martedì 25 febbraio 2025

I TESTAMENTI TRADITI Milan Kundera



I TESTAMENTI TRADITI

 Milan Kundera 

Recensione

[...] Da sempre detesto, profondamente, violentemente, quelli che in un’opera d’arte vogliono trovare una posizione (politica, filosofica, religiosa, ecc.), invece di cercarvi una intenzione di conoscere, di capire, di cogliere questo o quell’aspetto della realtà[...].

In questo saggio, Kundera espone le sue riflessioni sul come e sul perchè certi romanzieri siano stati "traditi" da biografi, traduttori, critici e studiosi in genere, lasciando poi che questo tradimento si diffondesse su tutta la loro opera e ne travisasse le intenzioni. Il romanzo, sottolinea Kundera, è un’opera d’arte che deve accrescere la conoscenza, ma il modo in cui si raggiunge questo obiettivo è prettamente ironico, discreto, a volte ambiguo (tutte caratteristiche dell’ironia); non deve esporre tesi, né sistemi, perché il romanzo deve proporre delle chiavi di interpretazione di noi stessi e della realtà che ci circonda, ma non imporre verità assolute. Se si dimentica questo, si "tradisce" l’autore. Così è stato tradito Kafka dal suo amico Brod, che ha fatto pubblicare anche le opere che l’autore avrebbe voluto far distruggere. Così è stato tradito Nietzsche, la cui opera, anche se al di fuori del romanzo, è stata sistematizzata in un tutt’uno, in qualcosa di compatto che, nelle intenzioni originarie, doveva restare a livello di intuizione. Così è stato tradito Hemingway, riletto in chiave moraleggiante dal suo più famoso studioso, Jeffrey Meyers, che ha attribuito valore biografico a tutti i suoi romanzi e racconti, snaturandone la carica narrativa. Così è stato tradito Rushdie, sull’onda del risentimento islamico che ha limitato la sua opera a libello polemico mettendone da parte tutti gli aspetti fantastici. E così continuano ad essere traditi i romanzieri quando i loro libri vengono tradotti in altre lingue: il lettore finale, abituato ad un certo stile, diventa il tiranno cui i traduttori si sforzano di sottostare, rispettando modelli e metafore diffusi nella lingua locale, perdendo gli aspetti di originalità che sono tipici degli autori più originali.

L’opera d’arte, sia essa un romanzo o una sinfonia, deve vivere da sè: non si può legarla alla biografia dell’autore, né leggerla solo alla luce delle ideologie vigenti nel tempo in cui è stata scritta, perchè gli esempi degli autori traditi, per quanto lungo, è in continua espansione: Brecht, Thomas e Heinrich Mann, Musil, Hamsun, Heidegger, Nietzsche, Céline, Pirandello, Ezra Pound, Gor’kij, Breton, Malraux e molti altri sono stati tutti etichettati dalla dittatura dell’opinione pubblica dominante in un dato momento.

Secondo Kundera, bisogna ripensare al ruolo dell’autore nel mondo contemporaneo; il rispetto che una volta si provava nei confronti dei romanzieri, si sta sfaldando e tutto sottosta ad un’Opinione Pubblica che si fa giudice, che decide se ascoltare un’opera di Brahms per la pubblicità di una carta igienica o se leggere le lettere private che Kafka non avrebbe voluto esporre ad occhi estranei; come se gli artisti non fossero più esseri umani, ma oggetti.

Recensione

Valentino Sossella

Questo volumetto è una dichiarazione d'amore di Kundera per la musica e il romanzo. 

Con il consueto spirito illuminista, procedendo con ragionamenti ben argomentati, usando un tono colloquiale ed elegante, alieno da oscurità e sofismi, lo scrittore ceco riempie il libro di intelligenti e sottili considerazioni sull'arte, l'estetica, la cultura occidentale, la modernità. 

Dissemina, poi, qui e là il testo di illuminanti e preziose chiose alla sua stessa opera narrativa. Molte le pagine dedicate agli autori preferiti: Rabelais, Broch, Kafka, Hemingway, Fuentes, Rushdie, Mann, Musil, Joyce, ma anche i russi per la letteratura; Janacek, Bach, Schonberg, Stravinskij per la musica.

"Oggi la società occidentale è solita presentarsi come quella dei diritti dell'uomo; prima di poter rivendicare dei diritti , però, l'uomo aveva dovuto costituirsi come individuo, considerare se stesso in quanto tale ed essere considerato in quanto tale; questo in Europa non sarebbe mai accaduto senza una lunga pratica delle arti e in particolare del romanzo che insegna al lettore a essere curioso dell'altro da sé e a cercare di capire verità diverse dalle sue. In questo senso Cioran ha ragione a definire la società europea come 'società del romanzo' e a parlare degli europei come dei 'figli del romanzo'".

"Che cos'è un individuo? in che cosa consiste la sua identità? Tutti i romanzi cercano di dare una risposta a queste domande. E in effetti, cos'è che definisce un io? Quello che fa, le sue azioni? Ma l'azione sfugge al suo autore, rivoltandosi quasi sempre contro di lui. La sua vita intima, allora, i pensieri, le emozioni segrete? Ma un uomo è in grado di capire se stesso? I suoi pensieri segreti possono davvero fornire la chiave della sua identità? Oppure ciò che definisce l'uomo è la sua visione del mondo, le sue idee, la sua Weltanschauung? E' questa l'estetica di Dostoevskij: ciascuno dei suoi personaggi obbedisce a una originalissima ideologia personale in base alla quale agisce con logica inflessibile(...). Alla ricerca di un tale fondamento - una ricerca interminabile - Thomas Mann ha dato un contributo assai importante: noi crediamo di agire, egli afferma, crediamo di pensare, ma è un altro o sono altri ad agire e a pensare in noi: abitudini ancestrali, archetipi tramandati sotto forma di miti da una generazione all'altra; e sono questi archetipi, dotati di una immensa forza di attrazione, che dal fondo di quello che Mann definisce "il pozzo del passato" continuano a governarci".

"E' impossibile andare più lontano di quanto ha fatto Kafka nel Processo; egli ha creato l'immagine estremamente poetica del mondo estremamente apoetico. Con 'mondo estremamente apoetico' intendo: il mondo in cui non c'è più posto per la libertà individuale, per l'originalità di un individuo, il mondo in cui l'uomo è ormai solo uno strumento di forze extraumane: della burocrazia, della tecnica, della storia".

Kundera sottolinea che nella storia del romanzo è racchiuso il più grande tesoro della sapienza esistenziale; considera la più alta evoluzione estetica del romanzo quel moderno mescolare la realtà alla fantasia, che vede Kafka anticipatore e innovatore. Esalta l'humour, la grande invenzione dello spirito moderno, contesta l'importanza accordata dalle arti al sentimento, riabilitando il pensiero, sperimentale come quello di Nietzsche, asistematico e indisciplinato, capace di indurre a pensare; loda quella critica letteraria che, sganciata dalle novità, non teme di recensire opere nate un anno, trent'anni, trecento anni fa; ci chiede di essere indulgenti verso quegli artisti che sembrano aver fatto, a volte, scelte politiche ed esistenziali discutibili, perché la propria vita ha luogo nel presente e il presente per ciascuno di noi è avvolto nella nebbia. Poche concessioni invece per quei traduttori che, per vanità personale, distorcono i testi originali.

Un libro, dunque, da consultare per incrementare la propria sensibilità letteraria e la propria capacità di comprensione dei testi; una opportunità che Kundera ci offre di rileggere insieme a lui capolavori apprezzati superficialmente a causa della fretta e della distrazione. Un libro, quello di Kundera, che si legge (e rilegge) volentieri anche per la piacevolezza della scrittura, opera di un narratore fra i più importanti dell'ultimo secolo, prima ancora che critico eccelso.


I TESTAMENTI TRADITI 

PARTE PRIMA

IL GIORNO IN CUI PANURGE NON FARÀ PIÙ RIDERE

L’invenzione dello humour

Gargamella, che era incinta, mangiò tanta di quella trippa che dovettero somministrarle uno «stringitivo»; questo era così forte che i lobi placentari si rilasciarono, sicché il feto di Gargantua si infilò in una vena cava, risalì e uscì da un orecchio della madre. Fin dalle prime frasi il libro gioca a carte scoperte: ciò che qui si racconta non è serio: in altre parole: qui non si enunciano verità (scientifiche o mitiche), né ci si impegna a descrivere i fatti quali realmente sono.

Tempi felici, quelli di Rabelais: la farfalla del romanzo prende il volo portandosi ancora addosso i brandelli della crisalide. Se Pantagruele con la sua figura da gigante appartiene ancora al passato dei racconti fantastici, Panurge arriva dal futuro allora ignoto del romanzo. L’evento eccezionale che è la nascita di una nuova arte conferisce al libro di Rabelais una incredibile ricchezza; vi si trova di tutto: il verosimile e l’inverosimile, l’allegoria e la satira, i giganti e gli uomini normali, gli aneddoti, le meditazioni, i viaggi reali e quelli fantastici, le dispute erudite e le digressioni di puro virtuosismo verbale. Il romanziere di oggi, erede dell’Ottocento, prova nostalgia e invidia per l’universo splendidamente eteroclito dei primi romanzieri e per la gioiosa libertà di cui godevano.

Se nelle prime pagine del suo libro Rabelais scaraventa Gargantua sulla scena del mondo facendolo passare dall’orecchio della madre, Salman Rushdie non è da meno: dopo l’esplosione in volo del loro aereo i due eroi dei Versetti satanici precipitano senza smettere di chiacchierare e di cantare, comportandosi insomma in maniera comica e improbabile. Mentre « sopra, dietro, sotto di loro penzolavano in quel vuoto» sedili reclinabili, bicchieri di carta, maschere a ossigeno e passeggeri, uno dei due, Gibreel Farishta, nuotava «nell’aria, a farfalla, a rana, e si raggomitolava come una palla, e di nuovo apriva gambe e braccia sullo sfondo quasi infinito della quasi alba» e l’altro, Saladin Chamcha, era come «un’ombra schizzinosa che stava cadendo a testa in giù in un vestito grigio con tutti i bottoni della giacca allacciati e le braccia lungo i fianchi, e dava per scontata l’improbabilità della bombetta che portava in testa». Con questa scena si apre il romanzo, poiché Rushdie, al pari di Rabelais, sa che fra romanziere e lettore i patti devono essere chiari fin dall’inizio: le cose qui narrate, per quanto terribili possano essere, non sono serie.

Il connubio del non serio e del terribile: nel quinto capitolo del libro IV Pantagruele e i suoi compagni incontrano in mare aperto una nave carica di mercanti di montoni; uno di essi, vedendo Panurge con la bottega aperta e gli occhiali legati sulla berretta, si sente autorizzato a fare lo spiritoso e gli dà del cornuto. Panurge si vendica subito: gli compra un montone e lo butta a mare; sicché gli altri montoni, abituati ad andar dietro al primo della fila, cominciano a buttarsi in acqua uno dopo l’altro. Presi dal panico, i mercanti li afferrano per il vello o per le corna e finiscono anche loro in mare. Panurge allora brandisce un remo, non per trarli in salvo, ma per impedire loro di arrampicarsi sulla nave, e si esibisce in una predica eloquente mostrando loro le miserie di questo mondo, la felicità e beatitudine dell’altra vita, e affermando che sono molto più felici i trapassati che non i vivi. Senza mancare però di augurar loro, nel caso in cui preferissero restare ancora fra gli uomini, la fortuna di incontrare qualche balena come accadde a Giona. Quando sono tutti affogati, il buon fra’ Giovanni si complimenta con Panurge e lo rimprovera solo di aver pagato il mercante, sperperando così inutilmente del denaro. E Panurge: «Poter di Dio, mi sono divertito per più di un milione! ».

La scena è irreale, impossibile; ma ha almeno una morale? Rabelais intende forse denunciare l’avidità dei mercanti, della cui punizione dovremmo quindi rallegrarci? o vuole suscitare la nostra indignazione contro la crudeltà di Panurge? o ancora, da buon anticlericale, mette in ridicolo le banalità devote predicate da Panurge? A voi la risposta! Ma qualunque sia rischiate di prendere un granchio.

«Né Omero né Virgilio conoscevano lo humour;» scrive Octavio Paz «l’Ariosto sembra averne un presentimento, ma esso prende forma solo con Cervantes». E conclude: «Lo humour è la grande invenzione dello spirito moderno». Idea fondamentale, questa: anziché un’ancestrale pratica del mondo umano, lo humour è una invenzione legata alla nascita del romanzo. È quindi ben diverso dal riso, dalla beffa, dalla satira, ma è una particolare specie di comicità, la quale, come afferma ancora Paz (ed è questa la chiave per cogliere l’essenza dello humour), «rende ambiguo tutto ciò che tocca». Chi non riesce a trovare divertente la scena in cui Panurge lascia affogare i mercanti di montoni cantando loro le lodi dell’altra vita non capirà mai niente dell’arte del romanzo.

Il territorio in cui è sospeso ogni giudizio morale

Se mi chiedessero qual è la causa più frequente dei malintesi fra me e i miei lettori, risponderei senza esitazioni: è lo humour. Vivevo in Francia da poco tempo ed ero tutt’altro che indifferente agli elogi. Un luminare della scienza medica a cui era piaciuto Il valzer degli addii espresse il desiderio di incontrarmi, la cosa mi lusingò non poco. Per cominciare definisce profetico il mio romanzo; afferma che attraverso il personaggio del dottor Skreta, il medico di una località termale, che cura donne solo in apparenza sterili iniettando loro surrettiziamente il proprio sperma mediante una speciale siringa, io ho affrontato il grande problema del futuro. Poi mi invita a un dibattito sull’inseminazione artificiale. Tira fuori dalla tasca un foglio di carta e mi legge una prima stesura del suo intervento. La donazione di sperma deve essere anonima, gratuita e (qui mi guarda dritto negli occhi) motivata da un triplice amore: quello per l’ovulo sconosciuto che vuol compiere la propria missione; quello del donatore per la propria individualità che la donazione stessa è destinata a prolungare; e infine quello per una coppia che soffre a causa di quel desiderio irrealizzato. Tuttavia, e qui mi guarda negli occhi una seconda volta, malgrado tutta la stima che ha per me, si prende la libertà di rivolgermi una critica: non sono riuscito a esprimere in maniera abbastanza efficace la bellezza morale della donazione di sperma. Io mi schermisco: il mio è un romanzo comico! Il mio dottor Skreta è un burlone! Non bisogna prendere tutto così sul serio! Intende dire, insinua lui diffidente, che i suoi romanzi non vanno presi sul serio? Io comincio a confondermi - poi d’un tratto capisco: non c’è cosa più difficile che cercare di spiegare lo humour.

Sempre nel libro IV di Gargantua e Pantagruele si scatena un uragano. Tutti sono sul ponte e si adoperano per salvare la nave. Solo Panurge, paralizzato dalla paura, passa il tempo a disperarsi: i suoi lamenti vanno avanti per pagine e pagine. Appena l’uragano si placa riprende animo e si mette a rimproverare gli altri per la loro inerzia. Ed ecco la stranezza: non soltanto questo guitto, quest’uomo vile, bugiardo e scansafatiche non suscita in noi alcuna indignazione, ma più lui le spara grosse più noi lo troviamo simpatico. Sono proprio queste le pagine in cui il libro di Rabelais diventa pienamente e radicalmente romanzo: in altre parole: territorio in cui è sospeso ogni giudizio morale.

Sospendere il giudizio morale non costituisce l’immoralità del romanzo bensì la sua morale. Una morale che si contrappone alla inveterata pratica umana che consiste nel giudicare subito e di continuo tutto e tutti, nel giudicare prima di e senza aver capito. Dal punto di vista della sapienza del romanzo, questa fervida disponibilità a giudicare è la più esecrabile sciocchezza, il peggiore di tutti i mali. Non che il romanziere contesti in assoluto la legittimità del giudizio morale, ma egli si limita a spostarlo oltre i confini del romanzo. Detto questo, siete liberi di condannare Panurge per la sua viltà, di mettere sotto accusa Emma Bovary e Rastignac, sono affari vostri; il romanziere non c’entra.

La creazione dell’ambito immaginario in cui viene sospeso il giudizio morale fu un evento di portata immensa: soltanto all’interno di tale ambito possono infatti esprimersi appieno i personaggi romanzeschi, che non sono stati concepiti in funzione di una verità preesistente, come esempi del bene o del male o incarnazioni di leggi oggettive in contrasto fra loro, ma sono esseri autonomi fondati sulla propria morale, sulle proprie leggi. Oggi la società occidentale è solita presentarsi come quella dei diritti dell’uomo; prima di poter rivendicare dei diritti, però, l’uomo aveva dovuto costituirsi come individuo, considerare se stesso in quanto tale ed essere considerato in quanto tale; questo in Europa non sarebbe mai accaduto senza una lunga pratica delle arti e in particolare del romanzo che insegna al lettore a essere curioso dell’altro da sé e a cercare di capire verità diverse dalle sue. In questo senso Cioran ha ragione a definire la società europea come «società del romanzo» e a parlare degli europei come dei «figli del romanzo».

Profanazione

La «sdivinizzazione» del mondo (Entgötterung) è uno dei fenomeni che caratterizzano i Tempi moderni. La parola sdivinizzazione non è sinonimo di ateismo, essa indica la situazione in cui l’individuo, l’io pensante, si sostituisce a Dio come fondamento di tutte le cose. L’uomo può continuare ad aver fede, a inginocchiarsi in chiesa, a dire le sue preghiere prima di addormentarsi, d’ora in poi la sua religiosità apparterrà soltanto al suo universo soggettivo. Dopo aver descritto questa situazione, Heidegger conclude: «Così gli dèi finirono per andarsene. Il vuoto lasciato da loro viene colmato dall’esplorazione storica e psicologica dei miti ».

Esplorare storicamente e psicologicamente i miti e i testi sacri vuol dire: renderli profani, profanarli. Profano deriva dal latino: profanum: il luogo davanti al tempio, fuori del tempio. La profanazione consiste dunque nell’aver spostato il sacro fuori del tempio, in una sfera esterna alla religione. E poiché il riso, per quanto invisibile, aleggia costantemente sul romanzo, la profanazione romanzesca è la peggiore di tutte. Perché religione e humour sono incompatibili.

Giuseppe e i suoi fratelli, la tetralogia scritta da Thomas Mann fra il 1926 e il 1942, è per eccellenza una «esplorazione storica e psicologica» dei testi sacri, i quali, una volta esposti con il tono amabile e sublimemente tedioso di Mann, perdono ogni sacralità: Dio, che nella Bibbia esiste fin dall’origine dei tempi, diventa qui una creazione umana, è Abramo a inventarlo e a trarlo dal caos politeista, dapprima come deità superiore, per poi farne l’Unico; Dio, consapevole di dovere a lui la propria esistenza, esclama allora: « È incredibile sino a che punto mi conosce questa misera creatura. Non è forse grazie a lui che comincio a farmi un nome? In verità, voglio ungerlo». Ma c’è di più: Mann sottolinea come il suo sia un romanzo umoristico. Le Sacre Scritture diventano così un testo comico!

Si pensi alla storia di Giuseppe e della moglie di Putifarre; lei, pazza d’amore, si ferisce la lingua e comincia a fargli profferte amorose storpiando le parole come una bambina piccola, Dommi commé, dommi commé..., mentre il casto Giuseppe passa tre anni a spiegarle pazientemente che è proibito. Finché un giorno fatale rimangono soli in casa; lei continua a insistere, dommi commé, dommi commé, e lui le spiega di nuovo, paziente e pedagogico, per quali ragioni non devono fare l’amore, ma durante la spiegazione si eccita, si eccita in modo così mirabolante che, nel vederlo, la donna perde la testa, gli strappa la camicia, e quando Giuseppe scappa via, e la sua eccitazione è ancora ben visibile, lei, fuori di sé e in preda alla disperazione, si mette a urlare come un’ossessa chiedendo aiuto e accusandolo di averle usato violenza.

Il romanzo di Mann fu accolto con rispetto unanime; il che dimostra che la profanazione non veniva più percepita come un’offesa ma era ormai entrata nel costume. Con i Tempi moderni, l’irreligiosità si spogliava del suo carattere di sfida e di provocazione, mentre la fede andava perdendo dal canto suo l’antica certezza missionaria o intollerante. Lo stalinismo ha avuto in questa evoluzione un ruolo dirompente: nel tentativo di cancellare la memoria cristiana ha rivelato con brutale chiarezza che tutti noi, credenti o miscredenti, bestemmiatori o baciapile, apparteniamo alla stessa cultura radicata nel passato cristiano senza il quale saremmo soltanto ombre prive di sostanza, chiacchieroni privi di vocabolario, apolidi spirituali.

Io sono stato educato nell’ateismo e mi ci sono trovato bene fino al giorno in cui, negli anni più oscuri del comunismo, ho visto umiliare alcuni cristiani. L’ateismo provocatorio e faceto della mia prima giovinezza si è dissolto allora come una scempiaggine giovanile. Mi sentivo intensamente solidale con quelli dei miei amici che erano credenti, tanto che a volte li accompagnavo a messa. Questo non bastava certo a convincermi che esistesse un Dio in grado di decidere del nostro destino. E comunque, che cosa potevo mai saperne? E che cosa potevano saperne loro, i miei amici? Erano poi così certi delle loro certezze? Sedevo in una chiesa con la strana e gradevole sensazione che la mia non-fede e la loro fede fossero curiosamente affini.

Il pozzo del passato

Che cos’è un individuo? in che cosa consiste la sua identità? Tutti i romanzi cercano di dare una risposta a queste domande. E in effetti, cos’è che definisce un io? Quello che fa, le sue azioni? Ma l’azione sfugge al suo autore, rivoltandosi quasi sempre contro di lui. La sua vita intima, allora, i pensieri, le emozioni segrete? Ma un uomo è in grado di capire se stesso? I suoi pensieri segreti possono davvero fornire la chiave della sua identità? Oppure ciò che definisce l’uomo è la sua visione del mondo, le sue idee, la sua Weltanschauung? È questa l’estetica di Dostoevskij: ciascuno dei suoi personaggi obbedisce a una originalissima ideologia personale in base alla quale agisce con logica inflessibile. Per Tolstoj l’ideologia personale è, invece, ben lungi dal formare una solida base su cui possa fondarsi l’identità dell’individuo: «Stepan Arkadjevic non sceglieva né le tendenze né le opinioni, ma tendenze e opinioni gli venivano da sole, proprio come non sceglieva la forma del cappello o del soprabito, ma prendeva quelli che si portavano» (Anna Karenina). Ma se l’identità di un individuo non si fonda sul suo pensiero (che non è più importante di un cappello), su cosa si fonda?

Alla ricerca di tale fondamento - una ricerca interminabile - Thomas Mann ha dato un contributo assai importante: noi crediamo di agire, egli afferma, crediamo di pensare, ma è un altro o sono altri ad agire e a pensare in noi: abitudini ancestrali, archetipi tramandati sotto forma di miti da una generazione all’altra; e sono questi archetipi, dotati di una immensa forza di attrazione, che dal fondo di quello che Mann definisce « il pozzo del passato » continuano a governarci.

Scrive Mann: «È proprio vero che l’“io” dell’uomo è rigidamente circoscritto ed ermeticamente racchiuso entro i suoi limiti carnali ed effimeri? Non è vero al contrario che molti degli elementi di cui è composto appartengono all’universo esterno e anteriore ad esso? ... Ci fu un tempo in cui la distinzione fra lo spirito in generale e lo spirito individuale non aveva ai nostri occhi quella lampante evidenza che possiede oggi...». E prosegue: «Ci troveremmo dunque di fronte a un fenomeno che saremmo tentati di definire come imitazione o continuazione: un’idea della vita secondo la quale ciascuno dovrebbe risuscitare certe determinate forme, un certo schema mitico fissati dai nostri avi, e farli reincarnare».

Il conflitto tra Giacobbe e suo fratello Esaù non è altro che una ripresa dell’antica rivalità tra Abele e suo fratello Caino, tra il prediletto da Dio e l’altro, il negletto, l’invidioso. Questo conflitto, questo «schema mitico fissato dai nostri avi», trova una nuova incarnazione nel destino del figlio di Giacobbe, Giuseppe, anch’egli appartenente alla razza dei prediletti. Giacobbe, mosso proprio dal senso di colpa insito nei prediletti, lo manda a riconciliarsi con i fratelli invidiosi (iniziativa funesta: questi lo getteranno in un pozzo).

Persino la sofferenza, reazione apparentemente incontrollabile, non è altro che «imitazione e continuazione»: allorché il romanzo riferisce il comportamento e le parole di Giacobbe affranto per la morte di Giuseppe, Mann commenta: «Non erano parole sue, si erano già sentite tali e quali. Già Noè si era espresso a proposito del diluvio in quello stesso modo o in modo analogo a quello, e Giacobbe se ne appropriava ... Esprimeva la sua disperazione attraverso formule più o meno consacrate ... quantunque non si debba perciò mettere in dubbio la sua spontaneità». Da notare: l’imitazione non significa mancanza di autenticità, perché l’individuo non può non imitare ciò che è già stato; per quanto sincero, egli è solo una reincarnazione; per quanto schietto, è soltanto il risultato delle suggestioni e delle ingiunzioni che gli pervengono dal pozzo del passapozzo.

Coesistenza di diversi tempi storici in un romanzo

Ripenso ai giorni in cui cominciavo a scrivere Lo scherzo: sin dall’inizio, e in modo del tutto spontaneo, sapevo che attraverso il personaggio di Jaroslav il romanzo avrebbe affondato lo sguardo nelle profondità del passato (del passato dell’arte popolare), e che l’«io» del personaggio si sarebbe svelato in e mediante quello sguardo. I quattro protagonisti sono stati creati in questo modo: ciascuno di loro rappresenta un suo personale universo comunista, ispirato a un diverso passato europeo: Ludvik: il comunismo che nasce dal caustico spirito voltairiano; Jaroslav: il comunismo in quanto desiderio di restaurare il tempo del passato patriarcale preservato nel folklore; Kostka: l’utopia comunista che trova ispirazione nel Vangelo; Helena: il comunismo come fonte di esaltazione per l'homo sentimentalis. Tutti questi universi personali vengono colti nella fase del loro disfacimento: sono quattro forme di disintegrazione del comunismo; il che significa anche: lo sfacelo di quattro vecchie avventure europee.

Nello Scherzo, il passato si manifesta unicamente come un aspetto della psiche dei personaggi o in digressioni di tipo saggistico; in seguito, ho preferito metterlo in scena direttamente. In La vita è altrove, ho preso la vita di un giovane poeta dei giorni nostri e le ho dato come sfondo l’intera storia della poesia europea affinché i suoi passi si confondessero con quelli di Rimbaud, di Keats, di Lermontov. Con L’immortalità mi sono spinto ancora più lontano, nel mettere a confronto i diversi tempi storici.

Negli anni praghesi, quand’ero un giovane scrittore, detestavo il termine «generazione» per via del tanfo di gregarismo che ne emanava. La prima volta che ebbi la sensazione di essere legato agli altri, a quell’epoca vivevo già in Francia, fu quando lessi Terra nostra di Carlos Fuentes. Com’era possibile che uno scrittore di un altro continente, diversissimo da me per formazione e cultura, fosse invasato dalla mia stessa ossessione estetica, quella di far coabitare in un romanzo tempi storici diversi, ossessione che fino a quel momento avevo ingenuamente ritenuto una mia prerogativa?

Non si può capire cosa sia la terra nostra, terra nostra del Messico, senza chinarsi sul pozzo del passato. E non allo scopo di leggere certi avvenimenti nel loro svolgimento cronologico come farebbe uno storico, ma per chiedersi: qual è per un uomo la quintessenza della terra messicana? Fuentes ha colto questa essenza nella forma di un romanzo-sogno in cui varie epoche storiche si intersecano in una sorta di metastoria poetica e onirica; ha creato così un oggetto assai difficile da descrivere e, comunque, assolutamente inedito in letteratura.

Lo stesso sguardo che si fissa nella profondità del passato io lo trovo nei Versetti satanici: la complessa identità di un indiano europeizzato; terra non nostra; terrae non nostrae ; terrae perditae; per cogliere questa identità dilaniata, il romanzo la esamina in vari luoghi del pianeta: a Londra, a Bombay, in un villaggio del Pakistan odierno, e infine nell’Asia del VII secolo.

Questo comune intento estetico (unire in un romanzo più epoche storiche) può dipendere da influenze reciproche? No. Da influenze altrui subite da tutti? Non vedo quali potrebbero essere. Oppure abbiamo tutti vissuto la stessa temperie storica? E se fosse stata invece la storia del romanzo, seguendo la logica che le è propria, ad assegnare a tutti noi lo stesso compito?

La storia del romanzo come vendetta sulla Storia

La Storia. È ancora lecito appellarsi a questa autorità obsoleta? Quella che sto per fare è soltanto una confessione del tutto personale: in quanto romanziere mi sono sempre sentito dentro la storia, incamminato su una strada, impegnato in un dialogo con chi mi ha preceduto e forse anche (meno) con chi verrà dopo di me. Quella di cui parlo, ovviamente, è soltanto la storia del romanzo come la vedo io: una storia che non ha niente da spartire con la ragione extraumana di stampo hegeliano; che non è stabilita da sempre né coincide con l’idea di progresso; che è interamente umana, fatta dagli uomini, da alcuni uomini, ed è quindi paragonabile all’evoluzione di un solo artista, il quale agisce ora in maniera banale ora in modo imprevedibile, una volta è geniale e un’altra volta non lo è, e non di rado fallisce il bersaglio.

Sto dichiarando qui la mia adesione alla storia del romanzo, mentre tutti i miei romanzi esprimono invece l’orrore della Storia, di questa forza ostile e disumana la quale, pur non essendo invitata né desiderata, invade dall’esterno le nostre vite e le distrugge. Questa mia doppia posizione non ha però nulla di incoerente poiché la Storia dell’umanità e la storia del romanzo sono due cose del tutto diverse. La prima infatti non appartiene all’uomo, ma gli si è imposta come una forza a lui estranea sulla quale egli non ha alcun potere, la storia del romanzo (come quella della pittura e della musica) è invece nata dalla libertà dell’uomo, dalle sue creazioni interamente personali, dalle sue scelte. Il senso della storia di un’arte si oppone a quello della Storia con la maiuscola. La storia di un’arte, proprio a causa del suo carattere personale, è una rivalsa dell’uomo sull’impersonalità della Storia dell’umanità.

Carattere personale della storia del romanzo, abbiamo detto? Ma per poter costituire nel corso dei secoli un insieme a sé stante questa storia non deve essere investita di un senso unificante, perenne e, quindi, necessariamente universale? No. Credo anzi che persino questo senso unificante rimanga sempre personale, umano, giacché, nel corso della storia, la concezione di questa o quell’arte (che cos’è il romanzo?) non meno che il senso della sua evoluzione (da dove viene e dove va?) vengono incessantemente definiti e ridefiniti da ciascun artista, da ogni nuova opera. Il senso della storia del romanzo è appunto la ricerca di questo senso, la sua perpetua creazione e ricreazione, che in ogni momento ingloba retrospettivamente l’intero passato del romanzo stesso: Rabelais non ha certamente mai definito «romanzo» il suo Gargantua e Pantagruele. Di fatto non era un romanzo; lo è diventato a mano a mano che altri romanzieri (Sterne, Diderot, Balzac, Flaubert, Vancura, Gombrowicz, Rushdie, Kis, Chamoiseau) si sono ispirati, si sono apertamente richiamati ad esso, inserendolo così nella storia del romanzo e, anzi, riconoscendolo come la prima pietra di questa storia.

Detto questo, quando si parla di «fine della Storia», io non provo mai né angoscia né dispiacere. «Come sarebbe delizioso dimenticarsi di colei che ha succhiato la linfa delle nostre brevi vite per asservirla ai suoi inutili fini, come sarebbe bello dimenticarsi della Storia! » (La vita è altrove). Se proprio deve finire (quantunque non mi riesca di immaginare concretamente questa fine che i filosofi amano evocare) si sbrighi! Quando però si parla di «fine della storia» a proposito dell’arte, allora mi si stringe il cuore; questa fine me la immagino anche troppo bene, oggi che la produzione romanzesca è fatta per lo più di romanzi fuori della storia del romanzo: confessioni romanzate, reportages romanzati, regolamenti di conti romanzati, autobiografie romanzate, pettegolezzi romanzati, denunce romanzate, lezioni di politica romanzate, agonie di mariti romanzate, agonie di padri romanzate, agonie di madri romanzate, deflorazioni romanzate, parti romanzati, romanzi ad infinitum, sino alla consumazione dei secoli, romanzi che non dicono niente di nuovo, che non hanno alcuna ambizione estetica, che non mutano in nulla né la nostra comprensione dell’uomo né la forma romanzesca, che si assomigliano tutti, e che si possono tranquillamente consumare al mattino, tranquillamente gettare via la sera.

A mio avviso, le opere davvero grandi possono nascere solo dentro la storia della loro arte e partecipando a questa storia. Soltanto all’interno della storia si può cogliere quanto c’è di nuovo e quanto di ripetitivo, quel che è scoperta e quel che è imitazione, in altri termini, solo all’interno della storia un’opera può esistere come valore identificabile e apprezzabile. Nulla mi sembra quindi più deleterio per l’arte di una caduta fuori della sua storia, poiché essa cadrebbe in un caos nel quale i valori estetici non sono più percettibili.


Improvvisazione e composizione

Quella libertà che tanto ci affascina in Rabelais, Cervantes, Diderot e Sterne è connessa con l’improvvisazione. Soltanto nella prima metà dell’Ottocento la composizione articolata e rigorosa diventa un obbligo imprescindibile. La forma del romanzo così come nasce allora, con l’azione concentrata in uno spazio temporale estremamente ridotto, su un crocevia nel quale si intersecano molte storie di molti personaggi, richiedeva uno schema delle azioni e delle scene minuziosamente calcolato: prima di cominciare a scrivere, il romanziere rifaceva più volte lo schema del romanzo, calcolandolo e ricalcolandolo, disegnando e ridisegnando ogni cosa come mai era accaduto prima. Basta sfogliare gli appunti di Dostoevskij per I demoni: nei sette taccuini, che nell’edizione della Plèiade occupano quattrocento pagine (il romanzo ne occupa sette-centocinquanta), i temi sono in cerca di personaggi, i personaggi in cerca di temi, e i personaggi stessi si disputano a lungo il ruolo di protagonista; Stavrogin dovrebbe essere sposato, ma «con chi?» si domanda Dostoevskij e tenta di farlo sposare con tre donne diverse; ecc. (Il paradosso è solo apparente: quanto meglio è calibrata questa macchina narrativa, tanto più veri e naturali risultano i personaggi. Il pregiudizio secondo il quale la tecnica di costruzione sarebbe un elemento «non artistico» e mutilerebbe la «vitalità» dei personaggi rivela solo il sentimentalismo ingenuo di chi dell’arte non ha mai capito nulla).

Il romanziere del nostro secolo, che rimpiange l’arte degli antichi maestri del romanzo, non può riannodare il filo là dove è stato tagliato; non può saltare a piè pari l’immane esperienza dell’Ottocento; se vuole ritrovare la spregiudicata libertà di un Rabelais o di uno Sterne deve conciliarla con le esigenze della composizione.


Ricordo quando leggevo per la prima volta Jacques il fatalista; ero deliziato dalla ricchezza di quella tessitura audacemente eteroclita in cui a una riflessione segue un aneddoto e un racconto fa da cornice a un altro, ero affascinato da una libertà di composizione che manda a quel paese la regola dell’unità di azione, e mi chiedevo: Questo sontuoso disordine è dovuto a una costruzione mirabile, calcolata al millimetro, o dipende invece dall’euforia della improvvisazione pura? Ciò che prevale è, senza dubbio, l’improvvisazione; ma l'essermi posto, istintivamente, quella domanda mi ha fatto intuire che la sfrenata improvvisazione diderottiana conteneva in sé una prodigiosa possibilità architettonica, la possibilità cioè di una costruzione complessa, ricca e al tempo stesso perfettamente calcolata, misurata e premeditata, così come era necessariamente premeditata anche la più esuberante stravaganza architettonica di una cattedrale. Ma una simile volontà architettonica potrebbe togliere al romanzo il suo fascino fatto di libertà? Il suo carattere ludico? Ma che cos’è, in fondo, il gioco? Ogni gioco è fondato su regole, e più le regole sono severe più il gioco è gioco. All’opposto dei giocatori di scacchi, l’artista inventa da sé le sue regole; quando improvvisa senza regole non è dunque più libero di quando crea il proprio sistema di regole.

Conciliare la libertà di un Rabelais o di un Diderot con le esigenze della composizione pone tuttavia a un romanziere del nostro secolo problemi diversi da quelli che preoccupavano Balzac o Dostoevskij. Ecco un esempio: il terzo libro dei Sonnambuli di Hermann Broch, un fiume «polifonico» composto da cinque «voci», cinque linee narrative del tutto indipendenti l'una dall’altra: queste linee non sono accomunate né dall’azione né dalla presenza degli stessi personaggi e sono ben distinte anche sul piano formale (A-romanzo, B-reportage, C-racconto, D-poesia, E-saggio). Negli ottantotto capitoli del libro, queste cinque linee si alternano secondo uno strano ordine: A-A-A-B-A-B-A-C-A-A-D-E-C-A-B-D-C-D-A-E-A-A-B-E-C-A-D-B-B-A-E-A-A-E-A-B-D-C-B-B-D-A-B-E-A-A-B-A-D-A-C-B-D-A-E-B-A-D-A-B-D-E-A-C-A-D-D-B-A-A-C-D-E-B-A-B-D-B-A-B-A-A-D-A-A-D-D-E.

Che cosa ha indotto Broch a scegliere proprio questo ordine e non un altro? Che cosa lo ha indotto, per esempio, a seguire nel quarto capitolo proprio la linea B e non la C o la D? Non certo la logica dei caratteri e dell’azione, poiché nessuna azione accomuna le cinque linee narrative. Altri sono stati i criteri che lo hanno guidato: la suggestione prodotta dall’accostamento inconsueto delle diverse forme (versi, narrazione, aforismi, meditazioni filosofiche); il contrasto fra le diverse emozioni di cui sono impregnati i diversi capitoli; la lunghezza variabile dei capitoli; e infine, lo sviluppo degli stessi problemi esistenziali che si riflettono nelle cinque linee narrative come in altrettanti specchi. In mancanza di meglio, potremmo definire «musicali» tali criteri, e concludere: se l’Ottocento ha elaborato l’arte della composizione, il Novecento ha immesso, in quest’arte, la musicalità.

I versetti satanici sono costituiti da tre linee narrative più o meno indipendenti: linea A: le vite di Saladin


Chamcha e di Gibreel Farishta, due indiani che vivono ai giorni nostri fra Bombay e Londra; linea B: la storia coranica della genesi dell’Islam; linea C: la marcia dei pellegrini che partono dal villaggio di Titlipur diretti alla Mecca e attraversano il mare convinti di poter camminare sulle acque in cui invece finiranno per affogare.

Le tre linee vengono riprese successivamente nelle nove parti del romanzo secondo quest’ordine: A-B-A-C-A-B-A-C-A (aggiungiamo per inciso: in musica un ordine come questo si chiama rondò: il tema principale ritorna sistematicamente alternandosi con alcuni temi secondari).

Ed ecco il ritmo dell’insieme (cito fra parentesi, arrotondandolo, il numero di pagine dell’edizione francese): A (100) B (40) A (80) C (40) A (120) B (40) A (70) C (40) A (40). Come si può vedere, le parti B e C sono sempre di identica lunghezza il che dà all’insieme una regolarità ritmica.

Lo spazio del romanzo è occupato per cinque settimi dalla linea A, per un settimo ciascuna dalle linee B e C. Da tale rapporto quantitativo emerge la posizione preminente della linea A: il centro di gravità del romanzo è il destino dei nostri contemporanei Farishta e Chamcha.

Ma, sebbene B e C siano linee narrative secondarie, è in esse che si concentra la scommessa estetica del romanzo, giacché grazie a queste due parti Rushdie ha potuto cogliere il problema fondamentale di tutti i romanzi (quello cioè dell’identità di un individuo, di un personaggio) in un modo diverso e che travalica le convenzioni del romanzo psicologico: la personalità di Chamcha e quella di Farishta non possono essere definite da una descrizione particolareggiata dei loro stati d’animo; il loro mistero risiede nella coesistenza all’interno della loro psiche di due civiltà, quella indiana e quella europea; risiede nelle loro radici, quelle radici che essi hanno reciso e, tuttavia, rimangono vive dentro di loro. Ma in che punto si sono spezzate e fin dove bisogna scavare se si vuole toccare la piaga? Ecco dunque che bisogna affondare lo sguardo «nel pozzo del passato», per giungere al nocciolo del problema: la lacerazione esistenziale dei due protagonisti.

Così come Giacobbe è incomprensibile senza Abramo (che, secondo Thomas Mann, è vissuto parecchi secoli prima di lui) non essendo altro che la sua « imitazione e continuazione», allo stesso modo Gibreel Farishta è incomprensibile senza l’arcangelo Gabriele, senza Mahound (Maometto) e perfino senza l’Islam teocratico di Khomeini e della giovane fanatica che trascina i paesani verso la Mecca, o meglio verso la morte. Ciascuno di essi rappresenta una delle potenzialità sopite in lui e alle quali dovrà disputare la propria individualità. Non c’è, nel romanzo, nessun problema di una qualche rilevanza che si possa esaminare senza affondare lo sguardo nel pozzo del passato. Che cosa è bene e che cosa è male? Chi dei due è per l’altro il diavolo, Chamcha per Farishta o Farishta per Chamcha? È stato il diavolo o l’angelo a suggerire ai contadini l’idea del pellegrinaggio? La loro morte in mare è un patetico naufragio o il viaggio glorioso verso il Paradiso? Chi può dirlo, chi può saperlo? E se questa inafferrabilità del bene e del male fosse il tormento vissuto dai fondatori delle religioni? Le terribili parole della disperazione del Cristo, la bestemmia inaudita, « Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?», non risuonano forse nell’anima di ogni cristiano? E nel dubbio di Mahound, che si chiede se sia stato Dio o il diavolo a suggerirgli i versetti, non si cela l’incertezza sulla quale è fondata l’esistenza stessa dell’uomo?


All’ombra dei grandi principi

Sin dalla pubblicazione dei Figli della mezzanotte (uscito nel 1980) salutato da un’ammirazione unanime, il mondo letterario anglosassone considera Rushdie come uno dei migliori romanzieri viventi. I versetti satanici, pubblicati in inglese nel settembre 1988, furono accolti con l’attenzione dovuta a un grande autore. Nessuno, nel momento in cui gli venivano tributati questi omaggi, poteva prevedere la tempesta che si sarebbe scatenata di lì a pochi mesi allorché il padrone assoluto dell’Iran, l’imam Khomeini, condannò a morte Rushdie, reo di blasfemia, e gli scagliò contro una muta di sicari impegnati in una caccia all’uomo che sembra non debba aver fine.

Questo accadde prima che il romanzo fosse tradotto. Ovunque, fuori del mondo anglosassone, lo scandalo ha pertanto preceduto il libro. In Francia, per esempio, la stampa ha immediatamente pubblicato brani del romanzo ancora inedito per rendere noti i motivi della sentenza. Comportamento normalissimo, ma micidiale per un romanzo. Presentandone infatti esclusivamente le pagine incriminate, si è trasformata, fin dal primo momento, un’opera d’arte in un semplice corpo del reato.

Non attaccherò mai la critica letteraria. Poiché non c’è niente di peggio per uno scrittore che trovarsi di fronte al suo silenzio. Parlo naturalmente della critica letteraria che è meditazione, che è analisi; di quella che non esita a rileggere più volte il libro di cui vuole occuparsi (così come una grande musica si può riascoltarla all’infinito, anche i grandi romanzi sono fatti per essere letti e riletti); parlo della critica letteraria che, sorda all’implacabile orologio dell’attualità, non teme di recensire opere nate un anno, trent’anni, trecento anni fa; della critica letteraria che si sforza di cogliere la novità di un’opera per inscriverla così nella memoria storica. Se questo genere di meditazione non avesse accompagnato il romanzo nel corso della sua storia, oggi non sapremmo nulla di Dostoevskij, né di Joyce, né di Proust. In mancanza di essa qualunque opera può diventare vittima di giudizi arbitrari e di un rapido oblio. Il caso Rushdie ha, però, dimostrato (ammesso che ce ne fosse ancora bisogno) che questo genere di meditazione non è più praticato. La critica letteraria si è impercettìbilmente, innocentemente trasformata, per forza di cose, per l’evoluzione della società e per quella della stampa, in una semplice (spesso intelligente, sempre frettolosa) informazione sull’attualità letteraria.

Nel caso dei Versetti satanici, l’attualità letteraria fu la condanna a morte di un autore. Quando si tratta di vita o di morte, sembra quasi frivolo parlare di arte. Che importanza può avere l’arte quando vengono minacciati i grandi princìpi? In tutto il mondo, i commenti sono stati quindi imperniati sulla problematica dei princìpi: la libertà di espressione; la necessità di difenderla (e di fatto la si è difesa, si è protestato, si sono firmate petizioni); la religione; l’Islam e la Cristianità; nonché l’interrogativo: ha o non ha un autore il diritto morale di bestemmiare e offendere in tal modo i credenti? per finire con un dubbio: e se Rushdie avesse attaccato l’Islam soltanto per farsi pubblicità e vendere così il suo illeggibile libro?

Con misteriosa unanimità (ho potuto constatare l’identica reazione in tutto il mondo), i letterati, gli intellettuali, i frequentatori dei salotti letterari hanno snobbato questo romanzo. Una volta tanto si sono decisi a resistere alle pressioni pubblicitarie rifiutandosi di leggere quello che giudicavano un prodotto creato espressamente per suscitare scalpore. Hanno firmato tutte le petizioni a sostegno di Rushdie, ma al tempo stesso hanno trovato elegante dire, con un sorrisetto di condiscendenza: «Il libro? Per carità, quello non l’ho letto! ». Gli uomini politici hanno sfruttato a modo loro questo curioso «stato di disgrazia» di uno scrittore che apprezzavano assai poco. Non dimenticherò mai la virtuosa imparzialità che ostentavano all’epoca: «Noi condanniamo la sentenza di Khomeini. Per noi la libertà di espressione è sacra. Ma non possiamo non condannare anche questo attacco contro la fede. Un attacco indegno, vile e che costituisce un oltraggio all’anima dei popoli».

Proprio così, nessuno metteva più in dubbio che Rushdie avesse attaccato l’Islam, poiché solo l’accusa era reale; il testo del libro non contava più nulla, non esisteva più.

Lo scontro fra tre epoche

Salman Rushdie è venuto a trovarsi in una situazione unica nella Storia: appartiene per nascita alla società musulmana che, per lo più, vive ancora in epoca premoderna. Scrive il suo libro in Europa in piena epoca moderna o, per meglio dire, alla fine di tale epoca.


Così come l’Islam iraniano si allontanava allora dalla moderazione religiosa orientandosi verso una bellicosa teocrazia, la storia del romanzo passava, con Rushdie, dall’amabile sorriso professorale di Thomas Mann all’immaginazione sbrigliata scaturita dalle ritrovate fonti dello humour rabelaisiano. Le antitesi, spinte all’estremo, finivano con rincontrarsi.

Da questo punto di vista, la condanna di Rushdie appare non più come un accidente, una follia, bensì come un conflitto radicale tra due epoche: la teocrazia si scaglia contro i Tempi moderni e ne prende di mira la creazione più rappresentativa: il romanzo. Rushdie, infatti, non ha bestemmiato. Non ha attaccato l’Islam. Rushdie ha scritto un romanzo. Ma questo, per la mentalità teocratica, è peggio di un attacco: se si attacca una religione (con una polemica, una bestemmia, un’eresia), i guardiani del tempio possono agevolmente difenderla sul loro proprio terreno, con il loro proprio linguaggio; il romanzo, invece, è un altro pianeta; un universo alieno fondato su un’altra ontologia; un inferno nel quale la verità unica non ha potere e la satanica ambiguità trasforma ogni certezza in enigma.

È bene sottolinearlo: non c’è attacco; c’è ambiguità; la seconda parte dei Versetti satanici (quella incriminata che parla di Maometto e della genesi dell’Islam) viene presentata nel romanzo come un sogno di Gibreel Farishta il quale trarrà, poi, da questo sogno un film di terz’ordine in cui lui stesso interpreterà il ruolo dell’arcangelo. Il racconto è quindi doppiamente relativizzato (in prima istanza come sogno, in seconda come film scadente che sarà un fiasco), dunque presentato non come affermazione, bensì come invenzione ludica. Un’invenzione oltraggiosa? No, a mio avviso: essa mi ha fatto capire, per la prima volta in vita mia, la poesia della religione islamica, del mondo islamico.

Vorrei insistere su questo punto: nell’universo della relatività romanzesca non c’è posto per l’odio: chi scrive un romanzo per saldare i conti con qualcuno o qualcosa (che si tratti di conti personali o ideologici) è destinato fatalmente a un totale naufragio estetico. Ayesha, la ragazza che trascina verso la morte gli abitanti del villaggio perduti nella loro esaltazione, è un mostro, ma è al tempo stesso seducente, meravigliosa (aureolata com’è di farfalle che la seguono ovunque), spesso perfino commovente; e anche dal ritratto di un imam in esilio (che è poi il ritratto immaginario di Khomeini), emana una comprensione quasi rispettosa; la modernità occidentale viene osservata con occhio scettico, e in nessun caso è presentata come superiore all’arcaismo orientale; il romanzo «esplora storicamente e psicologicamente» antichi testi sacri, ma mostra, anche, quanto siano sviliti dalla televisione, dalla pubblicità, dall’industria del divertimento. Ma allora i personaggi orientati a sinistra, che stigmatizzano la frivolezza del mondo moderno, godranno, almeno loro, di una simpatia incondizionata da parte dell’autore? Ebbene no, sono patetici e ridicoli, e non meno frivoli della frivolezza che li circonda; nessuno ha ragione, insomma, e nessuno ha assolutamente torto nell’immenso carnevale della relatività che è quest’opera.

Ciò che viene incriminato nei Versetti satanici è dunque l’arte del romanzo in quanto tale. Ecco perché, in tutta questa brutta storia, la cosa più brutta non è la sentenza di Khomeini (risultato di una logica atroce ma coerente) bensì l’inettitudine dell’Europa a difendere e a spiegare (a se stessa e agli altri con pazienza) l’arte più europea, quella del romanzo, a spiegare e a difendere, in altre parole, la propria cultura. I «figli del romanzo» sono stati infedeli all’arte che li ha formati. L’Europa, la «società del romanzo», ha abbandonato se stessa.

Che i teologi della Sorbona, la polizia ideologica di quel Cinquecento che ha acceso tanti roghi, si siano accaniti contro Rabelais, costringendolo a fuggire e a nascondersi, è cosa che non mi stupisce affatto. Quel che mi sembra assai più stupefacente e degno di lode, è la protezione a lui offerta da alcuni potenti del suo tempo, come il cardinale du Bellay, il cardinale Odet, e soprattutto il re di Francia Francesco I. Agivano per difendere un qualche principio? la libertà di espressione? i diritti dell’uomo? Il motivo del loro atteggiamento era più nobile; essi amavano la letteratura e le arti.

Nell’Europa di oggi non vedo alcun cardinale du Bellay, alcun Francesco I. Ma l’Europa stessa è ancora l’Europa? È ancora la «società del romanzo»? In altri termini: si situa ancora nei Tempi moderni? O non sta invece entrando in un’epoca tutta diversa che non ha ancora un nome e che alle proprie arti attribuisce ormai scarsa importanza? Perché stupirsi, allora, che abbia reagito così fiaccamente quando l’arte del romanzo, la sua arte per eccellenza, è stata condannata a morte, per la prima volta nella sua storia? Il romanzo non vive forse già da tempo, in questa nuova epoca, destinata a succedere ai Tempi moderni, un’esistenza da condannato a morte?

Romanzo europeo

Per circoscrivere esattamente l’arte di cui parlo, la definisco romanzo europeo. In tal modo non voglio dire: romanzi scritti in Europa da europei, bensì: romanzi che appartengono a una delle storie, ossia a quella del romanzo, iniziata in Europa all’alba dei Tempi moderni. Ci sono anche altri romanzi, naturalmente: il romanzo cinese, quello giapponese, il romanzo dell’antichità greca, ma essi non hanno alcun rapporto di continuità evolutiva con la storica impresa nata con Rabelais e Cervantes.

Se parlo di romanzo europeo non è soltanto per distinguerlo (mettiamo) dal romanzo cinese, ma anche per dire che la sua è una storia transnazionale; che il romanzo francese, il romanzo inglese o il romanzo ungherese non sono in grado di creare ciascuno una propria storia autonoma, ma fanno tutti parte di una storia comune, sovranazionale, la quale forma l’unico contesto in cui possono manifestarsi al tempo stesso il senso dell’evoluzione del romanzo e il valore delle singole opere.

Durante le varie fasi della storia del romanzo, nazioni diverse si sono per così dire passate il testimone: prima l’Italia con Boccaccio, il grande precursore; poi la Francia di Rabelais; poi la Spagna di Cervantes e del romanzo picaresco; nel Settecento fu la volta del grande romanzo inglese con l’intervento, sul finire del secolo, del tedesco Goethe; l’Ottocento appartiene invece, interamente, alla Francia, pur tenendo conto dell’ingresso del romanzo russo, negli ultimi trent’anni del secolo, e della comparsa, subito dopo, di quello scandinavo. Viene, poi, il Novecento e la vicenda mitteleuropea con Kafka, Musil, Broch, Gombrowicz...

Se l’Europa fosse una nazione unica, non credo che la storia del suo romanzo avrebbe potuto protrarsi per quattro secoli con tanta vitalità, tanta forza e tanta varietà. Sono state le sempre rinnovate situazioni storiche (con il loro rinnovato contenuto esistenziale) che, manifestandosi ora in Francia, ora in Russia, poi altrove e ancora altrove, hanno dato un nuovo impulso all’arte del romanzo fornendole nuove ispirazioni, suggerendole nuove soluzioni estetiche. Come se nel suo percorso la storia del romanzo destasse l’una dopo l’altra le diverse parti dell’Europa, confermando la specificità di ciascuna e al tempo stesso inserendole tutte in una comune coscienza europea.

Solo in questo secolo l’iniziativa viene presa, per la prima volta nella storia del romanzo, da paesi non europei: prima dall’America del Nord, negli anni Venti e Trenta, e poi, negli anni Sessanta, dall’America latina. Adesso, dopo aver fatto la piacevole scoperta dell’antillese Patrick Chamoiseau e di Salman Rushdie, preferisco parlare più genericamente di romanzo al di sotto del trentacinquesimo parallelo, o romanzo del Sud: una nuova grande cultura romanzesca caratterizzata da uno straordinario senso del reale cui si accompagna una fantasia sbrigliata, capace di infrangere tutte le regole della verosimiglianza.

Questa fantasia mi incanta anche se non ne capisco bene la provenienza. Kafka? Certamente. Nel nostro secolo, è stato lui a legittimare l’ingresso dell’inverosimile nell’arte del romanzo. E, tuttavia, l’immaginazione kafkiana è diversa da quella di Rushdie o di García Márquez; questa fantasia lussureggiante sembra affondare le radici nella singolarissima cultura del Sud; per esempio nella sua letteratura orale, tuttora viva (Chamoiseau si richiama ai narratori creoli), oppure, nel caso dell’America latina, come ama ricordare Fuentes, nel suo barocco, più esuberante, più « dissennato » di quello europeo.

Un’altra chiave di questa fantasia: la tropicalizzazione del romanzo. Penso a una fantasticheria di Rushdie: Farishta, mentre sorvola Londra, formula il desiderio di « tropicalizzare » quella città ostile: ed ecco quali sarebbero i benefici della tropicalizzazione: « Istituzione di una siesta nazionale ... nuove famiglie di uccelli sugli alberi (are, pavoni, cacatua), nuovi tipi di alberi sotto gli uccelli (palme da cocco, tamarindi, baniani con barbe pendenti) ... fervore religioso, fermenti politici ... amici che si scambiano visite senza prendere appuntamento, chiusura degli ospizi per i vecchi, importanza data alla famiglia estesa, cucina più piccante ... Svantaggi: colera, febbre tifoide, morbo del legionario, scarafaggi, polvere, rumore, cultura dell’eccesso».

(«Cultura dell’eccesso»: è un’ottima definizione. La tendenza del romanzo nelle ultime fasi della sua modernità: in Europa: la quotidianità spinta all’estremo; analisi raffinatissima del grigiore su uno sfondo di grigiore; fuori d’Europa: l’accumulazione delle coincidenze più straordinarie; colori su un fondale di colori. Rischio: in Europa la noia del grigiore, fuori d’Europa la monotonia del pittoresco).

I romanzi scritti al di sotto del trentacinquesimo parallelo, sebbene un po’ estranei al gusto europeo, costituiscono il prolungamento della storia del romanzo europeo, della sua forma, del suo spirito, e presentano anche una sorprendente affinità con le sue fonti primigenie; proprio nelle opere di questi romanzieri non europei scorre oggi più vivacemente che ovunque altrove la vecchia linfa rabelaisiana.

Il giorno in cui Panurge non farà più ridere

E con questo torniamo per l’ultima volta a Panurge. Nel libro II di Gargantua e Pantagruele, si innamora di una dama e vuole conquistarla ad ogni costo. In chiesa, durante la messa (un autentico sacrilegio!), le rivolge una strabiliante sequela di oscenità (che, negli Stati Uniti di oggi, gli costerebbero centrotredici anni di carcere per molestie sessuali) e alla fine, visto che lei non gli dà retta, si vendica spargendole sugli abiti brandelli del sesso di una cagna in calore. All’uscita dalla chiesa, tutti i cani dei dintorni (seicentomilaquattordici, precisa Rabelais) le corrono dietro e le pisciano addosso. Un ricordo dei miei vent’anni, un dormitorio di operai, sotto il materasso il mio Rabelais in edizione ceca. Avevo letto tante volte questa storia agli operai incuriositi da quel librone che, dopo un po’, la sapevano a memoria. Sebbene fossero legati a una morale contadina alquanto conservatrice, non c’era, nelle loro risate, la benché minima condanna di quel persecutore verbale e urinario; adoravano Panurge, al punto da soprannominare così uno dei nostri compagni; non era certo un donnaiolo, ma un ragazzone noto per il suo candore e la sua iperbolica castità, uno che, sotto la doccia, si vergognava a farsi vedere nudo. Li sento ancora gridare come fosse ieri: « Forza Panurche (era questa infatti la pronuncia ceca), va’ a farti la doccia! Sennò ti laviamo noi con la piscia dei cani! ».

Sento ancora quelle belle risate che, pur facendosi beffe del pudore di un compagno, esprimevano, per quel pudore, una quasi ammirata tenerezza. Erano entusiasti delle oscenità che Panurge rivolgeva in chiesa alla dama, ma anche della punizione inflittagli dalla castità della suddetta dama, la quale era, a sua volta, punita, con loro grande gioia, dall’urina dei cani. Per chi parteggiavano, i miei compagni di allora? Per il pudore? Per l’impudicizia? Per Panurge? Per la dama? Per i cani che avevano l’invidiabile privilegio di urinare su una bella donna?

Lo humour: lampo divino che rivela tutta l’ambiguità morale del mondo e la profonda incompetenza dell’uomo a giudicare gli altri; humour: l’euforia che nasce dal conoscere la relatività delle umane cose; il bizzarro piacere che deriva dalla certezza che non ci sono più certezze.

Ma lo humour, per citare ancora Octavio Paz, è «la grande invenzione dello spirito moderno». Non esiste da sempre, né per sempre esisterà.

Quando penso al giorno in cui Panurge non farà più ridere, mi si stringe il cuore.


PARTE SECONDA

L’OMBRA CASTRATRICE DI SAN GARTA

 


 


 


 


 


1

Alla base dell’immagine, che quasi tutti hanno oggi di Kafka, c’è un romanzo. È stato scritto da Max Brod subito dopo la morte dello stesso Kafka, e pubblicato nel 1926. Assaporatene il titolo: Il regno incantato dell’amore. Questo romanzo-chiave è un romanzo a chiave. Nel protagonista, uno scrittore tedesco di Praga che risponde al nome di Nowy, riconosciamo un autoritratto lusinghiero di Brod (Nowy è adorato dalle donne, invidiato dai letterati). Nowy-Brod ha per amante la moglie di un uomo che riuscirà, grazie a oscuri e complicatissimi intrighi, a spedirlo in carcere per quattro anni. Fin dalle prime pagine siamo catapultati in una storia costruita sulle coincidenze più inverosimili (i personaggi si incontrano, per puro caso, su un piroscafo in mezzo al mare, in una via di Haifa, in una strada di Vienna), assistiamo allo scontro fra i buoni (Nowy, la sua amante) e i cattivi (il cornificato, talmente volgare da meritarselo ampiamente, e un critico letterario che stronca sistematicamente i bei libri di Nowy), ci commuoviamo di fronte ai melodrammatici colpi di scena (l’eroina si uccide perché non riesce più a sopportare di dividersi tra il cornificato e il cornifìcatore), ammiriamo la sensibilità di Nowy-Brod che sviene a ogni piè sospinto.


Questo romanzo sarebbe stato dimenticato ancor prima di essere scritto se non ci fosse il personaggio di Garta. Garta, amico intimo di Nowy, è infatti un ritratto di Kafka. Senza questa chiave interpretativa, il personaggio in questione sarebbe il meno interessante dell’intera storia letteraria; viene descritto come «un santo del nostro tempo », ma anche sul ministero di tale santità non ci viene detto granché, a parte il fatto che, di tanto in tanto, nelle sue traversie amorose, Nowy-Brod gli chiede consigli che l’amico è incapace di dargli, non avendo nella sua qualità di santo la minima esperienza in materia.


Mirabile paradosso: l’immagine di Kafka e l’intero destino postumo della sua opera vengono proposti e delineati per la prima volta in questo mediocre romanzo all’acqua di rose, in questo racconto di un sentimentalismo caricaturale che, da un punto di vista estetico, si colloca esattamente agli antipodi dell’arte di Kafka.


 


2

Ecco qualche citazione dal romanzo: Garta « era un santo del nostro tempo, un autentico santo ... E forse la sua superiorità consisteva nel rimanere sempre indipendente, libero e così santamente lucido di fronte a qualsiasi mitologia, pur essendovi intimamente legato ed essendo lui stesso quasi una figura mitologica ... Aspirava a una vita di purezza assoluta, non poteva aspirare a null’altro... ».


Le parole «santo», «santamente», «mitologia», «purezza» non hanno qui valore retorico; vanno prese alla lettera: «Di tutti i saggi e i profeti che mai abbiano calcato questa terra, egli fu il più silenzioso ... Forse gli mancava una cosa: la fiducia in se stesso. Se avesse avuto anche questa, sarebbe diventato una guida dell’umanità! E invece no, non era una guida, non parlava al popolo né aveva discepoli come Buddha, Gesù e Mosè. Così non parlava. Rimaneva chiuso in se stesso. Forse perché era penetrato più a fondo degli altri nel grande mistero? Perché quel che aveva intrapreso era ancora più diffìcile di ciò cui aspirava il Buddha? Poiché se fosse riuscito nel suo intento sarebbe stato per sempre?».


E ancora: «Tutti i fondatori di religioni avevano fiducia in se stessi; ma uno di essi, Lao-tsu - forse il più sincero di tutti -, preferì rientrare nell’ombra. Garta fece indubbiamente altrettanto».


Garta viene presentato come uno che scrive. Nowy «aveva accettato di essere l’esecutore testamentario di Garta per quanto concerneva le sue opere. Era stato Garta stesso a chiederglielo, imponendogli però un’unica e strana clausola: distruggere ogni cosa». Nowy « intuiva la ragione di questa sua ultima volontà. Garta non annunciava una nuova religione, voleva semplicemente viverla, esserla, questo lo avrebbe colmato di gioia. Da se stesso egli esigeva lo sforzo supremo. Poiché non era riuscito a compierlo, i suoi scritti (miseri gradini verso questa somma vetta) non avevano più alcun valore per lui».


Nowy-Brod però non voleva obbedire alla volontà dell’amico perché, a suo giudizio, quegli scritti erano preziosi: infatti, «per gli uomini erranti nelle tenebre valevano come tentativi, approssimazioni, presentimenti di qualcosa di insostituibile».


Be’, non ci manca proprio niente.


 


3

Senza Max Brod, oggi di Kafka non conosceremmo neanche il nome. Subito dopo la morte dell’amico, Brod fece pubblicare i suoi tre romanzi. Non suscitarono alcuna eco. Allora capì che, per imporre l’opera di Kafka, avrebbe dovuto intraprendere un’autentica guerra e che questa sarebbe stata lunga. Imporre un’opera vuol dire presentarla, interpretarla. Brod sferrò dunque una vera e propria offensiva a tutto campo: in primo luogo con le prefazioni: al Processo (1925), al Castello (1926), ad America (1927), a Descrizione di una battaglia (1936), ai diari e alle lettere (1937), ai racconti (1946); ai Colloqui con Kafka di Gustav Janouch (1951); in secondo luogo con gli adattamenti teatrali: quello del Castello (1953) e di America (1957); ma soprattutto con quattro imponenti opere esegetiche (delle quali vi prego di notare i titoli!): Franz Kafka, biografìa (1937), La fede e la dottrina di Franz Kafka (1948), Franz Kafka, figura di pioniere (1951) e Disperazione e salvezza nell’opera di Franz Kafka (1959).


In questi testi, viene precisata e sviluppata l’immagine abbozzata nel Regno incantato dell’amore: Kafka è innanzitutto il pensatore religioso, der religiose Denker. Certo, egli «non ha mai esposto in modo sistematico la sua filosofia e la sua concezione religiosa del mondo». Dall’opera è, tuttavia, possibile dedurre la sua filosofia: «in particolare dagli aforismi, ma anche dalla poesia, dalle lettere, dai diari, nonché dal modo in cui visse (anzi, soprattutto da questo)».


E più avanti afferma che non si potrà mai cogliere la vera importanza di Kafka « se non si distinguono nella sua opera due filoni: 1) gli aforismi; 2) i testi narrativi (romanzi, racconti e frammenti).


«Negli aforismi Kafka espone das positive Wort, la parola positiva, la sua fede, il severo appello rivolto a ogni individuo affinché cambi la propria vita».


Nei romanzi e nei racconti, «egli descrive i terribili castighi riservati a coloro che non vogliono ascoltare la parola (das Wort) e non seguono la retta via».


Non vi sfugga la disposizione gerarchica: in alto: la vita di Kafka, esempio da seguire; al centro: gli aforismi, ossia tutti i passi gnomici, «filosofici» dei diari; in basso: l’opera narrativa.


Brod era un intellettuale brillante, dotato di una straordinaria energia; un uomo generoso pronto a battersi per gli altri; il suo affetto per Kafka era sincero e disinteressato. Quel che non va in lui è soltanto il suo orientamento artistico: uomo di idee, ignorava la passione della forma; i suoi romanzi (una ventina) sono desolatamente convenzionali; e, quel che è peggio: non capiva nulla di arte moderna.


Come mai, allora, Kafka gli voleva tanto bene? Ma chi potrebbe voler meno bene al suo migliore amico solo perché ha la mania di scrivere brutti versi?


L’uomo che scrive brutti versi diventa tuttavia pericoloso appena si mette a curare la pubblicazione dell’opera del suo amico poeta. Immaginiamo che il più autorevole esegeta di Picasso sia un pittore incapace finanche di capire gli impressionisti. Che cosa potrà dire dei quadri di Picasso? Probabilmente la stessa cosa che Brod dice dei romanzi di Kafka: che ci descrivono «i terribili castighi riservati a coloro che non seguono la retta via».


 


4

Max Brod ha creato l’immagine di Kafka e quella della sua opera; e al tempo stesso ha creato la kafkologia. I kafkologi, pur attenti a prendere le distanze dal loro capostipite, non si avventurano mai fuori del territorio che quest’ultimo ha delimitato. Nonostante l’astronomica quantità di testi che ha prodotto, la kafkologia non fa che elaborare, con infinite varianti, un unico discorso, un’unica speculazione, e questa, ogni giorno più indipendente dall’opera di Kafka, si nutre ormai solo di se medesima. Mediante un incalcolabile numero di prefazioni, postfazioni, note, biografie e monografie, conferenze e tesi, essa produce e tiene in vita la propria immagine di Kafka, sicché l’autore noto al pubblico sotto il nome di Kafka non è più Kafka ma il Kafka kafkologizzato.


Non tutto quel che si scrive su Kafka rientra però nella kafkologia. Come definire dunque la kafkologia? In maniera tautologica: la kafkologia è il discorso destinato a kafkologizzare Kafka. A sostituire a Kafka il Kafka kafkologizzato:


1 ) Sulle orme di Brod, la kafkologia esamina i libri di Kafka non nel più ampio contesto della storia letteraria (della storia del romanzo europeo), bensì quasi esclusivamente all’interno del microcontesto biografico. Se Boisdeffre e Albérès si rifanno, nella loro monografia, alla posizione di Proust che rifiutava l’interpretazione biografica dell’opera d’arte, è soltanto per affermare che il caso di Kafka fa eccezione alla regola, poiché i suoi libri «sono inseparabili dalla sua persona. Che si chiami Josef K., Rohan, Samsa, l’agrimensore, Bendemann, Josefine la cantante, il digiunatore o il trapezista, l’eroe del libro non è mai altro che Kafka stesso». La biografia è la chiave principale per la comprensione del senso dell’opera. Peggio ancora: l’unica funzione dell’opera è fornire una chiave per comprendere la biografia.


2) Sulle orme di Brod, la biografia di Kafka diventa agiografia, sotto la penna dei kafkologi; indimenticabile è l’enfasi con la quale Roman Karst concludeva il suo intervento al convegno di Liblice nel 1963: «Franz Kafka è vissuto e ha sofferto per noi! ». Questa agiografia assume forme diverse: può essere religiosa; laica (Kafka come martire della solitudine); gauchista (secondo una testimonianza mitomane, sempre citata e mai controllata, Kafka avrebbe frequentato «con assiduità» le riunioni degli anarchici e avrebbe seguito «molto attentamente la rivoluzione del 1917»). Ogni chiesa ha i suoi apocrifi: si vedano i Colloqui con Kafka di Gustav Janouch. E ogni santo ha un gesto sacrificale: la volontà di Kafka che la sua opera venisse distrutta.


3) Sulle orme di Brod, la kafkologia espelle sistematicamente Kafka dal campo dell’estetica: in quanto « pensatore religioso», oppure, a sinistra, considerandolo un contestatore dell’arte, nella cui «biblioteca ideale figurerebbero soltanto manuali di ingegneria o di meccanica, e opere di giurisprudenza» (così il libro di Deleuze e Guattari). La kafkologia esamina instancabilmente i rapporti di Kafka con Kierkegaard, con Nietzsche, con i teologi, ma ignora quelli con romanzieri e poeti. Perfino Camus, nel suo saggio su Kafka, parla di lui non come di un romanziere, ma come di un filosofo. Gli scritti privati vengono trattati alla stessa stregua dei romanzi ma sono decisamente preferiti a questi ultimi: prendo a caso il saggio dedicato a Kafka da Garaudy, quando era ancora marxista: egli cita cinquantaquattro volte le lettere di Kafka, quarantacinque volte i diari; trentacinque volte i Colloqui di Janouch; venti volte i racconti; cinque volte Il processo, quattro volte Il castello e nemmeno una volta America.


4) Sulle orme di Brod, la kafkologia ignora l’esistenza dell’arte moderna; quasi che Kafka non appartenesse alla generazione dei grandi innovatori, quella di Stravinskij, di Webern, di Bartók, di Apollinaire, di Musil, di Joyce, di Picasso, di Braque, tutti nati come lui fra il 1880 e il 1883. Negli anni Cinquanta, quando qualcuno osò suggerire l’idea dell’affinità di Kafka con Beckett, Brod protestò immediatamente: san Garta non ha niente a che vedere con simili decadentismi!


5) La kafkologia non è una critica letteraria (essa non prende in esame il valore dell’opera: gli aspetti dell’esistenza fino a quel momento ignoti messi in luce dall’opera, le innovazioni estetiche mediante le quali essa ha influito sulla successiva evoluzione dell’arte, ecc.); la kafkologia è un’esegesi. In quanto tale, non sa vedere nei romanzi di Kafka altro che una serie di allegorie. Sono religiose (Brod: il Castello = la grazia di Dio; l’agrimensore = il novello Parsifal alla ricerca del divino; e via enumerando), psicoanalitiche, esistenzialiste, marxiste (l’agrimensore = simbolo della rivoluzione, poiché avvia una ridistribuzione della terra); esse sono politiche (si pensi al Processo di Orson Welles). Nei romanzi di Kafka, la kafkologia non cerca il mondo reale trasformato da una fantasia senza limiti; essa decripta messaggi religiosi, decifra parabole filosofiche.


 


5

«Garta era un santo del nostro tempo, un autentico santo». Ma può un santo essere un frequentatore di bordelli? Brod ha pubblicato i diari di Kafka censurandoli un pochettino; ha eliminato non soltanto ogni accenno alle puttane ma tutto quanto riguardava la sessualità. La kafkologia ha sempre espresso dubbi sulla virilità del suo autore e disserta con grande compiacimento sul martirio della sua impotenza. Perciò, Kafka è ormai diventato il santo protettore dei nevrotici, dei depressi, degli anoressici, dei malaticci e degli svitati, nonché il patrono delle preziose ridicole e degli isterici (nel film di Orson Welles, K urla istericamente, mentre i romanzi di Kafka sono in realtà i meno isterici dell’intera storia della letteratura).


I biografi, che non sanno nulla della vita sessuale delle proprie consorti, sono però convinti di conoscere quella di Stendhal o di Faulkner. Su quella di Kafka mi arrischierei soltanto a dire: la vita erotica (piuttosto complicata) della sua epoca aveva ben poco in comune con la nostra: le ragazze non facevano l’amore prima del matrimonio; a uno scapolo rimanevano solo due possibilità: le signore sposate di buona famiglia o le donne facili delle classi inferiori: commesse, cameriere e, naturalmente, prostitute.


L’immaginario dei romanzi di Brod si alimentava alla prima di queste due fonti; ed è perciò che il suo è un erotismo esaltato, romantico (adulteri drammatici, suicidi, gelosie patologiche) e asessuato: «Le belle donne sbagliano nel pensare che per un uomo di carattere sensibile conti soltanto il possesso fisico. Quest’ultimo non è che un simbolo, e conta assai meno del sentimento ... Tutto l’amore dell’uomo mira solo a conquistare la benevolenza e la bontà della donna» scrive nel Regno incantato dell’amore.


L’immaginario erotico dei romanzi di Kafka, invece, attinge quasi esclusivamente alla seconda fonte: « Passavo davanti al bordello come davanti alla casa dell’amata» leggiamo in una pagina di diario del 1910 (la frase è stata censurata da Brod).


Il romanzo ottocentesco, pur sapendo analizzare magistralmente tutte le strategie della seduzione, occultava la sessualità e l’atto sessuale medesimo. Nei primi decenni di questo secolo, la sessualità esce dalle vaghezze della passione romantica. Kafka fu uno dei primi (insieme a Joyce, naturalmente) a svelarla nei suoi romanzi. Non (alla maniera settecentesca) come un campo di gioco riservato alla ristretta cerchia dei libertini, ma come realtà al tempo stesso banale ed essenziale della vita di ognuno. Della sessualità Kafka svela gli aspetti esistenziali: la sessualità contrapposta all’amore; l’estraneità dell’altro come condizione, come esigenza della sessualità; il lato ambiguo della sessualità: ciò che vi è in essa di eccitante e al tempo stesso di ripugnante; la sua profonda insignificanza che nulla toglie al suo spaventoso potere, e via dicendo.


Brod era un romantico. Alla base dei romanzi di Kafka io credo, invece, di discernere un profondo antiromanticismo; esso si manifesta in ogni dettaglio: nel modo in cui Kafka vede la società, come nel suo modo di costruire la frase; ma la sua origine va forse cercata nella visione che Kafka aveva della sessualità.


 


6

Il giovane Karl Rossmann (protagonista di America) viene cacciato dalla casa paterna e mandato in America in seguito a una sciagurata avventura con una serva che «lo aveva sedotto e aveva avuto un bambino da lui». «Karl, Karl mio!» gridava lei prima dell’amplesso, « mentre Karl non riusciva a vedere nulla e si sentiva a disagio in mezzo a quella montagna di coperte calde che sembrava lei avesse ammucchiate apposta per lui... lo scuoteva, gli ascoltava il cuore, gli offriva il seno perché anche lui ascoltasse il suo». A un certo punto «gli frugò con la mano tra le gambe in un modo così disgustoso che Karl emerse dai guanciali dibattendosi, poi spinse il ventre contro il suo alcune volte - a Karl sembrò che fosse diventata una parte di lui e forse per questo lo aveva preso un terribile senso di panico».


Questo mediocre accoppiamento è la causa di tutto ciò che accadrà in seguito, nel romanzo. È deprimente rendersi conto del fatto che le cause del nostro destino sono cose del tutto insignificanti. Ma l’inattesa rivelazione di un’insignificanza è al tempo stesso fonte di comicità. Post coitum omne animal triste. Di questa tristezza Kafka fu il primo a descrivere il lato comico.


Che la sessualità abbia un lato comico: idea inaccettabile per i puritani non meno che per i neolibertini. Penso a D.H. Lawrence, cantore dell’Eros, evangelista del coito che, nell 'Amante di Lady Chatterley, tenta di riabilitare la sessualità rendendola lirica. La sessualità lirica, però, è molto più ridicola di quanto non lo fosse la sentimentalità lirica del secolo scorso.


La perla erotica di America è Brunelda. Federico Fellini è sempre stato affascinato da lei. Per molto tempo, ha sognato di fare un film tratto appunto da America, e in una scena di Intervista assistiamo ai provini per gli interpreti di questo film vagheggiato: sfilano varie incredibili candidate alle parte di Brunelda, che Fellini sceglie con quella gioiosa esuberanza che ben conosciamo. (Ma insisto: quella gioiosa esuberanza, è la stessa che prova Kafka. Perché Kafka non ha sofferto per noi! Si è divertito per noi!).


Brunelda, l’ex cantante, la «cagionevolissima» che ha «la gotta alle gambe». Brunelda con le sue manine grassocce, il suo doppio mento, e «smisuratamente grassa». Brunelda che, seduta a gambe larghe, riesce solo «con enormi sforzi, soffrendo molto e riposandosi spesso » a chinarsi per « afferrare il bordo superiore delle calze». Brunelda che tira su la gonna e asciuga, con l’orlo, le lacrime di Robinson. Brunelda che non riesce a fare neanche due o tre scalini e deve farsi portare di peso - spettacolo, questo, da cui Robinson sarà talmente colpito che, per tutta la vita, continuerà a sospirare: «Dio mio, Dio mio, com’era bella! ». Brunelda nuda e ritta nella vasca da bagno, che si fa lavare da Delamarche e intanto protesta e si lamenta. Brunelda furibonda che sferra pugni nell’acqua, sdraiata nella stessa vasca da bagno. Brunelda che due uomini porteranno giù dalle scale dopo due ore di sforzi per deporla in una carrozzella che Karl spingerà poi per tutta la città verso un luogo misterioso, probabilmente un bordello. Brunelda che, su quella carrozzella, è interamente ricoperta da uno scialle, tanto che un poliziotto la scambia per un sacco di patate.


Ciò che è nuovo in questa descrizione di laida grassezza è il fatto che sia attraente; morbosamente attraente, ridicolmente attraente, ma pur sempre attraente; Brunelda è un mostro di sessualità al confine tra il ripugnante e l’eccitante, e le esclamazioni ammirate degli uomini non sono soltanto comiche (lo sono eccome, naturalmente, la sessualità è comica!), ma sono anche, e allo stesso tempo, assolutamente sincere. Non appare quindi strano che Brod, adoratore romantico delle donne, per il quale il coito non è una realtà ma un «simbolo del sentimento», non abbia visto in Brunelda niente di vero, nemmeno l’ombra di un’esperienza reale, ma soltanto la descrizione dei «terribili castighi riservati a coloro che non seguono la retta via».


 


7

La più bella scena erotica che Kafka abbia scritto è quella del terzo capitolo del Castello: l’atto d’amore fra K. e Frieda. Nemmeno un’ora dopo aver visto quella «biondina insignificante», K. la prende dietro il banco di mescita «fra piccole pozze di birra e altri rifiuti di cui il pavimento era coperto». La sporcizia: è inseparabile dalla sessualità, dalla sua essenza.


Immediatamente dopo, nello stesso paragrafo, Kafka ci rivela, però, la poesia della sessualità: « Là passarono ore, ore di fiati comuni, di palpiti comuni, ore durante le quali K. aveva costantemente la sensazione di smarrirsi, o di trovarsi più lontano in un mondo estraneo di qualunque essere prima di lui, un mondo estraneo in cui l’aria medesima non aveva alcun elemento dell’aria natia, in cui si doveva soffocare di estraneità e non si poteva far altro, in mezzo a seduzioni insensate, se non continuare ad andare, se non continuare a smarrirsi».


La lunghezza del coito si trasforma in metafora di una marcia sotto il cielo dell’estraneità. Eppure questa marcia non ha in sé niente di brutto; anzi, ci attrae, ci invita ad andare avanti, ci inebria: è bellezza.


E poche righe più sotto: «... era troppo felice di tener Frieda fra le mani, troppo ansioso e al tempo stesso felice anche perché gli sembrava che se Frieda lo avesse abbandonato, tutto quel che aveva lo avrebbe abbandonato». Allora malgrado tutto si tratta di amore? Macché, l’amore non c’entra; per chi è bandito e spogliato di tutto, una ragazzetta appena incontrata, posseduta fra le pozze di birra, diventa un intero universo - senza che l’amore c’entri minimamente.


 


8

Nel Manifesto del surrealismo André Breton giudica con severità l’arte del romanzo. La accusa di essere inguaribilmente sovraccarica di mediocrità, di banalità, di tutto quanto è contrario alla poesia. Si fa beffe delle sue descrizioni e della sua tediosa psicologia. A questa critica del romanzo fa immediatamente seguito l’elogio dei sogni. E Breton conclude: « Io credo nel futuro confluire di entrambi questi stati, in apparenza tanto contraddittori, che sono il sogno e la realtà, in una sorta di realtà assoluta, per così dire di surrealtà».


Paradosso: questo «confluire del sogno e della realtà», che i surrealisti auspicavano senza riuscire però a metterlo in atto in una grande opera letteraria, si era già realizzato e proprio in quel genere da loro tanto disprezzato: nei romanzi scritti da Kafka durante i dieci anni precedenti.


È molto diffìcile descrivere, definire, classificare l’ammaliante immaginario kafkiano. Il fondersi del sogno con la realtà, questa formula, ovviamente ignota a Kafka, mi sembra illuminante. Al pari di un’altra frase cara ai surrealisti, quella di Lautréamont sulla bellezza dell’incontro casuale fra un ombrello e una macchina per cucire: quanto più le cose sono estranee l’una all’altra, tanto più è magica la luce che scaturisce dal loro contatto. Mi piacerebbe poter parlare di una poetica della sorpresa; o della bellezza come stupore incessante. Oppure assumere, a criterio di valore, la nozione di densità: densità dell’immaginazione, densità degli incontri inaspettati. La scena, da me citata, del coito di K. e Frieda costituisce un esempio di questa vertiginosa densità: non occupa più di una paginetta, eppure racchiude tre scoperte esistenziali diversissime (il triangolo esistenziale della sessualità) che ci riempiono di stupore nel loro succedersi serrato: la sporcizia; la bellezza inebriante e oscura dell’estraneità; la trepida e affannosa nostalgia.


Tutto il terzo capitolo è un turbine di eventi inaspettati: in uno spazio di tempo relativamente breve si succedono: il primo incontro fra K. e Frieda nella locanda; il dialogo straordinariamente realistico della seduzione dissimulata per la presenza di una terza persona (Olga); il motivo di un buco nella porta (motivo banale ma che esula dalla verosimiglianza empirica) attraverso il quale K. vede Klamm addormentato alla scrivania; la folla dei domestici che ballano con Olga; la sorprendente crudeltà di Frieda che li scaccia con una frusta e il sorprendente timore con cui essi obbediscono; il padrone della locanda che arriva mentre K. si nasconde sotto il banco; l’arrivo di Frieda che scopre K. steso per terra e nasconde al padrone la sua presenza (pur continuando ad accarezzargli teneramente il petto con un piede); l’atto d’amore interrotto dal richiamo di Klamm il quale, dietro la porta, ha finito per svegliarsi; il gesto incredibilmente coraggioso di Frieda che grida a Klamm: «Sono con l’agrimensore! »; infine, il colmo poiché esula del tutto dalla verosimiglianza empirica: seduti sopra di loro, sul banco di mescita, i due aiutanti; non hanno smesso un momento di osservarli.


 


9

I due aiutanti del castello sono probabilmente la più grande invenzione poetica di Kafka, il vero capolavoro della sua fantasia, la loro esistenza è infatti densissima di significati, oltre a essere fonte di infinito stupore: sono due ricattatori da strapazzo, due rompiscatole; ma rappresentano anche tutta la minacciosa «modernità» del mondo del castello: sono poliziotti, giornalisti, fotografi: agenti, cioè, della totale distruzione della vita privata; sono i clown innocenti che attraversano la scena del dramma; ma sono anche due lubrichi guardoni la cui presenza infonde all’intero romanzo l’odore sessuale di una promiscuità malsana e kafkianamente comica.


Ma soprattutto: l’invenzione dei due aiutanti è una leva grazie alla quale la storia viene innalzata fino a un piano in cui tutto è al tempo stesso bizzarramente reale e irreale, possibile e impossibile. Dodicesimo capitolo: K., Frieda e i due aiutanti dormono in un’aula della scuola elementare trasformata in camera da letto. Vengono sorpresi dalla maestra e dagli scolari, che sopraggiungono proprio quando l’incredibile ménage à quatre si accinge alle abluzioni del mattino; dietro le coperte stese sulle parallele, i quattro si rivestono sotto gli occhi dei bambini, divertiti e incuriositi (guardoni anche loro). Questo è più che l'incontro fra un ombrello e una macchina per cucire. È l'incontro magnificamente incongruo fra due spazi: l’aula di una scuola elementare e una equivoca stanza da letto.


La scena dotata di un’immensa poesia comica (degna di aprire un’antologia della modernità romanzesca) sarebbe inconcepibile in epoca prekafkiana. Assolutamente inconcepibile. Insisto su questo punto per sottolineare la radicale novità della rivoluzione estetica di Kafka. Ricordo che, già vent’anni or sono, Gabriel García Márquez mi disse: «È stato Kafka a farmi capire che si può scrivere in un altro modo». «In un altro modo» significava: varcando la frontiera del verosimile. Non per evadere dal mondo reale (come facevano i romantici) ma per afferrarlo meglio.


Afferrare il mondo reale è infatti insito nella definizione stessa del romanzo; ma come si può afferrarlo e al tempo stesso abbandonarsi a un ammaliante gioco dell’immaginazione? Come si può essere rigorosi nell’analisi del mondo e al tempo stesso irresponsabilmente liberi nelle fantasticherie ludiche? Come si possono conciliare questi due obiettivi incompatibili? Kafka è riuscito a risolvere questo gigantesco enigma. Ha aperto un varco nel muro del verosimile; e sulle sue orme molti altri sono passati attraverso quel varco, ciascuno a suo modo: Fellini, Márquez, Fuentes, Rushdie. E altri ancora.


Al diavolo san Garta! La sua ombra castratrice ha reso invisibile uno dei più grandi poeti del romanzo di tutti i tempi.

PARTE TERZA

IMPROVVISAZIONE IN OMAGGIO A STRAVINSKIJ

 


 


 


 


 


Il richiamo del passato

In una conferenza radiofonica del 1931, Arnold Schönberg parla dei suoi maestri: «in erster Linie Bach und Mozart; in zweiter Beethoven, Wagner, Brahms», «in primo luogo Bach e Mozart, in secondo luogo Beethoven, Wagner e Brahms». In poche frasi concise, aforistiche, egli precisa poi ciò che ha appreso da ciascuno dei cinque compositori.


Fra Bach e gli altri c’è, però, una differenza grandissima: da Mozart, per esempio, Schönberg apprende «l’arte delle frasi di lunghezza diseguale» o «l’arte di creare idee secondarie», vale a dire una tecnica squisitamente individuale, appartenente solo a Mozart. In Bach, egli rintraccia alcuni princìpi che sono gli stessi su cui tutta la musica si era basata per secoli prima di Bach: anzitutto, «l’arte di inventare gruppi di note tali da poter accompagnare se stesse»; in secondo luogo, « l’arte di creare il tutto a partire da un nucleo unico », «die Kunst, alles aus einem zu erzeugen».


Queste due frasi in cui è sintetizzata la lezione che Schönberg ha tratto da Bach (e dai suoi predecessori), basterebbero da sole a definire l’intera rivoluzione dodecafonica: contrariamente alla musica classica e alla musica romantica, entrambe fondate sull’alternanza di diversi temi musicali che si susseguono, sia una fuga di Bach sia una composizione dodecafonica si sviluppano, dalla prima all’ultima nota, a partire da un nucleo unico, che è insieme melodia e accompagnamento.


Ventitré anni dopo, quando Roland Manuel chiede a Stravinskij: «Che cosa è attualmente al centro dei suoi interessi?», questi risponde: «Guillaume de Machault, Heinrich Isaac, Dufay, Pérotin e Webern». È la prima volta che un compositore proclama in modo così esplicito l’enorme importanza della musica del XIII, XIV e XV secolo, e la accosta alla musica moderna (quella di Webern, appunto).


Pochi anni più tardi, Glenn Gould suona a Mosca davanti agli allievi del conservatorio; dopo aver eseguito pagine di Webern, Schönberg e Krenek, Gould si rivolge ai presenti commentando brevemente: «Il miglior complimento che posso fare a questa musica è affermare che segue princìpi tutt’altro che nuovi, anzi vecchi di almeno cinquecento anni»; e continua il concerto eseguendo tre fughe di Bach. Si trattava di una provocazione ben meditata: il realismo socialista, dottrina a quel tempo ufficiale in Russia, combatteva il modernismo in nome della musica tradizionale; Glenn Gould voleva dimostrare che la musica moderna (all’indice nella Russia comunista) affonda le sue radici in un’epoca molto più remota di quella cui si richiamava la musica ufficiale del realismo socialista (la quale non era, in realtà, altro che una sopravvivenza artificiale della musica romantica).


 


I due tempi

La storia della musica europea ha quasi mille anni (se i suoi primordi si fanno risalire ai primi tentativi della polifonia primitiva). La storia del romanzo europeo (se lo facciamo iniziare con Rabelais e Cervantes) ne ha circa quattrocento. Quando ci penso, ho costantemente l’impressione che queste due storie abbiano proceduto con ritmi assai simili, per così dire, in due tempi. Nella storia della musica e in quella del romanzo, le cesure fra questi tempi non sono sincrone. Nella storia della musica, infatti, la cesura occupa un intero secolo, il Settecento (l’apogeo simbolico della prima metà coincide con L'arte della fuga di Bach, l’inizio della seconda con le opere del primo classicismo) ; nella storia del romanzo la cesura cade un po’ più tardi: fra il Settecento e l’Ottocento, vale a dire fra Laclos e Sterne, da una parte, Scott e Balzac, dall’altra. Questa asincronia attesta che il ritmo della storia delle arti non è determinato da fattori sociologici o politici, bensì da fattori estetici: legati al carattere intrinseco di questa o quell’arte; cóme se, per fare un esempio, l’arte del romanzo avesse in sé due diverse possibilità (due diversi modi di essere romanzo) non attuabili nello stesso momento, parallelamente, ma solo in successione, l’una dopo l’altra.


La metafora dei due tempi mi è venuta in mente durante una discussione fra amici e non ha nessuna pretesa di scientificità; si tratta di un’esperienza banale, elementare, di immediata evidenza: per quanto concerne la musica e il romanzo, siamo stati tutti educati secondo l’estetica del secondo tempo. Per il melomane medio una messa di Ockeghem o L’arte della fuga di Bach sono difficili da capire quanto la musica di Webern. I romanzi del Settecento, anche se narrano vicende appassionanti, intimoriscono il lettore a causa della loro forma, sicché il pubblico ne conosce molto meglio gli adattamenti cinematografici (i quali ne snaturano fatalmente sia lo spirito sia la forma) che non il testo. I libri del più noto romanziere del Settecento, Samuel Richardson, sono introvabili in libreria e praticamente dimenticati. Mentre Balzac, per quanto possa sembrare invecchiato, è ancora facile da leggere, ha una forma comprensibile, familiare al lettore, per il quale essa rappresenta, anzi, il modello stesso della forma romanzesca.


L’abisso che separa l’estetica del primo tempo da quella del secondo è all’origine di molti equivoci. Nel suo libro su Cervantes, Vladimir Nabokov esprime un parere provocatoriamente negativo sul Don Chisciotte: lo considera un libro sopravvalutato, ingenuo, ripetitivo e di una ferocia intollerabile e inverosimile; questa « ferocia orrenda » ne ha fatto uno dei libri « più crudeli e barbari che siano mai stati scritti »; il povero Sancito, per dirne una, fra una scarica di legnate e l’altra, perde tutti i denti almeno cinque volte. È vero, Nabokov ha ragione: Sancho perde troppi denti, ma qui non ci troviamo nel mondo di Zola dove un episodio crudele, meticolosamente descritto in ogni suo dettaglio, diventa autentico documento di una realtà sociale; con Cervantes, siamo in un mondo creato dai sortilegi del narratore, il quale inventa, esagera e si lascia trascinare dalle sue fantasie, dai suoi eccessi; e i centotré denti rotti di Sancho non vanno presi alla lettera, come del resto nulla in questo romanzo. «“Signora, sua figlia è stata schiacciata da un rullo compressore!”. “Va bene, va bene, ma adesso mi sto facendo il bagno. Passatemela da sotto la porta”». Dobbiamo condannare per crudeltà questa vecchia storiella ceca della mia infanzia? La grande opera fondatrice di Cervantes era animata dallo spirito della non-serietà, spirito che l’estetica romanzesca del secondo tempo, guidata dall’imperativo della verosimiglianza, ha finito col rendere incomprensibile.


Il secondo tempo non ha soltanto eclissato il primo, lo ha rimosso; il primo tempo è diventato la cattiva coscienza del romanzo e soprattutto della musica. Bach - celebre in vita, dimenticato (per ben mezzo secolo) dopo la morte e lentamente riscoperto nel corso dell’Ottocento - ne è l’esempio più noto. Beethoven è l’unico che verso la fine della sua esistenza (a una settantina d’anni dalla morte di Bach) sia quasi riuscito a integrare l’esperienza bachiana nella nuova estetica musicale (si pensi ai suoi reiterati sforzi per inserire la fuga nella sonata), mentre i romantici venuti dopo di lui, pur avendo per Bach una venerazione sempre crescente, si scostavano sempre più da lui, quanto a concezioni strutturali. Per renderlo più accessibile Bach è stato soggettivizzato, sentimentalizzato (le famose trascrizioni di Busoni); poi, per reagire a questa romanticizzazione, si è cercato di risalire alla sua musica così come veniva eseguita ai suoi tempi, il che ha dato luogo a interpretazioni di considerevole piattezza. Secondo me, la musica di Bach, pur avendo ormai attraversato il deserto dell’oblio, ha ancora il volto seminascosto da un velo.


 


La storia come paesaggio che emerge dalle nebbie

Invece di parlare dell’oblio in cui è caduto Bach, potrei capovolgere il mio ragionamento e dire: Bach è il primo grande compositore che, grazie al peso immenso della sua opera, ha costretto il pubblico a prendere in considerazione la sua musica benché questa appartenesse già al passato. Evento senza precedenti poiché, fino all’Ottocento, la società coltivava quasi unicamente la musica contemporanea. E non aveva nessun rapporto vivo con il passato musicale: anche quando (e accadeva di rado) avevano studiato composizioni di epoche precedenti, i musicisti non solevano eseguirle in pubblico. Solo nell’Ottocento la musica del passato comincia a rivivere accanto a quella contemporanea e a occupare un posto sempre più importante, al punto che nel Novecento il rapporto fra presente e passato si inverte: viene ascoltata la musica antica molto più sovente di quella contemporanea che, oggi, è quasi completamente scomparsa dalle sale da concerto.


Bach è stato dunque il primo compositore che si sia imposto alla memoria della posterità; con lui, l’Europa dell’Ottocento non ha scoperto soltanto una parte essenziale del proprio passato musicale, ma anche la storia della musica. Bach non rappresentava infatti per l’Europa un passato qualunque, bensì un passato radicalmente distinto dal presente; sicché il tempo della musica si è rivelato di colpo (e per la prima volta) non come un mero succedersi di opere, ma come un succedersi di mutamenti, di epoche, di estetiche diverse.


Spesso me lo immagino, nell’anno della morte, esattamente a metà del Settecento, chino, poiché la vista gli si era molto indebolita, sull’Arte della fuga, una composizione il cui orientamento estetico rappresenta nella sua opera (che di orientamenti ne comporta parecchi) la tendenza più arcaica, estranea ormai alla sua epoca che si è completamente allontanata dalla polifonia per adottare uno stile semplice, per non dire semplicistico, che spesso rasenta la frivolezza o l’indigenza.


La collocazione storica dell’opera di Bach rivela dunque ciò che le generazioni successive avrebbero quasi dimenticato, ossia che la Storia non è necessariamente un’ascesa (verso una maggior ricchezza, una più raffinata cultura), che le esigenze dell’arte possono essere in contraddizione con le esigenze del momento (di questa o quella modernità) e che il nuovo (l’unico, l’inimitabile, ciò che non è ancora mai stato detto) può trovarsi in una direzione diversa rispetto a quella indicata da ciò che per tutti rappresenta il progresso. In effetti, l’avvenire che Bach poteva leggere nell’arte della generazione a lui coetanea e di quella più giovane doveva, ai suoi occhi, somigliare molto a una caduta. Sul finire della sua vita, quando si concentrò esclusivamente sulla polifonia pura, egli voltò le spalle al gusto dei tempi e ai suoi stessi figli compositori; fu, il suo, un gesto di sfida verso la Storia, un tacito rifiuto dell’avvenire.


Bach: straordinario crocevia delle tendenze e dei problemi storici della musica. Un centinaio di anni prima di lui, un analogo crocevia è costituito dall’opera di Monteverdi: il luogo in cui si incontrano due estetiche contrapposte («prima pratica» è chiamata da Monteverdi quella fondata sulla polifonia erudita, «seconda pratica» quella, programmaticamente espressiva, fondata sulla monodia), prefigurando in tal modo il passaggio dal primo al secondo dei due tempi.


Un altro straordinario crocevia delle tendenze storiche: l’opera di Stravinskij. Il passato millenario della musica, che nel corso dell’Ottocento era lentamente emerso dalle nebbie dell’oblio, apparve di colpo, verso la metà di questo secolo (duecento anni dopo la morte di Bach), come un paesaggio inondato di luce, in tutta la sua vastità; momento unico in cui la storia della musica è totalmente presente, totalmente accessibile, disponibile (grazie alle ricerche storiografiche, agli strumenti tecnici, alla radio, ai dischi), totalmente aperta agli interrogativi che riguardano il suo stesso senso; a me pare che di questo momento del grande bilancio la musica di Stravinskij rappresenti il monumento.


 


Il tribunale dei sentimenti

La musica è «impotente a esprimere alcunché: si tratti di un sentimento, di un comportamento, di uno stato psicologico» scrive Stravinskij in Cronache della mia vita (1935). Poche righe più sotto questa affermazione (senza dubbio esagerata, come negare infatti che la musica possa suscitare dei sentimenti?) viene precisata e sfumata: la ragion d’essere della musica, dice Stravinskij, non sta nella sua capacità di esprimere sentimenti. È interessante osservare a quanti abbia dato fastidio questa idea.


La convinzione, opposta a quella di Stravinskij, che proprio nell’espressione dei sentimenti stia la ragion d’essere della musica esisteva probabilmente da sempre, ma solo nel Settecento si è imposta come dominante, generalmente accettata e indiscutibile; è Jean-Jacques Rousseau a formularla con ruvida semplicità: a suo dire la musica imita il mondo reale, come tutte le arti, ma in un suo specifico modo: essa infatti «non rappresenterà le cose direttamente, ma susciterà nell’animo le stesse sensazioni che si provano nel vederle». Questo impone all’opera musicale una precisa struttura; «Ogni musica» dice ancora Rousseau «può essere composta di queste tre sole cose: la melodia o canto, l’armonia o accompagnamento, il movimento o misura». Badate bene: armonia o accompagnamento; il che significa che tutto è subordinato alla melodia: essa è l’elemento fondamentale, mentre l’armonia non è altro che un accompagnamento «dotato di scarsissimo potere sul cuore umano».


La dottrina del realismo socialista che, due secoli dopo, soffocherà la musica russa per più di cinquant'anni affermava esattamente la stessa cosa. I compositori cosiddetti «formalisti» erano accusati di trascurare le melodie (Zdanov, l’ideologo in capo, si indignava che la loro musica non potesse essere fischiettata all’uscita da un concerto); e li si esortava a esprimere « tutta la gamma dei sentimenti umani» (la musica moderna, da Debussy in poi, veniva stigmatizzata per la sua incapacità di farlo); nella facoltà di esprimere i sentimenti che la realtà suscita nell’uomo, si individuava (esattamente come Rousseau) il «realismo» della musica. (Questo fu il realismo socialista in musica: la trasformazione in dogmi dei princìpi del secondo tempo nel tentativo di sbarrare la strada al modernismo).


La critica più severa e più puntuale rivolta a Stravinskij è certamente quella formulata da Theodor Adorno nella sua celebre Filosofia della musica moderna (1949). Adorno descrive la situazione della musica come se si trattasse di una battaglia politica: Schönberg ne è l’eroe positivo, rappresentante del progresso (sia pure di un progresso per così dire tragico, in un’epoca in cui non è più dato progredire), Stravinskij l’eroe negativo, il rappresentante della restaurazione. Il rifiuto stravinskiano di identificare la ragion d’essere della musica nella confessione soggettiva diventa uno dei bersagli polemici di Adorno; che vede nel suo «furore antipsicologistico» una forma dell’« indifferenza nei riguardi del mondo»; nella volontà di Stravinskij di oggettivare la musica una sorta di tacito accordo con la società capitalista, soffocatrice di ogni umana soggettività; la musica di Stravinskij non rappresenta per lui, né più né meno, che l’apologia della « soppressione dell’individuo».


Ernest Ansermet, ottimo musicista, direttore d’orchestra e uno dei primi interpreti delle opere di Stravinskij (che in Cronache della mia vita lo definisce «uno dei miei più fedeli e più devoti amici»), divenne in seguito un suo critico implacabile; le obiezioni che egli muove alla musica di Stravinskij sono radicali, e vertono sulla «ragion d’essere della musica». Secondo Ansermet, infatti, «l’attività affettiva latente nel cuore umano» è stata da sempre «la fonte della musica»; proprio nell’espressione di questa «attività affettiva» risiede l’«essenza etica» della musica; mentre nell’opera di Stravinskij, il quale «rifiuta di coinvolgere la propria persona nell’atto di espressione musicale», la musica «cessa di essere espressione estetica dell’etica umana»; così, per esempio, «la sua Messa non è l’espressione, ma il ritratto della messa ... potrebbe essere stata scritta da un musicista non credente » e, quindi, trasmette soltanto «una religiosità dozzinale»; eludendo in tal modo la vera ragion d’essere della musica (sostituendo la confessione con dei ritratti), Stravinskij viene dunque meno al suo stesso dovere etico.


Perché tanto accanimento? È il retaggio del secolo passato, il romanticismo che ci portiamo dentro, che si ribella contro la sua più coerente, la sua più perfetta negazione? Stravinskij avrebbe dunque mortificato un bisogno essenziale insito in ciascuno di noi. Il bisogno di preferire gli occhi umidi agli occhi asciutti, la mano posata sul cuore alla mano in tasca, la fede allo scetticismo, la passione alla serenità, la confessione alla conoscenza?


Ansermet passa dalla critica della musica alla critica dell’autore: se Stravinskij « non ha fatto né ha tentato di fare della propria musica un atto di espressione di se medesimo, non ha agito per libera scelta, ma per una sorta di limitazione della sua natura, a causa di una mancanza di autonomia della sua attività affettiva (per non dire a causa della sua povertà di cuore che diviene meno povero solo quando ha qualcosa da amare)». 


Perbacco! ma che ne sapeva Ansermet, amico fedelissimo, della povertà di cuore di Stravinskij? Che ne sapeva lui, amico devotissimo, della sua capacità di amare? E come faceva a essere così sicuro che il cuore sia eticamente superiore al cervello? Non si commettono forse altrettante turpitudini con la partecipazione del cuore di quante se ne commettono in assenza di essa? I fanatici, dalle mani macchiate di sangue, non possono forse vantare una grande «attività affettiva»? Verrà mai il giorno in cui la faremo finita con questa ottusa inquisizione sentimentale, con questo Terrore del cuore?


 


Che cosa è superficiale e che cosa è profondo ?

I sostenitori del cuore attaccano Stravinskij, oppure, per salvare la sua musica, tentano di separarla dalle concezioni «sbagliate» del suo autore. Questa buona volontà di «salvare» la musica dei compositori sospettati di non aver abbastanza cuore si esercita spesso nei confronti dei musicisti del primo tempo. Mi capita, per caso, fra le mani un breve commento di un musicologo francese; lo dedica a Clément Janequin, grande contemporaneo di Rabelais, e alle sue composizioni cosiddette «descrittive», come Le chant des oiseaux o Le caquet des femmes (anche questa volta i corsivi sono miei): «Si tratta, in ogni caso, di pezzi alquanto superficiali. Janequin è, in realtà, un artista molto più completo di quanto non si voglia ammettere, poiché oltre a innegabili capacità pittoriche, vi è in lui una tenera poesia, un penetrante fervore nell’espressione dei sentimenti ... E un poeta raffinato, sensibile alle bellezze della natura; ed è anche un cantore incomparabile della donna e, per parlarne, trova accenti di tenerezza, di ammirazione, di rispetto...».


Teniamo bene a mente le scelte lessicali: gli opposti poli del male e del bene sono designati rispettivamente con l’aggettivo superficiale e con il suo contrario sottinteso, profondo. Ma le composizioni «descrittive» di Janequin sono davvero superficiali? In tali composizioni, Janequin trascrive suoni a-musicali (il canto degli uccelli, il chiacchiericcio delle donne, i rumori delle strade, il frastuono di una caccia o di una battaglia, ecc.) con mezzi musicali (il canto corale); questa «descrizione » viene elaborata polifonicamente. L’accostamento di un’imitazione «naturalistica» (che fornisce a Janequin sonorità mirabilmente nuove) e di una polifonia erudita, l’unione cioè di due estremi quasi incompatibili, è affascinante: il risultato è un’arte raffinata, ludica, gioiosa e piena di humour.


Ma tant’è: le parole «raffinato», «ludico», «gioioso», «humour» sono proprio quelle che il discorso sentimentale contrappone a «profondo». Ma che cosa è profondo e che cosa è superficiale? Per il critico di Janequin, sono superficiali le «doti pittoriche», «descrittive»; sono profondi il «fervore penetrante nell’espressione dei sentimenti» e gli «accenti di tenerezza, di ammirazione, di rispetto » per la donna. È profondo insomma tutto quanto riguarda i sentimenti. Ma c’è un altro modo di definire il profondo: è profondo tutto quanto riguarda l’essenziale. Il problema affrontato da Janequin nelle sue composizioni è il problema ontologico fondamentale della musica: quello del rapporto fra il rumore e il suono musicale.


 


Musica e rumore

Allorché l’uomo ha creato un suono musicale (cantando o suonando uno strumento), ha diviso il mondo acustico in due parti nettamente distinte: i suoni naturali e i suoni artificiali. Con la sua musica, Janequin ha tentato di metterli in contatto. Aveva prefigurato così, a metà del Cinquecento, ciò che avrebbero fatto nel Novecento uno Janáček (i suoi studi sul linguaggio parlato), un Bartók, o, in maniera estremamente sistematica, un Messiaen (le sue composizioni ispirate al canto degli uccelli).


L’arte di Janequin ci ricorda che esiste un universo acustico esterno all’animo umano e composto non soltanto di rumori naturali ma anche di voci che parlano, gridano, cantano e che rivestono di carne sonora la vita di tutti i giorni come quella dei giorni di festa. Ci ricorda che il compositore è pienamente libero di dare a questo universo «oggettivo» una grande forma musicale.


Una delle composizioni più originali di Janáček: I settantamila (1909): coro per voci maschili che narra il destino dei minatori della Slesia. La seconda metà di quest’opera (che dovrebbe figurare in ogni antologia della musica moderna) è un’esplosione di grida della folla, grida che si intrecciano in un tumulto affascinante: una composizione che (nonostante la sua sconvolgente drammaticità) è stranamente affine a quei madrigali che, all’epoca di Janequin, mettevano in musica le grida dei venditori ambulanti di Parigi, le grida di Londra.


Penso alle Noces di Stravinskij (composte fra il 1914 e il 1917): un ritratto (il termine usato da Ansermet in senso peggiorativo è in effetti adattissimo) di nozze contadine; si odono canzoni, rumori, discorsi, grida, richiami, monologhi, scherzi (quel tumulto di voci prefigurato da Janáček) in un’orchestrazione (quattro pianoforti e percussioni) di affascinante crudezza (che a sua volta prefigura Bartók).


Penso anche alla suite per pianoforte All'aria aperta (1926) di Bartók; la quarta parte: i rumori della natura (che a me paiono voci di rane in riva a uno stagno) suggeriscono al compositore motivi melodici di rara originalità; con questa sonorità animale viene poi a fondersi una canzone popolare che, pur essendo una creazione umana, si pone sullo stesso piano dei versi delle rane; non è un Lied, una canzone romantica destinata a esprimere l’«attività affettiva» dell’anima del compositore; è una melodia venuta dall’esterno come rumore fra altri rumori.


E penso all’Adagio del Terzo Concerto per pianoforte e orchestra dello stesso Bartók (opera del suo ultimo, triste periodo americano). Il tema quanto mai soggettivo di malinconia ineffabile si alterna qui con l’altro tema quanto mai oggettivo (che richiama del resto la quarta parte della suite All’aria aperta): come se il pianto di un’anima potesse essere consolato soltanto dalla non-sensibilità della natura.


Proprio così: «consolato dalla non-sensibilità della natura». Perché la non-sensibilità è consolante; il mondo della non-sensibilità, è il mondo al di fuori della vita umana; è l’eternità; «è il mare che è andato con il sole». Mi ricordo dei tristi anni passati in Boemia agli inizi dell’occupazione russa. Fu allora che mi innamorai di Varèse e di Xenakis: quelle immagini di mondi sonori oggettivi ma inesistenti mi parlavano dell’essere liberato dalla soggettività umana, aggressiva e ingombrante; mi parlavano della bellezza dolcemente disumana del mondo prima o dopo il passaggio degli uomini.


 


Melodia

Ascolto un canto polifonico a due voci, del XII secolo, dovuto alla scuola di Notre-Dame di Parigi: in basso, in valori aumentati, e in funzione di cantus firmus, un antico canto gregoriano (canto che risale a un passato remotissimo e probabilmente non europeo); al di sopra, in valori più brevi, si snoda la melodia di accompagnamento polifonica. L’intrecciarsi di queste due melodie, appartenenti a epoche diverse (distanti molti secoli l’una dall’altra), ha un che di meraviglioso: assistiamo qui, come realtà e parabola a un tempo, alla nascita della musica europea come arte: una melodia viene creata per seguire in contrappunto un’altra melodia, antichissima, e di origine quasi sconosciuta; essa ha dunque un ruolo secondario, subordinato, di fatto servile, e tuttavia, per quanto «secondaria», è proprio su questa che si concentra tutta l’invenzione, tutto il lavoro del musicista medioevale, mentre la melodia accompagnata viene tratta pari pari da un repertorio di antichissima data.


Per me questa antica composizione polifonica è una vera delizia: la melodia è lunga, interminabilmente lunga e impossibile da memorizzare; essa non è il prodotto di una ispirazione improvvisa, non è sgorgata come espressione immediata di uno stato d’animo; ha invece il carattere di una elaborazione, di un ornato «artigianale», di un lavoro eseguito dall’artista non al fine di aprire l’anima sua (di esternare la sua «attività affettiva», come direbbe Ansermet) ma con l’umile scopo di abbellire una liturgia.


A mio avviso l’arte della melodia conserverà, fino a Bach, questo carattere che le è stato impresso dai primi polifonisti. Ascolto l’Adagio del Concerto per violino in mi maggiore di Bach: l’orchestra (i violoncelli) suona, come fosse una sorta di cantus firmus, un tema semplicissimo, orecchiabile e ripetuto più volte, mentre al di sopra si libra la melodia del violino (in cui si concentra la sfida melodica del compositore), una melodia incomparabilmente più lunga, più cangiante, più ricca del cantus firmus orchestrale (al quale essa resta purtuttavia subordinata), bella, maliosa ma inafferrabile, impossibile da memorizzare, e per noi, figli del secondo tempo, sublimemente arcaica.


La situazione cambia agli albori del classicismo. La composizione perde il suo carattere polifonico; l’autonomia delle singole voci si perde, nella sonorità delle armonie di accompagnamento, e tanto più si perde quanta più importanza assume la grande novità del secondo tempo, l’orchestra sinfonica e il suo impasto sonoro; la melodia, da «secondaria», «subordinata» che era, diventa ora l’idea di fondo della composizione e domina la struttura musicale la quale si è del resto interamente trasformata.


A questo punto, muta anche il carattere della melodia: non è più una lunga linea che attraversa tutto il pezzo; essa diviene riducibile a una formula di poche battute, formula molto espressiva, concentrata, quindi orecchiabile, capace di cogliere (o di suscitare) una emozione immediata (alla musica si impone dunque, più che mai, una grande funzione semantica: captare e «definire» musicalmente le emozioni in tutte le loro sfumature). Ecco perché il pubblico attribuisce la qualifica di «grande melodista» ai compositori del secondo tempo, a un Mozart o a uno Chopin, ma raramente a Bach o a Vivaldi e tanto meno a Josquin Desprez o a Palestrina: l’idea di melodia (di bella melodia) oggi comune è il prodotto dell’estetica nata con il classicismo.


Eppure, non è affatto vero che Bach sia meno melodico di Mozart; la sua melodia è soltanto diversa. L’arte della fuga : il famoso tema


 


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è il nucleo a partire dal quale viene creato il tutto (come dice Schönberg); e tuttavia non è questo tema a formare il tesoro melodico dell’Arte della fuga; esso è costituito invece dalle melodie che dal tema stesso si innalzano, facendogli da contrappunto. Apprezzo molto, personalmente, l’orchestrazione e l’interpretazione che ne dà Hermann Scherchen; prendiamo, ad esempio, la quarta fuga; Scherchen la esegue due volte più lentamente di quanto non si faccia di solito (Bach non dà indicazioni di tempo); è proprio questa lentezza a svelarne tutta l’insospettata bellezza melodica. Una simile rimelodizzazione di Bach non ha nulla a che vedere con una romanticizzazione (non ci sono né rubati, né accordi aggiunti, in Scherchen); mi riferisco qui alla melodia autentica del primo tempo, inafferrabile, impossibile da memorizzare, irriducibile a una breve formula, una melodia (un groviglio di melodie) che mi ammalia con la sua serenità ineffabile. Ascoltandola non si può non provare una grande emozione. Ma si tratta di un’emozione radicalmente diversa da quella che suscita in noi un notturno di Chopin.


È come se, dietro l’arte della melodia, si celassero due possibili intenzionalità, opposte l’una all’altra: come se una fuga di Bach, mettendoci in presenza di una bellezza extrasoggettiva dell’essere, volesse farci dimenticare stati d’animo, passioni e dispiaceri, noi stessi insomma; e la melodia romantica volesse, invece, immergerci in noi stessi, farci sentire il nostro io con una intensità tremenda e farci dimenticare tutto quanto è fuori di noi.


 


Le grandi opere del modernismo come riabilitazione del primo tempo

I più grandi romanzieri del periodo postproustiano, e penso in particolare a Kafka, a Musil, a Broch, a Gombrowicz o, nella mia generazione, a Fuentes, sono stati estremamente sensibili all’estetica del romanzo preottocentesco, pressoché dimenticata: essi hanno incorporato nell’arte del romanzo la riflessione di tipo saggistico; hanno reso più libera la struttura compositiva; si sono riappropriati del diritto alla digressione; hanno infuso nel romanzo lo spirito del gioco e della non-serietà; hanno respinto i dogmi del realismo psicologico creando personaggi senza pretendere di far concorrenza allo stato civile (come Balzac); e soprattutto: hanno negato l’obbligo di suggerire al lettore l’illusione del reale; obbligo che ha regnato indiscusso su tutto il secondo tempo del romanzo.


Una tale riabilitazione dei princìpi del romanzo del primo tempo non equivale affatto alla riesumazione di questo o quello stile rétro; né tanto meno a un ingenuo rifiuto del romanzo ottocentesco: il senso della riabilitazione di cui parlo è più generale: implica una ridefinizione e un ampliamento del concetto stesso di romanzo; il rifiuto della riduzione che gli è stata imposta dall’estetica ottocentesca; l’assunzione come base del romanzo di tutta la sua esperienza storica.


Non intendo tracciare un facile parallelo tra romanzo e musica, perché i problemi strutturali di queste due arti non sono paragonabili fra di loro; le situazioni storiche presentano tuttavia qualche affinità: al pari dei grandi romanzieri, i grandi compositori moderni (Stravinskij non meno di Schönberg) hanno cercato di abbracciare tutti i secoli della musica, ri-pensando e ricomponendo la scala di valori di tutta la sua storia; a questo fine, hanno dovuto far uscire la musica dal solco tracciato dal secondo tempo (a proposito: il termine neoclassicismo comunemente affibbiato a Stravinskij è fuorviante giacché le sue più incisive incursioni nel passato sono dirette a epoche anteriori al classicismo); da ciò deriva la loro riluttanza: di fronte alle tecniche compositive nate con la forma-sonata; al predominio della melodia; alla demagogia sonora dell’orchestrazione sinfonica; ma soprattutto: il loro rifiuto di individuare la ragion d’essere della musica esclusivamente in una confessione della vita emotiva, idea che nell’Ottocento era diventata per la musica un imperativo ferreo quanto l’obbligo della verosimiglianza, per la coeva arte del romanzo.


Se questa tendenza a ri-leggere e a ri-valutare l’intera storia della musica è comune a tutti i grandi modernisti (se essa è, come penso, ciò che distingue la grande arte modernista dall’affettazione modernista), colui che l’ha espressa più chiaramente di chiunque altro (e, direi quasi, in maniera iperbolica) è stato Stravinskij. Proprio su questo si concentrano gli attacchi dei suoi detrattori: in un simile sforzo di radicarsi nell’intera storia della musica vedono eclettismo; mancanza di originalità; difetto di invenzione. L’«incredibile varietà di procedimenti stilistici » di cui egli fa uso, dice Ansermet, «rassomiglia a un’assenza di stile». E Adorno aggiunge, sarcasticamente: la musica di Stravinskij non s’ispira ad altro che alla musica stessa, è «musica fatta sulla musica».


Giudizi iniqui: il fatto che Stravinskij, più di ogni altro compositore prima e dopo di lui, abbia attinto la propria ispirazione dall’intera storia della musica, non toglie niente all’originalità della sua arte. Non intendo dire soltanto che dietro la varietà degli stili si possono sempre ravvisare gli stessi tratti personali. Ma che proprio nel suo vagabondaggio attraverso la storia della musica, dunque nel suo consapevole, deliberato, gigantesco e ineguagliabile «eclettismo», risiede la sua assoluta e incomparabile originalità.


 


Il terzo tempo

Ma che cosa significa, per Stravinskij, questa volontà di abbracciare il tempo della musica nella sua interezza? Che senso ha?


Da giovane, non avevo dubbi: Stravinskij era per me uno di quelli che avevano spalancato una porta su orizzonti che credevo infiniti. Pensavo che, per questo viaggio senza fine che è l’arte moderna, egli avesse voluto convocare e mobilitare tutte le forze, tutti i mezzi di cui dispone la storia della musica.


L’arte moderna, un viaggio senza fine? Nel frattempo, quest’impressione è svanita. Il viaggio è stato breve. Ecco perché, nella mia metafora dei due tempi in cui si è svolta la storia della musica, ho immaginato la musica moderna come un semplice posludio, come un epilogo di questa storia, come una festa al termine dell’avventura, un incendiarsi del cielo al tramonto.


Adesso, ho qualche dubbio: per quanto breve possa essere stato il percorso della musica moderna, per quanto circoscritto alla durata di una o due generazioni, e quindi riducibile forse a semplice epilogo, non può meritare, grazie alla sua immensa bellezza, alla sua importanza artistica, alla sua estetica radicalmente innovativa, alla sua saggezza sintetizzante, di essere considerato come un’epoca a sé stante, come un terzo tempo? Non sarebbe più giusto modificare la metafora che ho adoperato per la storia della musica e per quella del romanzo? Non sarebbe meglio dire che esse si sono svolte in tre tempi?


Sì, certo, la mia metafora va modificata e lo farò tanto più volentieri in quanto mi sento profondamente legato a questo terzo tempo sotto forma di un « incendiarsi del cielo al tramonto», legato a questo tempo a cui credo di appartenere io stesso, anche se appartengo a qualcosa che già non è più.


Ma torniamo alla mia domanda: che cosa significa la volontà di Stravinskij di abbracciare il tempo della musica nella sua interezza? Che senso ha?


Sono perseguitato da un’immagine: secondo una credenza popolare, il moribondo nell’istante in cui entra in agonia si vede scorrere davanti agli occhi tutta la propria vita. Nell’opera di Stravinskij, la musica europea ha ripercorso la propria vita millenaria; questo è stato il suo ultimo sogno prima di avviarsi verso un eterno sonno senza sogni.


 


Trascrizione ludica

Facciamo una distinzione: da una parte: la generale tendenza a riabilitare alcuni princìpi dimenticati della musica del passato, tendenza di cui è permeata tanto l’intera opera di Stravinskij quanto quella dei suoi grandi contemporanei; dall’altra: il colloquio diretto che Stravinskij intrattiene di volta in volta con Cajkovskij, con Pergolesi, con Gesualdo, eccetera; i «colloqui diretti», trascrizioni di questa o quell’opera antica, di questo o quel particolare stile, costituiscono la maniera caratteristica di Stravinskij che non si ritrova praticamente in nessun compositore del suo tempo (mentre la si ritrova in Picasso).


Ecco come Adorno interpreta le trascrizioni di Stravinskij (il corsivo è ancora mio): «Queste note [le note dissonanti, estranee all’armonia, che Stravinskij utilizza, per esempio, in Pulcinella] diventano le tracce della violenza cui il compositore assoggetta l’idioma, ed è proprio questa violènza che assaporiamo in esse, questo modo di brutalizzare la musica, di attentare, in un certo senso, alla sua stessa vita. Se la dissonanza era in passato espressione della sofferenza soggettiva, ora la sua asprezza, cambiando valore, diventa il contrassegno di una coercizione sociale, di cui si fa agente il compositore che lancia le mode. Materia delle sue opere sono gli emblemi stessi di questa coercizione, necessità esterna al soggetto, ad esso incommensurabile, e semplicemente impostagli dal di fuori. Non è da escludere che la vasta risonanza ottenuta dalle composizioni neoclassiche di Stravinskij sia dovuta in gran parte al fatto che queste sia pure inconsapevolmente, e con il pretesto dell’estetismo, hanno in qualche modo abituato gli uomini a ciò che di lì a poco avrebbero dovuto metodicamente subire sul piano politico».


Ricapitoliamo: una dissonanza è giustificata se è espressione di una «sofferenza soggettiva», ma in Stravinskij (moralmente colpevole, come sappiamo, di non parlare delle proprie sofferenze) la stessa dissonanza è indice di brutalità; questa poi (con un brillante cortocircuito del pensiero adorniano) viene messa in parallelo con la brutalità politica: così gli accordi dissonanti aggiunti alla musica di un Pergolesi prefigurano (e dunque preparano) l’imminente oppressione politica (che, nel concreto contesto politico, significava una cosa sola: il fascismo).


Nei primi anni Settanta, quando vivevo ancora a Praga, ho fatto io stesso un’esperienza di libera trascrizione di un’opera del passato, allorché ho provato a scrivere una variazione teatrale su Jacques il fatalista.


Poiché Diderot era per me l’incarnazione dello spirito libero, razionale, critico, ho vissuto in quel momento la mia simpatia per lui come una nostalgia dell’Occidente (l’occupazione russa del mio paese rappresentava ai miei occhi una deoccidentalizzazione forzata). Ma il senso delle cose muta di continuo: oggi direi che Diderot incarnava per me il primo tempo dell’arte del romanzo e che la mia commedia era l’esaltazione di alcuni princìpi familiari ai romanzieri del passato, e a me molto cari: 1) la libertà euforica della composizione; 2) il continuo accostamento di storie libertine e riflessioni filosofiche; 3) il carattere non-serio, ironico, parodistico, provocatorio, di queste riflessioni. La regola del gioco era chiara: quel che facevo non era un adattamento di Diderot, era una commedia tutta mia, la mia personale variazione su Diderot, il mio omaggio a Diderot: il suo romanzo è stato da me interamente ricomposto; le storie d’amore sono sue, ma le riflessioni all’interno dei dialoghi generalmente appartengono a me; chiunque può immediatamente scoprire che vi sono frasi impensabili sotto la penna di Diderot; il Settecento era un secolo ottimista, quello in cui vivo non lo è più, io lo sono ancor meno, e nel mio testo i personaggi del Padrone e di Jacques si lasciano sfuggire frasi di un pessimismo nero difficilmente immaginabile nel secolo dei Lumi.


Dopo questa piccola esperienza personale non posso che giudicare imbecilli le affermazioni a proposito della violenza e della brutalità di Stravinskij. Egli ha certo amato il suo antico maestro come io ho amato il mio. Aggiungendo alle melodie settecentesche le dissonanze del Novecento, immaginava forse di poter suscitare nell’altro mondo la curiosità del maestro, di confidargli qualcosa di importante sull’epoca nostra, o forse addirittura di riuscire a divertirlo. Aveva bisogno di rivolgersi a lui, di parlargli. La trascrizione ludica di un’opera del passato rappresentava per lui un modo di stabilire una comunicazione fra i secoli.


 


Trascrizione ludica secondo Kafka

Strano romanzo, America di Kafka: perché, infatti, il giovane scrittore di ventinove anni ha ambientato il suo primo romanzo in un continente dove non ha mai messo piede? Questa scelta indica chiaramente un intento: niente realismo; o meglio ancora: niente di serio. Kafka non ha neanche fatto lo sforzo di documentarsi per ovviare alla propria ignoranza; si è fatto una sua idea dell’America attraverso letture di second’ordine, vecchie oleografie, sicché l’immagine dell’America che esce dal suo romanzo è fatta (intenzionalmente) di stereotipi; per quanto riguarda i personaggi e la costruzione narrativa, la principale fonte di ispirazione (come lui stesso ammette nei diari) è Dickens, e particolarmente il David Copperfield (Kafka definisce il primo capitolo di America una «mera imitazione» di Dickens) : da lui prende a prestito i motivi concreti (li elenca: «la storia dell’ombrello, dei lavori forzati, le case sporche, l’amata in una casa di campagna»), l’idea dei personaggi (Karl è un’affettuosa parodia di David Copperfield) e soprattutto l’atmosfera che pervade tutti i romanzi di Dickens: il sentimentalismo, la distinzione semplicistica fra buoni e cattivi. Se Adorno può definire la musica di Stravinskij «musica fatta sulla musica», America di Kafka è «letteratura fatta sulla letteratura», anzi è, in questo genere, un’opera classica, per non dire fondativa.


Apriamo il romanzo alla prima pagina: Karl sta scendendo dal piroscafo, nel porto di New York, quando si accorge di aver dimenticato l’ombrello in cabina. Per tornare a prenderlo affida a uno sconosciuto la valigia (la pesante valigia che contiene tutti i suoi averi): questo suo incredibile candore gli farà naturalmente perdere valigia e ombrello. Sin dalle prime righe, lo spirito della parodia ludica dà vita a un mondo immaginario in cui niente è del tutto verosimile e tutto è un po’ comico.


Il castello di Kafka che non compare su nessuna carta di questo mondo non è più irreale di questa America ricavata dall’immagine stereotipa della nuova civiltà del gigantismo e della macchina. Nella casa dello zio senatore, Karl trova una scrivania che è un macchinario straordinariamente complicato, con un centinaio di scomparti azionati da altrettanti bottoni, oggetto al tempo stesso pratico e del tutto inutile, miracolo della tecnica e nonsenso puro. Nel romanzo ho contato dieci di questi meccanismi meravigliosi, divertenti e inverosimili, dalla scrivania dello zio alla labirintica villa di campagna, all’Albergo Occidentale (un’architettura mostruosamente complessa, un’organizzazione diabolicamente burocratica), fino al teatro di Oklahoma, dotato anch’esso di una colossale, inafferrabile amministrazione. Kafka sceglie quindi la strada del gioco parodistico (del gioco con gli stereotipi) nell’affrontare per la prima volta il suo tema maggiore, l’organizzazione sociale come dedalo in cui l’uomo si perde e corre verso la propria perdita. (Dal punto di vista genetico: nel meccanismo comico della scrivania dello zio si può ravvisare l’origine della terrificante amministrazione del castello). Kafka ha potuto affrontare un tema così serio non in un romanzò realistico, fondato su uno studio sociale alla maniera di Zola, ma scegliendo proprio la strada apparentemente frivola della « letteratura fatta sulla letteratura » che ha lasciato alla sua fantasia tutta la libertà necessaria (libertà di esagerazioni, di eccessi, di inverosimiglianze, libertà di invenzioni ludiche).


 


Aridità di cuore dissimulata sotto lo stile traboccante di sentimento

In America sono frequenti i gesti sentimentali inspiegabilmente sproporzionati. Alla fine del primo capitolo: Karl è già pronto ad andarsene con lo zio, mentre il fuochista rimane nella cabina del capitano. Allora Karl «andò lentamente verso il fuochista, gli tolse la mano destra dalla cintura e la tenne fra le sue giocherellando ... Karl passava le sue dita fra le dita del fuochista che si guardava intorno, con gli occhi lucidi, come se provasse un godimento per il quale tuttavia nessuno avrebbe potuto volergliene.


«“Ma tu devi difenderti, dire sì e no, altrimenti la gente non ha alcuna idea della verità. Mi devi promettere di seguire il mio consiglio perché io temo a ragion veduta di non poterti più aiutare”. E Karl si mise a piangere baciando la mano del fuochista, prese quella mano pelosa e quasi priva di vita e se la strinse contro le guance, come un tesoro al quale era costretto a rinunciare. Ma intanto lo zio senatore era già accanto a lui e lo trascinava via anche se solo con la più dolce violenza» (il corsivo è mio).


Un altro esempio: al termine della serata nella villa di Pollunder, Karl spiega lungamente perché vuole ritornare dallo zio. «Durante questo lungo discorso di Karl, il signor Pollunder aveva ascoltato attentamente; spesso, specialmente quando veniva nominato lo zio, aveva stretto anche se impercettibilmente Karl a sé...».


I gesti sentimentali dei personaggi non sono soltanto esagerati, sono fuori posto. Karl conosce il fuochista da appena un’ora e non ha alcuna ragione di essergli così ardentemente affezionato. Anche se si finisce per credere che il giovane sia ingenuamente commosso dalla promessa di un’amicizia virile, si rimane tanto più stupiti che un attimo dopo si lasci trascinare lontano dal nuovo amico così facilmente, senza opporre alcuna resistenza.


Durante la scena della serata da Pollunder, questi sa benissimo che lo zio ha già cacciato Karl da casa sua; è perciò che lo stringe a sé con tanto affetto. Ma, nel momento in cui Karl legge in sua presenza la lettera dello zio e viene a conoscenza della propria triste sorte, Pollunder non gli dà più la minima prova di affetto né gli offre alcun aiuto.


Con America ci troviamo in un universo di sentimenti fuori tempo, fuori luogo, eccessivi, incomprensibili o, al contrario, stranamente assenti. Nei diari, Kafka definisce così i romanzi di Dickens: «Aridità di cuore dissimulata sotto lo stile traboccante di sentimento». Ed è proprio questo il senso di quel teatro di sentimenti platealmente ostentati e immediatamente dimenticati che è America di Kafka. Questa «critica del sentimentalismo » (critica implicita, parodistica, comica, mai aggressiva) prende di mira non soltanto Dickens, ma il romanticismo in generale e i suoi eredi, contemporanei di Kafka, in special modo gli espressionisti, con il loro culto dell’isterismo e della follia; prende di mira, insomma, tutta la Santa Chiesa del cuore; e affianca, ancora una volta, l’uno all’altro due artisti apparentemente diversi come Kafka e Stravinskij.


 


Un bambino in estasi

Naturalmente, non si può affermare che la musica (tutta la musica) sia incapace di esprimere i sentimenti; quella dell’epoca romantica è autenticamente e legittimamente espressiva; ma anche di essa si può dire: il suo Valore non ha niente a che vedere che l’intensità dei sentimenti suscitati. La musica ha infatti lo straordinario potere di destare sentimenti anche in assenza di arte musicale. Ricordo quand’ero bambino: mi sedevo al pianoforte e mi abbandonavo a improvvisazioni appassionate per le quali mi bastavano un accordo di do minore e della sottodominante fa minore, ribaditi sempre fortissimo e all’infinito. Questi due accordi e il motivo melodico primitivo continuamente ripetuti mi hanno fatto vivere emozioni di un’intensità mai provata ascoltando Chopin o Beethoven. (Una volta, mio padre, che era musicista, si precipitò nella mia stanza furibondo - mai più, né prima né dopo, l’ho visto così furibondo -, mi sollevò di peso dallo sgabello e mi portò in sala da pranzo, dove, dominando a stento la sua repulsione, mi ficcò sotto il tavolo).


Ciò che sperimentavo allora, durante le mie improvvisazioni, era una sorta di estasi. Che cos’è l’estasi? Pestando sul pianoforte il bambino prova una grande emozione (una tristezza, un’allegria), che perviene a un tale grado di intensità da diventare insostenibile: il bambino si rifugia così in quello stato di accecamento e di assordamento, in cui si dimentica ogni cosa, in cui si dimentica perfino se stessi. Con l’estasi, l’emozione giunge al parossismo, e, simultaneamente, alla propria negazione (al proprio oblio).


Estasi significa essere «fuori di sé», come dice l’etimologia della parola greca: uscir fuori dalla propria posizione (stàsis). Essere «fuori di sé» non significa essere fuori dal momento presente come il sognatore che evade verso il passato o verso il futuro. Significa esattamente il contrario: l’estasi è infatti identificazione assoluta con l’attimo presente, oblio totale del passato e del futuro. Quando il passato e il futuro vengono cancellati, l’attimo presente si trova in uno spazio vuoto, fuori dalla vita e dalla sua cronologia, fuori dal tempo e da esso indipendente (perciò è paragonabile all’eternità, anch’essa negazione del tempo).


L’immagine acustica dell’emozione si può riconoscere nella melodia romantica di un Lied: la sua stessa lunghezza sembra voler meglio mantenere l’emozione, svilupparla, darci il tempo di assaporarla lentamente. L’estasi, invece, non può riflettersi in una melodia, poiché la memoria soffocata dall’estasi non è in grado di tenere insieme le note di una frase melodica di lunghezza appena normale; l’immagine acustica dell’estasi è il grido (oppure: un brevissimo motivo melodico che imiti il grido).


L’esempio classico dell’estasi è il momento dell’orgasmo. Torniamo col pensiero all’epoca in cui le donne non conoscevano ancora il beneficio della pillola. Spesso nel momento del piacere l’uomo dimenticava di ritirarsi a tempo fuori dal corpo della sua amante e la metteva incinta, anche se, pochi attimi prima, aveva la ferma intenzione di essere più che prudente. L’attimo dell’estasi gli aveva fatto dimenticare sia la sua decisione (il suo passato immediato) sia i suoi interessi (il suo futuro).


L’attimo dell’estasi ha dunque pesato sulla bilancia più del figlio non desiderato; e poiché questo riempirà, probabilmente, con la sua presenza non voluta l’intera vita dell’uomo, si può dire che un attimo di estasi ha pesato più di una vita intera. La vita dell’uomo si trovava di fronte all’attimo dell’estasi in una condizione di inferiorità simile a quella della finitezza di fronte all’eternità. L’uomo desidera l’eternità ma può averne soltanto il surrogato: l’attimo dell’estasi.


Mi torna in mente un episodio della mia giovinezza: ero con un amico nella sua macchina; davanti a noi, c’erano persone che attraversavano la strada. Ho riconosciuto un tale che mi era antipatico e l’ho indicato al mio amico: «Mettilo sotto!». Scherzavo, naturalmente, ma lui si trovava in uno stato di straordinaria euforia e ha accelerato. L’uomo ha avuto paura, ha perso l’equilibrio, è caduto. Il mio amico ha bloccato la macchina all’ultimo momento. L’uomo non era ferito, ma i passanti si sono accalcati intorno a noi ben decisi (e posso capirlo) a linciarci. Eppure, il mio amico non aveva l’animo di un assassino. Le mie parole lo avevano gettato in una breve estasi (una delle più strane, del resto: l’estasi di uno scherzo).


Siamo abituati a collegare la nozione di estasi ai grandi momenti mistici. Ma c’è anche l’estasi quotidiana, banale, volgare: l’estasi della collera, l’estasi della velocità al volante, l’estasi provocata dai rumori assordanti, l’estasi da partita di calcio. Vivere è un gravoso sforzo continuo per non perdere di vista se stessi, per essere sempre solidamente presenti in se stessi, nella propria stàsis. Basta uscire un attimo da se stessi per sconfinare nel regno della morte.


 


Felicità ed estasi

Mi chiedo se Adorno abbia mai provato il minimo piacere ad ascoltare la musica di Stravinskij. Piacere? A sentir lui, la musica di Stravinskij può darne uno solo: «il piacere perverso della privazione»; essa è infatti tutta un «privarsi»: dell’espressività; della sonorità orchestrale; della tecnica di sviluppo; essa deforma le vecchie forme con il suo «sguardo maligno»; è «ghignante», inetta all’invenzione, capace solo di «ironia», «caricatura», «parodia»; non è altro che «negazione» non soltanto della musica dell’Ottocento, ma della musica in senso lato («la musica di Stravinskij è una musica da cui la musica è stata bandita» dice Adorno).


Che strano... E la felicità che promana da questa musica?


Ricordo la mostra di Picasso che si tenne a Praga verso la metà degli anni Sessanta. C’era un quadro che mi è rimasto impresso. Un uomo e una donna mangiano un’anguria; la donna è seduta, l’uomo sdraiato per terra, a gambe all’aria in un gesto di gioia indicibile. L’incantevole spensieratezza con cui l’insieme è stato dipinto mi ha indotto a pensare che, nel dipingere il quadro, l’artista provasse la stessa gioia dell’uomo che se ne sta a gambe all’aria.


La felicità dell’artista che dipinge l’uomo con le gambe alzate è una felicità raddoppiata; è la felicità di contemplare (sorridendo) la felicità. A me interessa proprio quel sorriso. Nella felicità dell’uomo con le gambe all’aria l’artista intravede una meravigliosa goccia di comicità, e questo lo riempie di allegria. Il sorriso risveglia in lui un’immaginazione gioiosa e irresponsabile, tanto irresponsabile quanto il gesto dell’uomo che alza le gambe. La felicità di cui sto parlando si pone dunque sotto il segno dello humour; ed è proprio questo a distinguerla dalla felicità delle altre epoche dell’arte, dalla felicità romantica del Tristano di Wagner, per esempio, o dalla felicità idilliaca di un Filemone e di una Bauci. (Non sarà stata una fatale mancanza di senso dell’umorismo a rendere Adorno così insensibile alla musica di Stravinskij?).


Beethoven ha scritto l’«Inno alla gioia», ma questa gioia beethoveniana è un rito durante il quale siamo tenuti a stare rispettosamente sull’attenti. I rondò e i minuetti delle sinfonie classiche sono, se vogliamo, un invito alla danza, ma la felicità di cui parlo e che mi sta a cuore non vuole dichiararsi tale mediante il gesto collettivo di una danza. Ecco perché nessuna polka mi dà felicità tranne la Circus Polka di Stravinskij, che non è stata scritta per essere ballata ma per essere ascoltata, a gambe all’aria.


Nell’arte moderna vi sono opere che hanno scoperto una inimitabile felicità dell’essere, felicità che si manifesta come euforica irresponsabilità della fantasia, come piacere di inventare, di sorprendere, finanche di scandalizzare con un’invenzione. Potremmo elencare tante opere d’arte impregnate di questa felicità: accanto a Stravinskij (Petruska, les noces, Renard, il Capriccio per pianoforte e orchestra, il Concerto per violino, ecc.) l’intera opera di Mirò; e poi i quadri di Klee; di Dufy; di Dubuffet; alcune prose di Apollinaire; l’ultimo Janáček (le Filastrocche, la suite per sestetto di strumenti a fiato, l’opera La volpe astuta); certe composizioni di Milhaud; e di Poulenc: l’opera buffa Les mamelles de Tirésias, su testo di Apollinaire, scritta verso la fine della guerra, fu condannata da coloro che ritenevano scandaloso celebrare la Liberazione con una sorta di scherzo; l’epoca della felicità (di quella rara felicità illuminata dallo humour) era, infatti, finita; dopo la seconda guerra mondiale, solo maestri ormai vecchissimi come Matisse e Picasso hanno saputo, in contrasto con lo spirito dei tempi, mantenerla viva nella loro arte.


In questa enumerazione delle grandi opere della felicità, non posso dimenticare il jazz. L’intero repertorio della musica jazz consiste di variazioni su un numero relativamente limitato di melodie. Ed è sempre possibile intravedere un sorriso che si è intrufolato fra la melodia originaria e l’elaborazione. I grandi maestri del jazz, che amavano, come Stravinskij, l’arte della trascrizione ludica, diedero versioni personali non soltanto dei vecchi song negri, ma anche di Bach, Mozart, Chopin; Ellington trascrive musiche di (Cajkovskij e di Grieg, e, per la sua Uwis Suite, compone una variante di polka paesana affine, nello spirito, a Petruska. Quel sorriso, presente anche se invisibile nello spazio che separa Ellington dal suo « ritratto » di Grieg, è invece visibilissimo sui volti dei musicisti del vecchio dixieland: quando arriva il momento del suo assolo (che è sempre parzialmente improvvisato, e quindi riserva sempre qualche sorpresa), lo strumentista fa un passo avanti per cedere poi il posto a un altro e abbandonarsi a sua volta al piacere dell’ascolto (al piacere di altre sorprese).


Nei concerti di jazz si applaude. Applaudire significa: ti ho ascoltato attentamente e adesso ti dichiaro la mia stima. Con la musica cosiddetta rock le cose cambiano. Fatto importante: ai concerti rock non si applaude. Applaudire sarebbe quasi un sacrilegio perché in tal modo si manifesterebbe la distanza critica fra chi suona e chi ascolta; lì, non si va per giudicare e apprezzare ma per abbandonarsi alla musica, per urlare con i musicisti, per confondersi con loro; lì, quel che si cerca è l’identificazione, non il piacere; la commozione, non la felicità. Lì si va per estasiarsi: il ritmo è battuto con violenza e con ossessiva regolarità, i motivi melodici sono brevi e ripetuti di continuo, i contrasti dinamici non esistono, tutto è fortissimo, il canto privilegia i registri più acuti e assomiglia al grido. Lì, non siamo più nei localini da ballo dove la musica avvolge le coppie nella loro intimità; lì siamo in grandi sale, in stadi, pigiati gli uni sugli altri, e, anche quando si balla, non ci sono coppie: ciascuno si muove da solo e con tutti al tempo stesso. La musica trasforma gli individui in un solo corpo collettivo: in questo caso parlare di individualismo e di edonismo è soltanto una delle automistificazioni della nostra epoca la quale (al pari di tutte le epoche) vuole vedersi diversa da ciò che è.


 


La scandalosa bellezza del male

Quello che mi irrita in Adorno, è il metodo del cortocircuito che con preoccupante semplicismo mette in relazione le opere d’arte con certe cause, con certe conseguenze o con certi significati politici (sociologici); le sue sottilissime riflessioni (Adorno è uno straordinario conoscitore di musica) portano quindi a conclusioni di grande povertà; di fatto, se si parte dal principio che le tendenze politiche di qualsiasi epoca sono sempre riducibili a due sole e opposte tendenze, si finisce fatalmente col collocare un’opera d’arte o nel campo del progresso o in quello della reazione; e visto che la reazione è il male, l’inquisizione può dare inizio al processo.


Le sacre du printemps: un balletto che termina con il sacrificio di una fanciulla che deve morire perché la primavera possa resuscitare. Adorno: Stravinskij si schiera nel campo della barbarie; la sua « musica non si identifica con la vittima, ma con l’istanza distruttrice» (domanda: perché il verbo «identificarsi»? come fa Adorno a sapere se Stravinskij « si identifica » o no? perché non dire «dipingere», «ritrarre», «raffigurare», «rappresentare»? risposta: perché solo l'identificazione con il male è colpevole e può legittimare un processo).


Da sempre detesto, profondamente, violentemente, quelli che in un’opera d’arte vogliono trovare una posizione (politica, filosofica, religiosa, ecc.), invece di cercarvi una intenzione di conoscere, di capire, di cogliere questo o quell’aspetto della realtà. Prima di Stravinskij, la musica non aveva mai saputo dare una forma alta ai riti barbarici. Nessuno riusciva a immaginarli musicalmente. Vale a dire: nessuno sapeva immaginare la bellezza della barbarie. Senza la sua bellezza, questa barbarie rimarrebbe incomprensibile. (Vorrei sottolinearlo: per conoscere a fondo un qualsiasi fenomeno bisogna comprenderne la bellezza, reale o potenziale). Ma proprio qui sta lo scandalo, insopportabile, inaccettabile, nell’affermare che un rito sanguinario ha una sua bellezza. E tuttavia, se non si capisce questo scandalo, se non lo si percorre fino in fondo, non si capirà granché dell’uomo. Stravinskij dà al rito barbarico una forma musicale forte, convincente, ma non menzognera: ascoltiamo l’ultimo quadro del Sacre, la danza del sacrificio: l’orrore non viene aggirato. È ben presente. Un orrore solo mostrato? Non denunciato? Ma se fosse denunciato, ossia privato della sua bellezza, additato nella sua mostruosità, sarebbe un imbroglio, una semplificazione, sarebbe «propaganda». L’uccisione della fanciulla è così orribile proprio perché è bella.


Così come ha fatto un ritratto della messa, un ritratto della fiera paesana (Petruska), Stravinskij fa qui un ritratto dell’estasi barbarica. Ciò è tanto più interessante in quanto il musicista si è sempre, ed esplicitamente, schierato a favore del principio apollineo, e contro il principio dionisiaco: Le sacre du printemps (e in particolare le sue danze rituali) è il ritratto apollineo dell’estasi dionisiaca: in questo ritratto, gli elementi estatici (la pulsazione aggressiva del ritmo, i pochi, brevissimi motivi melodici, ripetuti più volte, mai sviluppati e simili a grida) vengono trasformati in grande arte raffinata (il ritmo, per esempio, nonostante la sua aggressività, diventa così complesso nella sua rapida alternanza di misure diverse da creare un tempo artificiale, irreale, assolutamente stilizzato); e tuttavia, la bellezza apollinea di questo ritratto della barbarie non ne occulta l’orrore; ci rivela che al fondo dell’estasi non c’è altro che la durezza del ritmo, i colpi aspri delle percussioni, l’estrema insensibilità, la morte.


 


L’aritmetica dell’espatrio

La vita di un esule è un problema aritmetico: Józef Konrad Korzeniowski (divenuto famoso con il nome di Joseph Conrad) visse i primi diciassette anni della sua vita in Polonia (e in Russia dove il padre era stato esiliato), e i restanti cinquant’anni in Inghilterra (o a bordo di navi inglesi). Per questo come scrittore potè adottare la lingua inglese e tematiche inglesi. Solo nella sua allergia per tutto quanto è russo (povero Gide, che trovava enigmatica l’avversione di Conrad per Dostoevskij!) rimane una traccia della sua «polacchità».


Bohuslav Martini! ha vissuto fino a trentadue anni in Boemia, e poi, per trentasei anni, in Francia, in Svizzera, in America e di nuovo in Svizzera. Dalla sua opera emana una costante nostalgia della patria ed egli non ha mai smesso di proclamarsi compositore ceco. Eppure, dopo la guerra, ha declinato ogni invito a rientrare nel suo paese e per suo espresso desiderio è stato sepolto in Svizzera. Nel 1979, vent’anni dopo la sua morte, agenti della madrepatria riuscirono, a dispetto delle sue ultime volontà, a trafugarne il corpo e a dargli solenne sepoltura in terra natale.


Witold Gombrowicz ha vissuto trentacinque anni in Polonia, ventitré in Argentina, sei in Francia. Ciò nonostante, l’unica lingua dei suoi libri è il polacco e i personaggi dei suoi romanzi sono tutti polacchi. Nel 1964, mentre si trova a Berlino, viene invitato in Polonia. Esita un po’ e, alla fine, rifiuta. È sepolto a Vence.


Vladimir Nabokov ha vissuto vent’anni in Russia, ventuno in Europa (in Inghilterra, in Germania, in Francia), vent’anni in America, sedici anni in Svizzera. Come scrittore ha adottato la lingua inglese ma non sempre tematiche americane; nei suoi romanzi, vi sono molti personaggi russi. Eppure, inequivocabilmente e con insistenza, si proclamava cittadino e scrittore americano. Il suo corpo riposa a Montreux, in Svizzera.


Kazimierz Brandys ha vissuto sessantacinque anni in Polonia, nel 1981 dopo il colpo di stato di Jaruzelski si è stabilito a Parigi. Scrive unicamente in polacco, di argomenti polacchi, ma sebbene dal 1989 non abbia più alcuna ragione politica per rimanere all’estero, non è tornato a vivere in Polonia (il che mi procura ogni tanto il piacere di vederlo).


Questa veloce panoramica mette in luce innanzitutto il problema artistico di un esule: blocchi di vita quantitativamente uguali non hanno lo stesso peso se appartengono alla giovinezza o all’età adulta. Se quest’ultima è più ricca e più importante, sia per la vita sia per l’attività creativa, il subconscio, la memoria, la lingua, vale a dire la base medesima della creazione si strutturano invece prestissimo; per un medico questo non costituirà un problema, ma per un romanziere, per un compositore, allontanarsi dal luogo cui sono legati la sua immaginazione, le sue ossessioni, e quindi i suoi temi fondamentali rischia di provocare una sorta di lacerazione. Egli deve chiamare a raccolta tutte le sue energie, tutta la sua ingegnosità di artista per trasformare in atout gli svantaggi di questa situazione.


Espatriare è diffìcile anche dal punto di vista puramente personale: si pensa sempre al dolore della nostalgia; ma ancora più gravoso è il dolore dell’alienazione; la parola tedesca Entfremdung esprime meglio ciò che intendo: il processo attraverso il quale ciò che ci è stato familiare ci è diventato estraneo. L'Entfremdung non si subisce nei confronti del paese in cui si espatria: in questo caso, il processo è inverso: quel che ci era estraneo ci diventa, un po’ alla volta, familiare e caro. L’estraneità nella sua forma dolorosa, stupefacente, non si rivela nella sconosciuta appena abbordata, ma nella donna che, un tempo, è stata nostra. Solo il ritorno al paese natale dopo una lunga assenza può mettere a nudo la sostanziale estraneità del mondo e dell’esistenza.


Penso spesso a Gombrowicz in quei giorni di Berlino. Al suo rifiuto di rivedere la Polonia. Dipendeva dalla sua diffidenza verso il regime comunista allora al potere? Non credo: il comunismo polacco cominciava già a sgretolarsi, gli uomini di cultura militavano quasi tutti nelle file dell’opposizione e avrebbero trasformato la visita di Gombrowicz in un trionfo. Le ragioni vere di quel rifiuto non potevano essere altro che esistenziali. E incomunicabili. Incomunicabili perché troppo intime. Incomunicabili anche, perché troppo offensive per gli altri. Certe cose si possono solo tacere.


 


Stravinskij a casa propria

La vita di Stravinskij è divisa in tre parti di durata pressappoco equivalente: gli anni passati in Russia: ventisette; gli anni passati in Francia e nella Svizzera francofona: ventinove; gli anni passati in America: trentadue.


L’addio alla Russia avvenne in diverse fasi: prima Stravinskij va in Francia (a partire dal 1910) come per un lungo viaggio di studi. Nella sua attività creativa questi sono tuttavia gli anni più russi: Petruska, Zvezdoliki (su testo di un poeta russo, Bal’mont), Le sacre du printemps, Pribautki, la prima parte delle Noces. Allo scoppio della guerra, i contatti con la Russia diventano difficili; ma Stravinskij rimane ancora un compositore russo con Renard e L’histoire du soldat, entrambi ispirati alla poesia popolare della sua patria; solo dopo la rivoluzione capisce che per lui il paese natale è perduto probabilmente per sempre: a questo punto comincia l’espatrio vero e proprio.


L’espatrio: un soggiorno all’estero forzato per chi considera il paese natale come l’unica patria. Ma l’espatrio si prolunga e incomincia a nascere una fedeltà nuova, quella verso il paese di adozione; allora giunge il momento della rottura. A poco a poco, Stravinskij abbandona i temi legati alla Russia. Nel 1922 scrive ancora Mavra (un’opera buffa tratta da Puskin), nel 1928, Le baiser de la fée, un ricordo di Cajkovskij, ma poi, a parte qualche trascurabile eccezione, a quei temi non ritornerà mai più. Quando muore, nel 1971, la moglie Vera, in ossequio alla sua volontà, respinge la proposta del governo sovietico di dargli sepoltura in Russia e lo fa tumulare nel cimitero di Venezia.


Senza dubbio, Stravinskij si portava dentro la ferita dell’esilio al pari di tutti gli altri; senza dubbio la sua evoluzione artistica avrebbe preso una piega diversa se egli fosse potuto rimanere nel paese dove era nato. Il suo viaggio attraverso la storia della musica inizia, infatti, quando il paese natale per lui non esiste più; avendo capito che nessun altro paese può prenderne il posto, egli trova la sua unica patria nella musica; con questo non ho voluto fare un bel volo lirico, ma solo dire ciò che penso in maniera quanto mai concreta: la sua unica patria, la sua unica casa, era la musica, tutta la musica di tutti i musicisti, l’intera storia della musica; là egli ha deciso di fermarsi, di mettere radici, di abitare; là ha trovato in fondo i suoi unici compatrioti, i soli parenti, i soli amici, da Pérotin a Webern; e con loro ha iniziato una lunga conversazione che ha avuto termine solo con la sua morte.


Per ambientarsi bene ha fatto di tutto: ha sostato in tutte le stanze di questa casa, ne ha visitati tutti gli angoli, ha accarezzato tutti i mobili; è passato dalla musica del folklore antico a Pergolesi che gli ha ispirato Pulcinella (1919), agli altri maestri del barocco senza i quali sarebbe impensabile Apollon Musagète (1928), a Cajkovskij del quale trascrive le melodie nel Baiser de la fée (1928), a Bach da cui prende le mosse per il Concerto per pianoforte e strumenti a fiato (1924), per il Concerto per violino (1931) e di cui riscrive le Choral-Variationen über das Weinachtslied « Vom Himmel hoch da komm ’ ich her» (1956), al jazz che celebra in Ragtime per undici strumenti (1918), in Piano-Rag-Music (1919), in Praeludium per orchestra jazz (1937) e in Ebony Concerto (1945), a Pérotin e agli altri antichi polifonisti dai quali trae ispirazione per la Sinfonia di Salmi (1930) e soprattutto per la mirabile Méssa (1948), a Monteverdi che studia nel 1957, a Gesualdo di cui trascrive i madrigali, nel 1959, a Hugo Wolf del quale arrangia due canti sacri (1968) e alla dodecafonia verso la quale aveva avuto in un primo tempo qualche esitazione ma in cui ha finito col riconoscere, dopo la morte di Schönberg (1951), una delle stanze della propria casa.


Nessuno dei suoi detrattori, tutti paladini della musica come espressione dei sentimenti, che si indignavano per l’insopportabile discrezione della sua « attività affettiva» e lo accusavano di «povertà di cuore», aveva abbastanza cuore da capire quale lacerazione sentimentale si celasse dietro il suo vagabondare attraverso la storia della musica.


Niente di strano, dopotutto: nessuno è più insensibile dei sentimentali. Ricordate: «Aridità di cuore dissimulata sotto lo stile traboccante di sentimento».

PARTE QUARTA

UNA FRASE 

Nell’ Ombra castratrice di san Garta, ho citato una frase di Kafka, una di quelle in cui mi sembra di veder condensata tutta l’originalità della sua poetica romanzesca: la frase del terzo capitolo del Castello in cui Kafka descrive l’amplesso tra K. e Frieda. Per mostrare nel modo più esatto la bellezza specifica dell’arte di Kafka, ho preferito non ricorrere a una delle traduzioni esistenti, ma improvvisarne una io stesso che fosse il più possibile fedele. Le differenze tra una frase di Kafka e i suoi riflessi nello specchio delle traduzioni mi hanno ispirato in seguito le riflessioni che sto per esporre:


 


Traduzioni

Esaminiamo dunque le traduzioni. La prima, quella di Vialatte, è del 1938:


« Delle ore passarono là, ore di fiati mischiati, di palpiti comuni, ore durante le quali K. non cessò di avere [provare] l’impressione di perdersi, di essere penetrato così oltre [lontano] che nessun altro essere prima di lui aveva fatto altrettanta strada; all’estero, in un paese dove l’aria medesima non aveva più nulla degli elementi dell’aria natia, in cui si doveva soffocare di esilio e non si poteva far altro, in mezzo a insane seduzioni, se non continuare a camminare, se non continuare a perdersi ».


Era noto che Vialatte si era preso con Kafka qualche libertà di troppo; per questo motivo le edizioni Gallimard decisero di far rivedere le sue traduzioni in vista della pubblicazione dei romanzi di Kafka nella Plèiade nel 1976. Ma gli eredi di Vialatte si opposero; quindi venne adottata una soluzione quanto mai anomala: i romanzi di Kafka vengono pubblicati nella versione scorretta di Vialatte e alla fine del libro, in un vastissimo apparato di note, le modifiche del curatore Claude David, cosicché il lettore, se vuol ricostruire mentalmente la traduzione «giusta», è costretto a voltare continuamente le pagine per andare a guardare le note. La sintesi della traduzione di Vialatte e delle modifiche del curatore costituisce a tutti gli effetti una seconda traduzione francese che, per maggior comodità, mi permetto di indicare con il solo nome di David:


« Delle ore passarono là, ore di fiati mischiati, di palpiti confusi, ore durante le quali K. non cessò di avere [provare] l’impressione di smarrirsi, di penetrare più lontano di qualunque altro essere prima di lui; era in un paese straniero, in cui l’aria medesima non aveva più niente in comune con l’aria del paese natio; l’estraneità di quel paese faceva soffocare e tuttavia, in mezzo a folli seduzioni, non si poteva che andare [camminare] sempre più lontano, smarrirsi sempre più lontano».


A Bernard Lortholary va riconosciuto il grande merito di aver giudicato del tutto insoddisfacenti le traduzioni dei romanzi di Kafka e di aver quindi deciso di ritradurli. La sua traduzione del Castello è del 1984:


« Là passarono ore, ore di respiri mischiati, di cuori che battevano insieme, ore durante le quali K. aveva la sensazione [il sentimento] costante di smarrirsi, o di essersi spinto più lontano di qualunque altro uomo in contrade straniere, in cui l’aria medesima non aveva neanche uno degli elementi che si ritrovano nell’aria del paese natio, in cui si poteva solo soffocare a furia di estraneità, senza tuttavia poter fare altro, in mezzo a quelle seduzioni insensate, se non andare avanti [continuare] e smarrirsi ancora di più».


Ed ecco ora la frase in tedesco:


«Dort vergingen Stunden, Stunden gemeinsamen Atems, gemeinsamen Herzschlags, Stunden, in denen K. immerfort das Gefühl hatte, er verirre sich oder er sei so weit in der Fremde, wie vor ihm noch kein Mensch, eine Fremde, in der selbst die Luft keinen Bestandteil der Heimatluft habe, in der man vor Fremdheit ersticken müsse und in deren unsinnigen Verlockungen man doch nichts tun könne als weiter gehen, weiter sich verirren ».


Questa frase, tradotta fedelmente, suona così:


« Là passarono ore, ore di fiati comuni, di palpiti comuni, ore durante le quali K. aveva costantemente la sensazione di smarrirsi, o di trovarsi più lontano in un mondo estraneo di qualunque essere prima di lui, un mondo estraneo in cui l’aria medesima non aveva alcun elemento dell’aria natia, in cui si doveva soffocare di estraneità e non si poteva far altro, in mezzo a seduzioni insensate, se non continuare ad andare, se non continuare a smarrirsi».


 


Metafora

Tutta la frase non è che una lunga metafora. Da parte di un traduttore, nulla richiede maggior precisione della traduzione di una metafora. Essa ci porta infatti nel cuore dell’originalità poetica di un autore. Il primo errore che Vialatte commette è di usare il verbo s’enfoncer, penetrare: «... di essere penetrato così oltre...». Nel testo di Kafka, K. non penetra, bensì «è», «si trova». Il termine penetrare deforma la metafora: la lega troppo visivamente all’azione reale (colui che fa l’amore penetra) privandola in tal modo del suo grado di astrazione (il carattere esistenziale della metafora di Kafka non mira a un’evocazione materiale, visiva, del movimento amoroso). Nel rivedere la traduzione di Vialatte, David conserva lo stesso verbo: s’enfoncer. E anche Lortholary (il più fedele) evita la parola étre, essere, e la sostituisce con s’avancer, spingersi.


Nel testo di Kafka, K si trova facendo l’amore in der Fremde, in un mondo estraneo; Kafka ripete la parola due volte, e la terza usa il derivato die Fremdheit (l’estraneità): nell’aria di un mondo estraneo si soffoca di estraneità. Questa tripla ripetizione infastidisce tutti i traduttori: Vialatte usa étranger una volta sola e, invece di étrangeté, sceglie un’altra parola, exil: «in cui si doveva soffocare di esilio». Ma Kafka non parla affatto di esilio. Esilio ed estraneità sono concetti ben diversi. Nel far l’amore K. non è scacciato da un qualsiasi luogo definibile come casa sua, non è bandito (e dunque non è da compiangere) ; è là dov’è per sua volontà, è là perché ha osato esserci. La parola esilio conferisce alla metafora un’aura di martirio, di sofferenza, una patina sentimentale, melodrammatica.


Vialatte e David traducono il termine gehen (andare) con il termine marcher, camminare. Se andare diventa camminare, l’espressività della similitudine è accresciuta e la metafora diviene lievemente grottesca (l’uomo che fa l’amore diventa un camminatore). Questo aspetto grottesco non è sbagliato a priori (per quanto mi riguarda ho una predilezione per le metafore grottesche e sono spesso costretto a difenderle contro i miei traduttori) ma, indubbiamente, quello a cui Kafka mirava in questa frase non era l’effetto grottesco.


La parola Fremde è l’unica che non tollera una traduzione letterale. In tedesco, infatti, Fremde significa non soltanto paese straniero ma anche, più generalmente, più astrattamente, tutto quanto è estraneo, una realtà estranea, un mondo estraneo. Usare qui l’espressione à l'étranger, all’estero, presupporrebbe che in Kafka si trovasse la parola Ausland (= un paese che non è il mio). Mi pare quindi comprensibile la tentazione di tradurre, per uno scrupolo di esattezza semantica, la parola Fremde con una perifrasi formata da due parole francesi; in tutte le soluzioni concrete, però (Vialatte: «à l’étranger, dans un pays où», all’estero, in un paese in cui; David: «dans un pays étranger», in un paese straniero; Lortholary: «dans ces contrées étrangères», in quelle contrade straniere), la metafora perde, ancora una volta, il grado di astrazione che ha in Kafka, e il suo aspetto «turistico», invece di essere soppresso, viene sottolineato.


 


La metafora come definizione fenomenologica

Ho detto che Kafka non amava le metafore; ma sarebbe meglio dire che non amava un certo genere di metafore, pur essendo uno dei grandi creatori di quella metafora che io definisco esistenziale o fenomenologica. Quando Verlaine dice: «La speranza luccica come un filo di paglia in una stalla», crea una splendida immagine lirica. Però è del tutto inconcepibile nella prosa kafkiana. Infatti, se c’era una cosa da cui Kafka rifuggiva, questa era proprio la liricizzazione della prosa romanzesca.


L’immaginazione metaforica di Kafka non era meno ricca di quella di Verlaine o di Rilke, ma non era lirica: era cioè animata esclusivamente dalla volontà di decifrare, di capire, di afferrare il senso delle azioni dei personaggi, il senso delle situazioni nelle quali essi si vengono a trovare.


Mi torna in mente un’altra scena in cui è descritto un amplesso, quella fra la signora Hentjen ed Esch nei Sonnambuli di Broch: «Ora lei preme la bocca contro la sua come un animale preme il grugno contro un vetro, ed Esch tremò di rabbia nel vedere che per sottrargli la propria anima la donna la teneva prigioniera dietro i denti serrati».


I termini «grugno», «vetro» non servono a evocare mediante una similitudine un’immagine visiva della scena, ma a cogliere la situazione esistenziale di Esch che, perfino durante l’amplesso, rimane inspiegabilmente separato (come da un Vetro, appunto) dalla propria amante ed è incapace di impossessarsi della sua anima («prigioniera dietro i denti serrati»). Situazione difficile da rappresentare, o rappresentabile solo con una metafora.


All’inizio del quarto capitolo del Castello, ha luogo il secondo amplesso tra K. e Frieda; anche questo viene descritto con una sola frase (frase-metafora) della quale improvviso una traduzione, il più fedele possibile:


«Lei cercava qualcosa e lui cercava qualcosa, rabbiosi, con i volti contratti da smorfie e la testa affondata nel petto dell’altro essi cercavano, e né i loro abbracci né i loro corpi inarcati facevano loro dimenticare bensì li richiamavano al dovere di cercare, come cani disperati frugano il terreno essi frugavano i loro corpi, e irrimediabilmente delusi, per ottenere ancora un’ultima felicità, si passavano a volte largamente la lingua sulla faccia».


Così come le parole-chiave della metafora del primo amplesso erano estraneo ed estraneità, qui le parole-chiave sono cercare e frugare. Esse non esprimono un’immagine visiva di ciò che accade, ma un’ineffabile situazione esistenziale. Claude David, che traduce «come cani affondano disperatamente le unghie nel terreno, essi affondavano le unghie nei loro corpi», non soltanto è infedele al testo (Kafka non parla affatto di unghie che affondano dove che sia), ma trasferisce la metafora dal terreno esistenziale a quello della descrizione visiva; si pone in tal modo in una estetica diversa da quella di Kafka.


(Il divario estetico è ancora più lampante nell’ultimo frammento della stessa frase: Kafka dice: «sie führen manchmal ihre Zungen breit über des anderen Gesicht» - «si passavano a volte largamente la lingua sulla faccia»; tale constatazione precisa e neutra si trasforma nella traduzione di David in una metafora espressionista: «si sferzavano la faccia a colpi di lingua»).


 


Postilla sulla sinonimizzazione sistematica

Il bisogno di usare un’altra parola in luogo di quella più ovvia, più semplice, più neutra (essere - penetrare; andare - camminare; passare - sferzare) potrebbe essere definito come un riflesso di sinonimizzazione - ed è un riflesso di quasi tutti i traduttori. Possedere una vasta gamma di sinonimi fa parte del « bello stile »; se nello stesso paragrafo del testo originale compare due volte la parola «tristezza», il traduttore, contrariato dalla ripetizione (che considera un oltraggio alla doverosa eleganza stilistica), sarà tentato di tradurre, la seconda volta, con «malinconia». Ma c’è di più: il bisogno di sinonimizzare è ormai così profondamente radicato nell’animo del traduttore che questi opta da subito per un sinonimo: traduce «malinconia» laddove nel testo originale c’è «tristezza», traduce «tristezza» laddove c’è «malinconia».


Ammettiamolo senza ombra di ironia: la situazione del traduttore è estremamente delicata: deve essere fedele all’autore e contemporaneamente rimanere se stesso; come riuscirci? Vuole (che ne sia o no consapevole) infondere nel testo la propria creatività; quindi, come per farsi coraggio, sceglie una parola che apparentemente non tradisce l’autore ma che nonostante ciò è frutto di una sua iniziativa personale. Faccio questa constatazione mentre sto rivedendo la traduzione di un mio breve testo: io scrivo «autore», e il traduttore mette «scrittore»; io scrivo «scrittore», e lui traduce «romanziere»; io scrivo «romanziere», e lui traduce «autore»; se scrivo «verso», traduce «poesia»; se dico «poesia», traduce «poemi». Kafka dice «andare», i traduttori, «camminare». Kafka dice «nessun elemento», i traduttori: «nessuno degli elementi», «nulla di comune», «non un solo elemento». Kafka dice «avere la sensazione di smarrirsi», due traduttori dicono: «avere l’impressione...», mentre il terzo (Lortholary) traduce (giustamente) alla lettera, dimostrando così che non era affatto necessario sostituire « sensazione » con «impressione». Questa pratica sinonimizzatrice in apparenza innocente, quando viene applicata in modo sistematico finisce inevitabilmente con l’attenuare il pensiero originale. E poi, perché, diavolo? Perché non si dovrebbe dire andare dove l’autore ha scritto gehen? Di grazia, signori traduttori, non sodonimizzateci!


 


Ricchezza del vocabolario

Esaminiamo i verbi della nostra frase: vergehen (passare - dalla radice gehen = andare); haben (avere); sich verirren (smarrirsi); sein (essere); haben (avere); ersticken müssen (dover soffocare); tun können (poter fare); gehen (andare); sich verirren (smarrirsi). Kafka sceglie dunque i verbi più semplici, più elementari: andare (due volte), avere (due volte), smarrirsi (due volte), essere, fare, soffocare, dovere, potere.


I traduttori tendono ad arricchire il vocabolario: non cessare di provare (invece di avere) - penetrare, spingersi, fare strada (invece di essere) - camminare (invece di andare) - ritrovare (invece di avere).


(Vorrei attirare l’attenzione sul terrore che tutti i traduttori di questo mondo provano di fronte alle parole « essere » e « avere » ! Sono disposti a qualsiasi cosa pur di sostituirle con una parola che considerano meno banale).


Anche questa tendenza è psicologicamente comprensibile: per che cosa verrà apprezzato il traduttore? Per la sua fedeltà allo stile dell’autore? Ma è proprio quello che i lettori del suo paese non avranno la possibilità di giudicare. La ricchezza del vocabolario, invece, sarà automaticamente percepita dal pubblico come un valore, una dimostrazione di bravura, una prova dell’abilità e della competenza del traduttore.


Ma la ricchezza del vocabolario non rappresenta un valore in sé. L’ampiezza del vocabolario dipende dall’intenzione estetica che sottende l’opera. Il vocabolario di Carlos Fuentes è di una ricchezza vertiginosa. Quello di Hemingway è invece estremamente limitato. La bellezza della prosa di Fuentes è legata alla ricchezza, quella della prosa di Hemingway alla ristrettezza del vocabolario.


Anche il vocabolario di Kafka è relativamente esiguo. Questa esiguità è stata spesso interpretata come una ricerca di ascesi. Come an-estetismo. Come indifferenza nei confronti della bellezza. O come il tributo pagato da Kafka alla lingua tedesca di Praga che si inaridiva perché non aveva più radici nell’uso popolare. Nessuno ha voluto ammettere che questa essenzialità del vocabolario esprimeva l' intenzione estetica di Kafka, era uno dei segni distintivi della bellezza della sua prosa.


 


Postilla generale sul problema dell 'autorità

Per un traduttore, l’autorità suprema dovrebbe essere lo stile personale dell’autore. La maggior parte dei traduttori obbedisce invece a un’altra autorità: quella del bel francese (del bel tedesco, del bell’inglese, ecc.), che sono poi il francese (il tedesco, l’inglese, ecc.) che si imparano a scuola. Il traduttore considera se stesso l’ambasciatore di questa autorità presso l’autore straniero. E qui sbaglia: ogni autore di qualche talento trasgredisce il «bello stile» e proprio in questa trasgressione sta l’originalità (e, quindi, la ragion d’essere) della sua arte. Il primo sforzo del traduttore dovrebbe essere quello di capire questa trasgressione. Questo non è difficile quando, ad esempio, si tratta di Rabelais, o Joyce, o Céline, in cui la trasgressione è lampante. Ma ci sono autori che trasgrediscono il «bello stile» in maniera delicata, appena visibile, nascosta, discreta; in questo caso, non è facile coglierla. Ma è tanto più importante riuscirci.


 


Ripetizione

Stunden (ore): tre volte - ripetizione conservata in tutte le traduzioni;


gemeinsamen (comuni): due volte - ripetizione eliminata in tutte le traduzioni;


sich verirren (smarrirsi): due volte - ripetizione conservata in tutte le traduzioni;


die Fremde (il [mondo] estraneo): due volte, poi una volta die Fremdheit (l’estraneità) - Vialatte: étranger una sola volta, poi exil al posto di étrangeté; David e Lortholary: una volta étranger (aggettivo), una volta étrangeté;


die Luft (l’aria): due volte - ripetizione conservata da tutti i traduttori;


haben (avere): due volte - la ripetizione non esiste in nessuna delle traduzioni;


weiter (più lontano): due volte - questa ripetizione viene sostituita da Vialatte con quella della parola continuer, continuare; da David con quella (piuttosto debole) della parola toujours, sempre; scompare invece nella traduzione di Lortholary;


gehen, vergehen (andare, passare) - questa ripetizione (per altro difficile da conservare) scompare in tutte le traduzioni.


In linea generale, possiamo constatare che i traduttori (obbedendo agli insegnamenti ricevuti a scuola) tendono a eliminare le ripetizioni.


 


Valore semantico di una ripetizione

Due volte die Fremde, una volta die Fremdheit: mediante questa ripetizione l’autore introduce nel suo testo una parola che ha carattere di nozione-chiave, di concetto. Se l’autore prende le mosse da questa parola per elaborare una lunga riflessione, la ripetizione di tale parola è necessaria dal punto di vista semantico e logico. Immaginiamo che, per evitare le ripetizioni, il traduttore di Heidegger renda la parola das Sein una volta con «l’essere», poi con «l’esistenza», poi con «la vita», poi ancora con «la vita umana» e, per finire, con «l'esserci». Poiché chi legge non sa mai se Heidegger parli di una sola cosa che assume diverse denominazioni o di cose diverse il risultato sarà, invece di un testo rigorosamente logico, uno scempio. La prosa del romanzo (parlo, naturalmente, dei romanzi degni di questo nome) esige lo stesso rigore (soprattutto nei passi che hanno un carattere meditativo o metaforico).


 


Seconda postilla sulla necessità di conservare la ripetizione

Più sotto, nella stessa pagina del Castello, leggiamo: «... Stimme nach Frieda gerufen wurde. “Frieda”, sagte K. in Friedas Ohr und gab so den Ruf weiter».


Il che, tradotto alla lettera, significa: «... una voce chiamò Frieda. “Frieda” disse K. all’orecchio di Frieda, trasmettendo in tal modo il richiamo».


I traduttori vogliono evitare la tripla ripetizione del nome Frieda:


Vialatte: «“Frieda!” disse all’orecchio della cameriera, trasmettendo in tal modo...».


E David: «“Frieda”, disse K. all’orecchio della sua compagna, trasmettendo in tal modo...».


Come suonano false le parole che sostituiscono il nome Frieda! Si noti bene che K., nel Castello, è sempre e soltanto K. Nel dialogo, gli altri possono chiamarlo «l’agrimensore» o in altri modi ancora, ma Kafka, il narratore, non indica mai K. con parole: «straniero», «nuovo venuto», «giovane» o che so io. K. è solamente K. E, in Kafka, non solo lui ma tutti i personaggi hanno sempre un unico nome, un unico appellativo.


Frieda è dunque Frieda; non innamorata, non amante, non compagna, non cameriera, non domestica, non puttana, non giovane donna, non ragazza, non amica, non fidanzata. Frieda.


 


Importanza melodica di una ripetizione

Vi sono dei momenti in cui la prosa di Kafka si libra altissima e diviene canto. Così accade nelle due frasi sulle quali mi sono soffermato. (Si noti che entrambe le frasi, di straordinaria bellezza, sono descrizioni dell’atto d’amore; e questo la dice più lunga, sull’erotismo di Kafka, di tutte le ricerche dei biografi. Ma lasciamo stare). La prosa di Kafka si libra in alto grazie a due ali: l’intensità dell’immaginazione metaforica e il fascino della melodia.


La bellezza melodica in questo caso è legata alla ripetizione delle parole; la frase inizia: « Dort vergingen Stunden, Stunden gemeinsamen Atems, gemeinsamen Herzschlags, Stunden...». Cinque ripetizioni, nello spazio di nove parole. Poi a metà della frase: la ripetizione della parola Fremde, e la parola Fremdheit. E alla fine della frase, ancora una ripetizione: «... weiter gehen, weiter sich verirren». Queste ripetizioni a catena rallentano il ritmo e danno alla frase un andamento nostalgico.


Nella seconda frase, il secondo amplesso di K. e Frieda, troviamo lo stesso principio di ripetizione: il verbo «cercare» ripetuto quattro volte, «qualcosa» ripetuto due volte, «corpo» due volte, «frugare» due volte; senza dimenticare la congiunzione «e» che, contro tutte le regole dell’eleganza sintattica, è ripetuta ben quattro volte.


In tedesco, la frase comincia: «Sie suchte etwas und er suchte etwas...». Vialatte dice una cosa completamente diversa: «Lei cercava e cercava ancora qualcosa...». David corregge: «Lei cercava qualcosa e anche lui, dal canto suo...». Strano: si preferisce dire «e anche lui, dal canto suo » piuttosto che tradurre letteralmente la bella e semplice ripetizione di Kafka: «Lei cercava qualcosa e lui cercava qualcosa...».


 


Tecnica della ripetizione

Esiste una tecnica specifica della ripetizione. Vi sono, naturalmente, ripetizioni sbagliate, maldestre (come quando durante la descrizione di una cena si leggono tre volte in due frasi le parole «sedia» o «forchetta»). Ma una regola c’è: se si ripete una parola è perché questa è importante, è perché si vuole porre in risalto, all’interno di un paragrafo o di una pagina, la sua sonorità non meno che il suo significato.


 


Digressione: un esempio della bellezza della ripetizione

Il brevissimo racconto (due pagine), Una lettrice scrive, di Hemingway è diviso in tre parti: 1 ) un paragrafo di poche righe in cui viene ritratta una donna che scrive una lettera «senza interrompersi, senza cancellare o riscrivere neanche una parola»; 2) la lettera stessa in cui la donna parla della malattia venerea del marito; 3) il monologo interiore che riporto qui:


«Forse lui saprà dirmi cos’è giusto fare, disse tra sé. Forse lui saprà dirmelo. Nella fotografia sul giornale ha l’aria di uno che può saperlo. Ha l’aria di uno in gamba. Ogni giorno dice a qualcuno che cosa fare. Se non lo sa lui. Io farò tutto quel che è giusto fare. Però è talmente tanto tempo. È tanto tempo. E già era tanto tempo. Dio, era già tanto tempo. Doveva andare dove lo mandavano, capisco, ma non capisco perché ha dovuto prendersela. Dio mio, se solo non se la fosse presa. Non m’importa quel che ha fatto per prenderla. Ma, Dio mio, se solo non l’avesse mai presa. Davvero non avrebbe dovuto prendersela. Non so che cosa fare. Dio mio, se non si fosse preso nessuna malattia. Non capisco perché ha dovuto prendere una malattia».


La melodia incantatoria di questa pagina è fondata interamente sulle ripetizioni. Esse non sono un artificio (come una rima in poesia) ma nascono dalla lingua parlata di tutti i giorni, dal linguaggio più spontaneo.


Vorrei aggiungere: per me, questo brevissimo racconto è un caso assolutamente unico nella storia della prosa, perché in esso la ricerca della musicalità è fondamentale: senza questa melodia il testo perderebbe ogni ragion d’essere.


 


Il respiro

Da quanto afferma lui stesso, Kafka scrisse il lungo racconto La condanna in una sola notte, senza mai interrompersi, e quindi a una velocità straordinaria, lasciandosi trasportare da una immaginazione pressoché incontrollata. La velocità svolge qui per Kafka una funzione assai simile a quella che assumerà più tardi per i surrealisti, i quali ne faranno programmaticamente il proprio metodo (la «scrittura automatica») che consente al subconscio di liberarsi dal controllo della ragione e di far esplodere l'immaginario.


L’immaginazione kafkiana, stimolata da questa velocità metodica, scorre come l’acqua di un fiume, un fiume onirico che si placa solo alla fine di un capitolo. Questo lungo respiro dell’immaginazione si riflette nella sintassi: nei romanzi di Kafka, non compaiono quasi mai i due punti (tranne quelli che servono a introdurre i dialoghi) e assai di rado il punto e virgola. Se si consulta il manoscritto (si veda l’edizione critica, Fischer, 1982), si constata che spesso mancano perfino certe virgole, apparentemente necessarie da un punto di vista sintattico. Il testo è diviso in pochissimi paragrafi. Questa tendenza a ridurre l’articolazione - pochi paragrafi, poche pause gravi (rileggendo il manoscritto, Kafka ha addirittura trasformato più volte i punti in virgole), pochi segni che sottolineino l’organizzazione logica del testo (due punti, punto e virgola) - è consustanziale allo stile di Kafka; ed è al tempo stesso un continuo oltraggio al «bello stile» tedesco (nonché al «bello stile» di tutte le lingue in cui Kafka viene tradotto) .


Kafka non ha scritto una stesura definitiva del Castello destinata ad andare in stampa ed è lecito supporre che avrebbe potuto aggiungere altre modifiche anche di punteggiatura. Non mi scandalizza quindi eccessivamente (ma neanche mi entusiasma, com’è ovvio) il fatto che, per facilitare la lettura del testo, Max Brod, in qualità di primo curatore di Kafka, abbia creato qua e là un capoverso o aggiunto un punto e virgola. Anche in questa edizione curata da Brod, il carattere generale della sintassi di Kafka rimane, infatti, chiaramente percettibile, e il romanzo conserva il suo ampio respiro.


Torniamo alla frase del terzo capitolo; è relativamente lunga, con qualche virgola ma nessun punto e virgola (nel manoscritto e in tutte le edizioni tedesche). Ciò che più mi infastidisce nella versione di Via-latte è quindi il punto e virgola da lui introdotto. Esso rappresenta la chiusura di un segmento logico, una cesura che invita ad abbassare la voce, a fare una piccola pausa. Questa cesura (sia pur corretta dal punto di vista delle regole sintattiche) strozza il respiro di Kafka. David divide, addirittura, la frase in tre segmenti, introducendo due punti e virgola. Questi due punti e virgola sono tanto più incongrui se si considera che in tutto il terzo capitolo (nel manoscritto) Kafka ne utilizza uno solo. Nell’edizione curata da Max Brod ce ne sono tredici. Vialatte ne totalizza trentuno. Lortholary ventotto, più tre due punti.


 


Immagine tipografica

Il volo della prosa di Kafka, lungo e inebriante, è visualizzato dall’immagine tipografica del testo che, spesso, è un unico, «infinito» paragrafo che continua per pagine e pagine e in cui sono compresi anche lunghi dialoghi. Nel manoscritto del Castello, il terzo capitolo è composto soltanto da due lunghi paragrafi. Nell’edizione curata da Brod ce ne sono cinque. Nella traduzione di Vialatte, novanta. Nella traduzione di Lortholary, novantacinque. Ai romanzi di Kafka è stata imposta in Francia una scansione a loro estranea: paragrafi molto più numerosi, e quindi più brevi, che simulano un’organizzazione del testo più logica, più razionale, e che lo drammatizzano, separando nettamente l’una dall’altra le battute dei dialoghi.


Che io sappia, in nessuna traduzione in altre lingue è stata cambiata la scansione originale dei testi di Kafka. Perché i traduttori francesi (tutti, indistintamente) lo hanno fatto? Avevano, certamente, una ragione per farlo. L’edizione dei romanzi di Kafka nella Plèiade comprende oltre cinquecento pagine di note. Ma non vi ho trovato nemmeno una frase in cui venisse fornita questa ragione.


 


E per finire, una postilla sui caratteri grandi e piccoli

Kafka voleva che i suoi libri venissero stampati in caratteri molto grandi. Di questo si parla ormai con la sorridente indulgenza riservata ai capricci dei grandi uomini. Ma non c’è nessun motivo di sorridere; il desiderio di Kafka era giustificato, logico, serio, legato alla sua estetica o, più concretamente, al suo modo di scandire la prosa.


L’autore che divide il suo testo in tanti piccoli paragrafi non insisterà troppo sulla grandezza del corpo: una pagina riccamente articolata è di lettura abbastanza agevole.


Al contrario, il testo che fluisce in un paragrafo infinito è assai poco leggibile. L’occhio non trova luoghi in cui sostare a riposarsi, le righe «si perdono» facilmente. Per poter essere letto con piacere (vale a dire senza fatica per gli occhi), un simile testo esige lettere relativamente grandi, tali da rendere agevole la lettura e da consentire di fermarsi in qualunque momento per assaporare la bellezza delle frasi.


Ho sotto gli occhi Il castello nell’edizione tascabile tedesca: trentanove righe di un «paragrafo infinito» penosamente stipate in una paginetta: illeggibile; o leggibile soltanto come informazione; o come documento; in nessun caso come un testo destinato a una fruizione estetica. In appendice, una quarantina di pagine con tutti i passi tagliati da Kafka nel manoscritto. Tutto questo alla faccia di Kafka, il quale avrebbe voluto che il suo testo fosse stampato (per ragioni estetiche pienamente giustificate) in caratteri grandi; e per giunta si vanno a ripescare tutte le frasi che egli ha deciso (per ragioni estetiche pienamente giustificate) di tagliare. In questa indifferenza alla volontà estetica dell’autore, si riflette tutta la tristezza del destino postumo della sua opera.


 


TRADUZIONI FRANCESI DEL BRANO

«Des heures passèrent là, des heures d’haleines mêlées, de battements de cœur communs, des heures durant lesquelles K. ne cessa d’éprouver l’impression qu’il se perdait, qu’il s’était enfoncé si loin que nul être avant lui n’avait fait plus de chemin; à l’étranger, dans un pays où l’air même n’avait plus rien des éléments de l’air natal, où l’on devait étouffer d’exil et où l’on ne pouvait plus rien faire, au milieu d’insanes séductions, que continuer à marcher, que continuer à se perdre».


 


Alexandre Vialatte


 


«Des heures passèrent là, des heures d’haleines mêlées, de battements de cœur confondus, des heures durant lesquelles K. ne cessa d’éprouver l’impression qu’il s’égarait, qu’il s’enfonçait plus loin qu’aucun être avant lui; il était dans un pays étranger, où l’air même n’avait plus rien de commun avec l’air du pays natal; l’étrangeté de ce pays faisait suffoquer et pourtant, parmi de folles séductions, on ne pouvait que marcher toujours plus loin, s’égarer toujours plus avant».


 


Claude David


 


«Là passèrent des heures, des heures de respirations mêlées, de cœurs battant ensemble, des heures durant lesquelles K. avait le sentiment constant de s’égarer, ou bein de s’être avancé plus loin que jamais aucun homme dans des contrées étrangères, où l’air lui-même n’avait pas un seul élément qu’on retrouvât dans l’air du pays natal, où l’on ne pouvait qu’étouffer à force d’étrangeté, sans pouvoir pourtant faire autre chose, au milieu de ces séductions insensées, que de continuer et de s’égarer davantage».

Milan Kundera


PARTE QUINTA

ALLA RICERCA DEL PRESENTE PERDUTO

1

Nel cuore della Spagna, in un posto qualsiasi fra Barcellona e Madrid, due persone sono sedute nel caffè di una piccola stazione: un americano e una ragazza. Di loro sappiamo soltanto che aspettano il treno per Madrid dove la ragazza subirà un’operazione, sicuramente (ma la parola non viene mai pronunciata) un aborto. Non sappiamo chi siano, che età abbiano, se si amino o no, non sappiamo per quali ragioni siano giunti a questo passo. Sebbene riferite con straordinaria precisione, le parole che si scambiano non ci dicono nulla delle loro motivazioni né del loro passato.


La ragazza è tesa e l’uomo cerca di calmarla: «È davvero un’operazione semplicissima, Jig. Non si può neanche chiamare un’operazione». Poi: «Verrò con te e starò lì per tutto il tempo...». E insiste: «Staremo bene dopo. Come stavamo prima».


E quando percepisce in lei un’ombra di irritazione, le dice: «Guarda. Se non ti va, lasciamo perdere. Non te lo farei fare se tu non volessi». E alla fine, ancora una volta: « Devi capire che non voglio che tu lo faccia se non ti va. Sono prontissimo ad andare fino in fondo se per te è importante ».


Dietro le battute della ragazza, si intuiscono i suoi scrupoli morali. Guardando il paesaggio dice: «E pensare che potremmo avere tutto questo. Che potremmo avere tutto e ogni giorno ce lo rendiamo sempre più impossibile».


Lui cerca di tranquillizzarla: «Certo che possiamo avere tutto».


«No. E una volta che ce l’hanno portato via, non possiamo più riaverlo».


E quando l’uomo torna a ripeterle che l’operazione è priva di rischi, lei chiede: «Mi faresti un piacere?».


«Farei qualunque cosa per te».


« E allora ti prego ti prego ti prego ti prego vuoi stare zitto?».


E lui di rimando: « Ma io non voglio che tu lo faccia. Per me è proprio lo stesso».


«Adesso urlo» dice la ragazza.


A quel punto la tensione raggiunge il culmine. L’uomo si alza per portare le valigie dall’altra parte del binario, e quando torna le chiede: «Ti senti meglio?».


« Mi sento bene. Non c’è problema. Mi sento bene ». Sono queste le ultime parole del celebre racconto di Ernest Hemingway Hills Like White Elephants (Colline come elefanti bianchi).


 


2

La cosa curiosa in questo racconto di cinque pagine, è che, basandosi sul dialogo, ci si può immaginare una infinità di storie diverse: l’uomo è sposato e costringe l’amante ad abortire per riguardo verso la propria moglie; non è sposato e vuole che lei abortisca perché teme di complicarsi la vita; ma è anche possibile che agisca in modo disinteressato e si preoccupi solo della ragazza e delle difficoltà che le deriverebbero dall’avere un figlio; forse, tutte le ipotesi sono ammesse, è gravemente malato e lo spaventa l’idea di lasciarla sola con un tiglio; possiamo finanche supporre che il padre del bambino sia un uomo che la ragazza ha lasciato per mettersi con l’americano e che quest’ultimo le consigli di abortire pur essendo disposto, in caso lei dovesse rifiutare, ad assumersi il ruolo di padre. E la ragazza? Potrebbe aver accettato di abortire per accontentare l’uomo; ma può anche darsi che abbia preso lei l’iniziativa e che ora, all’approssimarsi del momento decisivo, cominci ad aver paura, si senta in colpa e opponga quindi un’ultima resistenza verbale, destinata a placare la propria coscienza più che a convincere il compagno. Insomma, a voler inventare i possibili scenari che possono nascondersi dietro il dialogo non si finirebbe più.


Né la scelta è meno imbarazzante per quel che riguarda il carattere dei personaggi: l’uomo potrebbe essere sensibile, tenero, affettuoso; ma potrebbe essere anche egoista, calcolatore, ipocrita. La ragazza potrebbe essere ipersensibile, acuta, profondamente morale; ma potrebbe essere anche capricciosa, affettata, incline alle scene isteriche.


Le cause reali del loro comportamento sono del tutto oscure, tanto più che il testo non dà alcuna indicazione sul modo in cui le battute vengono pronunciate: velocemente, adagio, con tenerezza, con ironia, in tono astioso, stremato? L’uomo dice: «Lo sai che ti amo». La ragazza risponde: «Lo so». Ma che cosa vuol dire questo «lo so»? È davvero sicura dell’amore dell’uomo. O lo dice ironicamente? E che cosa vuol dire, allora, questa ironia? Che la ragazza non crede all’amore dell’uomo? O che per lei l’amore di quest’uomo non conta più niente?


Oltre al dialogo, il racconto contiene solo le poche descrizioni strettamente necessarie; scarne ed essenziali come le didascalie di un’opera teatrale. Un solo motivo sfugge a tale regola di massima economia: quello delle colline bianche che si stagliano all’orizzonte; esso ricorre più volte, accompagnato da una metafora, l’unica del racconto. A Hemingway non piacevano granché le metafore. Infatti, questa non appartiene al narratore, ma alla ragazza; è lei che guardando le colline dice: «Sembrano elefanti bianchi».


L’uomo beve un sorso di birra, poi dice: «Non ne ho mai visti ».


«È come avresti potuto?».


«Avrei potuto eccome» ribatte lui. «Lo dici tu che non avrei potuto ma questo non significa niente».


Quattro battute, in cui i caratteri si rivelano in tutta la loro diversità, se non addirittura nella loro incompatibilità: l’uomo manifesta una certa riserva davanti all’invenzione poetica della ragazza («non ne ho mai visti»), lei ribatte subito, come per rimproverargli la sua scarsa sensibilità poetica («e come avresti potuto?»), e lui (come se avesse già udito quel rimprovero e vi fosse insofferente) si difende («avrei potuto eccome»).


Più avanti, allorché l’uomo rassicura la ragazza ripetendole che l’ama, lei dice:


«Ma se lo faccio [vale a dire: se abortisco], dopo, quando dirò che le cose sembrano elefanti bianchi ti piacerà di nuovo?».


«Certo che mi piacerà. Mi piace anche adesso, ma non riesco proprio a pensarci...».


Questo diverso atteggiamento nei confronti di una metafora potrà almeno consentirci di distinguere i due caratteri? La ragazza, sottile e poetica, l’uomo, terra terra?


Certo, siamo liberissimi di immaginare che la ragazza sia più poetica dell’uomo. Siamo però altrettanto liberi di interpretare la metafora da lei proposta come un manierismo, una preziosità, un’affettazione: volendo essere ammirata come originale ed estrosa, fa sfoggio di piccole trovate poetiche. E se così fosse, quel che c’è di etico e di patetico nel suo accenno al mondo che, dopo l’aborto, non potranno più avere sarebbe da attribuire al suo amore per l’esibizione lirica anziché all’autentica disperazione della donna che rinuncia alla maternità.


Insomma, ciò che si nasconde dietro questo dialogo semplice e banale non ha nulla di scontato. Qualunque uomo potrebbe dire le stesse frasi dell’americano, qualunque donna le stesse frasi della ragazza. Ogni uomo, che ami o non ami una donna, che menta o che sia sincero, potrebbe dire altrettanto. Come se questo dialogo fosse qui sin dalla creazione del mondo in attesa di essere pronunciato da innumerevoli coppie, quale che sia la loro psicologia individuale.


Dare su questi personaggi un giudizio morale è impossibile poiché ormai non hanno più niente da decidere; quando li vediamo alla stazione, tutto è già stabilito una volta per tutte; fra loro ci sono già state infinite spiegazioni; ognuno dei due ha già fatto valere infinite volte i propri argomenti; adesso, quella vecchia contesa (vecchia discussione, vecchio dramma) traspare nebulosamente da una conversazione in cui nulla è più in gioco, in cui le parole sono soltanto parole.


 


3

Questo racconto, per quanto sia supremamente astratto e delinei una situazione quasi archetipica, è al tempo stesso supremamente concreto, poiché cerca di captare la superficie visiva e acustica di una situazione, e soprattutto del dialogo.


Provate a ricostruire un dialogo della vostra vita, il dialogo di una lite o un dialogo d’amore. Le situazioni più care, le più importanti, sono perdute per sempre. Ne rimane soltanto il senso astratto (io ho sostenuto il tal punto di vista, lui il tal altro, io sono stato aggressivo, lui sulla difensiva), accompagnato magari da uno o due particolari, ma la concretezza acustico-visiva della situazione nella sua continuità è andata persa.


Non solo è andata persa ma tale perdita non ci meraviglia nemmeno. Siamo rassegnati a perdere la concretezza del tempo presente. L’attimo presente viene immediatamente trasformato nella sua astrazione. Anche quando si racconta un episodio vissuto poche ore prima: il dialogo si riduce a un breve riassunto, la scena a pochi elementi generici. E questo vale anche per i ricordi più intensi, quelli che si imprimono nella memoria con la violenza di un trauma: siamo talmente abbagliati da questa violenza che non riusciamo a vedere quanto il loro contenuto sia schematico e povero.


Se studiamo, discutiamo, analizziamo una realtà, la analizziamo come si presenta all’animo nostro, alla nostra memoria. La nostra conoscenza della realtà è sempre al passato. Non è mai al presente, al momento in cui accade, in cui è. Ma l’attimo presente non assomiglia al suo ricordo. Il ricordo non è la negazione dell’oblio. Il ricordo è una forma dell’oblio.


Possiamo certo tenere un diario e registrarvi via via tutto quel che ci accade. Un giorno, rileggendo quelle pagine, constateremo che non riescono a evocare nemmeno una immagine concreta. Peggio ancora: vedremo che l’immaginazione non è in grado di soccorrere la nostra memoria ricostruendo ciò che è stato dimenticato. Per noi il presente, la concretezza del presente, in quanto fenomeno da esaminare, in quanto struttura, è infatti un pianeta inesplorato; perciò siamo incapaci sia di fissarlo nella memoria sia di ricostruirlo con l’immaginazione. Tutti muoiono senza sapere di aver vissuto.


 


4

Il romanzo, a mio avviso, avverte l’esigenza di opporsi alla fuggevole realtà del presente solo a cominciare da un determinato momento della sua evoluzione. La novella boccaccesca è l’esempio stesso dell’astrazione in cui il passato si trasforma appena viene raccontato: è una narrazione priva di scene concrete, quasi del tutto priva di dialoghi, una sorta di riassunto che ci comunica l’essenziale di un evento, la logica causale di una storia. I romanzieri venuti dopo Boccaccio furono straordinari narratori, ma non si posero il problema né ebbero mai l’ambizione di cogliere la concretezza del presente. Si limitavano a raccontare una storia, senza necessariamente raffigurarsela in scene concrete.


La scena diventa l’elemento fondamentale della composizione del romanzo (il luogo dei virtuosismi del romanziere) all’inizio dell’Ottocento. Scott, Balzac, Dostoevskij strutturano i loro romanzi come un susseguirsi di scene di cui vengono descritti minuziosamente l’ambientazione, il dialogo, i gesti; tutto quanto non è legato a questo susseguirsi di scene, tutto quanto non è scena, viene considerato e percepito come secondario, se non superfluo. Il romanzo è simile a una sceneggiatura ricchissima di particolari.


Con l’assunzione della scena a elemento fondamentale del romanzo, viene virtualmente posto il problema della realtà quale essa appare nell’attimo presente. Dico «virtualmente» perché, in Balzac o in Dostoevskij, l’arte della scena si ispira più alla passione per l’arte drammatica che non a quella per la concretezza, più al teatro che alla realtà. Nasce così la nuova estetica del romanzo (l’estetica di quello che ho chiamato il « secondo tempo » della storia del romanzo), la quale si manifesta proprio attraverso il carattere teatrale della composizione: vale a dire, attraverso una composizione imperniata a) su un unico intreccio (all’opposto della pratica compositiva « picaresca » che ne presenta un buon numero); b) sugli stessi personaggi (lasciare che un personaggio abbandoni il romanzo a metà strada, cosa del tutto normale per un Cervantes, viene ora considerato un errore; c) su uno spazio temporale limitato (anche se tra l’inizio e la fine del romanzo passa molto tempo, l’azione si svolge nell’arco di alcuni giorni, e solo in quelli; la vicenda dei Demoni occupa alcuni mesi, per esempio, ma pur essendo estremamente complessa viene ripartita su quattro gruppi rispettivamente di due, poi di tre, poi ancora di due e infine di cinque giorni).


Nella composizione del romanzo balzachiano o dostoevskiano, tutta la complessità dell’intreccio, tutta la ricchezza del pensiero (i grandi dialoghi di idee in Dostoevskij, per esempio), tutta la psicologia dei personaggi devono esprimersi con chiarezza solo attraverso le varie scene; per questa ragione una scena diventa, come in un’opera teatrale, artificiosamente concentrata, densa (nell’ambito di una sola scena possono aver luogo più incontri) e sviluppata secondo una logica improbabile (al fine di mettere in luce lo scontro degli interessi e delle passioni); poiché mira a esprimere tutto l’essenziale (essenziale per l’intelligibilità dell’azione e del suo significato), la scena deve rinunciare a tutto l’«inessenziale», a tutto ciò che è banale, ordinario, quotidiano, a ciò che dipende dal caso o anche soltanto dall’atmosfera.


Sarà Flaubert (che Hemingway in una lettera a Faulkner definisce «il più venerato dei nostri maestri») ad affrancare il romanzo dalla teatralità. Nei suoi libri, i personaggi si incontrano in un ambito quotidiano, che (con la sua indifferenza, la sua indiscrezione, ma anche con atmosfere o sortilegi capaci di rendere una situazione bella e indimenticabile) interviene continuamente nella loro vicenda intima. Emma ha appuntamento con Léon in chiesa, ma una guida viene a interrompere il loro dialogo con vani sproloqui. Nella sua prefazione a Madame Bovary, Henry de Montherlant ironizza su questa tendenza a introdurre sistematicamente in una scena un motivo antitetico, ma la sua ironia è fuori luogo; non si tratta infatti di un manierismo artistico; si tratta di una scoperta per così dire ontologica: la scoperta della struttura dell’attimo presente; la scoperta di quella perpetua coesistenza di banale e di drammatico che è alla base delle nostre vite.


L’aspirazione a cogliere la concretezza del presente è una di quelle che caratterizzeranno costantemente l’evoluzione del romanzo, da Flaubert in poi: essa avrà il suo apogeo, anzi il suo autentico monumento, nell’ Ulisse di Joyce che, in circa novecento pagine, descrive diciotto ore di vita; Bloom si ferma per strada a parlare con M’Coy: in un attimo solo, il tempo che passa fra due battute della conversazione, si concentrano innumerevoli cose: il monologo interiore di Bloom; i gesti che compie (la sua mano, infilata in tasca, stringe la busta di una lettera d’amore); tutto ciò che vede (una signora che mostra le gambe salendo in carrozza, ecc.); tutto ciò che ode; tutto ciò che prova. Un attimo del presente diventa, in Joyce, un piccolo infinito.


 


5

La passione per il concreto si manifesta con diversa intensità nell’arte epica e nell’arte drammatica; lo dimostra il diverso rapporto che esse hanno con la prosa. Fra il Cinque e il Seicento l’epica abbandona il verso, e diventa così un’arte nuova: il romanzo. La letteratura drammatica passerà dal verso alla prosa solo in un secondo tempo e molto più lentamente. Nell’opera lirica ciò accadrà ancora più tardi, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento con Charpentier (Louise, 1902), Debussy (Pelléas et Mélisande, 1902, il cui testo è, però, scritto in una prosa poetica estremamente stilizzata), e Janáček ( Jenufa, composta fra il 1894 e il 1903). A mio avviso, Janáček è il creatore dell’estetica operistica più importante dell’epoca dell’arte moderna. Dico «a mio avviso», perché non intendo nascondere la mia personale passione per questo musicista. Tuttavia, non credo di sbagliarmi poiché egli ha portato a compimento un’impresa immane: ha aperto all’opera lirica un mondo nuovo, il mondo della prosa. Non voglio dire che sia stato l’unico a farlo (il Berg del Wozzeck, 1925, peraltro appassionatamente difeso da Janáček, e lo stesso Poulenc della Voix humaine, 1959, vanno nella medesima direzione) ma che ha perseguito, per trent’anni, il suo obiettivo con particolare coerenza, componendo cinque opere di importanza fondamentale: Jenùfa; Kàt’a Kabanovà, 1921; La volpe astuta, 1924; L’affare Makropulos, 1925; Da una casa di morti, 1928.


Ho detto che Janáček ha scoperto il mondo della prosa perché essa non è soltanto una forma di espressione ben distinta dal verso ma è anche un aspetto della realtà, quello quotidiano, concreto, immediato, antitetico al mito. Ecco ciò di cui ogni romanziere è intimamente convinto: niente è più accuratamente dissimulato della prosa della vita; ciascuno di noi passa il tempo a tentare di trasformare la propria esistenza in mito, di metterla in versi, per così dire, di occultarla dietro un velario di versi (di brutti versi). Il romanzo è un’arte e non soltanto un «genere letterario», proprio perché la scoperta della prosa è la sua missione ontologica, una missione che nessun’altra arte può assumersi integralmente.


Nel percorso del romanzo verso il mistero della prosa, verso la bellezza della prosa (il romanzo, essendo un’arte, scopre infatti la prosa in quanto bellezza), Flaubert ha compiuto un formidabile passo in avanti. Nella storia dell’opera lirica è stato Janáček a operare, cinquant'anni dopo, la rivoluzione flaubertiana. Ma questa, che ci appare naturalissima in un romanzo (quasi che la scena fra Emma e Rodolphe sullo sfondo dei comizi agricoli fosse inscritta nei geni del romanzo come una potenzialità pressoché ineluttabile), nell’opera lirica risulta ben più scandalosa, audace, sorprendente: è in contrasto con il principio dell’irrealismo e con quello della stilizzazione estrema che sembravano inseparabili dall’essenza stessa dell’opera.


Allorché si cimentarono con l’opera, i grandi modernisti optarono, quasi sempre, per una stilizzazione ancora più radicale di quella dei loro predecessori ottocenteschi: Honegger predilige i soggetti biblici o leggendari ai quali dà una forma che oscilla fra l’opera e l’oratorio; l’unica opera di Bartók ha come tema una fiaba simbolista; Schönberg è autore di due opere: la prima è un’allegoria, mentre l’altra mette in scena una situazione estrema ai limiti della follia. Le opere di Stravinskij hanno tutte libretti in versi e sono estremamente stilizzate. Janáček si è quindi mosso controcorrente non solo nei confronti della tradizione operistica in generale ma anche rispetto alla tendenza dominante nell’opera moderna.


 


6

Una celebre vignetta: un omino baffuto, dalla folta capigliatura bianca, passeggia tenendo in mano un taccuino aperto sul quale trascrive in notazione musicale i discorsi che sente per la strada. Era la sua passione: trasformare in notazione musicale la parola viva; e di queste «intonazioni del linguaggio parlato» Janáček ce ne ha lasciate un centinaio. Questa sua curiosa attività ha indotto i contemporanei a considerarlo, nel migliore dei casi un originale, e nel peggiore uno di quegli ingenui a cui non riesce di capire che la musica è creazione e non imitazione naturalistica della vita.


Ma il problema non è: si deve o no imitare la vita? il problema è: un musicista deve o no ammettere resistenza del mondo sonoro esterno alla musica stessa e studiarlo? Le ricerche sulla lingua parlata possono chiarire due aspetti fondamentali di tutta la musica di Janáček:


1 ) la sua originalità melodica: verso la fine del periodo romantico, il tesoro melodico della musica europea sembra esaurirsi (il numero delle permutazioni possibili con sette o dodici note è, in effetti, limitato dal punto di vista aritmetico); la familiarità con intonazioni non appartenenti all’ambito della musica ma al mondo oggettivo delle parole permette a Janáček di accedere a un’altra ispirazione, a un’altra fonte di immaginazione melodica; cosicché le sue melodie (egli è forse l’ultimo grande melodista della storia della musica) hanno un carattere particolarissimo e sono immediatamente riconoscibili:


a) contraddicendo la massima stravinskiana (che impone di «economizzare gli intervalli» trattandoli «come fossero dollari»), esse contengono un gran numero di intervalli di ampiezza insolita, fino ad allora impensabili in una «bella» melodia;


b) sono talmente concise e condensate da escludere quasi ogni possibilità di svilupparle, prolungarle, elaborarle con le tecniche allora in uso, tecniche che le avrebbero immediatamente rese false, artificiali, «menzognere», in altre parole: queste melodie vengono sviluppate in un modo che è loro proprio: vale a dire ripetute (con particolare ostinazione), oppure trattate come fossero parole: progressivamente intensificate, per esempio (alla maniera di chi insiste, supplica), e via dicendo;


2) il suo orientamento psicologico: quello che più interessava a Janáček nelle sue ricerche sulla lingua parlata non era il ritmo specifico della lingua (della lingua ceca), né la sua prosodia (nelle opere di Janáček non esistono recitativi), ma l’influenza esercitata sull’intonazione del discorso parlato dalla condizione psicologica del parlante; egli cercava di capire la semantica delle melodie (ed è per ciò stesso l’antipode di Stravinskij il quale non riconosceva alla musica alcuna capacità espressiva; per Janáček ha diritto di esistere solo la nota che è espressione, che è emozione); indagando il rapporto fra una intonazione e un’emozione, Janáček ha acquisito come musicista una lucidità psicologica assolutamente unica; il suo autentico furore psicologico (ricordiamo che Adorno attribuisce a Stravinskij un «furore antipsicologico») ha lasciato il segno su tutta la sua produzione; il che l’ha indotto in particolare ad affrontare l’opera lirica, nella quale ha potuto esplicarsi al meglio la sua capacità di «definire musicalmente le emozioni».


 


7

Che cos’è una conversazione, nella realtà, nella concretezza del presente? Non lo sappiamo. Sappiamo solo che a teatro, in un romanzo, o persino alla radio le conversazioni sono ben diverse da quelle reali. Una delle ossessioni artistiche di Hemingway fu indubbiamente questa: di cogliere la struttura della conversazione reale. Tentiamo ora di definirla mettendola in parallelo con quella del dialogo teatrale:


a) a teatro: la vicenda drammatica si realizza nel dialogo e mediante il dialogo; esso è quindi interamente concentrato sull’azione, sul suo senso, sul suo contenuto; nella realtà: il dialogo è assediato dalla quotidianità che lo interrompe, lo rallenta, ne influenza lo sviluppo, lo stravolge, lo rende asistematico e alogico;


b) a teatro: il dialogo deve dare allo spettatore un’idea il più possibile chiara, precisa del conflitto drammatico e dei personaggi; nella realtà; i personaggi che parlano si conoscono e conoscono l’argomento della conversazione che ha luogo fra di loro; per un osservatore esterno, le battute che si scambiano non sono dunque mai del tutto comprensibili; rimangono enigmatiche, come fossero un sottile strato di detto sopra l’immensità del non-detto;


c) a teatro: il tempo limitato della rappresentazione implica la massima economia di parole nel dialogo; nella realtà: i personaggi tornano su un argomento già discusso, si ripetono, correggono ciò che hanno appena detto, ecc.; e sono proprio queste ripetizioni e queste lungaggini a rivelare le idee fisse dei personaggi e a conferire alla conversazione la sua particolare melodia.


Hemingway non si è limitato a cogliere la struttura del dialogo reale ma ha saputo servirsene per creare una forma, una forma semplice, trasparente, limpida, bella, come appare da Colline come elefanti bianchi: la conversazione tra l’americano e la ragazza comincia con un piano, uno scambio di banalità; in tutto il racconto ricorrono parole ed espressioni sempre uguali, creando così un’unità melodica (quello che ci colpisce e ci incanta, in Hemingway, è proprio questa melodizzazione del dialogo); la tensione cala all’arrivo della donna che porta da bere, per poi risalire fino al parossismo verso la fine («ti prego ti prego ti prego ti prego») e smorzarsi in un pianissimo con le ultime parole.


 


8

«15 febbraio, verso sera. Il crepuscolo delle sei, non lontano dalla stazione. Due ragazze aspettano.


«Sul marciapiede, la più alta delle due, che aveva l’incarnato roseo e portava un cappotto rosso, ebbe un brivido.


« Cominciò a parlare con un tono brusco:


 


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«“Lo aspetteremo qui e già so che non verrà”. «L’altra, che aveva un colorito pallido ed era vestita in modo assai dimesso, interruppe l’ultima nota con l’eco mesta, cupa, del suo animo:


 


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regolarmente in un giornale ceco, con le proprie notazioni musicali.


Supponiamo che la frase « Lo aspetteremo qui e già so che non verrà» sia una battuta di un racconto letto ad alta voce da un attore di fronte a un uditorio. È probabile che avvertiremmo nella sua intonazione una punta di falsità. L’attore pronuncerà la frase come se riaffiorasse dalla memoria; oppure, semplicemente, in modo da commuovere gli ascoltatori. Ma come viene pronunciata questa frase in una situazione reale? Qual è la verità melodica di questa frase? Qual è la verità melodica di un attimo perduto?


La ricerca del presente perduto; la ricerca della verità melodica di un istante; il desiderio di sorprendere e di captare questa verità fuggevole; il desiderio di penetrare così il mistero della realtà immediata che abbandona di continuo le nostre vite, facendone in tal modo la cosa meno conoscibile di questo mondo. Tale è, a mio avviso, il significato ontologico degli studi sulla lingua parlata di Janáček e, forse, anche di tutta la sua opera.


Secondo atto di Jenufa: Jenufa si alza, dopo aver passato parecchi giorni a letto in seguito a una febbre puerperale, e apprende che il suo bimbo neonato è morto. La sua reazione è sorprendente: «Allora, è morto. Allora, è diventato un angioletto». Canta queste frasi pacatamente, immersa in un arcano stupore, come paralizzata, senza un grido, senza un gesto. La curva melodica risale più volte per ricadere subito dopo come paralizzata anch’essa; è bella, è struggente, ma non per questo meno esatta.


Novak, a quei tempi il più influente compositore ceco, commentò questa scena in modo beffardo: «Sembra quasi che Jenufa si rammarichi perché le è morto il pappagallo ». Questo stupido sarcasmo la dice lunga. È ovvio, non è così che ci immaginiamo una donna a cui hanno appena detto che il suo bambino è morto! Ma l’episodio che noi immaginiamo ha poco a che vedere con l’episodio quale esso è nella realtà.


Janäcek ha composto le sue prime opere su testi tratti da drammi cosiddetti realistici; ciò, a quei tempi, significava già infrangere le convenzioni; ma la sua fame di concretezza era tale che ben presto anche la forma del dramma in prosa gli sembrò artificiosa: per le due opere più audaci volle quindi scrivere anche i libretti, ispirandosi per la prima, La volpe astuta, a un romanzo d’appendice pubblicato su un quotidiano, per la seconda a Dostoevskij; non a un testo narrativo (non c’è trappola peggiore dell’antinaturalismo e della teatralità dei romanzi di Dostoevskij!) bensì al suo «reportage» dai campi siberiani: Memorie da una casa di morti.


Anche Janáček, come Flaubert, era affascinato dalla coesistenza di diverse emozioni in una stessa scena (egli conosceva l’attrazione flaubertiana per i «motivi antitetici»); pertanto, nelle sue opere, l’orchestra, anziché sottolineare il contenuto emozionale del canto, tende, il più delle volte, a contraddirlo. C’è una scena della Volpe astuta che mi ha sempre particolarmente commosso: siamo in una locanda di campagna dove un guardacaccia, un maestro di scuola e la moglie dell’oste stanno parlando del più e del meno: ricordano gli amici lontani, l’oste che, quel giorno, è andato in città, il parroco che ha cambiato casa, una donna di cui il maestro era innamorato e che si è sposata da poco. La conversazione è di una banalità assoluta (prima di Janäcek non era mai apparsa su un palcoscenico d’opera una situazione così banale e priva di drammaticità), ma l’orchestra esprime una nostalgia tanto intensa, che la scena diventa una delle più belle elegie mai dedicate alla fugacità del tempo.


 


9

Il direttore del Teatro Nazionale di Praga, tale Kovarovic, che era anche direttore d’orchestra e modestissimo compositore, continuò, per quattordici anni, a rifiutare ostinatamente Jenufa. E anche quando finì col cedere (fu lui stesso a dirigere nel 1916 la prima praghese dell’opera), non smise mai di insistere sul dilettantismo di Janáček, né si peritò di intervenire sulla partitura con parecchie modifiche, correggendo l’orchestrazione, e operando persino un buon numero di tagli.


E Janáček? Protestava, certo, ma, com’è noto, tutto dipende dai rapporti di forza. E in quel caso era lui a trovarsi in posizione di inferiorità. Aveva sessantadue anni ed era quasi sconosciuto. Se avesse esagerato con le rimostranze, forse gli sarebbe toccato aspettare altri dieci anni prima di veder eseguita la sua opera. E del resto, anche i suoi sostenitori, resi euforici dall’inatteso successo del maestro, proclamarono all’unisono: Kovarovic aveva fatto un magnifico lavoro! In particolare, nell’ultima scena!


Vediamola, questa ultima scena: il bambino illegittimo di Jenùfa è stato trovato annegato, la matrigna ha confessato il delitto ed è stata arrestata, Jenùfa e Laca restano soli. Laca, l’uomo che Jenùfa aveva lasciato per un altro e che continua purtuttavia ad amarla, decide di rimanere con lei. Quel che li aspetta, nella loro vita comune, è solo miseria, vergogna, esilio. L’atmosfera è inimitabile: rassegnata, cupa eppure illuminata da una compassione immensa. La dolce sonorità dell’orchestra è prodotta dall’arpa e dagli archi; il grande dramma si conclude, in modo inatteso, con un canto pacato, struggente e intimista.


Ma può un’opera finire così? Kovarovic trasforma la scena in un’autentica apoteosi di amore. Chi oserebbe mai opporsi a un’apoteosi? E poi, ci vuole così poco: basta aggiungere gli ottoni a sostenere la melodia in imitazione contrappuntistica. Un metodo efficace, sperimentato infinite volte. Kovarovic conosceva il suo mestiere.


Snobbato e umiliato dai suoi compatrioti, Janáček trovò un appoggio saldo e fedele in Max Brod. Ma allorché questi si mette a studiare la partitura della Volpe astuta, non ne approva la conclusione. L’ultima frase dell’opera: quasi una facezia pronunciata da un ranocchio che dice, balbettando, al guardacaccia: «Quello che c-c-credete di vedere n-n-non sono io, è m-m-mio nonno». «Mit dem Frosch zu schliessen, ist unmöglich». Non si può finire con la rana, protesta Brod in una lettera, e suggerisce come conclusione dell’opera una frase alata che dovrebbe essere cantata dal guardacaccia: sul rinnovarsi della natura, sulla forza eterna della giovinezza. Un’altra apoteosi, insomma.


Questa volta, però, Janáček non ubbidisce. Ormai noto fuori del suo paese, non è più in condizioni di inferiorità. Tornerà invece ad esserlo all’epoca della prima esecuzione di Da una casa di morti, perché allora sarà morto. La fine dell’opera è magistrale: l’eroe viene liberato e abbandona il campo. «Libertà! Libertà! » gridano i prigionieri. Poi il capo urla: «Al lavoro!» e con questa battuta si chiude l’opera sul ritmo brutale dei lavori forzati intercalato dal suono sincopato delle catene. La prima esecuzione, postuma, come abbiamo detto, venne diretta da un allievo di Janáček (lo stesso che curò anche l’edizione a stampa della partitura ancora manoscritta, terminata a mala pena da Janáček). Egli rimaneggiò a modo suo le ultime pagine: il grido «Libertà! Libertà! » finì quindi per dilatarsi in una lunga coda di sua creazione, una coda gioiosa, un’apoteosi (l’ennesima). Non si tratta di un’appendice che prolunghi, in maniera ridondante, l’intento dell’autore; bensì della negazione stessa di questo intento; della menzogna finale in cui si annulla la verità dell’opera.


 


10

Apro la biografia di Hemingway scritta nel 1985 da Jeffrey Meyers, professore di letteratura in una università americana, alle pagine che riguardano Colline come elefanti bianchi. Apprendo come prima cosa: il racconto «rappresenta forse la reazione di Hemingway alla seconda gravidanza di Hadley» (la prima moglie dello scrittore). Segue il commento che trascrivo, aggiungendo fra parentesi le mie osservazioni personali:


« Il parallelo fra le colline e gli elefanti bianchi, animali irreali ed elementi inutili, quanto il bambino non desiderato, è cruciale per il significato della storia (il parallelo, alquanto forzato, tra gli elefanti e i bambini non desiderati, non va attribuito a Hemingway bensì al professore; è destinato a preparare l’interpretazione sentimentale del racconto). Esso diventa materia di discussione e crea un contrasto fra la donna ricca di immaginazione, colpita dalla suggestione del paesaggio, e l’uomo che con la sua mentalità terra terra si rifiuta di aderire al suo modo di vedere ... Il tema del racconto si sviluppa a partire da una serie di polarità: il naturale contrapposto all’artificiale, l’istintivo contrapposto al razionale, la riflessione contrapposta alla chiacchiera, la vita contrapposta alla morbosità (l’intento del professore è ormai chiaro: fare della donna il polo positivo, dell’uomo il polo negativo della morale). L’uomo, egocentrico (niente ci autorizza a definirlo egocentrico), totalmente impermeabile ai sentimenti della donna (niente ci autorizza ad affermarlo), cerca di spingerla ad abortire perché entrambi possano tornare a essere esattamente come prima ... La donna, che considera l’aborto assolutamente contronatura, ha una gran paura di uccidere il bambino ( ma non può ucciderlo visto che non è ancora nato) e di fare del male a se stessa. Tutto quello che dice l’uomo è falso ( no: l’uomo non dice altro che banali parole di consolazione, le uniche possìbili in una simile situazione); tutto quello che dice la donna è ironico (ci sono molti altri modi di spiegare le parole della ragazza). Lui la costringe ad acconsentire all’intervento ( “non te lo farei fare se tu non volessi ” dice due volte e nulla dimostra che non sia sincero) perché così lei riconquisterà il suo amore (nulla dimostra che lo abbia mai avuto né che lo abbia perduto), ma il fatto stesso che possa chiederle una cosa simile implica che lei non potrà mai più amarlo (nulla ci consente di prevedere quel che accadrà dopo la scena della stazione). Lei accetta questa forma di autodistruzione (la distruzione del feto e la distruzione della donna non sono la stessa cosa) dopo essere giunta, come l’uomo del sottosuolo di cui parla Dostoevskij o il Josef K. di Kafka, a uno sdoppiamento della sua personalità che rispecchia unicamente l’atteggiamento del marito: “Allora lo farò. Tanto, di me, non me ne importa niente”. (Rispecchiare l’atteggiamento di un altro non costituisce uno sdoppiamento, altrimenti tutti i bambini che ubbidiscono ai genitori sarebbero sdoppiati e assomiglierebbero a Josef K.; in secondo luogo, nel corso del racconto l’uomo non viene mai indicato come il marito; né può esserlo dal momento che nel testo di Hemingway il personaggio femminile è sempre chiamato girl, ragazza; il fatto che il professore americano la chiami sistematicamente woman dipende da una svista intenzionale: vuole suggerire che i due personaggi sono lo stesso Hemingway e sua moglie). Dopodiché, si distoglie da lui e ... trova conforto nella natura; nei campi di grano, gli alberi, il fiume, le lontane colline. Questa serena contemplazione (dei sentimenti suscitati nella ragazza dalla vista della natura non sappiamo nulla; ma non sono affatto sereni, come dimostrano le parole amare da lei pronunciate subito dopo), quando lei alza lo sguardo verso le colline come a cercare aiuto, richiama alla mente il salmo 121 (più lo stile di Hemingway è spoglio, più è ampolloso quello del commentatore). Ma questo stato d’animo viene annientato dall’uomo che si ostina a proseguire la discussione (si legga attentamente il racconto: non è l’americano, ma la ragazza a riprendere la parola, dopo essersi estraniata per qualche istante, e a proseguire la discussione; l’uomo non vuole discutere, cerca solo di tranquillizzare la ragazza) e la spinge sull’orlo di una crisi di nervi. A quel punto lei gli lancia un appello frenetico: “Mi faresti un piacere? ... E allora ti prego ti prego ti prego ti prego vuoi stare zitto?” che fa pensare al “Mai, mai, mai, mai” di Re Lear ( il riferimento a Shakespeare è non meno insensato di quelli a Dostoevskij e a Kafka) ».


Riassumiamo il riassunto:


1) Nell’interpretazione del professore americano, il racconto si trasforma in una lezione di morale: i personaggi vengono giudicati in base alla loro posizione sull’aborto considerato a priori come un male: la donna («ricca di immaginazione» e «colpita dalla suggestione del paesaggio») rappresenta allora la natura, la vita, l’istinto, la riflessione; l’uomo («egocentrico», «terra terra») rappresenta l’artificio, la razionalità, la chiacchiera, la morbosità (osserviamo per inciso che nel discorso moderno sulla morale la razionalità rappresenta il male e l’istinto rappresenta il bene);


2) l’accostamento alla biografia dell’autore (e la surrettizia trasformazione della girl in woman) suggerisce che l’eroe negativo e immorale è lo stesso Hemingway, il quale si serve del racconto per fare una sorta di confessione; in questo modo il dialogo perde tutto il suo carattere enigmatico, i personaggi non hanno più nulla di misterioso e sono anzi, per chi abbia letto la biografia di Hemingway, perfettamente chiari e determinati;


3) il carattere estetico originale del racconto (il suo apsicologismo, il voluto occultamento del passato dei personaggi, l’assenza di drammaticità, ecc.) non è preso in considerazione; anzi, viene addirittura annullato;


4) a partire dai dati elementari del racconto (un uomo e una donna partono per il luogo dove la donna abortirà), il professore si inventa il suo racconto personale: un uomo egocentrico sta costringendo la moglie ad abortire; la donna disprezza questo marito che non potrà mai più amare;


5) quest’altro racconto è di una piattezza assoluta e interamente costruito su luoghi comuni; ma, in virtù dei successivi paragoni con Dostoevskij, Kafka, la Bibbia e Shakespeare (il professore è riuscito a stipare in un solo paragrafo le massime autorità di tutti i tempi), esso mantiene il suo prestigio di grande opera e giustifica in tal modo l’attenzione che, a onta della miseria morale del suo autore, gli viene dedicata dal nostro professore.


 


11

È in questo modo che l’interpretazione kitschizzante condanna a morte le opere d’arte. Una quarantina d’anni prima che il professore americano imponesse al racconto questo significato moralizzatore, Colline come elefanti bianchi veniva tradotto in Francia con il titolo Paradiso perduto, che non è di Hemingway (in nessun’altra lingua il racconto porta questo titolo) e che suggerisce la stessa chiave di lettura (paradiso perduto: innocenza del tempo che ha preceduto l’aborto, gioia della maternità promessa, ecc.).


L’interpretazione kitschizzante non è, infatti, la tara peculiare di un professore americano o di un direttore d’orchestra praghese del primo Novecento (negli anni seguenti, molti altri direttori d’orchestra hanno avallato i ritocchi apportati a Jenufa da Kovarovic); è una tentazione venuta dall’inconscio collettivo; una ingiunzione del suggeritore metafisico; una esigenza sociale permanente; una forza. Che non investe solo l’arte, ma in primo luogo la realtà stessa. Essa opera in senso contrario a Flaubert, Janáček, Joyce, Hemingway. E getta, sull’attimo presente, il velo dei luoghi comuni affinché il volto del reale scompaia.

Perché tu non sappia mai ciò che hai vissuto.

PARTE SESTA

OPERE E RAGNI

1

«Io penso». Nietzsche mette in dubbio questa affermazione che nasce da una convenzione grammaticale secondo la quale ogni verbo deve avere un soggetto. In realtà, egli sostiene, «un pensiero viene quando vuole “lui”, e non quando voglio “io”, e quindi dire che il soggetto “io” è la determinazione del verbo “penso” significa affermare il falso». Un pensiero viene al filosofo «dal di fuori, dall’alto o dal basso, come gli eventi e i fulmini che gli sono destinati». E viene a gran velocità. Nietzsche predilige infatti «una intellettualità ardita ed esuberante, che abbia un andamento presto» e si fa beffe degli eruditi per i quali il pensiero è « un’attività lenta, esitante, simile a una dura fatica, degna talvolta “del sudore degli eroici sapienti”, ma certamente mai quella cosa leggera, divina, così affine alla danza e alla gioia esuberante».


Secondo Nietzsche, il filosofo «non deve falsificare, mediante una fittizia articolazione deduttiva e dialettica, le cose e i pensieri ai quali è giunto per un’altra strada ... Non si dovrebbe né dissimulare né snaturare la maniera in cui effettivamente ci sono venuti i nostri pensieri. I libri più profondi e più inesauribili avranno sempre qualcosa del carattere aforistico e improvviso dei Pensieri di Pascal».


«Non snaturare la maniera in cui effettivamente ci sono venuti i pensieri »: ecco una massima che mi sembra eccellente; e mi fa pensare che, in tutti i suoi libri, fin da Aurora, i capitoli sono sempre scritti in un solo paragrafo: è perché un pensiero venga detto d’un fiato; è perché sia fissato così come si è manifestato allorché accorreva, rapido e danzante, verso il filosofo.


 


2

La volontà di Nietzsche di preservare «la maniera in cui effettivamente sono venuti i pensieri » è inscindibile da un altro suo imperativo che a me piace non meno del primo: resistere alla tentazione di trasformare le proprie idee in sistema. I sistemi filosofici «si presentano oggi miserabili e sconfitti - ammesso che si possano ancora definire presentabili». Bersaglio di questo attacco sono tanto l’inevitabile dogmatismo del pensiero sistematizzante quanto la forma che esso assume: «una commedia dei sistematici: nell’intento di riempire il proprio sistema e di allargare l’orizzonte che lo circonda, essi sono costretti a tentare di presentare i loro punti deboli nello stesso stile dei loro punti forti ».


Quest’ultimo corsivo è mio: un trattato filosofico che espone un sistema è condannato ad avere dei momenti deboli; non perché al filosofo faccia difetto il talento ma perché la forma stessa del trattato lo esige; prima di giungere a conclusioni innovatrici, infatti, il filosofo non può mancare di esporre ciò che altri affermano su un certo problema e deve quindi confutarne le affermazioni, proporre soluzioni diverse, optare per la migliore, suffragarla con un certo numero di argomentazioni, quelle inopinate accanto a quelle prevedibili, ecc., pertanto il lettore ha voglia di saltare qualche pagina per arrivare al nocciolo del problema, al pensiero originale del filosofo.


Nell’Estetica, Hegel ci dà dell’arte un’immagine superbamente sintetica; il suo sguardo di aquila ci affascina; ma il testo in se stesso è tutt’altro che affascinante, non ci mostra il pensiero che accorre verso il filosofo, a sedurlo. «Nell’intento di riempire il suo sistema», Hegel ne espone ogni particolare, ogni snodo, centimetro per centimetro, sicché l'Estetica finisce con l’apparire come il frutto della collaborazione fra un’aquila e centinaia di eroici ragni che con le loro tele ne hanno coperto gli angoli più riposti.


 


3

André Breton (Manifesto del surrealismo) definisce il romanzo come un «genere inferiore»; il suo stile è, secondo lui, «pura e semplice informazione»; le indicazioni fornite al lettore sono «inutilmente particolareggiate» («Non mi viene risparmiata» egli dice «nessuna delle esitazioni del personaggio: sarà biondo? e come si chiamerà?»); quanto alle descrizioni: «nulla è paragonabile alla loro vacuità; un’accozzaglia di immagini da catalogo»; e cita come esempio un paragrafo di Delitto e castigo in cui viene descritta la camera di Raskolnikov, paragrafo che egli così commenta: « Mi si dirà che questa esercitazione accademica era necessaria, che a questo punto del libro l’autore aveva le sue buone ragioni per impormela». Ma tali ragioni sembrano futili a Breton perché: «io non mi metto mica a raccontare i momenti insulsi della mia vita». Poi, passa a parlare dell’analisi psicologica dei personaggi: viene tirata talmente per le lunghe da rendere scontato tutto quello che accade in seguito: «l’eroe, di cui vengono mirabilmente previste azioni e reazioni, ha il dovere di rispettare i pronostici, dando tuttavia l’impressione di non rispettarli».


Con questa critica bisogna fare i conti, per quanto faziosa essa sia; vi si ritrovano tutte le riserve dell’arte moderna nei confronti del romanzo. Riassumiamo: informazioni; descrizioni; vana attenzione per i momenti insulsi dell’esistenza; un’analisi psicologica che rende prevedibili tutte le reazioni dei personaggi; insomma, per condensare tutti questi rimproveri in uno solo, ciò che, secondo Breton fa del romanzo un genere inferiore è la fatale mancanza di poesia. Intendo qui la poesia come è stata esaltata dai surrealisti e da tutta l’arte moderna, vale a dire non come genere letterario, scrittura in versi, bensì come un particolare concetto della bellezza, come esplosione del meraviglioso, momento sublime della vita, emozione concentrata, originalità dello sguardo, fascino della sorpresa. Per Breton, il romanzo è in assoluto non-poesia.


 


4

La fuga: un unico tema genera un concatenamento di melodie in contrappunto, un flusso che in ogni momento del suo lungo percorso ha lo stesso carattere, la stessa pulsazione ritmica, insomma la sua unità. Dopo Bach, con il classicismo, tutto cambia: il tema melodico diventa chiuso e breve; la sua stessa brevità rende pressoché impossibile il monotematismo; per poter costruire una grande composizione (nel senso: organizzazione architettonica di un insieme di grandi proporzioni) il compositore è costretto a far sì che i temi si susseguano; nasce così una nuova arte della composizione che si realizza, in maniera esemplare, nella sonata, forma basilare nel classicismo e nel romanticismo.


Per fare in modo che i temi si susseguano, occorrevano dunque dei passaggi intermedi o, come diceva César Franck, dei ponti. La stessa parola « ponte » indica come in una composizione vi siano elementi che hanno un senso per se stessi (i temi) e altri che sono al servizio dei primi senza averne né l’intensità né il peso. Ascoltando Beethoven si ha l’impressione che il grado di intensità cambi costantemente: ogni tanto, qualcosa si prepara, poi arriva, e poi se ne va, mentre già si preannuncia qualcos’altro.


Nella musica di quello che ho chiamato il secondo tempo (classicismo e romanticismo) vi è una contraddizione intrinseca: se da una parte essa considera la capacità di esprimere emozioni come la propria ragion d’essere, dall’altra elabora ponti, code, sviluppi, che sono unicamente esigenze della forma, risultati di una tecnica che non ha niente di personale, che chiunque può imparare, e che diffìcilmente può allontanarsi dalla routine e dalle formule musicali più diffuse (presenti a volte anche nella musica dei grandi, di un Mozart o di un Beethoven, ma abbondantissime in quella dei loro contemporanei minori). Cosicché ispirazione e tecnica rischiano continuamente di dissociarsi; si viene a creare una dicotomia fra ciò che è spontaneità e ciò che è elaborazione; fra ciò che intende esprimere direttamente un’emozione e ciò che di questa stessa emozione messa in musica costituisce uno sviluppo tecnico; fra i temi e il remplissage (letteralmente: riempitivo; il termine, che suona peggiorativo, è nondimeno assolutamente obiettivo: poiché occorre davvero «riempire», orizzontalmente, il tempo che separa i temi e, verticalmente, la sonorità orchestrale).


Si racconta che un giorno mentre eseguiva al pianoforte una sinfonia di Schumann Musorgskij si fermò prima dello sviluppo esclamando: «Qui, comincia la matematica musicale!». E fu l’aspetto calcolatore, pedante, erudito, accademico, non ispirato di questa musica a far dire a Debussy che, dopo Beethoven, le sinfonie diventano «esercizi diligenti e statici» e la musica di Brahms e quella di Cajkovskij «si contendono la palma della noia».


 


5

Non che questa dicotomia intrinseca renda la musica del classicismo e del romanticismo inferiore a quella di altre epoche; in ogni epoca l’arte comporta difficoltà strutturali; proprio queste spingono l’autore a cercare soluzioni inedite, stimolando in tal modo l’evoluzione della forma. Di queste difficoltà peraltro la musica del secondo tempo era ben consapevole. Beethoven: alla musica ha conferito un’intensità espressiva prima di lui ignota, ha anche modellato più di chiunque altro la tecnica compositiva della sonata: la dicotomia di cui parlo doveva quindi pesargli in modo particolare; per superarla (ammesso e non concesso che vi sia sempre riuscito), elaborò varie strategie: decideva, per esempio, di infondere nella materia musicale che si trovava al di là dei temi, in una scala, un arpeggio, una transizione, una coda, un’espressività imprevista; oppure (altro esempio) di dare un senso diverso alla forma di tema con variazioni che prima di lui era solo virtuosismo tecnico, e virtuosismo particolarmente vacuo: un po’ come far sfilare in passerella una sola indossatrice con diversi modelli. Di questa forma Beethoven ha rovesciato il senso, chiedendosi: quali sono le possibilità melodiche, ritmiche, armoniche che si celano in un tema? fin dove ci si può spingere nella trasformazione sonora di un tema senza tradirne l’essenza? e qual è, poi, quest’essenza? Ponendosi, musicalmente, interrogativi di questo genere, Beethoven può fare a meno di tutto ciò che la forma-sonata comporta, di ponti, sviluppi, remplissages: nemmeno per un attimo egli si distoglie da ciò che è per lui essenziale, dal mistero del tema.


Sarebbe interessante esaminare tutta la musica dell’Ottocento come un tentativo costante di superare la sua dicotomia strutturale. Vorrei citare, per esempio, quella che chiamerei la strategia di Chopin. Al pari di Cechov che non si cimenta mai col romanzo, Chopin rifugge dalla grande composizione, e scrive quasi esclusivamente brevi pezzi riuniti in raccolte (mazurche, polacche, notturni, ecc). (Le poche eccezioni confermano la regola: i suoi concerti per pianoforte e orchestra sono mediocri). Egli si è quindi mosso controcorrente, perché ai suoi tempi il criterio base per valutare l’importanza di un compositore era la creazione di una sinfonia, di un concerto, di un quartetto. Ma proprio sottraendosi a questo criterio Chopin ha creato un’opera che è forse l’unica della sua epoca a non essere invecchiata e che resterà viva nella sua integralità, quasi senza eccezione. La strategia di Chopin mi fa capire perché, fra le composizioni di Schumann, Schubert, Dvorak, Brahms, quelle di minor volume, di minor sonorità mi sono sempre sembrate più vive, più belle (spesso anzi bellissime) delle sinfonie e dei concerti. Il fatto è (ed è importante) che la dicotomia intrinseca alla musica del secondo tempo è un problema che riguarda esclusivamente la grande composizione.


 


6

Nella sua critica all’arte del romanzo, Breton ne prende di mira solo i punti deboli o l’essenza? Diciamo, anzitutto, che il suo bersaglio polemico è l’estetica del romanzo nata, con Balzac, all’inizio dell’Ottocento. È questa l’epoca d’oro, in cui il romanzo si impone per la prima volta come immensa forza sociale; l’epoca in cui, dotato di un potere seduttivo quasi ipnotico, il romanzo prefigura il cinema: sullo schermo della propria immaginazione, il lettore vede scorrere scene così reali che rischia di confonderle con quelle della sua stessa vita; per avvincerlo, il romanziere dispone di una completa attrezzatura per produrre l'illusione del reale; tale attrezzatura finisce però col generare nell’arte del romanzo una dicotomia strutturale simile a quella che si è prodotta nella musica del classicismo e del romanticismo: poiché ciò che rende verosimili gli eventi del romanzo è il loro rigoroso concatenamento logico, non è possibile omettere (per quanto privo di interesse in sé) neanche il più piccolo nesso causale; poiché i personaggi devono sembrare «vivi», è necessario fornire su di loro il maggior numero possibile di informazioni (anche se queste appaiono perfettamente ovvie); e per finire la Storia: se, in passato, procedeva con tanta lentezza da essere pressoché invisibile, ora ha accelerato il passo e all'improvviso (è questa la grande esperienza di Balzac) tutto cambia attorno agli uomini nel corso della loro vita, le strade dove passeggiano, i mobili delle case in cui vivono, le istituzioni da cui dipendono; ciò che fa da sfondo alle vite umane non è più uno scenario immobile, noto da sempre, ma è diventato mutevole, e l’aspetto che oggi ci offre sarà condannato all’oblio domani, ed è per questo che occorre fissarlo riproducendolo minuziosamente (per quanto tediose possano essere le descrizioni del tempo che passa).


Lo sfondo: scoperto dalla pittura del Rinascimento, che con la prospettiva ha diviso il quadro in due parti, ciò che sta davanti e ciò che sta dietro. Esso ha dato luogo al problema specifico della forma; nel ritratto, per esempio: l’attenzione si concentra sul viso più che sul corpo e naturalmente di più che sui tendaggi alle sue spalle. È normale, perché è così che vediamo il mondo attorno a noi, ma quello che è normale nella vita non corrisponde necessariamente alle esigenze della forma artistica: in un quadro, lo squilibrio fra luoghi privilegiati e altri che a priori non lo sono, andava compensato, sfumato, riequilibrato. Oppure radicalmente trascurato da una nuova estetica capace di annullare questa dicotomia.


 


7

Dopo il 1948, negli anni in cui il mio paese natale ha conosciuto la rivoluzione comunista, ho capito che funzione capitale avesse l’accecamento lirico ai tempi del Terrore, quelli in cui (come scrivevo in La vita è altrove) «il poeta regnava a fianco del carnefice». Allora ho pensato a Majakovskij; il suo genio è stato, per la rivoluzione russa, non meno indispensabile della polizia di Dzerzinskij. Lirismo, liricizzazione, discorso lirico, entusiasmo lirico sono parte integrante di ciò che si chiama il mondo totalitario; un mondo che non è il gulag, ma un gulag dove i muri esterni sono tappezzati di versi e davanti ai quali si intrecciano danze.


Più che dal Terrore, fui traumatizzato dalla liricizzazione del Terrore. E ora sono vaccinato per sempre contro qualunque tentazione lirica. L’unica cosa che allora desideravo profondamente, avidamente, era uno sguardo lucido e disincantato. Alla fine l’ho trovato nell’arte del romanzo. Per questo l’essere romanziere significò per me ben più che praticare un « genere letterario» fra i tanti; fu una scelta, una forma di saggezza, una presa di posizione; una posizione che escludeva qualsiasi identificazione con un movimento politico, una religione, un’ideologia, una morale, una collettività; fu una non-identificazione consapevole, tenace, rabbiosa, sentita non come evasione o passività, ma come resistenza, sfida, rivolta. E così mi capitava di avere strani dialoghi di questo tenore: «Lei è comunista, signor Kundera?». «No, sono un romanziere». «Lei è dissidente?». «No, sono un romanziere». «Lei è di sinistra o di destra?». «Né l’uno né l’altro. Sono un romanziere».


Sin dall’adolescenza, mi sono innamorato dell’arte moderna, della sua pittura, della sua musica, della sua poesia. L’arte moderna portava però il marchio dello «spirito lirico», delle sue illusioni di progresso, della sua ideologia di una doppia rivoluzione, estetica e politica, e tutto questo, con l’andar del tempo, mi divenne intollerabile. Ma il mio scetticismo nei confronti dello spirito dell’avanguardia non mutava in nulla il mio amore per le opere dell’arte moderna. Continuavo ad amarle e le amavo ancora di più perché erano le prime vittime della persecuzione stalinista; nello Scherzo, il ragazzo Cenek riceve una sanzione disciplinare perché ama la pittura cubista; così andavano le cose, allora: la rivoluzione aveva deciso che l’arte moderna era il suo nemico ideologico numero uno anche se i poveri modernisti non desideravano altro che cantarla e celebrarla; non dimenticherò mai Konstantin Biebl: incantevole poeta (quanti dei suoi versi ho imparato a memoria!) e comunista fervente, che, dopo il 1948, ha iniziato a scrivere poesie di propaganda di una mediocrità tanto desolante quanto patetica; qualche anno dopo, è morto gettandosi da una finestra sul selciato di Praga; in quella squisita persona, ho visto l’arte moderna ingannata, tradita, martirizzata, assassinata, suicidata.


La mia fedeltà all’arte moderna era dunque appassionata quanto il mio attaccamento all’antilirismo del romanzo. I valori poetici cari a Breton, cari a tutta l’arte moderna (intensità, densità, immaginazione libera da ogni vincolo, disprezzo per « i momenti insulsi della vita»), io li ho cercati esclusivamente sul territorio disincantato del romanzo. Ma ciò non vuol dire che li ritenessi meno importanti. E questo spiega, forse, perché ho provato anch’io, in modo acutissimo, il fastidio di Debussy nell’ascoltare una sinfonia di Brahms o di Cajkovskij; il fastidio per il brusio dei ragni laboriosi. E spiega anche, forse, perché sono rimasto così a lungo sordo all’arte di Balzac e perché il romanziere che ho amato più di ogni altro sia Rabelais.


 


8

La dicotomia dei temi e dei ponti, del primo piano e dello sfondo è cosa del tutto ignota a Rabelais. Egli passa con disinvoltura da un argomento serio all’enumerazione dei metodi inventati dal piccolo Gargantua per pulirsi il culo, eppure, sul piano estetico, ognuno di questi passi, futile o serio che sia, ha la stessa importanza nella sua opera, mi procura lo stesso godimento. Questo è per me l’incanto di Rabelais e di altri romanzieri antichi: essi parlano di quel che li attrae profondamente e smettono di parlarne quando l’attrazione svanisce. La loro libertà compositiva mi affascinava: scrivere senza costruire una suspense, senza congegnare una storia né simularne la verosimiglianza, scrivere senza descrivere un’epoca, un ambiente sociale, una città; lasciar perdere tutto questo per essere a contatto solo con l’essenziale; il che significa: creare una composizione in cui ponti e remplissages non abbiano ragione di esistere e in cui il romanziere non sia costretto, in omaggio alla forma e ai suoi Diktat, ad allontanarsi, neanche di una riga, da ciò che gli sta a cuore, da ciò che lo avvince.


 


9

L’arte moderna: una rivolta contro l’imitazione della realtà in nome delle leggi autonome dell’arte. E una delle prime esigenze pratiche di questa autonomia: che tutti i momenti, tutti i pur minimi frammenti di un’opera abbiano uguale importanza estetica.


L’impressionismo: concepiva il paesaggio come un semplice fenomeno ottico, all’interno del quale la figura umana ha lo stesso valore di un cespuglio. I pittori cubisti e astratti si sono spinti ancora oltre e hanno soppresso la terza dimensione, quella che scindeva, inevitabilmente, il quadro in piani di diversa importanza.


Analoga tendenza alla parità estetica di tutti i momenti di una composizione è stata espressa dalla musica: si pensi a Satie, la cui semplicità non è altro che un provocatorio rifiuto della retorica musicale così come gli è stata trasmessa. A Debussy, l’incantatore, il persecutore dei ragni eruditi. A Janáček che sopprime ogni nota non indispensabile. A Stravinskij che rifiuta il retaggio classico e romantico per andarsi a cercare dei precursori fra i maestri di quello che abbiamo definito il primo tempo della storia della musica. A Webern che torna a un monotematismo sui generis (cioè dodecafonico) e raggiunge una sobrietà inimmaginabile prima di lui.


E veniamo al romanzo: la messa in discussione della famosa massima di Balzac secondo la quale esso doveva «far concorrenza allo stato civile»; essa non è in alcun modo la bravata di un’avanguardia che si diverte a ostentare la propria modernità affinché gli sciocchi possano vederla; ma soltanto l’intenzione di rendere (discretamente) inutile (o quasi inutile, diciamo facoltativa, senza importanza) l’attrezzatura che serviva a produrre l’illusione del reale. E a questo proposito vorrei fare un’osservazione: se un personaggio deve fare concorrenza allo stato civile, deve avere anzitutto un nome vero. Da Balzac a Proust, un personaggio senza nome è inconcepibile. Al contrario, il Jacques di Diderot non ha casato e il suo Padrone non ha né nome né cognome. E Panurge, è un nome o un cognome? I nomi senza cognomi, i cognomi senza nomi non hanno più niente del nome, sono soltanto segni. Il protagonista del Processo non si chiama Josef Kaufmann né Krammer e neppure Kohl, ma Josef K. Quello del Castello perderà finanche il nome di battesimo e dovrà accontentarsi di una sola lettera. Gli Incolpevoli di Hermann Broch: uno dei protagonisti è designato dalla lettera A. Nei Sonnambuli, Esch e Huguenau non hanno nome di battesimo. Il protagonista dell’ Uomo senza qualità, Ulrich, non ha cognome. Nei miei primi racconti ho sempre, istintivamente, evitato di dare nomi ai personaggi. L’eroe di La vita è altrove ha solo il nome di battesimo, sua madre è indicata unicamente con la parola «mamma», la sua ragazza come «la rossa» e l’amante di quest’ultima come «il quarantenne». Era forse manierismo il mio? No, a quei tempi si trattò di una scelta assolutamente spontanea di cui solo più tardi ho capito il senso: obbedivo all’estetica del terzo tempo: non volevo dare a credere che i miei personaggi fossero reali e titolari di uno stato di famiglia.


 


10

Thomas Mann: La montagna incantata. Contiene lunghissimi brani in cui ci vengono fornite informazioni sui personaggi, sul loro passato, sul loro modo di vestirsi, di parlare (con tutti i loro intercalari tipici), ecc.; nonché una minuziosa descrizione della vita nel sanatorio; del momento storico (gli anni che precedono la guerra T4-18) in cui si svolge il romanzo: ad esempio, le mode dell’epoca: la voga allora dilagante della fotografìa, la passione per il cioccolato, i disegni eseguiti a occhi chiusi, l’esperanto, i solitari, il fonografo, le sedute spiritiche (da vero romanziere, Mann caratterizza un’epoca attraverso mode destinate all’oblio e solitamente trascurate dalla storiografia ufficiale) . Il dialogo, alquanto prolisso, rivela la propria funzione informativa non appena esula dal ristretto numero dei temi principali, e perfino i sogni sono descrizioni: Hans Castorp, il giovane protagonista del libro, si addormenta dopo la prima giornata trascorsa in sanatorio; il suo sogno, in cui, attraverso una timida deformazione onirica, ritornano gli eventi del giorno precedente, è di un’assoluta banalità. Siamo agli antipodi di Breton per il quale il sogno dà la stura a uno sfrenato scatenarsi dell’immaginazione. Nella Montagna incantata, il sogno non ha altra funzione: familiarizzare il lettore con il luogo, confermare l’illusione del reale.


Viene così minuziosamente illustrato un ampio fondale, davanti al quale si compirà il destino di Hans Castorp e avranno luogo gli scontri ideologici dei due tisici: Settembrini e Naphta; l’uno massone, democratico, l’altro gesuita, autocrate, entrambi incurabilmente malati. La placida ironia di Mann relativizza la verità dei due eruditi; la loro disputa non ha un vincitore. Ma l’ironia del romanzo va ancora oltre e tocca il culmine nella scena in cui i due avversari, attorniati dal loro piccolo uditorio e inebriati dalla loro implacabile logica, portano all’estremo i loro argomenti, al punto che nessuno capisce più chi sia fautore del progresso, chi della tradizione, chi della ragione, chi dell’irrazionalità, chi dello spirito, chi del corpo. Per pagine e pagine assistiamo a una magnifica baraonda in cui le parole perdono il loro senso, e il fatto che le due posizioni siano intercambiabili rende il dibattito ancora più violento. Circa duecento pagine dopo, alla fine del romanzo (è imminente lo scoppio della guerra), tutti gli ospiti del sanatorio sono vittime di una psicosi che provoca in loro irritazioni immotivate, inspiegabili odi; sarà allora che Settembrini offenderà Naphta e i due malati si scontreranno in un duello che finirà con il suicidio di uno dei due; a questo punto appare chiaro che a spingere gli uomini l’uno contro l’altro non è un irriducibile antagonismo ideologico, bensì un’aggressività irrazionale, una forza oscura e indecifrabile per la quale le idee sono solo un paravento, una maschera, un pretesto. Questo magnifico «romanzo di idee» è dunque al tempo stesso (soprattutto per il lettore di questa fine secolo) una terribile messa in discussione delle idee in quanto tali, un grande addio all’epoca che ha creduto alle idee e alla loro capacità di orientare il mondo.


Mann e Musil. Sebbene nati a pochi anni di distanza, appartengono, esteticamente parlando, a due diversi tempi della storia del romanzo. Entrambi sono romanzieri profondamente intellettuali. Nel romanzo di Mann, l’intellettualità si rivela anzitutto nei dialoghi di idee che hanno luogo in uno scenario da romanzo descrittivo. Nell’ Uomo senza qualità, essa si manifesta a ogni istante, in maniera totale; a fronte del romanzo descrittivo di Mann, ecco dunque il romanzo pensato di Musil. Anche qui gli eventi si situano in un luogo concreto (Vienna) e in un momento concreto (lo stesso della Montagna incantata: gli anni che precedono la prima guerra mondiale), ma mentre nel romanzo di Mann il sanatorio di Davos è minuziosamente descritto, la Vienna di Musil è appena nominata e l’autore non si sofferma neppure a evocarne visivamente le strade, le piazze, i parchi (l’attrezzatura per produrre l’illusione del reale viene gentilmente messa da parte). Ci troviamo nell’Impero austroungarico ma questo viene sistematicamente designato con un soprannome che lo ridicolizza: Cacania. La Cacania: l’Impero deconcretizzato, generalizzato, ridotto a poche situazioni fondamentali, l’Impero trasformato in ironico modello dell’Impero. Questa Cacania non è lo sfondo del romanzo come Davos nel libro di Mann, bensì è uno dei temi del romanzo stesso; non viene descritta, bensì analizzata e pensata.


Thomas Mann ha spiegato che la composizione della Montagna incantata è di carattere musicale, si fonda cioè su temi che vengono sviluppati come in una sinfonia, temi che ritornano, che si incrociano accompagnando il romanzo in tutto il suo svolgimento. Questo è certamente vero, ma occorre precisare che il tema non ha esattamente lo stesso significato per Mann e per Musil. In primo luogo, nel romanzo di Mann, i temi (il tempo, il corpo, la malattia, la morte, ecc.) vengono sviluppati davanti a un ampio fondale atematico (descrizioni del luogo, del tempo atmosferico, delle usanze, dei personaggi) più o meno come i temi di una sonata sono avvolti da una musica estranea al tema, ponti e transizioni. In secondo luogo, i temi hanno per Mann un forte carattere polistorica Mann si serve cioè di tutto quello che le scienze - sociologia, politologia, medicina, botanica, fisica, chimica - possono offrirgli per illustrare un certo tema; come se tale volgarizzazione del sapere gli servisse per dare una solida base didattica all’analisi dei temi; un procedimento che a mio avviso allontana troppo spesso, e per troppe pagine, il romanzo dall’essenziale perché l’essenziale, non dimentichiamolo, è per un romanzo ciò che solo un romanzo può dire.


In Musil, l’analisi del tema è diversa: anzitutto, non ha niente di polistorico; il romanziere non si traveste da scienziato, da medico, da sociologo o da storiografo, egli analizza invece situazioni umane che non appartengono a nessuna disciplina scientifica, ma puramente e semplicemente alla vita. È questo il senso in cui Broch e Musil hanno inteso il compito storico del romanzo dopo il secolo del realismo psicologico: se la filosofia europea non ha saputo pensare la vita dell’uomo, pensarne la «metafisica concreta», tocca al romanzo occupare questo terreno vuoto sul quale nulla potrebbe sostituirlo (il che è stato confermato dalla filosofia esistenzialista con una prova a contrario; l’analisi dell’esistenza non può infatti diventare sistema; resistenza non è sistematizzabile e Heidegger, che amava la poesia, sbaglia quando è indifferente alla storia del romanzo in cui è racchiuso il più grande tesoro della sapienza esistenziale).


In secondo luogo, contrariamente a ciò che accade nel romanzo di Mann, in quello di Musil tutto diventa tema (interrogativo esistenziale). E se tutto diventa tema, lo sfondo sparisce e, come in un quadro cubista, c’è soltanto il primo piano. In questa abolizione dello sfondo consiste secondo me la rivoluzione strutturale operata da Musil. I grandi mutamenti hanno spesso un’apparenza discreta. In effetti, la lunghezza delle riflessioni, il ritmo lento delle frasi, danno all’Uomo senza qualità l’aspetto di una prosa « tradizionale ». Non vi sono stravolgimenti della cronologia. Non monologhi interiori alla Joyce. Non c’è abolizione della punteggiatura. Tanto meno distruzione del personaggio e dell’azione. Per circa duemila pagine, seguiamo la mediocre vicenda di un giovane intellettuale, Ulrich, che vediamo frequentare le sue amanti, incontrare i suoi amici, lavorare per un’associazione, seria e grottesca al tempo stesso (ed è qui che il romanzo, in modo appena percettibile, si allontana dal verosimile e diventa gioco), nata per preparare le celebrazioni del Giubileo dell’Imperatore, una grande «festa della pace» prevista (ed ecco la bomba comica piazzata sotto le fondamenta del romanzo) per l’anno 1918. Ogni minima situazione è come arrestata nel suo svolgimento (in questo tempo, stranamente rallentato, Musil può, talvolta, far pensare a Joyce) per essere trapassata da un lungo sguardo che si interroga sul suo significato, sul modo di capirla e di pensarla.


Nella Montagna incantata, Mann ha trasformato gli ultimi anni prima della Grande Guerra in una magnifica festa di addio al XIX secolo, per sempre svanito. L’uomo senza qualità, che si svolge negli stessi anni, esplora le situazioni umane dell’epoca immediatamente successiva: quel periodo terminale dei Tempi moderni che, iniziato nel 1914, sta, a quanto pare, concludendosi oggi sotto i nostri occhi. In effetti, nella Cacania musiliana c’è già tutto: il regno della tecnica che domina su tutti e trasforma l’uomo in cifre statistiche (il romanzo si apre con un incidente stradale; un uomo è steso per terra e una coppia di passanti commenta il fatto citando il numero annuo degli incidenti dovuti alla circolazione); la velocità come valore supremo del mondo inebriato dalla tecnica; la burocrazia ottusa e onnipresente (gli uffici di Musil rappresentano in grande l’equivalente di quelli di Kafka); la comica sterilità delle ideologie ormai inette a capire, a dirigere alcunché (sono già lontani i tempi gloriosi di Settembrini e Naphta); il giornalismo, erede di ciò che un tempo era chiamato cultura; i « collaborazionisti » della modernità; la solidarietà con i criminali come espressione mistica della religione dei diritti dell’uomo (Clarissa e Moosbrugger) ; l’infantofilia e l’infantocrazia (Hans Sepp, un fascista ante litteram, la cui ideologia è basata sull’adorazione del bambino che è in noi).


 


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All’inizio degli anni Settanta, dopo aver terminato Il valzer degli addii, considerai chiusa la mia carriera di scrittore. I russi avevano occupato il paese, e mia moglie ed io avevamo altri problemi. Soltanto un anno dopo il nostro arrivo in Francia (e proprio grazie alla Francia) mi rimisi, svogliatamente, a scrivere, in capo a sei anni di interruzione totale. Impacciato, e ansioso di sentirmi di nuovo il terreno sotto i piedi, tentai di riallacciarmi a quanto avevo già fatto: una specie di seconda parte di Amori ridicoli. Che regressione! Con quei racconti, vent’anni prima, era cominciato il mio itinerario di prosatore. Fortunatamente, dopo avere abbozzato due o tre di questi «amori ridicoli 2», mi resi conto che stavo facendo una cosa del tutto diversa: non una raccolta di racconti ma un romanzo (che in seguito si intitolò Il libro del riso e dell’oblio), un romanzo in sette parti indipendenti ma talmente legate fra di loro che ciascuna, se letta isolatamente, perderebbe molto del suo significato.


Di colpo, svanì in me ogni traccia di diffidenza verso l’arte del romanzo: dando a ciascuna delle parti il carattere di un racconto avevo reso inutile tutta la tecnica apparentemente inevitabile della grande composizione romanzesca. Nel corso del mio lavoro mi imbattei nella vecchia strategia di Chopin, la strategia della piccola composizione che non necessita di passaggi atematici. (Voglio forse dire con questo che il racconto è la forma breve del romanzo? Proprio così. Fra racconto e romanzo non c’è differenza ontologica, mentre ce n’è fra romanzo e poesia, fra romanzo e teatro. Vittime come siamo delle contingenze del vocabolario, non abbiamo un termine unico che riunisca queste due forme, maggiore e minore, della stessa arte).


In che modo sono collegate fra loro, queste sette piccole composizioni indipendenti, visto che non hanno azioni in comune? L’unico legame che le tiene insieme, che ne fa un romanzo, è l’unità dei temi. Nel mio percorso, mi ero infatti imbattuto in un’altra vecchia strategia: la strategia beethoveniana delle variazioni; grazie ad essa, potei rimanere in contatto diretto e costante con alcuni interrogativi esistenziali che mi affascinano e che, in questo romanzo-variazioni, vengono esplorati progressivamente da molteplici punti di vista.


L’esplorazione progressiva dei temi ha una sua logica ed è questa a determinare il concatenamento delle parti. Per esempio: la prima parte («Le lettere perdute») espone il tema dell’uomo e della Storia nella sua versione elementare: l’uomo che si scontra con la Storia e finisce per esserne schiacciato. Nella seconda parte («La mamma») lo stesso tema viene rovesciato: per la mamma, infatti, l’arrivo dei carri armati russi non significa granché in confronto alle pere del suo giardino («il carro armato è mortale e la pera è eterna»). La sesta parte («Gli angeli») in cui l’eroina, Tamina, muore annegata potrebbe sembrare la conclusione tragica del romanzo; il romanzo, però, non finisce lì, ma nella parte seguente che non è né dolorosa né drammatica né tragica; racconta la vita erotica di un personaggio nuovo, Jan. Il tema della Storia vi ricompare brevemente per l’ultima volta: «Jan aveva amici che come lui avevano abbandonato la loro vecchia patria e consacrato tutto il loro tempo alla lotta per la libertà perduta. A tutti loro era già capitato di sentire che il legame che li univa al loro paese era solo un’illusione e che solo per una sorta di perseveranza dell’abitudine erano ancora pronti a morire per qualcosa che era loro ormai indifferente»: si raggiunge qui quella frontiera metafisica (la frontiera: un altro dei temi sviluppati nel corso del romanzo) al di là della quale ogni cosa perde senso. Se l’isola in cui si conclude la tragica esistenza di Tamina era stata dominata dal riso (ecco un altro tema) degli angeli, nella settima parte risuona la « risata del diavolo » che trasforma in fumo ogni cosa (ogni cosa: Storia, sesso, tragedie). Solo a questo punto i temi giungono al termine del loro percorso e il libro può concludersi.


 


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Nei sei libri della maturità (Aurora, Umano, troppo umano, La gaia scienza, Al di là del bene e del male, Per una genealogia della morale, Il crepuscolo degli idoli), Nietzsche persegue, sviluppa, elabora, afferma, affina sempre il medesimo archetipo compositivo. Princìpi: l’unità elementare del libro è il capitolo; la sua lunghezza può variare da una sola frase a parecchie pagine; i capitoli consistono tutti, senza eccezione, in un unico paragrafo; sono sempre numerati; in Umano, troppo umano e nella Gaia scienza oltre a essere numerati hanno anche un titolo. Un certo numero di capitoli forma una parte, e un certo numero di parti, un libro. Il libro è costruito su un tema principale, che viene definito nel titolo (al di là del bene e del male, la gaia scienza, per una genealogia della morale, ecc.); le diverse parti trattano temi derivati dal tema principale (e hanno anch'esse un titolo, come accade in Umano, troppo umano, in Al di là del bene e del male e nel Crepuscolo degli idoli, o sono semplicemente numerate). Alcuni di questi temi derivati sono ripartiti in senso verticale (ossia: ogni parte svolge prevalentemente il tema indicato dal titolo), mentre altri attraversano tutto il libro. Nasce in tal modo una composizione al tempo stesso estremamente articolata (suddivisa in più unità dotate di una relativa autonomia) ed estremamente unitaria (gli stessi temi tornano per tutto il libro). Una composizione il cui straordinario senso del ritmo si fonda anche sulla capacità di alternare capitoli brevi a capitoli lunghi: penso, per esempio, alla quarta parte di Al di là del bene e del male, costituita esclusivamente da brevissimi aforismi (come una sorta di divertissement, di scherzo). Ma soprattutto: una composizione che non ha alcun bisogno di remplissages, di transizioni, di passaggi deboli, e in cui la tensione non cala mai perché sono in evidenza solo i pensieri nell’atto di accorrere «dal di fuori, dall’alto o dal basso, come avvenimenti, come fulmini».


 


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Ma se il pensiero di un filosofo è così fortemente legato all’organizzazione formale del testo, può esistere al di fuori di tale testo? È possibile scindere il pensiero di Nietzsche dalla prosa di Nietzsche? Certo che no. Pensiero, espressione, composizione sono inseparabili. Ma ciò che vale per Nietzsche vale anche in generale? Vale a dire: si può affermare che il pensiero (il significato) di un’opera è sempre e per principio inscindibile dalla composizione?


Questo, strano a dirsi, non si può affermare. Per molto tempo, nel campo della musica, l’originalità di un compositore è consistita unicamente nella sua inventiva melodico-armonica che egli distribuiva, per così dire, in schemi compositivi non legati a lui, tutti più o meno prestabiliti: le messe, le suite e i concerti barocchi, ecc. Le loro varie parti sono disposte in un ordine determinato dalla tradizione, di modo che, per fare un esempio, la suite finisce sempre, con precisione cronometrica, in una danza veloce, ecc.


Nelle trentadue sonate di Beethoven che coprono quasi tutto l’arco della sua attività creativa, dai venticinque ai cinquantadue anni, assistiamo a una profondissima evoluzione nel corso della quale la composizione della sonata si trasforma radicalmente. Le prime sonate ubbidiscono ancora allo schema sinfonico ereditato da Haydn e da Mozart: quattro movimenti; il primo: un allegro scritto in forma-sonata; il secondo: un adagio scritto in forma di Lied; il terzo: un minuetto o uno scherzo in un tempo moderato; il quarto: un rondò, in un tempo veloce.


L’inconveniente di questo genere di composizione è palese: il movimento più importante, più drammatico, più lungo, è il primo; di conseguenza la successione dei movimenti segue una linea discendente: dal più grave al più leggero; prima di Beethoven, inoltre, la sonata rimaneva sempre a mezza strada fra una raccolta di pezzi (nei concerti venivano spesso eseguiti movimenti staccati) e una composizione indivisibile e unitaria. Attraverso le sue trentadue sonate, Beethoven sostituisce a mano a mano il vecchio schema della composizione con uno schema più concentrato (riducendo i movimenti a tre, persino a due), più drammatico (il centro di gravità si sposta verso l’ultimo movimento), più unitario (grazie soprattutto alla presenza di una stessa atmosfera emozionale). Ma il vero senso di questa evoluzione (che diventa pertanto una vera e propria rivoluzione) non stava nel sostituire uno schema insoddisfacente con un altro, migliore, bensì nell' infrangere il principio stesso dello schema compositivo prestabilito.


Questa acquiescenza collettiva allo schema prescritto della sonata o della sinfonia ha, effettivamente, un che di ridicolo. Immaginiamo che tutti i grandi sinfonisti, compresi Haydn e Mozart, Schumann e Brahms, dopo aver pianto nei loro adagio, si travestano, nell’ultimo movimento, da scolaretti e si precipitino nel cortile della ricreazione per ballare, saltare e gridare a squarciagola che tutto è bene quel che finisce bene. Questo è ciò che potremmo chiamare la «stupidità della musica». Beethoven ha capito che la sola possibilità di superarla era fare della composizione qualcosa di radicalmente individuale.


È questa la prima clausola del suo testamento artistico destinato a tutte le arti, a tutti gli artisti, clausola che io formulerei così: non bisogna considerare la composizione (l’organizzazione architettonica dell’insieme) come una matrice preesistente, trasmessa all’autore affinché questi la riempia con la sua invenzione; la composizione stessa deve essere un’invenzione, un’invenzione che vede impegnata tutta l’originalità dell’autore.


Non saprei dire in che misura tale messaggio sia stato recepito e compreso. Ma Beethoven, per quel che lo riguarda, ha saputo trarne, in modo magistrale, tutte le conseguenze nelle ultime sonate, ciascuna delle quali è composta in una forma che è unica, che non assomiglia a nessun’altra.




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La Sonata opera 111; ha solo due movimenti: il primo, drammatico, è elaborato in modo più o meno classico in forma-sonata; il secondo, di carattere meditativo, è scritto in forma di variazioni (forma alquanto insolita in una sonata, prima di Beethoven): nessun gioco di contrasti e di diversità, ma solamente una lunga gradazione continua che aggiunge sempre una sfumatura nuova alla variazione precedente e dà a questo ampio movimento una eccezionale unità di tono.


Più un movimento è perfetto nella sua unitarietà, più si contrappone all’altro. C’è una sproporzione nella durata: il primo movimento (nell’esecuzione di Schnabel): otto minuti e quattordici secondi; il secondo: diciassette minuti e quarantadue secondi. La seconda parte ha quindi (ed è un caso senza precedenti nella storia della sonata) una lunghezza più che doppia rispetto alla prima! Ma non basta: il primo movimento è drammatico, il secondo calmo, riflessivo. Cominciare drammaticamente e finire con un brano meditativo di simile ampiezza sembra contraddire tutti i princìpi architettonici e condannare la sonata alla perdita di ogni tensione drammatica, in passato, tanto cara a Beethoven.


Ma è proprio l’inattesa contiguità di questi due movimenti ad essere eloquente, espressiva, a diventare il gesto semantico della sonata, il suo significato metaforico che evoca l’immagine di una vita dura, breve, e del canto nostalgico che la segue, all’infinito. Questo significato metaforico, non traducibile in parole e tuttavia forte e insistente, conferisce unità ai due movimenti della sonata. Un’unità inimitabile. (La composizione impersonale della sonata mozartiana era riproducibile ad libitum; quella della Sonata opera 111 è talmente personale che imitarla equivarrebbe a un plagio).


La Sonata opera 111 mi fa pensare a Palme selvagge di Faulkner. Qui, si alternano un racconto d’amore e la storia di un evaso, due soggetti che non hanno nulla in comune, non un personaggio e neanche una qualunque percettibile affinità di motivi o di temi. Una composizione che non può servire da modello a nessun altro romanziere; che può esistere una volta e basta; che è arbitraria, non raccomandabile, ingiustificabile; ed è ingiustificabile perché dietro di essa si avverte un es muß sein che rende superflua ogni giustificazione.


 


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Con il suo rifiuto del sistema, Nietzsche trasforma profondamente la maniera di far filosofia: il suo pensiero, per usare le parole di Hannah Arendt, è un pensiero sperimentale. Il suo primo impulso è quello di sgretolare gli stereotipi, di minare i sistemi comunemente accettati, di aprire brecce per avventurarsi nell’ignoto; il filosofo del futuro sarà uno sperimentatore, afferma Nietzsche; e si sentirà libero di seguire orientamenti diversi ed, eventualmente, contrastanti.


Pur sostenendo la necessità di una forte presenza del pensiero in un romanzo rifuggo da quello che viene definito «romanzo filosofico», asservimento del romanzo a una filosofia, «messa in racconto» di idee morali o politiche. Il pensiero autenticamente romanzesco (quello che il romanzo conosce da Rabelais in poi) è sempre asistematico, indisciplinato; è simile a quello di Nietzsche; è sperimentale; apre brecce in tutti i sistemi di idee da cui siamo attorniati; prende in esame (soprattutto attraverso i personaggi) tutte le strade della riflessione tentando di arrivare in fondo a ciascuna di esse.


E a proposito del pensiero sistematico, vorrei aggiungere questo: colui che pensa è automaticamente portato a sistematizzare; la sua tentazione costante (che è anche la mia, e proprio nel momento in cui scrivo questo libro): descrivere tutte le conseguenze delle sue idee; prevenire tutte le obiezioni e confutarle in anticipo; costruire insomma un baluardo inespugnabile attorno alle proprie idee. Ma colui che pensa non deve sforzarsi di convincere gli altri della propria verità; così facendo si metterebbe infatti sulla strada di un sistema; sulla deplorevole strada dell’«uomo di convinzione»; ci sono uomini politici che amano definirsi così; ma che cos’è una convinzione? è un pensiero che si è fermato, che si è irrigidito, e l’«uomo di convinzione» è un uomo limitato; il pensiero sperimentale non cerca di convincere ma di ispirare; ispirare un altro pensiero, indurre a pensare; ecco perché il romanziere deve sistematicamente desistematizzare il proprio pensiero, prendere a calci il baluardo che lui stesso ha costruito attorno alle proprie idee.


 


16

Il rifiuto nietzscheano del pensiero sistematico ha un’altra conseguenza: un’immensa espansione tematica; con il crollo delle barriere tra le diverse discipline filosofiche che hanno impedito di vedere il mondo reale in tutta la sua vastità, ogni cosa umana può diventare oggetto del pensiero di un filosofo. Anche questo riavvicina la filosofia al romanzo: per la prima volta la filosofia non medita sull’epistemologia, sull’estetica, sull’etica, sulla fenomenologia dello spirito, sulla critica della ragione, ecc., ma su tutto ciò che è umano.


Nell’esporre la filosofia di Nietzsche gli storici del pensiero e i professori non si limitano a condensarla, cosa questa del tutto ovvia, ma la stravolgono facendola diventare il contrario di ciò che è, vale a dire un sistema. C’è ancora posto nel loro Nietzsche sistematizzato per le riflessioni sulle donne, sui tedeschi, sull’Europa, su Bizet, su Goethe, sul kitsch di Victor Hugo, su Aristofane, sulla leggerezza dello stile, sulla noia, sul gioco, sulle traduzioni, sullo spirito di obbedienza, sul possesso dell’altro e su tutte le manifestazioni psicologiche di tale possesso, sugli eruditi e sui loro limiti, sugli Schauspieler, attori che si esibiscono sulla scena della Storia, c’è ancora posto per le mille osservazioni psicologiche, che sono introvabili altrove, tranne forse nelle opere di qualche isolato romanziere?


Allo stesso modo in cui Nietzsche ha riavvicinato la filosofia al romanzo, Musil ha riavvicinato il romanzo alla filosofia. Parlando di riavvicinamento non voglio dire che Musil sia meno romanziere di altri romanzieri. Così come Nietzsche non è meno filosofo di altri filosofi.


Anche il romanzo pensato di Musil realizza un'espansione tematica del tutto inedita; da ora in poi niente di quanto può essere pensato verrà escluso dall’arte del romanzo.


 


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Quando avevo tredici, quattordici anni, prendevo lezioni di composizione musicale. Questo non perché fossi un bambino prodigio ma a causa della schiva delicatezza di mio padre. Eravamo in guerra e uno dei suoi amici, un compositore ebreo, doveva portare la stella gialla; la gente cominciava ad evitarlo. Mio padre, non sapendo in che modo esprimergli la sua solidarietà, pensò di chiedergli, proprio in quel momento, di darmi qualche lezione. Allora le case degli ebrei venivano confiscate, e il nostro amico compositore era costretto a traslocare di continuo in appartamenti sempre più esigui, per ritrovarsi alla fine, prima di partire per Terezin, in un alloggetto di poche stanze dove si stipava una quantità di persone. In ogni trasloco aveva portato con sé il suo piccolo pianoforte e su quello io facevo i miei esercizi di armonia o di polifonia mentre intorno a noi persone sconosciute attendevano alle loro occupazioni.


Di tutto questo mi rimane soltanto la mia ammirazione per lui e tre o quattro immagini. Questa soprattutto: un giorno, accompagnandomi alla porta dopo la lezione, lui si ferma sulla soglia e mi dice di punto in bianco: «Nella musica di Beethoven ci sono molti passaggi sorprendentemente deboli. Ma sono proprio questi a mettere in rilievo i passaggi forti. È come un prato senza il quale non potremmo godere del bell’albero che vi è cresciuto in mezzo».


Era una strana idea. Ancora più strano è il fatto che mi sia rimasta impressa. Forse mi ero sentito onorato di poter udire dal maestro una confessione, un segreto, una sottigliezza che solo gli iniziati avevano il diritto di conoscere.


Comunque sia, quella breve osservazione del mio maestro di allora mi ha perseguitato per tutta la vita (l’ho difesa, ho finito per attaccarla e non ho mai dubitato della sua importanza); senza di essa, questo testo non sarebbe, certamente, mai stato scritto.


Ma ancor più che l’osservazione in se stessa mi è cara l’immagine di un uomo che, poco prima di partire per un viaggio atroce, rifletteva, a voce alta, davanti a un bambino, sul problema della composizione dell’opera d’arte.

PARTE SETTIMA

IL MENO AMATO DELLA FAMIGLIA

 


 


 


 


 


In queste pagine ho parlato più volte della musica di Leos Janáček. In Inghilterra, in Germania, egli è oggi un compositore noto. Ma in Francia? E negli altri paesi latini? E che cosa si sa della sua opera? Vado alla FNAC (il 15 febbraio 1992) per vedere che cosa riesco a trovare.


 


1

Trovo subito il Taras Bulba (1918) e la Sinfonietta (1926): le composizioni orchestrali del suo periodo maggiore; essendo le più popolari (vale a dire le più accessibili al melomane medio) vengono quasi sistematicamente abbinate nello stesso disco.


Poi la Suite per orchestra d’archi (1877), l' Idillio per orchestra d’archi (1878), le Danze di Lachi (1890). Tutte composizioni appartenenti alla sua preistoria creativa e tanto insignificanti da lasciare interdetto chi cerchi sotto la firma di Janáček una grande musica.


Soffermiamoci sui termini «preistoria» e «grande musica»:


Janáček è nato nel 1854. Il paradosso è tutto qui. Questo grande personaggio della musica moderna è più anziano degli ultimi grandi romantici: ha quattro anni più di Puccini, sei più di Mahler, dieci più di Richard Strauss. Per molto tempo, rifuggendo dagli eccessi del romanticismo, scrive pezzi notevoli unicamente per il loro spiccato tradizionalismo. La sua esistenza di compositore perennemente insoddisfatto è costellata di partiture stracciate; soltanto all’inizio di questo secolo egli riesce a trovare uno stile tutto suo. Negli anni Venti, le sue composizioni figurano nei programmi dei concerti di musica moderna, accanto a quelle di Stravinskij, di Bartók, di Hindemith; lui, però, ha trenta o quaranta anni più di loro. Conservatore solitario in gioventù, Janáček è diventato da vecchio un innovatore. Ma rimane comunque un isolato. Pur essendo solidale con i grandi modernisti, egli è infatti diverso da loro. Al suo stile è giunto per conto proprio, il suo modernismo ha un altro carattere, un’altra genesi, altre radici.


 


2

Proseguo il mio giro fra gli scaffali della FNAC; trovo, senza difficoltà, i due Quartetti (1923, 1928): rappresentano il momento più alto dell’arte di Janáček; tutto il suo espressionismo vi si concentra a un livello di assoluta perfezione. Ve ne sono cinque registrazioni, tutte eccellenti. Purtroppo però non riesco a trovare (da tempo la cerco vanamente in CD) l’interpretazione più autentica (e tuttora la migliore), quella del Quartetto Janáček (il vecchio disco Supraphon 50556; Prix de l’Académie Charles-Cros, Preis der Deutschen Schalplattenkritik).


Soffermiamoci sul termine «espressionismo»:


Pur non essendosi mai richiamato esplicitamente a questa corrente, Janáček è in effetti l’unico grande compositore che si possa definire «espressionista», nel senso letterale della parola: per lui tutto è espressione, e una nota ha diritto a esistere solo se e in quanto è espressione. Di qui l’assenza totale di ciò che è semplice «tecnica»: transizioni, sviluppi, meccanica del remplissage contrappuntistico, routine di orchestrazione (e, invece, l’attrazione per gli insiemi inediti, costituiti da pochi strumenti solisti), ecc. Dal punto di vista dell’esecutore ne consegue che ogni nota (non solo quindi ogni motivo, ma ogni singola nota di un motivo) , in quanto è espressione, deve possedere la massima chiarezza espressiva. Vorrei aggiungere un’altra precisazione: l’espressionismo tedesco è caratterizzato da una predilezione per gli stati d’animo estremi, per il delirio, per la follia. Quello che ho definito l’espressionismo di Janáček non ha nulla a che fare con questa scelta unilaterale: è invece una ricchissima gamma emotiva, un confronto senza transizioni, vertiginosamente serrato, fra tenerezza e brutalità, furore e pace.


 


3

Trovo anche la bella Sonata per violino e pianoforte (1921), il Racconto per violoncello e pianoforte (1910), il ciclo di liriche Diario di uno scomparso ( 1919), per pianoforte, tenore, alto e tre voci femminili. E poi, le composizioni degli ultimi anni; quelli in cui la sua creatività tocca il punto più alto; poiché non era mai stato libero, traboccante di humour e di inventiva come lo fu a settant’anni; la Messa glagolitica (1926): è qualcosa di assolutamente unico e affascinante; è più un’orgia che una messa. Dello stesso periodo sono Mlàdi, suite per sestetto di strumenti a fiato (1924), Filastrocche (1927) e due composizioni per pianoforte e altri strumenti che sono tra le mie preferite ma la cui esecuzione raramente mi soddisfa: Capriccio (1926) e Concertino (1925).


Trovo ben cinque registrazioni di alcune delle belle composizioni per pianoforte: la Sonata (1905) e le due raccolte: Sul sentiero di rovi (1901-1908) e Nella nebbia (1912); questi pezzi vengono sempre riuniti in un solo disco, quasi sempre (purtroppo) con l’aggiunta di altri, minori, appartenenti alla «preistoria» del musicista. Sono proprio i pianisti del resto a fraintendere lo spirito e la struttura della musica di Janáček; quasi nessuno resiste infatti alla tentazione di « romanticizzarla»: con un’interpretazione sdolcinata, attenuandone le asprezze, trascurandone i forte e abbandonandosi quasi sistematicamente al delirio del rubato. (Le composizioni per pianoforte sono esposte più delle altre all’insidia del rubato. È difficile infatti programmare una inesattezza ritmica con una intera orchestra. Invece il pianista è solo. La sua temibile anima può infierire senza controllo e senza ritegno).


Soffermiamoci sul termine «romanticizzare»:


L’espressionismo janacekiano non è un prolungamento esacerbato del sentimentalismo romantico. È, invece, una delle possibilità storiche di uscire dal romanticismo. Una possibilità opposta a quella scelta da Stravinskij: al contrario di lui, Janáček non rimprovera ai romantici di aver parlato dei sentimenti; rimprovera loro di averli falsificati; di aver sostituito alla verità immediata delle emozioni un gesticolamento sentimentale (una «menzogna romantica», direbbe René Girard).1 Janáček si interessa appassionatamente alle passioni, ma quel che gli sta più a cuore è la precisione con cui vuole esprimerle. Siamo dalla parte di Stendhal, non di Victor Hugo. E questo comporta una rottura con la musica del romanticismo, con il suo spirito, con la sua sonorità ipertrofica (ai suoi tempi l’economia sonora di Janáček scandalizzava tutti), con la sua struttura.


 


4

Soffermiamoci sul termine «struttura»:


- mentre la musica romantica cercava di imporre a ogni movimento una unità emotiva, la struttura musicale di Janáček è fondata sull’alternanza insolitamente reiterata di frammenti emotivi diversi, o addirittura contraddittori, nello stesso pezzo, nello stesso movimento;


- alla diversità emotiva corrisponde la diversità dei tempi e dei metri che si alternano anch’essi con insolita frequenza;


- la coesistenza di più emozioni contraddittorie in un spazio limitatissimo crea una semantica originale (è proprio la inattesa contiguità delle emozioni che stupisce e affascina in questa musica). La coesistenza delle emozioni è orizzontale (esse si susseguono) ma anche (il che è ancora più inconsueto) verticale (esse risuonano simultaneamente in una polifonia delle emozioni). Facciamo un esempio: nello stesso momento si sentono una melodia nostalgica, un furioso motivo ostinato sotto di essa, e sopra un’altra melodia che evoca delle grida. Se l’esecutore non capisce che ciascuna di queste linee melodiche ha uguale importanza semantica e che, di conseguenza, nessuna di esse va trasformata in semplice accompagnamento, in mormorio impressionista, non riuscirà a cogliere la struttura specifica della musica di Janáček.


La permanente coesistenza di emozioni contraddittorie dà a questa musica il suo carattere drammatico; drammatico nel senso più letterale del termine; essa infatti non fa pensare a una voce che racconti una storia; fa pensare a una scena nella quale siano presenti, simultaneamente, più attori che parlano e si scontrano fra di loro; e questo spazio drammatico è non di rado contenuto in nuce in un unico tema melodico. Come in queste prime battute della Sonata per pianoforte:


 


kundera 4 - 0001


 


Il motivo forte di sei semicrome nella quarta battuta fa ancora parte del tema melodico enunciato nelle battute precedenti (è composto con gli stessi intervalli), ma al tempo stesso costituisce, dal punto di vista dell’emozione, il suo esatto contrario. Poche battute dopo, si vede sino a che punto questo motivo «scissionista» contraddica con la sua asprezza la melodia elegiaca da cui proviene:


 


kundera 4 - 0002


 


Nella battuta seguente, le due melodie, quella originaria e quella «scissionista», si fondono; ma non in una sorta di armonia emotiva, bensì in una contraddittoria polifonia delle emozioni, così come possono fondersi un lamento nostalgico e un grido di rivolta:


 


kundera 4 - 0003


 


Nell’intento di dare a queste battute una uniformità emotiva, tutti i pianisti dei quali sono riuscito a procurarmi le esecuzioni alla FNAC trascurano il forte prescritto da Janáček nella quarta battuta, privando così il motivo « scissionista » della sua asprezza e la musica di Janáček di quella inimitabile tensione che la rende riconoscibile (se ben compresa) immediatamente, fin dalle primissime note.


 


5

Passiamo alle opere: non mi rammarico di non trovare Il viaggio del signor Broucek, che mi sembra piuttosto mediocre; ci sono invece, dirette da Sir Charles Mackerras, tutte le altre: Destino (scritta fra il 1903 e il 1904 su un libretto in versi disastrosamente naif, l’opera, pur essendo posteriore a Jenufa, rappresenta rispetto a questa una netta regressione, anche sul piano musicale) ; poi i cinque capolavori ai quali va la mia ammirazione incondizionata: Kat’a Kabanovà, La volpe astuta, L’affare Makropulos; e Jenufa: Sir Charles Mackerras ha il merito inestimabile di averla finalmente (nel 1982, dopo sessantasei anni!) sfrondata dalle modifiche e dalle aggiunte che le erano state imposte a Praga nel 1916. E per finire Da una casa di morti: e qui, forse più ancora che in Jenufa, lo straordinario lavoro di revisione da lui compiuto rivela (nel 1980, dopo cinquantadue anni!) quanto gli interventi degli adattatori avessero indebolito quest’opera. Restituita alla sua partitura originale, Da una casa di morti ritrova tutta la sua stringata e inusuale sonorità (agli antipodi del sinfonismo romantico) e si conferma, insieme al Wozzeck di Berg, come l’opera più autentica, più grande di questo nostro secolo oscuro.


 


6

Nelle opere di Janáček, ci si trova di fronte a una difficoltà pratica insolubile: il fascino del canto dipende in uguale misura dalla bellezza melodica e dal significato psicologico (sempre sorprendente) che la melodia conferisce non a una scena nella sua globalità ma a ogni singola frase, a ogni parola che viene cantata. Ma come cantare queste opere a Berlino o a Parigi? Se si segue il testo ceco (come fa Mackerras), l’ascoltatore non sente altro che sillabe prive di senso e non coglie le finezze psicologiche presenti in ogni frase melodica. Scegliere di tradurle, allora, com’è stato fatto nei primi anni in cui le opere di Janáček venivano rappresentate sulle scene internazionali? Anche questa soluzione pone dei problemi: la lingua francese, per esempio, non tollererebbe l’accento tonico che cade sulla prima sillaba delle parole ceche, e la stessa intonazione assumerebbe in francese un significato psicologico completamente diverso.


(Vi è qualcosa di patetico, direi persino di tragico, nel fatto che Janáček abbia concentrato la maggior parte delle sue energie innovatrici proprio sull’opera, mettendosi in tal modo alla mercé del pubblico borghese più conservatore che si possa immaginare. Inoltre: il suo contributo più innovativo consiste in una valorizzazione senza precedenti della parola cantata, vale a dire in concreto della parola ceca, incomprensibile nel novantanove per cento dei teatri del mondo. Difficile immaginare una consapevole accumulazione di ostacoli più grande di questa. Le sue opere sono il massimo omaggio che mai sia stato reso alla lingua ceca. Un omaggio? Sì. In forma di sacrificio. Poiché Janáček ha immolato la sua musica universale a una lingua pressoché sconosciuta).


 


7

Domanda: se la musica è un linguaggio sovranazionale, la semantica delle intonazioni della lingua parlata ha anch’essa un carattere sovranazionale? o non ce l’ha affatto? o ce l’ha solo in una certa misura? Tutti problemi che affascinavano Janáček. Tanto da indurlo a nominare l’Università di Brno erede di quasi tutto il suo patrimonio allo scopo di sovvenzionare ricerche sulla lingua parlata sotto il profilo musicale (sui suoi ritmi, le sue intonazioni, la loro semantica). Ma i testamenti, com’è noto, rimangono sempre lettera morta.


 


8

L’ammirevole fedeltà di Sir Charles Mackerras all’opera di Janáček consiste: nel cogliere e difendere ciò che in essa vi è di essenziale. Mirare all’essenziale, era anche la morale artistica di Janäcek; egli aveva una regola: una nota ha il diritto di esistere solo se è assolutamente necessaria (semanticamente necessaria); ciò spiega l’estrema economia della sua orchestrazione. Liberando le partiture dalle aggiunte di cui erano state infarcite, Mackerras ha restaurato questa economia e ha reso più intelligibile l’estetica janacekiana.


Ma esiste anche una fedeltà di segno opposto, che si esprime nella forsennata ricerca di tutto quanto si può scovare «dietro» un autore. E poiché ogni autore finché è in vita cerca di rendere pubblico tutto l’essenziale, i rovistatori di pattumiere sono dei corteggiatori dell’inessenziale.


Lo spirito rovistatore si manifesta, in modo esemplare, nella registrazione delle opere per pianoforte, per violino o per violoncello (ADDA 581136/37). Qui, i pezzi minori o del tutto insignificanti (trascrizioni di brani popolari, varianti abbandonate, operine giovanili, abbozzi) occupano una cinquantina di minuti, un terzo della durata complessiva, e sono disseminati fra le sue composizioni maggiori. Per ben sei minuti e trenta secondi, ad esempio, ci viene propinata una musica di accompagnamento a esercizi di ginnastica. Per carità, cari compositori, quando le belle signore di un club sportivo verranno a chiedervi un piccolo favore, resistete! Il vostro atto di gentilezza vi sopravviverà, e diverrà oggetto di scherno!


 


9

Continuo il mio giro alla FNAC. Cerco, invano, alcune belle pagine orchestrali della maturità (Il bambino del suonatore, del 1912, e La ballata di Blanik, del 1920), le cantate (e in primo luogo: Amarus, del 1898), e qualche composizione del periodo in cui il suo stile si andava formando, notevole per la commovente, incomparabile semplicità: il Pater noster (1901), l'Ave Maria (1904). Ma soprattutto, ed è la cosa più grave, mancano i cori; perché, nel nostro secolo, non esiste nulla di paragonabile in questo campo ai quattro capolavori del periodo maggiore di Janáček: Marycka Magdónovà (1906-1907), Kaspar Halfar (1906), I settantamila (1909), Il folle vagabondo (1922): di questi cori, tutti diabolicamente difficili, sul piano tecnico, esistevano in Cecoslovacchia ottime esecuzioni che però, essendo registrate solo su dischi della marca ceca Supraphon, sono da anni introvabili.


 


10

Pur non essendo del tutto negativo, il bilancio non si può neanche definire positivo. Ma, con Janáček, è stato così fin dall’inizio. Jenufa approda sui palcoscenici del mondo vent’anni dopo la sua prima esecuzione. Troppo tardi. Poiché quei vent’anni bastano a far perdere a un’estetica il suo carattere polemico e a rendere non più percettibile la sua novità. Ecco perché la musica di Janáček è così spesso mal compresa, e così mal eseguita; il suo significato storico si è appannato; essa sembra ormai inclassificabile; come un bel giardino che fiorisce accanto ma non dentro la Storia; e nessuno si pone il problema del posto che le spetta nell’evoluzione (o per meglio dire: nella genesi) della musica moderna.


Se nel caso di Broch, Musil, Gombrowicz, e in un certo senso in quello di Bartók, il loro riconoscimento è stato tardivo a causa delle catastrofi storiche (il nazismo, la guerra), per Janáček il ruolo di catastrofe spetta per intero alla piccola nazione cui egli apparteneva.


 


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Piccole nazioni. Il termine non viene usato qui in senso quantitativo: indica piuttosto una situazione; un destino: le piccole nazioni non hanno la beata consapevolezza di esistere da sempre e per sempre; tutte quante, in un qualche momento della loro storia, sono passate per l’anticamera della morte; sempre costrette a fare i conti con l’arrogante ignoranza dei grandi di questo mondo, esse vedono la loro esistenza costantemente minacciata o messa in dubbio; perché la loro esistenza è di fatto problematica.


Nella loro grande maggioranza, le piccole nazioni europee hanno conquistato la libertà e l’indipendenza durante gli ultimi due secoli. Ciascuna di loro ha dunque avuto un suo specifico ritmo evolutivo. Nel campo dell’arte, questa asincronia storica è stata spesso feconda, poiché ha fatto sì che epoche diverse si incontrassero in modo piuttosto curioso: Janáček e Bartók, per esempio, furono entrambi accesi fautori della riscossa nazionale del loro popolo; è proprio questo a conferire loro un carattere ottocentesco: uno straordinario senso del reale, l’attaccamento alle classi popolari, all’arte popolare, un rapporto più spontaneo con il pubblico; tutte qualità che a quell’epoca erano ormai scomparse dall’arte dei grandi paesi e che si fusero con l’estetica del modernismo creando un connubio inimitabile, straordinariamente felice.


Le piccole nazioni formano «un’altra Europa», la cui evoluzione fa da contrappunto a quella delle nazioni maggiori. A guardarle dal di fuori si rimane affascinati dalla stupefacente intensità della loro vita culturale. Questo è il vantaggio dell’essere piccoli: il numero degli avvenimenti culturali è «a misura d’uomo»; tutti sono in grado di seguirli prendendo parte attiva a ognuno di essi; per questo, nei suoi momenti migliori, la vita di una piccola nazione ricorda quella di una città della Grecia antica.


Questa possibilità data a tutti di partecipare a tutto può far pensare anche a un’altra cosa: alla famiglia; una piccola nazione è come una grande famiglia, e tale si compiace di definirsi. Nella lingua del più piccolo popolo europeo, l’islandese, famiglia si dice: fjölskylda; l’etimologia è eloquente: skylda significa: obbligo; fjöl significa: molteplice. La famiglia è dunque un molteplice obbligo. Gli islandesi indicano con una parola sola i legami familiari: fjölskyldubönd: i lacci (bönd) degli obblighi molteplici. Nella grande famiglia di una piccola nazione, l’artista è dunque avvinto in molti modi, da molteplici lacci. Quando Nietzsche proclama a gran voce il suo disprezzo per l’indole tedesca, quando Stendhal dichiara di preferire l’Italia al suo paese natale, né i tedeschi né i francesi se ne sentono minimamente offesi; ma se un greco o un ceco osasse fare lo stesso, su di lui cadrebbe l’anatema dell’intera famiglia come sul più ignobile dei traditori.


Nascoste dietro le loro inaccessibili lingue, le piccole nazioni europee (con la loro vita, la loro storia, la loro cultura) sono molto mal conosciute; viene naturale pensare che sia questo l’ostacolo maggiore al riconoscimento internazionale della loro arte. E invece, è proprio il contrario: l’ostacolo maggiore che quest’arte incontra è il fatto che tutti quanti (la critica, la storiografia, i compatrioti non meno degli stranieri) la incollano sulla grande foto di famiglia nazionale e non la lasciano uscire di là. Prendiamo Gombrowicz: senza alcun profitto (e, anche, senza alcuna competenza), i suoi commentatori stranieri si accaniscono a spiegare la sua opera disquisendo sulla nobiltà polacca, il barocco polacco, ecc. Come dice Proguidis,2 essi non fanno altro che «polacchizzarlo», « ripolacchizzarlo», ricacciandolo nel suo ristretto contesto nazionale. Ma non sarà certo la conoscenza della nobiltà polacca a farci capire la novità, e, dunque, il valore del romanzo di Gombrowicz, bensì la conoscenza del romanzo mondiale moderno (in altri termini, la conoscenza del contesto ampio).


 


12

Ah, le piccole nazioni. Calda intimità, dove ognuno invidia ogni altro, tutti sorvegliano tutti. «Famiglie, vi odio! » diceva Gide. E ammoniva: «Nulla è più pericoloso per te della tua famiglia, della tua camera, del tuo passato ... Devi lasciare tutto questo». Ibsen l’aveva capito, e come lui Strindberg, Joyce, Seféris. Hanno passato gran parte della vita all’estero, lontano dal potere familiare. Per Janáček, patriota ingenuo, una cosa simile era inconcepibile. E la pagò cara.


Certo, tutti gli artisti moderni hanno affrontato incomprensione e odio; ma sempre attorniati da discepoli, da teorici, da esecutori che li difendevano e che, sin dall’inizio, hanno imposto la concezione più autentica della loro arte. A Brno, la cittadina di provincia in cui ha trascorso tutta la vita, anche Janáček aveva i suoi fedeli, alcuni esecutori non di rado eccellenti (il Quartetto Janáček è stato uno degli ultimi eredi di questa tradizione), ma la loro influenza era troppo debole. Sin dai primi anni del secolo, la musicologia ufficiale ceca lo aveva bollato con il suo disprezzo. Gli ideologi nazionali che in musica non avevano altro dio all’infuori di Smetana, né altre leggi che quelle smetaniane, furono irritati dalla sua radicale alterità. Il papa della musicologia praghese, il professor Nejedly, che nel 1948, alla fine della sua vita, divenne ministro e dominatore indiscusso della cultura di una Cecoslovacchia stalinizzata, rimaneva fedele, nella sua senilità bellicosa, a due sole grandi passioni: la venerazione per Smetana, l’esecrazione per Janáček. Il maggior sostegno su cui quest’ultimo potè contare finché rimase in vita fu quello di Max Brod; egli, fra il 1918 e il 1928, tradusse in tedesco tutte le sue opere, aprendo loro le frontiere ed emancipandole dal potere esclusivo della famiglia gelosa. Nel 1924, lo stesso Brod scrisse la prima monografia a lui dedicata; ma Brod non era ceco e quindi la prima monografia su Janáček è tedesca. La seconda è francese, e fu pubblicata a Parigi nel 1930. La prima monografia organica in lingua ceca ha visto la luce solo trentanove anni dopo quella di Brod.3 Franz Kafka paragonò la battaglia sostenuta da Brod in favore di Janáček a quella combattuta in altri tempi dai paladini di Dreyfus. Curioso paragone che rivela quanto fosse virulenta l’ostilità nei confronti di Janáček all’interno del suo stesso paese. La sua prima opera, Jenùfa, fu tenacemente respinta dal Teatro Nazionale di Praga dal 1903 al 1916. Più o meno negli stessi anni, fra il 1905 e il 1914, Joyce si vide rifiutare dai suoi compatrioti il primo libro da lui scritto in prosa, Gente di Dublino, del quale si arrivò al punto di bruciare le bozze nel 1912. La vicenda di Janáček si differenzia da quella di Joyce per la crudeltà dell’epilogo: il compositore, infatti, fu costretto a vedere la sua Jenùfa diretta dallo stesso maestro che per quattordici anni lo aveva messo alla porta, che aveva manifestato per la sua musica soltanto disprezzo. E fu anche costretto a mostrarsi grato. Dopo questa umiliante vittoria (la partitura, come ho detto, venne infarcita di correzioni, cancellature e aggiunte), Janáček cominciò a essere tollerato, nel suo paese. Ho detto: tollerato. Se una famiglia non riesce ad annientare il figlio meno amato, lo mortifica con materna indulgenza. La tesi più diffusa in Boemia, ed è quella che si presenta come la più favorevole nei riguardi di Janáček, lo esclude dal contesto della musica moderna per confinarlo nelle tematiche locali: la passione per il folklore, il patriottismo moravo, l’ammirazione per la Donna, la Natura, la Russia, l’Anima slava, e simili baggianate. Famiglia, io ti odio. A tutt’oggi nessuno dei suoi compatrioti ha ancora scritto un saggio musicologico degno di nota in cui si analizzi la novità estetica della sua opera. Non esiste alcuna scuola influente di interpretazione janacekiana che possa rendere intelligibile al resto del mondo la sua particolarissima estetica. Né una strategia atta a far conoscere la sua musica. Né un’edizione discografica integrale della sua opera. Né un’edizione completa dei suoi scritti teorici e critici.


Eppure, quella piccola nazione non ha mai avuto un artista più grande di lui.


 


13

Ma lasciamo perdere. Penso agli ultimi dieci anni della sua vita: il suo paese ha raggiunto l’indipendenza, la sua musica viene infine applaudita, lui stesso ama riamato una giovane donna; le sue opere diventano ogni giorno più audaci, libere, gioiose. Una vecchiaia picassiana. Nell’estate del 1928, la donna amata va a trovarlo con il figlio nella sua casetta di campagna. Il bambino si perde nel bosco, lui va a cercarlo, corre da ogni parte, si prende un raffreddore, poi una polmonite, e viene portato all’ospedale dove muore pochi giorni dopo. Lei gli sta accanto. Si mormora, e lo sento raccontare da quando avevo quattordici anni, che sia morto facendo l’amore nel suo letto di ospedale. Poco verosimile ma, come amava dire Hemingway, più vero del vero. Quale miglior coronamento per quella sfrenata euforia che era stata la cifra dei suoi ultimi anni?


Ciò dimostra fra l’altro che nella sua famiglia nazionale c’era anche chi gli voleva bene. Perché questa leggenda è un mazzolino di fiori deposto sulla sua tomba.


 


 


 


1. Colgo l’occasione per citare finalmente il nome di René Girard; Menzogna romantica e verità romanzesca è il più bel libro sull’arte del romanzo che abbia mai letto.


2. Lakis Proguidis, Un écrivain malgré la critique: essai sur l’oeuvre de Witold Gombrowicz, Gallimard, Paris, 1989.


3. Jaroslav Vogel, Leos Janáček, Praha, 1963 (la traduzione inglese è stata pubblicata da Orbis, London e da W.W. Norton and Company, New York, 1981): è un libro serio e ricco di particolari, ma rinchiuso, per quanto riguarda i giudizi, nel ristretto orizzonte nazionale e nazionalistico. Dei due compositori europei a Janáček più affini, Bartók e Berg: il primo non viene neppure nominato, il secondo solo incidentalmente. E come si può situare Janáček sulla mappa della musica moderna senza fare riferimento all’uno e all’altro?

PARTE OTTAVA

LE STRADE NELLA NEBBIA 


 


 


 


 


Che cos’è l’ironia

Nella quarta parte del Libro del riso e dell’oblio, Tamina, la protagonista, ha bisogno di un favore dalla sua amica Bibi, una giovane grafomane; per ingraziarsela, le organizza un incontro con uno scrittore di provincia, un tale Banaka. Questi spiega alla grafomane che al giorno d’oggi i veri scrittori hanno abbandonato l’arte del romanzo ormai superata: «Vede,» le dice «il romanzo è frutto dell’umana illusione di poter comprendere il prossimo. Ma cosa sappiamo uno dell’altro? ... L’unica cosa che possiamo fare è presentare un rapporto su noi stessi ... Tutto il resto è menzogna». E l’amico di Banaka, un professore di filosofia, rincara la dose: «James Joyce ci ha insegnato che la più grande avventura della nostra vita è l’assenza di avventure ... L’Odissea di Omero si è trasferita dentro di noi. Si è interiorizzata». Poco tempo dopo l’uscita del libro, ho trovato queste ultime parole in epigrafe a un romanzo francese. Ne sono rimasto lusingato ma anche imbarazzato perché, nelle mie intenzioni, quelle proclamate da Banaka e dal suo amico non erano altro che sofisticate idiozie. Allora, erano gli anni Settanta, tutti le dicevano intorno a me: erano chiacchiere accademiche formicolanti di vestigia dello strutturalismo e della psicoanalisi.


Allorché uscì, in Cecoslovacchia, il volumetto contenente la quarta parte del Libro del riso e dell’oblio (era il mio primo testo pubblicato laggiù dopo un interdetto durato vent’anni), qualcuno mi mandò a Parigi un ritaglio di giornale: la recensione era molto positiva e, come prova della mia intelligenza, l’autore citava questa frase che gli sembrava acuta: «James Joyce ci ha insegnato che la più grande avventura della nostra vita è l’assenza di avventure, ecc...». Provai un curioso, amaro piacere nel vedere che stavo ritornando in patria in groppa all’asino del malinteso.


Malinteso peraltro comprensibile: non ho affatto cercato di ridicolizzare il mio Banaka e il suo amico professore. Non ho espresso apertamente le mie riserve nei loro riguardi. Anzi, ho fatto di tutto per dissimularle, con l’intenzione di dare alle loro opinioni l’eleganza del discorso intellettuale che, allora, tutti rispettavano e imitavano con entusiasmo. Se avessi ridicolizzato i loro discorsi, sottolineandone gli eccessi, avrei fatto quella che comunemente si chiama satira. La satira è un’arte a tesi; certa com’è della propria verità, mette in ridicolo ciò che ha deciso di combattere. Il rapporto del romanziere con i suoi personaggi non è mai satirico; è ironico. Ma come si manifesta l’ironia, discreta per definizione? Attraverso il contesto: le affermazioni di Banaka e del suo amico vengono collocate in uno spazio di gesti, di azioni e di parole che le relativizzano. Il piccolo mondo provinciale in cui si muove Tamina è caratterizzato da un innocente egocentrismo: tutti provano per lei una simpatia sincera, eppure nessuno tenta di capirla, perché nessuno ha idea di che cosa significhi capire. Dicendo che l’arte del romanzo è ormai superata perché «è frutto dell’umana illusione di poter comprendere il prossimo», Banaka non esprime solo un atteggiamento estetico alla moda ma, senza saperlo, la miseria sua e di tutto il suo ambiente: dove il desiderio di comprendere l’altro è del tutto assente; dove regna una egocentrica cecità verso il mondo reale.


L’ironia implica: nessuna delle affermazioni contenute in un romanzo può essere presa isolatamente, poiché ciascuna è inserita in una serie di confronti complessi e contraddittori con altre affermazioni, altre situazioni, altri gesti, altre idee, altri eventi. Solo una lettura lenta, ripetuta due o più volte, metterà in luce all’interno del romanzo tutti i rapporti ironici senza i quali il romanzo non verrà capito.


 


Strano comportamento di K. al momento dell’arresto

Una mattina Josef K. si sveglia e, senza alzarsi dal letto, suona perché gli portino la colazione. Invece della domestica entrano degli sconosciuti, uomini normali, vestiti normalmente, ma che assumono subito un atteggiamento talmente autoritario che K. non può non percepire la loro forza, il loro potere. Sebbene irritato, egli non si sente quindi di cacciarli fuori e al primo che vede domanda piuttosto cortesemente: «Chi è lei?».


Sin dall’inizio, il comportamento di K. oscilla fra una pavidità disposta a cedere davanti all’incredibile impudenza degli intrusi (i quali sono venuti a notificargli che è in arresto) e il timore di apparire ridicolo. Per esempio, K. si rivolge con fermezza a uno dei due: «Non voglio né rimanere qui né che lei mi rivolga la parola finché non si sarà presentato». Basterebbe togliere queste parole dal loro contesto ironico, prenderle alla lettera (come ha fatto il mio recensore con il discorso di Banaka) e K. sarebbe per noi (come era per Orson Welles che dal Processo ha tratto un film) un uomo-che-si-ribella-alla-violenza. Eppure, basta leggere attentamente il testo per capire che questo cosiddetto ribelle continua a obbedire agli intrusi i quali non solo non si degnano nemmeno di presentarsi ma mangiano la sua colazione lasciandolo per tutto il tempo in piedi, in camicia da notte.


Alla fine di questa curiosa scena di umiliazione (K. tende la mano all’ispettore e quello rifiuta di stringergliela), uno degli uomini gli dice: «Lei adesso vorrà certo andare in banca». «In banca?» ribatte K. «Pensavo di essere in arresto».


Ecco di nuovo l’uomo-che-si-ribella-alla-violenza! È sarcastico! È provocatorio! Il commento di Kafka del resto è chiaro:


« Nelle parole di K. vi era un certo tono di sfida, perché, sebbene la sua stretta di mano non fosse stata accettata, si sentiva, specie dal momento in cui l’ispettore si era alzato, sempre più indipendente da tutta quella gente. Stava al gioco. Aveva l’intenzione, se quelli se ne fossero andati, di inseguirli fin sul portone proponendo loro di arrestarlo».


L’ironia è sottilissima: K. si arrende ma vuole vedere se stesso come un uomo forte che « sta al gioco », che si fa beffe di quegli uomini pur fingendo, per burla, di prendere sul serio il suo arresto; si arrende ma interpreta subito la sua resa in modo da poter serbare, ai propri occhi, una certa dignità.


In principio tutti leggevano Kafka con un’espressione tragica stampata in faccia. Poi si è appreso che, quando Kafka aveva letto ai suoi amici il primo capitolo del Processo, li aveva fatti ridere tutti quanti. Così anche gli altri hanno cominciato a sforzarsi di ridere ma senza sapere esattamente perché. In effetti che cosa c’è di divertente in questo capitolo? Il comportamento di K. Ma in che cosa è comico il suo comportamento?


Questa domanda mi ricorda gli anni da me trascorsi alla Scuola di cinema di Praga. Durante le riunioni dei docenti, io e un mio amico guardavamo sempre con una simpatia un po’ beffarda uno dei nostri colleghi, uno scrittore sulla cinquantina, uomo acuto e irreprensibile nel quale sospettavamo però una pusillanimità immensa e incontrollabile. Il nostro sogno, che (purtroppo!) non abbiamo mai realizzato, era questo:


Nel bel mezzo di una riunione uno di noi gli avrebbe ordinato: «In ginocchio! ».


In un primo momento, lui non avrebbe capito che cosa volevamo; o meglio, avrebbe capito subito, nella sua lucida viltà, ma avrebbe tentato di guadagnare tempo facendo finta di non capire.


Allora noi avremmo alzato il tono: «In ginocchio!» avremmo ripetuto.


A questo punto lui non avrebbe più potuto fingere di non capire. Essendo già pronto a obbedire, avrebbe avuto un solo problema da risolvere: come farlo? Come mettersi in ginocchio, lì, sotto gli occhi di tutti i colleghi, senza umiliarsi? Avrebbe cercato disperatamente una formula spiritosa che accompagnasse la sua genuflessione, qualcosa come: «Vi spiacerebbe, cari colleghi, se mi mettessi un cuscino sotto le ginocchia?».


«In ginocchio e zitto! ».


Lui avrebbe obbedito a mani giunte e inclinando leggermente la testa da un lato: « Se avete studiato bene la pittura del Rinascimento, cari colleghi, ricorderete che Raffaello dipinge san Francesco d’Assisi proprio in questa posizione ».


Di questa scena spassosa immaginavamo ogni giorno nuove varianti escogitando formule sempre diverse con cui il nostro collega avrebbe tentato di salvare la propria dignità.


 


Il secondo processo contro Josef K.

Al contrario di Orson Welles, i primi interpreti di Kafka non consideravano affatto K. come un innocente che si ribella a un arbitrio. Max Brod, per esempio, non ha dubbi sulla sua colpevolezza. Ma che cosa ha fatto Josef K.? Secondo Brod (Disperazione e salvezza nell'opera di Franz Kafka, 1959), la sua colpa risiede nella sua Lieblosigkeit, nella sua incapacità di amare. «Josef K. liebt niemanden, er liebelt nur, deshalb muß ersterben». Josef K. non ama nessuno, sa soltanto amoreggiare, quindi deve morire. (Che la sublime stupidità di questa frase resti per sempre scolpita nella nostra memoria! ). Di questa Lieblosigkeit Brod porta subito due prove: stando a un capitolo del romanzo incompiuto e scartato (che viene di solito pubblicato in appendice), da tre anni, Josef K. non va a trovare sua madre; si limita a inviarle del denaro e riceve notizie della sua salute da un cugino (una somiglianza curiosa: anche il Meursault, dello Straniero, è accusato di non amare sua madre). La seconda prova, è il suo rapporto con la signorina Bürstner, rapporto che Brod definisce della «più bassa sessualità» (die niedrigste Sexualität). «Accecato dalla sessualità, Josef K. non vede in una donna un essere umano».


Nella sua prefazione all’edizione del Processo apparsa a Praga nel 1964, il kafkologo ceco Eduard Goldstücker condannava K. con non minore severità anche se il suo vocabolario non era improntato alla teologia, come quello di Brod, bensì alla sociologia di stampo marxista: «Josef K. è colpevole perché ha accettato che la sua vita diventasse meccanizzata, automatizzata, alienata, che si piegasse al ritmo stereotipato del meccanismo sociale, che si lasciasse privare di tutto quanto è umano; K. ha dunque trasgredito la legge a cui, secondo Kafka, l’umanità intera deve sottostare e che dice: “Sii umano”». Negli anni Cinquanta, dopo aver subito un terribile processo staliniano in cui era stato accusato di delitti immaginari, Goldstücker aveva passato quattro anni in prigione. Mi domando: com’è possibile che, una decina d’anni dopo essere stato vittima di un processo, egli ne abbia a sua volta intentato uno contro un altro imputato non più colpevole di lui?


Secondo Alexandre Vialatte (L’Histoire secrète du «Procès», 1947), quello che Kafka istruisce nel romanzo è un processo contro se stesso, poiché K. è soltanto il suo alter ego: Kafka aveva infatti rotto il fidanzamento con Felice, e il futuro suocero «era venuto da Malmö apposta per giudicare il reo. La camera dell’Askanischer Hof in cui si svolse questa scena (nel luglio del 1914) dovette sembrare a Kafka l’aula di un tribunale ... L’indomani mattina incominciava a scrivere Nella colonia penale e Il processo. Noi non sappiamo quale sia la colpa di K., e la morale corrente lo assolve. Eppure la sua “innocenza” è diabolica ... K. ha contravvenuto in modo misterioso alle leggi di una misteriosa giustizia che non ha nulla in comune con la nostra ... Il giudice è il dottor Kafka, l’imputato è il dottor Kafka. Che si dichiara colpevole di innocenza diabolica».


Durante il primo processo (quello che Kafka racconta nel romanzo) il tribunale incrimina K. senza specificare il delitto. I kafkologi non si stupiscono che si possa mettere qualcuno sotto accusa senza dirgli perché, né si preoccupano di meditare su questa situazione inedita, mai esaminata in alcuna opera letteraria. Anzi, assumono essi stessi il ruolo di pubblico ministero in un nuovo processo che istruiscono contro K. tentando questa volta di identificare la vera colpa dell’imputato. Secondo Brod: è incapace di amare! Secondo Goldstücken ha permesso che la sua vita si meccanizzasse! Secondo Vialatte: ha rotto il fidanzamento! Dobbiamo riconoscere loro almeno un merito: questo secondo processo non è meno kafkiano del primo. Poiché se in quello K. non era accusato di niente, in questo è accusato di tutto e del contrario di tutto, e le cose non cambiano perché in entrambi i casi un fatto è chiaro: K. è colpevole non perché si sia macchiato di una colpa ma perché è stato accusato. È accusato, e quindi deve morire.


 


Colpevolizzazione

C’è un solo modo per capire i romanzi di Kafka. Leggerli come si legge un qualsiasi romanzo. Invece di cercare in Josef K. il ritratto dell’autore e nelle sue parole un misterioso messaggio cifrato, seguire attentamente il comportamento dei personaggi, i loro discorsi, il loro pensiero, provando a vederseli davanti. Chi legge Il processo in questo modo è, subito, incuriosito dalla strana reazione di K. al fatto di essere messo sotto accusa: senza aver fatto niente di male (o senza sapere che cosa possa aver fatto di male), K. comincia subito a comportarsi da colpevole. Si sente colpevole. Lo hanno reso colpevole. Lo hanno colpevolizzato.


In altri tempi, il rapporto fra l’«essere colpevoli» e il «sentirsi colpevoli» appariva evidentissimo: si sente colpevole chi è colpevole. Il termine « colpevolizzare » è, infatti, relativamente recente; in francese fu usato per la prima volta nel 1966 grazie alla psicoanalisi e alle sue innovazioni lessicali; il sostantivo derivato («colpevolizzazione») venne creato due anni dopo, nel 1968. Ma già molto tempo prima, nel romanzo di Kafka, la situazione fino ad allora inesplorata della colpevolizzazione era stata esposta, descritta, sviluppata, nei diversi stadi della sua evoluzione attraverso il personaggio di K.:


Primo stadio: Vana battaglia per la dignità perduta. Un uomo accusato senza motivo e ancora certo della propria innocenza prova imbarazzo nel constatare che si sta comportando come se fosse colpevole. Comportarsi da colpevole senza esserlo ha qualcosa di umiliante, ed egli fa di tutto per nasconderselo. Questa situazione descritta nella prima scena del romanzo viene condensata, nel capitolo successivo, in un episodio di un’ironia infinita:


K. viene avvertito per telefono da una voce sconosciuta: la domenica successiva verrà interrogato in una casa dei sobborghi. K. non ha esitazioni e decide subito di andarci; per obbedienza? per paura? niente affatto, l’automistificazione è immediatamente scattata: egli vuole andarci per liquidare al più presto quei rompiscatole che gli fanno perdere tempo con il loro stupido processo («il processo si avviava e lui doveva opporvisi, quella prima udienza doveva essere anche l’ultima»). Subito dopo questa convocazione, K. riceve un invito per quella stessa domenica dal direttore della banca in cui lavora. Si tratta di un invito importante per la sua carriera. Rinuncerà dunque alla grottesca convocazione? No; egli declina invece l’invito del direttore perché, senza volerselo confessare, è già succube del processo.


La domenica mattina egli si reca, dunque, all’udienza. La voce che gli ha dato l’indirizzo per telefono si è dimenticata di indicargli l’ora. Ma non importa; K. ha fretta e attraversa la città di corsa (il tedesco dice, letteralmente, così: er lief, egli corse). Corre per arrivare in tempo, anche se non gli hanno indicato un’ora precisa. Ammettiamo pure che abbia le sue buone ragioni per arrivare il più presto possibile; ma in questo caso, invece di correre, come mai non prende il tram che fa esattamente lo stesso percorso? Il fatto è: K. rifiuta di prendere il tram perché non ha « la minima voglia di umiliarsi di fronte alla commissione dando prova di un’eccessiva puntualità». K. corre verso il tribunale, ma da uomo orgoglioso che non si abbassa di fronte a nessuno.


Secondo stadio: Prova di forza. K. entra, finalmente, in un’aula dove lo stanno aspettando. «Lei fa l'imbianchino?» gli chiede il giudice, e K., davanti al pubblico che affolla la sala, reagisce spiritosamente a quell’assurdo equivoco: «No, sono il primo procuratore di una grande banca», poi, in un lungo discorso, denuncia l’incompetenza del tribunale. Incoraggiato da qualche applauso, si sente forte e, secondo il ben noto cliché dell’accusato che diventa accusatore (Orson Welles, mirabilmente sordo all’ironia kafkiana, cade nella trappola di questo cliché), sfida i suoi giudici. Rimane di stucco, però, quando si accorge che nella sala tutti portano un distintivo sul colletto e capisce che quel pubblico che aveva creduto di poter sedurre è interamente composto da impiegati del tribunale, radunati lì «come ascoltatori e spioni». Allora se ne va ma, sulla porta, trova ad aspettarlo il giudice istruttore, il quale lo avverte che con il suo comportamento K. «ha rinunciato al vantaggio che un interrogatorio significa in ogni caso per l’imputato». «Miserabili!» sbotta K. «Ve li regalo tutti i vostri interrogatori! ».


Di questa scena non si capirà niente se non se ne coglieranno i rapporti ironici con quanto avviene subito dopo l’indignata protesta di K. sulla quale si chiude il capitolo. Ecco le prime frasi del capitolo seguente: «Nel corso della settimana successiva K. aspettò di giorno in giorno una nuova convocazione, non poteva credere che avessero preso alla lettera la sua rinuncia a essere interrogato e poiché l’attesa convocazione il sabato sera davvero non arrivò, ritenne di essere tacitamente invitato per la stessa ora nella stessa casa. La domenica quindi vi si recò di nuovo... ».


Terzo stadio: Socializzazione del processo. Un giorno arriva dalla campagna lo zio di K., preoccupato per il processo avviato contro il nipote. Da notare: pur essendo il processo segretissimo, quasi clandestino, tutti ne sono al corrente. Inoltre: nessuno ha dubbi sulla colpevolezza di K. La società ha già fatto propria l’accusa aggiungendovi il peso della sua tacita approvazione (o del suo tacito non disaccordo). Dallo zio ci si potrebbe aspettare un atteggiamento di indignato stupore: «Come hanno potuto accusarti? E per quale delitto poi?». Ma lo zio non si stupisce. È soltanto impaurito all’idea delle eventuali ripercussioni del processo su tutto il parentado.


Quarto stadio: Autocritica. Per difendersi contro il tribunale che rifiuta di formulare l’accusa, K. finisce per mettersi lui stesso alla ricerca della propria colpa. Dove si è nascosta? È, certamente, da qualche parte nel suo curriculum vitae. Così decide di « ripercorrere tutta la sua esistenza, fino alle azioni e agli eventi più infimi, perché fossero esaminati e indagati in tutti i loro aspetti».


La situazione è tutt’altro che irreale: anche una donnetta qualunque, perseguitata dalla sfortuna, si domanda: che cosa ho fatto di male?, e comincia a scavare nel proprio passato, esaminando non solo le sue azioni ma anche le sue parole e i suoi pensieri più segreti per capire le ragioni della collera divina.


La prassi politica del comunismo ha creato per questo procedimento il termine autocritica (attestato in francese, nel suo significato politico, intorno al 1930; mai utilizzato da Kafka). L’uso che di questa parola è stato fatto non corrisponde esattamente alla sua etimologia. Il punto non è infatti quello di criticare se stessi (distinguendo i lati buoni dai lati cattivi con l’intenzione di correggere i difetti), bensì di trovare la propria colpa per poter aiutare l’accusatore, per poter accettare e approvare l’accusa.


Quinto stadio: Identificazione della vittima con il carnefice. Nell’ultimo capitolo, l’ironia di Kafka tocca il suo orribile vertice: due signori in finanziera vengono a prendere K. e lo portano via. Dapprima egli protesta, ma ben presto dice fra sé: «L’unica cosa che posso fare adesso è conservare fino alla fine un lucido discernimento ... Devo far vedere adesso che neppure l’anno di processo mi poteva ammaestrare? Devo andarmene come un testone?...».


Poi, scorge da lontano dei poliziotti che vanno su e giù. Uno di essi si avvicina a quel gruppo che gli pare sospetto. A questo punto, è lo stesso K. a trascinare via i due signori, mettendosi a correre insieme a loro per sfuggire al poliziotto, anche se questi avrebbe potuto disturbare o, magari, chissà? impedire la sua esecuzione.


Finalmente, giungono a destinazione; i due signori si accingono a pugnalarlo e proprio allora un’idea (la sua estrema autocritica) balena nella mente di K.: «sapeva perfettamente che sarebbe stato suo dovere afferrare il coltello ... e conficcarselo nel petto». Egli depreca la propria debolezza: «Non poteva dare buona prova di sé fino in fondo, sollevare le autorità da tutto il lavoro, la responsabilità di quest’ultimo errore andava a colui che gli aveva negato il resto della forza necessaria».


 


Fino a quando l’uomo può essere considerato identico a se stesso ?

L’identità dei personaggi di Dostoevskij risiede nella loro peculiare ideologia che ne determina il comportamento, in modo più o meno diretto. Il Kirillov dei Demoni, per esempio, è completamente assorbito dalla sua filosofia del suicidio che rappresenta per lui l’espressione suprema della libertà. Kirillov: un pensiero che si fa uomo. Ma l’uomo, nella vita reale, è davvero una proiezione così diretta della propria ideologia personale? In Guerra e pace, anche i personaggi di Tolstoj (in particolare Pierre Bezuchov e Andrej Bolkonskij) hanno una vita intellettuale molto ricca, molto evoluta, ma talmente mutevole, proteiforme da impedirci di definirli a partire dalle loro idee che sono diverse, in ogni fase della loro esistenza. Tolstoj ci propone dunque un’altra visione di ciò che l’uomo è: un itinerario; una strada tortuosa; un viaggio fatto di fasi successive che non solo differiscono tra di loro, ma rappresentano spesso la negazione totale delle fasi precedenti.


Ho usato il termine strada, il quale rischia però di creare malintesi giacché l’immagine della strada evoca l’idea di meta. Ma verso quale meta conducono queste strade che finiscono quasi sempre in modo casuale, interrotte dalla fatalità della morte? È vero che Pierre Bezuchov assume, alla fine del romanzo, una posizione che appare come lo stadio ideale e definitivo: allora gli sembra di aver capito quanto sia vano cercare sempre di dare un senso alla propria vita, battersi per questa o per quella causa; se è vero che Dio è in ogni luogo, in ogni attimo della nostra vita, nella vita di tutti i giorni, allora basta vivere la vita come viene e viverla con amore: e così, finalmente felice, Pierre si dedica alla moglie e alla famiglia. Ha raggiunto la meta? La vetta che trasforma, a posteriori, tutte le precedenti tappe del viaggio in semplici gradini? Se così fosse, il romanzo di Tolstoj perderebbe l’ironia che ne costituisce l’essenza e diventerebbe quasi una lezione di morale romanzata. E così non è. Nell’Epilogo che racconta in sintesi gli avvenimenti di sette anni dopo, vediamo Bezuchov lasciare per un mese e mezzo moglie e casa per recarsi a Pietroburgo, dove si dedica a un’attività politica semiclandestina. Ancora una volta è pronto dunque a cercare di dare un senso alla propria vita, a battersi per una causa. Le strade non finiscono e non hanno meta.


Si potrebbe dire che le varie fasi di un itinerario sono collegate, fra di loro, da rapporti basati sull’ironia. Nella terra dell’ironia regna l’uguaglianza; di conseguenza, nessuna fase dell’itinerario è moralmente superiore all’altra. Impegnandosi a operare per la patria Bolkonskij intende forse riscattare la colpa della propria precedente misantropia? No. Niente autocritica. In ogni stadio del suo percorso, egli ha concentrato tutte le sue forze intellettuali e morali per scegliere l’atteggiamento da tenere e lo sa; come potrebbe dunque rimproverarsi di non essere stato ciò che non poteva essere? E così come sulle varie fasi della propria vita non si può esprimere un giudizio morale, non si può neanche esprimere un giudizio sulla loro autenticità. Impossibile decidere quale dei due Bolkonskij sia più fedele a se stesso: quello che si è allontanato dalla vita pubblica o quello che vi si è dedicato anima e corpo.


Se le diverse tappe sono così contraddittorie, in che modo si può stabilirne il comune denominatore? Qual è l’essenza comune che ci consente di vedere il Bezuchov ateo e il Bezuchov credente come un solo e medesimo personaggio? In che cosa consiste l’essenza stabile di un «io»? E qual è la responsabilità morale del Bolkonskij n. 2 nei confronti del Bolkonskij n. 1? Il Bezuchov nemico di Napoleone dovrà forse rispondere del Bezuchov che fu in passato un suo ammiratore? Qual è il lasso di tempo nel quale si può considerare un uomo identico a se stesso?


Solo il romanzo può, concretamente, scrutare questo mistero, uno dei più grandi che l’uomo conosca; e il primo a farlo è stato probabilmente Tolstoj.


 


Una cospirazione di dettagli

Le metamorfosi dei personaggi di Tolstoj non ci vengono presentate come momenti di una lenta evoluzione ma come repentine folgorazioni. Pierre Bezuchov si trasforma da ateo in credente con straordinaria facilità. Gli basta essere scosso dalla rottura con la moglie e avere una breve conversazione con un viaggiatore massone incontrato per caso a una stazione di posta. Questa facilità non va attribuita a un carattere volubile e superficiale. Ma ci lascia intuire come il cambiamento visibile sia stato preparato da un processo nascosto, inconscio, che di colpo si manifesta in piena luce.


Andrej Bolkonskij, gravemente ferito sul campo di battaglia di Austerlitz, comincia a tornare in sé. In quel momento sente vacillare tutto il suo universo di giovanotto brillante: e ciò non in virtù di una riflessione razionale, logica, ma di un semplice faccia a faccia con la morte e di un lungo sguardo rivolto al cielo. Sono dettagli come questo (uno sguardo rivolto al cielo) ad assumere per i personaggi di Tolstoj un ruolo determinante nei momenti decisivi della loro esistenza.


Più tardi, riemergendo dal suo profondo scetticismo, Andrej torna ancora una volta alla vita attiva. Questo mutamento è stato preceduto da una lunga discussione con Pierre Bezuchov su una chiatta che attraversa un fiume. A quell’epoca (in quel momento della sua evoluzione) Pierre aveva opposto allo scetticismo e alla misantropia di Andrej un atteggiamento positivo, ottimistico, altruista. Durante la discussione aveva però dato prova di una certa ingenuità, sciorinando una serie di luoghi comuni, e Andrej aveva avuto così il sopravvento sul piano intellettuale. Più delle parole di Pierre aveva pesato tuttavia il silenzio succeduto alla discussione: Andrej, «scendendo dalla chiatta, guardò il cielo che gli aveva mostrato Pierre, e per la prima volta dopo Austerlitz vide quell’alto, eterno cielo che aveva veduto quando giaceva sul campo di Austerlitz, e qualcosa che dormiva da un pezzo, quel che c’era di migliore in lui a un tratto gli si svegliò lietamente e giovanilmente nell’anima». Una sensazione fugace che immediatamente si era dileguata, eppure Andrej «sapeva che questo sentimento che non sapeva svolgere viveva in lui ». E un giorno, molto tempo dopo, una cospirazione di dettagli (uno sguardo gettato su una immensa quercia frondosa, uno scambio di frasi tra due fanciulle spensierate colte al volo, certi ricordi tornatigli d’un tratto alla mente) riaccende come una danza di scintille questo sentimento (che, appunto, «viveva in lui») e lo fa divampare. Così Andrej, che fino al giorno prima viveva serenamente lontano dal mondo in disparte da tutto, decide di recarsi a Pietroburgo in autunno e forse anche di occupare una carica pubblica. E spesso, «con le mani intrecciate dietro la schiena, passeggiava a lungo per la stanza, ora aggrottando le sopracciglia, ora sorridendo, rimuginando quegli irragionevoli pensieri, non esprimibili a parole, segreti come delitti, legati a Pierre, alla gloria, alla fanciulla alla finestra, alla quercia, alla bellezza femminile, all’amore; pensieri che avevano trasformato tutta la sua vita. E in quei momenti, se qualcuno entrava da lui, era particolarmente freddo, severo, reciso e soprattutto d’una sgradevole logica». E sembrava quasi che volesse, con quell’eccesso di logica, «punire qualcuno di tutto quel segreto inconseguente lavorio che si compiva dentro di lui». (Ho evidenziato le espressioni che mi sembrano più significative). (Da notare: nel romanzo che Tolstoj scriverà subito dopo Guerra e pace, sarà un’analoga cospirazione di dettagli, bruttezza dei volti incontrati, frasi udite per caso nello scompartimento del treno, un ricordo improvviso, a far scattare in Anna Karenina la decisione di uccidersi).


Ma ecco un altro profondo cambiamento dell’universo interiore di Andrej Bolkonskij: allorché, mortalmente ferito nella battaglia di Borodino, giace sul tavolo operatorio di un accampamento militare, si sente di colpo invaso da un arcano sentimento di pace e di riconciliazione, da un senso di felicità che non lo abbandonerà più; una felicità ancora più arcana (e ancora più bella) dal momento che la scena è di inaudita crudeltà e abbonda di particolari atrocemente precisi sull’operazione chirurgica in un’epoca che ignorava l’anestesia; e la cosa più arcana di tutte: quel senso di felicità viene provocato da un ricordo inatteso e illogico: mentre l’infermiere lo spoglia, torna alla memoria del principe Andrej la sua «più lontana infanzia». E poco più sotto: «Dopo la sofferenza che aveva sopportata, il principe Andrej sentì un benessere che da molto tempo non provava. Tutti i momenti migliori e più felici della sua vita, e specialmente la più lontana infanzia, quando lo spogliavano e lo mettevano nel lettino, quando la balia gli cantava la ninna-nanna, quando, con la testa affondata nei guanciali, egli si sentiva felice per la sola coscienza di vivere, si presentavano alla sua immaginazione non più come cose passate, ma come realtà». Solo più tardi Andrej vedrà, su un altro tavolo operatorio, il suo rivale Anatolij, il seduttore di Natasa, a cui un medico sta amputando una gamba.


La lettura che di questa scena viene data comunemente è questa: Andrej, ferito, vede il suo rivale con una gamba amputata; tale spettacolo lo colma di una pietà immensa per lui e per l’uomo in generale. Ma Tolstoj sapeva che queste improvvise rivelazioni non sono dovute a cause così evidenti e così logiche. A far scattare il meccanismo, a provocare in lui una nuova metamorfosi, a dargli una nuova visione delle cose è stata una immagine strana e fugace (il ricordo di quando da bambino veniva spogliato nello stesso modo in cui lo ha spogliato l’infermiere). Pochi secondi dopo, questo dettaglio miracoloso viene certamente dimenticato dallo stesso Andrej così come viene probabilmente dimenticato dalla maggior parte dei lettori che legge i romanzi con la medesima disattenzione e superficialità con cui « legge » la propria vita.


Ecco un altro grande mutamento, quello di Pierre Bezuchov allorché decide di uccidere Napoleone, decisione preceduta da questo episodio: Egli apprende dai suoi amici massoni che, nel terzo capitolo dell'Apocalisse, Napoleone è indicato come l’Anticristo: «Colui che ha intelletto, calcoli il numero della bestia. Poiché è numero d’uomini ed il suo numero seicentosessantasei». Se si traduce in cifre l’alfabeto francese, le parole l’empereur Napoleon danno appunto il numero seicentosessantasei. «Questa profezia aveva fatto molta impressione a Pierre e spesso egli si era domandato chi avrebbe messo fine al potere della bestia, cioè di Napoleone, e, basandosi sullo stesso sistema di rappresentare le lettere con numeri e di addizionarli, tentava di trovare la risposta al problema che l’occupava. Pierre scrisse in risposta a questa domanda “L'Empereur Alexandre”, “La nation russe", ma la somma delle cifre era molto di più o molto meno di 666. Una volta, nell’occuparsi di questi calcoli, scrisse il proprio nome: “Comte Pierre Besouhoff", ma la somma delle cifre non corrispose al numero voluto. Cambiò l’ortografia, mise una z invece della s, aggiunse “de", aggiunse l’articolo “le", ma non ottenne mai il risultato desiderato. Allora gli venne in mente che, se la risposta alla domanda fatta fosse consistita nel suo nome, nella risposta medesima doveva certamente essere indicata la sua nazionalità. Scrisse “le russe Besuhof ” e, contando, trovò 671. C’erano solo cinque unità in più: 5 corrispondeva a “e", quella stessa “e" che era stata eliminata nell’articolo davanti alla parola “l’empereur". Eliminando allo stesso modo, per quanto scorrettamente, la “e", Pierre ottenne la risposta cercata: “l’russe Besuhof ”, corrispondente a 666. Questa scoperta lo commosse».


La descrizione meticolosa che Tolstoj ci dà di tutti i cambiamenti ortografici cui Pierre sottopone il proprio nome per arrivare al numero 666 è di una comicità irresistibile: l’russe è una splendida gag ortografica. È mai possibile che le solenni e coraggiose decisioni di un uomo indubbiamente intelligente e simpatico scaturiscano da una scemenza?


E che cosa avete pensato di quest’uomo? Che cosa avete pensato di voi stessi?


 


Il cambiamento di opinione come capacità di adattarsi allo spirito del tempo

Un giorno, tutta raggiante, una donna mi annuncia: «Finalmente, Leningrado non esiste più! Si torna al buon vecchio nome di San Pietroburgo! ». A me l’idea di ribattezzare città e strade non è mai parsa entusiasmante.


Sto per dirglielo, ma all’ultimo momento cambio idea: il suo sguardo, abbagliato dall’avanzare meraviglioso della Storia, mi fa capire che non sarebbe d’accordo e non ho voglia di mettermi a discutere, tanto più che di colpo mi torna in mente un episodio che lei avrà certamente dimenticato. Quella stessa donna era venuta a trovarci a Praga, dopo l’invasione russa, nel 1970 o 1971, quando mia moglie e io ci trovavamo nella penosa condizione di proscritti. Da parte sua, era stato un gesto di solidarietà e in cambio noi avevamo cercato di divertirla. Mia moglie le aveva raccontato la barzelletta (peraltro curiosamente profetica) del ricco americano che scende in un grande albergo di Mosca. Qualcuno gli chiede: « È già andato a vedere Lenin nel suo mausoleo?». E lui risponde: «Per dieci dollari me lo sono fatto portare in albergo». Il volto della nostra ospite si era irrigidito in una smorfia. Essendo di sinistra (lo è ancora) vedeva nell’invasione russa della Cecoslovacchia il tradimento dei suoi più cari ideali e non tollerava che le vittime con le quali aveva inteso simpatizzare si facessero beffe di quegli stessi ideali traditi. «Non mi sembra divertente» commentò con freddezza, e solo il nostro statuto di perseguitati ci risparmiò una rottura.


Di storie come questa potrei raccontarne parecchie. Simili cambiamenti di opinione non riguardano solo la politica, ma i costumi in generale, il femminismo prima in ascesa e poi in declino, l’ammirazione poi mutatasi in disprezzo per il nouveau roman, il puritanesimo rivoluzionario seguito dalla pornografia libertaria, l’idea di Europa bollata come reazionaria e neocolonialista da quegli stessi che in seguito l’hanno sbandierata come un vessillo del Progresso, ecc. E mi domando: ma questi se li ricordano o no i loro atteggiamenti di un tempo? Conservano nella memoria la storia dei loro cambiamenti? Non che mi indigni vedere gente che cambia opinione. Pierre Bezuchov, dapprima ammiratore di Napoleone, diventa poi il suo virtuale assassino, e in entrambi i casi mi è simpatico. Una donna che nel 1971 venerava Lenin non ha il diritto di rallegrarsi nel 1991 che Leningrado non sia più Leningrado? Sì, naturalmente. Ma il suo cambiamento è diverso da quello di Pierre Bezuchov.


È proprio nei momenti in cui il loro universo interiore si trasforma che Bezuchov o Bolkonskij si confermano nella loro qualità di individui; è proprio allora che ci sorprendono; che appaiono diversi; che la loro libertà sfolgora, e, con essa, l’identità del loro io; sono momenti di poesia: essi li vivono con tanta intensità che vedono il mondo intero correre loro incontro seguito da un corteo inebriante di meravigliosi dettagli. In Tolstoj, l’uomo è tanto più se stesso, tanto più individuo in quanto ha la forza, l’estro, l’intelligenza di trasformarsi.


Quelli che cambiano posizione riguardo a Lenin, all’Europa, ecc. mi si rivelano, invece, nella loro non-individualità. Questo cambiamento non è né una loro creazione, né una loro invenzione, non è né capriccio, né sorpresa, né riflessione, né follia; è del tutto privo di poesia; non è altro che un prosaicissimo adeguamento allo spirito mutevole della Storia. È per questo che non se ne accorgono nemmeno; in fin dei conti, restano sempre gli stessi: sono sempre nel giusto, pensano sempre quello che bisogna pensare, nel loro ambiente; se cambiano non è per approssimarsi a una qualche essenza del loro io ma per mimetizzarsi con gli altri; il mutamento permette loro di rimanere immutati.


In altre parole: queste persone cambiano idea in funzione dell’invisibile tribunale che sta, anche lui, cambiando idea; il loro cambiamento non è dunque altro che una scommessa su quanto il tribunale proclamerà domani come verità. Penso alla mia giovinezza vissuta in Cecoslovacchia. Una volta ridestatici dall’iniziale infatuazione per il comunismo, ogni minimo passo contro la dottrina ufficiale ci sembrava un atto di coraggio. Protestavamo contro la persecuzione dei credenti, difendevamo l’arte moderna messa all’indice, contestavamo la stupidità della propaganda, criticavamo la nostra dipendenza dalla Russia, ecc. Ciò facendo, correvamo dei rischi, non troppo grossi, ma pur sempre dei rischi e questo (piccolo) pericolo ci dava una gradevole soddisfazione morale. Un giorno mi venne un’idea orribile: e se quelle rivolte fossero state dettate non dal coraggio, non dall’indipendenza interiore, bensì dal desiderio di piacere a quell’altro tribunale che preparava già le sue assise, nell’ombra?


 


Finestre

È impossibile andare più lontano di quanto ha fatto Kafka nel Processo; egli ha creato l’immagine estremamente poetica del mondo estremamente apoetico. Con «mondo estremamente apoetico» intendo: il mondo in cui non c’è più posto per la libertà individuale, per l’originalità di un individuo, il mondo in cui l’uomo è ormai solo uno strumento di forze extraumane: della burocrazia, della tecnica, della Storia. Con «immagine estremamente poetica» voglio dire: mediante la sua immensa fantasia di poeta Kafka ha trasformato, riplasmato questo mondo, pur senza modificarne l’essenza né il carattere apoetico.


K. è totalmente assorbito dal processo che gli è stato imposto; non ha tempo di pensare a nient’altro. Anche in questa situazione senza uscita ci sono, tuttavia, delle finestre che si aprono, all’improvviso, per un breve istante. Da queste finestre K. non può fuggire; esse, infatti, si socchiudono per richiudersi subito; ma può almeno vedere, per un attimo, la poesia del mondo di fuori, quella poesia che esiste, malgrado tutto, come possibilità sempre presente e che riverbera nella sua vita di uomo braccato un piccolo riflesso argenteo.


Tra queste brevi aperture, ci sono per esempio certi sguardi di K.: eccolo giunto nel quartiere dei sobborghi dove è stato convocato per il primo interrogatorio. Un attimo prima, stava ancora correndo per arrivare in tempo. Ora si ferma. È in mezzo alla strada e, dimenticando per qualche istante il processo, si guarda attorno: «Adesso, domenica mattina, quasi tutte le finestre erano occupate, uomini in maniche di camicia si appoggiavano sui davanzali e fumavano o reggevano con cautela e tenerezza dei bambini. Altre finestre erano riempite da coperte e lenzuola, sopra le quali appariva fugacemente il capo spettinato di una donna». Poi, entra nel cortile. «Non lontano da lui, seduto su una cassa, un uomo scalzo leggeva un giornale. Due ragazzi si dondolavano su un carretto. Una fanciulla gracile con addosso una giacca da notte stava davanti a una pompa, e osservava K. mentre la brocca si riempiva d’acqua».


Frasi come queste mi fanno pensare alle descrizioni di Flaubert: sono fatte di concisione; ricchezza visiva; senso dei dettagli, nessuno dei quali è uno stereotipo. La forza della descrizione ci fa sentire a che punto K. sia assetato di reale, con quanta avidità si abbeveri di quel mondo che, solo un attimo prima, era eclissato dall’ansia del processo. Purtroppo, la pausa è di breve durata, un attimo dopo, K. non avrà più occhi per la gracile fanciulla in giacca da notte che riempiva la sua brocca: verrà ripreso dal torrente del processo.


Anche le poche situazioni erotiche del romanzo sono come finestre socchiuse fugacemente; molto fugacemente: K. incontra solo donne che in un modo o nell’altro hanno a che fare con il processo: come la sua vicina, la signorina Bürstner, nella cui stanza gli è stato notificato l’arresto; la sera K., turbato, le racconta quello che è successo, e alla fine, già sulla porta, riesce a darle un bacio: «... l’afferrò e la baciò sulla bocca e poi su tutto il viso, come un animale assetato che si getta con la lingua sulla sorgente che ha finalmente trovato». Sottolineo la parola «assetato», che mi sembra rivelare la condizione dell’uomo che non ha più una vita normale e con questa vita può comunicare ormai solo furtivamente, attraverso una finestra.


Durante la prima udienza, K. inizia un discorso che viene però disturbato da un curioso episodio che si svolge nell’aula: la moglie dell’usciere viene trascinata in un angolo da uno studente brutto, mingherlino, che incomincia a fare l’amore con lei sotto gli occhi di tutti. Ed ecco aprirsi, grazie a questa incredibile concomitanza di due avvenimenti incompatibili (è questa la sublime poesia kafkiana, grottesca e inverosimile!), un’altra finestra sul paesaggio lontano dal processo, sulla volgarità gioiosa, la gioiosa libertà volgare, di cui K. è stato privato.


La poesia kafkiana mi fa venire in mente, per contrasto, un altro romanzo che è anch’esso la storia di un arresto e di un processo: 1984 di Orwell, il libro che è stato per decenni un punto di riferimento costante per i professionisti dell’antitotalitarismo. In questo romanzo che vorrebbe essere il ritratto terrificante di una ipotetica società totalitaria, non ci sono finestre; non si intravede la fanciulla gracile che riempie d’acqua la sua brocca; il romanzo è ermeticamente chiuso alla poesia; ho detto romanzo? si tratta piuttosto di un pensiero politico travestito da romanzo; un pensiero, indubbiamente lucido e giusto ma deformato dal travestimento romanzesco che lo rende inesatto e approssimativo. Se la forma romanzesca rende oscuro il pensiero di Orwell, gli dà in cambio qualcos’altro? Getta una luce nuova sul mistero delle situazioni umane alle quali non hanno accesso né la sociologia né la politologia? No: le situazioni e i personaggi sono di una piattezza assoluta. È almeno giustificata, tale forma romanzesca, in quanto serve a divulgare idee giuste? Neppure. Perché le idee messe in forma di romanzo non agiscono più come idee ma appunto come romanzo, e nel caso di 1984 agiscono come un cattivo romanzo con tutta l’influenza nefasta che un cattivo romanzo può esercitare.


L’influenza nefasta del romanzo di Orwell deriva dall’implacabile riduzione di una realtà al suo aspetto puramente politico e nella riduzione di questo aspetto a quanto esso ha di paradigmaticamente negativo. Io mi rifiuto di giustificare una simile riduzione con la scusa della sua utilità propagandistica nella lotta contro il male totalitario. Poiché questo male è appunto la riduzione della vita alla politica e della politica alla propaganda. Così il romanzo di Orwell, nonostante le sue buone intenzioni, appartiene anch’esso allo spirito totalitario, allo spirito di propaganda. Riduce (e insegna a ridurre) la vita di una società esecrata alla semplice enumerazione dei suoi crimini.


Ogni volta che parlo con qualche ceco, uno o due anni dopo la fine del comunismo, sento ripetere questa formula divenuta ormai rituale, necessario preambolo a tutti i loro ricordi, a tutte le loro riflessioni: «dopo questi quarant’anni di orrore comunista», oppure: «gli orribili quarant’anni», e soprattutto: «i quarant’anni perduti». Guardo i miei interlocutori: nessuno di loro è stato costretto all’esilio, né è stato incarcerato, né ha perso il lavoro, né è stato anche solo sgradito al regime; tutti hanno continuato a vivere nel loro paese, nel loro appartamento, hanno conservato il loro impiego, hanno avuto le loro vacanze, le loro amicizie, i loro amori; nel momento in cui usano l’espressione «quarantanni orribili», essi riducono la loro vita al solo aspetto politico. Ma anche questa storia politica degli ultimi quarant’anni, l’hanno poi vissuta davvero come un unico blocco indifferenziato di orrori? Si sono scordati di quegli anni in cui vedevano i film di Forman, leggevano i libri di Hrabal, frequentavano i teatrini non conformisti, raccontavano centinaia di barzellette e si facevano allegramente beffe del potere? Se parlano, tutti, di quarant’anni orribili, è perché hanno orwellizzato il ricordo della propria vita che, nella loro memoria e nella loro mente, è diventata a posteriori priva di qualunque valore o finanche del tutto annullata (quarant’anni perduti, dicono).


K. invece, pur nella sua situazione di uomo privato di qualunque libertà, è capace di vedere una fanciulla gracile e la sua brocca che lentamente si riempie. Ho detto che questi momenti sono come finestre fuggevolmente aperte su un paesaggio lontanissimo dal processo di K. Quale paesaggio? Ora svolgerò la metafora: le finestre aperte nel romanzo di Kafka danno sul paesaggio di Tolstoj; su quel mondo in cui alcuni personaggi, pur nei momenti più crudeli, conservano una libertà di decisione che dà alla vita la serena imprevedibilità che è l’origine stessa della poesia. Il mondo altamente poetico di Tolstoj è agli antipodi del mondo di Kafka. Eppure grazie a quella finestra socchiusa, esso entra nella storia di K. come un alito di nostalgia, come una brezza leggerissima, per non uscirne più.


 


Tribunale e processo

I filosofi esistenzialisti attribuivano volentieri un significato filosofico alle parole del linguaggio quotidiano. Mi è difficile pronunciare le parole angoscia o chiacchiera senza pensare al senso che dava loro Heidegger. In questo, i filosofi sono stati preceduti dai romanzieri. Essi, esaminando le situazioni in cui si trovano i loro personaggi, elaborano un loro personale vocabolario dove figurano, spesso, parole-chiave che hanno carattere di concetto e vanno al di là delle definizioni fornite dai dizionari. Crébillon figlio, per esempio, usa la parola momento come parola-concetto del gioco libertino (l’occasione fugace in cui una donna può essere sedotta) e la trasmette alta propria epoca e ad altri scrittori. Dostoevskij parta di umiliazione, Stendhal di vanità. Quanto a Kafka, egli ci ha trasmesso grazie al Processo almeno due parole-concetto divenute poi indispensabili alta comprensione del mondo moderno: tribunale e processo. Ce le ha trasmesse: le ha, cioè, lasciate a nostra disposizione, perché potessimo usarle, pensarle e ripensarle in funzione delle nostre personali esperienze.


Il tribunale; non è per Kafka l’istituzione giuridica che ha il compito di punire chi ha trasgredito le leggi di uno Stato; nel significato che egli dà a questa parola il tribunale è una forza che giudica, e giudica proprio in quanto è forza; ciò che conferisce al tribunale la sua legittimità è la sua forza e null’altro; fin dal primo istante, quando vede i due intrusi entrare nella sua stanza, K. riconosce questa forza e vi si sottomette.


Il processo celebrato dal tribunale è sempre assoluto; cioè: non riguarda un atto isolato, un reato specifico (furto, frode, violenza carnale) ma l’intera personalità dell’accusato: K. cerca la sua colpa «negli avvenimenti più infimi » di tutta la sua esistenza; nel secolo in cui viviamo, Pierre Bezuchov verrebbe quindi incriminato tanto per il suo amore quanto per il suo odio nei confronti di Napoleone. Nonché per la sua propensione ad alzare il gomito, giacché, essendo assoluto, il processo riguarda la vita privata dell’accusato non meno che la sua vita pubblica; Brod condanna a morte K. perché questi vede nella donna solo « la più bassa sessualità»; mi tornano in mente i processi politici svoltisi a Praga nel 1951; vennero distribuite, in innumerevoli copie, le biografie degli imputati; fu allora che lessi per la prima volta un testo pornografico: la descrizione di un’orgia in cui il corpo nudo di una delle imputate veniva ricoperto di cioccolato fuso (in un’epoca di gravi ristrettezze alimentari!) e poi leccato da altri accusati, tutti destinati all’impiccagione; negli anni in cui l’ideologia comunista cominciava a sgretolarsi, il processo contro Karl Marx (che culmina oggi con l’abbattimento delle statue che lo raffigurano in Russia e altrove) prese il via con un attacco alla sua vita privata (il primo libro contro Marx che abbia letto: la descrizione dei suoi rapporti sessuali con la serva di casa); nello Scherzo, un tribunale formato da tre studenti giudica Ludvik per una frase scritta alla sua ragazza; lui si difende dicendo di averla buttata giù in fretta, senza pensarci; gli altri ribattono: « così almeno sanno che cosa si nasconde in te»; tutto quello che l’accusato dice, mormora, pensa, tutto quello che in lui si nasconde verrà infatti messo a disposizione del tribunale.


Il processo è assoluto anche perché non riguarda solo l’esistenza individuale dell’accusato: «Vuoi dunque perdere il processo?» chiede lo zio Karl a K. «Sai che cosa vuol dire questo? Vuol dire che sarai semplicemente cancellato. E che tutti i tuoi parenti verranno coinvolti»; la colpevolezza di un ebreo contiene in sé quella degli ebrei di tutti i tempi; la dottrina comunista sull’influsso dell’origine di classe ingloba nella colpa dell’accusato quella dei genitori e dei nonni; quando Sartre mette sotto processo l’Europa per il delitto di colonizzazione, non accusa i coloni, ma l’Europa, tutta l’Europa, l’Europa di tutti i tempi; perché «il colono è in ciascuno di noi», perché «qui da noi, ogni uomo è un complice, dato che abbiamo tutti approfittato dello sfruttamento coloniale». Lo spirito del processo non ammette prescrizione; il passato remoto è vivo come un fatto accaduto oggi; e neanche i morti la faranno franca: le spie ci sono anche al cimitero.


La memoria del processo è colossale, ma è una memoria tutta particolare che si potrebbe definire come l’oblio di tutto ciò che non costituisce reato. Il processo riduce dunque la biografia dell’accusato a criminografia; Victor Farias (il cui libro Heidegger e il nazismo è un classico esempio di criminografia) ravvisa nella prima giovinezza del filosofo i germi del suo futuro nazismo senza minimamente preoccuparsi di individuare i germi del suo genio; per punire una deviazione ideologica dell’accusato, i tribunali comunisti mettevano all’indice tutta la sua opera (nei paesi comunisti, per esempio, Lukács e Sartre erano fuorilegge nonostante i loro scritti filocomunisti); nel 1991, in piena ubriacatura postcomunista, un giornale parigino si chiede: « come mai le nostre strade portano ancora i nomi di Picasso, Aragon, Eluard, Sartre?»; al che viene voglia di rispondere: per il valore delle loro opere! Ma che cosa rappresentino i valori lo ha ben detto Sartre, nel suo processo contro l’Europa: «i nostri amatissimi valori perdono le ali; a ben guardarli, non ce n’è più uno che non sia macchiato di sangue»; i valori macchiati non sono più tali; lo spirito del processo è la riduzione di tutte le cose alla morale; il nichilismo assoluto riguardo a tutto ciò che è lavoro, arte, opera.


Prima che gli intrusi vengano ad arrestarlo, K. scorge un’anziana coppia che lo osserva, dalla casa di fronte, «con una curiosità del tutto insolita»; fin dal principio, insomma, entra in gioco l’antico coro delle portinaie; nel Castello, Amalia non è mai stata accusata né condannata, ma tutti sanno che l’invisibile tribunale ha qualcosa da rimproverarle e tanto basta perché tutti gli abitanti del villaggio le girino alla larga; se il tribunale impone in un paese un regime del processo, l’intera popolazione viene infatti coinvolta nelle grandi manovre del processo e ne centuplica l’efficacia; ognuno sa di poter essere accusato in qualsiasi momento e comincia già a meditare la propria autocritica; l’autocritica: asservimento dell’accusato al suo accusatore; rinuncia al proprio io; modo di annientarsi in quanto individuo; dopo la rivoluzione comunista del 1948, una ragazza ceca appartenente a una famiglia benestante si sentì colpevole per i suoi privilegi immeritati di bambina ricca; per espiare la sua colpa, divenne una comunista così sfegatata che rinnegò pubblicamente suo padre; oggi, dopo la scomparsa del comunismo, è sottoposta a un nuovo processo e si sente ancora una volta colpevole; schiacciata dalla macchina di due processi, di due autocritiche, non ha alle spalle altro che il deserto di una vita rinnegata; e benché le siano state restituite nel frattempo le varie case confiscate anni fa al padre (da lei rinnegato), oggi questa donna è un essere annientato; e doppiamente annientato; perché autoannientato.


Giacché il processo non viene celebrato per fare giustizia ma per annientare l’accusato; Brod l’aveva detto: chi non è capace di amare, chi con le donne sa soltanto amoreggiare, deve morire; perciò K. viene pugnalato; Bucharin impiccato. Anche quando si processano i morti lo si fa per poterli mettere a morte una seconda volta: bruciando i loro libri; cancellando i loro nomi dai manuali scolastici; abbattendo i monumenti che li raffigurano; cambiando nome alle strade a loro dedicate.


 


Il processo contro il secolo

Da circa settant'anni l’Europa vive sotto il regime del processo. Quanti grandi artisti di questo secolo sono stati messi sotto accusa... Citerò qui solo quelli che hanno rappresentato qualcosa per me. Ecco, a partire dagli anni Venti, le vittime del tribunale della morale rivoluzionaria: Bunin, Andreev, Meyerhold, Pil’njak, Veprik (il musicista ebreo russo, martire dimenticato dell’arte moderna; osò opporsi a Stalin difendendo l’opera condannata di Sostakovic; finì rinchiuso in un campo; ricordo certi suoi pezzi per pianoforte che mio padre suonava con piacere), Mandel’stam, Halas (poeta molto amato dal Ludvik dello Scherzo; perseguitato post mortem a causa della sua tristezza giudicata controrivoluzionaria). Vengono, poi, coloro che furono perseguitati dal tribunale nazista: Broch (che mi guarda, con la pipa fra i denti, da una foto che ho sulla scrivania), Schönberg, Werfel, Brecht, Thomas e Heinrich Mann, Musil, Vancura (il mio scrittore ceco preferito), Bruno Schulz. Gli imperi totalitari sono scomparsi e con essi i loro processi sanguinosi, ma lo spinto del processo è il retaggio che ci hanno lasciato, ed è quello che si incarica di regolare i conti. Ecco allora che vengono messi sotto processo: gli artisti accusati di aver avuto simpatie per il nazismo: Hamsun, Heidegger (tutto il pensiero della dissidenza ceca, a cominciare da Patocka, è in debito verso di lui), Richard Strauss, Gottfried Benn, von Doderer, Drieu la Rochelle, Céline (nel 1992, a quasi mezzo secolo dalla fine della guerra, un prefetto rifiuta sdegnosamente di dichiarare la sua casa monumento storico) ; gli artisti filomussoliniani: Malaparte, Marinetti, Pirandello, Ezra Pound (per lunghi mesi l’esercito americano l’ha tenuto chiuso in gabbia come una bestia, sotto l’infuocato sole italiano; nel suo studio di Reykjavik, Kristjan Davidsson mi mostra una sua grande fotografia: «Da cinquant’anni, la porto sempre con me»); i pacifisti che erano stati favorevoli agli accordi di Monaco: Giono, Alain, Morand, Montherlant, Saint-John Perse (il quale, come membro della delegazione francese, aveva preso parte in prima persona all’umiliazione del mio paese natale); e poi i comunisti e i loro simpatizzanti: Majakovskij (chi ricorda, oggi, le sue poesie d’amore, le sue incredibili metafore?), Gor’kij, G.B. Shaw, Brecht (che subisce così un secondo processo), Eluard (l’angelo sterminatore che adornava la propria firma con due spade), Picasso, Léger, Aragon (come dimenticare chi mi ha teso la mano in un momento difficile della mia vita?), Nezval (il suo autoritratto a olio è sul muro accanto alla mia libreria), Sartre. Alcuni subiscono un doppio processo, prima accusati di aver tradito la rivoluzione, poi di essersi messi al suo servizio: Gide (simbolo di ogni male, per gli ex paesi comunisti), Sostakovic (per farsi perdonare la sua difficile musica, componeva musichette insulse per le necessità del regime; sosteneva che per la storia dell’arte un non-valore è insussistente; non sapeva che per il tribunale ciò che conta è proprio il non-valore), Breton, Malraux (accusato ieri di aver tradito gli ideali rivoluzionari, accusabile domani di averli avuti), Tibor Déry (alcune prose di questo scrittore comunista, incarcerato dopo il massacro di Budapest, sono state per me la prima grande risposta letteraria, non propagandistica, allo stalinismo). Il fiore più squisito di questo secolo, l’arte moderna degli anni Venti e Trenta, è stata messa sotto accusa addirittura tre volte: prima dal tribunale nazista, in quanto entartete Kunst, «arte degenerata»; poi dal tribunale comunista, che le imputava un «formalismo elitario lontano dal popolo»; e per finire, dal tribunale del capitalismo trionfante, per aver in qualche modo partecipato delle illusioni rivoluzionarie.


Com’è possibile che il sostenitore della Russia sovietica, l’autore di versi di propaganda, colui che Stalin in persona definì « il più grande poeta dei nostri tempi», com’è possibile, dico, che Majakovskij resti nonostante tutto un poeta altissimo, uno dei più grandi che abbiamo avuto? Con la sua capacità di entusiasmo, con le sue lacrime di commozione che gli impediscono di vedere chiaramente il mondo esterno, la poesia lirica, questa inaccostabile deità, non era predestinata ad assumersi, un giorno fatale, il compito di abbellire le atrocità e di servirle con assoluta fedeltà? Erano questi gli interrogativi che mi affascinavano ventitré anni fa, quando scrissi La vita è altrove, in cui Jaromil, giovane poeta neppure ventenne, diventa fanatico servo del regime stalinista. Ho poi notato con sgomento che certi critici, pur lodando il mio romanzo, vedevano nel mio eroe un falso poeta, o addirittura una canaglia. Ai miei occhi, Jaromil era un poeta vero, un’anima innocente; se così non fosse stato il mio romanzo mi sarebbe apparso privo di qualunque interesse. Ero io, il colpevole del malinteso? Mi ero espresso male? Non credo. Essere un vero poeta e al tempo stesso aderire (come Jaromil o Majakovskij) a un orrore incontestabile è uno scandalo. Con questa parola i francesi indicano un evento ingiustificabile, inaccettabile, contrario a ogni logica e tuttavia reale. Tutti noi siamo inconsciamente tentati di eludere gli scandali, di fare come se non esistessero. Perciò preferiamo dire che i grandi personaggi della cultura compromessi con gli orrori del nostro secolo erano tutti mascalzoni; è logico, rientra nell’ordine delle cose, ma non è vero; non foss’altro che per vanità, per la loro consapevolezza di essere guardati, osservati, giudicati, gli artisti, i filosofi si preoccupano moltissimo di essere onesti e coraggiosi, di essere dalla parte giusta e nel vero. E questo rende lo scandalo ancora più indecifrabile. Se alla fine di questo secolo non vogliamo ritrovarci stupidi come quando è iniziato, dobbiamo mettere da parte il facile moralismo del processo e pensare l’enigma di questo scandalo, pensarlo fino in fondo, anche se ciò dovesse implicare la messa in discussione di tutte le nostre certezze sull’uomo in quanto tale.


Ma il conformismo dell’opinione pubblica è una forza che si è eretta a tribunale, e il tribunale non può perdere tempo con i pensieri, il suo compito è quello di istruire processi. E a mano a mano che fra giudici e accusati si scava l’abisso del tempo, le grandi esperienze vengono giudicate sempre più spesso da esperienze inferiori. Così gli errori di Còline vengono giudicati da persone immature, incapaci di vedere come, proprio in virtù di quegli errori, i romanzi di Còline contengano un sapere esistenziale che, a saperlo intendere, potrebbe renderle più adulte. Perché in questo consiste il potere della cultura: nel riscattare l’orrore transustanziandolo in saggezza esistenziale. Se lo spirito del processo riuscirà ad annientare la cultura di questo secolo, dietro di noi rimarrà soltanto un ricordo di atrocità cantato da un coro di voci bianche.


 


Gli incolpevolizzabili ballano

La musica che va sotto il nome (comune e impreciso) di rock invade da vent’anni lo spazio sonoro della nostra vita quotidiana; questa musica ha conquistato il mondo proprio nel momento in cui il XX secolo vomitava, disgustato, la propria Storia; da tempo mi domando: questa coincidenza è davvero casuale? O invece questo convergere dei processi finali del secolo e dell’estasi del rock non avrà un significato recondito? E se in queste urla estatiche, il secolo cercasse l’oblio? Se cercasse di dimenticare le proprie utopie sprofondate nell’orrore? Di dimenticare la propria arte? Un’arte che con le sue sofisticherie, con la sua vana complessità, infastidisce i popoli, offende la Democrazia?


Il termine rock è vago; preferisco quindi dare una descrizione della musica a cui mi riferisco: le voci umane prevalgono sugli strumenti, e le voci acute su quelle basse; la dinamica è del tutto priva di contrasti e persiste in un invariabile fortissimo che trasforma il canto in urlo; come nel jazz, il ritmo accentua il secondo tempo della battuta, ma in maniera più stereotipata e più rumorosa; armonia e melodia sono semplificate al massimo e mettono quindi in risalto il colore della sonorità, unico elemento inventivo di questa musica; se le canzonette della prima metà del secolo avevano melodie strappalacrime (e tali da solleticare l’ironia musicale di Mahler e di Stravinskij), questa musica detta rock non pecca certo di sentimentalismo; non è sentimentale, ma estatica, è il prolungarsi di un unico momento di estasi; e poiché l’estasi è un momento strappato al tempo, un attimo brevissimo senza memoria e avvolto di oblio, il motivo melodico non ha spazio per svilupparsi, non fa che ripetersi, senza evoluzione e senza risoluzione (il rock è la sola musica «leggera» in cui la melodia non sia predominante; tant’è vero che nessuno canticchia le musiche rock).


Un fatto curioso: grazie alle tecniche di riproduzione sonora, questa musica dell’estasi risuona di continuo dappertutto, al di fuori, cioè, delle situazioni estatiche. L’immagine acustica dell’estasi è diventata lo scenario quotidiano del nostro tedio. Ma poiché non ci invita a orge, né a esperienze mistiche, che cosa mai vorrà dirci, questa estasi banalizzata? Che dobbiamo accettarla. Abituarci alla sua presenza. Rispettare il posto privilegiato che occupa. Osservare la morale di cui è portatrice.


La morale dell’estasi è contraria a quella del processo; sotto la sua protezione ognuno fa quel che gli pare: già adesso, chi vuole può succhiarsi tranquillamente il pollice, dalla più tenera infanzia fino alla licenza liceale, e questa è una libertà cui nessuno sarà disposto a rinunciare; guardatevi intorno in metropolitana; vedrete che tutti quanti, in piedi, seduti, si ficcano un dito in un qualche orifizio del viso, nell’orecchio, in bocca, nel naso; nessuno si sente osservato dagli altri e ciascuno pensa di scrivere un libro per poter esprimere il proprio unico e inimitabile io che si esplora le narici; nessuno ascolta nessuno, tutti scrivono e ciascuno scrive come se ballasse il rock: da solo, soltanto per se stesso, concentrato su di sé, eppure facendo gli stessi movimenti che fanno tutti gli altri. In tale situazione di egocentrismo uniformizzato il senso di colpa non ha più il ruolo di una volta; i tribunali continuano a funzionare, ma sono attratti unicamente dal passato; guardano solo al cuore del secolo; guardano solo alle generazioni anziane o morte. I personaggi di Kafka venivano colpevolizzati dall’autorità paterna; il protagonista della Condanna va a gettarsi nel fiume perché è caduto in disgrazia agli occhi di suo padre; questo tempo è ormai lontano: nel mondo del rock, il padre si è visto scaricare addosso tante di quelle colpe che, ormai, permette tutto a tutti. Gli incolpevolizzabili ballano.


Di recente, due adolescenti hanno ammazzato un prete: ascolto alla televisione i commenti sull’accaduto; un altro prete parla con voce intrisa di comprensione: « Dobbiamo pregare per colui che è stato vittima della sua missione: si occupava in particolare dei giovani. Ma dobbiamo pregare anche per questi due infelici; sono anch’essi vittime: vittime delle loro pulsioni ».


Quanto più si riduce, sotto la rigida sorveglianza del tribunale del conformismo generale, la libertà di pensiero, la libertà di parola, di atteggiamenti, di scherzi, di riflessioni, di idee pericolose, di provocazioni intellettuali, tanto più si accresce la libertà delle pulsioni. Contro i peccati del pensiero viene raccomandata la severità; contro i delitti commessi nell’estasi emotiva si predica il perdono.


 


Le strade nella nebbia

I contemporanei di Robert Musil ammiravano la sua intelligenza molto più dei suoi libri; e pensavano che invece di romanzi avrebbe fatto meglio a scrivere saggi. Per confutare questa idea è sufficiente una prova a contrario: provate a leggere i saggi di Musil: vedrete quanto sono pesanti, noiosi e poco attraenti! Musil è infatti un grande pensatore solo nei suoi romanzi. Il suo pensiero ha bisogno di nutrirsi delle situazioni concrete di personaggi concreti; si tratta insomma di un pensiero romanzesco, non filosofico.


Il primo capitolo di ciascuna delle diciotto parti che compongono il Tom Jones, di Fielding, è costituito da un breve saggio. Nel Settecento, il primo traduttore francese del romanzo non si fece scrupoli a eliminarli tutti adducendo il pretesto che non rispondevano al gusto dei francesi. Turgenev rimproverava a Tolstoj le pagine saggistiche di Guerra e pace, quelle in cui l’autore riflette sulla filosofia della Storia. Tolstoj cominciò allora a dubitare di se stesso e, cedendo ai consigli che gli venivano propinati, nella terza edizione del romanzo eliminò quelle pagine. In seguito, per fortuna, le reinserì.


Vi è una riflessione specificamente romanzesca così come vi sono un dialogo e un’azione specificamente romanzeschi. Le lunghe riflessioni storiche di Guerra e pace sono inconcepibili al di fuori del romanzo, per esempio in una rivista scientifica. E ciò a causa del linguaggio, beninteso, pieno di paragoni e di metafore volutamente semplicistici. Ma soprattutto perché parlando della Storia Tolstoj non si concentra, come farebbe uno storico, sulla puntuale descrizione degli avvenimenti, sulle loro conseguenze per la vita sociale, politica, culturale, sulla valutazione del ruolo svolto da questo o quel personaggio, ecc.; ciò che gli interessa è la Storia in quanto nuova dimensione dell’esistenza umana.


La Storia è diventata per tutti un’esperienza concreta all’inizio dell’Ottocento, proprio durante le guerre napoleoniche descritte in Guerra e pace; il loro impatto diede a ogni abitante dell’Europa la consapevolezza di avere intorno a sé un mondo in preda a un mutamento perpetuo, un mutamento che investe la sua stessa vita, la trasforma e non le concede requie. Prima dell’Ottocento, le guerre, le rivolte, venivano percepite come catastrofi naturali, alla stessa stregua delle pestilenze o dei terremoti. La gente non scorgeva negli avvenimenti storici né unità né continuità né tanto meno pensava di poter influire sul loro corso. Il Jacques di Diderot si arruola in un reggimento, quindi è ferito gravemente in battaglia; ne porterà il segno per tutta la vita, poiché rimarrà zoppo fino alla fine dei suoi giorni. Ma di quale battaglia si tratta? Il romanzo non lo dice. E perché dovrebbe dirlo? Le guerre erano tutte uguali. Nei romanzi del Settecento il momento storico viene indicato molto sommariamente. Solo con l’Ottocento, a partire da Scott e da Balzac, le guerre non sembrano più tutte uguali e i personaggi dei romanzi vivono in un’epoca ben determinata.


Tolstoj riconsidera le guerre napoleoniche a cinquant'anni di distanza. Nel suo caso, la nuova percezione della Storia non si inscrive soltanto nella struttura del romanzo divenuta sempre più atta a cogliere (nei dialoghi, attraverso le descrizioni) il carattere storico degli avvenimenti narrati; ciò che interessa in primo luogo a Tolstoj è il rapporto dell’uomo con la Storia (la sua facoltà di dominarla o di sfuggirle, di essere o non essere libero rispetto ad essa) ed egli affronta questo problema in modo diretto, facendone il tema stesso del romanzo, tema che analizza con tutti i mezzi possibili, non esclusa la riflessione romanzesca.


Tolstoj polemizza contro l’idea che la Storia sia fatta dalla volontà e dalla ragione dei grandi uomini. A suo avviso, la Storia si fa da se stessa, obbedendo alle proprie leggi che rimangono tuttavia indecifrabili per l’uomo. I grandi uomini, egli scrive, «erano solo strumenti inconsapevoli della Storia, e compivano un’opera di cui non capivano il senso». E altrove: « La Provvidenza costringeva ciascuno di quegli uomini a cooperare, pur continuando a perseguire soltanto i loro scopi personali, a un unico e grandioso obiettivo, del quale nessuno di loro, né Napoleone né Alessandro né tanto meno uno qualunque degli attori, aveva la minima idea». «L’uomo» scrive ancora Tolstoj «vive consapevolmente per se stesso, ma partecipa inconsapevolmente al perseguimento degli obiettivi storici dell’umanità tutta». Da ciò deriva una conclusione estrema: «La Storia, vale a dire la vita inconsapevole, generale, gregaria dell'umanità...». (Ho evidenziato quelle che mi sembrano le formule-chiave).


Con questa concezione della Storia, Tolstoj definisce lo spazio metafisico in cui si muovono i suoi personaggi. Poiché ignorano tanto il senso della Storia quanto il suo corso futuro, e finanche il senso obiettivo dei loro stessi atti (con i quali partecipano «inconsapevolmente» ad avvenimenti «di cui non capiscono il senso») avanzano nella vita come si avanza nella nebbia. E dico nebbia, non buio. Nel buio, non si vede niente, si è come ciechi, alla mercé degli altri, non si è liberi. Nella nebbia, si è liberi, ma della libertà di chi è avvolto appunto dalla nebbia: vede a una distanza di cinquanta metri, distingue nettamente i tratti del proprio interlocutore, può godere della bellezza degli alberi che fiancheggiano la strada e perfino osservare ciò che accade nelle immediate vicinanze e reagire.


L’uomo è colui che avanza nella nebbia. Ma quando si volta indietro a giudicare le generazioni passate non vede nebbia sulla loro strada. Dal suo presente, che era per loro un futuro lontano, la strada che essi hanno davanti gli appare perfettamente sgombra, visibile dal principio alla fine. Voltandosi indietro, l’uomo vede la strada, vede le genti avanzare, vede i loro errori, ma la nebbia è scomparsa. Eppure, tutti, Heidegger, Majakovskij, Aragon, Ezra Pound, Gor’kij, Gottfried Benn, Saint-John Perse, Giono, tutti avanzano nella nebbia, e vien fatto di chiedersi: chi è il più cieco? Majakovskij che scrisse il suo poema su Lenin senza sapere a che cosa avrebbe condotto il leninismo? O noi che lo giudichiamo a distanza di decenni e non vediamo la nebbia da cui era avvolto?

La cecità di Majakovskij fa parte dell’eterna condizione umana.

Non vedere la nebbia sulla strada di Majakovskij, significa dimenticare ciò che l’uomo è, dimenticare ciò che noi stessi siamo.

PARTE NONA

QUESTA NON È CASA SUA, MIO CARO 


 


 


 


 


1

Negli ultimi anni della stia vita, Stravinskij decise di raccogliere in una grande edizione discografica la propria opera interpretata da lui stesso, in veste di pianista o di direttore, al fine di lasciare una versione sonora autorizzata di tutte le sue composizioni. Questa volontà di assumere personalmente il ruolo dell’esecutore provocò in molti una reazione di fastidio: si veda con quale accanimento Ernest Ansermet si fa beffe di lui, nel libro che pubblicò nel 1961: quando dirige l’orchestra, egli scrive, Stravinskij è in preda « a un terrore tale che addossa il leggio contro il podio come avesse paura di cadere, non riesce a staccare gli occhi da una partitura che pure conosce a memoria, e conta i tempi! »; Stravinskij, secondo Ansermet, interpreta la propria musica «in maniera pedissequa, come se ne fosse schiavo»; ed «è un esecutore privo di qualsiasi gioia».


Perché tanto sarcasmo?


Apro la corrispondenza di Stravinskij: lo scambio epistolare con Ansermet ha inizio nel 1914; centoquarantasei lettere di Stravinskij: «caro Ansermet», «mio caro», «amico caro», «carissimo», «mio caro Ernest»; senza ombra di tensione; poi, come un fulmine a ciel sereno:


Parigi, 14 ottobre 1937


 


« Due parole in fretta, mio caro,


«non c’è alcuna ragione di fare quei tagli in Jeu de cartes quando verrà eseguito in concerto ... Le opere come questa sono suite di danze la cui forma è rigorosamente sinfonica e che non richiedono alcuna spiegazione per il pubblico poiché non comprendono elementi descrittivi, destinati a illustrare l’azione scenica, che possano intralciare l’evoluzione sinfonica dei vari pezzi.


«Questa bizzarra idea di chiedermi di operare qualche taglio deve esserle venuta perché il succedersi dei pezzi che compongono Jeu de cartes le sembra un po’ noioso. Non posso farci niente. Ma quello che più di tutto mi stupisce, è che lei cerchi di convincermi che dovrei tagliare qualcosa, proprio io che ho appena diretto Jeu de cartes a Venezia e le ho raccontato con quanto favore sia stato accolto dal pubblico. O lei ha dimenticato quel che le ho raccontato, oppure attribuisce scarsa importanza alle mie osservazioni e al mio senso critico. In ogni modo, non credo che il suo pubblico sia meno intelligente di quello veneziano.


« È mai possibile che sia lei a chiedermi di tagliare la mia composizione, rischiando con ogni probabilità di sfigurarla, affinché sia più comprensibile per il pubblico - proprio lei che non ha avuto paura di questo stesso pubblico quando gli ha presentato un’opera ardua dal punto di vista del successo e della comprensione degli ascoltatori qual è la Sinfonia per strumenti a fiato!


«Non posso quindi consentirle di fare dei tagli in Jeu de cartes; penso sia meglio non eseguirlo affatto che eseguirlo controvoglia.


«Non ho altro da aggiungere, e considero chiuso questo discorso».


La risposta di Ansermet porta la data del 15 ottobre:


« Le chiedo soltanto di consentirmi il piccolo taglio nella marcia dalla seconda battuta di 45 fino alla seconda battuta di 58».


Stravinskij reagisce il 19 ottobre:


«... Sono spiacente, ma non posso permetterle alcun taglio in Jeu de cartes.


«L’assurdo taglio che lei mi chiede storpia la mia piccola marcia che ha la sua forma e il suo senso costruttivo nell’insieme della composizione (proprio quel senso costruttivo che lei sostiene di difendere). Lei vuole tagliare la mia marcia soltanto perché la parte centrale e lo sviluppo le piacciono meno del resto. Per me questa ragione non è sufficiente e avrei voglia di dirle: “Questa non è casa sua, mio caro”, non le ho mai detto: “Ecco, prenda la mia partitura e ne faccia quel che meglio crede”.


«Le ripeto: o lei esegue Jeu de cartes così com’è o non lo esegue affatto.


«A quanto pare, lei non ha capito che su questo punto la mia lettera del 14 ottobre era assolutamente categorica».


Da quel momento, i due si scambieranno solo poche lettere, fredde, laconiche. Nel 1961, Ansermet pubblica in Svizzera un voluminoso saggio di musicologia che comprende un lungo capitolo in cui l’autore si scaglia contro l’insensibilità della musica di Stravinskij (e contro la sua incompetenza come direttore d’orchestra). Soltanto nel 1966 (ventinove anni dopo quel diverbio) a una lettera con cui Ansermet tentava una riconciliazione Stravinskij risponde brevemente così:


« Caro Ansermet,


«la sua lettera mi ha commosso. Siamo entrambi troppo vecchi per non pensare alla fine dei nostri giorni; e non voglio terminare i miei con il penoso fardello di una inimicizia».


Una formula archetipica per una situazione archetipica: accade spesso infatti che, al termine della vita, dopo una lunga rottura due amici mettano una pietra sopra la loro ostilità, ma freddamente, senza per questo tornare a essere amici.


L’oggetto del contendere che ha mandato in fumo l’amicizia è chiaro: i diritti dell’autore Stravinskij, diritti d’autore morali; lo sdegno dell’autore che non tollera che si tocchi l’opera sua; e, dall’altro lato, il risentimento di un interprete che non sopporta l’orgoglio dell’autore e tenta di mettere dei limiti al suo potere.


 


2

Ascolto Le sacre du printemps diretto da Leonard Bernstein; il famoso passaggio lirico nelle «Rondes printanières» mi pare sospetto; apro la partitura:


 


kundera 4 - 0004


 


Il che, nell’interpretazione di Bernstein, diventa:


 


kundera 4 - 0005


 


kundera 4 - 0006


 


Il fascino inedito del passaggio che ho citato consiste nella tensione fra il lirismo della melodia e il ritmo, meccanico ma anche stranamente irregolare; se questo ritmo non è rispettato con cronometrica esattezza, se viene rubatizzato, se alla fine di ogni fraseggio si prolunga l’ultima nota (come fa appunto Bernstein), la tensione sparisce e l’intero passaggio si appiattisce.


Penso al sarcasmo di Ansermet. Preferisco mille volte l’interpretazione precisa di Stravinskij, anche se egli «addossa il leggio contro il podio come avesse paura di cadere ... e conta i tempi».


 


3

Jaroslav Vogel, che è anche direttore d’orchestra, analizza lungamente, nella sua monografia su Janáček, le modifiche apportate da Kovarovic alla partitura di Jenùfa. Modifiche da lui approvate e difese. Un atteggiamento che mi lascia stupefatto; perché quand’anche fossero efficaci, appropriati, ragionevoli, gli interventi di Kovarovic sono per principio inaccettabili, e l’ipotesi stessa di una scelta fra la versione di un creatore e quella del suo correttore (censore, adattatore) è perversa. Sarebbe, indubbiamente, possibile riscrivere meglio questa o quella frase di Alla ricerca del tempo perduto. Ma chi sarebbe così pazzo da voler leggere un Proust migliorato?


Le modifiche di Kovarovic, per di più, non sono né appropriate né ragionevoli. A prova della loro opportunità, Vogel cita l’ultima scena in cui Jenùfa si trova sola con Laca dopo il ritrovamento del corpo del suo bambino, dopo l’arresto della matrigna. In passato Laca, geloso di Steva, aveva sfregiato, per vendetta, Jenùfa; adesso, lei gli perdona: l’aveva fatto per amore; così come per amore lei ha peccato:


 


kundera 4 - 0007


 


Le parole «come il mio in passato», allusione al suo amore per Steva, sono pronunciate con grande rapidità, come un breve grido, sulle note acute che salgono e si interrompono; come se Jenùfa evocasse un ricordo e volesse subito cancellarlo. Kovarovic allarga la melodia di questo passaggio («la fa sbocciare», come dice Vogel) trasformandola in questo modo:


 


kundera 4 - 0008


 


Non vi sembra, dice Vogel, che il canto di Jenùfa diventi più bello nell’elaborazione di Kovarovic? Pur restando al tempo stesso totalmente janacekiano? Già, volendo parodiare Janáček, non era possibile farlo meglio. Ciò non toglie che la melodia aggiunta è un’assurdità. Se nella partitura originale Jenùfa rammenta il suo «peccato» in un lampo, con una sorta di orrore represso, sotto la penna di Kovarovic quasi si intenerisce al ricordo, ci si sofferma, ne è persino commossa (il canto prolunga le parole: amore, il mio e in passato). Di fronte a Laca, insomma, Jenùfa canta la sua nostalgia per Steva, il rivale di Laca, canta il suo amore per quello Steva che è causa di tutti i suoi mali! Come ha potuto Vogel, fervido ammiratore di Janáček, difendere una tale incongruenza psicologica? Come ha potuto avallarla sapendo che la rivoluzione estetica di Janáček nasce proprio dal rifiuto dell’irrealismo psicologico imperante nella pratica operistica? Com’è possibile amare un artista e al tempo stesso fraintenderlo in modo così smaccato?


 


4

Eppure, e qui Vogel ha ragione: sono state proprio le modifiche di Kovarovic che, rendendo l’opera un po’ più convenzionale, hanno contribuito al suo successo. «Ci permetta di deformarla un tantino, caro Maestro, e vedrà quanto l’apprezzeranno». Ma viene il momento in cui il Maestro non ha più voglia di pagare un prezzo così alto per essere apprezzato e preferisce invece essere odiato e compreso.


Di che strumenti dispone un autore per farsi comprendere per quello che è? Erano pochissimi quelli di cui disponeva Hermann Broch negli anni Trenta, in un’Austria tagliata fuori dalla Germania ormai nazista, e anche in seguito, nella solitudine dell’esilio: oltre a qualche conferenza, in cui esponeva la sua estetica del romanzo; le lettere agli amici, ai lettori, agli editori, ai traduttori; ma non trascurava nulla ed era, per esempio, attentissimo ai brevi testi pubblicati sui risvolti dei suoi libri. In una lettera al suo editore, si ribella alla proposta di presentare alla stampa I sonnambuli mettendolo in parallelo con Hugo von Hofmannsthal e Italo Svevo. E avanza una controproposta: che il suo nome venga affiancato a quelli di Joyce e di Gide.


Soffermiamoci un attimo su questa proposta: che differenza esiste, in realtà, fra l’ambito delimitato dai nomi Broch-Svevo-Hofmannsthal e quello delimitato dai nomi Broch-Joyce-Gide? Il primo è letterario nel senso generico e vago della parola; il secondo è specificamente romanzesco (Broch pensa al Gide dei Falsari) . Il primo è un contesto ristretto, vale a dire locale, centroeuropeo. Il secondo è un contesto ampio, internazionale, anzi mondiale. Mettendo il proprio nome accanto a quelli di Joyce e di Gide, Broch esige che il suo romanzo venga inserito nel contesto del romanzo europeo; è ben consapevole che I sonnambuli, così come l' Ulisse o I falsari, opera una vera rivoluzione nella forma romanzesca, crea una diversa estetica del romanzo, e che può essere capita solo se viene collocata sullo sfondo della storia del romanzo in quanto tale.


L’esigenza espressa da Broch è valida per ogni opera importante. Non mi stancherò mai di ripeterlo: il valore e il senso di un’opera possono essere apprezzati soltanto se la si inquadra nel grande contesto internazionale. E questo è ancora più vero se un artista vive in un relativo isolamento. Un surrealista francese, un autore del nouveau roman, un naturalista dell’Ottocento hanno il sostegno di un’intera generazione, di un movimento universalmente noto, il cui programma estetico precede, per così dire, le singole opere. Dove si situa invece uno come Gombrowicz? Come è possibile capire la sua estetica?


Gombrowicz lascia il suo paese nel 1939, a trentacinque anni. Il suo unico passaporto artistico è Ferdydurke, geniale romanzo, noto a pochissimi in Polonia, totalmente ignoto altrove. Approda lontano dall’Europa, in Argentina. La sua solitudine è inimmaginabile. Nessuno dei grandi scrittori argentini si mette in contatto con lui. Gli esuli polacchi anticomunisti non sono particolarmente attratti dalla sua arte. Per quattordici anni, questa situazione rimane immutata, e nel 1953 Gombrowicz incomincia a scrivere e a pubblicare il suo Diario. Della sua vita non si apprende granché, il diario ha più che altro lo scopo di tracciare un quadro della sua posizione, e si presenta come una reiterata autogiustificazione, estetica e filosofica, un manuale della sua «strategia», o meglio ancora: come il suo testamento; non che egli si sentisse prossimo alla morte: voleva imporre, come estrema e definitiva volontà, la propria visione di se stesso e della propria opera.


La sua posizione è caratterizzata da tre rifiuti fondamentali: il rifiuto di sottostare all’impegno politico degli esuli polacchi (Gombrowicz non ha tendenze filo-comuniste ma respinge il principio stesso di un’arte impegnata); il rifiuto della tradizione polacca (l’unico modo di fare qualcosa per la Polonia, secondo lui, è opporsi alla «polacchità» e scrollarsi di dosso il suo gravoso retaggio romantico); e per finire, il rifiuto del modernismo occidentale degli anni Sessanta, che egli ritiene sterile, «sleale nei confronti della realtà», impotente nell’arte del romanzo, accademico, snobistico, dedito unicamente alla propria autoteorizzazione (non che Gombrowicz sia meno moderno, ma il suo è un modernismo diverso). Quest’ultima «clausola testamentaria», malgrado la sua importanza decisiva, è stata anche quella più ostinatamente fraintesa.


Ferdydurke è uscito nel 1937, un anno prima della Nausea, ma, poiché Gombrowicz era uno sconosciuto, Sartre una celebrità, La nausea ha per così dire usurpato, nella storia del romanzo, il posto che spettava a Gombrowicz. Mentre nella Nausea la filosofia esistenzialista si è camuffata da romanzo (come se un professore di liceo, per ridestare l’attenzione sopita dei suoi allievi, decidesse di fare una lezione in forma di romanzo), Gombrowicz ha scritto un vero romanzo che si riallaccia all’antica tradizione del romanzo comico (nel senso di Rabelais, di Cervantes, di Fielding), presentando i problemi esistenziali, che gli stanno a cuore non meno che a Sartre, sotto una luce non-seria e grottesca.


Ferdydurke è (come I sonnambuli, come L’uomo senza qualità) una di quelle opere fondamentali che aprono, a mio avviso, il « terzo tempo » della storia del romanzo, poiché fanno rivivere l’esperienza ormai dimenticata del romanzo prebalzachiano e invadono spazi un tempo ritenuti dominio esclusivo della filosofia. Il fatto che La nausea, e non Ferdydurke, sia stato considerato l’esempio tipico di questa nuova tendenza ha avuto conseguenze perniciose: la prima notte delle nozze tra la filosofia e il romanzo si è svolta all’insegna della noia reciproca. Allorché sono state scoperte, venti o trent'anni dopo la loro pubblicazione, l’opera di Gombrowicz, quella di Broch, di Musil (e, naturalmente, di Kafka) non avevano più la forza necessaria per sedurre una generazione e per creare un movimento; interpretate da una scuola estetica che, sotto molti aspetti, si situava ai loro antipodi, queste opere sono state certo rispettate, perfino ammirate, ma sicuramente non comprese, cosicché la più grande svolta nella storia del romanzo di questo secolo è passata del tutto inosservata.


 


5

Lo stesso avvenne, come ho già avuto occasione di dire, nel caso di Janáček. Max Brod si mise al suo servizio come a quello di Kafka: con lo stesso ardore disinteressato. A Brod va riconosciuto questo merito: di essersi messo al servizio dei due maggiori artisti che abbiano mai vissuto nel paese in cui sono nato. Kafka e Janáček: entrambi misconosciuti; entrambi fautori di un’estetica difficile da cogliere; entrambi vittime della grettezza del loro ambiente. Praga costituì per Kafka un terribile handicap. Là egli rimase isolato dal mondò letterario ed editoriale tedesco, cosa che gli fu fatale. I suoi editori prestavano scarsa attenzione a un autore che, di persona, conoscevano appena. Joachim Unseld, figlio di un grande editore tedesco, ha dedicato a questo problema un libro in cui dimostra (e la sua ipotesi mi sembra più che verosimile) che fu probabilmente questa la ragione per cui Kafka non portò a termine dei romanzi che nessuno gli sollecitava. Perché se un autore non ha la prospettiva concreta di pubblicare il suo manoscritto, niente lo spinge ad arrivare in fondo, niente gli impedisce di accantonarlo provvisoriamente per passare ad altro.


Per i tedeschi, Praga non era altro che una città di provincia, come Brno per i cechi. Sia Kafka che Janáček erano dunque dei provinciali. Se il primo era pressoché ignoto in un paese dove si sentiva in terra straniera, il secondo, nello stesso paese, era considerato un autore di musichette frivole.


Chi volesse farsi un’idea dell’incompetenza estetica del fondatore della kafkologia dovrebbe andarsi a leggere la monografia da lui dedicata a Janáček. Il tono è entusiastico e il libro è stato, senza dubbio, di grande aiuto per il maestro incompreso. Ma com’è debole, com’è ingenuo! Affastella paroioni, cosmo, amore, compassione, umiliati e offesi, musica divina, anima ipersensibile, anima mite, anima di sognatore, mentre manca di qualsiasi analisi strutturale, e non fa il minimo tentativo per afferrare l’estetica concreta della musica di Janáček. Consapevole dell’odio che i musicologi praghesi nutrivano per il compositore di provincia, Brod ha voluto dimostrare che Janáček apparteneva alla tradizione nazionale e che era perfettamente degno del grandissimo Smetana, l’idolo dell’ideologia nazionalista ceca. E si è lasciato a tal punto obnubilare da questa polemica campanilistica, ottusamente provinciale, che dal suo libro la musica di tutto il resto del mondo è totalmente assente, e che di tutti i compositori di tutti i tempi l’unico a essere nominato è Smetana.


Ah, Max, Max! Non bisogna mai avventurarsi sul terreno dell’avversario! Vi si troveranno solo folle ostili, arbitri venduti! Brod non ha saputo approfittare della sua posizione di non ceco per proiettare Janáček nel contesto ampio, il contesto cosmopolita della musica europea, l’unico in cui egli potesse essere difeso e capito; lo ha invece rinchiuso nel suo orizzonte nazionale, tagliandolo fuori dalla musica moderna, e ratificando così il suo isolamento. Le prime interpretazioni che vengono date di un’opera lasceranno su di essa un segno indelebile. Così come la critica kafkiana non riuscirà mai a disfarsi del pensiero di Brod, Janáček non si libererà mai del marchio di provincialismo affibbiatogli dai suoi compatrioti e sanzionato da Brod.


Personaggio enigmatico, questo Max Brod. Amava Janáček; non aveva altro movente, se non il desiderio di giustizia; e in Janáček amava l’essenziale, e cioè la sua arte. Ma quest’arte, non la capiva.


Ai miei occhi Max Brod rimarrà per sempre un mistero. E Kafka? Che cosa ne pensava? In una pagina di diario dell’anno 1911, Kafka racconta: un giorno, andò a far visita in compagnia di Brod a un pittore cubista, Willi Nowak, il quale aveva appena terminato un ciclo di litografie, che erano altrettanti ritratti di Brod; se il primo disegno era fedele all’originale, gli altri, come accadeva a Picasso, si scostavano sempre di più dal modello per giungere a una radicale astrazione. Brod era imbarazzato; quei disegni non gli andavano a genio, a parte il primo, il più realistico, che invece gli piaceva molto perché «oltre a essere somigliante, » nota Kafka con affettuosa ironia « recava attorno alla bocca e agli occhi tratti nobili e pacati...».


Brod non capiva il cubismo più di quanto capisse Kafka e Janáček. E sforzandosi di liberarli dal loro isolamento sociale, non fece altro che ribadire la loro solitudine estetica. Perché la sua dedizione per loro significava: perfino chi li amava, ed era quindi pronto a comprenderli più di chiunque altro, rimaneva estraneo alla loro arte.


 


6

Non riesco a capacitarmi che ci si stupisca tanto della (supposta) decisione di Kafka di distruggere l’intera sua opera. Come se una simile decisione fosse a priori assurda. Come se un autore non avesse sufficienti ragioni per portarsi dietro la propria opera, nel suo ultimo viaggio.


Può accadere, infatti, che al momento di fare un bilancio l’autore constati che i suoi libri non gli piacciono più. E che non voglia lasciarsi alle spalle questo lugubre monumento alla sua sconfitta. Lo so, lo so, gli risponderete che sbaglia, che è vittima di una depressione morbosa, ma le vostre esortazioni sono prive di senso. La sua opera, cari miei, è casa sua, non casa vostra!


Può esserci anche un’altra ragione plausibile: che all’autore piaccia ancora la sua opera ma non il mondo. Che non possa quindi sopportare l’idea di lasciarla alla mercé di un futuro che gli appare esecrabile.


E c’è un’ulteriore possibilità: che l’autore, pur continuando a ritenere valida la propria opera e pur non interessandosi al futuro del mondo, conosca però il pubblico abbastanza a fondo da capire la vanitas vanitatum dell’arte, l’ineluttabile incomprensione a cui è votata, la stessa incomprensione (non la sottovalutazione, non sto parlando dei vanesi) che ha dovuto subire per tutta la vita e che non vuole subire anche post mortem. (Può darsi, del resto, che solo la brevità della vita impedisca agli artisti di cogliere fino in fondo la vanità del loro lavoro e di preordinare a tempo l’oblio della loro opera e di loro stessi).


Non vi sembrano tutte ottime ragioni? Certo che lo sono. Eppure, Kafka non pensava niente di tutto questo: era consapevole del valore di ciò che scriveva, non manifestava un’aperta repulsione per il mondo, ed essendo troppo giovane e pressoché sconosciuto, non aveva ancora avuto brutte esperienze con il pubblico, o meglio non ne aveva avuta quasi nessuna.


 


7

Il testamento di Kafka: non parlo del testamento nel senso strettamente legale del termine; in realtà due sole lettere private; e non sono neanche vere e proprie lettere perché non sono mai state inviate. Brod, che di Kafka fu l’esecutore testamentario, le trovò in un cassetto insieme a molte altre carte dopo la morte dell’amico, avvenuta nel 1924: una, scritta a penna, era piegata e indirizzata allo stesso Brod, la seconda, più lunga, era scritta a matita. Nella sua Postfazione alla prima edizione del «Processo» Brod spiega: «Nel 1921, dissi a Kafka che avevo redatto un testamento in cui lo pregavo di distruggere alcune cose [dieses und jenes vernichten] , di rivederne altre, ecc. Al che, lui mi mostrò il biglietto scritto a penna che è stato poi trovato in un cassetto della sua scrivania e mi disse: “Quanto a me il mio testamento è semplicissimo: la preghiera che ti faccio è di bruciare ogni cosa”. Mi ricordo ancora con precisione di avergli risposto: "... ti avverto sin d’ora che non esaudirò la tua preghiera”». Questo episodio serve a Brod per giustificare la sua disobbedienza alla volontà espressa dall’amico nel suo testamento; Kafka, egli aggiunge, «conosceva bene la venerazione fanatica che avevo per ognuna delle sue parole»; e sapeva quindi che non sarebbe stato obbedito, di conseguenza, « se avesse sul serio considerato quelle come le sue ultime e inderogabili disposizioni avrebbe dovuto scegliersi qualcun altro come esecutore testamentario». Ma le cose stanno proprio così? Nel suo testamento Brod chiedeva a Kafka di «distruggere alcune cose»: perché mai Kafka non avrebbe trovato normale chiedere a Brod lo stesso favore? E se fosse stato davvero certo di non essere obbedito, perché avrebbe scritto quella seconda lettera a matita, posteriore alla conversazione avuta con Brod nel ’21, lettera in cui articola e precisa quelle disposizioni? Ma lasciamo perdere: non sapremo mai che cosa si siano veramente detti i due amici su un argomento che non doveva, certo, sembrare loro di grandissima urgenza, visto che a quell’epoca nessuno dei due, e Kafka in particolare, poteva considerarsi in serio pericolo di immortalità.


Si dice spesso: se Kafka avesse davvero voluto distruggere ciò che aveva scritto, l’avrebbe distrutto lui stesso. Ma come poteva? Le sue lettere erano nelle mani dei destinatari. (Lui stesso non conservava quelle che riceveva). I diari, certo, avrebbe potuto bruciarli. Ma si trattava di appunti di lavoro (di taccuini più che di veri e propri diari), che gli servivano nel momento in cui scriveva, e Kafka scrisse fino agli ultimi giorni. Lo stesso si può dire delle prose incompiute. Sarebbero state irrimediabilmente incompiute solo in caso di morte; finché fosse stato in vita, avrebbe sempre potuto rimettervi mano. Anche un racconto che gli appare malriuscito può tornare utile a uno scrittore, può servirgli come spunto per un altro racconto. Finché non si trova in punto di morte lo scrittore non ha alcun motivo per distruggere ciò che ha scritto. Ma allorché è moribondo Kafka non è più a casa sua, è in sanatorio e non può distruggere niente, può soltanto contare sull’aiuto di un amico. E poiché di amici ne ha ben pochi, anzi ne ha uno solo, può contare soltanto su di lui.


Si dice anche: il voler distruggere la propria opera, è un fatto patologico. Di conseguenza, l’aver disobbedito alla volontà del Kafka distruttore diventa un atto di fedeltà al Kafka creatore. Questa è la peggiore falsità della leggenda che circonda quel testamento: Kafka non voleva distruggere la propria opera. Nella seconda delle due lettere è precisissimo su questo punto: «Di tutto quel che ho scritto, ritengo siano validi [gelten] soltanto i libri: La condanna, Il fuochista, La metamorfosi, Nella colonia penale, Un medico di campagna e il racconto: Un digiunatore. (Le poche copie in circolazione delle Meditazioni possono restarci, non voglio dare a nessuno il fastidio di mandarle al macero, ma non vanno ristampate)». Kafka, insomma, non soltanto non rinnega la propria opera, ma ne fa un bilancio cercando di separare ciò che deve rimanere (e può essere ristampato) da ciò che non lo soddisfa; vi è in questo giudizio tristezza, severità, ma certo non follia, né cecità dovuta alla disperazione: Kafka considera validi tutti i suoi libri già stampati, tranne il primo, Meditazioni, che gli sembra probabilmente immaturo (e sarebbe difficile dargli torto). La sua ripulsa non riguarda automaticamente tutti i suoi scritti ancora inediti, visto che fra i libri «validi» egli include anche il racconto Un digiunatore che, nel momento in cui scrive la lettera, esiste solo allo stato di manoscritto. In seguito, aggiungerà alla lista altri tre racconti (Primo dolore, Una donnina, Josefine la cantante) che raccoglierà in un libro; in sanatorio, già sul letto di morte, correggerà proprio le bozze di questo libro: dimostrazione quasi patetica del fatto che Kafka non ha nulla a che vedere con la leggenda dell’autore deciso a distruggere la propria opera.


Gli scritti che Kafka vuole sopprimere si limitano a due categorie, definite in modo chiaro:


innanzitutto, e su questo insiste in modo particolare: gli scritti intimi: lettere e diari;


in secondo luogo: i racconti e i romanzi che, a suo avviso, non è riuscito a ultimare in modo soddisfacente.


 


8

Guardo una finestra, di fronte. Verso sera la luce si accende. Un uomo entra nella stanza. Comincia ad andare su e giù a testa bassa; ogni tanto si passa una mano fra i capelli. Poi, si accorge di colpo che la stanza è illuminata e che potrebbero vederlo. Allora chiude le tende con un gesto brusco. Eppure, non stava mica battendo moneta falsa; non aveva nulla da nascondere tranne se stesso, il suo muoversi per la stanza, il suo abbigliamento trasandato, il gesto con cui si accarezzava i capelli. Il suo benessere è vincolato alla sua libertà di non essere visto.


Il pudore è uno dei concetti-chiave dei Tempi moderni, epoca individualista che, oggi, si va, impercettibilmente, allontanando da noi; pudore: reazione epidermica che ci spinge a proteggere la nostra vita privata; a volere una tenda davanti a una finestra; a insistere perché una lettera indirizzata ad A non venga letta da B. Una delle situazioni canoniche del passaggio all’età adulta, uno dei primi conflitti con i genitori è la rivendicazione di un cassetto in cui tenere lettere e taccuini, la rivendicazione di un cassetto da chiudere a chiave; nell’età adulta si entra mediante la rivolta del pudore.


È una vecchia utopia rivoluzionaria, fascista o comunista: quella di una vita senza segreti, in cui vita pubblica e vita privata siano tutt’uno. Ed era anche il sogno surrealista caro a Breton: la casa di vetro, senza tende in cui l’uomo vive sotto gli occhi di tutti. Ah, la bellezza della trasparenza! Unica realizzazione concreta di questo sogno: una società totalmente controllata dalla polizia.


Ne ho parlato nell’Insostenibile leggerezza dell’essere: Jan Prochàzka, personalità eminente della Primavera di Praga, divenne, dopo l’invasione russa del 1968, un sorvegliato speciale. In quel periodo frequentava un altro grande dissidente, il professor Vàclav Cerny, col quale andava spesso a bere qualcosa e a fare due chiacchiere. Tutte le loro conversazioni venivano registrate di nascosto e secondo me i due amici lo sapevano e se ne infischiavano. Ma un giorno, doveva essere il ’70 o il ’71, la polizia cominciò a trasmettere quelle conversazioni per radio, a puntate, allo scopo di screditare Prochàzka. Da parte della polizia quell’iniziativa era di un’audacia senza precedenti. E, strano a dirsi: all’inizio sembrò funzionare; Prochàzka fu effettivamente screditato: perché, nell’intimità, non ci si controlla, si parla male degli amici, si dicono parolacce e insulsaggini, si raccontano barzellette di cattivo gusto, ci si ripete, si cerca di divertire l’interlocutore sparandole grosse, si rivelano opinioni eretiche di cui non si fa professione pubblica, ecc. Nell’intimità è naturale che tutti facciano come Prochazka, sparlando degli amici, e dicendo parolacce; comportarsi in modo diverso a seconda che ci si trovi in pubblico o in privato è l’esperienza più ovvia che ciascuno di noi possa fare, il fondamento stesso su cui poggia la vita di ogni individuo; lo strano è che tutto questo rimanga inconscio, non confessato, costantemente occultato dai vaneggiamenti lirici sulla trasparente casa di vetro, e venga raramente inteso come un bene prezioso da difendere a ogni costo. Solo poco per volta (ma con tanta più rabbia) la gente si rese conto che il vero scandalo non erano le espressioni spinte di Prochazka ma la violazione della sua vita; si rese conto cioè (e fu come una rivelazione improvvisa) che il privato e il pubblico sono due mondi diversi per essenza e che il rispetto di questa diversità è la condizione sine qua non perché un uomo possa vivere da uomo libero; che la tenda che separa questi due mondi è inamovibile e che chi la strappa è un criminale. E poiché coloro che strappavano quella tenda erano al servizio di un regime odiato, furono considerati all’unanimità come criminali particolarmente spregevoli.


Quando lasciai quella Cecoslovacchia imbottita di microfoni e sbarcai in Francia vidi sulla copertina di un settimanale una grande foto di Jacques Brel che si copriva la faccia per sfuggire a una muta di fotografi appostati davanti all’ospedale nel quale era in cura per un cancro ormai molto avanzato. Ed ebbi, improvvisamente, la sensazione di trovarmi di fronte allo stesso male che mi aveva spinto a fuggire dal mio paese; mi sembrò che la messa in onda delle conversazioni di Prochazka e la fotografia di un cantante in fin di vita che si nasconde di volto appartenessero allo stesso mondo; allora pensai che la divulgazione dell’intimità altrui, non appena diventa abitudine e regola, ci fa entrare in un’epoca in cui la questione centrale è la sopravvivenza o la scomparsa dell’individuo.


 


9

In Islanda non ci sono quasi alberi, e quelli che ci sono stanno tutti nei cimiteri; come se non ci fossero morti senza alberi, come se non ci fossero alberi senza morti. Questi alberi non vengono piantati accanto alla tomba, come nell’idilliaca Europa centrale, bensì al centro della tomba stessa per costringere chi passa a immaginarsi le radici che, sottoterra, attraversano il corpo. Mentre passeggio in compagnia di Elvar D. nel cimitero di Reykjavik, lo vedo fermarsi davanti a una tomba sulla quale c’è un alberello appena piantato; lì è stato sepolto un suo amico, appena un anno fa; Elvar ripensa a lui ad alta voce: la sua vita privata nascondeva un segreto, probabilmente di tipo sessuale. «E poiché i segreti suscitano una curiosità esacerbata, mia moglie, le mie figlie, tutti intorno a me hanno insistito affinché ne parlassi con loro. Tanto che, da allora, i miei rapporti con mia moglie si sono deteriorati. Non riuscivo a perdonarle la sua curiosità aggressiva, lei non mi ha perdonato il mio silenzio, in cui vedeva una conferma della scarsa fiducia che avevo in lei». Poi sorride e aggiunge: «Non ho tradito. Perché non avevo niente da tradire. Ho proibito a me stesso di voler conoscere i segreti del mio amico e non li conosco». Lo ascoltavo affascinato: sin dall’infanzia sento dire che l’amico è colui con il quale si dividono i segreti e che, in nome dell’amicizia, ha perfino il diritto di insistere perché tali segreti gli vengano rivelati. Per il mio islandese, l’amicizia consisteva in tutt’altro: nello stare di guardia davanti alla porta dietro la quale l’altro nasconde la sua vita privata; nel non aprire mai quella porta; nell'impedire a tutti di aprirla.


 


10

Penso all’epilogo del Processo: i due uomini che sono andati a prendere K. sono chini su di lui e lo stanno pugnalando: « Con gli occhi che si offuscavano K. vide ancora, vicini al suo viso, guancia contro guancia, i due uomini che osservavano l’esito. “Come un cane!” disse, era come se la vergogna dovesse sopravvivergli».


L’ultimo sostantivo del Processo: la vergogna. L’ultima immagine: due volti estranei, vicini quasi al punto da toccarlo, che osservano K. nel momento più intimo, quello dell’agonia. L’ultimo sostantivo, l’ultima immagine sintetizzano la situazione fondamentale di tutto il romanzo: essere raggiungibili, in qualunque momento, fin nella propria stanza da letto; dover sopportare che altri mangino la propria colazione; essere disponibili, giorno e notte, se si tiene convocati; vedersi confiscare le tende che coprono la propria finestra; non poter frequentare chi si vuole; non appartenersi più; perdere lo statuto di individuo. È questa trasformazione di un uomo da soggetto in oggetto ad essere sentita come una vergogna.


Non credo che Kafka abbia chiesto a Brod di distruggere la sua corrispondenza per timore che venisse pubblicata. Una simile idea non poteva neanche sfiorarlo. Se gli editori non si interessavano ai suoi romanzi, come avrebbero potuto interessarsi alle sue lettere? Quel che lo spinse a voler distruggere quelle lettere era la vergogna, una pura e semplice vergogna di uomo, non di scrittore, la vergogna di lasciare in giro cose intime sotto gli occhi degli altri, dei familiari, degli sconosciuti, la vergogna di essere trasformato in oggetto, una vergogna che avrebbe potuto « sopravvivergli».


Nonostante ciò, Brod ha reso pubbliche le sue lettere; prima, nel proprio testamento, aveva chiesto a Kafka di «distruggere alcune cose»; ora, è lui a pubblicare tutto, senza discernimento; perfino quella lunga e drammatica lettera trovata in un cassetto, che Kafka non si era mai deciso a inviare al padre e che, grazie a Brod, tutti hanno potuto leggere, tranne il destinatario. Ai miei occhi l’indiscrezione di Brod non ha scusanti. Ha tradito il suo amico. Ha agito contro la sua volontà, contro il senso e lo spirito della sua volontà, contro la sua indole schiva che egli ben conosceva.


 


11

Tra il romanzo, da una parte, e, dall’altra, le memorie, la biografia, l’autobiografia c’è una differenza essenziale. Il valore di una biografia risiede nella novità e veridicità dei fatti reali che vi vengono rivelati. Mentre quello di un romanzo consiste nella rivelazione di possibilità fino a quel momento latenti dell’esistenza in quanto tale; il romanzo, in altri termini, scopre quel che si cela in ognuno di noi. Chi vuole esprimere il proprio apprezzamento per un romanzo dice di solito: «Mi riconosco nel personaggio del libro»; oppure: « Mi sembra quasi che l’autore parli di me e mi conosca»; o anche, in forma negativa: «Mi sento aggredito, messo a nudo, umiliato da questo romanzo». Non si deve mai sorridere di giudizi come questi, solo apparentemente ingenui; poiché dimostrano che il romanzo è stato letto come tale.


Per questo il romanzo a chiave (che parla di personaggi veri con l’intenzione di farli riconoscere sotto nomi fittizi) è un falso romanzo, una cosa esteticamente equivoca, moralmente scorretta. Pensate al Kafka nascosto sotto il nome di Garta! Se obiettate: «Ma non era così! », l’autore vi risponde: «Non ho mica scritto un libro di memorie, Garta è un personaggio immaginario!». E voi: «Come personaggio immaginario, è inverosimile, goffo, mal costruito!». L’autore: «Ma non è un personaggio qualunque, attraverso di lui ho potuto rivelare cose finora ignote sul conto del mio amico Kafka!». Voi: «Sono rivelazioni fantasiose!». L’autore: «Ma io non ho scritto un libro di memorie, Garta è un personaggio immaginario!...». Eccetera.


Ogni romanziere, che lo voglia o no, si ispira, beninteso, alla propria vita; così nei suoi libri, accanto a personaggi inventati di sana pianta, nati soltanto dalla sua immaginazione, ve ne sono altri che derivano da un modello, talvolta direttamente, più spesso in modo indiretto, e altri ancora che sono nati da un unico particolare osservato in qualcuno, e tutti, poi, devono molto alla capacità di introspezione dell’autore, alla sua conoscenza di se stesso. Il lavoro della fantasia trasforma questi spunti e queste osservazioni in modo tale che il romanziere finisce col dimenticarli. Prima di pubblicare il libro, però, egli dovrebbe preoccuparsi di nascondere accuratamente le chiavi che potrebbero renderli riconoscibili; anzitutto per un minimo di riguardo dovuto a chi avrà la sorpresa di scoprire nel romanzo qualche frammento della propria vita e, in secondo luogo, perché le chiavi (vere o false) che vengono messe nelle mani del lettore possono solo disorientarlo; invece di aspetti sconosciuti dell’esistenza, egli cercherà nel libro aspetti sconosciuti dell’esistenza dell’autore; e tutto il senso dell’arte del romanzo sarà vanificato così come lo ha vanificato, per esempio, il professore americano che, munito di un enorme mazzo di chiavi universali, ha scritto una monumentale biografia di Hemingway: trasformandone tutta l’opera in un unico romanzo a chiave, in virtù della propria interpretazione; rovesciandola come un guanto: di conseguenza, i libri rimangono invisibili dall’altra parte, mentre, sulla fodera, il lettore osserva avidamente gli episodi (veri o spacciati per tali) della sua vita, episodi insignificanti, dolorosi, ridicoli, banali, insulsi o meschini; così l’opera si sgretola, i personaggi immaginari si trasformano in persone della vita dell’autore e la biografia apre un processo morale contro lo scrittore; in un racconto, c’è un personaggio di madre cattiva: vuol dire che lì


Hemingway se la sta prendendo con la propria madre; in un altro racconto c’è un padre crudele: è la vendetta di Hemingway contro il padre, che da piccolo gli ha fatto togliere le tonsille senza anestesia; l’anonima protagonista di Un gatto sotto la pioggia appare insoddisfatta del «marito egocentrico e amorfo»: è la moglie di Hemingway, Hadley, che si lagna di lui; nella protagonista di Gente d’estate bisogna vedere la moglie di Dos Passos: Hemingway, che aveva cercato invano di sedurla, nel racconto abusa vilmente di lei portandosela a letto sotto le spoglie di un suo personaggio; in Al di là del fiume e tra gli alberi, un bruttissimo sconosciuto attraversa il bar: è un ritratto di Sinclair Lewis, il quale, «profondamente ferito da quella feroce descrizione, morì tre mesi dopo la pubblicazione del romanzo». E così via per pagine e pagine, una delazione dopo l’altra.


I romanzieri combattono da sempre contro questo furare biografico, impersonato, secondo Marcel Proust, da Sainte-Beuve che dichiarava: « La letteratura non è distinta, o almeno non è scindibile dal resto dell’uomo». Per comprendere un’opera occorre quindi conoscere anzitutto l’uomo, vale a dire, come precisa Sainte-Beuve, saper rispondere a un certo numero di domande quand’anche esse «fossero apparentemente estranee alla natura dei suoi scritti: Che cosa pensava della religione? Che effetto gli faceva lo spettacolo della natura? Come si comportava riguardo alle donne, riguardo al denaro? Era ricco o povero; che cosa mangiava, come viveva? Quale vizio o quale debole aveva?». Questo metodo semipoliziesco, commenta Proust, esige che il critico « raccolga sullo scrittore tutte le informazioni possibili, compulsi la sua corrispondenza, interroghi coloro che lo hanno conosciuto...».


Eppure Sainte-Beuve, sebbene disponesse di « tutte le informazioni possibili», ha avuto l’abilità di non riconoscere nessuno dei grandi scrittori del suo secolo, né Balzac, né Stendhal, né Flaubert, né Baudelaire; mentre scrutava la loro vita ha fatalmente perso di vista la loro opera perché, dice Proust, «un libro è il prodotto di un altro io, diverso da quello che si manifesta nelle abitudini quotidiane, nei rapporti sociali, nei vizi... L’io dello scrittore si rivela unicamente nei suoi libri».


La polemica di Proust contro Sainte-Beuve è di un’importanza fondamentale. Sia chiaro: Proust non accusa Sainte-Beuve di esagerare; né denuncia i limiti del suo metodo; il suo è un giudizio radicale: questo metodo è cieco di fronte all 'altro io dell’autore; non ne coglie l’intenzione estetica; è incompatibile con l’arte; anzi è contro l’arte; ostile all’arte.


 


12

In Francia l’opera di Kafka è stata pubblicata in quattro volumi. Il secondo contiene: i racconti e i frammenti narrativi; ossia: tutto ciò che Kafka ha pubblicato in vita, più tutto ciò che è stato trovato nei suoi cassetti: racconti non pubblicati o incompiuti, abbozzi, prime stesure, versioni eliminate o abbandonate. In che ordine presentare tutto questo materiale? L’editore si attiene a due criteri: primo, tutte le prose narrative, senza distinzione di genere, di carattere, di grado di compiutezza, vengono messe sullo stesso piano; secondo, sono disposte in ordine cronologico, vale a dire in quello in cui sono state scritte.


Per questo motivo nessuna delle tre raccolte di racconti messe insieme e pubblicate dallo stesso Kafka ( Meditazioni, Un medico condotto, Un digiunatore) compare qui nella forma da lui voluta; le raccolte in quanto tali sono sparite, né più né meno; le singole prose che ne facevano parte sono disperse in mezzo ad altre prose (abbozzi, frammenti, ecc.) secondo il suddetto criterio cronologico; ottocento pagine di prose di Kafka diventano così una marea in cui tutto si confonde con tutto, una marea informe come soltanto l’acqua può esserlo, l’acqua che scorre e trascina con sé il bello e il brutto, il compiuto e l’incompiuto, quello che è valido e quello che è discutibile, l’abbozzo e l’opera vera e propria.


Già Brod aveva proclamato la sua «venerazione fanatica» per ogni singola parola di Kafka. Gli editori dell’opera kafkiana ostentano la stessa venerazione assoluta per tutto quanto l’autore abbia toccato. Occorre però capire il mistero di tale venerazione: essa è al tempo stesso, e non può non essere, una negazione assoluta della volontà estetica dell’autore. Questa volontà si esprime infatti in ciò che l’autore ha voluto eliminare non meno che in ciò che egli ha scritto. Tagliare un paragrafo richiede da parte sua più talento, più cultura, più forza creativa di quanto gli è occorso per scriverlo. Pubblicare ciò che l’autore ha eliminato è un atto di violenza equivalente alla decisione di censurare ciò che egli ha deciso di conservare.


Quel che vale per i tagli nel microcosmo di un singolo testo vale anche per quelli operati nel macrocosmo di un’opera nella sua interezza. Non di rado, nel momento in cui fa un bilancio complessivo, l’autore, guidato dalle sue esigenze estetiche, scarta ciò che non lo soddisfa pienamente. Così, per esempio, Claude Simon si oppone a ogni ristampa dei suoi primi libri. Faulkner ha esplicitamente dichiarato di non voler lasciare altra traccia «se non i libri stampati», niente, insomma, di ciò che i rovistatori di pattumiere avrebbero potuto trovare dopo la sua morte. Tale richiesta, che è uguale a quella di Kafka, è stata esaudita allo stesso modo: tutto quello che si è riusciti a scovare è stato puntualmente pubblicato. Ascolto la Prima Sinfonia di Mahler nell’esecuzione diretta da Seiji Ozawa. Inizialmente questa sinfonia in quattro tempi ne comprendeva cinque, ma dopo la prima esecuzione Mahler eliminò definitivamente il secondo che non compare in nessuna partitura a stampa. Ozawa lo ha reinserito nella sinfonia; in questo modo tutti possono capire che Mahler lo aveva eliminato a ragion veduta. Devo andare avanti? La lista è interminabile.


Nessuno sembra scandalizzarsi del modo in cui sono state pubblicate in Francia le opere di Kafka; tale modo è del tutto conforme allo spirito dei tempi: «Kafka va letto integralmente,» spiega l’editore «e nessuna delle sue diverse forme espressive può rivendicare maggior dignità rispetto alle altre. Così ha deciso la posterità che noi incarniamo; è un giudizio incontrovertibile di cui non si può che prendere atto». Qualcuno si spinge anche oltre: rifiuta non soltanto qualunque gerarchia fra i generi, ma nega perfino che esistano dei generi, afferma che « Kafka parla ovunque lo stesso linguaggio e che con lui si realizza finalmente quella perfetta coincidenza fra vissuto ed espressione letteraria a cui tutti hanno sempre aspirato».


La « perfetta coincidenza fra vissuto ed espressione letteraria». Non è altro che una variante della massima di Sainte-Beuve: « La letteratura è inseparabile dal suo autore». Massima che fa pensare a quest’altra: « L’unità della vita e dell’opera». Che a sua volta ricorda la celebre formula erroneamente attribuita a Goethe: «La vita come opera d’arte». Queste formule magiche sono insieme lapalissiane (ciò che l’uomo fa è, ovviamente, inseparabile da ciò che egli è), fuorvianti (separabile o meno, la creazione supera la vita), e rappresentano anche uno stereotipo lirico (l’unità fra vita e opera «a cui tutti hanno sempre aspirato» appare come una condizione ideale, un’utopia, un paradiso perduto e infine ritrovato), ma, soprattutto, tradiscono la volontà di rifiutare all’arte il suo statuto autonomo, di respingerla nel luogo in cui è nata, nella vita dell’autore, di diluirla in quella vita, e di negarne così la stessa ragion d’essere (se una vita può essere opera d’arte, a che servono allora le opere d’arte?). Così si manda a quel paese l’ordine che Kafka ha deciso di dare ai suoi racconti nelle raccolte da lui curate, perché l’unico ordine valido è quello indicato dalla vita medesima. E tanti saluti al Kafka artista che ci mette in difficoltà con la sua estetica oscura, perché quello che si vuole è il Kafka come unità di vissuto e scrittura, il Kafka che aveva un rapporto difficile con il padre e che con le donne non ci sapeva fare. Hermann Broch protestò contro il proposito di inserire la sua opera all’interno di un contesto ristretto insieme a Svevo e Hofmannsthal. Povero Kafka, cui non è stato concesso neppure quel contesto ristretto. Quando si parla di lui, non si fanno i nomi né di Hofmannsthal, né di Mann, né di Musil, né di Broch; gli si concede un unico contesto: Felice, il padre, Milena, Dora; lo si respinge così nel micro-micro-microcontesto della sua biografia, lontano dalla storia del romanzo, lontanissimo dall’arte.


 


13

I Tempi moderni hanno fatto dell’uomo, dell’individuo, di un io pensante, il fondamento di ogni cosa. Da questa nuova concezione del mondo nasce anche la nuova concezione dell’opera d’arte. Essa diventa espressione originale di un individuo unico. L’individualismo dei Tempi moderni si realizzava, si affermava nell’arte, in cui trovava la sua espressione, la sua consacrazione, la sua gloria, il suo monumento.


Se un’opera d’arte è emanazione di un individuo e della sua unicità, è logico pensare che questo essere unico, l’autore, possieda tutti i diritti su ciò che da lui esclusivamente emana. Al termine di un secolare processo, tali diritti assumono la loro forma giuridicamente definitiva nel corso della Rivoluzione francese, che riconosce la proprietà letteraria come « la più sacra, la più personale di tutte le proprietà».


Ricordo i tempi in cui ero ammaliato dalla musica popolare morava: dalla bellezza delle sue formule melodiche; dall’originalità delle sue metafore. Come erano nate, quelle canzoni? Erano una creazione collettiva? No; quest’arte ha avuto i suoi creatori individuali anonimi, i suoi poeti e i suoi compositori paesani, ma nel momento in cui la loro invenzione ha cominciato a circolare liberamente, essi non hanno più potuto seguirla né proteggerla contro le trasformazioni, le deformazioni, le eterne metamorfosi. A quell’epoca mi sentivo molto vicino a coloro che consideravano quel mondo senza proprietà artistica come una specie di paradiso; un paradiso in cui la poesia è stata fatta da tutti e per tutti.


Se ho rievocato questo ricordo è per dire che l’autore, grande protagonista dei Tempi moderni, emerge solo gradualmente nel corso degli ultimi secoli, e che, nella storia dell’umanità, l’epoca dei diritti d’autore è un attimo fugace, breve come un lampo di magnesio. Ma senza il prestigio dell’autore e dei suoi diritti la grande fioritura dell’arte europea in questi ultimi secoli sarebbe stata impensabile, e con essa la maggior gloria che l’Europa abbia avuto. La maggiore, o forse l’unica poiché, se occorre dirlo, non è certo per merito dei suoi generali né dei suoi statisti che l’Europa è stata ammirata anche dai popoli che hanno sofferto per causa sua.


Prima che il diritto d’autore divenisse legge, è stato necessario che si affermasse un certo atteggiamento di rispetto nei confronti dell’autore. Questo atteggiamento, maturato lentamente nel corso di alcuni secoli, mi sembra oggi in via di dissoluzione. Non vedo, altrimenti, come si potrebbe accompagnare uno spot pubblicitario per la carta igienica con una musica di Brahms. O pubblicare nel plauso generale versioni ridotte dei romanzi di Stendhal. Se quell’atteggiamento di rispetto nei confronti dell’autore esistesse ancora, tutti si chiederebbero: ma Brahms sarebbe d’accordo? E Stendhal non andrebbe su tutte le furie?


Do un’occhiata alla nuova formulazione della legge sui diritti d’autore: ai problemi degli scrittori, dei compositori, dei pittori, dei poeti, dei romanzieri è riservato uno spazio minimo, e la maggior parte del testo è dedicata alla grande industria dei cosiddetti audiovisivi. È indubbio che questa potentissima industria richieda una regolamentazione del tutto nuova. Perché in effetti la situazione è cambiata: quella che ci ostiniamo a chiamare arte è sempre meno « espressione di un individuo originale e unico». Com’è possibile che lo sceneggiatore di un film costato vari miliardi faccia valere i suoi diritti morali (vale a dire il diritto di impedire che si modifichi ciò che ha scritto) quando, alla lavorazione del film, partecipa un esercito di persone che si considerano autori quanto lui e i cui diritti morali si limitano reciprocamente; e com’è possibile avanzare una qualsivoglia rivendicazione contro la volontà di un produttore che, pur non essendone autore, è innegabilmente l’unico vero «padrone» del film.


Sebbene i loro diritti non abbiano subito restrizioni, gli autori delle arti per così dire all’antica sono stati scaraventati in un mondo dove il diritto d’autore comincia a perdere l’aura che aveva in passato. In questo nuovo clima, chiunque violi i diritti morali degli autori (gli adattatori di romanzi; i rovistatori di pattumiere che hanno spadroneggiato sulle cosiddette edizioni critiche dei grandi autori; la pubblicità che disgrega un patrimonio millenario con le sue salivazioni rosate; le riviste che ripubblicano tutto quello che vogliono senza autorizzazione; i produttori che si intromettono nel lavoro dei cineasti; i registi che trattano i testi con tanta disinvoltura da far passare a chiunque non sia completamente pazzo ogni voglia di scrivere per il teatro; ecc.) potrà contare sull’indulgenza dell’opinione pubblica in caso di contrasto mentre l’autore che rivendica i suoi diritti morali correrà il rischio di alienarsi le simpatie del pubblico e godrà di un sostegno giuridico alquanto imbarazzato poiché neppure i custodi della legge sono insensibili allo spirito dei tempi.


Penso a Stravinskij, per esempio. Al suo gigantesco lavoro per mantenere l’intera sua opera legata alla sua interpretazione come a un incancellabile punto di riferimento. Altrettanto ha fatto Samuel Beckett: corredando le sue commedie di didascalie sempre più particolareggiate ed esigendo (all’opposto dell’usuale tendenza al lasciar fare) che venissero rigorosamente rispettate; non di rado assisteva alle prove per controllare la regia, che a volte curava personalmente; egli ha persino pubblicato in volume le sue note di regia per l’allestimento tedesco di Finale di partita affinché rimanessero fissate una volta per sempre. Il suo editore e amico, Jéròme Lindon, veglia, anche a costo di intentare dei processi, a che la sua volontà di autore venga rispettata, in morte come in vita.


Questo straordinario impegno a dare a un’opera una forma definitiva, totalmente compiuta e controllata dall’autore, non ha precedenti nella Storia. Sembra davvero che Stravinskij e Beckett abbiano voluto proteggere la propria opera non solo dalla diffusa pratica delle deformazioni, ma anche da una posterità sempre meno disposta a rispettare un testo o una partitura; come per dare un esempio, l’esempio supremo di che cosa sia la concezione più alta dell’autore, quell’autore che esige la realizzazione integrale delle sue volontà.


 


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Kafka inviò il manoscritto della Metamorfosi a una rivista il cui redattore capo, Robert Musil, dichiarò che l’avrebbe pubblicato a condizione che l’autore lo accorciasse. (Ah! gli sfortunati incontri fra grandi scrittori!). La reazione di Kafka fu gelida e categorica quanto quella di Stravinskij nei confronti di Ansermet. Kafka poteva infatti rassegnarsi a non essere pubblicato ma la prospettiva di essere pubblicato e mutilato gli sembrava intollerabile. Egli aveva dell’autore la stessa concezione assoluta che ne avevano Stravinskij e Beckett, ma se questi ultimi sono riusciti in qualche misura a imporre la loro, Kafka ha totalmente fallito. E questo fallimento rappresenta una svolta, nella storia del diritto d’autore.


Nel 1925, quando, nella Postfazione alla prima edizione del «Processo», pubblicò le due lettere che sono considerate il testamento di Kafka, Brod spiegò che questi sapeva bene che i suoi desideri non sarebbero stati esauditi. Ammettiamo pure che Brod abbia detto la verità, che le due lettere siano dovute a un momento di cattivo umore, e che i due amici avessero chiarito tutto quanto riguardava un’eventuale (assai improbabile) pubblicazione postuma degli scritti di Kafka; in tal caso, Brod, nella sua qualità di esecutore testamentario, poteva assumersi ogni responsabilità e pubblicare quel che più gli piaceva; in tal caso, senza alcun dovere morale di informarci della volontà di Kafka, volontà, a suo avviso, non valida o comunque superata.


Brod si affrettò invece a pubblicare quelle lettere «testamentarie» col massimo clamore; in tal modo, egli cominciava già a creare la sua opera maggiore, il mito di Kafka, in cui una delle pietre angolari era proprio il fatto che l’autore, caso senza precedenti nella Storia, condannasse tutta la propria opera alla distruzione. È così che il nome di Kafka si è impresso nella mente del pubblico. Confermando pienamente ciò che Brod ci racconta nel suo romanzo «mitografico» in cui il personaggio Garta-Kafka vuole distruggere, senza distinzione, tutto quel che ha scritto; per una sua insoddisfazione artistica? nient’affatto, il Kafka di Brod è un pensatore religioso; val la pena di ricordarlo: Garta, che non vuole proclamare bensì «vivere la propria fede», attribuisce scarsissima importanza ai suoi scritti, « miseri gradini verso questa somma vetta ». Il suo amico Nowy-Brod rifiuta di obbedirgli poiché gli scritti di Garta, pur non essendo che «tentativi», possono aivitare gli uomini «erranti nelle tenebre» nella loro ricerca di «qualcosa di insostituibile».


Con il « testamento » di Kafka, nasce la grande leggenda di san Kafka-Garta, e con essa nasce anche la piccola leggenda del suo profeta Brod che, con patetica schiettezza, rende pubbliche le ultime volontà dell’amico confessando al tempo stesso perché, in nome di altissimi princìpi («qualcosa di insostituibile»), ha deciso di non obbedirgli. Il grande mitografo ha vinto la sua scommessa. Il suo gesto venne innalzato al rango di azione nobile e degna di essere emulata. Chi potrebbe, infatti, dubitare della fedeltà di Brod nei confronti di Kafka? E chi oserebbe mettere in dubbio il valore di ogni frase, di ogni parola, di ogni sillaba lasciata da Kafka all’umanità?


In tal modo Brod ha creato il nobile esempio della disobbedienza agli amici morti; un esempio che fa testo per tutti quelli che vogliono trasgredire alle ultime volontà di un autore o divulgarne i segreti più intimi.


 


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Per quanto riguarda le prose incompiute non ho difficoltà a riconoscere che sono tali da mettere in imbarazzo qualsiasi esecutore testamentario. Fra questi scritti di valore disuguale vi sono infatti i tre romanzi; e Kafka non ha scritto niente di più grande. Eppure è naturalissimo che egli li abbia elencati fra le cose malriuscite; difficilmente un autore riesce a credere che il valore di un’opera lasciata incompiuta sia già chiaramente percettibile, anche se il lavoro non è stato portato a termine. Ma quello che l’autore non riesce a vedere potrebbe invece apparire evidente a un altro. No, questi tre romanzi per i quali ho un’ammirazione senza limiti, non avrei mai potuto distruggerli.


Chi mi avrebbe appoggiato?


Quello che è il nostro più grande Maestro. Apriamo Don Chisciotte, parte I, capitoli XII, XIII e XIV: don Chisciotte si trova con Sancho in mezzo alle montagne e lì apprende la storia di Crisostomo, giovane poeta che si è innamorato di una pastorella. Ed è diventato a sua volta pastore per poterle stare accanto; ma lei non lo ama e allora Crisostomo si uccide. Don Chisciotte decide di assistere al funerale. Ambrogio, amico del giovane poeta, celebra il breve rito. Accanto alla salma coperta di fiori vi sono taccuini e poesie scritte su fogli sparsi. Ambrogio spiega agli astanti che Crisostomo ha chiesto che vengano bruciati.


A questo punto interviene un tale Vivaldo, che si è unito agli amici in lutto solo per curiosità: mette in dubbio che il fatto di bruciare quelle poesie risponda effettivamente alla volontà del morto, perché la volontà ha da essere ragionevole e questa non lo è. Sarebbe dunque meglio donare le sue poesie agli altri, cui potrebbero apportare piacere, saggezza, esperienza. E Vivaldo, senza aspettare la risposta di Ambrogio, si china a raccogliere alcuni dei fogli più vicini. Ma Ambrogio gli dice: « Permetterò per cortesia che vi teniate quelli che avete già preso, signore; ma è vano pensare che io rinunzi a bruciare gli altri».


«Permetterò per cortesia»: significa che, quantunque il desiderio dell’amico morto abbia per me valore di legge, io non sono schiavo delle leggi, le rispetto nella mia qualità di uomo libero e non sordo ad altre ragioni che vi si contrappongono, come la cortesia (o l’amore per l’arte). Quindi «permetterò che vi teniate quelli che avete già preso» (quindi non brucio i romanzi di Kafka), sperando che il mio amico mi perdoni. Ma ciò non toglie che con questo strappo io abbia trasgredito alla sua volontà che per me è legge; l’ho fatto di mia iniziativa, a mio rischio e pericolo, e l’ho fatto come chi trasgredisce una legge, non come chi la nega e l’annulla; e per questo «è vano pensare che io rinunzi a bruciare gli altri».


 


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Guardo una trasmissione televisiva: tre signore note e ammirate propongono di comune accordo che anche le donne possano essere sepolte al Panthéon. Esse sostengono che occorre valutare il significato simbolico di un simile gesto. E senza por tempo in mezzo fanno i nomi di alcune illustri defunte, meritevoli, secondo loro, di esservi traslate.


Si tratta, certamente, di una rivendicazione giusta; ma c’è un pensiero che mi turba: le signore che potrebbero venir trasferite al Panthéon seduta stante non riposano accanto ai mariti? Sicuro; e sono state loro a volerlo. E allora che cosa si può fare dei mariti? Trasferire anche loro? Difficile; non sono abbastanza importanti e dovranno rimanere dove stanno, mentre le signore traslocate passeranno l’eternità in una solitudine vedovile.


Poi, mi domando: e gli uomini? già, gli uomini! Chi mi dice che siano finiti al Panthéon per loro volontà? Solo dopo la loro morte, senza chiedere il loro parere, e sicuramente contro le loro ultime volontà, è stato deciso di trasformarli in simboli e di separarli dalle mogli.


Dopo la morte di Chopin, i patrioti polacchi ne hanno macellato il cadavere per prelevare il cuore. Il povero muscolo è stato nazionalizzato e sepolto in Polonia.


Un morto può essere trattato come un rifiuto o come un simbolo. Anche la sua individualità scomparsa viene trattata con la stessa irriverenza.


 


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Com’è facile disobbedire a un morto. Se, a volte, gli eredi seguono le sue volontà, non è per paura, per obbligo, ma perché gli sono affezionati e si rifiutano di considerarlo morto. Se un vecchio contadino moribondo chiede al figlio di non abbattere il vecchio pero che sta davanti alla finestra, l’albero rimarrà in piedi finché il figlio si rammenterà del padre con affetto.


Questo ha ben poco a che fare con la credenza religiosa nell’immortalità dell’anima. Significa soltanto che se un morto mi è caro non sarà mai morto per me. Non riesco nemmeno a dire: mi è stato caro; no, mi è caro. E se mi rifiuto di parlare al passato del mio amore per lui, è perché chi è morto è. Forse la dimensione religiosa dell’uomo è tutta qua. In effetti, l’obbedienza all’ultima volontà è qualcosa di misterioso: poiché va al di là di qualsiasi riflessione pratica e razionale: nella tomba, il vecchio contadino non saprà mai se il pero è stato o no abbattuto; eppure, il figlio affezionato non può non obbedirgli.


Mi è sembrata (e mi sembra ancora) molto commovente la conclusione del romanzo di Faulkner Palme selvagge. La donna muore in seguito a un aborto, l’uomo rimane in prigione, dove sconta una condanna a dieci anni; qualcuno gli fa avere una compressa bianca; è veleno; ma lui scarta rapidamente l’idea del suicidio, poiché l’unico modo con cui può tenere in vita la donna amata è continuare a ricordarla.


«... quando lei non è stata più, allora metà del ricordo non è stato più, e se io non sono più allora tutto il ricordo cesserà di essere. Sì, pensò, tra il dolore e il nulla sceglierò il dolore».


In seguito, quando scrivevo Il libro del riso e dell’oblio, ho cercato di immedesimarmi col personaggio di Tamina che ha perso il marito e cerca disperatamente di ritrovare, di raccogliere i ricordi dispersi per ricostruire un essere scomparso, un passato svanito per sempre; allora ho cominciato a capire che, in un ricordo, non ritroviamo la presenza del morto; i ricordi sono soltanto una conferma della sua assenza; nei ricordi il morto è solo un passato che sbiadisce, che si allontana, ormai inaccessibile.

Ma se non potrò mai considerare morto un essere che mi è caro, come si manifesterà la sua presenza?

Nella sua volontà che io conosco e a cui rimarrò fedele. Penso al vecchio pero che rimarrà al suo posto davanti alla finestra finché vivrà il figlio del vecchio contadino.