Lagoverde. Sono un visitatore abituale dell'istituto. 
- Sì, - disse la moglie di Aubrey, con un gesto aggressivo del mento. 
- Come va suo marito? 
   Il «va» era stata una scelta deliberata. Normalmente avrebbe detto «Come sta suo marito?»    - Non c'è male. 
- Lui e mia moglie erano diventati molto amici. 
- L'ho saputo. 
- Bene. Volevo parlarle un momento, se ha tempo. 
- Mio marito non è stato appresso a sua moglie, se è questo che intende insinuare, - disse lei. - Non l'ha mai molestata in nessun modo. Non è in grado di fare una cosa simile e non l'avrebbe fatta comunque. Da quel che ho saputo è stato il contrario semmai. 
   Grant disse: - No. Non ci siamo capiti. Non sono qui per accusare nessuno di niente. 
- Oh, - disse lei. - Be', mi dispiace. Credevo. 
   Non ci sarebbero state altre scuse da parte sua. E non sembrava dispiaciuta affatto. Delusa, piuttosto, e perplessa. 
- Sarà meglio che entri allora, - disse. - Tira un'aria, qui sulla porta. Non fa caldo come sembra, oggi.    Perciò il fatto stesso di entrare fu per Grant una specie di vittoria. Non aveva immaginato che potesse essere tanto difficile. Si aspettava un tipo di donna diverso. Una massaia emozionata, lieta di ricevere una visita inattesa e lusingata dal tono confidenziale. 
   Lo scortò nell'ingresso, oltre il soggiorno, dicendo: - Dobbiamo accomodarci in cucina, così posso sentire Aubrey -. Grant colse con la coda dell'occhio due strati di tende, entrambi azzurri: il primo trasparente, e l'altro di seta opaca; divano in tinta, moquette tanto chiara da mettere soggezione, specchi lustri e ninnoli vari. 
   Fiona aveva un termine preciso per definire quei tendaggi svolazzanti - lo usava con ironia, a differenza delle signore che glielo avevano fornito. Le stanze arredate da Fiona erano immancabilmente spoglie e luminose - sarebbe rimasta sbalordita di fronte alla congerie di suppellettili stipata in uno spazio così limitato. 
Grant non riusciva a ricordare la parola esatta. 
   Da un vano che si apriva sulla cucina - una sorta di veranda, anche se con gli scuri chiusi per proteggere dalla luce abbagliante del pomeriggio - proveniva il suono di un televisore acceso. 
   Aubrey. La risposta alle preghiere di Fiona sedeva a brevissima distanza, davanti a una partita di pallone, dai suoni. La moglie lo guardò. Disse: - Stai bene? - e socchiuse la porta. 
- Tanto vale che ci prendiamo un caffè, - disse rivolta a Grant. 
- Grazie, - rispose lui. 
- Mio figlio gli ha regalato il canale dello sport l'anno scorso a Natale; non so come avremmo fatto, altrimenti. 
   Sui ripiani della cucina erano allineati congegni elettrici di ogni genere: macchina da caffè, frullatore, affilatrice per coltelli e altri oggetti dei quali Grant non conosceva né il nome né l'uso. Sembravano tutti nuovi e costosi, come se fossero appena usciti dalle rispettive scatole, o venissero lustrati quotidianamente.    Gli parve una buona idea esternare la propria ammirazione al riguardo. Si complimentò per la macchina da caffè e aggiunse che lui e Fiona avevano sempre pensato di acquistarne una uguale. Il che era assolutamente falso: Fiona era affezionatissima a un aggeggio fabbricato in Europa che faceva solo due tazze alla volta.    - Ce l'hanno regalata, - disse la donna. - Nostro figlio e sua moglie. Abitano a Kamloops, nel British Columbia. E’ più quello che ci mandano che quello che usiamo. Non sarebbe male se investissero un po' di soldi per venirci a trovare, invece. 
   Grant commentò diplomatico: - Avranno una vita piena di impegni. 
- Non tanto da non poter andare in vacanza alle Hawaii l'inverno scorso. Si potrebbe capire se avessimo qualcun altro di famiglia, magari più vicino. Ma c'è solo lui, è figlio unico. 
   Il caffè era pronto; lo versò in due boccali verdi e marroni che aveva preso sul tavolo dai rami monchi di un tronco d'albero di ceramica. 
- Certe volte le persone si sentono davvero sole, - disse Grant. Gli sembrò di poter cogliere l'occasione per entrare in argomento. - Se le si priva della possibilità di vedere i loro cari, diventano tristi. Come Fiona, ad esempio. Mia moglie. 
- Credevo avesse detto che la va a trovare. 
- Io sì, - disse. - Ma non è questo il punto. 
   Poi prese coraggio e pronunciò la richiesta per la quale era lì. Chissà se poteva considerare l'ipotesi di riportare Aubrey a Lagoverde, anche solo per un giorno alla settimana, il tempo di una visita? Erano solo pochi chilometri in macchina, niente di complicato. Oppure se voleva prendersi una pausa - a questo Grant non aveva pensato prima e fu alquanto sorpreso di sentirsi proporre una cosa del genere -, lui stesso poteva accompagnare Aubrey, senza alcun problema. Era sicuro di poterlo fare. E a lei non avrebbe fatto male un po' di riposo. 
   Mentre Grant parlava, la donna muoveva le labbra chiuse e la lingua invisibile come se cercasse di identificare un sapore poco convincente. Portò il latte da mettere nel caffè, e un piatto di biscotti allo zenzero.    - Sono fatti in casa, - disse appoggiando il piatto. Il tono di voce comunicava più una sfida che un gesto di ospitalità. Non disse altro finché non si fu seduta di nuovo e non ebbe mescolato il latte nel suo caffè. 
   Poi disse di no. 
- No. Non posso. E la ragione è che non intendo sconvolgerlo. 
- Crede che lo sconvolgerebbe? - domandò Grant sincero. 
- Sì. Certamente. Non si fa così. Portarlo a casa, per poi riportarlo indietro. Portarlo a casa, e riportarlo indietro, non farebbe altro che confonderlo. 
- Ma non capirebbe che si tratta solo di una visita? Non crede che potrebbe abituarsi? 
- Per capire, capisce tutto -. Queste parole furono pronunciate come se Grant avesse inteso offendere Aubrey. - Ma si tratta comunque di un'interruzione. Senza contare che dovrei prepararlo e metterlo in macchina, e lui è un uomo grande e grosso, non è facile da gestire come immagina. Devo trasferirlo di peso nell'auto e portarmi appresso la sedia a rotelle, e tutto questo per cosa? Se devo sobbarcarmi tanta fatica, preferisco farlo per andare in posti più divertenti. 
- Ma neanche se mi offrissi di farlo io? - disse Grant, sforzandosi di mantenere un tono ottimista e pacato. - Ha ragione, non è giusto che lei si affatichi. 
- Impossibile, - replicò lei senza scomporsi. - Lei non lo conosce. Non saprebbe come fare. Aubrey non accetterebbe di farsi aiutare da lei. E dopo tanti sforzi, lui che vantaggio ne avrebbe? 
   Grant non ritenne il caso di fare ancora il nome di Fiona. 
- Sarebbe più sensato portarlo al centro commerciale, - disse lei. - Almeno vedrebbe dei bambini e tutto il resto. Sempre che non si deprima pensando ai suoi due nipoti che non vede mai. Oppure, adesso che ricominciano le regate sul lago, potrebbe fargli piacere andare a guardarle. 
   Si alzò e prese sigarette e accendino dal davanzale della finestra sopra l'acquaio. 
- Lei fuma? - chiese. 
   No grazie, rispose lui, anche se non era certo che gli stesse in effetti offrendo una sigaretta. 
- Non ha mai fumato? O ha smesso? 
- Ho smesso, - disse. 
- Quanto tempo fa? 
   Grant ci pensò. 
- Trent'anni. Anzi, di più. 
   Aveva deciso di smettere più o meno quando aveva incominciato a frequentare Jacqui. Ma non ricordava se aveva smesso prima di incontrarla, e aveva quindi pensato che la rinuncia gli avesse fruttato una bella ricompensa, o se avesse deciso che era arrivato il momento di smettere, ora che disponeva di un diversivo tanto efficace. 
- Io ho smesso di smettere, - disse lei, accendendo la sigaretta. - Mi sono ripromessa di smettere di smettere, punto e basta. 
   Forse era quella la ragione di tante rughe. Qualcuno - una donna - gli aveva spiegato che le fumatrici sviluppano un particolare reticolo di rughe facciali sottilissime. Ma poteva anche essere colpa del sole, o semplicemente del suo tipo di pelle: aveva molte rughe anche sul collo. Collo vizzo, seni ancora alti e pieni. Le donne di quell'età mostrano spesso simili incongruenze. Il bello e il brutto, fortune e sciagure genetiche, tutto mescolato insieme. Pochissime mantengono intatta la propria bellezza, anche se sbiadita, come era successo a Fiona. 
   E forse neanche quello era vero. Forse la pensava così perché aveva conosciuto Fiona quando era giovane. 
Forse per avere quell'impressione occorreva aver conosciuto una donna da giovane. 
   Perciò, quando Aubrey guardava sua moglie, cosa vedeva? Una liceale sdegnosa e sfacciata, dai seducenti occhi a mandorla celeste uovo di pettirosso e dalle labbra carnose strette intorno allo scandalo di una sigaretta? 
- Mi diceva che sua moglie è depressa, - disse la moglie di Aubrey. - Come si chiama sua moglie? 
L'ho dimenticato. 
- Si chiama Fiona. 
- Fiona. E lei? Non credo di averlo mai saputo. 
   Grant disse: - Io sono Grant. 
   Lo stupì tendendogli la mano attraverso il tavolo. 
- Piacere, Grant. Io sono Marian. 
- E adesso che ci conosciamo per nome, - aggiunse, - tanto vale che le dica apertamente quello che penso. Non sono sicura che lui abbia ancora tutta questa voglia di rivedere sua... di rivedere Fiona. Forse sì, e forse no. Io non glielo chiedo, e lui non me lo dice. Forse è stata solo una simpatia passeggera. Ma non mi va di riportarlo laggiù per scoprire che magari era qualcosa di diverso. E’ un rischio che non mi posso permettere. Non voglio che diventi difficile da gestire. Non ho nessuna voglia di vederlo sconvolto e di sentire i suoi lamenti. Mi dà già abbastanza da fare così. Io non ho nessuno che mi aiuti. Ci sono soltanto io. 
Io e basta. 
- Ha mai considerato l'idea, lo so che è molto difficile per lei, - disse Grant, - l'idea che lui possa essere ricoverato per sempre? 
   Aveva abbassato la voce fino a ridurla praticamente a un sussurro, ma lei non parve sentire il bisogno di fare altrettanto. 
- No, - rispose. - Voglio tenerlo qui. 
   Grant disse: - Be'. E’ molto bello e nobile da parte sua. 
   Si augurò che il termine «nobile» non suonasse sarcastico. Non era sua intenzione esserlo.    - Dice? - ribatté lei. - La nobiltà mi pare che non c'entri per niente. 
- In ogni caso, facile non è. 
- No, è vero. Ma per come sono fatta, non ho alternative. Se lo porto laggiù, non ho i soldi per pagare la retta a meno di vendere la casa. La casa è tutto quello che abbiamo. Non dispongo di altre risorse. L'anno prossimo avrò la pensione, perciò oltre alla sua, ci sarà anche la mia, ma nemmeno così potrei permettermi di tenerlo in istituto senza dar via la casa. E per me significa tantissimo, la casa, intendo. 
- E’ molto graziosa, - disse Grant. 
- Insomma. Ci ho investito parecchio. Per metterla a posto e per tenerla in ordine. 
- Ne sono sicuro. Si vede. 
- Non voglio perderla. 
- No. 
- Non intendo perderla. 
- La capisco. 
- L'azienda ci ha lasciati senza un soldo, - proseguì lei. - Non conosco bene i dettagli, ma la sostanza è che l'hanno sbattuto fuori. Sono arrivati al punto di dire che era lui a dovere dei soldi a loro, e quando ho cercato di scoprire come stessero le cose lui mi ripeteva soltanto che non erano affari miei. Secondo me, doveva aver fatto qualche grossa stupidaggine. Ma dal momento che non mi è dato di chiedere, io sto zitta. E’ stato sposato anche lei. Lo è ancora, anzi. Perciò sa bene com'è. Mentre io sono lì che cerco di scoprire la verità, salta fuori che dobbiamo fare un viaggio insieme a certa gente con cui abbiamo preso un impegno. E durante il viaggio, lui si prende un virus mai sentito nominare ed entra in coma. E tanti saluti, a quel punto lui ha risolto il problema. 
   Grant commentò: - Che sfortuna. 
- Non voglio insinuare che si sia ammalato apposta. E’ successo e basta. Lui non ce l'ha più con me e io non ce l'ho più con lui. E’ la vita. 
- Proprio così. 
- Non c'è niente da fare. 
   Con il garbo sapiente di un gatto, si passò la lingua sul labbro superiore per raccogliere le briciole del biscotto. - A sentirmi parlare, sembro saggia come un filosofo, non trova? Là all'istituto mi hanno detto che lei insegnava all'università. 
- Un bel po' di tempo fa, sì, - disse Grant. 
- Io non sono granché come intellettuale, - disse lei. 
- Nemmeno io, credo. 
- Però so capire quando ho preso una decisione. E l'ho presa. Non intendo rinunciare alla casa. Il che significa che mi terrò Aubrey qui e non permetterò che si metta in testa di trasferirsi da un'altra parte. Probabilmente ho fatto un errore a portarlo laggiù per poter andar via, ma quella era la mia unica occasione e ho voluto coglierla. E’ andata così. Adesso ho imparato la lezione. 
   Estrasse dal pacchetto un'altra sigaretta. 
- Scommetto che so cosa sta pensando, - disse. - Lei sta pensando, Ecco un tipo davvero venale. 
- Non esprimo giudizi del genere. Questa è la sua vita. 
- Altroché. 
   Grant ritenne auspicabile chiudere l'incontro su toni meno accesi. Perciò le chiese se ai tempi del liceo suo marito avesse lavorato d'estate per un negozio di ferramenta. 
- Mai sentito niente del genere, - rispose lei. - Io non sono cresciuta da queste parti. 
   Tornando a casa, notò che la conca acquitrinosa fino a poco prima coperta di neve e segnata dalle sbarre d'ombra dei tronchi era adesso ravvivata da una folla di lysichiton americanum. Le fresche foglie carnose erano larghe come piatti. I fiori schizzavano dritti verso l'alto come fiamme di candele, e ce n'erano così tanti, di un giallo talmente puro da sembrare luci sprigionate dalla terra in quella giornata grigia. Fiona gli aveva raccontato che generavano anche calore. Frugando in una delle sue recondite fonti di informazione, diceva che in teoria si sarebbe potuto infilare la mano nell'involucro dei petali e percepire il calore. Disse di averci provato, ma di non essere certa se quel che aveva sentito fosse il fenomeno in sé o il frutto della sua immaginazione. Il calore attirava gli insetti. 
- La natura non perde tempo in decorazioni inutili. 
   Grant aveva fallito con la moglie di Aubrey. Marian. Aveva messo in conto l'ipotesi di una sconfitta, ma non era certo riuscito a prevederne le cause. Aveva immaginato di dover lottare soltanto con la comprensibile gelosia sessuale di una donna - o con il suo risentimento, con l'avanzo ostinato di una gelosia trascorsa.    Non aveva nemmeno lontanamente previsto il suo modo di vedere le cose. Eppure, per certi versi, quella conversazione gli era risultata tristemente familiare. Perché gliene ricordava di analoghe con i membri della sua famiglia. Alcuni zii, parenti, probabilmente perfino sua madre, avevano pensato proprio le stesse cose di Marian. Convinti che chi pensava diversamente si stesse solo prendendo in giro, che certe idee sognanti, certe stupidaggini dipendessero da vita e ambiente privilegiati e protetti. Dall'aver perso il contatto con la realtà. Le persone istruite, gli intellettuali, una determinata categoria di ricchi, tipo i suoceri progressisti di Grant, avevano perso il senso della realtà. A causa di un'immeritata fortuna o di un'innata idiozia. Nel suo caso, sospettava Grant, dovevano credere che si trattasse di entrambe. 
   E di sicuro lo vedeva così anche Marian. Un idiota, pieno di nozionismi tediosi, al riparo dalla verità della vita grazie alla buona sorte. Uno che non doveva preoccuparsi di conservare la propria casa e che poteva permettersi il lusso di coltivare i propri pensieri. Libero di fantasticare generose soluzioni che, a suo parere, avrebbero fatto felice un altro. 
   Uno stronzo, insomma, ecco cosa doveva pensare di lui. 
   Affrontare una persona di quel genere lo faceva sentire inerme, esasperato, praticamente privo di risorse. Perché? Perché non era sicuro di poter sostenere la propria causa con gente simile? Perché temeva che alla fine avrebbero avuto ragione loro? Fiona non si sarebbe lasciata sporaggiare. Nessuno riusciva a spiazzarla, a metterla alle corde, quando era ragazza. L'educazione di Grant la divertiva, riusciva a trovare bizzarri certi suoi cinismi. 
   Nonostante questo, c'era del vero nelle opinioni di quella gente. (Ora gli pareva di sentire se stesso discutere con qualcuno al riguardo. Con chi? Fiona?) Essere di vedute ristrette non manca di alcuni vantaggi. Probabilmente Fiona avrebbe saputo cavarsela bene in tempo di crisi. Adatta alla sopravvivenza, capace di procurarsi da mangiare a scrocco e di sfilare le scarpe a un cadavere per la strada. 
   Cercare di entrare nei pensieri di Fiona era sempre stata un'esperienza frustrante. Poteva ridursi alla sensazione di inseguire un miraggio. Anzi, di vivere un miraggio. Entrare in confidenza con Fiona creava poi un ulteriore problema. Era come affondare i denti in un frutto di litchi. In una polpa dallo strano aroma innaturale, dal sapore e profumo vagamente chimici, per incocciare subito nel seme sproporzionato, nel nocciolo. 
   Avrebbe potuto sposarla. Bastava pensarci un attimo. Avrebbe potuto sposare una ragazza così. Se fosse rimasto un po' più al suo posto. Doveva esser stata belloccia, con quel petto d'assalto. E probabilmente anche civetta. Quel suo agitarsi irrequieto sulla sedia di cucina, il broncio delle labbra, l'aria di malcelata insinuazione: palesi avanzi di una più o meno innocente volgarità da fraschetta di provincia. 
   Al momento di prendersi Aubrey doveva aver nutrito qualche speranza. Un bel ragazzo, il lavoro come commesso, la prospettiva di una carriera da impiegato. Probabilmente aveva creduto di fare una fine migliore di quella attuale. Succede piuttosto sovente alla gente dotata di senso pratico. A dispetto di tutti i loro calcoli, nonostante l'istinto di conservazione, spesso non arrivavano lontano quanto si aspettavano. E in effetti non sembrava giusto. 
   In cucina, la prima cosa che notò fu la luce lampeggiante della segreteria telefonica. Pensò quello che immancabilmente pensava. Fiona. 
   Schiacciò il tasto prima ancora di essersi tolto il cappotto. 
- Salve, Grant. Spero. Spero di parlare con la persona giusta. Mi è appena venuta un'idea. Sabato sera all'Associazione Ex Combattenti c'è una festa danzante per persone sole, e dal momento che faccio parte della commissione addetta alla cena, sì insomma, questo vuol dire che posso portare un ospite gratis. E mi chiedevo se le potesse interessare. Mi richiami se ha tempo. 
   Una voce femminile forniva poi un numero telefonico della zona. Seguiva il segnale acustico, subito dopo il quale la stessa voce riprendeva a dire: 
- Mi sono appena resa conto che non le ho detto chi sono. Be', probabilmente mi ha riconosciuta dalla voce. Sono Marian. Non sono ancora tanto abituata a questi aggeggi. Volevo soltanto dirle che so benissimo che lei non è solo e che non vorrei essere fraintesa. Non lo sono nemmeno io, ma uscire una volta ogni tanto non può far male a nessuno. Comunque, ora che ho detto tutto questo, spero proprio di aver parlato con lei. Mi è sembrata la sua, di voce. Se le interessa, mi può richiamare, altrimenti non è il caso che si disturbi. Ho solo pensato che magari le andava di uscire una volta. Io sono Marian. Ma credo di averlo già detto. Vabbè, arrivederci, allora. 
   La voce registrata era diversa da quella che aveva sentito poco prima in casa di lei. Una differenza lieve nel primo messaggio; più marcata nel secondo. Attraversata da un tremore nervoso, da un'affettata nonchalance, dalla fretta di concludere e dalla riluttanza a mettere giù. 
   Le era successo qualcosa. Ma quando? Se si era trattato di un cambiamento immediato, era riuscita a nasconderlo benissimo per tutto il tempo in cui erano stati insieme. Più probabile che fosse accaduto per gradi, forse dopo che lui era andato via. Non necessariamente un colpo di fulmine. Piuttosto, l'essersi resa conto che lui rappresentava una possibilità, un uomo solo. Più o meno solo. Una possibilità che tanto valeva non lasciarsi sfuggire. 
   Ma nell'atto di compiere la prima mossa si era spaventata. Si era esposta a un rischio. Fino a che punto, Grant non era ancora in grado di stabilirlo. Di solito, la vulnerabilità di una donna aumentava con il passare del tempo, con il progredire degli eventi. La sola certezza per Grant era che il suo eventuale vantaggio sarebbe cresciuto in seguito. 
   Gli faceva piacere - perché negarlo? - esser stato la causa di quel risveglio. Aver suscitato in lei una scintilla, un'increspatura sulla superficie della personalità. Aver percepito nella cadenza interlocutoria delle sue vocali l'ombra di una preghiera. 
   Tirò fuori uova e funghi per farsi un'omelette. Poi pensò di concedersi un drink. 
   Era tutto possibile. Sul serio? Era davvero tutto possibile? Ad esempio, se avesse voluto, sarebbe riuscito a farle cambiare idea, l'avrebbe saputa convincere a riportare Aubrey da Fiona? E non solo per brevi visite, ma per il resto della vita. Fin dove poteva condurli quel tremore? A un'inversione di rotta, all'annientamento della salvaguardia di sé? Alla felicità di Fiona? 
   Sarebbe stata una sfida. Una sfida e un gesto encomiabile. Oltre che un paradosso da non confidare a nessuno: e cioè che grazie a un comportamento scorretto avrebbe potuto fare del bene a Fiona. 
   Ma Grant non riusciva a concentrarsi davvero su questi pensieri. Se l'avesse fatto, avrebbe dovuto sforzarsi di immaginare cosa ne sarebbe stato di lui e di Marian, dopo il ritorno di Aubrey da Fiona. Non poteva funzionare - a meno di non ricavarne un piacere maggiore del previsto, a meno di non scoprire dentro la polpa soda del frutto il nocciolo di un tornaconto privo di colpa. 
   Con certe cose non si poteva mai dire. Ci si poteva fare un'idea, ma la certezza era esclusa. 
   Adesso lei doveva essere seduta in casa, in attesa della sua telefonata. Anzi, non seduta. Piuttosto alle prese con qualche lavoro, per mantenere la mente occupata. Sembrava il tipo di donna che si tiene occupata. Di sicuro la casa mostrava i benefici di un'attenzione instancabile. E poi c'era Aubrey: le cure da dedicargli non si potevano certo interrompere. Magari gli aveva servito la cena in anticipo, adeguando gli orari dei pasti alle abitudini di Lagoverde per prepararlo per tempo alla notte e liberarsi prima della routine giornaliera. (Che cosa intendeva fare di Aubrey, la sera in cui sarebbero andati al ballo? Poteva lasciarlo solo, o avrebbe dovuto chiamare qualcuno? Gli avrebbe detto dove stava andando, presentandogli il suo accompagnatore? 
Sarebbe stato quest'ultimo ad accollarsi le spese della persona che badava a lui?) 
   Forse aveva servito la cena a Aubrey mentre Grant si comprava i funghi e rientrava a casa in macchina. Forse ora lo stava preparando per andare a letto. Ma in ogni istante non l'avrebbe abbandonata il pensiero del telefono, del silenzio del telefono. Magari aveva calcolato il tempo necessario a Grant per rincasare. L'indirizzo sulla guida telefonica poteva averle dato un'idea approssimativa del posto dove abitava. Poteva aver calcolato la distanza, e poi aggiunto qualche minuto per un'eventuale spesa per la cena (immaginando che un uomo solo si riducesse a fare la spesa ogni giorno). Poi ancora qualche minuto, prima di ascoltare i messaggi in segreteria. Infine, con il persistere del silenzio, avrebbe inventato qualcos'altro. Altre commissioni da fare sulla via di casa. O magari un pasto fuori, un appuntamento che avrebbe significato non rientrare affatto per l'ora di cena. 
   Sarebbe rimasta in piedi fino a tardi, a lustrare i mobiletti della cucina, a guardare la televisione, senza mai smettere di domandarsi se c'era ancora speranza. 
   Che presunzione da parte sua. Quella era prima di tutto una donna di buonsenso. Sarebbe andata a dormire alla solita ora, dicendosi che in ogni caso lui non dava l'idea di essere un ballerino decente. Troppo impettito, troppo sulle sue. 
   Grant restò accanto al telefono, a sfogliare riviste, ma quando l'apparecchio squillò di nuovo, non sollevò la cornetta. 
   - Grant. Sono Marian. Sono scesa per mettere il bucato nell'asciugatrice e ho sentito il telefono, ma quando sono salita chiunque fosse aveva già riagganciato. così mi è sembrato di doverle far sapere che sono qui. Sempre che fosse lei, sempre che lei sia almeno in casa. Perché ovviamente io non ho segreteria, perciò non potrebbe lasciarmi un messaggio. E così volevo. Solo farle sapere. 
   Arrivederci. 
   Intanto erano le dieci e venticinque.    Arrivederci. 
   Poteva dire di essere appena rientrato. Inutile metterle in testa l'immagine di lui seduto accanto al telefono, a valutare i pro e i contro. 
   Drappi. Ecco la parola per quelle tende azzurre: drappi. E perché no? Ripensò ai biscotti allo zenzero talmente perfetti che si era sentita in dovere di specificare di averli fatti in casa, ai boccali da caffè sul loro tronco di ceramica. Una guida di gomma, ne era sicuro, per proteggere la moquette. Una precisione sfavillante e una praticità che sua madre non era mai riuscita a ottenere ma che avrebbe molto ammirato - forse era questo a fargli provare uno slancio emotivo bizzarro e inaffidabile? O erano i due drink che aveva scolato dopo il primo? 
   L'abbronzatura color mallo di noce - ormai era certo che di abbronzatura si trattasse - su faccia e collo di Marian doveva proseguire nella fossa tra i seni, profonda, avvizzita, calda e odorosa. A questo pensava, mentre componeva il numero che si era già annotato. A questo e alla sensualità efficace della sua lingua da gatto. Ai suoi occhi di pietra dura. 
   Fiona era in camera, ma non a letto. Sedeva accanto alla finestra aperta con indosso un vestito adatto alla stagione ma stranamente corto e sgargiante. 
   Dalla finestra entravano folate impetuose e tiepide di lillà in fiore e del concime sparso sui campi. 
   Aveva un libro aperto sulle ginocchia. 
   Disse: - Guarda che libro stupendo ho trovato, parla dell'Islanda. Chi andrebbe a immaginare che qualcuno possa lasciare libri di valore in giro per queste stanze. Non è detto che la gente qui dentro sia onesta per forza. E secondo me fanno anche confusione con i vestiti. Quando mai io mi sono vestita di giallo? 
- Fiona... - disse lui. 
- Sei stato via molto. Adesso ti sei sistemato? 
- Fiona, ti ho portato una sorpresa. Ti ricordi di Aubrey? 
   Lei lo fissò per un attimo, come se il vento le soffiasse raffiche d'aria in faccia. In faccia e dentro la testa, facendo a brandelli ogni cosa. 
- I nomi mi sfuggono, - rispose brusca. 
   Poi la durezza nel suo sguardo svanì, sostituita, non senza sforzo, da una grazia scherzosa. Depose il libro con cura, si alzò e sollevò le braccia per abbracciarlo. Dalla sua pelle, o dal fiato, veniva un sentore nuovo, che gli ricordò quello di steli recisi lasciati troppo a lungo nell'acqua. 
- Sono contenta di vederti, - disse, tirandogli i lobi delle orecchie. 
- Per quanto ne sapevo potevi essere semplicemente sparito, - disse. - Potevi essere montato in macchina senza un pensiero al mondo e avermi lasciata qui. Abbandonata. 
   Lui appoggiò la faccia ai capelli bianchi di lei, alla cute rosa, alla dolce curva del cranio. - Mai e poi mai, - disse.