giovedì 29 dicembre 2022

L'ULTIMO SOGNO DELLA VECCHIA QUERCIA Estratto da "Fiabe" H.C. Andersen



L'ULTIMO SOGNO DELLA VECCHIA QUERCIA
Estratto da "Fiabe"
H. C. Andersen
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[...] «Poverina! Tutta la tua vita dura solo un giorno! ah, com’è breve il tempo tuo! Questo è davvero così triste!».
«Triste? – rispondeva sempre l’Effimera – che cosa vuoi dire? Tutto intorno a me è meravigliosamente chiaro, caldo e bello, e questo mi rende felice!».
«Ma dura solo un giorno, poi tutto è finito!».
«Finito? – replicò l’Effimera – che cosa è finito?[...]
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        L'ULTIMO SOGNO DELLA                       VECCHIA QUERCIA
Nel bosco in cima alla collina, lungo la riva del mare aperto, stava una vecchia quercia. Aveva trecentosessantacinque anni, ma questo lungo periodo di tempo corrisponde per la quercia a non più di altrettanti giorni per noi uomini; noi ci svegliamo al mattino, dormiamo di notte e facciamo i nostri sogni; per gli alberi è diverso: restano svegli per tre stagioni e solo d’inverno dormono, l’inverno è il loro periodo di riposo, è la loro notte dopo il lungo giorno che si chiama primavera, estate e autunno.
Per molte giornate estive, l’Effimera, la piccola mosca che non vive più di un solo giorno, aveva danzato intorno alla sua corona di foglie, aveva vissuto, volato e si era sentita felice, e quando s’era stancata, veniva a riposarsi un attimo, tranquilla e beata, su una delle grosse foglie fresche della quercia.
E allora l’albero le diceva: «Poverina! Tutta la tua vita dura solo un giorno! ah, com’è breve il tempo tuo! Questo è davvero così triste!».
«Triste? – rispondeva sempre l’Effimera – che cosa vuoi dire? Tutto intorno a me è meravigliosamente chiaro, caldo e bello, e questo mi rende felice!».
«Ma dura solo un giorno, poi tutto è finito!».
«Finito? – replicò l’Effimera – che cosa è finito? Anche tu finisci?».
«No, io vivrò probabilmente ancora migliaia dei vostri giorni, e ogni mio giorno corrisponde a un anno intero. È un tempo così lungo che non te lo puoi neppure immaginare!».
«No, non ti capisco. Dici che hai migliaia dei miei giorni, ma io ho migliaia di momenti di gioia e di felicità! Finirà forse tutta la bellezza di questo mondo, quando tu morirai?».
«No – rispose l’albero – durerà certamente a lungo e molto più a lungo di quanto si possa pensare!».
«Come vedi, abbiamo tutt’e due uno stesso tempo, solo che lo calcoliamo in modo diverso!».
L’Effimera danzò e svolazzò nell’aria, e si rallegrò delle sue sottili ali di garza e di velluto, e gioì della tiepida brezza, satura dei profumi dei campi di trifoglio, delle rose selvatiche della siepe, del sambuco e del caprifoglio, per non parlare dell’asperula odorosa, della primula e della menta selvatica; la loro fragranza era così intensa che l’Effimera quasi se ne ubriacò.
Il giorno fu lungo e bellissimo, pieno di gioia e di dolci sensazioni; e quando il sole tramontò, l’Effimera si sentì piacevolmente stanca di tutta quella felicità. Le ali non la volevano più sostenere, così si posò lentamente su un morbido stelo d’erba ondeggiante, piegò la testa come poté e si addormentò felice: era la morte.
«Povera piccola effimera! – disse la quercia – è stata una vita molto breve!».
Ogni giorno d’estate si ripeteva la stessa danza, la stessa domanda, la stessa risposta, e lo stesso sonno finale. Si ripeteva di generazione in generazione di effimere, e tutte erano ugualmente felici, ugualmente contente.
La quercia rimase sveglia durante il mattino della primavera, per tutto il meriggio dell’estate e la sera dell’autunno, e il suo tempo di dormire, la sua notte, l’inverno, era sempre più vicino.
Già i temporali cantavano il loro: «Buona notte! Buona notte!», e mentre una foglia cadeva di qua, e un’altra di là: «Noi le raccogliamo – cantavano. – Tu cerca di dormire! Ti canteremo noi la ninnananna, ti dondoleremo noi nel sonno, questo fa bene ai vecchi rami, non è vero? Scricchiolano già dalla gioia! Dormi bene! Dormi bene! È la tua trecentosessantacinquesima notte, sei ancora un bimbo di un anno! Dormi bene! Le nuvole ti cospargeranno di neve, e ci sarà una bella coltre morbida e tiepida sui tuoi piedi. Dormi bene e sogni d’oro!».
E la quercia, spogliatasi del suo fogliame, era pronta per dormire il lungo inverno, in cui sognare tanti sogni, sempre cose vissute, come nei sogni degli uomini.
Una volta era stata piccola e aveva tratto origine da una ghianda; secondo il calcolo degli uomini, ora era nel suo quarto secolo: era l’albero più grande e più robusto del bosco: la sua chioma dominava su tutti gli altri alberi e la si poteva scorgere anche da molto lontano, dal mare aperto era un segnale per le navi. L’albero però nemmeno aveva idea di quanti occhi, nel mondo, lo cercassero.
In cima alle sue fronde verdi aveva fatto il nido la colomba, e il cuculo balzava di ramo in ramo e cantava il suo cucù; d’autunno, quando le foglie sembravano lamine di rame, arrivavano gli uccelli migratori e vi si riposavano prima di spiccare il volo per il mare aperto. Ora però era inverno, l’albero era senza foglie, e tutti potevano vedere come erano contorti e nodosi i rami che uscivano dal suo tronco. Le cornacchie e i corvi vi si posavano a turno e parlavano dei tempi duri che stavano per cominciare e delle difficoltà di procurarsi da vivere durante l’inverno. Era quasi il giorno di Natale quando la quercia sognò il suo sogno più bello: ascoltiamolo!
Ebbe la sensazione che quella fosse una giornata di festa, e le sembrò di sentire tutte le campane delle chiese suonare a festa, quasi fosse un bel giorno estivo, tanto l’aria era calda e mite. La quercia dispiegava la sua fitta chioma, fresca e verde, i raggi del sole giocavano tra i rami e le foglie, l’aria era piena del profumo delle erbe e dei boccioli, le farfalle multicolori giocavano a rincorrersi e le effimere ballavano: era come se tutto esistesse soltanto perché potessero ballare e divertirsi.
Tutto quello che l’albero aveva vissuto e visto, nei suoi lunghi anni di vita, accadere intorno a lui, gli sfilò davanti, come in un corteo. Vide cavalieri e dame dei tempi antichi, con piume sui cappelli e falconi in pugno, cavalcare nel bosco; il corno da caccia risuonò e i cani abbaiarono. E vide guerrieri nemici in armature lucenti, con sproni e alabarde, montare e smontare le tende; i fuochi delle sentinelle ardevano e si cantava e si dormiva sotto i rami tesi della quercia. E vide anche coppie d’innamorati che s’incontravano pieni di gioia al chiaro di luna e incidevano i loro nomi, le loro iniziali, nella sua corteccia grigio-verde.
Una volta, moltissimi anni prima, cetre e arpe eolie erano state appese ai suoi rami da certi cantori erranti; ora erano ancora lì appese e risuonavano con tanta dolcezza. Le colombe tubavano come volessero raccontare quello che l’albero provava, e il cuculo lo chiamava per dirgli quanti giorni d’estate la quercia doveva ancora vivere.
Fu come se una nuova linfa di vita scorresse dalle sue radici più intime fino ai rami suoi più alti; l’albero sentì che si stava protendendo coi rami, e che nelle sue radici c’era vita e moto, anche sottoterra; sentì crescere le sue forze e crebbe sempre più alto. Il tronco non cessava d’innalzarsi, la sua chioma si faceva sempre più folta e ampia, e l’albero, man mano che cresceva, sentiva crescere anche la sua felicità e il suo gioioso desiderio di elevarsi sempre più in alto, fino al caldo sole luminoso.
Ormai era cresciuto così oltre le nubi, che sotto la sua chioma fluttuavano oscuri stormi di uccelli migratori o grandi frotte di cigni bianchi! E ogni sua foglia poteva vedere quasi avesse avuto gli occhi; le stelle erano visibili anche alla luce del giorno, grandi e sfavillanti, e ognuna scintillava come un occhio così mite e chiaro da ricordargli tutti quei cari occhi, occhi di bambini, occhi di innamorati, che si erano dati convegno sotto i suoi rami.
Che momento meraviglioso fu quello, e che gioia! Eppure, in tutta quella gioia, la quercia provò nostalgia, e desiderò che tutti gli altri alberi del bosco, tutti i cespugli, le erbe e i fiori si potessero innalzare insieme a lei, e potessero provare quella gioia e godere di quello splendore. La grande quercia, nel suo sogno di grandezza, non sarebbe stata pienamente felice se non li avesse avuti tutti quanti con sé, grandi e piccini, e questo sentimento inappagato fu un fremito che si ripercosse in ogni suo ramo, in ogni sua foglia, caldo e fervido come in un cuore umano.
La chioma della quercia ondeggiava quasi stesse cercando qualcosa nel suo silenzioso desiderare, e quando guardò sotto di sé, sentì il profumo delle asperule e subito dopo, ancor più intenso, quello dei caprifogli e delle viole, e le sembrò che il cuculo le rispondesse.
Tra le nuvole spuntavano le verdi cime della foresta; la quercia vide, sotto di sé, gli altri alberi che crescevano e si innalzavano. Siepi ed erbe si tendevano verso il cielo; alcune si strappavano dalla terra le radici per salire più in fretta. La betulla era la più lesta: come un raggio bianco luminoso il suo tronco si allungava verso l’alto e i rami si piegavano come verdi veli o stendardi; tutte le piante del bosco, persino le canne brune e piumate, crescevano con la quercia, mentre gli uccelli la seguivano cantando; su un filo d’erba che pareva uno svolazzante nastro di seta verde stava una cavalletta che suonava con le ali; i maggiolini brontolavano e le api ronzavano; ogni uccello usava il proprio strumento, e tutto fu un solo canto di gioia verso il cielo.
«Quel fiorellino rosso, là sulla riva del mare, anche lui deve salire con noi! – esclamò la quercia – E così pure la campanula azzurra, e la margheritina!». Perché, vedete, la quercia li voleva tutti con sé.
«Ci siamo anche noi, ci siamo anche noi!», gridarono i fiori.
«E quelle belle asperule dell’estate scorsa; e l’anno passato c’era un’aiuola di mughetti! e il melo selvatico, come era bello! E tutta la magnificenza del bosco, che ogni anno fa ritorno! Se fosse primavera, sarebbero tutti qui!».
«Ci siamo anche noi, ci siamo anche noi!», risposero voci ancor più in alto nell’aria; sembrava che la avessero preceduta in volo.
«È troppo bello! – gridò la quercia giubilante. – Sono tutti qui, grandi e piccoli! Nessuno è stato dimenticato! Come si può immaginare una tale felicità? Com’è possibile?».
«In cielo, nel regno più bello, si può immaginarla, sì è possibile!», disse una voce nello spazio.
La quercia, che intanto continuava a crescere, sentì che le sue radici si erano staccate dalla terra. «È giusto così, è il meglio che possa accadere! – commentò. – Ora non c’è più nulla che mi trattiene! Posso volare in cielo, nel fulgore e nello splendore! E ho con me tutti i miei cari. Grandi e piccoli. Tutti quanti, tutti!».
Questo fu il sogno della vecchia quercia. E mentre così sognava, un uragano spaventoso si scatenò in mare e sulla terra, nella notte santa di Natale. Il mare rovesciò grosse onde sulla spiaggia, e l’albero scricchiolò, si schiantò e si sradicò proprio nel momento in cui stava sognando che le radici si erano liberate.
La quercia cadde. I suoi trecentosessantacinque anni furono allora pari all’unico giorno dell’Effimera.
Il mattino di Natale, quando spuntò il giorno, l’uragano s’era placato. Tutte le campane delle chiese suonarono a festa e da ogni camino, anche da quello più umile, si levò il fumo azzurrognolo come quello che nelle feste dei druidi si levava dall’altare; era il fumo del sacrificio, del ringraziamento.
Il mare poco a poco si calmò, e a bordo di tutte le navi che avevano vittoriosamente lottato con la tempesta, tutte le bandiere furono spiegate, in segno di gioia e di festa.
«L’albero non c’è più! La vecchia quercia, il nostro segnale sulla costa! – dissero i marinai. – È caduta con la tempesta di questa notte. Chi potrà mai sostituirlo? Nessuno».
Questo fu il breve, ma accorato discorso funebre che fecero sulle sue spoglie. L’albero giaceva disteso sulla coltre di neve che copriva la spiaggia; sopra di esso risuonò il canto che veniva dalla nave, quello sulla gioia del Natale, il canto della redenzione degli uomini in Dio, nella vita eterna.
Cantate schiere dei templi di Dio!
Alleluia, alleluia!
Questa gioia è senza uguali!
Alleluia, Alleluia!
Così diceva l’antico canto, e ogni marinaio sulle navi, cantandolo, si sentiva sollevare nella sua preghiera, proprio come la vecchia quercia si era sentita innalzare nel suo ultimo magnifico sogno della notte di Natale.