domenica 9 febbraio 2025

TRUMP LA CURA CHE NON CI PIACE Alessandra Libutti

 


TRUMP LA CURA CHE NON CI PIACE

Alessandra Libutti

Trump è la cura che non ci piace ma gli altri negavano la malattia  

[...] dopo anni di imposizioni ideologiche, di paura di parlare, di silenzio forzato per evitare accuse, ci ritroviamo con Trump, il reset brutale e incontrollato. Non perché fosse inevitabile, ma perché nessuno ha voluto fermarsi prima, nessuno ha voluto chiedersi dove fosse il limite tra progresso e autodistruzione. Ora quel limite è stato superato, e la reazione è arrivata. E, come sempre accade, sarà più dura di quanto sarebbe mai stata necessaria.[...]

Donald Trump è la cura che non ci piace alle numerose malattie della globalizzazione. I suoi metodi fanno rabbrividire, il suo modo di comunicare suscita sdegno, e la sua figura è quanto di più lontano si possa immaginare dall’idea di uno statista rispettabile. È disonesto, non solo nelle sue dichiarazioni, ma nella costruzione stessa della sua immagine politica, plasmata più sulla percezione che sulla realtà. L’etica gli è estranea, il concetto di verità è per lui uno strumento di potere da piegare a seconda della necessità del momento. Mente in modo spudorato, usa la manipolazione come metodo, gioca con la paura e il risentimento per mobilitare le masse, riducendo ogni questione politica a una battaglia tra “noi” e “loro”.

Perfino il nuovo ordine a cui aspira è inquietante: un mondo in cui le alleanze storiche sono destabilizzate, i principi democratici ridotti a formalità, e il potere è riservato a chi sa giocare meglio il gioco della forza e dell’inganno. Trump non cerca di preservare il sistema, lo usa e lo distrugge allo stesso tempo. Dove prima c’era diplomazia, lui mette minacce; dove prima c’era stabilità, lui semina caos, sapendo che nell’incertezza può prosperare.

Eppure, piaccia o meno, è emerso come una cura, perché tutte le altre forze politiche hanno negato la malattia. Trump è stato l’unico a offrire una diagnosi, per quanto distorta e brutale, presentando verità scomode. Gli altri si sono limitati a difendere lo status quo, a negare il disagio, a trattare il malessere diffuso come un fastidio irrilevante o, peggio, come un fenomeno da reprimere o condannare.

Trump più che la soluzione è il sintomo del fatto che qualcosa non funziona più. È il prodotto di un’epoca in cui si è ficcata la testa sotto la sabbia e preteso che tutto funzionasse.

L’Onu

I malanni della globalizzazione sono molteplici, e comincerei forse dal più drammatico: la progressiva erosione delle istituzioni internazionali, con le Nazioni Unite in testa. Nate dalle macerie della Seconda guerra mondiale, quando il mondo era diviso in blocchi e l’ordine internazionale era regolato da equilibri chiari, il sistema si è rivelato incapace di adattarsi al nuovo scenario. Il fallimento di riformarle dopo la fine della Guerra Fredda, di ridefinirne il ruolo e di trasformarle in uno strumento adatto a un mondo multipolare, ha segnato l’inizio della sua lenta ma inesorabile decadenza.

Col passare degli anni, le Nazioni Unite si sono trasformate in un’arena sempre più imparziale, non nel senso positivo del termine, ma in quello più cinico e pericoloso: ha perso la capacità di distinguere tra democrazie e dittature, tra aggressori e vittime, tra chi rispetta le regole internazionali e chi le calpesta impunemente. Invece di un organismo capace di mediare conflitti, mantenere la pace e far rispettare il diritto internazionale, è diventato uno strumento di legittimazione per i regimi più autoritari del pianeta. Stati che non hanno mai rispettato alcuna libertà fondamentale siedono nei consigli per i diritti umani, dittature teocratiche decidono il futuro delle donne, e intere commissioni sono controllate da paesi che usano il sistema ONU per difendere i loro interessi geopolitici anziché i principi su cui era stato fondato.

A peggiorare il quadro, le Nazioni Unite sono diventate un veicolo ideologico piuttosto che un garante dell’ordine mondiale. Risoluzioni su questioni internazionali vengono approvate non in base a principi di giustizia e sicurezza, ma in base alle maggioranze politiche create da alleanze di convenienza. Le democrazie liberali si trovano spesso isolate, mentre blocchi di nazioni autoritarie e regimi corrotti usano l’ONU per promuovere la propria agenda e ottenere legittimazione internazionale. E poi c’è la corruzione. Dagli scandali sui fondi umanitari usati dal terrorismo, alla gestione opaca di missioni di pace fallimentari, fino al ruolo ambiguo di molte agenzie specializzate come l’UNRWA di cui Hamas si è servito come risorsa e arma contro Israele o UNIFIL che lasciava Hezzbollah lanciare razzi a pochi metri dalle basi.

Con l’uscita degli USA e di Israele dall’UNHCR, il suo discorso su Gaza-a-Mar e la cancellazione di USAID, Trump ha scrostato via la ruggine, rivelando strati e strati di verità scomode e facendo crollare un intero sistema. Un sistema che, per anni, era stato venduto come l’architrave morale della comunità internazionale, ma che col tempo si era trasformato in un gigantesco apparato distorto, in cui buone intenzioni e corruzione, principi e ipocrisia, aiuti umanitari e manipolazione politica si intrecciavano senza più confini.

Quel sistema era tutto sbagliato? No, naturalmente. Il suo principio era giusto, e le sue cause nobili e necessarie. Ha salvato vite, garantito assistenza, sostenuto popolazioni in difficoltà. Ma poi? Poi è diventato un albero malato, sfruttato da regimi autoritari, burocrazie senza scrupoli e ONG trasformate in feudi politici. Anno dopo anno, l’ideale umanitario è stato eroso dal cinismo, la neutralità è diventata complicità, e gli strumenti della cooperazione sono stati piegati agli interessi di chi li sapeva usare meglio. E così, anziché curare l’albero, lo si è lasciato marcire. Non solo non si è affrontata la malattia, ma la si è negata, finché il tronco è crollato. A spingerlo giù, con la sua brutalità e il suo stile iconoclasta, è stato Trump. La cura che non ci piace, ma l’unica che si sia presentata. E come sempre, il prezzo lo pagheranno coloro che erano i legittimi destinatari degli aiuti.

Avremmo voluto un’altra soluzione? Senza dubbio. Avremmo preferito che il sistema fosse riformato, che ritrovasse la sua funzione originaria, che potesse continuare a dare frutti invece di marcire. Ma nessuno ha voluto prendersi la responsabilità di farlo, nessuno ha avuto il coraggio di mettere mano alle fondamenta, di riconoscere che qualcosa era andato storto. E allora eccoci qui. Trump non è la soluzione che avremmo voluto, ma è quella con cui dobbiamo fare i conti. 

L’immigrazione

E poi c’è l’immigrazione. Con quale logica si poteva continuare a pensare di accogliere tutti, senza limiti, senza una strategia, senza chiedersi quale fosse il punto di rottura di un sistema che già mostrava crepe profonde? Per quanto tempo si poteva insistere su quella retorica colpevolizzante, secondo cui se noi stavamo bene e loro male, era colpa nostra, e dunque dovevamo fare qualcosa, qualunque cosa, senza mai porci la domanda su quanto fosse sostenibile?

Si è martellato per anni con l’idea che tutti i mali del mondo fossero frutto dell’Occidente, che ogni guerra, ogni fallimento economico fosse nostra responsabilità. E sulla base di questa premessa distorta, si è giustificato l’ingresso di masse intere, spesso senza criteri, senza verifiche, senza un piano per l’integrazione. Si è creduto che bastasse la buona volontà, che la diversità fosse automaticamente un valore positivo, che fosse razzista anche solo porsi la domanda su come rendere sostenibile il fenomeno.

Ma per quanto tempo si poteva pensare che le nostre società avrebbero accettato passivamente il cambiamento radicale del proprio tessuto sociale? Per quanto tempo si poteva ignorare il malcontento crescente davanti a comunità sempre meno integrate, a quartieri trasformati in enclave culturali separate, a seconde e terze generazioni che invece di sentirsi parte del Paese che le ha accolte, sfilano nelle piazze dicendo di odiarci? Era inevitabile che, prima o poi, qualcuno ascoltasse quel disagio, che desse voce a chi non si riconosceva più nella narrazione ufficiale, a chi chiedeva regole, controllo, un freno. 

Il woke e il DEI

E non mi dilungherò neanche troppo sul woke e sul DEI (Diversity, Equity, Inclusion), su cui ho già scritto e riscritto. Per troppo tempo sono stati intoccabili, immuni da ogni critica, trasformati in dogmi ideologici che non si potevano discutere, pena l’essere etichettati come reazionari, retrogradi o peggio razzisti e transfobici. Chi osava mettere in discussione certe derive veniva immediatamente ridicolizzato, silenziato o ostracizzato. Ancora oggi, c’è chi nega l’evidenza, chi cerca di liquidare tutto questo come una fantasia della destra, una teoria del complotto alimentata da conservatori paranoici. Eppure, basta guardarsi intorno per vedere quanto il fenomeno sia penetrato in ogni ambito della società, dalle università alle aziende, dall’intrattenimento alla politica. Un’ideologia che si spaccia per inclusiva, ma che di fatto crea nuove forme di esclusione, un pensiero che si proclama liberatorio, ma che impone censura e conformismo, un sistema che doveva garantire merito e opportunità, ma che ha finito per alimentare divisione e risentimento.


Per troppo tempo si è fatto finta di nulla, si è lasciato che il paradosso si ingigantisse, che il buonsenso venisse sepolto sotto montagne di correttezza politica. Ma il problema, come sempre, è che quando si nega la realtà troppo a lungo, la realtà torna a bussare con forza doppia. E chiunque abbia ignorato le crepe, ora si trova di fronte al crollo. E allora ci tocca Trump, la cura che non ci piace, quella che forse ci farà tornare indietro di decenni. Perché, intendiamoci, tolleranza e inclusione sono valori sacrosanti, principi che dovrebbero guidare ogni società civile. Ma fino a che punto era possibile spingere un’ideologia senza domandarsi quanto una società potesse assorbire il cambiamento senza disgregarsi?

Non si è mai voluto affrontare la questione di fondo: quando la diversità diventa frammentazione? Quando l’inclusione diventa imposizione? Quando l’idea di “decostruire” la società per renderla più equa si trasforma nella distruzione delle sue fondamenta? Si è creduto che si potesse ridefinire ogni valore, ogni gerarchia, ogni tradizione, senza conseguenze. Che si potesse riprogrammare un’intera civiltà, senza mai considerare la resistenza naturale di una cultura a essere riscritta dall’alto.

Il problema è che il caos culturale spaventa più del peggiore dei nemici. Le società possono tollerare la crisi economica, possono persino sopportare conflitti e instabilità politica, ma quando non riconoscono più se stesse, quando i loro valori vengono sovvertiti troppo in fretta, il risultato è sempre lo stesso: un’ondata di rigetto, un ritorno violento all’ordine, spesso nelle forme più radicali.

E così, dopo anni di imposizioni ideologiche, di paura di parlare, di silenzio forzato per evitare accuse, ci ritroviamo con Trump, il reset brutale e incontrollato. Non perché fosse inevitabile, ma perché nessuno ha voluto fermarsi prima, nessuno ha voluto chiedersi dove fosse il limite tra progresso e autodistruzione. Ora quel limite è stato superato, e la reazione è arrivata. E, come sempre accade, sarà più dura di quanto sarebbe mai stata necessaria.