sabato 31 dicembre 2022

DISCORSO DI RATISBONA di Benedetto XVI



DISCORSO DI RATISBONA 

di Benedetto XVI

Discorso di Benedetto XVI il 12 settembre 2006 nell’Aula Magna dell’Università di Ratisbona, in Germania.

Il cuore, l’amore e la ragione sono insieme e in legame tra loro la vera sostanza del cristianesimo
Intervista a Camillo Ruini
4 aprile 2014

Camillo Ruini rilegge il primo e capitale discorso papale di un sottile specialista del Logos che non crede negli eccessi francescani e occamisti del volontarismo.
Un discorso molto coraggioso, verso l’islam nel richiamo alla necessità dell’interpretazione, e nei confronti della cultura occidentale che viene messa di fronte ai suoi limiti”, ma sempre con un “atteggiamento positivo” che consenta di “stare dentro la cultura contemporanea”. Il cardinale Camillo Ruini, già vicario del Papa per la diocesi di Roma dal 1991 al 2008 e presidente della Cei dal 1991 al 2007, commenta così, in un colloquio con il Foglio, il discorso pronunciato da Benedetto XVI il 12 settembre 2006 nell’Aula Magna dell’Università di Ratisbona, in Germania.

Passato alla storia per la frase sull’islam, il punto centrale del discorso di Ratisbona ruotava attorno all’interrogativo se agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio. E’ una sfida ancora attuale nella società contemporanea?

“La polemica di allora, fortissima, fu accidentale rispetto al testo. La sfida indicata dall’interrogativo ‘agire contro la ragione è in contraddizione con la natura di Dio?’ è certamente attuale, se non altro per il fondamentalismo così ben presente oggi. Ma costituisce anche una questione di lungo periodo, che nel corso dei secoli ha assunto varie forme. L’intervento di Benedetto XVI a Ratisbona ne fa una sorta di presentazione storica. Ratzinger inizia con la posizione dell’islam che, per esaltare la trascendenza divina, tende a slegare anche dalla ragione la volontà di Dio. Ma poi fa riferimento ai teologi cristiani del tardo Medioevo, cominciando con Scoto e proseguendo con Occam e il nominalismo. Parla quindi delle tre ondate della de-ellenizzazione del cristianesimo. La prima è stata quella della Riforma protestante, che voleva liberare la fede dai condizionamenti della filosofia. Kant ha agito sulla base di questo programma e così ha operato la ‘rivoluzione copernicana’ della filosofia moderna, negando alla ragione teoretica l’accesso alla metafisica, cioè alla realtà come tale. Ratzinger pertanto dice giustamente che questo problema ha a che fare con la storia universale e non è solo una questione di religione. Per lui, dal punto di vista del cristianesimo, è fondamentale il prologo di Giovanni ‘in principio era il Verbo’, il Logos. Lì c’è già, in radice, la risposta alla sfida attuale, che non è solo quella del fondamentalismo, ma – in occidente – è soprattutto quella della secolarizzazione. Tra fondamentalismo e secolarizzazione vi è certamente un contrasto radicale, perché uno opta per la fede, seppur concepita a suo modo, e l’altra per la ragione. Ma c’è anche un punto di convergenza profonda: entrambi sostengono la rottura e l’incompatibilità tra fede e ragione”.

Un passaggio essenziale del discorso è quello in cui Joseph Ratzinger sottolinea che Dio è sì Logos, ma anche Agape. E’ l’invito a sbarazzarsi dell’idea che amore e ragione non siano legate alla verità, all’essere, alla metafisica. E’ questo un tema centrale per Benedetto XVI?

“In tutta la produzione di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, accanto all’affermazione di Giovanni 1,1, ‘in principio era il Verbo’, è ugualmente fondamentale l’altra affermazione ‘Dio è Agape’ (1 Giovanni 4, 8 e 16). Logos e Agape non vanno affatto contrapposti. Non c’è un’alternativa tra ragione e amore, ed è interessante che, come rappresentante dell’intellettualismo, il Pontefice oggi emerito citi non solo Tommaso, ma anche Agostino, che è il suo autore preferito insieme a Bonaventura. L’uomo è dunque, concretamente ed esistenzialmente, unità di intelletto e volontà, senza possibilità di ridurre l’uno all’altra. Dobbiamo ricordare inoltre la tesi di Ratzinger riguardo alla vera forza della missione cristiana: alla domanda su come il cristianesimo si sia imposto nel mondo antico e fino all’età moderna, risponde che lo ha fatto congiungendo la verità dell’unico Dio e l’amore operoso del prossimo, in particolare di chi ha più bisogno. E così la missione deve procedere anche oggi”.

Ratzinger a Ratisbona avverte che c’è il rischio concreto di ricacciare la religione nel campo delle sottoculture. Ma questo non rende la ragione incapace di inserirsi nel dialogo delle culture, dialogo di cui oggi più che mai si sente l’esigenza?
“Purtroppo sì. Alla radice di questo rischio c’è la restrizione della ragione a ciò che è verificabile: questo è il problema centrale. Restrizione che assume vari volti: scientismo, storicismo, individualismo libertario. Nell’ambito delle scienze l’assolutizzazione della ragione che verifica è già da tempo confutata, nell’epistemologia del secolo Ventesimo: sia Popper sia Kuhn sottolineano i limiti della ragione scientifica, non certo la sua universalità e assolutezza. Tuttavia la chiusura della ragione rispetto alla metafisica, alla verità dell’essere, rimane un punto di fondo che la cultura moderna e contemporanea hanno grande difficoltà a superare. Temono sempre che superando questo limite si cada in un atteggiamento pre-kantiano, pre-critico. Nasce da qui la frattura con le religioni, e non solo con le grandi religioni dell’umanità, ma anche con il nostro passato sia umanistico sia illuministico, che aveva una grande e spesso eccessiva fiducia nella ragione. Si può dire che la prospettiva antimetafisica, contro le sue intenzioni, finisce con il tagliare le radici della nostra stessa civiltà”.

In un’Europa preda della secolarizzazione, Benedetto XVI invitava ad avere coraggio nell’aprirsi all’ampiezza della ragione e non al rifiuto della sua grandezza. Oggi, con la laïcité che in gran parte dell’occidente è diventata una sorta di religione, si può considerare ancora attuale tale considerazione?

“E’ più che mai attuale. Ratzinger è stato spesso accusato di essere antimoderno, ma nella sostanza non lo è. Apprezza grandemente la ragione e la cultura moderna e contemporanea, i suoi sviluppi, i suoi risultati, come lo sviluppo scientifico, lo stato di diritto, la libertà politica. Lo stesso può dirsi di Giovanni Paolo II. Per Benedetto XVI non si tratta dunque di rifiutare la ragione moderna, bensì di ripensarla dall’interno e così aprirla al futuro, superando le sue chiusure. Il discorso dell’intelligenza creatrice, che a Ratisbona è proposto molto sinteticamente, è un esempio di apertura della ragione scientifica dal suo interno. Non è un argomento scientifico, ma filosofico: non è cioè un argomento che la scienza possa sviluppare stando nei propri limiti. Parte però dalla conoscibilità della natura, che è il presupposto – magari nascosto e implicito ma innegabile – di ogni approccio scientifico alla natura stessa. E più precisamente parte da una caratteristica fondamentale di questo approccio, l’impiego della matematica. Vorrei aggiungere una riflessione sull’apertura all’essere, spesso considerata un tradimento della ragione critica, tanto che anche i pensatori più disponibili a fare spazio ad accogliere la religione hanno sempre questa remora. In realtà quell’apertura non è un atteggiamento meno critico, ma più critico. La nostra intelligenza, infatti, è portata a interrogarsi illimitatamente, come la nostra libertà è portata a desiderare senza limite. Ogni limite posto all’interrogarsi è dunque illusorio. Ogni volta che pongo uno stop al mio domandare, sorge subito la domanda: come si giustifica la legittimità di questo limite? E con questa nuova domanda il limite stesso è automaticamente superato. Se vogliamo essere critici fino in fondo, dobbiamo accettare l’apertura dell’intelligenza senza limiti, quindi la sua apertura al tutto, anche alla domanda sull’essere”.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Matteo Matzuzzi – @matteomatzuzzi


Benedetto XVI durante l’incontro con i rappresentanti del mondo scientifico nell’aula magna dell’Università di Regensburg, il 12 settembre 2006

 
Riportiamo il discorso su fede e ragione pronunciato da Benedetto XVI il 12 settembre 2006 a Ratisbona, nell'aula magna dell'università, incontrando la comunità accademica in occasione del suo viaggio da pontefice in Baviera. Un testo che affronta il rapporto tra fede e ragione e arriva a intravedere un incontro tra illuminismo e religione. Si tratta del messaggio del papa teologo all'Occidente e al suo relativismo, un richiamo al pensiero che ha caratterizzato la cultura fondante dell'Europa, nata dall'avvicinamento della fede biblica all'interrogarsi greco. E nel richiamare l'identità dell'Occidente, Benedetto XVI suscitò la reazione del mondo islamico per il riferimento all'imperatore bizantino Manuele II Paleologo e ai suoi dialoghi su Bibbia e Corano e in particolare sulla jihad. Nei Paesi musulmani le folle scesero in piazza a protestare contro il Papa e le chiese furono assaltate. Nei giorni successivi, all'Angelus, Benedetto XVI si scusò: "Il mio era un invito al dialogo", disse. La stagione dell'Isis era ancora lontana: l'occupazione dell'Iraq da parte del califfato arrivò un mese dopo, il raid a Charlie Ebdo quasi nove anni più tardi. Ma Benedetto XVI a Ratisbona parlò già della contradditorietà tra Dio-logos e violenza, anticipando il tema che avrebbe poi marcato le riflessioni del decennio successivo. 
 
Illustri Signori, gentili Signore!
 
È per me un momento emozionante stare ancora una volta sulla cattedra dell’università e una volta ancora poter tenere una lezione. I miei pensieri, contemporaneamente, ritornano a quegli anni in cui, dopo un bel periodo presso l’Istituto superiore di Freising, iniziai la mia attività di insegnante accademico all’università di Bonn.  Era – nel 1959 – ancora il tempo della vecchia università dei professori ordinari. Per le singole cattedre non esistevano né assistenti né dattilografi, ma in compenso c’era un contatto molto diretto con gli studenti e soprattutto anche tra i professori. Ci si incontrava prima e dopo la lezione nelle stanze dei docenti. I contatti con gli storici, i filosofi, i filologi e naturalmente anche tra le due facoltà teologiche erano molto stretti. Una volta in ogni semestre c’era un cosiddetto dies academicus, in cui professori di tutte le facoltà si presentavano davanti agli studenti dell’intera università, rendendo così possibile una vera esperienza di universitas: il fatto che noi, nonostante tutte le specializzazioni, che a volte ci rendono incapaci di comunicare tra di noi, formiamo un tutto e lavoriamo nel tutto dell’unica ragione con le sue varie dimensioni, stando così insieme anche nella comune responsabilità per il retto uso della ragione – questo fatto diventava esperienza viva. L’università, senza dubbio, era fiera anche delle sue due facoltà teologiche. Era chiaro che anch’esse, interrogandosi sulla ragionevolezza della fede, svolgono un lavoro che necessariamente fa parte del “tutto” dell’universitas scientiarum, anche se non tutti potevano condividere la fede, per la cui correlazione con la ragione comune si impegnano i teologi. Questa coesione interiore nel cosmo della ragione non venne disturbata neanche quando una volta trapelò la notizia che uno dei colleghi aveva detto che nella nostra università c’era una stranezza: due facoltà che si occupavano di una cosa che non esisteva – di Dio.  Che anche di fronte ad uno scetticismo così radicale resti necessario e ragionevole interrogarsi su Dio per mezzo della ragione e ciò debba essere fatto nel contesto della tradizione della fede cristiana: questo, nell’insieme dell’università, era una convinzione indiscussa.
 
Tutto ciò mi tornò in mente, quando recentemente lessi la parte edita dal professore Theodore Khoury (Münster) del dialogo che il dotto imperatore bizantino Manuele II Paleologo, forse durante i quartieri d’inverno del 1391 presso Ankara, ebbe con un persiano colto su cristianesimo e islam e sulla verità di ambedue. Fu poi probabilmente l’imperatore stesso ad annotare, durante l’assedio di Costantinopoli tra il 1394 e il 1402, questo dialogo; si spiega così perché i suoi ragionamenti siano riportati in modo molto più dettagliato che non le risposte dell’erudito persiano. Il dialogo si estende su tutto l’ambito delle strutture della fede contenute nella Bibbia e nel Corano e si sofferma soprattutto sull’immagine di Dio e dell’uomo, ma necessariamente anche sempre di nuovo sulla relazione tra le “tre Leggi”: Antico Testamento – Nuovo Testamento – Corano. Vorrei toccare in questa lezione solo un argomento – piuttosto marginale nella struttura del dialogo – che, nel contesto del tema “fede e ragione”, mi ha affascinato e che mi servirà come punto di partenza per le mie riflessioni su questo tema.
 
Nel settimo colloquio (διάλεξις – controversia) edito dal prof. Khoury, l’imperatore tocca il tema della jihād (guerra santa). Sicuramente l’imperatore sapeva che nella sura 2, 256 si legge: “Nessuna costrizione nelle cose di fede“. È una delle sure del periodo iniziale in cui Maometto stesso era ancora senza potere e minacciato. Ma, naturalmente, l’imperatore conosceva anche le disposizioni, sviluppate successivamente e fissate nel Corano, circa la guerra santa. Senza soffermarsi sui particolari, come la differenza di trattamento tra coloro che possiedono il “Libro” e gli “increduli”, egli, in modo sorprendentemente brusco, si rivolge al suo interlocutore semplicemente con la domanda centrale sul rapporto tra religione e violenza in genere, dicendo: “Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava“. L’imperatore spiega poi minuziosamente le ragioni per cui la diffusione della fede mediante la violenza è cosa irragionevole. La violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura dell’anima. “Dio non si compiace del sangue; non agire secondo ragione (σὺν λόγω) è contrario alla natura di Dio. La fede è frutto dell’anima, non del corpo. Chi quindi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza e della minaccia… Per convincere un’anima ragionevole non è necessario disporre né del proprio braccio, né di strumenti per colpire né di qualunque altro mezzo con cui si possa minacciare una persona di morte…”.
 
L’affermazione decisiva in questa argomentazione contro la conversione mediante la violenza è: non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio. L’editore, Theodore Khoury, commenta: per l’imperatore, come bizantino cresciuto nella filosofia greca, quest’affermazione è evidente. Per la dottrina musulmana, invece, Dio è assolutamente trascendente. La sua volontà non è legata a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza. In questo contesto Khoury cita un’opera del noto islamista francese R. Arnaldez, il quale rileva che Ibn Hazn si spinge fino a dichiarare che Dio non sarebbe legato neanche dalla sua stessa parola e che niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la verità. Se fosse sua volontà, l’uomo dovrebbe praticare anche l’idolatria.
 
Qui si apre, nella comprensione di Dio e quindi nella realizzazione concreta della religione, un dilemma che oggi ci sfida in modo molto diretto. La convinzione che agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio, è soltanto un pensiero greco o vale sempre e per se stesso? Io penso che in questo punto si manifesti la profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia. Modificando il primo versetto del Libro della Genesi, Giovanni ha iniziato il prologo del suo Vangelo con le parole: “In principio era il λόγος“. È questa proprio la stessa parola che usa l’imperatore: Dio agisce con logos. Logos significa insieme ragione e parola – una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto, come ragione. Giovanni con ciò ci ha donato la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi. In principio era il logos, e il logos è Dio, ci dice l’evangelista. L’incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso. La visione di san Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie dell’Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì la sua supplica: “Passa in Macedonia e aiutaci!” (cfr At 16,6-10) – questa visione può essere interpretata come una “condensazione” della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e l’interrogarsi greco.
 
In realtà, questo avvicinamento ormai era avviato da molto tempo. Già il nome misterioso di Dio dal roveto ardente, che distacca questo Dio dall’insieme delle divinità con molteplici nomi affermando soltanto il suo essere, è, nei confronti del mito, una contestazione con la quale sta in intima analogia il tentativo di Socrate di vincere e superare il mito stesso. Il processo iniziato presso il roveto raggiunge, all’interno dell’Antico Testamento, una nuova maturità durante l’esilio, dove il Dio d’Israele, ora privo della Terra e del culto, si annuncia come il Dio del cielo e della terra, presentandosi con una semplice formula che prolunga la parola del roveto: “Io sono“. Con questa nuova conoscenza di Dio va di pari passo una specie di illuminismo, che si esprime in modo drastico nella derisione delle divinità che sono soltanto opera delle mani dell’uomo (cfr Sal 115). Così, nonostante tutta la durezza del disaccordo con i sovrani ellenistici, che volevano ottenere con la forza l’adeguamento allo stile di vita greco e al loro culto idolatrico, la fede biblica, durante l’epoca ellenistica, andava interiormente incontro alla parte migliore del pensiero greco, fino ad un contatto vicendevole che si è poi realizzato specialmente nella tarda letteratura sapienziale. Oggi noi sappiamo che la traduzione greca dell’Antico Testamento, realizzata in Alessandria – la “Settanta” –, è più di una semplice (da valutare forse in modo poco positivo) traduzione del testo ebraico: è infatti una testimonianza testuale a se stante e uno specifico importante passo della storia della Rivelazione, nel quale si è realizzato questo incontro in un modo che per la nascita del cristianesimo e la sua divulgazione ha avuto un significato decisivo. Nel profondo, vi si tratta dell’incontro tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione. Partendo veramente dall’intima natura della fede cristiana e, al contempo, dalla natura del pensiero ellenistico fuso ormai con la fede, Manuele II poteva dire: Non agire “con il logos” è contrario alla natura di Dio.
 
Per onestà bisogna annotare a questo punto che, nel tardo Medioevo, si sono sviluppate nella teologia tendenze che rompono questa sintesi tra spirito greco e spirito cristiano. In contrasto con il cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista iniziò con Duns Scoto una impostazione volontaristica, la quale alla fine portò all’affermazione che noi di Dio conosceremmo soltanto la voluntas ordinata. Al di là di essa esisterebbe la libertà di Dio, in virtù della quale Egli avrebbe potuto creare e fare anche il contrario di tutto ciò che effettivamente ha fatto. Qui si profilano delle posizioni che, senz’altro, possono avvicinarsi a quelle di Ibn Hazn e potrebbero portare fino all’immagine di un Dio-Arbitrio, che non è legato neanche alla verità e al bene. La trascendenza e la diversità di Dio vengono accentuate in modo così esagerato, che anche la nostra ragione, il nostro senso del vero e del bene non sono più un vero specchio di Dio, le cui possibilità abissali rimangono per noi eternamente irraggiungibili e nascoste dietro le sue decisioni effettive. In contrasto con ciò, la fede della Chiesa si è sempre attenuta alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo eterno Spirito creatore e la nostra ragione creata esista una vera analogia, in cui certo le dissomiglianze sono infinitamente più grandi delle somiglianze, non tuttavia fino al punto da abolire l’analogia e il suo linguaggio (cfr Lat IV). Dio non diventa più divino per il fatto che lo spingiamo lontano da noi in un volontarismo puro ed impenetrabile, ma il Dio veramente divino è quel Dio che si è mostrato come logos e come logos ha agito e agisce pieno di amore in nostro favore. Certo, l’amore “sorpassa” la conoscenza ed è per questo capace di percepire più del semplice pensiero (cfr Ef 3,19), tuttavia esso rimane l’amore del Dio-logos, per cui il culto cristiano è λογικὴ λατρεία – un culto che concorda con il Verbo eterno e con la nostra ragione (cfr Rm 12,1).
 
Il qui accennato vicendevole avvicinamento interiore, che si è avuto tra la fede biblica e l’interrogarsi sul piano filosofico del pensiero greco, è un dato di importanza decisiva non solo dal punto di vista della storia delle religioni, ma anche da quello della storia universale – un dato che ci obbliga anche oggi. Considerato questo incontro, non è sorprendente che il cristianesimo, nonostante la sua origine e qualche suo sviluppo importante nell’Oriente, abbia infine trovato la sua impronta storicamente decisiva in Europa. Possiamo esprimerlo anche inversamente: questo incontro, al quale si aggiunge successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha creato l’Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa.
Alla tesi che il patrimonio greco, criticamente purificato, sia una parte integrante della fede cristiana, si oppone la richiesta della dis-ellenizzazione del cristianesimo – una richiesta che dall’inizio dell’età moderna domina in modo crescente la ricerca teologica. Visto più da vicino, si possono osservare tre onde nel programma della dis-ellenizzazione: pur collegate tra di loro, esse tuttavia nelle loro motivazioni e nei loro obiettivi sono chiaramente distinte l’una dall’altra.
 
La dis-ellenizzazione emerge dapprima in connessione con i postulati fondamentali della Riforma del XVI secolo. Considerando la tradizione delle scuole teologiche, i riformatori si vedevano di fronte ad una sistematizzazione della fede condizionata totalmente dalla filosofia, di fronte cioè ad una determinazione della fede dall’esterno in forza di un modo di pensare che non derivava da essa. Così la fede non appariva più come vivente parola storica, ma come elemento inserito nella struttura di un sistema filosofico. Il sola Scriptura invece cerca la pura forma primordiale della fede, come essa è presente originariamente nella Parola biblica. La metafisica appare come un presupposto derivante da altra fonte, da cui occorre liberare la fede per farla tornare ad essere totalmente se stessa. Con la sua affermazione di aver dovuto accantonare il pensare per far spazio alla fede, Kant ha agito in base a questo programma con una radicalità imprevedibile per i riformatori. Con ciò egli ha ancorato la fede esclusivamente alla ragione pratica, negandole l’accesso al tutto della realtà.
 
La teologia liberale del XIX e del XX secolo apportò una seconda onda nel programma della dis-ellenizzazione: di essa rappresentante eminente è Adolf von Harnack. Durante il tempo dei miei studi, come nei primi anni della mia attività accademica, questo programma era fortemente operante anche nella teologia cattolica. Come punto di partenza era utilizzata la distinzione di Pascal tra il Dio dei filosofi ed il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Nella mia prolusione a Bonn, nel 1959, ho cercato di affrontare questo argomento. Non intendo riprendere qui tutto il discorso. Vorrei però tentare di mettere in luce almeno brevemente la novità che caratterizzava questa seconda onda di dis-ellenizzazione rispetto alla prima. Come pensiero centrale appare, in Harnack, il ritorno al semplice uomo Gesù e al suo messaggio semplice, che verrebbe prima di tutte le teologizzazioni e, appunto, anche prima delle ellenizzazioni: sarebbe questo messaggio semplice che costituirebbe il vero culmine dello sviluppo religioso dell’umanità. Gesù avrebbe dato un addio al culto in favore della morale. In definitiva, Egli viene rappresentato come padre di un messaggio morale umanitario. Lo scopo di ciò è in fondo di riportare il cristianesimo in armonia con la ragione moderna, liberandolo, appunto, da elementi apparentemente filosofici e teologici, come per esempio la fede nella divinità di Cristo e nella trinità di Dio. In questo senso, l’esegesi storico-critica del Nuovo Testamento sistema nuovamente la teologia nel cosmo dell’università: teologia, per Harnack, è qualcosa di essenzialmente storico e quindi di strettamente scientifico. Ciò che essa indaga su Gesù mediante la critica è, per così dire, espressione della ragione pratica e di conseguenza anche sostenibile nell’insieme dell’università. Nel sottofondo c’è l’autolimitazione moderna della ragione, espressa in modo classico nelle “critiche” di Kant, nel frattempo però ulteriormente radicalizzata dal pensiero delle scienze naturali. Questo concetto moderno della ragione si basa, per dirla in breve, su una sintesi tra platonismo (cartesianismo) ed empirismo, che il successo tecnico ha confermato. Da una parte si presuppone la struttura matematica della materia, la sua per così dire razionalità intrinseca, che rende possibile comprenderla ed usarla nella sua efficacia operativa: questo presupposto di fondo è, per così dire, l’elemento platonico nel concetto moderno della natura. Dall’altra parte, si tratta della utilizzabilità funzionale della natura per i nostri scopi, dove solo la possibilità di controllare verità o falsità mediante l’esperimento fornisce la certezza decisiva. Il peso tra i due poli può, a seconda delle circostanze, stare più dall’una o più dall’altra parte. Un pensatore così strettamente positivista come J. Monod si è dichiarato convinto platonico o cartesiano.
 
Questo comporta due orientamenti fondamentali decisivi per la nostra questione. Soltanto il tipo di certezza derivante dalla sinergia di matematica ed empiria ci permette di parlare di scientificità. Ciò che pretende di essere scienza deve confrontarsi con questo criterio. E così anche le scienze che riguardano le cose umane, come la storia, la psicologia, la sociologia e la filosofia, cercano di avvicinarsi a questo canone della scientificità. Importante per le nostre riflessioni, comunque, è ancora il fatto che il metodo come tale esclude il problema Dio, facendolo apparire come problema ascientifico o pre-scientifico. Con questo, però, ci troviamo davanti ad una riduzione del raggio di scienza e ragione che è doveroso mettere in questione.
Torneremo ancora su questo argomento. Per il momento basta tener presente che, in un tentativo alla luce di questa prospettiva di conservare alla teologia il carattere di disciplina “scientifica”, del cristianesimo resterebbe solo un misero frammento. Ma dobbiamo dire di più: è l’uomo stesso che con ciò subisce una riduzione. Poiché allora gli interrogativi propriamente umani, cioè quelli del “da dove” e del “verso dove”, gli interrogativi della religione e dell’ethos, non possono trovare posto nello spazio della comune ragione descritta dalla “scienza” e devono essere spostati nell’ambito del soggettivo. Il soggetto decide, in base alle sue esperienze, che cosa gli appare religiosamente sostenibile, e la “coscienza” soggettiva diventa in definitiva l’unica istanza etica. In questo modo, però, l’ethos e la religione perdono la loro forza di creare una comunità e scadono nell’ambito della discrezionalità personale. È questa una condizione pericolosa per l’umanità: lo costatiamo nelle patologie minacciose della religione e della ragione – patologie che necessariamente devono scoppiare, quando la ragione viene ridotta a tal punto che le questioni della religione e dell’ethos non la riguardano più. Ciò che rimane dei tentativi di costruire un’etica partendo dalle regole dell’evoluzione o dalla psicologia e dalla sociologia, è semplicemente insufficiente.
 
Prima di giungere alle conclusioni alle quali mira tutto questo ragionamento, devo accennare ancora brevemente alla terza onda della dis-ellenizzazione che si diffonde attualmente. In considerazione dell’incontro con la molteplicità delle culture si ama dire oggi che la sintesi con l’ellenismo, compiutasi nella Chiesa antica, sarebbe stata una prima inculturazione, che non dovrebbe vincolare le altre culture. Queste dovrebbero avere il diritto di tornare indietro fino al punto che precedeva quella inculturazione per scoprire il semplice messaggio del Nuovo Testamento ed inculturarlo poi di nuovo nei loro rispettivi ambienti. Questa tesi non è semplicemente sbagliata; è tuttavia grossolana ed imprecisa. Il Nuovo Testamento, infatti, e stato scritto in lingua greca e porta in se stesso il contatto con lo spirito greco – un contatto che era maturato nello sviluppo precedente dell’Antico Testamento. Certamente ci sono elementi nel processo formativo della Chiesa antica che non devono essere integrati in tutte le culture. Ma le decisioni di fondo che, appunto, riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte della fede stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura.
 
Con ciò giungo alla conclusione. Questo tentativo, fatto solo a grandi linee, di critica della ragione moderna dal suo interno, non include assolutamente l’opinione che ora si debba ritornare indietro, a prima dell’illuminismo, rigettando le convinzioni dell’età moderna. Quello che nello sviluppo moderno dello spirito è valido viene riconosciuto senza riserve: tutti siamo grati per le grandiose possibilità che esso ha aperto all’uomo e per i progressi nel campo umano che ci sono stati donati. L’ethos della scientificità, del resto, è volontà di obbedienza alla verità e quindi espressione di un atteggiamento che fa parte della decisione di fondo dello spirito cristiano. Non ritiro, non critica negativa è dunque l’intenzione; si tratta invece di un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa. Perché con tutta la gioia di fronte alle possibilità dell’uomo, vediamo anche le minacce che emergono da queste possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo dominarle. Ci riusciamo solo se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell’esperimento, e dischiudiamo ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza. In questo senso la teologia, non soltanto come disciplina storica e umano-scientifica, ma come teologia vera e propria, cioè come interrogativo sulla ragione della fede, deve avere il suo posto nell’università e nel vasto dialogo delle scienze.
 
Solo così diventiamo anche capaci di un vero dialogo delle culture e delle religioni – un dialogo di cui abbiamo un così urgente bisogno. Nel mondo occidentale domina largamente l’opinione, che soltanto la ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano universali. Ma le culture profondamente religiose del mondo vedono proprio in questa esclusione del divino dall’universalità della ragione un attacco alle loro convinzioni più intime. Una ragione, che di fronte al divino è sorda e respinge la religione nell’ambito delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture. E tuttavia, la moderna ragione propria delle scienze naturali, con l’intrinseco suo elemento platonico, porta in sé, come ho cercato di dimostrare, un interrogativo che la trascende insieme con le sue possibilità metodiche. Essa stessa deve semplicemente accettare la struttura razionale della materia e la corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture razionali operanti nella natura come un dato di fatto, sul quale si basa il suo percorso metodico. Ma la domanda sul perché di questo dato di fatto esiste e deve essere affidata dalle scienze naturali ad altri livelli e modi del pensare – alla filosofia e alla teologia. Per la filosofia e, in modo diverso, per la teologia, l’ascoltare le grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni religiose dell’umanità, specialmente quella della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza; rifiutarsi ad essa significherebbe una riduzione inaccettabile del nostro ascoltare e rispondere. Qui mi viene in mente una parola di Socrate a Fedone. Nei colloqui precedenti si erano toccate molte opinioni filosofiche sbagliate, e allora Socrate dice: “Sarebbe ben comprensibile se uno, a motivo dell’irritazione per tante cose sbagliate, per il resto della sua vita prendesse in odio ogni discorso sull’essere e lo denigrasse. Ma in questo modo perderebbe la verità dell’essere e subirebbe un grande danno“. L’occidente, da molto tempo, è minacciato da questa avversione contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione, e così può subire solo un grande danno. Il coraggio di aprirsi all’ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza – è questo il programma con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica, entra nella disputa del tempo presente. “Non agire secondo ragione (con il logos) è contrario alla natura di Dio“, ha detto Manuele II, partendo dalla sua immagine cristiana di Dio, all’interlocutore persiano. È a questo grande logos, a questa vastità della ragione, che invitiamo nel dialogo delle culture i nostri interlocutori. Ritrovarla noi stessi sempre di nuovo, è il grande compito dell’università.
 
 
Fonte: Da Radio Vaticana del  12 settembre 2016


venerdì 30 dicembre 2022

FIABE. Estratto da "Ortodossia" di G.K. Chesterton




FIABE
Estratto da  "Ortodossia" di G.K. Chesterton 
Le fiabe delle fate non sono affatto evasioni; lungi dall'essere irreali sono più reali del reale perché sono un tentativo di dirne la verità profonda:
La mia prima ed ultima filosofia, quella alla quale ho creduto con ininterrotta certezza, l'ho imparata da bambino. L'ho imparata generalmente da una nutrice: solenne e predestinata sacerdotessa della democrazia e della tradizione. Le cose in cui ho sempre creduto di più, allora ed ora, sono le cosiddette novelle delle fate: che a me sembrano cose interamente ragionevoli. Non sono fantastiche: tante altre cose, al loro confronto sono fantastiche. Al loro confronto la religione e il razionalismo sono tutt'e due anormali, sebbene la religione sia anormalmente vera e il razionalismo anormalmente falso. II paese delle fate è il soleggiato paese del senso comune”. (GKC, Ortodossia, pagg. 67-68)
Ci spiega Chesterton che è il giardino delle fate che insegna all'uomo la corretta definizione della ragione così come essa è, liberata dalle restrizioni e dalle amputazioni alle quali la tradizione filosofica, derivata in vario modo dall'Illuminismo, ci ha abituato. È la ragione che rifiuta sia il determinismo, che vuole ricondurre tutto al meccanismo della natura che sarebbe governata da leggi universali e necessarie, ma che i vari scetticismi, che traggono dall'impossibilità di fondare le affermazioni della ragione una visione di  insensatezza del mondo.
Sto ri-leggendo Ortodossia di Chesterton. Scrive:"Mi sta a cuore quel modo di considerare la vita che ho acquisito attraverso le fiabe, e che ho poi tranquillamente sperimentato con i fatti.”....contenuto in  “Ma qui voglio illustrare ciò che nell’etica e nella filosofia trae nutrimento dalle fiabe. Se le descrivessi nei particolari, potrei cogliere i molti principi nobili e sani che ne derivano. Nella fiaba Jack l’ammazzagiganti c’è una lezione di cavalleria: i giganti dovrebbero essere uccisi perché sono giganteschi. È una virile ribellione contro l’orgoglio in quanto tale. La figura del ribelle è più antica di tutti i regni e il Giacobino ha una tradizione più lunga del Giacobita 3. C’è una lezione anche in Cenerentola, che è la stessa del Magnificat: exaltavit humiles. Anche in La Bella e la Bestia c’è una grande lezione: una cosa deve essere amata prima di essere amabile. C’è una terribile allegoria in La bella addormentata nel bosco, che racconta come una creatura umana alla nascita sia stata benedetta da molti doni, ma abbia ricevuto anche la maledizione della morte, poi attenuata in una condanna a un lungo sonno. Non voglio occuparmi delle varie regole che governano il paese delle fate, ma dello spirito che anima la sua legge. Io l’ho assimilato ancora prima di imparare a parlare e lo serberò dentro di me anche quando non sarò più in grado di scrivere. Mi sta a cuore quel modo di considerare la vita che ho acquisito attraverso le fiabe, e che ho poi tranquillamente sperimentato con i fatti.”

giovedì 29 dicembre 2022

L'ULTIMO SOGNO DELLA VECCHIA QUERCIA Estratto da "Fiabe" H.C. Andersen



L'ULTIMO SOGNO DELLA VECCHIA QUERCIA
Estratto da "Fiabe"
H. C. Andersen
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[...] «Poverina! Tutta la tua vita dura solo un giorno! ah, com’è breve il tempo tuo! Questo è davvero così triste!».
«Triste? – rispondeva sempre l’Effimera – che cosa vuoi dire? Tutto intorno a me è meravigliosamente chiaro, caldo e bello, e questo mi rende felice!».
«Ma dura solo un giorno, poi tutto è finito!».
«Finito? – replicò l’Effimera – che cosa è finito?[...]
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        L'ULTIMO SOGNO DELLA                       VECCHIA QUERCIA
Nel bosco in cima alla collina, lungo la riva del mare aperto, stava una vecchia quercia. Aveva trecentosessantacinque anni, ma questo lungo periodo di tempo corrisponde per la quercia a non più di altrettanti giorni per noi uomini; noi ci svegliamo al mattino, dormiamo di notte e facciamo i nostri sogni; per gli alberi è diverso: restano svegli per tre stagioni e solo d’inverno dormono, l’inverno è il loro periodo di riposo, è la loro notte dopo il lungo giorno che si chiama primavera, estate e autunno.
Per molte giornate estive, l’Effimera, la piccola mosca che non vive più di un solo giorno, aveva danzato intorno alla sua corona di foglie, aveva vissuto, volato e si era sentita felice, e quando s’era stancata, veniva a riposarsi un attimo, tranquilla e beata, su una delle grosse foglie fresche della quercia.
E allora l’albero le diceva: «Poverina! Tutta la tua vita dura solo un giorno! ah, com’è breve il tempo tuo! Questo è davvero così triste!».
«Triste? – rispondeva sempre l’Effimera – che cosa vuoi dire? Tutto intorno a me è meravigliosamente chiaro, caldo e bello, e questo mi rende felice!».
«Ma dura solo un giorno, poi tutto è finito!».
«Finito? – replicò l’Effimera – che cosa è finito? Anche tu finisci?».
«No, io vivrò probabilmente ancora migliaia dei vostri giorni, e ogni mio giorno corrisponde a un anno intero. È un tempo così lungo che non te lo puoi neppure immaginare!».
«No, non ti capisco. Dici che hai migliaia dei miei giorni, ma io ho migliaia di momenti di gioia e di felicità! Finirà forse tutta la bellezza di questo mondo, quando tu morirai?».
«No – rispose l’albero – durerà certamente a lungo e molto più a lungo di quanto si possa pensare!».
«Come vedi, abbiamo tutt’e due uno stesso tempo, solo che lo calcoliamo in modo diverso!».
L’Effimera danzò e svolazzò nell’aria, e si rallegrò delle sue sottili ali di garza e di velluto, e gioì della tiepida brezza, satura dei profumi dei campi di trifoglio, delle rose selvatiche della siepe, del sambuco e del caprifoglio, per non parlare dell’asperula odorosa, della primula e della menta selvatica; la loro fragranza era così intensa che l’Effimera quasi se ne ubriacò.
Il giorno fu lungo e bellissimo, pieno di gioia e di dolci sensazioni; e quando il sole tramontò, l’Effimera si sentì piacevolmente stanca di tutta quella felicità. Le ali non la volevano più sostenere, così si posò lentamente su un morbido stelo d’erba ondeggiante, piegò la testa come poté e si addormentò felice: era la morte.
«Povera piccola effimera! – disse la quercia – è stata una vita molto breve!».
Ogni giorno d’estate si ripeteva la stessa danza, la stessa domanda, la stessa risposta, e lo stesso sonno finale. Si ripeteva di generazione in generazione di effimere, e tutte erano ugualmente felici, ugualmente contente.
La quercia rimase sveglia durante il mattino della primavera, per tutto il meriggio dell’estate e la sera dell’autunno, e il suo tempo di dormire, la sua notte, l’inverno, era sempre più vicino.
Già i temporali cantavano il loro: «Buona notte! Buona notte!», e mentre una foglia cadeva di qua, e un’altra di là: «Noi le raccogliamo – cantavano. – Tu cerca di dormire! Ti canteremo noi la ninnananna, ti dondoleremo noi nel sonno, questo fa bene ai vecchi rami, non è vero? Scricchiolano già dalla gioia! Dormi bene! Dormi bene! È la tua trecentosessantacinquesima notte, sei ancora un bimbo di un anno! Dormi bene! Le nuvole ti cospargeranno di neve, e ci sarà una bella coltre morbida e tiepida sui tuoi piedi. Dormi bene e sogni d’oro!».
E la quercia, spogliatasi del suo fogliame, era pronta per dormire il lungo inverno, in cui sognare tanti sogni, sempre cose vissute, come nei sogni degli uomini.
Una volta era stata piccola e aveva tratto origine da una ghianda; secondo il calcolo degli uomini, ora era nel suo quarto secolo: era l’albero più grande e più robusto del bosco: la sua chioma dominava su tutti gli altri alberi e la si poteva scorgere anche da molto lontano, dal mare aperto era un segnale per le navi. L’albero però nemmeno aveva idea di quanti occhi, nel mondo, lo cercassero.
In cima alle sue fronde verdi aveva fatto il nido la colomba, e il cuculo balzava di ramo in ramo e cantava il suo cucù; d’autunno, quando le foglie sembravano lamine di rame, arrivavano gli uccelli migratori e vi si riposavano prima di spiccare il volo per il mare aperto. Ora però era inverno, l’albero era senza foglie, e tutti potevano vedere come erano contorti e nodosi i rami che uscivano dal suo tronco. Le cornacchie e i corvi vi si posavano a turno e parlavano dei tempi duri che stavano per cominciare e delle difficoltà di procurarsi da vivere durante l’inverno. Era quasi il giorno di Natale quando la quercia sognò il suo sogno più bello: ascoltiamolo!
Ebbe la sensazione che quella fosse una giornata di festa, e le sembrò di sentire tutte le campane delle chiese suonare a festa, quasi fosse un bel giorno estivo, tanto l’aria era calda e mite. La quercia dispiegava la sua fitta chioma, fresca e verde, i raggi del sole giocavano tra i rami e le foglie, l’aria era piena del profumo delle erbe e dei boccioli, le farfalle multicolori giocavano a rincorrersi e le effimere ballavano: era come se tutto esistesse soltanto perché potessero ballare e divertirsi.
Tutto quello che l’albero aveva vissuto e visto, nei suoi lunghi anni di vita, accadere intorno a lui, gli sfilò davanti, come in un corteo. Vide cavalieri e dame dei tempi antichi, con piume sui cappelli e falconi in pugno, cavalcare nel bosco; il corno da caccia risuonò e i cani abbaiarono. E vide guerrieri nemici in armature lucenti, con sproni e alabarde, montare e smontare le tende; i fuochi delle sentinelle ardevano e si cantava e si dormiva sotto i rami tesi della quercia. E vide anche coppie d’innamorati che s’incontravano pieni di gioia al chiaro di luna e incidevano i loro nomi, le loro iniziali, nella sua corteccia grigio-verde.
Una volta, moltissimi anni prima, cetre e arpe eolie erano state appese ai suoi rami da certi cantori erranti; ora erano ancora lì appese e risuonavano con tanta dolcezza. Le colombe tubavano come volessero raccontare quello che l’albero provava, e il cuculo lo chiamava per dirgli quanti giorni d’estate la quercia doveva ancora vivere.
Fu come se una nuova linfa di vita scorresse dalle sue radici più intime fino ai rami suoi più alti; l’albero sentì che si stava protendendo coi rami, e che nelle sue radici c’era vita e moto, anche sottoterra; sentì crescere le sue forze e crebbe sempre più alto. Il tronco non cessava d’innalzarsi, la sua chioma si faceva sempre più folta e ampia, e l’albero, man mano che cresceva, sentiva crescere anche la sua felicità e il suo gioioso desiderio di elevarsi sempre più in alto, fino al caldo sole luminoso.
Ormai era cresciuto così oltre le nubi, che sotto la sua chioma fluttuavano oscuri stormi di uccelli migratori o grandi frotte di cigni bianchi! E ogni sua foglia poteva vedere quasi avesse avuto gli occhi; le stelle erano visibili anche alla luce del giorno, grandi e sfavillanti, e ognuna scintillava come un occhio così mite e chiaro da ricordargli tutti quei cari occhi, occhi di bambini, occhi di innamorati, che si erano dati convegno sotto i suoi rami.
Che momento meraviglioso fu quello, e che gioia! Eppure, in tutta quella gioia, la quercia provò nostalgia, e desiderò che tutti gli altri alberi del bosco, tutti i cespugli, le erbe e i fiori si potessero innalzare insieme a lei, e potessero provare quella gioia e godere di quello splendore. La grande quercia, nel suo sogno di grandezza, non sarebbe stata pienamente felice se non li avesse avuti tutti quanti con sé, grandi e piccini, e questo sentimento inappagato fu un fremito che si ripercosse in ogni suo ramo, in ogni sua foglia, caldo e fervido come in un cuore umano.
La chioma della quercia ondeggiava quasi stesse cercando qualcosa nel suo silenzioso desiderare, e quando guardò sotto di sé, sentì il profumo delle asperule e subito dopo, ancor più intenso, quello dei caprifogli e delle viole, e le sembrò che il cuculo le rispondesse.
Tra le nuvole spuntavano le verdi cime della foresta; la quercia vide, sotto di sé, gli altri alberi che crescevano e si innalzavano. Siepi ed erbe si tendevano verso il cielo; alcune si strappavano dalla terra le radici per salire più in fretta. La betulla era la più lesta: come un raggio bianco luminoso il suo tronco si allungava verso l’alto e i rami si piegavano come verdi veli o stendardi; tutte le piante del bosco, persino le canne brune e piumate, crescevano con la quercia, mentre gli uccelli la seguivano cantando; su un filo d’erba che pareva uno svolazzante nastro di seta verde stava una cavalletta che suonava con le ali; i maggiolini brontolavano e le api ronzavano; ogni uccello usava il proprio strumento, e tutto fu un solo canto di gioia verso il cielo.
«Quel fiorellino rosso, là sulla riva del mare, anche lui deve salire con noi! – esclamò la quercia – E così pure la campanula azzurra, e la margheritina!». Perché, vedete, la quercia li voleva tutti con sé.
«Ci siamo anche noi, ci siamo anche noi!», gridarono i fiori.
«E quelle belle asperule dell’estate scorsa; e l’anno passato c’era un’aiuola di mughetti! e il melo selvatico, come era bello! E tutta la magnificenza del bosco, che ogni anno fa ritorno! Se fosse primavera, sarebbero tutti qui!».
«Ci siamo anche noi, ci siamo anche noi!», risposero voci ancor più in alto nell’aria; sembrava che la avessero preceduta in volo.
«È troppo bello! – gridò la quercia giubilante. – Sono tutti qui, grandi e piccoli! Nessuno è stato dimenticato! Come si può immaginare una tale felicità? Com’è possibile?».
«In cielo, nel regno più bello, si può immaginarla, sì è possibile!», disse una voce nello spazio.
La quercia, che intanto continuava a crescere, sentì che le sue radici si erano staccate dalla terra. «È giusto così, è il meglio che possa accadere! – commentò. – Ora non c’è più nulla che mi trattiene! Posso volare in cielo, nel fulgore e nello splendore! E ho con me tutti i miei cari. Grandi e piccoli. Tutti quanti, tutti!».
Questo fu il sogno della vecchia quercia. E mentre così sognava, un uragano spaventoso si scatenò in mare e sulla terra, nella notte santa di Natale. Il mare rovesciò grosse onde sulla spiaggia, e l’albero scricchiolò, si schiantò e si sradicò proprio nel momento in cui stava sognando che le radici si erano liberate.
La quercia cadde. I suoi trecentosessantacinque anni furono allora pari all’unico giorno dell’Effimera.
Il mattino di Natale, quando spuntò il giorno, l’uragano s’era placato. Tutte le campane delle chiese suonarono a festa e da ogni camino, anche da quello più umile, si levò il fumo azzurrognolo come quello che nelle feste dei druidi si levava dall’altare; era il fumo del sacrificio, del ringraziamento.
Il mare poco a poco si calmò, e a bordo di tutte le navi che avevano vittoriosamente lottato con la tempesta, tutte le bandiere furono spiegate, in segno di gioia e di festa.
«L’albero non c’è più! La vecchia quercia, il nostro segnale sulla costa! – dissero i marinai. – È caduta con la tempesta di questa notte. Chi potrà mai sostituirlo? Nessuno».
Questo fu il breve, ma accorato discorso funebre che fecero sulle sue spoglie. L’albero giaceva disteso sulla coltre di neve che copriva la spiaggia; sopra di esso risuonò il canto che veniva dalla nave, quello sulla gioia del Natale, il canto della redenzione degli uomini in Dio, nella vita eterna.
Cantate schiere dei templi di Dio!
Alleluia, alleluia!
Questa gioia è senza uguali!
Alleluia, Alleluia!
Così diceva l’antico canto, e ogni marinaio sulle navi, cantandolo, si sentiva sollevare nella sua preghiera, proprio come la vecchia quercia si era sentita innalzare nel suo ultimo magnifico sogno della notte di Natale.

IL PESCATORE E LA SUA ANIMA Oscar Wilde


IL PESCATORE E LA SUA ANIMA
Oscar Wilde

La storia riprende  il racconto di "La Sirenetta" di H. C. Andersen, ma la capovolge. Non è più la giovane Sirena ad innamorarsi dell’umano, ma viceversa un uomo, un pescatore, a rimanere incantato alla vista di lei e per legarsi alla Sirena che ama, rinuncerà alla sua anima   Qui l’Anima non è il traguardo finale, ma viceversa, un peso di cui liberarsi per essere felice. 
L’impossibilità dell’amore è il tema che ricorre in tutte le storie di Sirene ed è anche quello che tormenta Wilde nella sua vita tormentata e perseguitata. 

IL PESCATORE E LA SUA ANIMA
Ogni sera il giovane Pescatore andava al largo, sul mare, e gettava le sue reti nell’acqua.
Quando il vento soffiava da terra egli non prendeva nulla, o ben poco nel migliore dei casi, poiché quello era un vento aspro e dalle nere ali, e le onde si agitavano per andargli incontro. Ma quando il vento soffiava verso la spiaggia, i pesci salivano dal profondo a nuotare dentro le maglie delle reti, ed egli li portava al mercato e li vendeva.
Ogni sera egli andava al largo, sul mare, e una sera la rete era così pesante che quasi non riusciva a tirarla sulla barca. E il Pescatore rise, e si disse: «Di certo avrò catturato tutti i pesci che nuotano o qualche mostro degli abissi che spaventerà gli uomini, o qualcosa di orribile che la Regina bramerà per sé», e tirò sulle ruvide funi con tutte le sue forze, finché, simili a righe di smalto turchese in un vaso di bronzo, le lunghe vene si gonfiarono sulle sue braccia. Tirò poi sulle corde sottili, e il cerchio di sugheri piatti si faceva sempre più vicino, e la rete alfine affiorò alla superficie dell’acqua.
Ma in essa non v’era alcun pesce, né alcun mostro o creatura orribile, soltanto una piccola Sirena immersa in un sonno profondo.
La sua chioma era come un vello d’oro bagnato, e ogni capello come un filo d’oro fino in una coppa di vetro. La sua persona era come avorio bianco, e la sua coda d’argento e di perla. Argento e perla era la sua coda, e le verdi alghe marine le si attorcigliavano intorno; e simili a conchiglie marine erano le sue orecchie, e le sue labbra a coralli marini. Le fredde ombre lambivano i suoi seni freddi, e sulle sue palpebre riluceva il sale.
Era talmente bella che al vederla il giovane Pescatore fu sopraffatto dalla meraviglia e protendendo una mano per trarre a sé la rete si sporse sul fianco della barca e prese la Sirena fra le braccia. E quando la toccò, ella emise il grido di un gabbiano spaurito, e si destò, e lo guardò coi suoi occhi d’ametista viola pieni di terrore, dibattendosi per liberarsi. Ma egli la stringeva forte a sé, e non l’avrebbe mai lasciata andare.
E quand’ella vide che non poteva in alcun modo sfuggirgli, si sciolse in pianto, e disse: «Lasciami andare, ti prego, sono l’ultima figlia di un Re, e mio padre è vecchio e solo».
Ma il giovane Pescatore rispose: «Non ti lascerò andare, a meno che tu non mi prometta che ogniqualvolta ti chiamerò verrai a cantare per me, poiché i pesci si deliziano ad ascoltare le Creature Marine, e così le mie reti si riempiranno».
«Davvero mi lascerai andare, se ti prometterò ciò che chiedi?», domandò lei.
«Ti lascerò andare», disse il giovane Pescatore.
Così ella promise ciò che egli desiderava, e giurò col giuramento delle Creature Marine. Ed egli allentò la stretta delle braccia, ed ella scivolò in acqua, tremante di una strana paura.
Ogni sera il giovane Pescatore andava al largo, sul mare, e chiamava la Sirena, ed ella appariva a fior d’acqua e cantava per lui. Intorno a lei nuotavano i delfini, e i gabbiani selvaggi danzavano sul suo capo.
Ed ella cantava un canto meraviglioso. Perché cantava delle Creature Marine che conducono le loro mandrie di grotta in grotta, e portano i vitellini sulle spalle; dei Tritoni con le lunghe barbe verdi e i petti villosi, che soffiano dentro ritorte conchiglie al passare del Re; del palazzo del Re, tutto d’ambra, con un tetto di limpido smeraldo e il pavimento di pietra lucente; e dei giardini del mare, dove i grandi ventagli di corallo fanno ondeggiare tutto il giorno le loro filigrane, e i pesci guizzano qua e là come uccelli d’argento, e le anemoni aderiscono tenaci agli scogli, e i garofani sbocciano nella rena gialla ondulata. Ella cantava delle enormi balene che vengono dai Mari del Nord e hanno ghiaccioli acuminati appesi alle pinne; delle Sirene, che narrano cose di una tale meraviglia che i mercanti devono otturarsi le orecchie con la cera per non udirle, altrimenti si getterebbero in acqua e annegherebbero; di vascelli affondati con tutte le loro alberature, coi marinai gelati aggrappati alle sartie e lo sgombro che nuota dentro e fuori dalle cannoniere aperte, delle minute ostriche da carena che viaggiano abbarbicate alle chiglie delle navi e girano tutto il mondo; delle seppie che dai fianchi delle rupi protendono le lunghe braccia nere e possono far venir notte quando vogliono. Ella cantava del nautilus con la sua barca scavata nell’opale e portata da una vela d’argento; delle felici Creature Marine che suonano l’arpa e sanno incantare il grosso Granchio fino a farlo addormentare; dei bimbi che agguantano i viscidi marsovini e cavalcano ridendo il loro dorso; delle Sirene adagiate nella bianca spuma che tendono le braccia ai naviganti; e dei leoni di mare dalle zanne ricurve, e dei cavalli marini dalle criniere fluttuanti.
E mentre ella cantava, tutti i tonni salivano dal profondo per ascoltarla, e il giovane Pescatore gettava le sue reti intorno a loro e li catturava, e altri ne prendeva con un arpione. E quando labarca era ben carica, la Sirena, sorridendogli, sprofondava giù nel mare.
Tuttavia, non gli si avvicinava mai tanto che egli potesse toccarla. Spesso egli la chiamava e la pregava, ma ella non voleva; e quando cercava di afferrarla, si tuffava in acqua come una foca, e per quel giorno non si faceva più vedere. E ogni giorno che passava il suono della sua voce si faceva più dolce. Tanto dolce era il canto di quella voce che egli dimenticava le sue reti e le sue insidie, e non si curava più della pesca. Tonni dalle pinne vermiglie, con occhi simili a borchie d’oro, passavano a frotte, ma egli non vi badava. Il suo arpione gli giaceva al fianco, inerte, e i panieri di vimini intrecciati erano vuoti. Le labbra socchiuse e gli occhioffuscati dalla meraviglia, egli se ne stava seduto languidamente nella barca e ascoltava, ascoltava finché le brume marine lo avvolgevano, e la luna errante tingeva d’argento le sue membra brune.
E una sera egli chiamò la Sirena e le disse: «Piccola Sirena, piccola Sirena, io ti amo. Accettami per tuo sposo, perché ti amo».
Ma la Sirena scosse il capo. «Tu hai un’anima umana», rispose. «Soltanto se ti separerai dalla tua anima, io potrò amarti».
E il giovane Pescatore si disse: «Che cosa me ne faccio della mia anima? Non posso vederla. Non posso toccarla. Non la conosco. Certo che me ne separerò, e ne trarrò molta gioia». E un grido di gioia proruppe dalle sue labbra, e levandosi in piedi nella barca dipinta, tese le braccia alla Sirena. «Manderò via la mia anima», esclamò, «tu sarai la mia sposa, e io sarò il tuo sposo, e dimoreremo per sempre in fondo al mare, e tutto quel che hai cantato me lo mostrerai, e tutto ciò che desidererai io farò, e nulla mai potrà dividere le nostre vite».
E la piccola Sirena rise di piacere, e si nascose il viso fra le mani.
«Ma come farò a separarmi dalla mia anima», chiese il giovane Pescatore, «dimmi come posso fare, e lo farò!».
«Ahimè, non so», disse la piccola Sirena. «Le Creature Marine non hanno anima». E scivolò giù nel profondo, guardandolo pensosa.
Ed ecco che la mattina del giorno dopo, prima che il sole fosse a una spanna sopra il colle, il giovane Pescatore si recò alla casa del Sacerdote e bussò tre volte alla porta.
Il novizio guardò attraverso il pertugio e quando vide chi era tirò a sé il saliscendi e gli disse: «Entra».
E il giovane Pescatore entrò, e s’inginocchiò sulla stuoia distesa sul pavimento, e chiamò il Sacerdote, che stava leggendo i sacri testi, e gli disse: «Padre, mi sono innamorato di una Creatura Marina, e la mia anima mi impedisce di realizzare il mio desiderio.Dimmi come posso fare per mandarla via da me, poiché invero non ne ho alcuna necessità. A che mi serve la mia anima? Non posso vederla. Non posso toccarla. Non la conosco».
E il Sacerdote, battendosi il petto, rispose: «Ahimè, ahimè, tu sei impazzito; o hai mangiato qualche erba velenosa; poiché l’anima è la parte piùnobile dell’uomo, e ci è stata data da Dio perché nobilmente ne facciamo uso. Non c’è cosa più preziosa di un’anima umana, né alcuna cosa terrestre può esserle paragonata. Essa vale più di tutto l’oro del mondo, ed è più preziosa dei rubini dei re. Dunque, figliolo mio, scaccia da te codesto pensiero, poiché è un peccato che non si può perdonare. Le Creature Marine sono esseri perduti, e così quelli che hanno rapporti con loro. Sono come le bestie selvagge che non distinguono il bene dal male, e il Signore non è morto per loro».
Gli occhi del giovane Pescatore, alle amare parole del Sacerdote, si riempirono di lacrime, ed egli si levò in piedi e disse: «Padre, i Fauni vivono nella foresta e sono felici; sugli scogli stanno i Tritoni, con le loro arpe d’oro porpora. Lascia che io sia come loro, ti supplico, perché i loro giorni sono come i giorni dei fiori. E quanto alla mia anima, a che mi serve, se mi allontana dall’essere che amo?»
«L’amore profano è vile», proclamò il Sacerdote accigliato, «e vili e perverse sono le creature pagane a cui Dio permette di vagare attraverso il Suo mondo. Maledetti i Fauni dei boschi e lecantatrici dei mari! Le ho udite, in certe notti, e cercavano di affascinarmi stornandomi dal mio rosario. Tamburellano con le dita alle finestre, e ridono. Mi sussurrano all’orecchio la storia delle loro insidiose gioie. Mi lusingano con le tentazioni, e quandovorrei pregare mi fanno smorfie odiose. Sono esseri perduti, ti dico. Perduti. Per loro non v’è Paradiso né Inferno, non loderanno il nome di Dio né nell’uno né nell’altro».
«Padre», gridò il giovane Pescatore, «tu non sai quel che dici. Una volta nella mia rete ho catturato la figlia di un Re. E più bella della stella del mattino, e più bianca della luna. Per il suo corpo io darei la mia anima, e per il suo amore rinuncerei al cielo. Concedimi quel che ti chiedo, e lasciami andare in pace».
«Via! Vattene!», gridò il Sacerdote. «La tua Sirena è perduta, e tu ti perderai con lei». E non gli diede benedizione alcuna, e lo cacciò fuori.
E il giovane Pescatore andò verso la piazza del mercato, e camminava lentamente, a capo chino, come un’anima in pena.
E quando i mercanti lo videro, cominciarono a mormorare fra loro, e uno gli si fece incontro, e chiamandolo per nome gli chiese:
«Che cos’hai da vendere?»
«Ho da vendere la mia anima», rispose lui. «Ti prego, compramela, non la sopporto più. A che mi serve la mia anima? Non posso vederla. Non posso toccarla. Non la conosco».
Ma i mercanti si fecero beffe di lui, e dissero: «Ah sì? E noi che ce ne faremmo di un’anima umana? Non vale nemmeno mezza piastra d’argento. Vendici piuttosto il tuo corpo come schiavo, e ti vestiremo di porpora marina, per farti diventare il protetto della Regina Madre. Ma non cianciare della tua anima, perché per noi non vale proprio nulla».
E il giovane Pescatore si disse: «Che strano! Il Sacerdote mi dice che l’anima vale più di tutto l’oro del mondo, e i mercanti dicono che non vale mezza piastra d’argento». E lasciò la piazza del mercato per scendere sulla riva del mare, e si pose a riflettere su come dovesse agire.
E a mezzogiorno gli venne in mente che un suo compagno, un raccoglitore di critamo, gli aveva parlato di una certa giovane Strega molto abile in arti magiche che viveva in una grotta sullabaia. Quivi diresse il passo, e andava di corsa, tant’era ansioso di sbarazzarsi della sua anima, e una nube di polvere lo seguiva mentre si affrettava sulla sabbia della costa. Dal prurito del palmo della sua mano la giovane Strega capì che stava arrivando, e rise e disciolse la rossa chioma. E con la rossa chioma sciolta sulle spalle si fece sulla soglia della grotta, e nella mano aveva un ramoscello di cicuta selvatica in fiore.
«Che vuoi da me? Che vuoi?», gridò, mentre egli giungeva ansante al sommo dell’erta, e si inchinava a lei. «Del pesce per la tua rete, quando il vento è contrario? Ho una piccola zampogna, e quando vi soffio dentro i muggini accorrono nuotando nella baia. Ma la zampogna costa, bel ragazzo, costa. Che vuoi da me? Che vuoi? Una tempesta che faccia naufragare le navi e getti sulla spiaggia le casse dei loro tesori? Ho ai miei ordini più tempeste diquante ne abbia il vento, perché io sono più forte del vento e con un setaccio e una brocca d’acqua posso far colare a picco grandi vascelli in fondo al mare. Ma questo costa, bel ragazzo, costa. Che vuoi da me? Che vuoi? C’è un fiore che sboccia nella valle, che nessuno conosce all’infuori di me. Ha petali purpurei, e una stella nel cuore, e il suo nettare è bianco come latte. Se con quel fiore tu toccassi le labbra crudeli della Regina, ella ti seguirebbe per tutto il mondo. Ma il fiore costa, bel ragazzo, costa. Che vuoi da me? che vuoi? Posso pestare un rospo in un mortaio, e farneun intruglio, e rimestarlo con la mano di un uomo morto. Posso spruzzarlo sul tuo nemico mentre dorme e tramutarlo in una vipera nera, che la sua stessa madre ucciderà. Con una ruota possotirar giù la Luna dal cielo, e mostrarti la Morte in uno specchio. Che vuoi da me? che vuoi? Dimmi il tuo desiderio, e io te lo esaudirò, se mi pagherai il prezzo, il prezzo che vale».
«Il mio desiderio non è che una piccola cosa», disse il giovane Pescatore, «eppure il Sacerdote si è adirato con me, e mi ha scacciato. Non è che una piccola cosa, eppure i mercanti si sono beffati di me, e me l’hanno negata. Perciò sono venuto da te, benché tutti ti dicano malvagia, e qualsiasi prezzo tu mi chieda io lo pagherò».
«Che cosa vorresti?», gli chiese la Strega, andandogli vicino.
«Vorrei separarmi dalla mia anima», rispose il giovane Pescatore.
La Strega si fece pallida, rabbrividì, e si nascose il volto nel manto azzurro. «Bel ragazzo, bel ragazzo», mormorò, «questa è una cosa terribile da farsi».
Egli scosse i riccioli bruni, ridendo. «La mia anima non è nulla, per me», rispose. «Non posso vederla. Non posso toccarla. Non la conosco».
«Che cosa mi darai se ti esaudirò?», chiese la Strega, guardandolo coi suoi occhi stupendi.
«Cinque piastre d’oro», egli disse, «e le mie reti, e la capanna di canne intrecciate dove vivo, e la barca dipinta su cui navigo. Dimmi solo come posso allontanare da me la mia anima, e ti darò tutto ciò che possiedo».
Ella rise beffarda, e lo colpì col ramoscello di cicuta. «Io posso trasformare le foglie d’autunno in oro», gli rispose, «e posso filare i pallidi raggi della Luna in fili d’argento, se lo voglio. Colui di cui sono ancella è il più ricco di tutti i re del mondo, ed è in possesso di tutti i loro domini».
«Che cosa posso darti», egli disse, «se non vuoi compenso, né oro né argento?».
La Strega gli accarezzò i capelli con la sottile mano bianca. «Devi danzare con me, bel ragazzo», mormorò con un sorriso.
«Nient’altro che questo?», chiese il giovane Pescatore, stupito, e si levò in piedi.
«Nient’ altro che questo», rispose lei, e gli sorrise di nuovo.
«Dunque al tramonto io e te danzeremo insieme in un luogo segreto», egli disse, «e dopo che avremo danzato tu mi dirai ciò che voglio sapere».
Ella scosse il capo. «Quando la Luna sarà piena, quando la Luna sarà piena», mormorò. Poi si guardò intorno, e rimase in ascolto.
Un uccellino azzurro si librò in volo dal nido stridendo, e descrisse un cerchio sopra le dune, e tre uccelli screziati emisero brevi gridi nell’erba rigida e grigia chiamandosi l’un l’altro. L’unico suono che si udiva era la risacca che lambiva, giù in basso, iciottoli levigati. La Strega protese la mano, e attirato il giovane a sé, gli accostò le labbra aride all’orecchio.
«Stanotte devi venire in vetta alla montagna», gli bisbigliò. «C’è un Sabba, e ci sarà anche Lui».
Il giovane Pescatore trasalì e la guardò, ed ella rise mostrandogli i bianchi denti. «Chi è colui di cui parli?», egli chiese.
«Non ha importanza», rispose lei. «Stasera aspettami sotto i rami del carpine. Se un cane nero corre verso di te, colpiscilo con una verga di salice, e se ne andrà. Se un gufo ti parla, non rispondergli. Quando la Luna sarà piena io verrò da te, e danzeremo insieme sull’erba».
«Ma mi giuri che mi dirai come posso liberarmi della mia anima?», egli chiese.
Ella uscì alla luce del sole, e attraverso la sua chioma rossa folleggiava il vento. «Sugli zoccoli della capra lo giuro», rispose.
«Tu sei la migliore delle streghe», gridò il giovane Pescatore, «e senz’altro danzerò con te stanotte in vetta alla montagna. Mi sarei aspettato che mi chiedessi oro e argento, ma il compenso che mi chiedi è davvero piccola cosa, e l’avrai». E agitò il berretto verso di lei in segno di saluto, e chinò il capo, e tornò di corsa in città, colmo di gioia.
E la Strega lo seguì con lo sguardo finché non fu scomparso, poi rientrò nella sua grotta e, tratto uno specchio da una scatola di legno di cedro scolpito, lo mise su di un sostegno, e bruciò della verbena sopra carboni ardenti davanti a esso, e scrutò attraverso le spire del fumo. E dopo pochi minuti si torse le mani in un impeto d’ira. «Doveva essere mio!», mormorò. «Io sono bella quanto lei!».
E quella sera, quando la luna si levò, il giovane Pescatore salì sulla vetta della montagna, e si fermò sotto i rami del carpine. Simile a una lastra di metallo lucente, si stendeva il vasto mare, e le ombre delle barche da pesca si muovevano nella piccola baia. Ungrosso gufo dai gialli occhi fosforescenti lo chiamò a nome, ma egli non rispose. Un cane nero corse verso di lui ringhiando. Lo colpì con una verga di salice, e quello se ne andò uggiolando.
A mezzanotte giunsero le streghe: a volo, per l’aria, come pipistrelli. «Uuuh!», gridarono toccando terra. «C’è qualcuno che non conosciamo!». E fiutarono all’intorno, e bisbigliarono fra loro, e si fecero dei segni. Per ultima arrivò la giovane Strega, con la sua chioma rossa fluttuante al vento. Indossava una veste di tessuto d’oro ricamato con occhi di pavone, e in capo aveva un piccolo berretto di velluto verde.
«Dov’è? Dov’è?», strillarono le streghe appena la videro; ma lei rise senza rispondere, e corse al carpine, e prendendo per mano il giovane Pescatore lo condusse con sé nel chiarore lunare e incominciò a danzare.
Come in un vortice roteavano, e la giovane Strega balzava così in alto che si potevano vedere i tacchi scarlatti delle sue scarpe. Poi, in direzione dei danzatori si udì il galoppo di un cavallo, ma nessun cavallo apparve, e il giovane Pescatore provò un oscurosgomento.
«Più veloce!», gridò la Strega, cingendogli il collo con le braccia e alitandogli in volto il suo respiro ardente. «Più veloce! Più veloce!», e la terra pareva girare sotto i loro piedi, e la mente di lui si ottenebrava, e un gran terrore lo dominò, come se qualcosa di orribile stesse guardandolo, e finalmente egli si avvide che all’ombra di una rupe c’era qualcuno, una figura d’uomo che indossava un vestito di velluto nero, di foggia spagnola. Il suo volto era stranamente pallido, ma le sue labbra erano simili a un superbo fiore vermiglio. Sembrava annoiato, e si appoggiava ali’indietro, giocherellando come noncurante col pomo della sua daga. Poco distanti da lui, sull’erba, giacevano un cappello piumato e un paio di guanti da cavaliere con manopole di merletto d’oro, ricamati da perle iridescenti che disegnavano uno stemma bizzarro. Dalla spalla gli pendeva una mantellina foderata di zibellino, e le sue delicate mani bianche sfavillavano di anelli. Grevi palpebrevelavano i suoi occhi.
Il giovane Pescatore lo fissava, come irretito da un sortilegio. Alla fine i loro occhi s’incontrarono, e ovunque la danza lo portasse gli sembrava che gli occhi di quell’uomo gli fossero addosso. Udì la Strega ridere, e le cinse la vita per roteare ancora e ancora con lei nel vortice folle.
D’un tratto -un cane latrò nel bosco, e i danzatori si fermarono, si accostarono all’uomo e, inginocchiatisi, gli baciarono le mani. Un breve sorriso sfiorò le sue labbra altere, come l’ala di un uccello sfiora l’acqua e la fa ridere. Ma in quel sorriso c’era del disprezzo. Egli seguitava a fissare il giovane Pescatore.
«Vieni! Adoriamo», gli sussurrò la Strega spingendolo innanzi a sé; e un ardente desiderio di sottomettersi al suo ordine lo afferrò, e la seguì. Ma quando fu vicino allo sconosciuto, senza sapere perché, si fece il segno della croce, e invocò il nome santo.
Immediatamente le Streghe stridettero come falchi e volarono via, e il volto pallido che lo aveva fissato fu contratto da uno spasimo di pena. L’uomo si avviò verso un piccolo bosco, ed emiseun fischio. Una puledra bardata d’argento corse incontro a lui. Nel balzare in sella egli si volse, e guardò con aria triste il giovane Pescatore.
E la Strega dalla chioma rossa cercò anch’ella di fuggire, ma il Pescatore la afferrò ai polsi tenendola stretta.
«Lasciami!», gridò lei. «Lasciami andare! Hai nominato ciò che non doveva essere nominato, e fatto il segno che non bisogna guardare».
«No», rispose lui, «non ti lascerò andare se non mi sveli il segreto».
«Quale segreto?», disse la Strega, graffiandolo come una gatta selvatica e mordendosi le labbra chiazzate di bava.
«Lo sai», rispose lui.
Gli occhi verdi come l’erba le si offuscarono di lacrime, mentre gridava: «Chiedimi tutto, tutto ma non questo!».
Egli rise e la strinse più forte.
E quand’ella vide che non poteva liberarsi, gli sussurrò: «Guardami: non sono bella come la figlia del mare, e come le creature che dimorano nelle acque azzurre?». E con languore insinuante avvicinò il suo volto a quello di lui.
Ma egli la respinse, accigliandosi, e le disse: «Se non mantieni la tua promessa, ti ucciderò come falsa strega».
Ella divenne grigia come un fiore dell’albero di Giuda, e rabbrividì. «E sia», mormorò. «E la tua anima, non la mia. Fanne quello che vuoi», e si tolse dalla cintura un piccolo coltello dal manico in pelle di vipera verde, e glielo diede.
«A che mi serve questo oggetto?», chiese lui, stupito.
Ella restò in silenzio per qualche minuto, e il suo volto fu come percorso dal terrore. Poi si gettò indietro i capelli, e con uno strano sorriso gli disse: «Ciò che gli uomini chiamano ombra del corpo non è l’ombra del corpo, ma è il corpo dell’anima. Sulla riva del mare, con le spalle alla luna, devi ritagliare intorno ai tuoi piedi la tua ombra, che è il corpo della tua anima, e pregare la tua anima di lasciarti, ed essa lo farà».
Il giovane Pescatore fu scosso da un tremito violento. «E vero?», mormorò.
«È vero, e vorrei non avertelo detto», gemette lei, e gli abbracciò le ginocchia sciogliendosi in lacrime.
Egli l’allontanò da sé e la lasciò sull’erba folta, e avviandosi verso il ciglio del monte si pose il coltello alla cintola, e scese giù per il declivio.
E la sua Anima, che era dentro di lui, lo chiamò e gli disse: «Ahimè! Sono stata con te per tutti questi anni, per tutti questi anni tua ancella fedele. Non mandarmi via, ora! Che male ti ho mai fatto?».
E il giovane Pescatore rise. «Non mi hai fatto alcun male, ma non ho bisogno di te», rispose. «Il mondo è vasto, e c’è anche il Paradiso, e l’Inferno, e quella opaca dimora crepuscolare fra l’uno e l’altro. Va’ dove ti pare, ma non disturbarmi, che il mio amore mi chiama».
E la sua Anima lo implorò pietosamente, ma egli non le badò, esaltando di balza in balza con piede sicuro come una capra selvatica, giunse infine alla pianura e alla spiaggia gialla del mare.
Con le sue membra bronzee e ben modellate, simile a una statua scolpita da un Greco, egli stava sulla sabbia, con le spalle rivolte alla luna, e fuori dalle spume si levarono candide braccia che si protesero verso di lui, e fuori dalle onde sorsero forme evanescenti che s’inchinarono in atto d’ossequio. Dinnanzi a lui si stendeva la sua ombra, che era il corpo della sua anima, e dietro di lui la luna stava sospesa nell’aria color miele.
E la sua Anima gli disse: «Se proprio devi scacciarmi da te, non mandarmi via senza un cuore. Il mondo è crudele, dammi il tuo cuore da portare con me».
Egli scosse la testa e sorrise. «Come potrò amare il mio amore se mi privo del cuore per darlo a te?»
«Ti prego, abbi pietà», implorò l’Anima, «dammi il tuo cuore, il mondo è troppo crudele, e io ho paura».
«Il mio cuore appartiene al mio amore», rispose lui, «perciò non insistere, e vattene».
«E non dovrei amare anch’io?», chiese l’Anima.
«Vattene, non ho nessun bisogno di te», gridò il giovane Pescatore, e afferrò il piccolo coltello dal manico di pelle di vipera verde, e tagliò via la sua ombra intorno ai piedi, e quella si levò erimase diritta dinnanzi a lui, e lo guardò, ed era identica a lui.
Egli arretrò, e ripose il coltello nella cintola, e un senso di sgomento s’impadronì di lui. «Vattene», mormorò, «e non farmi vedere mai più il tuo viso».
«No, noi ci incontreremo di nuovo, invece», disse l’Anima. La sua voce era bassa e flautata, le sue labbra si muovevano appena.
«Come ci incontreremo?», gridò il giovane Pescatore. «Non vorrai seguirmi nelle profondità del mare?»
«Una volta l’anno io verrò qui, e ti chiamerò», disse l’Anima. «Può darsi che tu abbia bisogno di me».
«Che bisogno di te potrei mai avere?», gridò il giovane Pescatore. «Ma se lo vuoi, sia pure», e si tuffò in acqua, e i Tritoni soffiarono nei loro corni, e la piccola Sirena gli nuotò incontro, e gli cinse il collo con le braccia e lo baciò sulla bocca.
E l’Anima rimase sulla spiaggia solitaria, a guardarli. E quando si immersero nel mare scomparendo alla vista, si allontanò piangendo attraverso le paludi.
E quando un anno fu trascorso, l’Anima scese sulla spiaggia e chiamò il giovane Pescatore, ed egli salì su dal profondo, e disse: «Perché mi chiami?».
E l’Anima gli disse: «Vieni più vicino, perché io possa parlare con te delle stupende cose che ho veduto».
Ed egli si fece più vicino, e si sdraiò nell’acqua bassa, e appoggiato il capo alla mano stette ad ascoltare.
E l’Anima gli disse: «Quando ti lasciai, volsi il viso verso Oriente e mi misi in viaggio. Dall’Oriente ha origine ogni saggezza. Sei giorni viaggiai, e al mattino del settimo giorno giunsi a una collina che domina il paese dei Tartari. Sedetti all’ombra di un tamerisco per ripararmi dal sole. La terra era arida, e il caldo torrido. Gli uomini andavano su e giù come mosche striscianti su un disco di rame rovente.
A mezzogiorno una nube di polvere rossastra si sollevò dall’orlo piatto della landa. Quando i Tartari la videro, incoccarono i loro archi dipinti e balzando in sella ai loro piccoli cavalli galopparono in quella direzione. Poi, fiutando l’aria, si slanciarono dall’altra parte.
Quando sorse la luna, vidi i fuochi di un accampamento ardere nella pianura, e di nuovo m’incamminai. Trovai un gruppo di mercanti seduti su tappeti. I cammelli erano legati a pali dietro a loro, e i servi negri stavano piantando nella rena tende di pelle lavorata ed ergendo una gran barriera di fico d’India.
Ero a pochi passi da loro, quando il capo dei mercanti si alzò e, sguainando la spada, mi chiese che cosa facessi lì.
Risposi che ero il Principe sul mio legittimo territorio, e che ero scampato ai Tartari, i quali volevano farmi loro schiavo. Il capo sorrise, e mi mostrò cinque teste infilzate su lunghe canne di bambù.
Poi mi chiese chi era il profeta di Dio, e io risposi che era Maometto.
Quando egli udì il nome del falso profeta, si inchinò e mi prese per mano, e mi fece sedere al suo fianco. Un negro mi portò del latte di cavalla in una ciotola di legno, e carne d’agnello arrostita.
Quando spuntò il giorno, ci mettemmo in viaggio. Io cavalcavo un cammello dal pelo rosso, a fianco del capo, e un araldo ci precedeva correndo e portando una lancia. Ai lati cavalcavano gli uomini di guerra, e le mule seguivano con le mercanzie. C’erano quaranta cammelli, nella carovana, e le mule erano due voltequaranta.
Dal paese dei Tartari ci recammo al paese di quelli che maledicono la Luna. Vedemmo i Grifoni a guardia dell’oro sulle bianche rupi, e i Draghi squamosi addormentati nelle loro caverne.Passando sui monti trattenemmo il respiro per timore che le nevi scendessero su noi, e ci proteggemmo gli occhi con veli di garza. Passando attraverso le valli, fummo bersagliati dalle frecce dei Pigmei nascosti nei cavi degli alberi, e a notte udimmo i selvaggipicchiare forte sui loro tamburi. Passando davanti alla Torre delle Scimmie deponemmo frutti dinnanzi a loro, ed esse non ci fecero alcun male. Passando davanti alla Torre dei Serpenti offrimmo loro latte caldo in tazze di stagno, ed essi ci lasciarono proseguire. Tre volte durante il nostro viaggio giungemmo sulle rive dell’Oxus. Lo attraversammo su zattere di legno con grandi vesciche di cuoio gonfiato. Gli ippopotami ci si avventarono addosso e volevano ucciderci. Al vederli, i cammelli tremarono.
I re di ogni città ci imponevano di pagare dei pedaggi, senza permetterci di oltrepassare le loro porte. Dalle mura, ci gettavano pane e focacce di mais cotte nel miele e dolci di farina bianca infarciti di datteri. Per ogni centinaio di panini davamo loro un chicco d’ambra.
Quando gli abitanti dei villaggi ci vedevano giungere, avvelenavano le fonti e fuggivano sugli altipiani. Combattemmo coi Magadi, che nascono vecchi e diventano ogni anno più giovani, e muoiono bambini; e coi Laktroi, che si dichiarano figli delle tigri, e son tutti dipinti di giallo e di nero; e con gli Auranti, che seppelliscono i loro morti in cima agli alberi, e vivono in grotte buie pertimore che il Sole, loro Dio, li uccida; e coi Krimmiani, che venerano un coccodrillo e gli donano orecchini di vetro verde e lo nutrono di burro e di teneri uccelli; e con gli Agazombi dalla faccia di cane; e coi Sibani dai piedi di cavallo, che corrono più veloci di qualsiasi destriero. Un terzo della nostra carovana morì in battaglia, e un terzo di stenti. I superstiti mormoravano contro di me, dicendo che ero stato io a portar loro sfortuna. Allora presi un aspide cornuto di sotto una pietra e mi feci mordere. Quando videro che il veleno non aveva su me nessun effetto, furono colti dallo sgomento.
Dopo quattro mesi giungemmo alla città di Illel. Era notte quando arrivammo al boschetto che si stende fuori delle mura, e l’aria era afosa, poiché la Luna andava verso lo Scorpione. Cogliemmo le melagrane mature dagli alberi, e le spaccammo per bere i loro dolci succhi. Poi ci stendemmo sui nostri tappeti e aspettammo l’alba.
E all’alba ci levammo e bussammo alle porte della città. Era fatta di rame rosso, e istoriata di draghi marini e draghi alati. Le guardie, dall’alto, ci chiesero cosa volessimo. L’interprete della carovana rispose che venivamo dall’isola di Siria per vendere molte mercanzie. Essi presero degli ostaggi, e dicendo che ci avrebbero aperto le porte a mezzogiorno, ci invitarono ad aspettare fino a quell’ora.
A mezzogiorno aprirono le porte, e quando entrammo la gente uscì a frotte dalle case per guardarci, e un banditore girava per la città gridando dentro una conchiglia. Sostammo nella piazza del mercato, e i negri slegarono le balle di stoffa dipinta e aprirono lecasse di sicomoro scolpite. Compiute queste operazioni, i mercanti sciorinarono le loro bizzarre mercanzie, le tele di lino incerato dell’Egitto e le tele di lino dipinto del paese degli Etiopi, le spugne purpuree di Tiro e i cortinaggi turchini di Sidone, le coppe d’ambra fredda e gli esili calici di vetro insieme a quelli d’argilla bruciata curiosamente intagliati. Alcune donne ci osservavano dal tetto di una casa. Una di loro portava una maschera di pelle dorata.
E il primo giorno vennero i sacerdoti e contrattarono con noi, e il secondo giorno vennero i nobili, e il terzo i negozianti e gli schiavi. È questa la loro usanza con tutti i mercanti finché dimorano nella città.
E noi vi dimorammo per una Luna, e quando la Luna stava calando, non sapendo che fare e annoiandomi, vagai per le vie della città e giunsi al giardino del suo Dio. I sacerdoti in vesti gialle simuovevano silenziosi fra i verdi alberi, e su un pavimento di marmo nero si ergeva la casa, rossa come una rosa, dove dimorava il Dio. Le soglie erano di lacca punteggiata, e tori e pavoni d’oro zecchino vi erano effigiati in rilievo. Il tetto a tegole era di porcellana verdemare e le gronde sporgenti avevano agli orli dei campanellini. Passando di lì in volo, le colombe bianche sfioravano con le ali i campanellini e li facevano tintinnare.
Di fronte al tempio c’era una conca d’acqua chiara pavimentata d’onice. Mi distesi accanto a essa, e con le mie dita pallide toccavo le ampie foglie. Uno dei sacerdoti mi si avvicinò e si fermòdietro di me. Aveva ai piedi dei sandali, uno in morbida pelle di serpente e l’altro in piume d’uccello. Sul suo capo una mitria di feltro nero era decorata di argentee lune crescenti. Sulla sua vesteerano intessuti sette soli gialli, e i suoi capelli crespi erano tinti d’antimonio. Dopo un po’ egli mi rivolse la parola e mi chiese quali fossero i miei desideri.
Gli risposi che il mio desiderio era di vedere il dio.
“Il dio è a caccia”, disse il sacerdote, con uno sguardo curioso ammiccante negli occhi piccoli e obliqui.
“Dimmi in quale foresta, e andrò a cacciare con lui”, replicai.
Egli allisciò con le unghie appuntite le molli frange della sua tunica.
“Il dio dorme”, mormorò.
“Dimmi in quale giaciglio, e io veglierà accanto a lui”, insistetti.
“Il dio è al banchetto”, gridò il sacerdote.
“Se il vino è dolce, lo berrò con lui, e se è amaro, ugualmente lo berrò con lui”, fu la mia risposta.
Egli chinò la testa, molto stupito, e prendendomi per mano mi sollevò e mi condusse al tempio.
E nella prima stanza vidi un idolo seduto su un trono di diaspro orlato di enormi perle orientali. Era scolpito in ebano, e la sua statura era quella di un uomo. Un rubino adornava la sua fronte, e olio denso stillava dai capelli sulle ginocchia. I piedi erano rossi del sangue di un fanciullo ucciso da poco, e i lombi serrati da una cintura di rame in cui erano incastonati sette berilli.
E io chiesi al sacerdote: “È questo il dio?”. Ed egli mi rispose: “Questo è il dio”.
“Mostrami il dio!”, gridai. “Altrimenti ti giuro che ti ucciderò!”. E gli toccai la mano, che subito avvizzì.
E il sacerdote mi supplicò: “Che il mio signore risani il suo servo, e io gli mostrerò il dio”.
Così alitai sulla sua mano, che subito si risanò, ed egli ancora tremante mi condusse nella seconda stanza, e io vidi un idolo seduto su un trono di giada tempestato di enormi smeraldi. Erascolpito in avorio e la sua statura era quella di un uomo. Un crisolito adornava la sua fronte, e mirra e cinnamomo cospargevano i suoi seni. In una mano teneva uno scettro ricurvo di giada e nell’altra un globo di cristallo. Portava coturni d’ottone, e il collo robusto era cinto da un cerchio di pietre lunari.
E io chiesi al sacerdote: “È questo il dio?”. Ed egli mi rispose: “Questo è il dio”.
“Mostrami il dio!”, gridai. “Altrimenti ti giuro che ti ucciderò!”. E gli toccai gli occhi, che subito divennero ciechi.
E il sacerdote mi supplicò: “Che il mio signore risani il suo servo, e io gli mostrerò il dio”.
Così alitai sui suoi occhi, che subito riacquistarono la vista, ed egli di nuovo tremante mi condusse nella terza stanza, e qui non v’era idolo di sorta, ma solo uno specchio rotondo di metallo sopra un altare di pietra.
E io chiesi al sacerdote: “Dov’è il dio?”. Ed egli mi rispose: “Non v’è altro dio se non lo specchio che vedi: esso è lo Specchio della Saggezza, poiché riflette tutte le cose del cielo e della terrafuorché il volto di chi vi si guarda. Questo non lo riflette, così che chi guarda possa essere sapiente. Esistono molti altri specchi, ma sono specchi dell’Opinione. Solo questo è lo Specchio della Saggezza. E chi possiede questo specchio sa tutto, e nulla può restargli nascosto. Perciò esso è il dio, e noi lo veneriamo”. E io guardai dentro lo specchio, ed era come egli diceva.
E feci una cosa strana, ma che cosa feci esattamente non importa, perché in una valle che è a solo un giorno di viaggio da qui ho nascosto lo Specchio della Saggezza. Basta che tu mi faccia rientrare in te e mi riaccolga come ancella, e diverrai più saggio di tutti i saggi, e la Saggezza ti apparterrà. Concedimi di rientrare in te, e nessuno sarà saggio al pari di te».
Ma il giovane Pescatore rise. «L’Amore è meglio della Saggezza», gridò, «e la piccola Sirena mi ama».
«No, non c’è nulla che sia meglio della Saggezza», disse l’Anima.
«L’Amore è meglio», rispose il giovane Pescatore, e si tuffò nel profondo, e l’Anima s’allontanò piangendo attraverso le paludi.
E quando il secondo anno fu trascorso, l’Anima scese sulla spiaggia, e chiamò il giovane Pescatore, ed egli salì su dal profondo, e disse: «Perché mi chiami?».
E l’Anima gli disse: «Vieni più vicino, perché io possa parlare con te delle stupende cose che ho veduto».
Ed egli si fece più vicino, e si sdraiò nell’acqua bassa, e appoggiato il capo alla mano stette ad ascoltare.
E l’Anima gli disse: «Quando ti lasciai, volsi il viso verso Sud e mi misi in viaggio. Dal Sud proviene ogni cosa preziosa. Sei giorni viaggiai lungo le strade maestre che conducono alla città di Ashter, lungo le polverose strade maestre tinte di rosso su cui vanno i pellegrini, viaggiai, e al mattino del settimo giorno sollevai gli occhi, ed ecco, la città si stendeva ai miei piedi, poiché giace in una valle.
Vi sono nove porte che racchiudono quella città, e davanti a ciascuna porta è ritto un cavallo di bronzo che nitrisce quando i Beduini scendono dalle montagne. Le mura sono rivestite di rame, e le torri di vedetta sono ricoperte al sommo di ottone. In ogni torre sta immobile un arciere con un arco nella mano. Al sorgere del sole scaglia una freccia su un gong, e al tramonto soffia in un corno d’osso.
Quando cercai di entrare, le guardie mi fermarono e mi chiesero chi fossi. Risposi che ero un Derviscio in viaggio verso la Mecca, dove si trovava un velo verde su cui gli angeli avevano ricamato in lettere d’argento il testo del Corano. Invase da reverente meraviglia, le guardie mi pregarono di entrare.
All’interno, era come trovarsi in un bazar. Davvero avresti dovuto essere con me. Attraverso le strade anguste le gaie lanterne di carta ondeggiano come grandi farfalle. Al soffio del vento suitetti si sollevano e ricadono come bolle colorate. Di fronte alle loro baracche, sopra tappeti di seta, stanno accoccolati i mercanti. Hanno barbe lisce, nere, e turbanti ricoperti di zecchini d’oro, efra le loro dita fresche si sgranano lunghe collane d’ambra e noccioli di pesca scolpiti. Alcuni di loro vendono gelbano e nardo, e strani aromi di isole del Mare Indiano, e l’olio denso delle rose rosse, e mirra e piccoli chiodi di garofano a forma d’unghia. Mentre si parla con loro, ogni tanto gettano un pizzico d’incenso su un braciere e profumano l’aria. Vidi un Siriano che teneva fra le mani una bacchettina sottile come uno stelo. Grigie spire difumo si levavano da essa e il suo aroma, mentre ardeva, era quello del mandorlo rosa a primavera. Altri vendono braccialetti d’argento tempestati di turchesi di un azzurro dorato, e anelli per le caviglie in filo d’ottone, frangiati di perline, e unghie di tigre incastonate d’oro, e le unghie di quel gatto scintillante, il leopardo,anch’esse incastonate d’oro, e orecchini di smeraldo forato, e anelli di giada intagliata. Dalle case da tè giunge il suono delle chitarre, e i fumatori d’oppio coi loro esangui volti sorridentiguardano fuori, ai passanti.
Davvero avresti dovuto essere con me.I venditori di vino si fanno strada a gomitate attraverso la folla, con grandi pelli nere sulle spalle. Per lo più vendono vino di Sciraz, dolce come ilmiele. Lo versano in minuscole coppe di metallo e vi spargono sopra foglie di rosa. Sulla piazza stanno i fruttivendoli, con ogni sorta di frutta: fichi maturi dalla polpa porporina, meloni odorosidi musco e gialli come topazi, cedri e mele rosate e grappoli d’uva bianca, tonde arance d’oro vermiglio, e limoni ovali d’oro verde. Una volta vidi passare un elefante. La sua proboscide era dipinta di curcuma e cinabro, e sulle orecchie aveva una rete dicordoncino di seta cremisi. Fermatosi dinnanzi a una delle baracche, cominciò a mangiare le arance, e l’uomo non fece altro che ridere. Non puoi immaginare che strana gente è quella. Quando sono di buon umore vanno dai venditori d’uccelli e comperano un uccello in gabbia, e lo lasciano libero perché la loro gioia siapiù grande, e quando sono tristi si flagellano con dei rovi perché il loro dolore non diminuisca.
Una volta incontrai alcuni negri che portavano una pesante lettiga attraverso il bazar. Era fatta di canne di bambù dorate, e le stanghe erano di lacca vermiglia punteggiata di pavoni d’ottone. Alle finestre pendevano tendine di mussola ricamate con ali discarabei e piccole perle, e dall’interno una Circassa pallida in volto guardò fuori e mi sorrise. Io seguii la portantina, e i negri affrettarono il passo lanciandomi sguardi torvi. Ma la curiosità che m’invadeva era tale che non me ne curai.
Alla fine si fermarono davanti a una casa bianca quadrata. Non c’erano finestre, solo una piccola porta simile alla porta di una tomba. I negri deposero a terra la lettiga e bussarono tre volte con un martello di rame. Un Armeno in cafetano di pelle verde sbirciò dallo spioncino, e quando li vide aprì, e stese al suolo un tappeto, su cui passò la donna. Prima di entrare, si volse e mi sorrise con dolcezza. Non avevo mai veduto un essere così pallido.
Quando sorse la luna, tornai in quel luogo e cercai la casa, ma non c’era più. Vedendo ciò, capii chi era la donna, e perché mi aveva sorriso.
Davvero avresti dovuto essere con me. Per la festa della Luna Nuova il giovane Imperatore uscì dal suo palazzo e si recò alla moschea per pregare. I suoi capelli e la sua barba erano tinti confoglie di rosa, e le guance incipriate con fine polvere d’oro. Le piante dei suoi piedi e le palme delle sue mani erano colorate di giallo zafferano.
Al sorgere del sole egli lasciò il palazzo in una veste d’argento, e al tramonto vi ritornò in una veste d’oro. Tutti si prostravano al suolo nascondendosi il viso, ma io non volli farlo. Io stavo ritto,in attesa, davanti alla bottega di un venditore di datteri. Quando l’Imperatore mi vide, aggrottò le sopracciglia dipinte e si fermò. Rimasi assolutamente immobile, senza rendergli omaggio di obbedienza. Tutti si stupirono della mia audacia, e mi consigliarono di fuggire dalla città. Non ascoltai quel consiglio, e andai a sedermi presso i venditori di strane divinità, che per il loro mestiere sono esecrati. Quando riferii ciò che avevo fatto, ognuno di loro mi regalò un dio, pregandomi di fuggire subito.
Quella stessa notte, mentre giacevo sui cuscini nella casa da tè della Strada dei Melograni, entrarono le guardie dell’Imperatore e mi condussero al palazzo. Qui chiusero tutte le porte alle mie spalle mettendo una catena a ogni serratura. Mi trovavo in un vasto cortile cinto tutt’intorno da un porticato. Imuri erano d’alabastro bianco, con piastrelle turchine e verdi. Le colonne erano di marmo verde, e l’impiantito di marmo fior di pesco. Non avevo mai veduto nulla di simile.
Mentre attraversavo il cortile, due donne velate, guardandomi da un balcone, mi maledissero. Le guardie affrettarono il passo, battendo con la punta delle lance sul pavimento lucente. Da una porta d’avorio scolpito entrai in un giardino ricco d’acque, consette terrazze traboccanti di tulipani e fiori di luna, e aloe color argento. Come un esile stelo di cristallo, una fontana zampillava nell’aria crepuscolare. Icipressi sembravano torce bruciate. Dauno di essi cantava un usignolo.
All’estremità del giardino sorgeva un piccolo padiglione. Due eunuchi ne uscirono per venirci incontro. I loro corpi flaccidi ballonzolavano nel camminare, e i loro occhi ci guardavano curiosamente di sotto le palpebre giallastre. Uno di loro scortò il capitano delle guardie, l’altro seguitò a masticare pasticche aromatiche, che prendeva con gesti affettati da una scatola ovale di smalto lilla.
Dopo pochi minuti il capitano delle guardie congedò i soldati. Essi ritornarono al palazzo, con gli eunuchi che li seguivano indolenti, fermandosi a cogliere le more dai cespugli. Il più vecchio si volse anche a guardarmi con un sorriso malvagio.
Poi il capitano delle guardie mi indicò l’entrata al padiglione. Senza tremare mi avviai e, scostando la pesante cortina, entrai.
Il giovane Imperatore era disteso su un divano coperto di pelli di leone dipinte, e un girifalco era appollaiato sul suo pugno. Dietro di lui era un Nubiano nudo fino alla cintola, con le orecchie perforate da pesanti orecchini. Su una tavola a lato del divano era posata una scimitarra d’acciaio.
Appena mi vide l’Imperatore si accigliò, e mi disse: “Come ti chiami? Non sai che io sono l’Imperatore di questa città?”. Ma io non gli diedi risposta.
Egli puntò il dito verso la scimitarra, e il Nubiano l’affenò, per slanciarsi contro di me, e mi colpì con grande violenza. La lama mi trapassò sibilando, ma non mi ferì. L’uomo stramazzò al suolo, e quando si rialzò batteva i denti per il tenore, e si nascose dietro il divano.
L’Imperatore, balzato in piedi, prese una lancia dall’armeria e la scagliò contro di me. L’affenai al volo e la spezzai in due tronconi. Mi tirò una freccia, ma io levai le mani e quella si fermò a mezz’aria. Allora egli trasse una daga da una cintura di pelle nera e tagliò la gola al Nubiano, perché lo schiavo non potesse riferire a nessuno il disonore di cui era stato testimone. L’uomo si contorse come una serpe calpestata, e una bava rossa gorgogliò fuori dalle sue labbra.
Appena egli fu morto, l’Imperatore si voltò verso di me, e asciugatosi il sudore stillante dalle tempie con una pezzuola di purpurea seta ricamata, mi disse: “Dimmi, sei tu un profeta, che non posso in alcun modo ferirti, o il figlio di un profeta, che non posso oltraggiarti? Ti prego, lascia la città questa stessa notte, perché finché tu sei qui io non posso esserne il signore”.
E io gli risposi-: “Me ne andrò per metà del tuo tesoro. Dammi metà del tuo tesoro, e me ne andrò via”.
Egli mi prese per mano e mi condusse in giardino. Quando il capitano delle guardie mi vide, restò stupefatto. Quando gli eunuchi mi videro, le loro ginocchia tremarono ed essi caddero a terra tramortiti.
C’è una camera, nel palazzo, che ha otto pareti di porfido rosso, e un soffitto di ottone scanalato cui stanno appese delle lampade. L’Imperatore toccò una delle pareti ed essa si aprì, e noi passammo attraverso un corridoio illuminato da numerose torce. In due nicchie laterali, erano grandi giare colme fino all’orlo di monete d’argento. Quando fummo al centro del corridoio l’Imperatore pronunciò la parola che non deve essere pronunciata, e una porta di granito si spalancò, mossa da un congegno segreto, ed egli si coprì con le mani gli occhi per timore che rimanessero abbacinati.
Non puoi immaginare che luogo stupendo era quello. C’erano enormi gusci di tartaruga pieni di perle, e pietre di luna scavate colme di rubini rossi. In cofani di pelle d’elefante era ammucchiato l’oro, e la polvere d’oro in anfore panciute. Entro coppe dicristallo e di giada scintillavano opali e zaffiri. Verdi smeraldi rotondi erano allineati su piatti d’avorio, e in un angolo turchesi e berilli riempivano grosse borse di seta. Dentro corni d’avorio erano ammassate ametiste violacee, e dentro corni d’ottone calcedonie e sarde. Alle colonne di cedro erano appese file di pietre chiamate occhio di lince. Entro scudi piatti e ovali c’erano carbonchi color vino e color erba. E non ti sto dicendo che una minima parte di ciò che vidi.
Toltesi le mani dal viso, l’Imperatore mi disse: “Questa è la mia stanza del tesoro, e metà di quello che vedi è tuo, come ti ho promesso. Ti darò inoltre cammelli e cammellieri, pronti ai tuoicenni, che porteranno la tua parte del tesoro in qualsiasi angolo della terra tu desideri andare. E questo deve accadere stanotte, perché non voglio che mio padre, il Sole, si accorga che nella mia città c’è un uomo che io non posso uccidere”.
Ma io risposi: “L’oro che giace in questa stanza è tuo, e così pure l’argento, e tutte le altre gemme preziose. Quanto a me, io non ne ho bisogno. Io non ti chiedo nient’altro che quel piccolo anello che porti al dito”.
E l’Imperatore trasalì. “E solo un piccolo anello di piombo”, esclamò. “Non ha nessun valore. Prenditi la metà del tesoro e vattene dalla mia città”.
“No”, replicai, “io non prenderò altro che quell’anello di piombo, perché so cosa reca scritto dentro, e a cosa serve”.
E l’Imperatore tremò, e mi supplicò: “Prendi tutto il tesoro e lascia la mia città. Anche la mia metà sarà tua”.
E feci una cosa strana, ma che cosa feci esattamente non importa, perché in una grotta che è a solo un giorno di viaggio da qui ho nascosto l’Anello della Ricchezza. Non è che a un giorno diviaggio da qui, e aspetta solo il tuo arrivo. Colui che possiede quell’anello è più ricco di tutti i re del mondo. Vieni dunque e prendilo, e tutte le ricchezze del mondo saranno tue».
Ma il giovane Pescatore rise. «L’Amoreè meglio della Ricchezza», gridò, «e la piccola Sirena mi ama».
«No, non c’è nulla che sia meglio della Ricchezza», disse l’Anima.
«L’Amore è meglio», rispose il giovane Pescatore, e si tuffò nel profondo, e l’Anima s’allontanò piangendo attraverso le paludi.
E quando il terzo anno fu trascorso, l’Anima scese sulla spiaggia, e chiamò il giovane Pescatore, ed egli salì su dal profondo, e disse: «Perché mi chiami?».
E l’Anima gli disse: «Vieni più vicino, perché io possa parlare con te delle stupende cose che ho veduto».
Ed egli si fece più vicino, e si sdraiò nell’acqua bassa, e appoggiato il capo alla mano stette ad ascoltare.
E l’Anima gli disse: «In una città che conosco c’è una locanda, proprio in riva a un fiume. Io me ne stavo là con dei marinai che bevevano vino di vario colore, e mangiavano pane d’orzo e piccoli pesci salati serviti entro foglie d’alloro con aceto. E mentre ce ne stavamo lì seduti in allegria, entrò un vecchio che portava un tappeto di pelle e un liuto con due corni d’ambra. E quand’egli ebbe disteso il tappeto sul pavimento, toccò con un plettro le corde metalliche del suo liuto, e una fanciulla dal volto velato entrò correndo e incominciò a danzare per noi. Un velo di garza velava il suo volto, ma i suoi piedi erano nudi. Nudi erano i suoi piedi, e si muovevano sul tappeto come minuscoli piccioni bianchi. Mai ho veduto qualcosa di così stupendo, e la città in cui ella danza è a solo un giorno di viaggio da qui».
Quando il giovane Pescatore udì queste ultime parole della sua Anima, si ricordò che la piccola Sirena non aveva piedi e non poteva danzare. E un grande desiderio lo invase, ed egli si disse: “E a solo un giorno di viaggio, e tornerò subito dal mio amore”, e rise, e si levò in piedi nell’acqua bassa, e s’incamminò verso la spiaggia.
E quando fu sulla spiaggia asciutta rise nuovamente, e tese le braccia alla sua Anima. E la sua Anima gettò un gran grido di gioia e gli corse incontro, ed entrò in lui, e il giovane Pescatore vide allungata dinnanzi a lui sopra la sabbia quell’ombra del corpo che è il corpo dell’Anima.
E la sua Anima gli disse: «Non indugiamo, ma andiamo subito là, perché gli Dei del mare sono gelosi, e hanno mostri al loro servizio».
Così si affrettarono, e per tutta la notte viaggiarono sotto la luna, e tutto il giorno viaggiarono sotto il sole, e a sera giunsero alle porte di una città.
E il giovane Pescatore chiese alla sua Anima: «È questa la città dove danza colei di cui mi hai parlato?».
E la sua Anima gli rispose: «Non è questa la città, è un’altra. Ma entriamo ugualmente».
Così entrarono, e passarono per molte strade, e quando passarono per la Strada dei Gioiellieri il giovane Pescatore vide una coppa d’argento esposta in una bottega. E l’Anima gli disse: «Prendi quella coppa d’argento e nascondila».
Ed egli prese la coppa e la nascose nelle pieghe della tunica, e uscirono in fretta dalla città.
E quando furono a una lega di distanza dalla città, il giovane Pescatore si adombrò e scagliò via la coppa, domandando all’Anima: «Perché mi hai detto di prendere quella coppa e di nasconderla? Non era una cattiva azione?».
Ma l’Anima gli rispose: «Non darti pena, sta’ in pace».
E la sera del secondo giorno giunsero a una città, e il giovane Pescatore chiese alla sua Anima: «È questa la città dove danza colei di cui mi hai parlato?».
E l’Anima gli rispose: «Non è questa la città, è un’altra. Ma entriamo ugualmente».
Così entrarono, e passarono per molte strade, e quando passarono per la Strada dei Venditori di Sandali, il giovane Pescatore vide un fanciullo ritto accanto a una giara d’acqua.
E l’Anima gli disse: «Colpisci quel fanciullo».
Ed egli colpì il fanciullo finché questi non si mise a piangere, e uscirono in fretta dalla città.
E quando furono a una lega di distanza dalla città, il giovane Pescatore si adirò, e chiese all’Anima: «Perché mi hai detto di colpire quel fanciullo? Non era una cattiva azione?».
Ma l’Anima gli rispose: «Non darti pena, sta’ in pace».
E la sera del terzo giorno, giunsero a una città, e il giovane Pescatore chiese alla sua Anima: «E questa la città dove danza colei di cui mi hai parlato?».
E l’Anima gli rispose: «Può darsi che sia questa, quindi entriamo».
Così entrarono, e passarono per molte strade, ma in nessun luogo il giovane Pescatore riuscì a trovare né il fiume né la locanda sulla sua riva. E la gente della città lo guardava incuriosita, edegli ebbe paura e disse alla sua Anima: «Andiamo via di qui, poiché non troviamo la danzatrice dai piedi d’argento».
Ma l’Anima gli rispose: «No, fermiamoci, perché la notte è buia, e sulla strada saranno appostati i banditi».
E lo fece sedere sulla piazza del mercato, e poco dopo passò di lì un mercante incappucciato che indossava un mantello di panno di Tartaria e un bastone nodoso con una lanterna di corno appesa in cima. E il mercante gli chiese: «Perché te ne stai lì seduto sulla piazza del mercato, se tutte le botteghe sono chiuse e le casse legate?».
E il giovane Pescatore gli rispose: «Non riesco a trovare una locanda, e non ho parenti che possano ospitarmi».
«Non siamo forse tutti parenti?», disse il mercante. «Non ci ha creati tutti un solo Dio? Vieni con me, dunque, perché ho una camera in cui ospitarti».
Così il giovane Pescatore si levò e seguì il mercante a casa sua. E quando ebbe attraversato un giardino di melograni e fu entrato in casa, il mercante gli versò in un piatto di rame dell’acqua di rosa perché potesse lavarsi le mani, e meloni maturi per dissetarsi, e gli pose davanti una ciotola di riso e una porzione di capretto arrostito.
E dopo che si fu rifocillato, il mercante lo condusse nella camera degli ospiti, e lo invitò a dormire e a riposarsi. E il giovane Pescatore lo ringraziò, e baciò l’anello che l’uomo portava al dito, e si sdraiò sui tappeti di pelo di capra dipinto. Infine, copertosi con una coltre di lana d’agnello nera, si addormentò.
E tre ore prima dell’alba, quando ancora era notte, l’Anima lo svegliò e gli disse: «Alzati e va’ nella camera del mercante, quella dove dorme, e uccidilo, e portagli via tutto il suo oro, perché ne abbiamo bisogno».
E il giovane Pescatore si alzò e sgusciò furtivo nella camera del mercante; ai piedi di lui che dormiva era posata una sciabola, e su un vassoio a fianco del letto nove borse piene d’oro. Ed egli allungò la mano verso la sciabola, ma l’aveva appena sfiorata che il mercante sussultò e si svegliò e, balzato in piedi, afferrò lui la sciabola e gridò al giovane Pescatore: «Ricambi tu dunque il bene con il male, e con lo spargimento di sangue la mia generosità?».
E l’Anima disse al giovane Pescatore: «Colpiscilo!».
Ed egli lo colpì fino a farlo venir meno, poi afferrò le nove borse d’oro e fuggì rapido attraverso il giardino dei melograni, e volse il viso verso la stella che chiamano la stella del mattino.
E quando furono a una lega di distanza dalla città, il giovane Pescatore si batté il petto, e disse all’Anima: «Perché mi hai detto di uccidere il mercante e rubargli l’oro? Di certo tu sei malvagia».
Ma l’Anima gli rispose: «Non darti pena, sta’ in pace».
«No», rispose il giovane Pescatore, «non posso stare in pace, perché odio tutto ciò che mi hai fatto fare. Odio anche te, e ti ordino di dirmi perché mi hai costretto ad agire in questo modo».
E l’Anima gli rispose: «Quando tu mi cacciasti via da te mi mandasti per il mondo senza darmi il cuore, e così ho imparato a fare tutte queste cose e ad amarle».
«Che vai dicendo?», mormorò il giovane Pescatore.
«Tu sai quel che dico», rispose l’Anima, «lo sai bene. Hai scordato che non mi desti il cuore? Penso di no. Quindi non darti pena né per te né per me, ma sta’ in pace, giacché non c’è pena che tu non arrecherai, né piacere che non riceverai».
E quando il giovane Pescatore udì queste ultime parole della sua Anima, tremò e le disse: «Ah, tu sei davvero malvagia, e mi hai fatto dimenticare il mio amore, e mi hai lusingato di tentazioni e hai diretto i miei passi sulla via del peccato».
E l’Anima gli rispose: «Hai scordato che quando mi mandasti per il mondo non mi desti il cuore. Vieni, andiamo in un’altra città, e divertiamoci, poiché abbiamo nove borse d’oro».
Ma il giovane Pescatore prese le nove borse d’oro e le scaraventò a terra, e le calpestò. «No!», gridò. «Io non voglio aver più nulla a che fare con te, e non voglio andare con te da nessuna parte, ma come ti ho mandata via una volta ti manderò via ora, perché con me sei stata crudele». E volta la schiena alla luna, col piccolo coltello dal manico in pelle di vipera verde si diede a tagliar via dai suoi piedi l’ombra del corpo che è il corpo dell’Anima.
Ma l’Anima non si scostò dal suo fianco, né si curò del suo comando, e gli disse: «Il sortilegio della Strega non può più giovarti, perché io non posso separarmi da te, e tu non puoi cacciarmi via. Una sola volta nella vita un uomo può mandar via la sua Anima, ma colui che l’accoglie di nuovo dovrà tenerla per sempre con sé, e questa è la sua punizione e la sua ricompensa».
Il giovane Pescatore impallidì e, torcendosi le mani, disse: «Falsa fu dunque la Strega, a non dirmi questo».
«No», rispose l’Anima, «fu fedele a Colui che adora, e che sempre servirà».
E quando il giovane Pescatore capì che non avrebbe potuto più liberarsi della sua Anima, e che era un’Anima malvagia e avrebbe dimorato per sempre con lui, si abbandonò al suolo in un pianto disperato.
E quando spuntò il giorno il giovane Pescatore si levò e disse alla sua Anima: «Mi legherò le mani per non fare ciò che vuoi farmi fare, e chiuderò strette le labbra per non pronunciare le tue parole, e tornerò al luogo dove vive colei che amo. Al mare tornerò, e alla piccola baia dove lei va a cantare, la chiamerò e le dirò sia il male che ho fatto io sia quello che mi hai arrecato tu».
E l’Anima lo tentò e gli disse: «Chi è mai il tuo amore, che tu debba tornare a lei? Al mondo ce ne sono di molto più belle. Ci sono le danzatrici di Samaria, che danzano al modo degli uccelli e delle bestie. Hanno i piedi dipinti dihenne, e nelle mani campanellini di rame. Mentre danzano ridono di un riso chiaro come la spuma dell’acqua. Vieni con me, e te le mostrerò. Che senso ha questa tua preoccupazione per ciò che si chiama peccato? Le cosegradevoli al palato non son fatte per chi mangia? C’è forse del veleno in ciò che è dolce da bere? Non darti pena, e vieni con me in un’altra città. C’è una piccola città qui vicino, con un giardino di tulipani meraviglioso, in cui si aggirano pavoni bianchi e pavoni dal petto turchino. Le loro code, quando le dispiegano al sole, sono simili a dischi d’avorio dorato. Colei che li nutre danza per il loro piacere, talvolta sulle mani e talvolta sui piedi. I suoi occhi sono tinti di nero antimonio, e le nari han la forma di ali di rondine. Da una di esse pende un fiore intagliato in una perla. La danzatrice ride mentre muove i suoi passi, e gli anelli d’argento intorno alle sue caviglie tintinnano come campanelli. Dunque non darti pena, e vieni con me in quella città».
Ma il giovane Pescatore non rispose alla sua Anima, si chiuse le labbra col suggello del silenzio e con una corda si legò le mani, e s’incamminò per tornare donde era venuto, là alla piccola baiadove la sua amata soleva cantare. E la sua Anima non cessò di tentarlo lungo la via, ma egli non le diede risposta, e si rifiutò di fare tutte le malvagità cui ella tentava di piegarlo, tanto grande era la forza dell’amore che egli aveva dentro di sé.
E quando giunse sulla spiaggia, sciolse la corda che gli legava i polsi e si tolse dalle labbra il suggello del silenzio, e chiamò la piccola Sirena. Ma ella non venne al suo richiamo, per quanto egli la chiamasse e la supplicasse per tutto il giorno.
E l’Anima lo schernì e gli disse: «Davvero è ben misera cosa la gioia che tu hai da questo amore. Sei come uno che in tempo di carestia versi dell’acqua in una brocca infranta. Hai dato via ciò che avevi, e nulla ti è stato dato in cambio. È molto più vantaggioso per te seguirmi, perché io so dove si stende la Valle del Piacere, e tutto ciò che vi accade».
Ma il giovane Pescatore non rispose alla sua Anima, e nel cavo di una rupe si fabbricò una capanna di giunchi, e vi abitò per un anno intero. Ogni mattina chiamava la Sirena, e ogni mezzogiorno di nuovo la chiamava, e a notte invocava il suo nome. Ma lei non affiorò mai dal mare per andargli incontro, ed egli non la trovò in alcun punto del mare, benché la cercasse nelle grotte e nell’acqua verde, nelle pozze lasciate dall’alta marea e nelle sorgenti in fondo agli abissi.
E sempre l’Anima lo tentava con la sua perfidia, e gli sussurrava terribili cose. Ma non riusciva a vincerlo, tanto grande era la forza dell’amore.
E quando l’anno fu trascorso, l’Anima pensò fra sé: “Ho tentato il mio signore con la perfidia, e il suo amore è più forte. Ora lo tenterò con la bontà, e può essere che venga con me”.
Così si rivolse al giovane Pescatore e disse: «Ti ho narrato dei piaceri del mondo, e sei rimasto sordo alle mie parole. Permetti che ti narri del dolore del mondo, e può essere che tu mi dia ascolto. Poiché in verità è solo il dolore il Signore di questo mondo, e non c’è proprio nessuno che possa sfuggire alla sua rete. Ad alcuni mancano le vesti, ad altri il pane. Ci sono vedove con vesti di porpora, e vedove con vesti a brandelli. Su e giù per le paludi errano i lebbrosi, pieni di malanimo. I mendicanti vannosu e giù per le strade maestre, con le bisacce vuote. Per le vie della città vaga la Fame, e la Peste siede sulle porte. Vieni, andiamo ad alleviare questi mali, a impedire che avvengano. Tu indugi a richiamare la tua amata, e lei non risponde al tuo richiamo, ma cos’è mai l’amore per essere anteposto a una così alta missione?».
Ma il giovane Pescatore non rispose nulla, tanto grande era la forza del suo amore. E ogni mattina chiamava la Sirena, e ogni mezzogiorno di nuovo la chiamava, e a notte invocava il suonome. Ma lei non affiorò mai dal mare per andargli incontro, ed egli non la trovò in alcun punto del mare, benché la cercasse nei fiumi del mare, e nelle valli sotto le onde, nel mare che la notte fa violaceo, e nel mare che l’alba lascia grigio.
E quando il secondo anno fu trascorso, l’Anima disse al giovane Pescatore, una notte che egli se ne stava come sempre solo nella sua capanna di giunchi: «Ahimè, ti ho tentato con la perfidia econ la bontà, e il tuo amore è più forte di me. Perciò ora non ti tenterò più, ma ti prego di farmi rientrare nel tuo cuore, che io possa essere una cosa sola con te, come prima».
«Certo che puoi rientrare», disse il giovane Pescatore, «perché nei giorni in cui vagavi senza cuore per il mondo devi aver molto sofferto».
«Ahimè!», gemette l’Anima. «Non riesco a entrare, tanto questo tuo cuore è recinto dalla morsa dell’amore».
«Eppure vorrei poterti aiutare», disse il giovane Pescatore.
A quel punto un alto grido di dolore si levò dal mare, il grido che gli uomini odono quando una delle Creature Marine incontra la morte. E il giovane Pescatore balzò in piedi e uscì dalla sua capanna di giunchi e corse alla spiaggia. E le onde tenebrose si precipitarono sul lido recando con sé un fardello più bianco dell’argento. Bianco come la spuma era, e come un fiore fluttuava sulle onde. E la risacca lo tolse alle onde, e la spuma alla risacca, e la spiaggia lo accolse, e il giovane Pescatore vide ai suoi piedi il corpo della piccola Sirena. Morto ai suoi piedi esso giaceva.
Piangendo come chi è distrutto dalla pena, egli si lasciò cadere accanto a lei, e baciò il freddo scarlatto della bocca, e accarezzò l’ambra bagnata della chioma. Si lasciò cadere accanto a lei sulla sabbia, piangendo come chi trema di gioia, e fra le braccia brune la strinse al petto. Fredde erano le sue labbra, eppure egli le baciava. Sale era il miele dei capelli, eppure egli lo gustava conamara gioia. Baciava le palpebre chiuse, e le gocce stillanti sulle loro coppe erano meno salate delle sue lacrime.
E alla morta creatura egli si confessò. Nelle conchiglie delle sue orecchie versò l’aspro vino della sua storia. Pose le fragili mani intorno al collo, e con le dita toccò lo stelo sottile della gola.Amara, amara era la sua gioia, e piena di strano godimento la sua pena.
Il mare color della tenebra si faceva più vicino, e la candida spuma gemeva come un lebbroso. Bianchi artigli di spuma il mare allungava sul lido. Dal palazzo del Re del Mare di nuovo risuonò il grido di dolore, e lontano, al largo, i grossi Tritoni soffiarono cupamente nei loro corni.
«Fuggi», incitò l’Anima, «perché sempre più vicino si fa il mare, e se tu resti ti ucciderà. Fuggi lontano, perché ho paura, vedendo il tuo cuore chiuso a me per la forza smisurata del tuoamore. Fuggi lontano, in un luogo sicuro. Non vorrai mandarmi senza cuore anche nell’altro mondo?».
Ma il giovane Pescatore non ascoltava la sua Anima, invocava la piccola Sirena e le diceva: «L’Amore è migliore della saggezza, e più prezioso della ricchezza, e più bello dei piedi delle figlie dell’uomo. Non possono distruggerlo i fuochi, né spegnerlo leacque. Ti ho chiamata all’alba, e non sei venuta al mio richiamo. La Luna udiva il tuo nome, eppure tu non mi davi risposta. Perché perfidamente ti avevo lasciata e a mio danno ero andato vagando lontanò. Eppure sempre il tuo amore è resistito in me, è sempre stato forte, e nulla l’ha mai potuto abbattere, sia che io mi volgessi al male sia che mi volgessi al bene. E ora che sei morta,voglio morire anch’io con te».
E l’Anima lo supplicò di fuggire di lì, ma egli non voleva, tanto grande era il suo amore. E il mare si faceva più vicino, e cercava di coprirlo con le sue onde, e quando egli capì che stava giungendo la fine baciò con folli baci le fredde labbra della Sirena, e il cuore che era in lui si spezzò. Ed ecco, nell’istante in cui il suo cuore per l’empito del suo amore si spezzava, l’Anima trovò un accesso ed entrò, e fu una cosa sola con lui come prima. E il mare coprì con le sue onde il corpo del giovane Pescatore.
E al mattino il Sacerdote uscì per benedire il mare, che era stato agitato. E lo seguivano monaci e musici, portatori di ceri e agitatori di turiboli, e molta altra gente.
E quando il Sacerdote giunse sulla spiaggia vide il giovane Pescatore che giaceva morto nella risacca stringendo fra le braccia il corpo della piccola Sirena. Ed egli si ritrasse turbato, e fattosi il segno della croce, gridò forte: «Non benedirò il mare né alcuna cosa che lo abiti. Maledette siano le Creature Marine, e maledetti tutti coloro che hanno rapporti con quella stirpe. E quanto a lui che per amore rinnegò Dio, e ora giace qui con la sua amata uccisa per decreto di Dio, prendete il suo corpo e quello della sua amata, e seppelliteli nell’angolo del Campo dei Pagani, e non mettetevi alcuna croce sopra, né alcun segno di sorta, che nessuno sappia il luogo della loro sepoltura. Poiché maledetti furono invita, e maledetti saranno pure in morte».
E i suoi uomini fecero come egli ordinava, e in un angolo del Campo dei Pagani dove non crescevano erbe odorose scavarono una fossa profonda, e vi deposero le morte creature.
E quando il terzo anno fu trascorso, in un giorno che era un giorno santo, il Sacerdote si recò alla cappella, per mostrare alla gente le piaghe del Signore e parlare dell’ira di Dio.
E quando ebbe indossato i paramenti sacri e fu entrato, inginocchiatosi davanti all’altare lo trovò ricoperto di strani fiori che non s’erano mai veduti prima d’allora. Strani erano a vedersi, e di una singolare bellezza, e la loro bellezza lo turbò e il loro profumo lostordì di dolcezza. Ed egli si sentì invadere da una gioia di cui non sapeva darsi ragione.
E dopo che ebbe aperto il tabernacolo e cosparso d’incenso l’ostensorio che vi era dentro e mostrata ai fedeli la bianca ostia, nascostala di nuovo dietro il velo dei veli, iniziò il suo sermone, con l’intento di parlare dell’ira di Dio. Ma la bellezza dei candidi fiori lo turbava, e il loro profumo lo stordiva di dolcezza, e altre parole vennero alle sue labbra, e non parlò dell’ira di Dio, ma del Dio il cui nome è Amore. E perché così parlasse non sapeva.
E quand’ebbe finito il suo sermone la gente piangeva, e il Sacerdote tornò alla sacrestia con gli occhi gonfi di lacrime. E i diaconi entrarono a togliergli i paramenti, e gli levarono il camice e la fascia, il manipolo e la stola. Ed egli era immobile e trasognato.
E quando gli ebbero tolti i paramenti, egli li guardò e disse: «Che fiori sono quelli che stanno sull’altare, e da dove vengono?».
Ed essi gli risposero: «Che fiori siano non sappiamo dirlo, ma vengono dall’angolo del Campo dei Pagani». E il Sacerdote tremò, e tornò a casa e s’inginocchiò in preghiera.
E al mattino, mentre albeggiava ancora, egli uscì seguito da monaci e musici, portatori di ceri e agitatori di turiboli, e con molta altra gente andò sulla spiaggia, e benedisse il mare e tutti gli esseri selvaggi che vi si trovano. Anche i Fauni benedisse, e le piccole creature che danzano nella foresta, e quelle dagli occhi luminosi che ammiccano tra le foglie. Tutte le cose del mondo di Dio benedisse, e la gente era colma di gioia e di meraviglia. Eppure mai più nell’angolo del Campo dei Pagani spuntarono fiori di sorta, e il campo rimase arido com’era sempre stato. Né vennero le Creature Marine nella baia, come in passato solevano, perché se ne andarono in un’altra parte del mare.

Illustrazione di M. C. Burd (1873-1933)