Murakami Haruki
Recensione
Nicoletta Migliore
[...]“La città e le sue mura incerte” è un romanzo incredibile. Incredibile nel senso più pregnante del termine: non si riesce a comprendere come Murakami sia in grado di raccontare la realtà che ci circonda in modo così surreale e onirico
Nel suo libro, infatti, ha grande importanza il tema del sogno, della vita immaginaria che, poi, si scopre esistere realmente, in uno spazio e in un tempo altri costruiti attraverso l’incanto dell’amore.
Mondi dalle sfumature oniriche, chimere intrise di malinconia, enigmatiche suggestioni che rapiscono e incantano: “La città e le sue mura incerte” è immerso nelle atmosfere ipnotiche e rarefatte che hanno reso celebre Murakami Haruki.
In un’atmosfera sospesa fra la realtà e il mondo parallelo che la affianca silenziosamente, i due protagonisti della storia costruiscono e si costruiscono, instillando in chi legge dubbi e riflessioni sui concetti di tempo, verità, amore, passato… e ci si chiede quanto i luoghi che abitiamo prendano parte alla costituzione di ciò che siamo, e di ciò che desideriamo.[...]
https://libreriamo.it/libri/la-citta-e-le-sue-mura-incerte/
LA CITTÀ E LE SUE MURA INCERTE
PARTE PRIMA
1.
Sei tu che mi hai fatto scoprire la città.
Una sera di quell’estate, risalivamo il corso del fiume pervaso dalla fragranza dell’erba. Ogni tanto superavamo piccole cascate, fermandoci a guardare i pesciolini argentati che vi guizzavano. Avevamo tolto le scarpe già da un po’. L’acqua fredda ci gelava le caviglie mentre i nostri piedi sprofondavano nella sabbia fine dell’alveo, soffice come una nuvola in un sogno. Tu avevi un anno meno di me.
Avevi infilato alla bell’e meglio nella borsa – una borsa di plastica gialla che portavi a tracolla – i tuoi sandali rossi con il tacco basso e da qualche minuto mi precedevi nel letto di quel fiume, passando da un banco di sabbia all’altro. Le foglie bagnate si attaccavano ai nostri polpacci, disegnando bellissimi arabeschi verdi. Io reggevo con una mano le mie logore scarpe da ginnastica bianche.
Finché, forse stanca, ti sei seduta nell’erba e senza dire una parola hai rivolto lo sguardo al cielo. Molto in alto, due uccellini lo attraversavano rapidissimi, volando fianco a fianco e levando un verso acuto. Nel silenzio, l’accenno di un tramonto soffuso di azzurro iniziava ad avvolgerci. Quando mi sono seduto accanto a te, ho provato una strana sensazione: migliaia di fili invisibili sembravano tenerti strettamente legata al mio cuore. A farlo vibrare bastava un battito delle tue ciglia, un lieve tremito delle tue labbra.
In quel momento, né tu né io avevamo ancora un nome. Seduti nell’erba sulla sponda di un fiume – sedici anni tu, diciassette io –, in quel tramonto estivo avevamo solo pensieri luminosi, nient’altro. Ben presto sopra le nostre teste sarebbero spuntate fulgide stelle, ma neanche loro avrebbero avuto un nome. Uno accanto all’altra nell’erba, vicino a un fiume, ci trovavamo in un mondo senza nome.
– La città è circondata da mura altissime, – mi hai detto. Parole che avevi trovato in fondo al silenzio. Come qualcuno che scopre delle perle insabbiate negli abissi. – Non è una città molto grande. Ma neanche tanto piccola da entrare tutta nel campo visivo.
Era la seconda volta che mi parlavi di quella città. Una città fatta cosí, chiusa tutt’intorno da alte mura.
Mi hai raccontato che ha anche un bel fiume e tre ponti di pietra (uno a est, un altro a ovest e il Ponte vecchio), una biblioteca, una torre di guardia, una fonderia inattiva e degli alloggi collettivi ben costruiti. Schiena contro schiena nella pallida luce del crepuscolo, abbiamo guardato la città. A volte dall’alto di una collina lontana, le palpebre socchiuse, a volte tanto vicini che ci sembra di poterla toccare, e con gli occhi spalancati.
– In realtà la vera me stessa è lí che vive, in quella città dalle alte mura, – mi hai detto.
– Quindi adesso, davanti a me, non ci sei veramente tu? – ti ho chiesto, quasi fosse la cosa piú naturale del mondo.
– No, non ci sono io, non veramente. C’è solo qualcuno che ha preso il mio posto. Un’immagine sbiadita di me.
Ci ho riflettuto su. Un’immagine sbiadita di te? Ho deciso che non era il momento di farti partecipe dei miei pensieri.
– D’accordo, ma la vera te stessa, in quella città, che cosa fa?
– Lavora in una biblioteca, – mi hai risposto a bassa voce. – Dalle cinque del pomeriggio fino alle dieci di sera, piú o meno.
– Piú o meno?
– Sai, lí, ogni orario è sempre approssimativo. Sulla torre della piazza principale c’è un grande orologio, ma non ha le lancette.
Ho immaginato una torre, un orologio senza lancette…
– E quella biblioteca è aperta a tutti?
– Ah, no! Non credere che chiunque possa entrare e uscire liberamente! Per accedere bisogna avere certi requisiti. Tu puoi, però, perché tu li hai.
– Certi requisiti… sí, ma quali?
Hai sorriso in silenzio. Senza rispondere alla mia domanda.
– Comunque sia, una volta entrato nella biblioteca, potrò incontrare la vera te, giusto?
– Se riesci a trovare la città. E se…
A quel punto ti sei interrotta e sei arrossita leggermente. Io però ho percepito le parole che non hai pronunciato: «Se stai cercando davvero me». È questo che non avevi il coraggio di dire.
Ti ho messo con delicatezza un braccio attorno alle spalle. Indossavi un abito verde pallido, senza maniche. Hai posato la guancia contro la mia spalla. Eppure non era realmente a te che ho passato un braccio attorno alle spalle, in quel tramonto estivo. Solo a un’immagine che aveva preso il tuo posto, come mi hai spiegato.
Tu, quella vera, eri in una città circondata da alte mura, nella quale ci sono degli isolotti ricoperti di lussureggianti salici di fiume, colline basse, tranquilli animali con un corno solo. Gli abitanti vivono in vecchi condomini, dove conducono un’esistenza frugale, ma senza privazioni. Gli unicorni possono mangiare liberamente le foglie e le bacche che crescono all’interno delle mura, ma durante i lunghi inverni la neve seppellisce tutto e molti di loro muoiono di freddo e di fame.
Quanto desideravo entrare in quella città! Per incontrare la vera te.
– Le mura che cingono la città sono davvero molto alte, entrare è quasi impossibile, – mi hai detto. – Ed è altrettanto difficile uscirne.
– Come potrei fare, allora? C’è un modo?
– Basta che tu lo desideri. Però non è semplice, sai, desiderare qualcosa con tutto il cuore. Può darsi che ci voglia del tempo. E che lungo il percorso tu debba abbandonare tante cose. Cose preziose, a cui tieni. Non darti per vinto, però. Perché non c’è fretta, la città rimane lí, non sparisce.
Ho provato a immaginare di incontrare la vera te all’interno della città. Mi sono venuti in mente vasti meleti rigogliosi all’esterno delle mura, tre ponti su un fiume, il verso di uccelli notturni non visibili. E una piccola, antica biblioteca dove lavori tu.
– Per te, lí c’è sempre un posto a disposizione, – mi hai detto.
– C’è un posto per me?
– Sí. C’è una funzione vacante, nella città, una sola, a cui sarai assegnato.
– E che tipo di lavoro è?
– Sarai il Lettore dei sogni, – mi hai risposto abbassando la voce. Come se mi confidassi un segreto.
Alle tue parole, mi è scappato da ridere.
– Ma se non ricordo nemmeno i miei, di sogni! Come faccio a diventare un Lettore dei sogni? Non mi sembra possibile.
– No, il Lettore non ha bisogno di ricordare i propri sogni. Basta che legga quelli che sono conservati nell’archivio della biblioteca, sogni vecchi. Però non è una cosa che riesca a fare chiunque.
– Io invece sí?
Hai annuito.
– Sí, tu ne sei capace. Ce l’hai, questo requisito. E poi ci sarò io, ti potrò aiutare. Starò vicino a te ogni sera.
– Quindi diventerò un Lettore dei sogni e ogni sera, nell’archivio della biblioteca, leggerò un mucchio di vecchi sogni. E tu sarai al mio fianco, – ho ripetuto, riepilogando quanto avevo appena saputo. – La vera te, voglio dire.
Sotto il mio braccio, la tua spalla nuda che spuntava dal vestito verde tremava un po’. Poi di colpo si è irrigidita.
– Esattamente. Vorrei che tu non dimenticassi una cosa, però. Se ti rivedrò all’interno della città, non mi ricorderò di averti già incontrato, non ne avrò la piú pallida reminiscenza.
– Ma perché?
– Non lo capisci?
Sí, certo che lo capivo. Perché quella che stavo stringendo a me, era solo un’immagine che ha preso il tuo posto. Tu – quella reale – vivi dentro la città. In quella lontana, lontanissima e misteriosa città circondata da alte mura.
La spalla morbida e tiepida sotto la mia mano tuttavia mi sembrava vera, non riuscivo a credere che non fosse la tua.
2.
In questo mondo «reale», tu e io vivevamo a una certa distanza l’uno dall’altra. Non che fossimo veramente lontani, ma neanche abbastanza vicini da incontrarci ogni volta che lo desideravamo. Per venire da te in treno, cambiando due volte, impiegavo un’ora e mezza. E nessuno di noi due viveva in una città circondata da alte mura. Di conseguenza, è ovvio, potevamo andare e venire come volevamo.
Io abitavo in una tranquilla periferia residenziale a due passi dal mare, tu nel centro di una metropoli prospera e animata. Quell’estate io frequentavo il terzo anno di liceo, tu il secondo. Io una scuola locale pubblica, tu un istituto privato femminile del tuo distretto. Riuscivamo a vederci una o due volte al mese, piú o meno. O io venivo nella tua città, o tu venivi nella mia, di solito facevamo a turno. Quando ero io a spostarmi, ci incontravamo ai giardinetti vicino a casa tua, oppure all’orto botanico pubblico, al quale si accedeva a pagamento, ma in compenso di fianco alle serre c’era un locale poco frequentato che ci piaceva moltissimo. Ordinavamo due caffè e due fette di torta di mele (un lusso, per noi), e potevamo parlare indisturbati quanto volevamo.
Quando eri tu a venire da me, invece, andavamo sempre a passeggiare lungo il fiume o in riva al mare. Solo due cose volevi vedere ogni volta che venivi nella mia città: il fiume e il mare, perché vicino a casa tua non scorrevano fiumi, e naturalmente non c’era neanche il mare. Eri affascinata dall’immensa quantità d’acqua esistente in natura.
– Non so perché, guardare l’acqua è rasserenante. Mi piace ascoltare il rumore che fa, – dicevi.
Ci eravamo conosciuti, e innamorati, in un’occasione particolare dell’autunno precedente, e da allora erano trascorsi otto mesi. Quando ci vedevamo, ci tenevamo abbracciati e ci scambiavamo baci furtivi il piú lontano possibile dallo sguardo altrui. Non andavamo oltre, però. Una delle ragioni era la mancanza di tempo, ma c’era anche un ostacolo concreto: la mancanza di un luogo in cui avere maggiore intimità. Il motivo principale, tuttavia, era ancora diverso, la verità è che finivamo col perderci in conversazioni trasognate, lasciando cosí passare tutto il tempo a disposizione, concentrati solo nelle parole che ci dicevamo. Fino ad allora né tu né io avevamo mai avuto nessuno a cui raccontare liberamente ogni emozione, ogni pensiero, nel modo che ci veniva piú spontaneo e naturale. E poterlo fare l’uno con l’altra ci sembrava un miracolo, o quasi. Cosí, quel paio di volte al mese in cui avevamo l’occasione di vederci, parlavamo, parlavamo… e dimenticavamo che le ore scorrevano. Gli argomenti non si esaurivano mai, e quando arrivava il momento di separarci e ci salutavamo davanti ai tornelli della stazione, avevamo sempre l’impressione di esserci scordati di dirci cose importantissime.
Questo non significa che non fossi attratto fisicamente da te. Un diciassettenne in buona salute, davanti a una sedicenne con un bel seno florido, tanto piú quando le tiene un braccio intorno alla vita flessuosa, prova per lei desiderio, è naturale, come si può pensare il contrario? Eppure l’intuito mi portava a credere che non c’era l’urgenza di una maggiore intimità. Ciò di cui avevo bisogno in quel periodo era vederti un paio di volte al mese per fare lunghe passeggiate e parlare con sincerità di tante cose. Conoscerti meglio, rivelarti i segreti che avevo nel cuore, ascoltare i tuoi. Poi abbracciarti all’ombra di un albero, posare le mie labbra sulle tue. Per me erano ore meravigliose e non avevo fretta di ottenere altro. Perché altrimenti, temevo, avrei perso tutto quello che già avevo, che era prezioso per me. Lo avrei perso irrimediabilmente, senza possibilità di tornare indietro. Il rapporto fisico sarebbe venuto piú tardi. Questo pensavo. O questo mi diceva il mio intuito.
Sí, ma di cosa parlavamo, tu e io, occhi negli occhi? Ormai non lo rammento piú. Ci siamo detti troppe cose per ricordare ogni argomento delle nostre infinite conversazioni. È probabile che da quando hai iniziato a raccontarmi della straordinaria città circondata da alte mura, questo sia diventato il soggetto principale dei nostri discorsi.
Mi descrivevi com’era fatta, rispondevi alle domande precise che ti ponevo, andavi definendone i dettagli concreti e io li annotavo. In origine, la città l’hai costruita tu. Oppure esisteva già dentro di te. Però penso di averti aiutato, almeno un poco, a farne qualcosa di visibile, qualcosa di descrivibile. Tu raccontavi, io prendevo nota. Cosí come le parole dei filosofi e dei religiosi delle epoche passate, ognuno nell’ambito della propria dottrina, erano diligentemente riportate dai discepoli, o da scrupolosi archivisti. Al pari di uno scrivano efficiente, o un discepolo coscienzioso, io segnavo tutto su un piccolo quaderno che portavo con me a questo scopo. Quell’estate, noi due l’abbiamo passata infervorati in quel nostro lavoro comune.
3.
In autunno le bestie, per prepararsi ad affrontare il freddo dell’inverno in arrivo, si coprono di un mantello dorato. Il corno sulla fronte è bianco, acuminato. Si lavano gli zoccoli nell’acqua fredda del fiume, tendono il collo per mangiare avidamente le bacche rosse degli alberi e masticano le foglie di ginestra.
È una stagione molto bella, l’autunno.
In piedi su una delle torri di guardia inserite lungo le mura, al tramonto, attendo di udire il flauto di corno. Viene suonato poco prima che il sole cali del tutto, una nota lunga, tre brevi. È la regola. Nel crepuscolo che lentamente va imporporando il cielo, la dolce voce del flauto scivola lungo le vie lastricate. Da centinaia di anni (o forse da un’epoca ancora piú lontana), questo richiamo è sempre lo stesso, si ripete sempre uguale. Penetra nelle fessure fra le pietre delle case, nelle statue che si ergono lungo le recinzioni dei giardini.
Quando il suono del flauto percorre la città, le bestie voltano la testa verso il ricordo dei tempi antichi. Alcune smettono di masticare, altre di colpire con gli zoccoli il selciato, altre ancora, nell’ultimo angolo di sole, si svegliano dal loro sonno pomeridiano, e tutte insieme sollevano il capo.
Per un attimo si immobilizzano, sono come statue. A ondeggiare è soltanto il loro soffice mantello dorato mosso dal vento. Sí, ma cosa stanno guardando? Tutte voltate nella stessa direzione, gli occhi fissi sul flauto, non muovono un muscolo e tendono le orecchie al richiamo dello strumento.
Quando la risonanza dell’ultima nota svanisce dissolvendosi nell’aria, si alzano accostando le zampe anteriori, o cambiano posizione stirando le membra. Per un attimo restano come incantate, poi si mettono in cammino, tutte nello stesso momento, e a lungo fanno riecheggiare nelle strade della città il rumore degli zoccoli.
La processione segue un tracciato tortuoso fra le vie lastricate. Non c’è un unicorno in particolare che cammini in testa alla fila, o che ne prenda la guida. Tutti tengono lo sguardo basso e scendono lungo il fiume silenzioso, scuotendo un poco le spalle a destra e a sinistra. Ciononostante, tra l’uno e l’altro si avverte un delicato, innegabile legame.
Mentre li osservo, poco per volta mi rendo conto che il loro percorso è meticolosamente stabilito. Le bestie, cui se ne aggiungono alla spicciolata altre che sbucano da ogni parte, attraversano il Ponte vecchio, avanzano fino alla piazza dove si erge una torre dalla cima aguzza (sulla quale, come mi hai detto una volta, c’è un orologio senza lancette). Da lí scendono negli isolotti per unirsi ai piccoli branchi che stanno brucando l’erba, proseguono lungo la strada che costeggia il fiume risalendone il corso, superano la zona delle fabbriche seguendo verso nord un canale ormai prosciugato e recuperano un altro branco in cerca di bacche nel bosco. Poi cambiano direzione, si dirigono verso ovest. Passano sotto il corridoio coperto che collega due edifici della fonderia e salgono la lunga gradinata sul versante della collina settentrionale.
Le mura della città hanno solo un portone. Aprirlo e chiuderlo è compito del Guardiano. È un portone pesante, massiccio, rinforzato da spesse lastre di ferro. Eppure il Guardiano ne spinge i battenti avanti e indietro con sorprendente facilità. A parte lui, nessuno può toccarlo.
Il Guardiano è un uomo vigoroso, grande e grosso, di assoluta lealtà nel suo lavoro. Ha la testa completamente rasata, la fronte sporgente, il viso glabro e liscio. Ogni mattina scalda l’acqua in una pentola e si rade con scrupolo cranio e guance con un grande rasoio a mano. La sua età è indefinibile. Chiamare le bestie a raccolta mattina e sera fa parte delle sue mansioni. Sale su una torre alta un paio di metri davanti alla sua baracca, e rivolto al cielo suona il flauto di corno. Com’è possibile che quell’uomo burbero, dall’aspetto quasi selvatico, riesca a produrre delle note tanto dolci e melodiose, da dove le tira fuori? Ogni volta che lo sento suonare resto stupefatto.
Il posto riservato agli unicorni è all’esterno del portone, a nord. Lí dormono, si accoppiano, partoriscono. Ci sono frasche e foglie, un bosco, un torrente. Anche quello spazio è circondato da un muro. Un muretto poco piú alto di un metro, eppure insormontabile per le bestie. Ma può darsi che semplicemente non vogliano superarlo.
Ci sono sei torri di vedetta da un lato e dall’altro del portone, dodici in tutto. Sono provviste di vecchie scale a chiocciola di legno, accessibili a chiunque. Dall’alto di quelle torri si può spaziare con la vista e controllare dove si trovano gli unicorni, osservare cosa fanno. Di solito però nessuno ci sale. Gli abitanti della città non hanno alcun interesse per la vita di quegli animali.
Solo nella prima settimana di primavera la gente si ammassa sulle torri di guardia per assistere ai furiosi combattimenti fra gli esemplari maschi. È difficile immaginare quale trasformazione subiscano gli unicorni in quel periodo, quanto diventino aggressivi. Per coprire le femmine, i maschi ignorano persino il cibo e combattono fra loro con tutte le loro forze, disperatamente. Levano muggiti minacciosi e cercano di trafiggere l’avversario con il corno, mirando alla gola e al ventre.
Solo durante la settimana dell’accoppiamento non possono entrare nella città. Il Guardiano non apre il portone per evitare che diventino un pericolo per gli abitanti (quindi per tutta la settimana non suona il flauto di corno, né il mattino né la sera). Nel corso dei combattimenti diversi maschi riportano gravi ferite, alcuni perdono la vita. E dal sangue vermiglio che scorre al suolo nasce nuovo ordine, nasce nuova vita. Come nuove gemme spuntano simultaneamente, all’inizio della primavera, sui giovani rami dei salici.
L’esistenza degli unicorni si svolge all’interno di un circuito, di un avvicendamento particolare, che noi invano cercheremmo di capire. Ogni cosa si ripete con regolarità e l’ordine si crea a prezzo della loro stessa vita. Trascorsa la settimana di violenza, quando le leggere piogge di aprile lavano via il sangue versato, tornano a essere gli animali mansueti e pacifici di sempre.
A me però non è mai capitato di assistere allo spettacolo dell’accoppiamento. Ho solo ascoltato il racconto che me ne hai fatto tu.
In autunno gli unicorni si accoccolano tranquilli a terra dove capita, il mantello dorato splendente al sole del pomeriggio, in attesa di sentire il suono del flauto levarsi nell’aria. Sono piú o meno mille.
Cosí le giornate passano, le stagioni cambiano. Giornate e stagioni tuttavia sono entità effimere. Il tempo reale della città è altrove.