domenica 29 agosto 2021

AUTO DA FÉ Elias Canetti


 

AUTO DA FÉ

Elias Canetti
Il tema è la distanza siderale tra la morte e la vita. È questa la chiave per decifrarle entrambe, per tenerle nettamente separate, per mostrare al mondo, agli uomini del mondo, che una testa senza mondo è un labirinto senza uscita, mentre la vita è sempre fuori, perché è fuori, all’aperto, che palpita la vita.

Quando il fuoco sta per investirlo, dopo aver distrutto la sua impareggiabile biblioteca, Kien scoppia in una grande risata, come non aveva mai fatto nel corso della sua vita, proprio perché non era stata una vita. La vita è relazione, scambio, contaminazione, pianto e riso. Se hai paura di essere toccato, non vivi. Se hai paura delle donne, dell’altra metà del mondo, non vivi. Se il tuo sguardo è perennemente rivolto davanti all’unico specchio, che rimanda inevitabilmente il vuoto, l’angoscia, l’impossibilità di ospitare altre figure, non vivi.

Auto da fé, commedia umana dei folli
Davide D'Alessandro 
IL FOGLIO
23 GEN 2018
 «Il mondo è una prigione dove è preferibile stare in cella di isolamento». Il celebre aforisma di Karl Kraus non sarebbe dispiaciuto a Peter Kien, poiché il protagonista di Auto da fé, il celebre romanzo di Elias Canetti, è la distanza siderale tra la morte e la vita, è la chiave per decifrarle entrambe, per tenerle nettamente separate, per mostrare al mondo, agli uomini del mondo, che una testa senza mondo è un labirinto senza uscita, mentre la vita è sempre fuori, perché è fuori, all’aperto, che palpita la vita.

Per Ferdinando Castelli, «non è un’opera facile, tanto meno consolatoria; ha una struttura complessa, gioca su diversi registri – onirico, realistico, cerebrale, satirico – senza spezzare l’unità dell’azione; la trasparenza stilistica lascia intravedere profondità di significato, molte pagine nascondono forti risonanze culturali che richiedono attenzione e preparazione. Dalle cinquecentotrenta pagine vien fuori una sequenza di fotogrammi, dalle tinte crude e irridenti, che rimandano ora al realismo amaro del cinema di Buñuel, ora al simbolismo funereo dei racconti di Kafka. Vien fuori cioè l’immagine della commedia umana dei folli. Canetti la descrive freddamente, col distacco di un analista di laboratorio, senza nulla concedere al patetico o al consolatorio».
Kien è un eccellente sinologo ma è una vita che non sboccia, che non viene alla luce, che non opera. I libri nutrono la sua testa, ma se la testa non si compromette con il mondo, se è incapace di far dialogare teoria e pratica, pensiero e relazione, si consegna alla deflagrazione. Quando il fuoco sta per investirlo, dopo aver distrutto la sua impareggiabile biblioteca, Kien scoppia in una grande risata, come non aveva mai fatto nel corso della sua vita, proprio perché non era stata una vita. La vita è relazione, scambio, contaminazione, pianto e riso. Se hai paura di essere toccato, non vivi. Se hai paura delle donne, dell’altra metà del mondo, non vivi. Se il tuo sguardo è perennemente rivolto davanti all’unico specchio, che rimanda inevitabilmente il vuoto, l’angoscia, l’impossibilità di ospitare altre figure, non vivi. La pluralità delle voci infastidisce Kien, abituato ad ascoltare una sola voce, la malattia della sua voce. La riduzione a uno, la chiusura asfittica, lo rinchiudono in un solipsismo tragico ma grottescamente tratteggiato da Canetti. Kien, il niente, finisce per essere tutto, per illuminare non il suo percorso teorico, ma la matrice di vita, di come intendere la vita. Canetti, attraverso Kien, non smette di fissare la morte, di mostrarne la sua bruttura, il suo marchio macabro, la sua parola afasica. Non vedete, sembra dirci, non vi accorgete, sembra urlarci, che bocca piena è la morte? Piena di vuoto, disarticolante, priva di senso, morte della morte.
I passi di Kien vanno indietro, come quelli del gambero, riconducono l’uomo mai sbocciato nel ventre materno, dove tante erano le attese di vita, di fuoriuscita, di ingresso in un nuovo luogo, certo meno ospitale, ma dove ci si forma e ci si sostanzia, ci si studia e ci si scontra, ci s’innamora e ci si fa padri, ci si invecchia e ci si muore, dopo essere stati, dopo aver vissuto, dopo aver lasciato una traccia, seppur lieve, del proprio passaggio. Il cuore di Kien non pulsa, le lancette dell’orologio sono ferme. Eppure Kien esiste, non vive ma esiste, e non è solo. Potrebbe fare massa, con tanti altri Kien, se non odiasse anche la massa. Kien costruisce, giorno dopo giorno, attimo dopo attimo, la propria prigione. Innalza i muri di cemento armato, spegne tutte le luci e tutte le voci. Vuole che il silenzio lo divori. Ma il silenzio non perdona e presto gli si rivolta contro, alimentando i fantasmi che mai smetteranno di andarlo a cercare, a rendergli conto della sua sana follia, della sua rinuncia, del suo mancato essere, della sua morte.
Viene preso alla gola, il povero Kien, e quando la testa senza mondo diviene mondo senza testa, si fanno beffa di lui, lo ridicolizzano. Non è buono per il mondo, abitato da una compagnia di giro poco raccomandabile, pronta a togliergli, non essendo mai nato, anche ciò che non ha. Neppure un fratello che sia psichiatra basta a salvarlo, perché non può salvarsi chi non è nato. Solo la vita può salvarlo. È la vita, sepolta dentro di lui, che prorompe, che spezza le catene, che appicca il fuoco, che vuole bruciare tutto ciò che gli ha impedito di essere vita, che vuole eliminarlo, ucciderlo, perché solo la vita può vendicarsi di lui, che è stato la morte.
Si può combattere la morte? Canetti l’ha combattuta senza mai darle tregua. Ne ha fatto una ragione di vita, l’unica ragione di vita. La sua radiografia della morte è esemplare: «La morte ha un modo tutto suo di insinuarsi furtivamente tra i suoi nemici, di minare la loro volontà di combattere, di demoralizzarli: torna sempre a presentarsi come soluzione radicale, fa notare che al di fuori di lei non c’è nessuna soluzione vera. Chi vive con lo sguardo di odio puntato fisso contro di lei, si avvezza a lei come all’unico zero. Ma come cresce quello zero! Come ci si fida d’improvviso di esso, poiché non ci si può fidare di altro! Ecco che ci si dice: questo, questo ci rimane, perché altrimenti non rimane nulla. La morte abbatte tutto ciò che uno ha vicino, e quando si è sopraffatti dal dolore dice sorridendo: non sei affatto così impotente come ti figuri, puoi abbattere anche te stesso, e il tuo dolore con te. La morte appresta all’uomo i dolori dai quali essa stessa poi può liberare. Quale giudice torturatore è mai stato più esperto del suo mestiere?».
Canetti non ammette la morte. Non solo la sua, ma quella di tutti: «Tutte le morti che finora sono avvenute altro non sono che migliaia e migliaia di omicidi legali che io non posso autorizzare […]. Io non ammetto la morte. Il fatto che muoiano anche le pulci e le zanzare non fa sì che la morte mi appaia più concepibile dell’atroce storia del peccato originale». Secondo Castelli, per Canetti la morte è «il male primordiale, uno scandalo, un insulto, un’ingiustizia; avvelena la realtà poiché essa non tace su nulla». Per Canetti, dunque, occorre «maledire la morte, odiare la morte, sputare in faccia alla morte, cacciare la morte dal mondo. Noi invece l’abbiamo accolta e addomesticata con risultati orrendi. Perché mai non dovrebbero esserci gli assassini se all’uomo morire sembra adeguato, e non se ne vergogna, e ha incorporato la morte nelle sue istituzioni come se essa fosse il loro migliore, più sicuro e ragionevole fondamento?».
Canetti muore e il giorno dopo Claudio Magris scrive: «Fra le lettere che, in tutti questi anni, ho ricevuto da Canetti, ce n’è soprattutto una che mi viene spesso in mente e di cui mi sono subito ricordato quando, ieri mattina, ho saputo della sua morte. In quella lettera Canetti, vedovo da molti anni di Veza, la prima moglie cui ha continuato a dedicare i suoi libri, mi annunciava il matrimonio con Hera, la discreta e adorabile creatura che è poi vissuta accanto a lui, nella sua ombra, sino alla sua precoce scomparsa, dandogli anche una figlia. In quella lettera Canetti quasi si giustificava, come se sposarsi nuovamente non perché il matrimonio precedente è fallito, ma perché il compagno o compagna della vita è morto, costituisse un’ infedeltà più grave di quella verso una persona viva, quasi una accettazione della morte, la sostituzione di un irripetibile vivente con un altro. Mi ha sempre molto colpito quella lettera, che ovviamente non diminuiva l’affetto per Hera né il valore del secondo matrimonio, ma esprimeva, calato nella vita, quel rifiuto della morte e di ogni compromesso e accomodamento con essa che è uno dei temi di Canetti e fa di lui un grande, anomalo scrittore; almeno per un libro, Auto da fé, uno dei grandissimi del Novecento, un interprete e avversario spietato di ogni trionfante pulsione di morte, di ogni oblio. In molte sue opere, soprattutto in Massa e potere, ma anche in Potere e sopravvivenza, negli aforismi della Provincia dell’uomo, nei drammi, Canetti ha cercato di stanare come un segugio l’istinto di morte, di smascherarlo nelle mille forme che esso assume, di salvare ogni palpito di vita e il fluire della metamorfosi dal dominio che li irrigidisce e li annienta. Sembrava talora che si sentisse il custode degli uomini contro la morte e che si sforzasse di accogliere e conservare in sé i volti delle persone che incontrava, per sottrarli alla grande nemica».

                 AUTO DA FÉ 

              Elias Canetti

 

Titolo originale dell’opera: «Die Blendung»

Traduzione dal tedesco di Luciano e Bianca Zagari

 

Elias Canetti, premio Nobel per la letteratura nel 1981, è nato nel 1905 in Bulgaria. Il suo capolavoro narrativo, Auto da fé, fu pubblicato per la prima volta a Vienna nel 1935 col titolo Die Blendung.

 

Presentazione

Il Nobel assegnato a Canetti premia due scrittori, quello che si nasconde e quello che riappare, quello che si sottrae e quello che si offre al dialogo. Uno di questi due è un genio misterioso e anomalo, forse scomparso e inaccessibile per sempre nel suo segreto: è lo scrittore che nel 1935, a trent’anni, pubblica, fulmineo e inosservato, uno dei grandi libri del secolo, Auto da fé. Questo libro, l’unico suo veramente grande, piace a Thomas Mann e a Musil, riceve una recensione intelligente e poi sparisce per un trentennio dalla scena della letteratura, nonostante due riedizioni nel dopoguerra che cadono nel vuoto; sarà scoperto, e salutato come l’opera di un autore nuovo e sconosciuto, con una riedizione nel 1963, ma la notorietà giungerà a Canetti appena verso la metà degli anni Settanta. Dopo l’insuccesso di Auto da fé Canetti, già autore pure di un dramma, si nega all’invenzione poetica e si dedica per decenni al gigantesco studio di un processo che, nell’età contemporanea, sembra trasformare, come una mutazione antropologica, l’identità millenaria dell’individuo. Il risultato sarà il volume Massa e potere (1960), una grandiosa, visionaria e talora mostruosa indagine di questi due fenomeni, condotta attraverso lo studio dei miti e della storia dell’umanità, ma anche attraverso l’implacabile smascheramento dell’impulso a dominare o a dissolversi che s’annida nei gesti più abituali della convivenza: mangiare, parlare, muoversi. Auto da fé è una gelida e inesorabile parabola della malattia mortale contemporanea, del delirio che sembra aver sconvolto la ragione del secolo. E’ la grottesca tragedia della «testa senza mondo», dell’intelligenza che, per paura della vita, si barrica ossessivamente contro le minacce e le seduzioni del vivere e si vota così, con la propria maniacale e autolesiva difesa, alla morte. In un saggio dedicato a Karl Kraus, Canetti ha evocato l’immagine della muraglia cinese che, costruita per difendere l’impero dai barbari, viene continuamente rinforzata e allargata, nel crescendo della paura, sinché finisce per soffocare fra le sue pietre l’impero che essa vuole difendere e che viene assorbito dalla muraglia, sepolto dalla muraglia, ridotto a muraglia. Il romanzo è la storia, tragica e tragicamente comica, dell’individuo che si costruisce questa corazza sino a diventare egli stesso soltanto una corazza e perire, uccidendo il brulicare del mondo nell’ordine cimiteriale della biblioteca e reprimendo ogni desiderio e ogni seduzione, perché teme che il fascino dell’amore lo strappi alla sua corazza, alla sua trincea di scaffali e di classificazioni culturali, e lo trascini nel fluire caotico e molteplice della realtà. Il dottor Kien, l’eroe del romanzo, si educa alla cecità, per non vedere l’innumerevole aggressione delle cose, e si compiace che i pesanti dorsi dei volumi rilegati nascondano sotto un’apparente immobilità i miliardi di «elettroni impazziti» di cui sono composti; egli è l’esilarante e doloroso ritratto di ognuno di noi, lo specchio delle fobie e dei riti con i quali perdiamo la nostra vita nello sforzo di tenere a bada la nostra paura. Auto da fé ritrae con assoluta coerenza una totale mancanza d’amore, un mondo follemente prosciugato e sterilizzato di ogni desiderio; la paranoia impedisce agli uomini di proiettare i loro affetti sulla realtà che li circonda, di guardare le cose, i corpi e i volti con quella passione che li avvolge di incanto. L’angoscia della morte e l’ossessione del potere, che nasce per reazione a quell’angoscia, hanno annientato ogni carica affettiva. Questa rappresentazione della vita deserta dall’amore nasceva da un amore profondo, che voleva denunciare quel vuoto con un rigore che non ammetteva alcuna indulgenza, alcuna consolazione, alcun ammorbidimento; è questa la tensione che anima anche gli splendidi aforismi di Canetti e i suoi drammi. Tale rifiuto di smussare gli spigoli aguzzi rende il libro, ancor oggi, sgradevole e ostile a chi non riesce a sentire quanta ricchezza di vita si celi dietro quella favola del delirio che induce gli uomini ad amare la morte. Auto da fé è un libro che non ammette giudizi intermedi: ci sono lettori che vi si riconoscono a fondo, come in un baraccone di specchi deformanti al Luna Park, e che lo sentono come una Bibbia quotidiana, e ci sono lettori che se ne ritraggono sconcertati e respinti. E’ un’opera eccentrica e bizzarra, che non si lascia inquadrare in uno schema letterario o ideologico preciso, e che perciò si è sottratta a lungo alla comprensione. Nel 1976, cercando di parlarne proprio agli studenti dell’università di Stoccolma, sentivo nell’aula il disagio di chi si accostava a un libro che esorbitava da quanto ci si attende da un romanzo. Pochi anni prima, alcuni dei nostri studenti e laureandi, che avevano raccolto le recensioni su Canetti apparse nei più diversi paesi, si erano divertiti a notare l’imbarazzo dei recensori, che non sapevano da che parte prendere quel libro. L’Auto da fé sovverte le prospettive con le quali siamo abituati a ordinare la realtà. Il titolo originale, Die Blendung, significa «abbagliamento», l’abbacinamento dell’uomo che non inquadra il mondo dall’alto, ma ne viene aggredito e travolto, sicché è costretto a guardare ogni cosa da una distanza zero, in un caos furibondo e deformante che il narratore raffigura con lucidità surreale. L’organo privilegiato dell’esperienza non è la vista, il senso nobile che da Aristotele in poi è lo strumento ordinatore per eccellenza della cultura occidentale, bensì l’udito e l’odorato, espressioni dell’immediatezza sensibile del corpo, della fisicità e dell’animalità. Il romanzo di Canetti ritrae – o, com’egli dice, «esaspera con precisione» – una realtà disgregata, ignara di ogni ordine e gerarchia di valori. Questo scrittore, assoluto e scomparso, non avrebbe preso da solo il Nobel, con quell’unica opera che non concede nulla e non si lascia assimilare da alcuna storia letteraria. Perché Auto da fé venisse capito e accettato era forse necessario un altro scrittore, quello che è balzato alla ribalta trent’anni dopo, accompagnando la fortuna del suo libro come se si trattasse di una fortuna postuma. E’ il Canetti dei saggi e dell’autobiografia, delle interviste e dei discorsi; un Canetti che spiega e illustra se stesso, con intelligentissima maestria, che racconta della sua formazione plurinazionale e plurilingue, dalla nascita a Rus¼cuk, in Bulgaria, da una famiglia ebraica nel 1905, alle esperienze successive, e che commenta la propria opera. E’ come se, decenni dopo, si scoprisse Il processo kafkiano e riapparisse Kafka, più anziano e garbato, a far da guida al proprio labirinto. Questo ha permesso a Canetti di dire apertamente ciò che Auto da fé sottaceva gelosamente: l’amore per ogni palpito di vita e per la sua libertà, la difesa della metamorfosi e del divenire contro ogni dominio che voglia bloccarli, l’utopica lotta contro la morte. Tutta l’esistenza di Canetti è un rifiuto di ammettere la morte, una lotta per sottrarle ogni creatura, un sogno di poterla sconfiggere. Sembra talora ch’egli si senta il campione degli uomini nel duello con la morte e che si sforzi di accogliere e conservare in sé, nella sua testa capace di contenere il mondo, i volti delle persone che incontra, per salvarli dalla grande nemica. Forse è persuaso di essere realmente immune dalla morte, e tace questo suo sapere per riguardo alle convenzioni e alle buone regole. Ma chi lo conosce si sente sorretto da lui, accolto e custodito in quella sua testa che conserva, come una biblioteca piena però di umana passione, ogni dettaglio di ogni vita. Anche questo Canetti pieno di attenta amicizia, che ci aiuta a vivere con più serena saldezza, si nasconde. Dietro la sua affabilità, che pare così diversa dagli spigoli dell’Auto da fé, come dietro la piana scorrevolezza della sua autobiografia, che sembra ingannevolmente dire tutto, c’è una reticenza che cela, guizzante e mimetizzata, un’imprevedibile diversità, un’identità inafferrabile e inimmaginabile. Dietro l’amoroso padre di una famiglia costituita da pochi anni e dietro il gentile signore che elabora un cortesissimo cerimoniale per proteggere la propria riservatezza, c’è ancora l’altro, abnorme e impossibile. EntramWbi ci insegnano, ogni giorno, a smascherare la febbre di potere e di morte, entrambi ci ricordano che

«ognuno, ma proprio ognuno, è il centro del mondo». Claudio Magris (da Itaca e oltre, Garzanti 1982)

A Veza Canetti


AUTO DA FÉ 


Parte prima: Una testa senza mondo

La passeggiata «Che fai qui, bambino?». «Niente». «E allora perché ci stai?». «Così…». «Sai già leggere?». «Oh sì». «Quanti anni hai?». «Nove compiuti». «Cosa ti piace di più: una tavoletta di cioccolata o un libro?». «Un libro». «Davvero? Ma bravo. Allora è per questo che te ne stai qui?». «Sì». «E perché non l’hai detto subito?». «Papà mi sgrida». «Ah, ecco. Come si chiama tuo padre?». «Franz Metzger». «Ti piacerebbe andare in un paese straniero?». «Sì. In India. Là ci sono le tigri». «E poi dove?». «In Cina. C’è un’enorme muraglia». «Ti piacerebbe scavalcarla, vero?». «E’ troppo alta e troppo grande. Nessuno può scavalcarla. Proprio per questo l’hanno costruita». «Quante cose sai! Hai già letto molto, tu». «Sì, leggo sempre. Papà mi toglie i libri di mano. Mi piacerebbe frequentare una scuola cinese. Là s’imparano quarantamila lettere. Non c’entrano nemmeno tutte in un libro». «Questo lo pensi tu». «Ho fatto il conto». «Però le cose non stanno così. Lascia perdere i libri in vetrina. E’ roba che non vale niente. Nella mia borsa ho qualcosa di bello. Aspetta, te lo faccio vedere. Sai che scrittura è questa?». «Cinese! Cinese!». «Ma sei proprio un bambino sveglio! Ne hai già visti di libri cinesi?». «No, l’ho indovinato». «Questi due segni significano Mong Tse, cioè il filosofo Mong. E’ stato un grand’uomo, in Cina. E’ vissuto 2250 anni fa, e lo si legge ancor oggi. Te ne ricorderai?».

«Sì. Adesso devo andare a scuola». «Ah, così ti guardi le librerie mentre vai a scuola! E tu come ti chiami?». «Franz Metzger. Come mio padre». «E dove abiti?». «Ehrlichstrasse 24». «Ci abito anch’io. Ma non riesco proprio a ricordarmi di te». «Lei guarda sempre dall’altra parte, quando la si incontra per le scale. Io la conosco da tanto tempo. Lei è il professor Kien, però non ha niente a che fare con la scuola. La mamma dice che lei non è un professore. Io però penso di sì, perché lei ha una biblioteca. Una cosa da non credersi, dice Maria. Maria è la nostra cameriera. Quando sarò grande voglio una biblioteca. Ci dovranno essere tutti i libri, in tutte le lingue, anche uno cinese come questo. Adesso devo scappare». «Chi ha scritto questo libro? Te lo ricordi?». «Mong Tse, il filosofo Mong. Esattamente 2250 anni fa». «Bene. Puoi venire, una volta, a vedere la mia biblioteca. Di’ alla governante che t’ho dato il permesso io. Ti mostrerò illustrazioni dell’India e della Cina». «Magnifico! Ci vengo! Ci vengo di sicuro! Oggi pomeriggio?». «No, no, figliolo. Devo lavorare. Fra una settimana, non prima». Il professor Peter Kien, un uomo lungo e asciutto, uno studioso di sinologia, infilò il libro cinese nella borsa rigonfia che teneva sotto il braccio, la chiuse con cura e seguì con lo sguardo, finché non fu scomparso, quel bambino dalla mente tanto pronta. Taciturno e scontroso per natura, si rimproverò quella conversazione che aveva avviato senza una vera necessità. Aveva l’abitudine, durante le passeggiate che compiva fra le sette e le otto del mattino, di dare un’occhiata alle vetrine di tutte le librerie che trovava sulla propria strada. Quasi con gioia constatava che indecenze e porcherie d’ogni genere prendevano sempre più piede. Quanto a lui, possedeva la più importante biblioteca privata di quella grande città, e ne portava sempre con sé una piccola parte. La sua passione per i libri, l’unica che si concedesse in un’esistenza severa e laboriosa, lo costringeva a prendere delle misure precauzionali. Era facile che un libro, anche se di nessun valore, lo tentasse all’acquisto. Per fortuna, la maggior parte delle librerie apriva dopo le otto. Qualche volta un giovane apprendista che voleva guadagnarsi la fiducia del suo principale faceva la sua comparsa anche più presto e stava ad aspettare il primo commesso, al quale toglieva solennemente le chiavi di mano. «Sono qui dalle sette, io», esclamava, oppure: «Non posso entrare». Un Kien si faceva contagiare facilmente da tanto zelo; gli costava un grosso sforzo dominarsi e non seguirlo sui due piedi. Fra i proprietari delle piccole librerie non mancavano i tipi mattinieri, che già alle sette e mezzo si davano da fare oltre le porte aperte. Per combattere queste tentazioni, Kien batteva col palmo della mano sulla sua borsa gonfia di volumi. Se la teneva stretta addosso, in una maniera speciale che aveva escogitato lui per mantenere a contatto con essa la maggior parte del suo corpo. Le costole la sentivano oltre l’abito sottile, di qualità scadente.

La parte superiore del braccio veniva a disporsi lungo la piega laterale della borsa, dove entrava di giusta misura. Sotto, l’avambraccio fungeva da sostegno. Le dita divaricate si stendevano con voluttà su tutta la superficie. Scusava davanti a se stesso questa cura eccessiva accampando il valore del contenuto. Se la borsa fosse per caso finita per terra, se la serratura, che lui controllava ogni mattina prima di uscire, si fosse tuttavia aperta proprio in quell’istante pericoloso, per quelle opere preziose sarebbe stata la fine. Niente lo disgustava più di un libro insudiciato. Quel mattino, tornando verso casa, s’era fermato davanti a una vetrina e improvvisamente un bambino s’era infilato tra lui e il vetro. Kien giudicò questa mossa un atto di maleducazione. Di posto ce n’era abbastanza. Lui si metteva sempre a un metro di distanza dal vetro; nondimeno leggeva senza il minimo sforzo ogni lettera al di là della vetrina. I suoi occhi funzionavano a meraviglia; cosa notevole in un uomo di quarant’anni che passava tutta la sua giornata tra libri e manoscritti. Ogni mattina i suoi occhi gli confermavano l’eccellenza del loro stato. Nella distanza che manteneva tra sé e quei libri offerti in vendita alla massa s’esprimeva inoltre quel disprezzo che, rispetto alle opere ponderose e scostanti della sua biblioteca, essi meritavano ampiamente. Il bambino era piccolo, Kien di statura non comune. Tuttavia si sarebbe aspettato un maggior rispetto. Prima di rimproverargli il suo modo di comportarsi, si spostò di lato, per osservarlo. Il bambino teneva gli occhi fissi sui titoli dei libri e muoveva le labbra lentamente, quasi in silenzio. Passava senza stancarsi da un volume all’altro. Ogni due minuti girava di scatto la testa. Sull’altro lato della strada c’era un enorme orologio appeso sopra una bottega di orologiaio. Erano le otto meno venti. Era evidente che il ragazzo temeva di far tardi a qualcosa di importante. Non prestava alcuna attenzione al signore che gli stava dietro. Forse faceva esercizio di lettura; forse imparava i titoli a memoria. Riservava a tutti un trattamento uguale ed equanime. Si vedeva chiaramente su quale punto fermava un attimo di più la sua attenzione. Kien ne ebbe pena. Perdendosi dietro a quella roba volgare guastava il suo spirito fresco, forse già assetato di letture. Più tardi avrebbe letto certi libracci solo perché il titolo gli era familiare fin da bambino. Com’è possibile porre un limite alla ricettività dei primi anni? Appena un bambino ha imparato a camminare e sillabare, si ritrova senza pietà in balia dei pericoli di una qualche strada sconnessa, dei prodotti di un qualsiasi mercante che, sa il diavolo per quale motivo, s’è messo nei libri. I piccoli dovrebbero crescere in una buona biblioteca privata. Il contatto quotidiano ed esclusivo con spiriti austeri, un luogo dove regnino saggezza, penombra, silenzio, l’abitudine tenace all’ordine più rigoroso, nello spazio come nel tempo: quale ambiente potrebbe meglio aiutare creature tanto fragili a superare gli anni della giovinezza? L’unica persona che in quella città possedesse una biblioteca privata degna di considerazione era appunto Kien. Lui non poteva prendersi bambini in casa. Il suo lavoro non gli permetteva divagazioni. I bambini fanno chiasso. Bisogna occuparsi di loro. Per curarli è necessaria una donna. Per la cucina basta una governante qualunque, ma per i bambini bisogna tenersi in casa una madre. Se una madre fosse solo una madre: ma quale donna si contenta di quello che è il suo vero ufficio? La specialità di ognuna è innanzi tutto di essere donna, e come tale avanzare pretese che uno studioso serio non si sognerebbe neppure lontanamente di soddisfare. Di una moglie Kien fa volentieri a meno. Finora le donne gli sono state indifferenti, e indifferenti continueranno ad essergli. Chi ci rimette è il ragazzo dagli occhi sgranati e dalla testa in continua agitazione. Gli aveva rivolto la parola spinto da un senso di pena, e contro le proprie abitudini. Si sarebbe liberato volentieri dei suoi sentimenti pedagogici a prezzo di una tavoletta di cioccolata. Ma a questo punto era venuto a sapere che esistono bambini di nove anni capaci di preferire un libro a una tavoletta di cioccolata. Ciò che aveva saputo poi l’aveva sorpreso ancora di più. Il ragazzo s’interessava alla Cina. Leggeva contro la volontà di suo padre. Le voci sulle difficoltà della scrittura cinese lo stimolavano anziché spaventarlo. La riconosceva a prima vista senza averla mai vista prima. La prova d’intelligenza l’aveva superata con lode. Non aveva toccato il libro che gli veniva mostrato. Forse aveva le dita sporche e se ne vergognava. Kien le aveva esaminate: erano pulite. Un altro avrebbe cercato di afferrare il libro anche con le dita sporche. Aveva fretta, la scuola cominciava alle otto, ma rimaneva là fino all’ultimo istante. S’era buttato sull’invito come un affamato, certo il padre l’angustiava assai. Fosse stato per lui sarebbe venuto subito, quel pomeriggio stesso, in pieno orario di lavoro. Abitava nella stessa casa. Kien arrivò a perdonarsi d’aver attaccato discorso. L’eccezione che s’era concessa pareva giustificata. Rivolse il pensiero al ragazzo ormai scomparso alla sua vista e salutò in lui un futuro sinologo. Chi mai s’interessava a quella scienza tanto remota? I bambini giocavano a pallone, gli adulti si occupavano del guadagno, il tempo libero lo passavano pensando all’amore. Per dormire otto ore e non far niente per altre otto dedicavano tutto il resto del tempo a un lavoro che riusciva loro odioso. Non solo del ventre avevano fatto una divinità, ma di tutto il loro corpo. Il dio celeste dei cinesi era più severo e più dignitoso. Anche se la settimana prossima il piccolo non fosse venuto, cosa abbastanza inverosimile, un nome ormai l’aveva in testa comunque, un nome difficile da dimenticare: quello del filosofo Mong. Proprio le spinte occasionali e inattese danno agli uomini un indirizzo per la vita. Sorridendo, Kien proseguì il cammino verso casa. Sorrideva di rado. Non è frequente che la maggior aspirazione di qualcuno sia quella di possedere una biblioteca. A nove anni l’oggetto di tutti i suoi desideri era una libreria. L’idea di andarvi su e giù come proprietario gli appariva, allora, sacrilega. Un libraio è un re, un re non può essere un libraio. Sapeva di essere troppo giovane per fare il commesso. I fattorini venivano sempre mandati in giro. Che piacere avrebbe ricavato dai libri dovendo limitarsi a portarli impacchettati sottobraccio? Cercò a lungo una soluzione. Un giorno, dopo la scuola, non tornò a casa. Entrò nel negozio più grande della città, sei vetrine piene di libri, e cominciò a piangere forte. «Devo uscire, presto, ho paura che…», si lamentò. Gli mostrarono la strada. Lui se l’impresse bene in mente. Una volta uscito di là, ringraziò e chiese se poteva rendersi utile. La sua faccia raggiante divertì tutti quanti. Non più di un momento prima era stravolta da quella buffa paura. Lo fecero parlare; sui libri sapeva una quantità di cose. Per l’età sua lo trovarono intelligente. Verso sera lo spedirono fuori con un pacco pesante. Lui prese il tram all’andata e al ritorno. Aveva messo da parte il denaro occorrente. Un attimo prima dell’ora di chiusura, era già buio, riferì che la commissione era fatta e mise la ricevuta sul bancone. Qualcuno gli dette in premio un dissetante. Mentre i commessi s’infilavano il soprabito lui sgattaiolò nel retrobottega, raggiunse quel tal posticino sicuro e vi si chiuse dentro. Nessuno s’accorse di nulla: quelli erano tutti presi dal pensiero della loro serata libera. Aspettò a lungo là dentro. Solo dopo molto tempo, a tarda sera, osò uscire. Nel negozio era tutto buio. Cercò l’interruttore. Di giorno non vi aveva pensato. Lo trovò, e già vi teneva sopra la mano, quando tutt’a un tratto il pensiero di accendere la luce lo spaventò. E se qualcuno lo vedeva dalla strada e lo riportava a casa? I suoi occhi s’abituarono da soli all’oscurità. Leggere tuttavia non poteva, questo era davvero un peccato. Toglieva dagli scaffali un volume dopo l’altro, ne sfogliava le pagine e riusciva persino a decifrare qualche titolo. Più tardi si arrampicò qua e là sulla scaletta. Voleva scoprire se quelli in alto nascondevano qualche segreto. Cadde a terra e disse: non mi sono fatto male. Il pavimento era duro. I libri erano morbidi. In una libreria si cade sui libri. Con essi avrebbe potuto costruire una torre, ma giudicava il disordine una cosa volgare e prima di prendere in mano un nuovo volume rimetteva a posto il precedente. La schiena gli doleva. Forse era soltanto stanchezza. A casa sarebbe stato a letto già da un pezzo. Qui non era possibile, l’eccitazione lo teneva sveglio. Ma ormai i suoi occhi non riuscivano a distinguere nemmeno i titoli più grandi e ciò l’indispettiva assai. Provò a calcolare quanti anni uno sarebbe potuto rimanere là dentro a leggere senza metter piede una sola volta in strada o in quella stupida scuola. Perché non restare sempre là? I soldi per un lettino sarebbe pur riuscito a metterli da parte. La mamma avrebbe avuto paura. Anche lui, ma solo un poco, per via di quel gran silenzio. I lampioni a gas della strada si spensero. Tutt’intorno strisciarono le ombre. I fantasmi dopotutto, esistevano sul serio. Di notte si raccoglievano tutti là dentro e si accoccolavano sui libri. E leggevano. La luce a loro non serviva, avevano occhi tanto grandi. Ora, su in alto, lui non avrebbe più osato toccare un solo libro, no davvero, e neanche in basso. Si rifugiò sotto il bancone battendo i denti. Diecimila libri, e su ognuno sedeva un fantasma. Per questo c’era tanto silenzio. Ogni poco li sentiva sfogliare le pagine. Leggevano svelti proprio come lui. Avrebbe potuto abituarcisi, ma erano diecimila, uno di loro poteva anche mordere. I fantasmi si stizziscono se uno li sfiora, credono che li si voglia prendere in giro. Si fece piccolo piccolo; loro gli svolazzavano sopra la testa. Il mattino non venne che dopo molte notti. Allora s’addormentò. Quando il negozio venne aperto lui non s’accorse di nulla. Lo trovarono sotto il bancone e lo scossero fino a svegliarlo. Sulle prime lui finse d’essere ancora addormentato, poi si mise prontamente a strillare. Ieri, disse, l’avevano chiuso dentro, aveva paura di sua madre, lei l’aveva sicuramente cercato dappertutto. Il padrone l’interrogò e non appena ebbe saputo il suo nome lo fece accompagnare a casa da un commesso. Pregava la signora di volerlo scusare. Il ragazzo era stato chiuso erroneamente in negozio, ma per il resto stava benissimo. Quanto a lui, le porgeva i suoi più devoti ossequi. La mamma ci credette e fu felice. Adesso il piccolo bugiardo d’allora possedeva una splendida biblioteca e un nome altrettanto famoso. Kien detestava la menzogna; fin da bambino s’era sempre mantenuto fedele alla verità. Non ricordava d’aver detto, oltre a questa, una sola bugia. E nemmeno a questa aveva risparmiato la sua condanna. Solo il colloquio con quello scolaretto che pareva l’immagine della sua giovinezza gliel’aveva richiamata alla memoria. Ma ora basta, pensò, sono quasi le otto. Alle otto in punto cominciava il lavoro, la sua opera al servizio della verità. Scienza e verità erano per lui due concetti identici. E alla verità ci si avvicinava solo tenendosi lontano dagli uomini. La vita quotidiana era un superficiale groviglio di menzogne. Tanti passanti, tanti bugiardi. Per questo lui non li degnava d’uno sguardo. Chi mai, tra i cattivi attori di cui si componeva la massa, aveva un volto capace di attrarre la sua attenzione? Lo mutavano a seconda del momento, non resistevano in una parte nemmeno per un giorno. Lui questo lo sapeva a priori. Il conforto dell’esperienza era del tutto superfluo. Lui, invece, riponeva la sua ambizione in un’ostinata costanza della propria natura. Non per un mese, non per un anno, per tutta la vita restava uguale a se stesso. Il carattere, se uno ne aveva, determinava anche l’aspetto. Per quanto riusciva a ricordare, lui era sempre stato lungo e troppo magro. La faccia se la vedeva soltanto nelle vetrine dei librai. Specchi a casa non ne aveva; erano tanti i libri che non restava quasi posto per altro. Ma che essa fosse sottile, severa e ossuta lo sapeva bene: tanto bastava. Non provando la minima voglia di badare alla gente, teneva gli occhi fissi in basso oppure in alto, al di sopra delle teste. La vicinanza di una libreria l’avvertiva ugualmente. Bastava che s’affidasse al suo istinto. Quel che san fare i cavalli quando tornano alla stalla riusciva pure a lui. Andava a passeggio proprio per respirare l’aria di libri non suoi: essi stimolavano il suo spirito di contraddizione, lo ricreavano un po’. Nella sua biblioteca tutto filava in perfetta regola. Fra le sette e le otto di mattina egli si concedeva qualcuna delle libertà di cui è fatta interamente la vita degli altri. Benché gustasse appieno quest’ora, non dimenticava il suo amore per l’ordine. Prima di attraversare una via piena d’animazione, esitò un poco: gli piaceva camminare a passo eguale; per non dover attraversare in fretta aspettò il momento propizio. In quel mentre qualcuno chiese forte a un altro: «Mi sa dire dov’è la Mutstrasse?». L’interrogato non replicò parola. Kien ne fu stupito: dunque v’erano per la strada, oltre a lui, altri individui taciturni. Tese l’orecchio senza alzare gli occhi. Come avrebbe reagito di fronte a quel silenzio l’uomo che aveva fatto la domanda? «Mi scusi, potrebbe dirmi per favore dov’è la Mutstrasse?». Raddoppiò la propria gentilezza ma non ebbe miglior fortuna: l’altro non disse niente. «Forse lei non mi ha sentito. Avrei bisogno di un’informazione. Vuol essere così gentile da dirmi come posso trovare la Mutstrasse?». L’impulso conoscitivo di Kien – lui non conosceva curiosità – s’era destato: si propose di guardare in faccia il taciturno, nel caso che avesse insistito anche adesso nel suo silenzio. Senza dubbio l’uomo era immerso nei suoi pensieri e desiderava evitare ogni interruzione. Restò zitto di nuovo. Kien l’elogiò. Un carattere, fra mille, capace di resistere ai casi esteriori. «Ma, dico, è sordo?», gridò il primo. Adesso l’altro risponderà, pensò Kien, e cominciò a perder gusto all’avventura del suo protetto. Chi sa tenere a freno la lingua quando lo si offende? Si girò verso la strada: il momento d’attraversare era arrivato. Stupito che il silenzio continuasse, si fermò. Il secondo ancora non parlava. Tanto più violento sarebbe stato quindi l’esplodere della sua collera. Kien sperava che ne uscisse una lite. Se il secondo si dimostrava non diverso dagli altri, lui, Kien, sarebbe rimasto incontestabilmente quello che riteneva di essere: l’unica persona di carattere che passeggiava per quella strada. Si chiese se dovesse già alzare gli occhi sui due. La scena si svolgeva alla sua destra. Qui il primo strepitava: «Lei è senza educazione! Le ho rivolto una domanda con la massima cortesia. Ma chi crede di essere! Villanzone! E’ forse muto?». L’altro taceva. «Dovrà chiedermi scusa! Me n’infischio della Mutstrasse! Quella può indicarmela chiunque. Ma lei dovrà scusarsi con me. Ha capito?». L’altro non se ne dette per inteso. In compenso crebbe nella considerazione di Kien, che stava in ascolto. «Io la consegno alla polizia! Ma lo sa chi sono? Brutto mucchio d’ossa! E questa sarebbe una persona istruita! Dove ha preso quei vestiti? Al monte di pietà, scommetto: ne hanno tutta l’aria! E cosa tiene sotto il braccio? Gliela farò vedere! S’impicchi! Lo sa cos’è lei?!». A questo punto Kien ricevette una forte spinta. Qualcuno gli afferrò la borsa e cercò di strappargliela. Con uno strattone che superava di molto le sue forze abituali, lui sottrasse i libri agli artigli dell’altro e si girò di scatto verso destra. Il suo sguardo era diretto alla borsa, ma cadde su un uomo piccolo e grasso che l’investiva con grida furibonde. «Un tanghero! Un tanghero! Un tanghero!». L’altro, l’uomo taciturno e di carattere che sapeva tenere a freno la lingua anche nella collera era lui stesso, Kien. Senza scomporsi girò le spalle a quell’analfabeta gesticolante, e con questo sottile coltello diede un taglio netto alle ciance dell’altro. Un simile grassone, la cui gentilezza si trasformava in insolenza nel giro di pochi istanti, non poteva offenderlo. Ad ogni modo attraversò la strada più in fretta di quel che non fosse nelle sue intenzioni. Quando si hanno dei libri con sé bisogna evitare di venire alle mani. E di libri con sé, lui ne aveva sempre. Perché, in fondo, uno non è tenuto a prestare orecchio alle sciocchezze di ogni passante. Perdersi in chiacchiere è il peggior pericolo che minacci uno studioso. Kien preferiva esprimersi per iscritto piuttosto che a voce. Conosceva alla perfezione oltre una dozzina di lingue orientali. Alcune occidentali si capivano senza bisogno di studio. Nessuna letteratura gli era sconosciuta. Pensava in citazioni, scriveva in ben meditate proposizioni. Innumerevoli testi dovevano a lui di esser stati restituiti a miglior lezione. Quando doveva occuparsi di passi deteriorati o corrotti di antichissimi manoscritti cinesi, indiani, giapponesi, gli venivano in mente quante combinazioni voleva. C’era chi l’invidiava per questo; quanto a lui, doveva guardarsi dalla sovrabbondanza di idee. Cauto fino allo scrupolo, soppesava per mesi ogni elemento con una lentezza addirittura esasperante, con una severità che rivolgeva soprattutto a se stesso. Ed esprimeva la propria opinione su una lettera, su una parola o su un’intera frase solo quando era sicuro che fosse ormai inoppugnabile. I saggi che aveva scritto fino a quel momento, pochi di numero ma ognuno tale da costituire la base per cento altri, gli avevano procurato la fama di primo sinologo del suo tempo. Gli specialisti della sua materia li conoscevano alla perfezione, quasi a memoria. Ogni frase scritta da lui veniva considerata decisiva e impegnativa. In questioni controverse ci si rivolgeva a lui, somma autorità anche in campi attinenti solo secondariamente al suo. A pochi concedeva l’onore di una sua lettera. Ma chi veniva prescelto riceveva in un solo scritto suggerimenti e ispirazioni a non finire, e ne aveva lavoro per anni: un lavoro i cui risultati, data la figura dell’ispiratore, si potevano considerare sicuri in partenza. Rapporti personali non ne aveva con nessuno. Inviti non ne accettava. Ovunque si liberasse una cattedra di filologia orientale, essa veniva offerta, prima che ad ogni altro, a lui. Che rifiutava con sprezzante cortesia. Lui – rispondeva – non era nato per fare l’oratore. Ricevere un compenso per la sua attività gliel’avrebbe resa insopportabile. A suo modesto parere, le cattedre universitarie avrebbero dovuto essere occupate dagli stessi improduttivi volgarizzatori cui si affida l’insegnamento nelle scuole medie, in modo che gli studiosi veri e propri, quelli capaci di creare, potessero dedicarsi esclusivamente al loro lavoro. Intelligenze mediocri in ogni caso non ne mancavano. Alle sue lezioni non ci sarebbe stata grande affluenza di pubblico, dal momento che lui sarebbe stato estremamente esigente con i suoi allievi. E probabilmente nessun candidato avrebbe superato gli esami: lui si sarebbe fatto uno scrupolo di bocciare ripetutamente quei giovani immaturi finché non avessero compiuto i trent’anni e vuoi per noia, vuoi per principiante serietà, non avessero imparato qualcosa, foss’anche per il momento, ben poco. Già l’ammissione alle aule della facoltà di persone la cui memoria non fosse sottoposta a un esame accurato gli sembrava cosa discutibile o quanto meno inutile. Dieci studenti scelti in base a rigorosissimi esami preliminari sarebbero indubbiamente riusciti, a patto che rimanessero fra loro, a rendere di più che mescolati a cento neghittosi birraioli quali sono normalmente i frequentatori delle università. Le sue erano quindi perplessità sostanziali e di principio. Lui pregava quindi il consiglio di non voler più rinnovare una proposta che, benché lui non se ne sentisse onorato, era stata certamente formulata con intenti onorevoli. Ai congressi, che si svolgono solitamente all’insegna della loquacità, Kien era una delle figure più discusse. Per la maggior parte della loro vita quei signori erano schive, miopi e silenziose talpe; ma in simili occasioni, che si presentavano ogni due anni, non stavano più nella pelle. Si salutavano, complottavano accostando le teste peggio assortite, bisbigliavano senza dir niente e ai banchetti brindavano con gesti maldestri. Profondamente emozionati e piacevolmente eccitati, tenevano alto il loro vessillo, e senza macchia il loro scudo. Giuravano e spergiuravano la stessa cosa in tutte le lingue, ma anche senza giuramenti avrebbero mantenuto le loro promesse. Durante gli intervalli si davano alle scommesse. Verrà Kien questa volta? Di lui si parlava più di qualsiasi altro collega famoso; il suo modo di comportarsi stuzzicava la curiosità. Che lui non si presentasse mai a riscuotere le rendite della sua fama, che sfuggisse da anni, ostinatamente, discorsi inaugurali e banchetti in cui, a dispetto della sua giovane età, lo si sarebbe celebrato, che ad ogni congresso annunziasse un’importante relazione il cui manoscritto veniva poi letto da qualcun altro per suo conto: tutto ciò veniva considerato dai colleghi nient’altro che un modo di prender tempo. Una volta o l’altra, forse proprio quella volta, si sarebbe presentato all’improvviso, avrebbe accolto con dignità l’applauso tanto più scrosciante dopo il lungo riserbo e si sarebbe lasciato eleggere per acclamazione presidente del congresso, un posto che gli spettava e di cui lui stesso prendeva a suo modo possesso con la propria assenza. Ma i signori s’ingannavano. Kien non veniva. Il partito più fiducioso perdeva le sue scommesse. Kien ricusava l’invito all’ultimo momento. L’invio dei manoscritti a qualche studioso di sua preferenza era accompagnato da espressioni ironiche. Nel caso che, pur con un programma ricreativo tanto nutrito, riserbasse qualche minuto anche al lavoro – cosa che lui, nell’interesse della salute generale, si guardava bene dall’auspicare

- pregava di presentare al congresso quella sua inezia, frutto di due anni di lavoro. Era solito tenere in serbo per tali circostanze risultati nuovi e sorprendenti. E da lontano seguiva, sospettosamente e coscienziosamente, l’effetto che sortivano, le discussioni che ne derivavano, come se avesse dovuto saggiare la loro consistenza testuale. Ai suoi sarcasmi l’assemblea non reagiva. Di cento presenti, ottanta si richiamavano a lui. Le sue comunicazioni erano inestimabili. Gli auguravano lunga vita. La maggior parte di costoro avrebbe accolto con enorme sbigottimento la notizia della sua morte. Quei pochi che l’avevano conosciuto di persona negli anni della gioventù s’erano ormai scordati la sua faccia. Ogni tanto qualcuno gli scriveva chiedendogli una fotografia. Non ne aveva, rispondeva lui, e non aveva alcuna intenzione di farsene fare. L’una e l’altra cosa rispondevano a verità. Ad un’altra concessione s’era invece deciso spontaneamente. All’età di trent’anni, senza aver preso per il resto alcuna disposizione testamentaria, aveva lasciato il suo cranio e il relativo contenuto a un istituto di frenologia. Motivò tale passo facendo presente il vantaggio che sarebbe derivato alla scienza dalla possibilità di trovare in una particolare struttura o fors’anche in un non comune peso del suo cervello la spiegazione della sua memoria veramente prodigiosa. Non che lui credesse – così aveva scritto al direttore dell’istituto – che il genio si riducesse a una facoltà mnemonica, come da qualche tempo si amava supporre da più parti. Lui stesso era tutt’altro che un genio. Nondimeno, negare l’utilità che per il suo lavoro scientifico aveva la memoria quasi spaventosa di cui era dotato, sarebbe stato antiscientifico. Lui aveva, per così dire, in testa una seconda biblioteca, altrettanto vasta e attendibile di quella reale, della quale, a quanto sentiva dire, tutti facevano gran conto. Seduto al suo scrittoio, redigeva interi saggi addentrandosi nei più minuti particolari, senza mai consultare altra biblioteca se non, appunto, quella che aveva in testa. Beninteso, controllava poi accuratamente le citazioni e i riferimenti bibliografici sulla scorta dei testi reali; ma lo faceva per puro scrupolo. Per quanto poteva ricordare, non era mai incorso in errori di memoria. Persino i suoi sogni avevano contorni più netti di quanto non avvenisse per la maggior parte degli uomini. Visioni confuse, informi o incolori erano del tutto estranee ai sogni che egli aveva preso in considerazione fino a quel momento. Nella sua testa, la notte, non metteva mai niente sossopra; i suoni che udiva avevano tutti un’origine normale, le conversazioni che teneva erano assolutamente sensate, tutto funzionava secondo la logica. Non rientrava nella sua competenza stabilire se avesse legittimo fondamento la supposta relazione intercorrente fra la sua esattissima memoria e i suoi sogni chiari e precisi. Si limitava a fare modestamente presente la cosa e pregava di non voler considerare i dati personali che si permetteva di esporre in quella lettera come un segno di presunzione o di sciocca loquacità. Kien richiamò alla mente altri particolari della sua vita che mettevano in luce la sua indole schiva, laconica e aliena da ogni vanità. Ma la sua collera contro quell’individuo sfacciato e arrogante, che prima gli aveva chiesto la via e poi l’aveva coperto di insulti, andava crescendo ad ogni passo. Dunque non c’è altro modo, si disse: entrò in un portone, si guardò attorno – nessuno l’osservava – e trasse di tasca un taccuino lungo e stretto. Sul frontespizio c’era scritto in lettere alte e spigolose: Scempiaggini. Il suo sguardo indugiò un poco su quel titolo. Poi sfogliò le pagine; più della metà del taccuino era coperta di scritti. Vi annotava tutto ciò che voleva dimenticare. Cominciava con data, ora e luogo. Seguiva l’avvenimento che doveva illustrare ancora una volta la scempiaggine degli uomini. Un’acconcia citazione, ogni volta diversa, faceva da chiusa. Non leggeva mai le scempiaggini che aveva raccolto: gli bastava uno sguardo al frontespizio. Pensava di pubblicarle, in età più matura, sotto il titolo Passeggiate di un sinologo. Estrasse una matita ben appuntita e scrisse sulla prima pagina bianca: «23 settembre, ore sette e tre quarti. Nella Mutstrasse ho incontrato un tale che mi ha chiesto dove fosse la Mutstrasse. Per non umiliarlo io non gli ho risposto. Lui non se n’è dato per inteso e ha ripetuto più volte la sua domanda; il suo comportamento era cortese. Ad un tratto lo sguardo gli è caduto su una targa stradale e s’è reso conto della sua stupidità. Anziché allontanarsi in gran fretta, come avrei fatto io al suo posto, abbandonandosi a un accesso di collera m’ha insultato nella maniera più grossolana. Se non avessi avuto riguardo per lui all’inizio, mi sarei risparmiato una scena così penosa. Chi è stato il più stupido?». Con l’ultima frase mostrava di non arrestarsi nemmeno di fronte a se stesso. Era spietato con tutti. Soddisfatto, mise in tasca il taccuino e scordò l’uomo. Mentre scriveva, i libri erano finiti in una posizione scomoda. Li riassestò. Al primo angolo fece uno scarto di fronte a un cane-lupo. L’animale si faceva strada rapido e sicuro, tirandosi dietro, all’estremità di un guinzaglio teso, un cieco. L’infermità di costui – anche se uno non avesse prestato attenzione al cane – era riconoscibile dal bastone bianco che egli teneva nella destra. Anche i passanti più frettolosi, che non avevano tempo per il cieco, rivolgevano al cane uno sguardo ammirato. L’animale li spingeva da parte con il suo muso paziente, e dato che era bello e robusto tutti sopportavano di buon grado la cosa. A un tratto il cieco si tolse di testa il berretto e lo tese verso la gente reggendolo assieme al bastone. «Per il pasto del cane», disse. Le monete cominciarono a piovere. La gente s’accalcava intorno ai due, in mezzo alla strada. Il traffico ne fu bloccato; per fortuna a quell’angolo non c’erano poliziotti. Kien osservò da vicino il mendicante. Era vestito con povertà ricercata e aveva una faccia da persona colta. Poiché muoveva continuamente i muscoli intorno agli occhi – ammiccava, alzava le sopracciglia e aggrottava la fronte -Kien diffidò di lui e decise di considerarlo un imbroglione. A questo punto comparve un ragazzetto di forse dodici anni, spinse da parte il cane con fare premuroso e lasciò cadere nel berretto un pesante bottone. Il cieco tenne gli occhi fissi davanti a sé e ringraziò, un tantino più calorosamente di quanto non avesse fatto fino a quel momento. Cadendo, il bottone aveva prodotto il suono di una moneta d’oro. Kien sentì una stretta al cuore. Afferrò per il ciuffo il ragazzo e, trovandosi le mani impedite, gli diede una botta in testa con la borsa: «Vergognati!», esclamò, «ingannare un cieco!». Soltanto dopo si ricordò di ciò che la borsa conteneva: libri. Ne fu scosso, mai aveva fatto un sacrificio tanto grande. Il ragazzo corse via strillando. Per ritornare sul piano abituale, e assai meno elevato della compassione, Kien lasciò cadere tutti i suoi spiccioli nel berretto del cieco. Gli astanti manifestarono ad alta voce la loro approvazione, e lui si sentì subito più prudente e più meschino. Qui il cane ricominciò a tirare, e quando, subito dopo, comparve un poliziotto, il cieco e la sua guida erano tornati a camminare alla vecchia andatura. Kien giurò a se stesso di togliersi la vita non appena l’avesse minacciato la cecità. Ogni volta che s’imbatteva in un cieco, lo riafferrava la medesima terribile angoscia. I muti gli piacevano, i sordi, i paralitici e gli storpi in genere gli erano indifferenti; ma i ciechi lo turbavano. Non riusciva a capire come mai non mettessero fine ai loro giorni. Anche se conoscevano alla perfezione la scrittura Braille, le loro possibilità di lettura erano estremamente limitate. Eratostene, il grande bibliotecario di Alessandria, un erudito del terzo secolo avanti Cristo, versato in tutte le discipline e responsabile di oltre mezzo milione di codici, fece all’età di ottant’anni una tremenda scoperta: i suoi occhi cominciavano a rifiutarsi di servirlo. Ci vedeva ancora, ma non era più in grado di leggere. Un altro avrebbe aspettato di diventare completamente cieco. A lui parve che la forzata lontananza dai libri fosse già cecità sufficiente. Amici ed allievi lo supplicarono di restare con loro. Egli sorrise saggiamente, li ringraziò e nel giro di pochi giorni si lasciò morire di fame. Al momento opportuno, il piccolo Kien, la cui biblioteca contava appena venticinquemila volumi, sarebbe stato pronto a seguire questo grande esempio. Percorse a passo più svelto il tratto di strada che gli restava per giungere a casa. Di certo erano già le otto, e alle otto cominciava il lavoro: la mancanza di puntualità gli dava la nausea. Ogni tanto, si portava furtivamente la mano agli occhi. Funzionavano perfettamente, e le dita li sentivano sani e in buon ordine. La sua biblioteca si trovava nella Ehrlichstrasse, al quarto ed ultimo piano della casa contrassegnata con il numero 24. La porta dell’appartamento era dotata, per sicurezza, di tre complicate serrature. L’aprì, attraversò l’anticamera nella quale non v’era che un attaccapanni a forma di albero ed entrò nel suo studio. Posò con precauzione la borsa su una poltrona, poi percorse un paio di volte in su e in giù la fuga dei quattro locali alti e spaziosi che formavano la sua biblioteca. Tutte le pareti erano tappezzate di libri fino al soffitto. Vi fece scorrere sopra lo sguardo lentamente. Nel soffitto si aprivano dei lucernari. Era orgoglioso di quella sua luce che pioveva dall’alto. Le finestre erano state murate parecchi anni prima, dopo una dura battaglia con il padrone di casa. In tal modo egli aveva guadagnato in ogni stanza una quarta parete, il che significava più posto per i libri. Inoltre, una luce che illuminasse dall’alto, uniformemente, tutti gli scaffali, gli sembrava più equa e più consona ai suoi rapporti con i libri. E con le finestre era scomparsa pure la tentazione di osservare il viavai della strada: una cattiva abitudine, evidentemente innata, che serve solo a far perdere tempo. Ogni giorno, prima di mettersi allo scrittoio, benediceva quell’idea e la costanza con cui l’aveva perseguita, perché ad essa doveva la realizzazione del suo maggior desiderio: possedere una biblioteca ricca, ben ordinata e chiusa da tutti i lati, nella quale nessun mobile superfluo, nessuna persona superflua lo distogliesse dai suoi gravi pensieri. Il primo ambiente serviva da studio. Un vecchio, imponente scrittoio, una poltrona dietro ad esso, una seconda poltrona nell’angolo opposto costituivano tutto il mobilio. S’aggiungeva un divano che faceva del suo meglio per scomparire, e che Kien preferiva ignorare dal momento che esso gli serviva soltanto per dormirci. Alla parete era appesa una scala scorrevole. Essa era più importante del divano, e nel corso della giornata passava da un locale all’altro. Il vuoto delle altre tre stanze non era infatti turbato neppure da una sedia. In nessun punto un tavolo, un armadio, una stufa che rompesse la variopinta uniformità degli scaffali. I tappeti folti che coprivano per intero il pavimento rendevano più calda la severa penombra che, grazie alle porte spalancate, faceva di tutti e quattro i locali un unico, ampio salone. Kien aveva un passo rigido e vigoroso. Sui tappeti poi camminava con un’andatura particolarmente pesante; lo rallegrava il fatto che passi simili non producessero la minima eco. Nella sua biblioteca, nemmeno un elefante avrebbe avuto la possibilità di far rintronare il pavimento. Per questo teneva in gran conto i tappeti. Si sincerò che tutti i libri fossero nello stesso ordine in cui si trovavano un’ora prima, quando aveva dovuto lasciarli. Poi cominciò a vuotare la borsa del suo contenuto. Entrando era solito posarla sulla sedia dietro lo scrittoio. Diversamente poteva accadere che si scordasse di riporla prima di mettersi al lavoro; alle otto sentiva più forte che mai l’impulso d’iniziare. Con l’aiuto della scala rimise i volumi al loro posto. Nonostante la sua cautela l’ultimo – essendo ormai a questo punto lui si moveva tanto più in fretta – cadde a terra dal terzo scaffale, a cui egli arrivava senza neppure l’aiuto della scala. Era proprio quel Mong Tse che amava più di ogni altro. «Stupido!», gridò a se stesso. «Barbaro! Analfabeta!». Lo raccolse con delicatezza e si diresse rapido alla porta. Prima di giungervi gli venne in mente una cosa importante. Tornò indietro e, più silenziosamente che poté, accostò al luogo dell’incidente la scala ch’era appesa alla parete di fronte. Depose con tutte e due le mani il Mong Tse sul tappeto ai piedi della scala. Ora poteva andare alla porta. L’aprì e gridò: «Il miglior panno da spolverare, per favore!». Poco dopo la governante bussò alla porta, che era soltanto accostata. Lui non rispose. Lei infilò con fare discreto la testa nella fessura e domandò: «E’ successo qualcosa?». «Niente, dia qua». Nella sua risposta la donna colse un’involontaria nota lamentevole. Era troppo curiosa per lasciare le cose a quel punto. «Ma la prego, professore!», disse con aria di rimprovero, entrò nella stanza e capì al primo sguardo ciò che era accaduto. Scivolò svelta fino al libro. Sotto la gonna blu inamidata, che giungeva a sfiorare il tappeto, i piedi non si vedevano. Teneva la testa storta e le orecchie erano tutte e due ampie, piatte e sporgenti. Ma poiché la destra sfiorava la spalla e ne restava in parte coperta, la sinistra sembrava ancora più grande. Camminando e parlando tentennava il capo e le spalle facevano a turno l’accompagnamento. Si chinò, raccolse il libro e vi passò sopra coscienziosamente lo strofinaccio una dozzina di volte. Kien non cercò di prevenirla. La cortesia gli era odiosa. Stette in disparte, badando che lei eseguisse a dovere il suo lavoro. «Oh, è facile che capiti, mi scusi, quando si sta in cima a una scala!». Poi gli porse il libro come un piatto senza traccia di polvere. Le avrebbe fatto immensamente piacere attaccare discorso con lui. Ma non le riuscì. Egli disse brevemente «grazie» e le girò le spalle. Lei capì e se n’andò. Aveva già la mano sulla maniglia quando lui si voltò improvvisamente e chiese con finta cordialità: «A lei infatti è già capitato diverse volte, non è vero?».

Lei intuì ciò che l’altro pensava e ne fu francamente indignata: «Ma, mi scusi, professore». Quel «mi scusi», risaltò pungente come una spina in mezzo alla sua parlata untuosa. Finisce che si licenzia, pensò lui, e per rabbonirla spiegò: «Dicevo per dire. Lei sa che tesori ci sono in questa biblioteca!». Lei non s’aspettava una frase tanto affabile. Non seppe che cosa rispondere e lasciò soddisfatta la stanza. Quando fu uscita, lui rimproverò a se stesso di aver parlato dei suoi libri come il più sporco dei mercanti. Ma in quale altro modo avrebbe potuto indurre una persona di quella fatta a trattare i libri con riguardo? Il loro vero valore non poteva capirlo, e doveva credere che lui, con la biblioteca, facesse delle speculazioni. Così era la gente! Così era la gente! Dopo un involontario inchino rivolto ai manoscritti giapponesi che stavano sopra di lui, sedette finalmente allo scrittoio.

Il mistero Otto anni prima Kien aveva pubblicato sul giornale il seguente annuncio: «Studioso provvisto biblioteca eccezionalmente vasta cerca governante conscia proprie responsabilità. Pregansi presentarsi solo persone dotate solido carattere. Gentaglia volerà per le scale. Stipendio questione secondaria.» A quell’epoca Therese Krumbholz aveva un buon posto, del quale fino allora s’era ritenuta soddisfatta. Ogni mattina, prima di preparare la colazione ai padroni, si leggeva per intero gli annunci del Tagblatt per tenersi al corrente di ciò che accadeva nel mondo. Non aveva intenzione di finire i suoi giorni al servizio di quella famiglia così poco distinta. Era ancora giovane, non aveva compiuto i quarantott’anni, e il suo maggior desiderio era trovare un posto in casa di uno scapolo: là ci si può ripartire meglio il lavoro; con le donne è impossibile andare d’accordo. Certo si guarderà bene dal lasciare di punto in bianco il suo posto sicuro: resterà finché non avrà saputo di chi e di che cosa si tratti. Lei le conosceva bene le bugie che si pubblicano sui giornali dove si promettono mari e monti a donne rispettabili: una poi non fa in tempo a entrare in casa che si ritrova bell’e violentata. Sono ormai trentatré anni che deve cavarsela da sola ma una cosa del genere non le è ancora successa. E non le succederà: lei sta sempre bene in guardia. Questa volta l’annuncio le balzò agli occhi con prepotenza. S’arrestò alle parole «stipendio questione secondaria» e rilesse più volte partendo dalla fine le frasi poste in risalto dalla stampa in neretto. Il tono l’impressionò: quello sì ch’era un uomo. La lusingò il pensiero d’essere una persona dotata di solido carattere. Vide la gentaglia volare per le scale e ne fu sinceramente felice. Non la sfiorò un solo istante il timore di venir trattata lei stessa alla stregua della gentaglia. Il giorno seguente comparve di primo mattino, alle sette, alla presenza di Kien, che l’introdusse nell’anticamera e subito dichiarò: «Debbo impedire nel modo più assoluto che un estraneo s’aggiri in casa mia. Lei è in grado di assumersi la responsabilità dei miei libri?». La squadrò severamente e con sospetto. Non voleva esprimere un giudizio definitivo su di lei prima di sentire come avrebbe risposto alla sua domanda. «Ma, mi scusi, per chi m’ha presa?». Sbalordita per la sua ruvidità, lei dette una risposta alla quale lui non trovò nulla da eccepire. «E’ bene che lei sappia», egli disse, «per qual motivo ho licenziato la mia ultima governante. Nella mia biblioteca è mancato un libro. Ho fatto frugare tutta la casa, ma non se n’è trovata traccia. Mi son visto costretto a licenziarla su due piedi». Tacque, vinto dall’indignazione. «Penso che lei capirà», aggiunse poi, come rendendosi conto d’aver troppo valutato la sua intelligenza. «L’ordine è la prima regola», replicò l’altra prontamente. Lui ne fu disarmato. Con un gesto solenne l’invitò ad entrare nella biblioteca. Lei mise piede con discrezione nel primo locale e restò in attesa. «Ecco l’ambito delle sue mansioni», disse lui in tono grave ed asciutto. «Ogni giorno dovrà spolverare una stanza da cima a fondo. Il quarto giorno avrà finito. Il quinto giorno ricomincerà dalla prima. E’ in grado di assumersi quest’impegno?». «Se lei permette». Lui tornò fuori, aprì la porta di casa e disse: «Arrivederla. Prenderà servizio oggi stesso». Lei era già sulle scale ed esitava ancora. Dello stipendio non le aveva neppure parlato. Prima di lasciare il suo posto doveva informarsi. No, meglio di no. C’era da rimetterci. Se lei non diceva niente, poteva darsi che lui desse di più di sua iniziativa. Sui due impulsi – prudenza e avidità – che lottavano in lei, alla fine vinse il terzo: la curiosità. «Be’, e per lo stipendio, come la mettiamo?». Imbarazzata per la sciocchezza che stava forse commettendo, dimenticò di premettere alle sue parole il consueto «mi scusi». «Quello che vuole», disse lui con indifferenza e sbatté la porta. Ai suoi poco distinti padroni che su di lei facevano il massimo affidamento – un vecchio mobile che stava in casa da oltre dodici anni – dichiarò, lasciandoli inorriditi, che non resisteva un giorno di più in quella baraonda, e che avrebbe preferito guadagnarsi il pane in mezzo a una strada piuttosto che così. Per quanto quelli dicessero e facessero, lei non si lasciò smuovere dal suo proposito. Se ne sarebbe andata subito: quando si è stati in una casa per dodici anni, si può ben fare un’eccezione al momento di licenziarsi. Quelle brave persone colsero al volo l’occasione di risparmiare lo stipendio fino al venti del mese. Si rifiutarono di pagarglielo, dato che lei si licenziava senza preavviso. Therese si disse: me lo pagherà lui, e se ne andò. Assolveva i suoi compiti nei confronti dei libri con piena soddisfazione di Kien, che le esprimeva in silenzio il suo apprezzamento: elogiarla apertamente, in sua presenza, gli pareva inutile. Il pranzo era sempre pronto in perfetto orario. Se cucinasse bene o male, lui non avrebbe saputo dire, e la cosa gli era del tutto indifferente. Durante i pasti, che consumava seduto allo scrittoio, seguiva il filo di gravi pensieri. Il più delle volte non era neppur cosciente di quello che aveva in bocca. La coscienza bisogna riservarla ai veri pensieri, che si nutrono di essa e non possono farne a meno. Senza coscienza i pensieri non sono pensabili. Masticare e digerire sono azioni che si svolgono per conto loro. Therese provava un certo rispetto per il suo lavoro, sia perché lui le pagava regolarmente il suo alto stipendio, sia perché non era affabile con nessuno; anche con lei non parlava mai. Fin da bambina aveva nutrito un grande disprezzo per le persone socievoli, com’era, per esempio, sua madre. Quanto al proprio lavoro, lei vi attendeva con grande scrupolosità. I suoi soldi se li guadagnava. E poi v’era un enigma che l’aveva tenuta occupata fin da principio: una cosa, questa, che le piaceva non poco. Alle sei in punto il professore s’alzava dal suo divano letto. Per vestirsi e lavarsi impiegava poco tempo. La sera, prima di andare a dormire, lei gli preparava il divano e spingeva il lavabo, che era fornito di ruote, fin nel centro dello studio. Per la notte poteva stare là. Un paravento a quattro ante decorato esternamente da lettere straniere dipinte veniva sistemato in modo da risparmiargli quella vista spiacevole. Lui non poteva sopportare i mobili. Questo «lavabo mobile», come l’aveva battezzato, l’aveva inventato lui stesso, affinché il disgustoso arnese potesse scomparire più rapidamente subito dopo l’uso. Alle sei e un quarto spalancava la porta e spingeva con impeto il lavamano fuori dalla stanza. La spinta era sufficiente a fargli percorrere tutto il lungo corridoio. Infine urtava con fracasso contro il muro presso la porta della cucina. In cucina stava in attesa Therese, la cui stanzetta si trovava lì accanto. Gli apriva la porta e diceva: «Già in piedi?». Lui non rispondeva e tornava a chiudersi dentro. Poi restava in casa fino alle sette. Nessuno sapeva che cosa facesse in quel lungo intervallo fino alle sette. Il resto della giornata lo passava allo scrittoio, scrivendo. Dentro, lo scuro, pesante colosso, era pieno fino a scoppiare di manoscritti e fuori era sovraccarico di libri. Spostando, sia pure con la massima cautela uno qualunque dei cassetti, si provocava un sibilo acuto. Pur detestando il chiasso, Kien non aveva voluto togliere quel dispositivo al vecchissimo oggetto di famiglia perché la governante, qualora lui non fosse in casa, potesse avvertire immediatamente la presenza d’un eventuale scassinatore. Quegli strani tipi, infatti, son soliti cercare il denaro prima d’occuparsi dei libri. Con tre frasi concise ed esaurienti, aveva spiegato a Therese il meccanismo del prezioso mobile. Ed aveva aggiunto, con fare importante, che non v’era alcuna possibilità di eliminare il sibilo: nemmeno lui poteva farlo. Durante il giorno lei lo sentiva ogni volta che Kien cercava un manoscritto. La cosa la stupiva: quello strepito non sembrava infastidirlo. Alla sera lui riponeva tutte le sue carte, e fino alle otto di mattina lo scrittoio rimaneva muto. Quando rassettava, lei vi trovava sopra soltanto libri e carte ingiallite. Invano cercava fogli nuovi coperti della sua calligrafia. Era evidente che dalle sei e un quarto alle sette, per tre quarti d’ora, lui non lavorava affatto.

Pregava forse? No, questo non lo credeva. E poi, perché pregare? Delle preghiere lei non sa che farsene. In chiesa non ci va. Basta guardare la gentaglia che la frequenta. Bella razza davvero si raccoglie là dentro. E poi non le piace quel continuo elemosinare. Uno è costretto a dare qualcosa perché tutti gli piantano gli occhi addosso. Che fine facciano poi quei soldi, nessuno lo sa. Pregare a casa: e perché mai? Si perde del tempo prezioso. Una persona per bene non ne ha bisogno. Lei è una persona per bene anche senza preghiere. Gli altri pregano tanto e poi non lo sono. Comunque le piacerebbe proprio sapere che cosa succede in quella stanza fra le sei e un quarto e le sette. Non che sia curiosa, nessuno potrebbe accusarla di questo. Lei non s’impiccia degli affari altrui. Oggi le donne son fatte così. Cacciano il naso dappertutto. Lei pensa solo al suo lavoro. I prezzi crescono di giorno in giorno. Le patate costano già il doppio. Bisogna saperci fare per cavarsela con prezzi simili. Il fatto è che chiude a chiave tutte e quattro le porte: altrimenti si potrebbe gettare un’occhiata nella stanza accanto. Un uomo che per il resto sa amministrare così bene il suo tempo e non spreca un solo minuto! Durante le sue passeggiate, Therese perquisiva i locali che aveva in custodia. Sospettava qualche vizio: di che natura non avrebbe saputo dire. Dapprima pensò a un cadavere femminile nascosto in un baule. Dato però che sotto i tappeti non v’era spazio sufficiente, rinunciò all’idea della donna orribilmente squartata. Non v’era un solo armadio che potesse venirle in aiuto: quanto avrebbe desiderato che ve ne fossero: uno per parete. Così, invece, non v’era dubbio che il delitto si celasse dietro qualche libro. E dove altrimenti? Per soddisfare il suo senso del dovere le sarebbe forse bastato passare lo strofinaccio sul dorso dei libri; ma l’immondo mistero su cui stava indagando la costringeva a guardare anche dietro ai volumi. Li toglieva uno per uno, vi batteva sopra – qualcuno poteva essere vuoto -, allungava le dita tozze e callose fino a tastare il rivestimento di legno e le ritraeva scuotendo il capo insoddisfatta. La sua curiosità non l’induceva mai a restare più del tempo destinato a quel lavoro. Cinque minuti prima che Kien aprisse la porta di casa, lei era già in cucina. Con calma poneva mano a uno scomparto dopo l’altro, senza troppo affrettarsi, senza trascurare niente e senza mai perdere del tutto la speranza. Durante questi mesi di ricerche instancabili vietò a se stessa di portare il proprio stipendio alla Cassa di risparmio. Non toccò un soldo; chissà che razza di denaro era quello. Infilava le banconote, così come le venivano consegnate, in una grande busta pulita che conteneva, ancora intatta, tutta la carta da lettere che aveva comprato vent’anni prima. Poi, dopo molte esitazioni, riponeva la busta nel baule che conteneva il suo corredo, tutto di capi di prima scelta, acquistati a caro prezzo nel corso di decenni. A poco a poco si rese conto che non ne sarebbe venuta a capo tanto presto. Non importa, il tempo non le manca. Può aspettare. Male non se la passa. Se poi alla fine salterà fuori qualcosa, nessuno potrà dare la colpa a lei. Ha perlustrato ogni cantuccio della biblioteca. Certo, avendo una persona fidata alla polizia, un uomo serio e ammodo che non rischi di far perdere un buon posto, si potrebbe fargli presente con tutta cortesia la circostanza. Oh, lei sopporta di buon grado tante cose, ma non avere un appoggio! A che pensa la gente oggi? Al ballo, ai bagni, ai divertimenti: a tutto fuorché alle cose serie, fuorché al lavoro. Il suo padrone, un uomo tanto serio, ha anche lui i suoi lati immorali. A letto ci va solo a mezzanotte. Il sonno migliore è quello prima della mezzanotte. Una persona per bene va a letto alle nove. Di una gran cosa comunque non deve trattarsi. Così il delitto si ridusse alle proporzioni di un semplice mistero. Un disprezzo pesante, tenace, s’andò accumulando intorno a quel vizio nascosto. La curiosità però rimase: tra le sei e un quarto e le sette lei stava sempre all’erta. Faceva assegnamento su eventualità rare ma non impossibili. Forse, una volta o l’altra, un attacco improvviso di crampi allo stomaco l’avrebbe costretto a uscire. Lei si sarebbe precipitata dentro e gli avrebbe chiesto se si sentiva male. I crampi non passano tanto in fretta. In un paio di minuti lei avrebbe scoperto come stavano le cose. Ma la vita frugale e regolata che Kien conduceva giovava troppo alla sua salute. In otto lunghi anni, da quando Therese era in casa, egli non aveva mai accusato dolori di stomaco. Quella mattina, dopo l’incontro col cieco e il suo cane, accadde che Kien avesse urgente bisogno di alcune vecchie trattazioni. Mise sossopra tutti i cassetti dello scrittoio. S’erano accumulate montagne di carte. Egli conservava accuratamente abbozzi, correzioni, copie, tutto ciò che si riferiva al suo lavoro. Trovò dei fogliacci il cui contenuto era ormai superato e confutato. Quell’archivio risaliva ai tempi dei suoi studi universitari. Per un particolare da nulla, che conosceva oltre tutto a memoria e cercava soltanto per avere una conferma, perdette delle ore. Dovette leggere trenta fogli, e non gli serviva che una riga. Gli capitarono tra le mani cose inutili e liquidate da tempo. Lui le maledisse: che cosa ci facevano là? Quando i suoi occhi cadevano su un foglio manoscritto o stampato, non poteva tralasciare di leggerlo. Un altro si sarebbe risparmiato una lettura che lo portava tanto lontano, ma lui resisteva dalla prima all’ultima parola. L’inchiostro era sbiadito. Faticava a seguire i deboli contorni delle lettere. Gli tornò in mente il cieco visto per la strada. E lui giocava con i suoi occhi come se avessero dovuto restare aperti per tutta l’eternità. Anziché limitarne il lavoro, sconsideratamente l’accresceva ogni mese di più. Ogni foglio di carta che riponeva gli costava un po’ della sua vista. I cani vivono brevemente, e i cani non leggono: per questo aiutano i ciechi mettendo a loro disposizione i propri occhi. Un uomo che spreca i suoi è degno del cane che dovrà guidarlo. Kien decise di vuotare il suo scrittoio di quell’immondezza: la mattina appena alzato, però, perché ora si trovava già al lavoro. La mattina dopo alle sei in punto, ancora alle prese con un sogno, balzò dal divano, raggiunse di corsa il traboccante colosso e spalancò tutti i cassetti. Il sibilo proruppe con violenza, risonando stridulo per tutta la biblioteca in un crescendo straziante. Era come se ogni cassetto possedesse una propria voce e invocasse aiuto facendo a gara col cassetto vicino. Li stavano derubando, tormentando, assassinando. Non potevano sapere chi fosse colui che osava violarli: occhi non ne avevano; il loro unico organo era un’acutissima voce. Kien selezionò le carte. Gli ci volle parecchio tempo. Cercò di soffocare il fastidio che il rumore gli procurava: una volta cominciato un lavoro, doveva condurlo a termine. Raggiunse la quarta stanza camminando impettito con una valanga di cartacce sulle braccia ossute. Qui, a una certa distanza da quei sibili, strappò imprecando un foglio per volta. Sentì bussare alla porta: digrignò i denti. Sentì bussare di nuovo: pestò i piedi per terra. I colpi si fecero martellanti. «Silenzio!», intimò e lanciò un’imprecazione. Di scatenarsi a quel modo avrebbe fatto volentieri a meno, ma sentiva troppa pena per i suoi manoscritti: soltanto il furore gli dava il coraggio di distruggerli. Alla fine campeggiò, solitario marabù dalle lunghe gambe, in mezzo a una montagna di pezzetti di carta che sfiorava e compiangeva sommessamente, spaurito e a disagio come in presenza di cose vive. Per non ferirli ancora senza necessità, li scavalcò allungando con precauzione una gamba. Quando si fu lasciato alle spalle quel cimitero emise un sospiro di sollievo. Davanti alla porta trovò la governante. Indicò il mucchio con gesto stanco e disse: «Sgomberare!». I sibili erano cessati; tornò allo scrittoio e chiuse i cassetti. Questi rimasero silenziosi. Li aveva tirati con troppa violenza. Il meccanismo s’era rotto. Quand’era cominciato il rumore Therese stava giusto cercando di introdursi nella gonna inamidata che completava il suo abbigliamento. Si spaventò a morte, fermò la gonna alla meglio e scivolò rapida fino alla porta dello studio. «Per amor del cielo», implorò con voce flautata, «che cosa è successo?». Bussò, dapprima timidamente, poi sempre più forte. Non ricevendo risposta, cercò di aprire, ma invano. Scivolò di porta in porta, lo sentì gridare irosamente nell’ultima stanza. Qui si mise a martellare con tutte le sue forze. «Silenzio», aveva gridato lui con voce vibrante di collera. A metà irritata e a metà rassegnata, lei abbandonò le mani dure sulla sua gonna dura e restò lì, irrigidita come una marionetta. «Che disgrazia!», mormorò, «che disgrazia!». Era ancora lì, più che altro per abitudine, quando lui aprì la porta. Benché tarda per natura, comprese al volo quale occasione le si offrisse. Riuscì a fatica a proferire un «subito» e scivolò in cucina. Sulla soglia le balenò a un tratto il pensiero: «Per amor del cielo, ora si chiuderà dentro di nuovo; cosa non fa fare l’abitudine! All’ultimo momento capiterà di certo qualche imprevisto, va sempre a finire così! Quanto sono sfortunata! Quanto sono sfortunata!». Era la prima volta che si diceva una cosa simile, dato che abitualmente si considerava una persona di grandi meriti e quindi anche fortunata. Per l’ansia cominciò a tentennare violentemente la testa. Sgusciò di nuovo nel corridoio. Teneva il busto assai proteso in avanti. Le gambe tremarono al momento di entrare. La gonna inamidata cominciò a ondeggiare. Se avesse proceduto scivolando, le sarebbe stato assai più facile raggiungere il suo scopo, ma quell’andatura le era troppo abituale: l’occasione solenne richiedeva un passo solenne. La stanza era aperta. Nel mezzo c’era sempre il mucchio di carte. Spinse tra la porta e la cornice una grossa piega del tappeto perché il vento non la chiudesse. Poi tornò in cucina e aspettò, scopa e paletta nella destra, il familiare strepito del lavabo mobile. Avrebbe preferito andarlo a prendere lei stessa, come mai oggi ci metteva tanto? Quando finalmente il lavabo urtò contro la parete, non seppe trattenersi e gridò come al solito: «Già in piedi?». Lo spinse in cucina e, più curva ancora di prima, raggiunse strisciando la biblioteca. Posò per terra scopa e paletta. Poi attraversò lentamente, quatta quatta, le stanze intermedie fino alla soglia della stanza da letto. Ad ogni passo si fermava e girava il capo da una parte per tendere l’orecchio destro ch’era il meno sordo dei due. Impiegò una decina di minuti a percorrere quei trenta metri; si sentiva davvero temeraria. La sua paura cresceva in proporzione alla curiosità. S’era figurata mille volte ciò che avrebbe fatto una volta giunta alla meta. S’appiattì contro la cornice della porta, ricordandosi troppo tardi della gonna appena inamidata. Cercò di dare uno sguardo d’insieme con un occhio solo: finché il secondo rimaneva al riparo si sentiva sicura. Non doveva farsi vedere, nello stesso tempo non doveva lasciarsi sfuggire il minimo particolare. Costrinse all’immobilità il braccio destro, che amava tenere puntato sul fianco e che si piegava ormai per proprio conto. Kien passeggiava tranquillamente su e giù davanti ai suoi libri emettendo suoni incomprensibili. Sotto il braccio teneva la borsa vuota. Si fermò, rifletté un istante, andò a prendersi la scala e vi salì in cima. Dallo scaffale più alto tolse un libro, lo sfogliò e lo mise nella borsa. Una volta a terra riprese ad andare su e giù, si fermò all’improvviso, tirò forte un libro che non voleva uscire, aggrottò la fronte e quando l’ebbe finalmente in mano, vi batté sopra con energia. Poi anche quello scomparve nella borsa. Scelse così cinque volumi, quattro piccoli, uno grande. Tutt’a un tratto lo prese la fretta. Con la pesante borsa sottobraccio s’arrampicò fino all’ultimo piolo della scala e rimise al suo posto il primo volume. Le lunghe gambe gli erano d’impaccio: fu quasi sul punto di cadere. Se cadeva e si faceva qualcosa, addio vizio. Il braccio di Therese s’alzò, non v’era più modo di frenarlo: le afferrò l’orecchio e lo tirò con forza. Gli occhi spalancati, lei fissava il padrone in pericolo. Quando i piedi di lui raggiunsero il folto tappeto, respirò sollevata. I libri sono un trucco: quello che conta veramente viene a galla ora. Lei conosce ogni cantuccio della biblioteca, ma il vizio aguzza l’ingegno. C’è l’oppio, per esempio, c’è la morfina, c’è la cocaina, chi se li ricorda tutti? A lei non la si fa: dietro i libri, dietro i libri è il nascondiglio. Perché, per esempio, lui non attraversa mai la stanza? E’ vicino alla scala e vuole qualcosa che sta sullo scaffale proprio di fronte. Potrebbe andare, prendersi quel che gli serve e invece no: lui ci arriva senza scostarsi mai dalla parete. E tutto quel giro lo compie con la pesante borsa sottobraccio. E’ dietro i libri, ormai non c’è più dubbio. L’assassino torna sempre sul luogo del delitto. Ora la borsa è piena. Non ci sta più dentro niente: lei quella borsa la conosce bene, la spolvera ogni giorno. Ora dovrà succedere qualcosa. Non sono già le sette? Alle sette lui se ne va. Ma come, le sette? Non possono essere le sette!

Audace e sicura sporge il busto in avanti, punta le mani sui fianchi, drizza le orecchie piatte e spalanca avidamente i suoi occhi sottili. Lui afferra la borsa alle due estremità e la posa saldamente sul tappeto, mentre un’espressione d’orgoglio gli si diffonde sul viso. Si china, rimane chinato. Lei è in un bagno di sudore, trema in tutto il corpo. Le vengono le lacrime agli occhi: dunque sotto il tappeto. L’aveva pensato subito. Come si può essere tanto stupidi? Lui si rialza facendo scricchiolare le ossa e sputa. O forse ha detto solo «sì!»? Prende la borsa, ne toglie un volume e lo rimette lentamente al suo posto. Lo stesso fa con tutti gli altri. A Therese viene la nausea. Bella roba, davvero! Ora non c’è più niente da vedere. E costui sarebbe la persona seria che non ride e non dice mai una parola! Anche lei è una persona seria, e laboriosa, ma forse che lei si lascia andare a cose simili? Si farebbe piuttosto mozzare le mani. Rendersi ridicolo a quel modo davanti alla propria governante. E un individuo del genere ha i soldi! Soldi a palate! Dovrebbero metterlo sotto tutela. Basta guardare come li amministra, quei soldi! Se avesse in casa un’altra persona, uno di quei bei tipi come sono le ragazze d’oggi, a quest’ora gli avrebbe portato via da sotto fin l’ultimo lenzuolo. Non ha neppure un vero letto. Che se ne fa di tutti quei libri? Come se potesse leggerli tutti in una volta. Dalle sue parti, a un tipo siffatto si dà del pazzo furioso, gli si tolgono i soldi perché non li sprechi e poi lo si lascia andare per la sua strada. Glielo farà vedere lei se non s’è tirato in casa una persona a posto. Lui crede di poter prendere in giro chiunque. In giro, lei, non ci si fa pigliare. Per otto anni forse, ma non un minuto di più, oh no! Quando Kien ebbe raccolto la seconda scorta di libri per la passeggiata, in Therese era già sfumato il primo impeto di rabbia. S’accorse che lui si preparava ad uscire, si ricompose nel suo consueto atteggiamento e scivolò di nuovo fino al mucchio di carta, cacciandovi sotto la paletta con gesto dignitoso. Ora si sentiva più importante e più interessante. No, decise, non lascerà il posto. Una mania però gliel’ha scoperta. Qualcosa è venuta a sapere. E quando le capita di vedere una cosa è anche capace di farne uso. Lei non vede molto nella sua vita. Non è mai stata fuori città. Non fa gite perché costano soldi. Non va ai bagni, perché non sta bene. Viaggiare non le piace perché ci si sente spaesati dovunque si vada. Se non dovesse uscire per fare la spesa, starebbe volentieri in casa tutto il giorno. In un modo o nell’altro la gente non cerca che di abbindolarti. I prezzi crescono di anno in anno e prima tutto andava diversamente.

Confucio pronubo La domenica seguente Kien rientrò dalla sua passeggiata di ottimo umore. A quell’ora, di domenica, le strade erano deserte. Gli uomini iniziavano dormendo la loro giornata di libertà. Poi s’infilavano i loro abiti migliori. Le prime ore dopo la sveglia le passavano in contemplazione davanti allo specchio. Per il resto del tempo si rifacevano del loro ceffo guardando quello degli altri. Beninteso ognuno era convinto d’essere il più bello: ma per dimostrarlo bisognava andare tra la gente. Nei giorni feriali sudavano o cianciavano per guadagnarsi il pane. La domenica cianciavano per niente. In origine il giorno di riposo era concepito come giorno di silenzio. Anche questa, come tutte le altre istituzioni, s’era trasformata esattamente nel suo contrario, notava Kien con scherno. Di un giorno di riposo lui non sapeva che farsene. Infatti taceva e lavorava sempre. Davanti alla porta del suo appartamento trovò la governante. Era evidente che lo stava aspettando da un pezzo. «E’ venuto il piccolo Metzger del secondo piano. Lei gliel’aveva promesso. Ha detto che lei era già in casa: la cameriera ha visto una persona di alta statura salire le scale. Tornerà fra una mezz’ora. Non vuole disturbare, è solo per quel libro». Kien non aveva ascoltato. Solo quando afferrò la parola «libro» si fece attento e capì a posteriori di che si trattava. «E’ una bugia. Non gli ho promesso niente. Gli ho detto che gli avrei fatto vedere delle illustrazioni dell’India e della Cina una volta che avessi avuto tempo. Io non ho mai tempo. Lo mandi via». «La gente se n’approfitta subito. Ah, una bella razza, questa, mi scusi. Il padre era un modesto operaio. Vorrei sapere dove li ha presi i soldi. Ma il guaio sta tutto lì. Adesso la gente non fa che dire: tutto per i figli. Non c’è più severità. Sfacciati sono, i figli, una cosa da non credersi. A scuola non fanno che giocare e vanno a spasso col maestro. Mi scusi, come andava invece ai nostri tempi? Se un bambino non voleva studiare, i genitori lo toglievano dalla scuola e lo mandavano a imparare un mestiere. Con un principale severo, perché imparasse qualcosa. Oggigiorno tutto va a rotoli. Forse che la gente ha voglia di lavorare? Non c’è più modestia. Guardi un po’ i giovani quando vanno a passeggio la domenica. Ogni figlia d’operaio deve avere la camicetta nuova. Ma che se ne fanno, mi scusi, di roba tanto cara? Poi van tutte a fare il bagno, e lì se la tolgono di nuovo. E il bagno lo fanno insieme ai giovanotti. S’è mai vista prima una cosa simile? Perché piuttosto non vanno a lavorare, questa sì sarebbe una buona pensata. Io lo dico sempre, dove li trovano i soldi per fare tutto questo? I prezzi aumentano di giorno in giorno. Le patate costano già il doppio. C’è da meravigliarsi se i bambini diventano sempre più sfacciati? I genitori gli permettono tutto. Prima gli affibbiavano un paio di schiaffi, uno a destra e uno a sinistra e i bambini dovevano ubbidire per forza. Le cose a questo mondo non vanno più bene. Finché son piccoli non studiano e quando son grandi non lavorano». Kien, dapprima irritato al vedersi trattenere da un discorso tanto lungo, avvertì ben presto una sorta di stupito interesse per ciò che lei diceva. Quella donna senza istruzione dava tanta importanza allo studio: c’era del buono in lei. Forse da quando s’occupava giornalmente dei suoi libri. Su altre del suo ceto i libri non avevano esercitato alcun influsso. Lei era più ricettiva, forse aspirava a farsi una cultura. «Ha proprio ragione», disse, «mi fa piacere che lei abbia delle idee tanto assennate. Studiare è tutto». Frattanto erano entrati in casa. «Aspetti!», ordinò lui, e scomparve nella biblioteca. Tornò con un volumetto nella mano sinistra. Lo sfogliò spingendo in fuori le labbra sottili e severe. «Stia a sentire!», disse, e le fece cenno di scostarsi un poco: ciò che veniva ora richiedeva spazio. Con un tono solenne, in stridente contrasto con la semplicità delle parole, egli lesse: «Il mio maestro m’aveva ordinato di scrivere tremila caratteri ogni giorno e altri mille ogni sera. Nelle brevi giornate d’inverno il sole tramontava presto e io non avevo ancora finito il mio compito. Allora portavo la mia tavoletta sulla veranda che guardava a occidente e là finivo di scrivere. La sera tardi, quando rivedevo ciò che avevo scritto, non riuscivo più a lottare contro la stanchezza. Allora mi mettevo sulle spalle due secchi pieni d’acqua. Quando la sonnolenza mi vinceva, mi toglievo il vestito e mi versavo addosso il primo secchio. Così svestito mi rimettevo al lavoro. Grazie all’acqua fredda rimanevo sveglio per un certo tempo. A poco a poco il mio corpo tornava a riscaldarsi e il sonno mi coglieva di nuovo. Allora mettevo mano al secondo secchio. Con l’aiuto di due getti d’acqua riuscivo quasi sempre a compiere fino in fondo il mio dovere. Quell’inverno entravo nel nono anno d’età». Eccitato e pieno d’ammirazione, Kien richiuse il libro. «Così si studiava una volta! Un brano dei ricordi di gioventù dell’erudito giapponese Arai Hakuseki». Mentre lui leggeva Therese gli s’era avvicinata e con la testa segnava il tempo alle sue frasi. Il lungo orecchio sinistro si tendeva spontaneamente per cogliere le parole che lui andava traducendo a senso dal testo giapponese. Senza volerlo egli teneva il libro un po’ di sbieco: di certo lei vedeva i caratteri stranieri, e ammirava la scioltezza della sua dizione: leggeva come se avesse avuto tra le mani un libro scritto in tedesco. «Straordinario!», disse. Kien aveva finito, lei trasse un profondo respiro. Il suo stupore lo divertì. Che sia troppo tardi, pensò. Quanti anni potrà avere? Ma imparare è possibile a tutte le età. Avrebbe dovuto cominciare con qualche romanzo facile. In quel momento il campanello squillò forte. Therese aprì. Il piccolo Metzger cacciò dentro il naso. «Posso!», disse forte, «il professore me l’ha permesso!». «Libri non ce ne sono!» gridò Therese e sbatté le porta. Fuori il piccolo strepitava. Proferiva minacce; era tanto infuriato che non si capiva una parola di ciò che diceva. «Mi scusi, se a quello gli si dà un dito, reclama tutta la mano. E poi sporcherebbe dappertutto. L’ho visto mangiare il pane imburrato per le scale». Kien stava sulla soglia della biblioteca; il ragazzo non s’era accorto di lui. Col capo fece un cenno cordiale alla governante. Gli piaceva vedere qualcuno prendersi a cuore la salute dei suoi libri. Meritava un segno di gratitudine: «Se alle volte avesse voglia di leggere qualcosa, si rivolga pure a me». «Se lei permette, avrei voluto chiederglielo già da tanto tempo». Non si tirava certo indietro, quando si trattava di libri! Per il resto non era così. Finora s’era sempre comportata con discrezione. Lui non aveva certo l’intenzione d’istituire una biblioteca circolante. Per prender tempo replicò: «Bene. Domani vedrò di cercarle qualcosa». Poi si mise al lavoro. La promessa fatta lo rendeva inquieto. E’ vero che spolvera ogni giorno i miei libri e non ne ha ancora rovinato nessuno. Ma spolverare e leggere non è la stessa cosa. Le sue dita sono ruvide e tozze. La carta è delicata e va trattata con delicatezza. E una robusta rilegatura è più resistente dei fogli sottili che racchiude. E poi, saprà veramente leggere? Ha passato da un pezzo la cinquantina, non si può certo dire che abbia avuto fretta. Platone chiamava il suo avversario, il cinico Antistene, «un vecchio che impara in tarda età». Ora spuntano pure le vecchie che imparano in tarda età. Vuole dissetarsi alla sorgente del sapere. O forse si vergogna davanti a me della propria ignoranza? Va bene la beneficenza, ma non a spese altrui. Perché devono andarci di mezzo i libri? Io le pago un ottimo stipendio. Posso farlo, son soldi miei. Ma darle dei libri sarebbe vile; in mano agli ignoranti i libri sono completamente indifesi. E io non posso sederle vicino e sorvegliarla mentre legge. Durante la notte gli apparve un uomo saldamente legato che sulla terrazza di un tempio si difendeva con ceppi di legno da due giaguari ritti sulle zampe posteriori, i quali l’incalzavano furiosamente da destra e da sinistra. Ambedue erano adorni di strani nastri multicolori. Digrignavano i denti, soffiavano e roteavano gli occhi con tale ferocia da far correre brividi di spavento lungo la schiena. Il cielo era nero e opprimente, e s’era messo in tasca tutte le sue stelle. Sfere di vetro sgorgavano dagli occhi del prigioniero e s’infrangevano al suolo in mille schegge. Ma poiché non accadeva nulla di nuovo, lo spettatore cominciò ad abituarsi a quel crudele combattimento e a sbadigliare. Poi per caso il suo sguardo cadde sui piedi dei giaguari: erano piedi umani. Ah ecco, si disse lo spettatore, un uomo colto e di alta statura: costoro sono sacerdoti messicani addetti ai sacrifici e stanno celebrando un rito sacrale. La vittima sa che deve morire. I sacerdoti sono travestiti da giaguari ma io me n’accorgo immediatamente. A questo punto il giaguaro di destra estrae una selce acuminata e la pianta nel cuore della vittima. Uno spigolo apre nel petto uno squarcio profondo. Kien chiude gli occhi inorridito. Pensa che il sangue sprizzi fino al cielo e biasima una simile barbarie medievale. Aspetta fino a quando pensa che il sangue abbia cessato di scorrere e poi apre gli occhi. Orrore: dal petto squarciato salta fuori un libro, poi un secondo, un terzo, una moltitudine. Non accennano a finire, cadono per terra dove vengono avvolti da fiamme striscianti. Il sangue ha appiccato il fuoco al rogo, i libri bruciano. «Il petto!», grida Kien al prigioniero, «chiuditi il petto!». Gestisce con le mani, così deve fare, ma presto, presto! Il prigioniero capisce; con un violento strattone si libera dei legami e si porta le mani al cuore; Kien respira sollevato. Ma ecco la vittima si allarga lo squarcio nel petto, libri su libri rotolano fuori. A dozzine, a centinaia, impossibile contarli; il fuoco lambisce la carta; ogni libro implora aiuto, grida stridule si levano da ogni parte. Kien protende le braccia verso i libri che bruciano. L’ara è assai più lontana di quanto lui non pensasse.

Spicca un paio di salti ma non riesce ad avvicinarsi. A questo punto deve correre se vuole trovarli ancora in vita. Si slancia a precipizio: ah, il maledetto affanno; ecco che cosa succede quando si trascura il proprio corpo; si farebbe a pezzi per la rabbia. Un uomo inutile, che proprio nel momento del bisogno fallisce la prova. Miserabili bestie! Di sacrifici umani ha udito parlare, ma i libri, i libri! Ora è ai piedi dell’ara. Il fuoco gli strina i capelli e le ciglia. Immensa è la catasta, che da lontano gli era parsa piccola. I libri debbono essere là tra le fiamme. Avanti, dentro anche tu, vigliacco, fanfarone, miserabile! Ma perché si sta insultando? Non è già nel bel mezzo del rogo? Dove siete? Dove siete? Le fiamme l’accecano. Ma che diavolo succede? Dovunque cacci le mani non afferra che uomini urlanti. Gli s’aggrappano con tutte le forze, lui li scaccia, essi ritornano. Dal basso l’assediano costoro, strisciando e abbracciandogli le ginocchia, dall’alto cadono su di lui fiaccole ardenti. Non alza gli occhi, eppure li vede chiaramente, gli afferrano le orecchie, i capelli, le spalle. L’avvinghiano coi loro corpi. Strepito delirante. «Lasciatemi andare», urla lui, «io non vi conosco. Che volete da me! Come posso salvare i libri!». Ecco che uno gli si butta sulla bocca premendogli forte le labbra serrate. Vorrebbe parlare ancora ma non riesce ad aprire la bocca. Implora tra sé: Ma così mi vanno in cenere! Mi vanno in cenere! Vorrebbe piangere, ma dove sono le lacrime? I suoi occhi rimangono crudelmente serrati. Anche contro di essi s’accaniscono i corpi. Vorrebbe pestare i piedi: cerca di sollevare la gamba destra ma inutilmente, essa ricade greve di piombo, di corpi che bruciano. Lui le detesta, queste creature avide così attaccate alla vita, le odia. Quanto vorrebbe offenderle, tormentarle, coprirle d’insulti: ma non può, non può! Non dimentica un istante lo scopo per cui è qui. Possono pure tenergli chiusi gli occhi con la forza, il suo spirito ha una vista potente. Vede un libro che cresce da tutti e quattro i lati e riempie cielo e terra, tutto lo spazio fino all’orizzonte. Un rossore acceso ne divora lentamente, quietamente i margini. Esso subisce il martirio in silenzio, con rassegnazione. Gli uomini urlano, il libro brucia senza un lamento. I martiri non gridano, i santi non gridano. Ed ecco che una voce annuncia – questa voce sa tutto ed è la voce di Dio -: «Qui non ci sono libri. Tutto è vanità». Kien capisce di colpo che la voce dice il vero. Si libera senza fatica dalla canaglia e balza fuori dal fuoco. E’ salvo. Ha sofferto là dentro? Le pene dell’inferno, risponde a se stesso: però non tanto quanto generalmente si crede. La voce l’ha reso immensamente felice, vede se stesso allontanarsi danzando dall’ara. Giunto a una certa distanza si volta. Ha voglia di ridere di quel fuoco vano. Rimane là, immerso nella contemplazione di Roma. Vede membra che si dibattono, tutt’intorno l’aria puzza di carni bruciate. Quanto son sciocchi gli uomini, pensa dimenticando il proprio astio: un salto e sarebbero salvi. All’improvviso non sa davvero che cosa gli stia accadendo – gli uomini si tramutano in libri. Grida forte e si precipita, fuori di sé, incontro al fuoco. Corre, ansima, s’insulta, balza in mezzo alle fiamme, e viene nuovamente afferrato da quei corpi imploranti. L’angoscia lo assale, la voce di Dio lo libera, lui si allontana e osserva la stessa scena dallo stesso posto. Per quattro volte si fa prendere in giro. Il ritmo con cui si svolgono gli avvenimenti diviene di volta in volta più rapido. Lui sa di essere in un bagno di sudore. Segretamente anela a quell’attimo di respiro che gli viene concesso tra un’emozione e l’altra. Mentre riposa per la quarta volta, lo raggiunge il Giudizio universale. Carri giganteschi, alti come case, come montagne, come il cielo, s’avvicinano da due, da dieci, da venti, da tutte le direzioni all’ara ingorda. La voce, potente e annientatrice, annuncia con scherno: «Questa volta son libri!». Kien lancia un urlo e si sveglia. Dopo mezz’ora non s’era ancora rimesso dall’oppressione e dallo stordimento che quel sogno, il peggiore di cui serbasse memoria, gli aveva procurato. Un malaugurato fiammifero che cadesse mentre lui per la strada pensava a svagarsi, e la biblioteca era perduta. L’aveva assicurata in più modi, ma non sapeva se dopo la distruzione di venticinquemila volumi avrebbe trovato la forza, nonché di pensare a riscuotere una qualunque assicurazione, addirittura di continuare a vivere. Aveva contratto quelle assicurazioni con animo sprezzante; più tardi se n’era vergognato. Avrebbe preferito disdirle, e se alla scadenza continuava a pagare le rate era solo per non dover più rimettere piede in quell’istituto dove libri e bestiame sottostavano alle stesse leggi, e per risparmiarsi la vista degli agenti che senza dubbio gli avrebbero mandato in casa. Analizzato nelle sue parti un sogno perde ogni potere. L’altro ieri aveva guardato alcuni codici miniati messicani. Uno di essi rappresentava il sacrificio di un prigioniero compiuto da due sacerdoti travestiti da giaguari. A Eratostene, il vecchio bibliotecario di Alessandria, aveva pensato pochi giorni prima quando aveva incontrato un cieco. Il nome di Alessandria rammentava a chiunque l’incendio della famosa biblioteca. In una xilografia medievale, la cui ingenuità suscitava sempre il suo riso, erano raffigurati una trentina di ebrei che bruciavano sul rogo e che ancora lassù gridavano ostinatamente le loro preghiere. Inoltre lui era un ammiratore di Michelangelo, del quale gli piaceva sopra ogni altra cosa il Giudizio universale. In esso i peccatori venivano trascinati all’inferno da demoni spietati. Uno dei dannati, vera immagine dell’angoscia e della disperazione, si copriva con le mani la grossa testa vile. I demoni gli avvinghiavano le gambe: egli non aveva mai avuto occhi né per la miseria altrui, né per la propria, che ora lo colpiva. In alto il Cristo, per nulla cristiano, malediceva con braccio severo e possente. Da tutti questi elementi il sonno aveva distillato la sua visione. Quando Kien spinse il lavabo mobile fuori dalla stanza sentì un «già in piedi?» più squillante del solito. Che aveva costei da gridare tanto forte a quell’ora mattutina, quando uno non era ancora del tutto sveglio? Giusto, le aveva promesso un libro. Per lei non si poteva prendere in considerazione che un romanzo. Non che dai romanzi la mente tragga molto nutrimento. Il piacere che forse essi offrono lo si paga a carissimo prezzo: essi finiscono per guastare anche il carattere più solido. Ci s’abitua ad immedesimarsi in chicchessia. Si prende gusto al continuo mutare delle situazioni. Ci s’identifica con i personaggi che piacciono di più. Si arriva a capire qualunque atteggiamento. Ci si lascia guidare docilmente verso le mete altrui e si perdono di vista le proprie. I romanzi sono dei cunei che un autore con la penna in mano insinua nella chiusa personalità dei suoi lettori. Quanto più precisamente egli saprà calcolare la forza di penetrazione del cuneo e la resistenza che gli verrà opposta, tanto più ampia sarà la spaccatura che rimarrà nella personalità del lettore. I romanzi dovrebbero essere proibiti dalla legge. Alle sette Kien riaprì la porta. Therese stava al di là di essa, fiduciosa e discreta come sempre, l’orecchio un po’ più inclinato del solito. «Se lei permette», gli ricordò senza riguardo. A Kien montò alla testa il poco sangue che aveva. Ecco che quella dannata sottana si piantava là e mostrava di non aver per nulla dimenticato una promessa fatta troppo alla leggera. «Vuole il libro!», urlò, e la sua voce diede nel falsetto. «Lo avrà!». Le sbatté la porta in faccia, si recò impettito, con passo tremante, nella terza stanza e con un dito trasse da uno scaffale I pantaloni del signor von Bredow. Possedeva quel libro fin dai primi anni di scuola; a quell’epoca l’aveva prestato a tutti i suoi compagni di classe e da allora non l’aveva più potuto soffrire per il cattivo stato in cui gliel’avevano ridotto. La copertina macchiata e i fogli sudici destarono in lui una gioia maligna. Tornò con calma da Therese e le tenne il libro a un palmo dagli occhi. «Non ce n’era bisogno», disse lei e trasse fuori da sotto il braccio un grosso pacco di carte, carte da imballaggio, lui se n’accorse solo in quel momento. Con la massima cura scelse un foglio adatto e vi avvolse il libro come se si trattasse di vestire un bambino. Poi prese un secondo foglio di carta e disse: «Una doppia cucitura tiene meglio». Ma vedendo che la nuova copertina non stava bene a posto la tolse e provò con una terza. Kien seguiva i suoi movimenti come se la vedesse per la prima volta. L’aveva sottovalutata. Trattava i libri meglio di lui. A lui quella vecchia cartaccia era odiosa, e lei la proteggeva subito con due copertine. Non toccava il volume coi palmi delle mani, adoperava solo la punta delle dita. E le sue dita non erano poi così tozze. Si vergognò di se stesso e si compiacque di lei. Che non fosse il caso di andarle a prendere qualcos’altro? Meritava di leggere qualcosa di meno sudicio. Be’, per cominciare questo andava bene. Tanto, presto ne avrebbe chiesto un altro. Con lei in casa la sua biblioteca era sicura, lo era ormai da otto anni e lui non se n’era reso conto. «Domani debbo partire», annunciò tutt’a un tratto, proprio mentre lei lisciava la copertina con le nocche. «Starò assente qualche mese». «Così una buona volta potrò spolverare tutto a fondo. Come può bastare un’ora?». «E se scoppia un incendio quale sarà il suo primo pensiero?». Lei sbigottì. Le carte le caddero a terra. Il libro rimase stretto nella sua mano. «Per amor del cielo, salvarli!». «Ma io non parto, dicevo solo per scherzo». Kien sorrise. Spinto da quest’immagine di estrema fiducia – lui in viaggio e i libri soli le si accostò e le batté con le dita ossute un colpetto sulla spalla, dicendo in tono quasi amichevole: «E’ una brava donna». «Ma ora debbo vedere un po’ che cosa ha scelto per me», disse lei; gli angoli della bocca le arrivavano già fin quasi alle orecchie. Aprì il libro, lesse ad alta voce: «I pantaloni…», s’interruppe ma non arrossì. La sua faccia si coprì d’un sottile velo di sudore. «Oh, mi scusi, professore!», esclamò e scivolò rapida e trionfante in cucina. Nei giorni seguenti Kien si sforzò di ritrovare l’abituale capacità di concentrazione. Anche lui conosceva dei momenti in cui si sentiva stanco di lavorare sempre alle parole, e provava il segreto desiderio di mescolarsi alla gente più a lungo di quanto non gli consentisse il suo carattere. Se scendeva in lotta aperta contro questi impulsi perdeva molto tempo: più li combatteva e più essi diventavano forti. Allora aveva escogitato metodi più sottili: li vinceva con l’astuzia. Non posava il capo sullo scrittoio e non si perdeva a inseguire stanchi desideri. Non correva in strada a scambiare parole insignificanti con qualche sciocco. Al contrario, animava la biblioteca con i più eletti dei suoi amici. Provava simpatia soprattutto per gli antichi cinesi. Ordinava loro di uscire dal volume e dalla parete in cui si trovavano, faceva loro cenno d’avvicinarsi, li faceva accomodare, li salutava o li minacciava a seconda dei casi, li faceva parlare con le loro stesse parole e sosteneva la propria opinione, finché non li aveva ridotti al silenzio. Le polemiche che doveva condurre per iscritto acquistavano in tal modo un fascino inatteso. Per di più s’esercitava a parlare il cinese e s’inorgogliva delle sagge frasi che uscivano dalle sue labbra con tanta facilità e con tanta efficacia. Se vado a teatro, debbo sorbirmi delle chiacchiere insulse che svagano invece d’istruire e che poi annoiano invece di svagare. Dovrei perdere due o tre ore preziose per andarmene poi a letto stizzito. I miei dialoghi sono più brevi e di più alto livello. Giustificava in tal modo davanti a se stesso quel suo gioco innocente, perché agli occhi di uno spettatore esso sarebbe sembrato senza dubbio singolare. Non di rado Kien incontrava per la strada o in libreria dei barbari che riuscivano a stupirlo con le idee ragionevoli che esprimevano. Per cancellare una simile impressione, che contrastava col suo disprezzo per la massa, egli faceva in casi del genere un piccolo calcolo. Quante parole dice costui in una giornata? A dir poco diecimila. Di queste, tre sono sensate. Per caso io ho sentito queste tre. Le parole che a centinaia di migliaia gli trasudano ogni giorno dal cervello, quelle che lui pensa e non dice – sciocchezze su sciocchezze – uno può leggergliele in faccia: per fortuna non si è costretti a sentirle. La governante ad ogni modo parlava poco perché era sempre sola. Tutt’a un tratto scopriva tra loro due diversi tratti comuni cui i suoi pensieri tornavano di continuo. Quando la vedeva ripensava immediatamente a I pantaloni del signor von Bredow ricoperti con tanta cura. Quel libro era stato per decenni nella sua biblioteca. Ogni volta che gli passava davanti, la semplice vista del suo dorso gli dava una stretta al cuore. Eppure l’aveva lasciato così com’era. Come mai non gli era mai venuto in mente di migliorarne l’aspetto con una bella copertina? Era venuto meno al suo dovere in maniera indegna. Ed ecco che arrivava quella modesta governante e gli insegnava ciò che si deve fare. O forse non faceva che recitare una commedia? Forse cercava di cattivarsi la sua simpatia per farlo dormire tra due guanciali. La sua biblioteca era famosa. Gli antiquari gli erano stati appresso molte volte per convincerlo a cedere diversi esemplari unici. Forse lei stava preparando un furto in grande stile. Bisognerebbe sapere come si comporta quando è sola con il libro. Un giorno la sorprese in cucina. Il sospetto lo tormentava, voleva vederci chiaro. Se riusciva a smascherarla l’avrebbe buttata fuori di casa. Voleva un bicchier d’acqua, disse, evidentemente lei non l’aveva sentito chiamare. Mentre l’altra s’affrettava a soddisfare il suo desiderio, lui esaminò il tavolo davanti al quale l’aveva trovata seduta. Su un piccolo cuscino ricamato c’era il suo libro. Pagina venti. Molto avanti non era arrivata. Lei gli porse il bicchiere su un piattino. Solo allora lui s’accorse che portava dei guanti bianchi di pelle lucida. Dimenticò di stringere le dita attorno al bicchiere che cadde a terra seguito dal piattino. Strepito e diversione giunsero a proposito. Non sarebbe riuscito a pronunciare una sola parola. Lui leggeva da quando aveva cinque anni, cioè da trentacinque anni. E mai gli era venuto in mente di mettersi i guanti per leggere. Il suo imbarazzo apparve ridicolo persino a lui. Si riscosse e chiese con fare indifferente: «Come mai è ancora a questo punto?». «Leggo ogni pagina una dozzina di volte, sennò non se ne cava niente». «Le piace?». Si costrinse a continuare con le domande, per non seguire a sua volta la sorte del bicchiere. «Un libro è sempre bello. E’ che bisogna capirlo. C’erano delle macchie d’unto, ho provato in tutti i modi, ma non vanno via. Che debbo fare?». «C’erano già prima». «Però è un peccato. Mi scusi, con quel che vale un libro così!». Non aveva detto «costa», aveva detto «vale». Pensava al suo valore intrinseco, non al prezzo. E lui che le aveva sempre fatto tanti discorsi sul capitale racchiuso nella sua biblioteca! Quella donna doveva disprezzarlo. Era un’anima nobile. Invece di dormire, passava intere nottate alle prese con quelle macchie di antica data. Lui, per pura malvagità, le aveva dato il più malridotto, il più sciupato, il più sudicio dei suoi libri e lei gli dedicava le cure più amorevoli. Provava compassione non per gli uomini, impresa da poco, ma per i libri. Chiamava a sé i deboli e gli oppressi. Si prendeva cura anche dell’ultima creatura, della più spersa e abbandonata sulla faccia della terra. Kien lasciò la cucina in preda a un profondo turbamento. A quella santa donna non disse una parola. Lei lo sentì borbottare fuori nel corridoio e capì a che punto stavano ormai le cose.

Lui camminò su e giù per le alte stanze della sua biblioteca e chiamò a sé Confucio. Questi, dalla parete opposta, lo raggiunse in atteggiamento tranquillo e posato, cosa per la verità non difficile a uno che ha cessato di vivere da tanto tempo. Kien gli corse incontro a passi da gigante. Dimenticò ogni forma di debito ossequio. La sua eccitazione contrastava singolarmente con il contegno del cinese. «Credo di possedere una certa istruzione», l’investì quando fu giunto a cinque passi da lui, «credo anche di avere una certa sensibilità. Mi si è sempre dato ad intendere che l’istruzione e la sensibilità sono strettamente legate l’una all’altra, che questa non può esistere senza quella. Chi ha cercato di darmelo ad intendere? Tu!». Non provava nessuna soggezione nel rivolgersi a Confucio dandogli del tu. «Poi un bel giorno capita una persona senza un briciolo d’istruzione e dimostra d’avere più sensibilità, più cuore, più dignità, più umanità di te e di me e di tutta la tua scuola di eruditi messi assieme!». Confucio non si scompose. Non dimenticò neppure d’inchinarsi prima che gli venisse rivolta la parola. Nonostante quegli incredibili insulti, le sue folte sopracciglia non s’aggrottarono. Al di sotto di esse brillarono due antichissimi occhi neri, pieni di saggezza come quelli di una scimmia. Compostamente aprì la bocca e pronunciò le seguenti parole: «A quindici anni sorse in me il desiderio di studiare, a trent’anni la mia volontà era più salda che mai, a quaranta non avevo più alcun dubbio: ma solo a sessanta le mie orecchie s’aprirono». Kien conosceva bene questa frase. Tuttavia, come replica al suo violento attacco, essa l’indispettì non poco. Fece un rapido confronto per vedere se le date corrispondevano. A quindici anni lui divorava di nascosto, contro la volontà di sua madre, un libro dopo l’altro, di giorno a scuola e di notte sotto le coperte alla luce fioca d’una minuscola lampadina tascabile. Quando il fratello minore, Georg, incaricato dalla madre di fare la guardia, si svegliava per caso durante la notte, non trascurava mai di strappargli le coperte a titolo di prova. La sorte delle sue letture nelle nottate seguenti dipendeva dalla rapidità con cui lui riusciva a far sparire lampada e libro sotto di sé. A trent’anni era ben saldo nella sua dedizione alla scienza. Rifiutava con scherno le cattedre universitarie. Con gli interessi dell’eredità paterna avrebbe avuto di che vivere comodamente fino alla fine dei suoi giorni. Aveva invece preferito investire il capitale in libri. Fra pochi anni, forse non più di tre, non gli sarebbe rimasto più nulla. Non sognava mai l’avvenire pieno d’angustie che l’attendeva, ciò voleva dire che esso non lo spaventava. Quarant’anni li aveva ora, e fino al momento presente non aveva mai avuto dubbi. Però non riusciva a togliersi di mente i pantaloni del signor von Bredow. A sessant’anni non c’era ancora arrivato, altrimenti le sue orecchie sarebbero state aperte. Ma a chi mai avrebbe dovuto aprire le sue orecchie? Confucio, come se avesse indovinato questa domanda, si avvicinò di un passo, si chinò amichevolmente verso di lui, sebbene Kien lo superasse di due teste, e gli diede in confidenza il seguente consiglio: «Osserva il comportamento degli uomini, vaglia i motivi delle loro azioni, considera ciò che li appaga. Come può nascondersi un uomo? Come può nascondersi un uomo?». Qui Kien cadde in preda a una grande tristezza. A che serve sapere a memoria queste parole? Bisogna applicarle, sperimentarle, avvalorarle. Per otto anni un mio simile mi è vissuto accanto invano. Il suo comportamento lo conoscevo, ma ai motivi non ci ho pensato. Sapevo ciò che faceva per i miei libri. Ne avevo sotto gli occhi il risultato giorno per giorno. Pensavo che lo facesse per denaro. Da quando so che cosa l’appaga conosco meglio i motivi delle sue azioni. Lei toglie le macchie a libri miserabili e derelitti che nessuno degna più di una buona parola. Questo per lei è riposo, questo per lei è sonno. Se io, spinto da un volgare sospetto, non l’avessi sorpresa in cucina, il suo modo d’agire non sarebbe mai venuto alla luce. In segreto ha ricamato un cuscino per il suo pupillo e ve l’ha adagiato con delicatezza. Per otto anni non aveva mai portato i guanti. Prima di decidersi ad aprire un libro, questo libro, è uscita e s’è comprata un paio di guanti coi soldi che guadagna a prezzo di tante fatiche. Non è una stupida, per il resto è una persona pratica, sa benissimo che con quello che ha speso per i guanti potrebbe comprare tre volte, nuovo di zecca, lo stesso libro. Ho commesso un grave errore. Per otto anni sono stato cieco. Confucio non gli lasciò il tempo di ripetere queste parole. «Errare e non correggersi significa errare veramente. Se hai commesso un errore non vergognarti di ripararlo». Sarà riparato, esclamò Kien. La compenserò per questi otto anni perduti! La sposerò! Lei rappresenta lo strumento più adatto per tenere in ordine la mia biblioteca. In caso d’incendio posso fidarmi di lei. Se mi fossi fabbricato una persona su misura, essa non sarebbe riuscita così conforme alle mie esigenze. Ha delle buone attitudini. E’ una governante nata. Ha il cuore al posto giusto. Nel suo cuore non c’è posto per cialtroni analfabeti. Potrebbe prendersi un amico: un fornaio, un macellaio, un sarto, un barbaro, una scimmia qualunque. Ma lei non ne è capace. Il suo cuore appartiene ai libri. Che cosa c’è di più semplice che sposarla? A Confucio non badava più. Quando per caso guardò nella sua direzione, s’era dissolto. Soltanto la sua voce lo raggiunse ancora, debole ma chiara: «Vedere ciò che è giusto e non farlo significa mancare di coraggio». Kien non ebbe il tempo di ringraziarlo per quest’ultimo incoraggiamento. Si precipitò verso la cucina ed aperse con impeto la porta. La maniglia gli restò in mano. Therese sedeva davanti al suo cuscino e fingeva di leggere. Quando fu sicura che lui le stava alle spalle, si sollevò in modo che l’altro potesse scorgere il libro. Non le era sfuggito l’effetto che la precedente conversazione aveva avuto su di lui. Per questo era tornata a pagina tre. Lui esitò un momento, non sapeva che dire e si guardò le mani. S’accorse così della maniglia rotta, e con rabbia la scagliò sul pavimento. Poi le si piantò davanti tutto impettito e le disse: «Mi dia la sua mano!». Therese sussurrò a fior di labbra: «Oh, mi scusi, eccola!», e gliela tese. Ecco, pensò, adesso mi seduce, e cominciò a sudare in tutto il corpo. «Ma no», disse Kien, non intendeva la mano in senso materiale, «io voglio sposarla!». A una decisione così rapida Therese non era preparata. Vinta dall’emozione girò dall’altra parte la testa e sforzandosi di non balbettare rispose inorgoglita: «Se lei permette!».

La conchiglia La cerimonia nuziale si svolse con la massima semplicità. Fecero da testimoni un vecchio fattorino che spremeva dal suo corpo ormai consunto la forza per piccole estreme prestazioni e un allegro calzolaio che, sfuggito lui stesso con l’astuzia ad ogni pericolo matrimoniale, assisteva volentieri ai matrimoni altrui, non senza trarne qualche vantaggio finanziario per la sua vita di ubriacone. Con i clienti più distinti insisteva sempre perché facessero sposare presto i futuri figli e figlie. Sapeva trovare parole convincenti a favore dei matrimoni precoci. «Basta che i figli dormano assieme un po’ ed ecco che arrivano subito i nipoti. Adesso pensate a far sposare presto pure i nipoti e in quattro e quattr’otto avrete anche i pronipoti». Per concludere richiamava l’attenzione sul suo vestito della festa, che gli permetteva di adeguarsi a qualunque tono. Prima dei matrimoni di riguardo lo faceva stirare fuori, per quelli comuni se lo stirava lui. Soltanto una cosa raccomandava caldamente: che l’avvisassero in tempo. Quando gli capitava di non esser richiesto per un certo tempo, lui – che pure per natura era un lavoratore piuttosto lento – si offriva di eseguire gratis velocissime riparazioni. Mentre di solito era una persona su cui non si poteva molto contare, manteneva sempre puntualmente le promesse che riguardavano i matrimoni e praticava prezzi davvero modici. Accadeva di tanto in tanto che richiedessero i suoi servigi dei ragazzi – e specialmente delle ragazze – che erano abbastanza degeneri da sposarsi di nascosto e contro la volontà dei genitori, ma non tanto da rinunciare al matrimonio. Lui, che era l’indiscrezione fatta persona, in questi casi sapeva mantenere il segreto. Non si tradiva neanche con la minima allusione quando descriveva con ricchezza di particolari e con parole solenni, alle madri che non sospettavano di nulla, la cerimonia nuziale delle loro figliole. Prima di recarsi nella sua «sfera ideale» – come lui la chiamava – appendeva alla porta della bottega un enorme cartello. C’era scritto, in lettere nerissime e arruffate: «Sono fuori per un bisogno, presto o tardi ritorno. Firmato: Hubert Beredinger». Fu il primo a sapere della fortuna toccata a Therese. Non si mostrò convinto della veridicità delle sue parole finché lei, offesa, non l’invitò allo Stato Civile. A cose fatte i testimoni seguirono la coppia fin sulla strada. Il fattorino intascò il suo compenso torcendosi in un inchino e s’allontanò biascicando parole d’augurio. «…bisogno di me un’altra volta», giunse alle orecchie dei Kien. Era già lontano dieci passi e ancora lo zelo traboccava dalla sua bocca sdentata. Hubert Beredinger, invece, era amaramente deluso. Uno sposalizio così non gli andava davvero a genio. Lui s’era fatto stirare fuori l’abito buono e lo sposo s’era presentato vestito come in un giorno di lavoro, con le scarpe sformate e il vestito logoro, non sembrava né contento né innamorato, e invece di tenere gli occhi fissi sulla sposa, non li staccava un istante dai documenti. Pronunciò il suo «sì» come se si fosse trattato di dire un «grazie», poi non offrì il braccio a quel vecchio arnese e quanto al bacio, quel bacio di cui il ciabattino viveva poi per settimane intere quel bacio altrui equivaleva per lui almeno a venti dei suoi – quel bacio per cui sarebbe stato pronto a sborsare dei quattrini, quel bacio che costituiva appunto il «bisogno» di cui si parlava nel cartello appeso davanti alla sua bottega, quel bacio ufficiale dato davanti agli occhi di un funzionario, il bacio onorato, il bacio per l’eternità, il bacio, il bacio non vi fu per niente. Al momento di accomiatarsi il ciabattino si rifiutò di dar loro la mano. Nascose il suo risentimento dietro un ghigno cattivo. «Un momento, prego», ridacchiò, come un fotografo: i Kien ebbero un attimo di esitazione. Tutt’a un tratto l’altro si chinò verso una donna, la stuzzicò sotto il mento, fece «cu-cu» ad alta voce e dedicò sguardi lascivi alle sue forme opulente. La sua faccia tonda si gonfiò sempre più, la pelle delle guance si tese, un doppio mento sgorgò prepotente, piccoli, agili serpentelli gli guizzarono intorno agli occhi, le sue mani legnose descrissero curve su curve. Di attimo in attimo la donna assumeva dimensioni sempre maggiori. Due occhiate andarono alla donna; la terza, d’incoraggiamento, allo sposo. Poi la strinse forte a sé e con la sinistra le cercò sfacciatamente il petto. E’ pur vero che la donna con cui il ciabattino si dava da fare non esisteva: Kien però capì il senso di quell’oscena pantomima e trascinò via Therese che stava là a guardare. «Quello è ubriaco già alla mattina presto!», disse Therese e s’aggrappò al braccio di suo marito; anche lei era indignata. Alla fermata più vicina aspettarono il tram. Per sottolineare il fatto che tutti i giorni, anche quello, erano uguali, Kien non aveva voluto prendere l’automobile. Arrivò la vettura; lui balzò per primo sul predellino. Quando già si trovava sulla piattaforma, si ricordò che a sua moglie sarebbe spettata la precedenza. Voltando le spalle alla strada ridiscese scontrandosi con estrema violenza contro Therese. Il bigliettaio diede stizzito il segnale della partenza. Il tram riprese la corsa lasciandoli a terra tutti e due. «Che c’è?», chiese Therese con aria di rimprovero. Doveva averle fatto davvero molto male. «Volevo aiutarla – pardon, aiutarti – a salire». «Ah!», disse lei, «ci mancherebbe!». Quando finalmente arrivarono a sedersi, lui pagò per tutti e due. Sperava in tal modo di rimediare alla sua goffaggine. Il bigliettaio mise i biglietti in mano a lei. Invece di ringraziare, lei tirò la bocca in un sogghigno e urtò con la spalla il marito che le sedeva vicino. «Sì?», domandò lui. «Si direbbe…», disse lei in tono canzonatorio e sventolò i biglietti dietro la grossa schiena del bigliettaio. Lo stava prendendo in giro, pensò Kien e non disse niente. Cominciò a sentirsi a disagio. La vettura si riempiva. Una donna sedette di fronte a lui. Aveva con sé, in tutto, quattro bambini, uno più piccolo dell’altro. Due se li tenne stretti in braccio, due rimasero in piedi. Un signore che sedeva alla destra di Therese scese. «Là, là», gridò la madre e indicò svelta il posto vuoto ai suoi marmocchi. I bambini vi si precipitarono, un maschio e una femmina, nessuno dei due ancora in età di andare a scuola; dall’altra parte si avvicinava un maturo signore. Therese coprì con le mani il posto libero. I bambini cercarono d’infilarsi da sotto. Erano impazienti di fare anche loro qualcosa. Le loro teste fecero capolino rasente al sedile. Therese le spazzò via come polvere. «I miei bambini!», strillò la madre. «Che cosa le salta in mente?». «Mi scusi», ribatté Therese, e lanciò al marito un’occhiata carica di sottintesi. «I bambini vengono per ultimi». Nel frattempo il maturo signore era arrivato, ringraziò e si mise a sedere. Kien colse l’occhiata di sua moglie. Avrebbe voluto che suo fratello Georg fosse presente. Era ginecologo e s’era stabilito a Parigi. A neppure trentacinque anni godeva di una fama troppo grande per non essere sospetta. S’intendeva più di donne che di libri. Non erano passati due anni dacché aveva terminato i suoi studi e già la buona società, quand’era malata – e quando mai non lo era? l’assediava con tutte le sue donne sofferenti. Già questo successo gli procurava il ben meritato disprezzo di Peter. Forse avrebbe potuto perdonare a Georg la sua bellezza; era una cosa innata, lui non ne aveva colpa. E col suo carattere, che purtroppo era debole, non avrebbe mai sopportato di farsi imbruttire chirurgicamente per sfuggire alle moleste conseguenze di tanta bellezza. Quanto debole fosse il suo carattere era dimostrato dal fatto che egli aveva tradito la specializzazione prescelta passando a bandiere spiegate alla psichiatria. In questo campo pareva che avesse combinato qualcosa di buono. Ma in cuor suo era rimasto ginecologo. Quella vita immorale gli era ormai entrata nel sangue. Quasi otto anni prima, sdegnato per la volubilità di Georg, Peter aveva troncato senz’altro la corrispondenza con lui ed aveva strappato una quantità di lettere preoccupate. Alle lettere che strappava era solito non rispondere. Il matrimonio gli avrebbe ora offerto un’ottima occasione per riallacciare i rapporti. Georg doveva agli incitamenti di Peter il suo amore per la carriera scientifica. Non ci sarebbe stato proprio nulla di vergognoso nel ricorrere a lui per consiglio, dato che la cosa rientrava nel campo che gli era proprio e naturale. In che modo si doveva trattare questa creatura timida e riservata? Lei non era più giovane e prendeva la vita molto sul serio. La donna là di fronte, certo molto più giovane, aveva già quattro figli, lei non ne aveva ancora nessuno. «I bambini vengono per ultimi». Il significato di queste parole sembrava chiarissimo, ma lei che cosa aveva inteso veramente? Forse che non voleva bambini. Nemmeno lui ne voleva. Non aveva mai pensato ai bambini. Ma a che scopo era uscita con una frase del genere? Forse pensava che lui fosse un uomo immorale. Lei conosceva la sua vita. Da otto anni era perfettamente al corrente delle sue abitudini. Sapeva che era un uomo di carattere. Usciva mai di sera? Era mai venuta a trovarlo una donna, sia pure soltanto per un quarto d’ora? Quando era entrata al suo servizio lui le aveva dichiarato esplicitamente che per principio non riceveva visite, né maschili né femminili; dai lattanti ai vecchi, lei avrebbe dovuto mandar via tutti senza distinzione. «Io non ho mai tempo!». Queste erano state le sue parole. Che diavolo mai l’aveva presa? Quello scostumato calzolaio, forse. Lei era un essere ingenuo, innocente, altrimenti come avrebbe potuto concepire un tale amore per i libri, ignorante com’era? Ma quello sporcaccione aveva recitato la sua pantomima in maniera troppo sfacciata. I suoi gesti erano stati chiari, persino un bambino, anche senza sapere il perché di tanto agitarsi, avrebbe capito che toccava una donna. Persone siffatte, che nemmeno sulla pubblica via sono capaci di dominarsi, dovrebbero vivere chiuse in qualche istituto. Esse suscitano cattivi pensieri nella gente ammodo. E lei è ammodo. Il calzolaio, solo lui, l’ha contagiata. Altrimenti come le sarebbero venuti in mente i bambini? Non si può escludere che ne abbia sentito parlare. Le donne parlano molto tra loro. Deve aver assistito a un parto, in una delle case dove ha prestato servizio. Che ci sarebbe di male se lei sapesse già tutto? Meglio così che se avesse dovuto spiegarle tutto lui stesso. C’è come un’espressione di pudore nel suo sguardo; alla sua età fa un effetto quasi buffo. Io non ho mai pensato di pretendere da lei certe bassezze, neppure lontanamente. Io non ho mai tempo. Ho bisogno di sei ore di sonno. Fino a mezzanotte lavoro, alle sei mi devo alzare. I cani e le altre bestie possono pure dedicarsi a cose del genere anche di giorno. Forse è questo che lei si aspettava dal matrimonio. Non direi. I bambini vengono per ultimi. Che sciocco! Voleva dire che lei sa tutto. Conosce la catena al cui termine ci sono i bambini belli e fatti. E tutto questo l’esprime con eleganza. Prende lo spunto da un piccolo incidente, i bambini erano invadenti, la frase veniva a proposito: però l’occhiata era diretta solo a me ed equivaleva a una confessione. E’ comprensibile. Parlare di certe cose è imbarazzante. Mi sono sposata per i libri, i bambini vengono per ultimi. Non significa niente. Quella volta ha detto che i bambini studiano troppo poco. Le avevo letto un brano di Arai Hakuseki. Lei era fuori di sé dalla gioia. Quella è stata la prima volta che s’è tradita. Altrimenti chissà quando avrei scoperto i sentimenti che nutre per i libri. La nostra intesa è cominciata da allora. Forse vuole soltanto ricordarmelo. Lei è sempre la stessa. Da allora la sua opinione sui bambini non è cambiata. I miei amici sono i suoi amici. I miei nemici sono tali anche per lei. Questo è l’innocente senso della sua breve frase. Non sospetta nemmeno che ci possano essere rapporti diversi. Devo fare attenzione. Potrebbe impressionarsi. Sarò cauto. Come glielo debbo dire? Parlare è difficile. Libri su quest’argomento non ne ho. Comprarne? No. Cosa penserebbe il libraio? Non sono mica un maiale. Mandarci qualcuno. Ma chi? Lei, mia moglie? Come si può essere così vigliacchi! Devo provare. Provare io stesso. E se lei non vuole? Si metterà a gridare. Gli inquilini… il portiere… la polizia… la gentaglia. Non possono farmi niente. Sono sposato. Ne ho il diritto. Che indecenza! Come m’è venuta in mente un’idea simile? Io, io sono stato contagiato dal calzolaio, non lei. Vergognati. Dopo quarant’anni. Così tutt’a un tratto. Non le mancherò di rispetto. I bambini vengono per ultimi. Se potessi sapere che cosa ha inteso dire veramente. Sfinge. A questo punto la madre dei quattro bambini s’alzò. «Attenti», ammonì, e li spinse avanti a sinistra. Lei si fermò sulla destra accanto a Therese, come un ufficiale valoroso. Contrariamente a quanto Kien si aspettava, fece un cenno col capo, salutò cordialmente la sua nemica e disse: «Beata lei che non è ancora sposata!», e rise; denti d’oro luccicarono a mo’ di commiato nella sua bocca. Solo dopo che quella fu scesa, Therese balzò in piedi strillando con voce disperata: «Eccolo, mio marito, eccolo, mio marito! Il fatto è che noi non vogliamo bambini! Eccolo mio marito!». Puntava il dito su di lui, lo tirava per il braccio. Devo calmarla, pensò lui. La scena gli riusciva penosa, lei aveva bisogno della sua protezione, strillava e strillava. Alla fine s’alzò quant’era lungo e disse, davanti a tutti i passeggeri: «Proprio così!». L’avevano offesa, e lei s’era dovuta difendere. La sua reazione era tanto priva di garbo quanto lo era stato l’attacco. Lei non ne aveva colpa. Therese ricadde sul sedile. Nessuno, neanche il signore al suo fianco al quale lei aveva tenuto il posto, prese le sue parti. Il mondo era infettato dall’amore per l’infanzia. Due fermate più in là i Kien scesero. Therese andava avanti. Ad un tratto Kien sentì qualcuno alle sue spalle dire: «Quel che ha di meglio è la sottana». «Che corazzata». «Pover’uomo». «Che vuoi mai, una vecchia carampana». Tutti risero. Il bigliettaio e Therese, che stava già sulla piattaforma, non avevano sentito niente. Ma il bigliettaio rideva lo stesso. Sulla strada Therese accolse tutta gaia il marito e disse: «Gli piace scherzare, a quello là». «Quello là» si sporse dal tram già in moto, mise la mano davanti alla bocca e urlò due sillabe incomprensibili. Si scuoteva tutto, certo per le risa. Therese gli fece un cenno e accorgendosi dell’espressione perplessa di Kien, disse, a mo’ di scusa: «Finirà per cadere dal tram». Ma Kien stava osservando di sottecchi la sua sottana. Era ancor più azzurra del solito, e ancor più inamidata del solito. La sottana faceva parte di lei come il guscio fa parte della conchiglia. Provi chi vuole, ad aprire con la forza il guscio di una conchiglia. Di una conchiglia gigantesca, grande come quella sottana. Bisogna schiacciarla, ridurla in poltiglia e schegge, come aveva fatto lui una volta, da ragazzo, in riva al mare. La conchiglia non cedeva nemmeno tanto da rivelare una fessura. Non gli era ancora capitato di vederne una nuda. Che sorta di animale era mai quello, che teneva il guscio serrato con tanta forza? Voleva saperlo, subito: teneva in mano quella cosa dura, ribelle, si torturava dita e unghie, la conchiglia intanto torturava se stessa. Giurò a se stesso di non muoversi d’un passo finché non fosse riuscito a forzare quel guscio. Lei giurò esattamente il contrario, non voleva lasciarsi vedere. Chissà perché si vergogna, pensava lui, dopo la lascio andare, per conto mio la richiudo pure, non le faccio niente, glielo prometto; se è sorda, pensi il Padreterno a riferirle la mia promessa. Stette a discutere con lei per alcune ore. Le sue parole erano deboli come le sue dita. Odiava le vie traverse, gli piaceva arrivare allo scopo solo per la via diretta. Verso sera passò al largo una grande nave. Il suo sguardo cercò avidamente le enormi lettere nere sulla fiancata e lesse il nome Alexander. Allora, nel bel mezzo della sua rabbia, lui scoppiò in una risata, s’infilò le scarpe in un baleno, scagliò a terra con tutte le sue forze la conchiglia ed eseguì una gordiana danza di gioia. Ora il suo guscio non le serviva più a nulla. Le scarpe la schiacciarono. Ben presto lui se l’ebbe davanti nuda come Dio l’aveva fatta, una miseria, un inganno, un mucchietto di poltiglia, non un animale. Therese senza guscio, senza la sua gonna, non esisteva. La gonna è sempre impeccabilmente inamidata. E’ la sua rilegatura blu in tutta tela. Lei ci tiene, alle buone rilegature. Come mai le pieghe dopo un certo tempo non si rovinano? E’ evidente che lei la stira molto spesso. Forse ne ha due. Non si nota nessuna differenza. Una donna che sa il fatto suo. Non devo sgualcirle la gonna, sverrebbe dalla disperazione. Che posso fare se sviene all’improvviso? Le chiederò scusa in anticipo. Può tornare a stirarsi la gonna subito dopo. Nel frattempo io me ne vado in un’altra stanza. Perché non si mette semplicemente l’altra? Quante difficoltà mi pone davanti! Era la mia governante, io l’ho sposata. Si comprerà una dozzina di gonne, così potrà cambiarsi quante volte vuole. Così sarà pure sufficiente un’inamidatura più leggera. Troppa rigidezza finisce per essere ridicola. La gente del tram aveva ragione. Non fu facile salire le scale. Senza accorgersene, lui rallentò il passo. Al secondo piano credette d’essere già arrivato e si sentì prendere dal panico. In quel momento giunse di corsa, cantando, il piccolo Metzger. Appena ebbe scorto Kien, indicò Therese e protestò: «Non mi lascia entrare! Mi sbatte sempre la porta in faccia. La sgridi, professore!». «Che significa questa storia?», chiese Kien in tono minaccioso, grato per il capro espiatorio che gli cascava tra le braccia proprio al momento giusto. «Lei mi ha dato il permesso, no? Io gliel’ho detto, a lei». «Chi sarebbe, lei?». «Quella lì». «Questa qui?». «Sì, mia madre ha detto che non deve far tanto la sfacciata perché non è altro che una serva». «Brutto zoticone!», gridò Kien e alzò la mano per dargli uno schiaffo. Il ragazzo s’abbassò, inciampò, cadde e per non rotolare dalle scale s’aggrappò alla gonna di Therese. Si sentì il tipico rumore della biancheria inamidata che si strappa. «Cosa!», urlò Kien, «ora fai pure lo sfacciato!». Quella birba si stava prendendo gioco di lui. Fuori di sé dalla collera, gli assestò alcuni calci, ansimando lo prese per il ciuffo e lo sollevò da terra, gli allungò due, tre ossuti ceffoni e alla fine lo sbatté da una parte. Il piccolo scoppiò a piangere e salì le scale di corsa. «Lo dico a mia madre! Lo dico a mia madre!». Di sopra una porta s’aprì e si richiuse. Una voce di donna cominciò a strillare. «E’ proprio un peccato, la mia bella sottana», disse Therese cercando di giustificare quei duri colpi. Si fermò e guardò il suo protettore in un certo modo. Era ormai tempo di prepararla. Bisognava dirle qualcosa. Si fermò anche lui. «Davvero, la tua bella sottana. Cosa bella e mortal passa e non dura», citò lui, felice dell’idea che gli era venuta di alludere con le parole di una bella poesia antica a ciò che più tardi doveva inevitabilmente accadere. Con le parole di una poesia si può dire qualunque cosa nel modo migliore. Le poesie sono adatte ad ogni circostanza. Nominano la cosa ricorrendo ai più discreti eufemismi, e nondimeno si capisce bene di che si tratta. Aveva già ripreso a camminare quando si girò verso di lei e disse: «Una bella poesia, non è vero?». «Oh sì, le poesie sono sempre belle. E’ che bisogna capirle». «Tutto bisogna capire», disse lui lentamente, marcando le parole, e arrossì. Therese gli dette una gomitata nelle costole, scrollò la spalla destra, girò la testa dalla parte che le era meno solita e disse mordace, in tono di sfida: «Staremo a vedere. L’acqua cheta rovina i ponti». Kien ebbe l’impressione che queste parole fossero per lui. Interpretò la sua frase come un segno di biasimo, si pentì di quell’allusione sfrontata. Il tono ironico della sua risposta gli tolse quel po’ di coraggio che gli era rimasto. «Io, io non volevo dir questo», balbettò. La porta di casa lo salvò da altri momenti d’imbarazzo. Fu felice di poter mettere la mano in tasca per cercare le chiavi. Così almeno poteva abbassare lo sguardo senza dar nell’occhio. Non riuscì a trovarle. «Ho dimenticato le chiavi», disse. Adesso avrebbe dovuto aprire a forza la porta come quella volta la conchiglia. Una difficoltà dopo l’altra, non gliene andava bene una. Mogio mogio cercò nell’altra tasca dei pantaloni. No, le chiavi non c’erano né là né altrove. Stava ancora cercando allorché sentì un rumore che veniva dalla serratura. I ladri! gli balenò. Nello stesso istante scorse la mano di lei sulla serratura. «Ma ci sono le mie», disse lei, e quasi scoppiava dalla soddisfazione. Per fortuna non s’era messo a chiamare aiuto. Ce l’aveva già sulla punta della lingua. Se ne sarebbe dovuto vergognare davanti a lei per tutta la vita. Si comportava come un bambino. Non gli era mai accaduto di scordarsi le chiavi. Finalmente furono in casa. Therese aprì la porta della stanza da letto di Kien e gli fece segno d’entrare. «Vengo subito», disse e lo lasciò solo. Lui si guardò attorno e trasse un sospiro di sollievo, come un ergastolano rimesso in libertà. Sì, quella è la sua patria. Là non gli può accadere nulla di male. Sorride all’idea che là gli possa accadere qualcosa. Evita di guardare dalla parte del divano letto. Ogni essere umano ha bisogno di una patria, non quella che intendono certi rozzi patrioti sempre pronti a fare a pugni, e neppure una qualche religione, insipido assaggio di una patria oltremondana. No: una patria che racchiuda in sé il suolo, il lavoro, gli amici, la ricreazione, l’ambito spirituale della propria attività, facendone un tutto naturale, ben ordinato, un vero e proprio cosmo personale. La migliore definizione di patria è: biblioteca. La cosa più saggia è tener le donne lontane dalla propria patria. Se uno però si decide ad accoglierne una, deve prima di tutto assimilarla completamente alla sua patria, come ha fatto lui. Per otto lunghi, silenziosi, tenaci anni i libri hanno provveduto per lui a sottomettere questa donna. Lui personalmente non ha mosso un dito: i suoi amici hanno conquistato la donna in suo nome. Indubbiamente c’è molto da dire contro le donne, soltanto un pazzo potrebbe sposarsi senza un periodo di prova. Lui ha avuto la saggezza di aspettare fino ai quarant’anni. Ci si provi un altro a sostenere un periodo di prova di otto anni! Ciò che doveva accadere è maturato a poco a poco. L’uomo è l’unico artefice del proprio destino. A pensarci bene, la sola cosa che ancora gli mancava era proprio una donna. Lui non è un uomo di mondo – alla parola «uomo di mondo» gli si presenta subito davanti agli occhi l’immagine di suo fratello Georg, il ginecologo – di lui si può dire qualunque cosa, ma non che sia uomo di mondo. Ciò nonostante è possibilissimo che i sogni tormentosi degli ultimi tempi dipendano dalla sua vita esageratamente severa. Tutto ciò ora cambierà. E’ ridicolo cercare ancora di sfuggire al compito che l’attende. Lui è un uomo: che cosa si deve fare ora? Fare? Meglio non correr troppo: per il momento basti decidere quando si dovrà fare. Adesso, lei si difenderà con la forza della disperazione, lui non dovrà aversene a male. E’ comprensibile che una donna difenda quanto ha di più sacro. Ma a cose fatte lei l’ammirerà, perché lui è un uomo. Pare che tutte le donne siano così. Dunque, la cosa si farà ora. Deciso. Dà a se stesso la sua parola d’onore. Secondo: dove si farà? Brutta domanda. A dire il vero, per tutto questo tempo lui ha avuto davanti agli occhi un divano. Il suo sguardo scorreva lungo gli scaffali, e il divano lo seguiva. Sopra c’era la conchiglia della spiaggia, azzurra ed enorme. Dovunque si soffermassero i suoi occhi, là s’arrestava anche il divano, massiccio e schiacciato dal gran peso. Pareva che dovesse sopportare tutto il carico degli scaffali. Quando Kien capitava nelle vicinanze del vero divano, girava la testa dall’altra parte e tornava indietro facendo un largo giro. Ora che ha preso una decisione con tanto di parola d’onore, l’esamina con maggior cura e più a lungo. L’occhio, forse per la forza dell’abitudine, se ne ritrae ancora varie volte. Alla fine però vi rimane fisso. Il divano, quello vero, reale, è vuoto, sopra non ci sono né la conchiglia né altri pesi. E se ora ve lo mettesse lui, qualche peso? Se lo caricasse di un bello strato di libri? Se lo coprisse interamente di libri, al punto di farlo quasi scomparire? Kien obbedisce al suo geniale impulso. Raccoglie una gran quantità di volumi e li accumula cautamente sul divano. Avrebbe preferito sceglierne alcuni dagli scaffali superiori, ma il tempo stringe, lei ha detto che sarebbe venuta subito. Ci rinuncia; lascia la scala dove sta e si accontenta di un gruppo di opere scelte negli scaffali più bassi. Colloca quattro, cinque pesanti volumi uno sopra l’altro e fa loro una rapida carezza prima di andarne a prendere degli altri. Roba di scarso valore non ne sceglie per non offendere la donna. E’ vero che lei non se n’intende molto, ma lui si preoccupa perché lei ha dimostrato di possedere discernimento e sensibilità per ciò che riguarda i libri. Verrà da un momento all’altro. Appena vedrà il divano stracarico lei, amante dell’ordine com’è, s’avvicinerà ad esso e chiederà quale sia il posto di quei volumi. Così lui attirerà nella trappola l’ignara creatura. E’ facile avviare una conversazione parlando dei titoli dei libri. Lui andrà avanti a un passo per volta e la guiderà pian piano nella direzione voluta. L’emozione che la attende è l’avvenimento più importante nella vita di una donna. Lui non vuole che si spaventi, vuole aiutarla. L’unica cosa da fare è agire con audacia e decisione. La precipitazione gli ripugna. Benedice i libri. Purché non si metta a strillare. Già poco fa ha sentito un lieve rumore, come se si fosse aperta la porta della quarta stanza. Lui non ci bada, ha qualcosa di più importante da fare. Con le spalle allo scrittoio contempla il divano corazzato, ne valuta l’effetto e si sente traboccare d’amore e di devozione per i libri. A questo punto la voce di lei annuncia: «Eccomi qua». Kien si volta. Lei sta sulla soglia della stanza accanto in una sottoveste di un candore abbagliante, guarnita di ampi merletti. Per prima cosa lo sguardo di lui ha cercato il blu, il pericolo. Poi risale sbigottito lungo la sua figura: la camicetta l’ha ancora addosso. Dio sia lodato. La sottana non c’è. Così non dovrò gualcire nulla. E’ decente questo? Che fortuna! Mi sarei vergognato. Come ha fatto a pensarci? Avrei detto: toglila. Non ci sarei mai riuscito. Sta lì in un atteggiamento così naturale. Si vede che ci conosciamo già da tanto tempo. Si capisce, è mia moglie. In ogni matrimonio. Come fa a saperlo? E’ stata a servizio. In casa di gente sposata. Avrà visto tutto quanto. Come le bestie. Loro sanno per istinto come si fa. Altro che i libri ha per la testa! Therese si avvicina dimenando i fianchi. Non scivola, sembra che si dondoli. Allora l’andatura scivolante dipende soltanto dalla gonna inamidata. Lei dice gaia: «Come mai così pensieroso? Ah, gli uomini!». Incurva il mignolo e con esso lo minaccia e gli indica il divano. Devo seguirla, pensa lui, e senza saper come si ritrova al suo fianco. E ora, che deve fare? Farla sdraiare sui libri? Trema di paura, implora i suoi libri, l’ultima barriera. Therese coglie il suo sguardo, si china e con un ampio gesto del braccio sinistro spazza via i libri gettandoli d’un colpo sul pavimento. Lui li guarda, abbozza un gesto sgomento. Vorrebbe gridare ma l’orrore lo soffoca, deglutisce ma non riesce a proferir parola. Un odio terribile lo pervade a poco a poco: lei ha osato far questo! Ai libri! Therese si toglie la sottoveste, la piega sollecita e la posa sui libri sparsi per terra. Poi si sdraia comodamente sul divano, incurva il mignolo, sogghigna e dice: «Ecco fatto!». Kien esce a precipizio dalla stanza, si chiude a chiave nel bagno, l’unico locale di tutta la casa in cui non vi siano libri, cala meccanicamente i pantaloni, siede sull’asse e scoppia in pianto come un bambino.

Mobili accecanti «Non mangerò certo sola in cucina come una serva. La padrona di casa mangia a tavola». «Ma se la tavola non c’è». «E’ quello che dico sempre io, qui ci vuole una tavola. S’è mai visto che in una casa per bene uno mangi allo scrittoio? E’ una cosa che penso da otto anni, e adesso devo dirla!». La tavola venne acquistata insieme a una sala da pranzo in noce. Gli uomini l’installarono nella quarta stanza, quella più lontana dalla scrivania. I mobili nuovi vennero usati tutti i giorni a pranzo e a cena; il più delle volte si mangiava in silenzio. Dopo neppure una settimana Therese disse: «Oggi dovrei chiederti una cosa. Qui ci sono quattro stanze. Marito e moglie hanno gli stessi diritti, oggigiorno le leggi son fatte così. A ciascuno ne toccano due. Quello che vale per uno, vale per l’altro. Io mi prendo la sala da pranzo e quella vicina. Il marito si tiene il suo bello studio e la grande stanza accanto. E’ la soluzione più semplice. Il mobilio rimane com’è. Così non c’è bisogno di fare molti conti. Sarebbe un peccato sprecare del tempo. La cosa va sistemata, così nessuno dei due ci pensa più. Il marito si mette allo scrittoio, la moglie si occupa delle sue faccende». «Già, e i libri?». Kien intuisce il suo piano. Lui non si lascia imbrogliare. E anche se ciò gli costa la fatica di pronunciare ben due frasi, l’interroga per scoprire dove vuole arrivare. «Quelli, poco manca che, nelle mie stanze, mi portino via tutto lo spazio». «Li porterò dalla mia parte». La voce di lui è irritata. Dio mio, non c’è verso che rinunci a qualcosa di buon grado. Se la prende tanto per quel paio di mobili. «Ma scusa, perché? Ai libri non fanno bene troppi spostamenti, io me n’intendo. Lascia i libri dove sono. Io non toccherò niente. In cambio mi prendo anche la terza stanza, così siamo pari. Tanto nella stanza non c’è niente. Il marito avrà il suo bello studio tutto per sé». «T’impegni a tacere a tavola?». A lui dei mobili non importa nulla. Glieli farà pagar cari. Qualche volta, a tavola, lei cerca di attaccare discorso. «Ma certo, a me piace tacere». «E’ meglio che lo mettiamo per iscritto!». Lei scivolò verso lo scrittoio con estrema sveltezza, seguendolo da vicino. Il contratto che lui aveva steso rapidamente non era ancora asciutto e già lei vi aveva apposto la sua firma. «Sai bene quello che hai firmato!», disse lui; alzò il foglio e per maggior sicurezza le lesse ad alta voce le frasi che aveva scritto. «Dichiaro che tutti i libri che si trovano nelle tre stanze di mia appartenenza sono legittima proprietà di mio marito, e che mai e in nessun caso verrà introdotto alcun mutamento per quanto concerne tale proprietà. In cambio della cessione delle tre stanze m’impegno a tacere durante i pasti in comune». Erano soddisfatti tutti e due. Per la prima volta dal giorno in cui s’erano recati allo stato civile si dettero la mano. In tal modo Therese, che fino ad allora aveva taciuto per abitudine, scoprì quanto prezioso fosse per lui il suo silenzio. Si attenne scrupolosamente al patto che regolava la donazione. A tavola gli porgeva le pietanze senza aprir bocca. Rinunciò spontaneamente all’antico desiderio, nutrito per tanto tempo, di spiegare a suo marito come si svolge in cucina la preparazione delle vivande. Aveva ben fisse in testa le parole del contratto. L’obbligo di tacere le riusciva più difficile che il tacere stesso. Una mattina, mentre lui, pronto per la sua passeggiata, stava per lasciare la stanza, gli si parò davanti e disse: «Ora posso parlare. Non stiamo mangiando. Sul divano letto io non potrei certo dormire. E poi stona proprio con lo scrittoio! Un mobile così antico e costoso vicino a quel divano da due soldi. In una casa come si deve ci vuole un letto come si deve. Se venisse qualcuno ci sarebbe da vergognarsi. Quel divano m’è sempre stato sullo stomaco. Proprio ieri m’era venuto fatto di dirtelo, ma poi mi sono trattenuta. Alla padrona di casa non si può dire di no. E poi quel divano è troppo duro. S’è mai visto un divano così duro? Questo non è bene. Io non sono certo una scostumata, di me nessuno può dire una cosa del genere. Ma uno deve poter dormire. Coricarsi all’ora giusta e in un buon letto, non in un letto così duro!». Kien la lasciò parlare. Sicuro com’era del suo silenzio nelle altre ore del giorno, aveva commesso un errore nel redigere il contratto: aveva cioè posto come unica condizione che lei tacesse durante i pasti. Di violazione di contratto in senso giuridico non si poteva parlare. Era una mancanza dal punto di vista morale: ma una cosa simile non poteva certo turbare una persona come lei. La prossima volta sarebbe stato più avveduto. Se lui parlava, le forniva il pretesto per continuare a parlare: quindi, come se lei fosse stata muta e lui fosse stato sordo, si fece da parte e proseguì per la sua strada. Ma lei non disarmò. Ogni mattina si metteva davanti alla porta ed esaltava ogni volta di più le qualità del divano. Lei faceva un discorso sempre più lungo e lui diventava di un umore sempre più nero. Pur non battendo ciglio, la stava ad ascoltare fino in fondo, per amor di esattezza. Sembrava così bene informata sul conto del divano, che pareva averci dormito sopra per anni. La faccia tosta con cui trinciava giudizi lo impressionava. Il divano, semmai, era più morbido che duro. Sentiva una gran voglia di chiuderle quella stupida bocca con una sola frase. Si chiese fino a che punto sarebbe arrivata la sua impudenza e, per scoprirlo, azzardò un piccolo, maligno esperimento. Una volta che aveva ricominciato a scagliarsi contro il divano, duro, duro, duro, lui la guardò con aria di scherno dritto in faccia, due guance cicciute, un grugno nero, e dichiarò: «Questo tu non puoi saperlo. Là sopra ci dormo io». «Lo so lo stesso, che il divano è duro». «Ah sì? E come fai a saperlo?». Lei sogghignò. «Questo non te lo dico. So io, ho i miei ricordi». Tutt’a un tratto lei e il suo ghigno non gli giunsero nuovi. Rivide una sottoveste di un bianco abbagliante, tutta pizzi, e un braccio sgraziato che colpiva dei libri. I libri restavano sparsi sul tappeto come dei cadaveri. Un mostro mezzo nudo, mezzo in camicia ripiegava accuratamente la sottoveste e la stendeva sui libri, come un sudario. Quel giorno Kien lavorò di pessima voglia. Non riuscì a concludere niente; il cibo gli dette la nausea. Una volta era riuscito a dimenticare: in compenso ora ricordava ogni cosa tanto più chiaramente. La notte non chiuse occhio. Il divano gli sembrava appestato e maledetto. Fosse stato soltanto duro! Un ricordo disgustoso non voleva staccarsi da esso. S’alzò più volte e spazzò via quel peso. Ma la donna era pesante, e restava dove voleva lei. La buttò letteralmente giù dal divano. Ma appena sdraiato avvertiva di nuovo la sua presenza. Non riusciva a dormire tanto era l’odio che provava. Aveva bisogno di sei ore di sonno. Il suo lavoro dell’indomani era minacciato dallo stesso destino di quello di oggi. S’accorse che tutti i cattivi pensieri erano concentrati intorno al divano. Verso le quattro del mattino lo salvò un’idea brillante. Decise di sacrificare il divano. Corse in tutta fretta davanti alla stanza della moglie, che si trovava vicino alla cucina, e picchiò contro la porta finché lei non si destò dal suo sbigottimento: infatti non stava dormendo. Dormiva poco, da quando s’era sposata. Ogni notte aveva atteso segretamente il grande momento. Adesso era arrivato. Le ci volle qualche minuto per convincersene. S’alzò dal letto pian piano, si tolse la camicia da notte e s’infilò la sottoveste guarnita di pizzi. Non passava notte che non la togliesse dal baule e non la distendesse sulla sedia ai piedi del letto, per ogni evenienza. Non si poteva mai sapere. Attorno alle spalle si gettò un largo scialle traforato, che costituiva il secondo e più importante capo di lusso del suo corredo. Attribuiva la colpa di quella prima sconfitta alla camicetta. Infilò in un paio di pantofoline rosse i piedi enormi. Davanti alla porta sussurrò: «Per amor del cielo, devo aprire?». Veramente avrebbe voluto dire: «Che è successo?». «No, per amor del diavolo!», urlò Kien, furibondo per il suo presunto, profondissimo sonno. Lei si rese conto del suo errore. Il tono imperioso della voce di lui tenne desta la sua speranza ancora per un attimo. «Domani si compra un letto per me!», ruggì lui. Lei non rispose. «Capito?». Lei chiamò a raccolta tutte le sue arti e sospirò attraverso la porta: «Come vuoi». Kien girò sui tacchi, sbatté con fracasso, a mo’ di conferma, la porta della sua stanza e si addormentò di colpo. Therese si strappò di dosso lo scialle, lo depose con ogni riguardo sulla sedia e gettò sul materasso il suo petto greve. Che maniere! E’ questo il modo di comportarsi? Si potrebbe quasi credere che sia io a tenerci. Cosa non si mette in testa un uomo come questo! Ma è poi veramente un uomo? Io ho addosso queste belle mutandine orlate di costosi merletti, e lui non muove un dito. Non può essere un uomo. Avrei potuto avere ben altri amori, io! Che uomo superbo era quello che veniva sempre a trovare i miei padroni di prima. Quando gli aprivo la porta, mi prendeva per il mento e ogni volta mi diceva: «Lei diventa sempre più giovane». Quello sì che era un uomo. Alto e forte, davvero un pezzo d’uomo. Non un mucchio d’ossa come questo qui. E come ti guardava! Sarebbe bastato che dicessi una parola. Una volta che c’era anche lui sono entrata in salotto e ho chiesto: «Che cosa preferiscono i signori per domani? Manzo con cavoli e patate arrosto o carne affumicata con crauti e Knödel?». I due vecchi non sono mai andati d’accordo. Lui era per i Knödel, lei per il cavolo. Allora io mi sono rivolta all’ospite e gli ho detto: «Decida il signor nipote». Mi vedo ancora la scena davanti agli occhi: io che gli sto davanti e lui, quello spudorato, che salta su e con tutte e due le mani – che forza quell’uomo! – mi dà una pacca sulle spalle. «Manzo con cavoli e Knödel!». Cose da pazzi! Manzo e Knödel! S’è mai sentito? Davvero cose dell’altro mondo! «Sempre in vena di scherzare, il signor nipote», ho detto io. Lui era un impiegato di banca in pensione, senza posto, con una bella liquidazione, questo sì, ma che si fa una volta che la liquidazione è sfumata? No, io mi prendo soltanto un uomo serio con la sua brava pensione o sennò addirittura un signore che abbia del suo. Adesso ci sarei arrivata, a questo. E’ da stupidi rovinarsi per un’avventuretta. Bisogna aver giudizio. Nella nostra famiglia diventiamo tutti vecchi. Non c’è da stupirsene, con la vita regolata che si fa. Ha la sua importanza, che uno vada sempre a letto presto e non esca mai di sera. Anche mia madre, quella stracciona, non è morta prima d’aver compiuto settantaquattro anni. E poi non si può manco dire che sia morta. E’ crepata di fame perché negli ultimi anni non aveva niente da mettere sotto i denti. Certo che di soldi ne ha buttati dalla finestra. Ogni inverno una maglietta nuova. Non erano passati nemmeno sei anni dalla morte di mio padre e già lei s’era messa con uno. Bel soggetto quello: un macellaio, la picchiava e correva sempre dietro alle ragazze. Quello da me se l’è presa una bella graffiata sul muso. Mi faceva la ronda, ma io non potevo vederlo. Gli ho detto di sì soltanto per far rabbia a mia madre. Quella non faceva che dire tutto per i figli. Ah, la faccia che ha fatto quando un bel giorno torna dal lavoro e ti trova l’uomo con sua figlia! Ancora non era successo niente. Il macellaio fa per saltar giù dal letto. Io lo tengo stretto, che non possa scappare, finché la vecchia non è nella stanza, vicino al letto. Che urli! Mia madre lo caccia dalla stanza a suon di pugni. Poi viene da me, m’abbraccia, singhiozza e vorrebbe addirittura baciarmi. Io però non la lascio fare e graffio. «Sei una matrigna, ecco quel che sei!», le grido in faccia. Lei ha creduto fino al giorno della sua morte che quello là mi avesse tolto l’onore. E invece non è vero niente. Io sono una persona per bene e con gli uomini non ho mai avuto a che fare. Certo che se una non si sapesse difendere ce n’avrebbe dieci per dito. Ma poi che si fa? I prezzi aumentano di giorno in giorno. Le patate costano già il doppio. Nessuno sa dove porti quella strada. E io non ci sto. Ora sono sposata, e m’aspetta una vecchiaia solitaria… Dalla piccola posta dei giornali, sua unica lettura, Therese aveva appreso diverse belle frasi, che usava intrecciare ai suoi pensieri

nei momenti d’eccitazione o dopo aver preso importanti decisioni. Queste parole esercitavano su di lei un effetto distensivo. Ripeté: m’aspetta una vecchiaia solitaria, e s’addormentò. Il giorno dopo, mentre Kien stava lavorando di buona lena, due uomini portarono il letto nuovo. Il divano scomparve, e con esso il ricordo che vi era attaccato. Il suo posto venne occupato dal letto. Nell’andarsene gli uomini dimenticarono di chiudere la porta. Improvvisamente rientrarono portando un lavamano. «Dove dobbiamo metterlo?», chiese uno dei due all’altro. «In nessun posto!», protestò Kien. «Io non ho ordinato lavamani». «E’ già pagato», disse il più piccolo dei due. «Anche il comodino», aggiunse il secondo e in men che non si dica lo portò dentro, lignea prova della sua affermazione. Therese apparve sulla soglia. Tornava dalla spesa. Prima di entrare bussò alla porta aperta. «Si può?». «Sì!», gridarono gli uomini al posto di Kien, e si misero a ridere.

«Già qui, signori?». Scivolò con garbo verso suo marito, lo salutò familiarmente con un moto del capo e delle spalle, come se fossero da anni i migliori amici del mondo, e disse: «Non sono brava? Per lo stesso prezzo! Il marito si aspetta un mobile e la moglie gliene porta a casa tre». «Non li voglio. A me serve solo il letto». «Ma perché no? Uno si deve anche lavare». Gli uomini si dettero di gomito. Certo pensavano che lui non si fosse mai lavato in vita sua. Therese lo stava invischiando in una discussione domestica. Non aveva nessuna voglia di rendersi ridicolo. Se avesse cominciato a parlare del lavabo mobile, quelli lo avrebbero preso per matto. Era meglio tenersi il nuovo lavamano, nonostante la sua gelida lastra di marmo. Era possibile nasconderlo a metà dietro il letto. Dette anche lui una mano per toglier di mezzo alla svelta quel mobile sgradevole. «Il comodino non serve», disse poi indicando l’oggetto stretto e basso che nel mezzo dell’ampia stanza – là era rimasto – faceva davvero una buffa figura. «E il vaso da notte?». «Il vaso da notte?». L’idea di un vaso da notte nella sua biblioteca lo fece allibire. «Vorresti tenerlo sotto il letto?». «Ma che ti salta in mente!». «Che figura fai fare a tua moglie davanti a degli estranei?». Dunque l’unica cosa che le premesse era poter parlare. Voleva parlare, parlare e nient’altro che parlare. A questo fine approfittava della presenza degli uomini. Ma lui non era uomo da lasciarsi imporre chiacchiere di nessun genere. Paragonato ai discorsi di lei, un vaso da notte valeva quanto un libro. «Mettetelo lì, vicino al letto!», disse brusco agli uomini. «Bene, ora potete andare». Therese li accompagnò alla porta. Li trattò con gentilezza squisita, e contro le sue abitudini dette loro persino una mancia, di tasca del marito. Quando rientrò nella stanza, lui le voltava lo

schienale della sedia su cui s’era messo a sedere. Non voleva avere più nulla in comune con lei, neppure gli sguardi. Dato che lui aveva lo scrittoio davanti a sé, Therese non gli si poteva avvicinare e dovette contentarsi di guardare il suo profilo adirato. Sentiva quanto fosse necessaria una giustificazione e cominciò a lamentarsi del vecchio lavabo mobile. «Due volte al giorno lo stesso lavoro. Una volta la mattina, una volta la sera. E’ giusto? Bisogna avere un po’ di riguardo per la moglie. Si sa, una domestica è costretta…». Kien balzò in piedi e senza voltarsi ordinò: «Silenzio! Non una parola di più. I mobili restano come sono. Ogni discussione è superflua. D’ora in poi terrò chiusa la porta che comunica con le tue stanze. Ti proibisco di metter piede in questo locale finché ci sono io. Se mi serviranno i libri che stanno di là me li verrò a prendere. All’una in punto e alle sette in punto mi presenterò a tavola. Raccomando che non mi si chiami perché l’orologio so leggerlo da me. Se verrò disturbato prenderò adeguate misure. Il mio tempo è prezioso. E adesso, fuori!». Batté le punte delle dita l’una contro l’altra. Aveva trovato le parole giuste: chiare, precise, distaccate. Come avrebbe potuto replicare, lei, col suo linguaggio grossolano? Infatti se ne andò e si chiuse alle spalle la porta di comunicazione. Finalmente gli era riuscito di mandare all’aria i suoi piani ciarlieri. Anziché stipulare dei contratti, per lo spirito dei quali lei non mostrava alcuna considerazione, le aveva fatto vedere chi era il padrone. Qualcosa aveva dovuto sacrificare: la vista sulla fuga delle stanze in penombra tappezzate di libri, l’assenza di mobili superflui nel suo studio. Ma ciò che aveva ottenuto in cambio valeva, ai suoi occhi, molto di più, ed era la possibilità di proseguire il suo lavoro, per il quale la prima e suprema condizione era la quiete. Lui aveva bisogno del silenzio come gli altri dell’aria.

Comunque la prima cosa da fare era abituarsi ai radicali cambiamenti subiti da ciò che lo circondava. Per alcune settimane fu tormentato dalla ristrettezza del suo nuovo alloggio. Confinato in un quarto dello spazio che aveva prima a sua disposizione, cominciò a comprendere quanto fosse miserabile lo stato dei prigionieri che un tempo – che occasione unica per studiare, mentre in libertà gli uomini non studiano mai! – egli aveva stimato, in contrasto con l’opinione corrente, felici. Era finita la possibilità di andare su e giù mentre in lui maturava qualche grande idea. Prima, quando tutte le porte erano ancora aperte, tutta la biblioteca veniva attraversata da un vento salutare. I lucernari facevano entrare aria e pensieri. Nei momenti d’agitazione era possibile alzarsi e percorrere un paio di volte quaranta metri in su e quaranta metri in giù. La vista senza ostacoli che s’apriva verso l’alto corrispondeva a quella vastità ristoratrice. Attraverso i vetri delle finestre si potevano scorgere le condizioni generali del cielo, più attenuate però e più quiete di quanto non fossero nella realtà. Un azzurro pallido diceva: il sole splende, ma non fino a me. Un grigio altrettanto pallido: pioverà, ma non su di me. Un lieve rumore tradiva la caduta delle gocce. Si percepivano da lontano, senza venirne toccati. Si sapeva soltanto: splende il sole, salgono le nuvole, cade la pioggia. Era come se uno si fosse barricato contro la terra; come se si fosse costruito, contro ogni rapporto puramente materiale, contro ogni realtà esclusivamente meteorologica, una cabina, un’enorme cabina, tanto grande da poter contenere quel poco che sulla terra è più che terra, più che la polvere in cui la vita alla fine si dissolve; e poi l’avesse serrata ermeticamente e riempita di quel poco. Pur viaggiando attraverso l’ignoto, era come non viaggiare affatto. Era sufficiente convincersi, guardando attraverso i finestrini, che talune leggi di natura continuavano a sussistere: l’alternarsi del giorno e della notte, l’incessante, capriccioso variare del clima, il flusso del tempo; così si viaggiava senza accorgersene. Ora la cabina s’era rimpicciolita; quando Kien alzava gli occhi dal suo scrittoio, che era collocato di traverso in un angolo della stanza, si vedeva davanti una porta assurda. Certo, al di là di essa c’erano tre quarti della biblioteca, lui avvertiva la presenza dei suoi libri, l’avrebbe avvertita attraverso cento porte; ma l’amareggiava dover avvertire la presenza di ciò che prima poteva toccare con mano. Talvolta si rimproverava d’aver smembrato di sua volontà un organo unitario, la sua stessa creatura. I libri non avevano vita, d’accordo, mancava loro la capacità di sentire e quindi anche di soffrire come soffrono invece gli animali e probabilmente anche le piante. Ma chi ha mai dimostrato con prove veramente sicure che la materia inorganica è priva di sensibilità, chi può mai sapere se un libro non provi, in una maniera che noi non conosciamo e quindi ci sfugge, nostalgia per gli altri libri ai quali è stato vicino per tanto tempo? Ogni essere pensante conosce momenti in cui i confini tradizionali tracciati dalla scienza fra mondo organico e mondo inorganico gli appaiono artificiali e superati, al pari di tutti i confini posti dall’uomo. Il nostro segreto rifiuto di questa suddivisione si rivela nei termini «materia inerte». Se una cosa è morta vuol dire che è stata viva. Anche se siamo costretti ad ammettere che una certa sostanza non ha vita, le auguriamo che almeno l’abbia avuta un tempo. Ciò che a Kien sembrava più strano era che si tenessero in minor conto i libri degli animali. La cosa più potente, che determina le nostre mete e quindi la nostra esistenza, dovrebbe partecipare della vita meno della nostra impotente vittima, l’animale? Lui dubitava di ciò, e tuttavia si sottometteva all’opinione corrente. La forza di uno studioso consiste nel limitare tutti i dubbi al proprio campo di specializzazione. In questo modo egli dà loro sfogo, ed essi sono per lui come marosi incessanti e ostinati; negli altri campi, e per la vita nel suo insieme, si rimette alle idee dominanti. Lui ha buoni motivi per dubitare dell’esistenza del filosofo Li-Tse. E viceversa tiene per certo che la terra giri intorno al sole e la luna intorno a noi. Inoltre Kien aveva problemi più importanti da considerare e da risolvere. I mobili suscitavano in lui una vera ripugnanza. Lo disturbavano perché se ne stavano eternamente là, entravano di prepotenza nelle sue trattazioni. Lo spazio che occupavano contrastava con l’esiguità della loro importanza. E lui era in loro balia, in balia di quei rozzi blocchi; che gliene importava di dove dormiva o di dove si lavava? Continuando di questo passo, tra poco avrebbe cominciato anche lui a parlare di cibi e vivande, come i nove decimi dell’umanità: quelli che hanno troppo da mangiare più ancora di quelli che ne hanno troppo poco. Era immerso nel lavoro di ricostruzione di un testo; le parole crepitavano; avido come un cacciatore, lo sguardo teso, eccitato ma freddo, egli strisciava cauto di frase in frase. Ad un certo punto gli serviva un libro, si alzava e andava a prenderlo. Ancora non l’aveva in mano, ed ecco che quel dannato letto gli si piantava nel cervello, spezzando il filo teso dei suoi pensieri e portandolo mille miglia lontano dalla sua selvaggina. Lavamani su lavamani gli traversavano le piste più promettenti. Vedeva se stesso addormentato in pieno giorno. Una volta tornato a sedere doveva ricominciare ogni cosa da capo, cercare di bel nuovo la riserva di caccia, ritrovare la vena. A che scopo una simile perdita di tempo? A che scopo un simile sperpero d’energia e d’attenzione? A poco a poco concepì un vero odio per quel letto massiccio. Non lo fece sostituire col divano, quello era ancora peggio. Non lo fece portar fuori di là, le altre stanze appartenevano a sua moglie. Lei non avrebbe mai acconsentito a cedere una cosa una volta entratane in possesso. Tutto questo lui l’avvertiva senza bisogno di parlarne con lei. Non intendeva minimamente intavolare trattative. Ora infatti aveva un inestimabile vantaggio su di lei. Da settimane non si scambiavano parola. Lui si sarebbe ben guardato dal rompere quel silenzio. Piuttosto che essere tanto pazzo da offrirle il pretesto per nuove chiacchiere, preferiva sopportare comodino, lavabo e letto. Per sanzionare la situazione evitava le stanze di lei. Quando gli servivano dei libri che stavano dall’altra parte li prendeva a mezzogiorno o alla sera, dopo i pasti, dato che, come diceva a se stesso, nella sala da pranzo doveva entrare in tutti i casi. Durante i pasti ignorava la sua presenza. Non riusciva mai a liberarsi della vaga paura che lei potesse aprir bocca all’improvviso. Ma per sgradevole che lei fosse, una cosa doveva riconoscere: si atteneva alla lettera del contratto. Quando si lavava, Kien chiudeva gli occhi per proteggerli dall’acqua. Si trattava di una sua antica abitudine. Serrava le palpebre con forza assai maggiore di quanto non sarebbe stato necessario per impedire il passaggio dell’acqua. Le precauzioni che prendeva per i suoi occhi non gli sembravano mai sufficienti. Ora, con il nuovo lavandino, questa antica abitudine gli tornò molto utile. Appena sveglio, la mattina, si rallegrava all’idea di lavarsi. Infatti, in quale altro momento della giornata era come allora veramente libero dai mobili? Chinato sulla bacinella, non vedeva nessuno di quegli oggetti traditori. (Tutto ciò che lo distraeva dal lavoro era, in fondo, un tradimento). Immerso nella bacinella, la testa sott’acqua, vagheggiava gli anni passati. Allora regnava il vuoto, una tranquilla intimità. Felici congetture si libravano nello spazio senza incontrare ostacoli. C’era un divano che non faceva troppo sentire la propria presenza, si sarebbe potuto credere che non ci fosse nemmeno, che si trattasse d’un miraggio che appariva all’estremo orizzonte per scomparire subito dopo. Andò da sé che Kien prese gusto a tenere gli occhi chiusi. Una volta finito di lavarsi non li riapriva subito, e si cullava ancora qualche attimo nell’illusione dell’improvvisa scomparsa dei mobili. E prima ancora di trovarsi davanti al lavandino, appena sceso dal letto, chiudeva gli occhi pregustando il sollievo che avrebbe provato. Come tutti gli uomini abituati a combattere contro le proprie debolezze, a render conto a se stessi delle proprie azioni e a fare ogni sforzo per nobilitarsi, egli diceva a se stesso che questa non era una debolezza, ma, al contrario, una forza. Bisognava favorirla, anche se ne fosse dovuta nascere una grossa stramberia. Chi ne avrebbe mai saputo niente? Lui viveva solo; ciò che era utile alla scienza aveva maggiore importanza dell’opinione della gente. Therese non se ne sarebbe accorta di certo, non avrebbe osato sorprenderlo nella sua stanza contravvenendo al suo divieto. Dapprima prolungò il suo stato di cecità fino a comprendervi i minuti che dedicava a vestirsi. Poi riuscì a raggiungere ad occhi chiusi lo scrittoio. Avendo evitato di guardare ciò che stava dietro di lui, lo dimenticava, una volta al lavoro, tanto più facilmente. Davanti allo scrittoio lasciava piena libertà ai suoi occhi, ed essi godevano al ritrovarsi aperti, acquistavano agilità. Forse acquistavano vigore in quei momenti di riposo che lui accordava loro, tanto generosamente. Li proteggeva da assalti improvvisi. Li adoperava soltanto laddove il loro impiego risultava fruttuoso: per leggere e per scrivere. Andava a prendersi ad occhi chiusi i libri che gli servivano. All’inizio rideva lui stesso di quelle stranezze. Quante volte gli capitava di prendere un libro sbagliato e di tornarsene allo scrittoio ad occhi chiusi, senza sospettare di nulla. Là poi s’accorgeva d’essersi tenuto tre volumi più a destra, o uno più a sinistra, o, talvolta, addirittura troppo in basso, un intero scaffale più sotto. Ma non se ne crucciava, e si metteva pazientemente in cammino una seconda volta. Non di rado gli veniva voglia di sbirciare il titolo, di adocchiare il dorso del libro prima d’essere arrivato. Allora strizzava gli occhi, e in certi casi dava una sbirciatina distogliendo subito dopo lo sguardo. Il più delle volte però riusciva a dominarsi e aspettava di essere nuovamente allo scrittoio, dove il guardare non presentava rischi di sorta. A furia di esercitarsi divenne un vero maestro nel camminare ad occhi chiusi. Trascorse tre, quattro settimane, fu in grado di trovare nel tempo più breve ciò che voleva, senza inganni o sotterfugi, tenendo gli occhi veramente serrati; una benda non l’avrebbe reso più cieco. Il suo istinto non lo tradiva nemmeno quand’era sulla scaletta. La appoggiava esattamente nel punto dove serviva. Vi si afferrava da tutte e due le parti con le sue dita lunghe e nervose, e saliva ad occhi chiusi. Anche in cima o nello scendere conservava l’equilibrio senza sforzo. Riuscì persino ad eliminare, incidentalmente, alcune difficoltà che quando si muoveva ad occhi aperti non aveva mai superato del tutto, dal momento che non attribuiva loro alcuna importanza. Così, ora che faceva il cieco, s’abituò ad adoperare le gambe. Prima gli erano d’impaccio in ogni movimento; erano troppo sottili in proporzione alla loro lunghezza.

Ora si muovevano con passi sicuri e ben calcolati. Pareva che fossero diventate più grasse e muscolose; lui si affidava a loro ed esse lo sostenevano. Vedevano per lui, votato alla cecità; e lui a sua volta aiutava con gambe nuove e migliori quelle che un tempo mancavano di robustezza. Finché non fu assolutamente sicuro della nuova arma che s’andava forgiando mediante quell’addestramento dei propri occhi, abbandonò parecchie sue abitudini. Durante la passeggiata mattutina non portò più con sé la borsa piena di libri. Se avesse continuato a trascorrere un’ora intera indeciso davanti agli scaffali, il suo sguardo sarebbe caduto con la massima facilità sui tre malvagi – così egli chiamava il trio dei mobili – che, purtroppo, non svanivano dalla sua coscienza se non con estrema lentezza. In seguito, la sua bravura lo rese ardito. Riempiva baldanzosamente la borsa ad occhi chiusi. Se tutt’a un tratto il contenuto non lo soddisfaceva, la vuotava e cominciava nuove ricerche, come se nulla fosse cambiato: non lui, non la biblioteca, non il futuro né la pratica ed esatta suddivisione del suo tempo. La sua stanza comunque restava in suo potere. Gli studi prosperavano. Le trattazioni spuntavano come funghi sul suo scrittoio. E se lui un tempo aveva deriso e disprezzato i ciechi e il gusto che essi conservavano alla vita malgrado la loro infermità, non appena ebbe barattato il suo pregiudizio con un vantaggio, la relativa filosofia venne da sé. La cecità è un’arma contro il tempo e lo spazio; la nostra esistenza è tutta una mostruosa cecità tranne quel poco che riusciamo a cogliere con i nostri miseri sensi – miseri sia per la loro natura, sia per loro acutezza. Il principio dominante nel cosmo è la cecità. Proprio essa rende possibile la presenza, l’una accanto all’altra, di tante cose che non potrebbero coesistere se si potessero vedere reciprocamente. Essa permette di troncare lo scorrere del tempo quando non si è in grado di tenervi testa. Che altro è, per esempio, una spora, se non un frammento di vita che finché dura s’avvolge nella cecità in attesa di un contrordine? Il tempo è una grandezza continua, e c’è solo un mezzo per sfuggirgli. Astenendosi di tanto in tanto dal guardarlo, lo si frantuma nelle schegge che di esso si conoscono. Kien non inventa la cecità, si limita a farne uso: una possibilità naturale della quale vivono coloro che vedono. Non si utilizzano oggi tutte le energie di cui si riesce ad entrare in possesso? Esistono ancora delle possibilità cui gli uomini non abbiano già posto mano? Anche un tanghero è capace di manipolare l’elettricità o complicati atomi. Entità di fronte alle quali tutti gli uomini sono ugualmente ciechi riempiono la stanza di Kien, le sue dita, i suoi libri. Questa pagina di stampa, chiara e articolata come nessun’altra, in realtà è un ammasso infernale di elettroni impazziti. Se lui ne fosse cosciente in ogni momento, le lettere gli ballerebbero davanti agli occhi. Le sue dita percepirebbero la pressione di quel terribile movimento sotto forma di sottili punture di spillo. In un’intera giornata non gli riuscirebbe di mettere insieme più di una mediocrissima riga. E’ suo diritto applicare la cecità, che lo protegge da siffatti eccessi dei sensi, a tutto ciò che nella sua vita può disturbarlo. Ai suoi occhi i mobili non esistono più di quanto non esista l’esercito di atomi dentro e attorno a lui. «Esse percìpi», essere equivale ad essere percepito: ciò che io non percepisco non esiste. Guai alle deboli creature che non si trattengono dal guardare la realtà così come essa si offre loro! Da ciò risultava con logica stringente che Kien era ben lungi dall’ingannare se stesso.

Signora carissima Anche il senso di sicurezza di Therese cresceva col passare delle settimane. Delle sue tre stanze solo una, la stanza da pranzo, era ammobiliata. Le altre due, purtroppo, erano ancora vuote. E proprio in queste lei trascorreva il suo tempo per non sciupare i mobili della stanza da pranzo. Di solito stava dietro la porta che comunicava con lo studio e origliava. Rimaneva là per ore, per mezze giornate, la testa incollata a una fessura dalla quale non si vedeva assolutamente nulla, i gomiti puntati verso di lui, senza il sostegno di una sedia, reggendosi su se stessa e sulla propria sottana, e aspettava, lei sapeva bene che cosa. Non si stancava mai. Lo sorprendeva nel momento in cui, all’improvviso, lui si metteva a parlare pur essendo solo. La moglie non gli accomodava? Parlasse pure con l’aria: una giusta punizione. Prima del pranzo e della cena lei si ritirava in cucina. Quando lavorava lui si sentiva tranquillo e soddisfatto di essere così lontano da lei. E per la maggior parte del tempo lei stava ad appena due passi di distanza. Talvolta, per la verità, lo coglieva il sospetto che lei stesse preparando qualche discorso contro di lui. Ma lei taceva e taceva. Kien decise di fare una volta al mese un controllo dei libri che si trovavano nelle stanze di lei. Nessuno era al sicuro dai furti dei libri. Un giorno, alle dieci, proprio mentre lei era intenta ad origliare, secondo il suo solito, lui spalancò la porta, impaziente d’iniziare l’ispezione. Lei fece un salto all’indietro e poco mancò che finisse per terra. «E’ questa la maniera?», gridò, resa ardita dallo spavento. «Si bussa prima di entrare. Si potrebbe quasi credere che nelle mie stanze io stia ad origliare. A che mi servirebbe origliare? Un uomo crede di potersi permettere qualunque cosa perché è sposato. Vergogna, devo proprio dirlo. Che screanzato! Vergogna!». Come, lui avrebbe dovuto bussare prima di raggiungere i suoi libri? Che insolenza! Ridicolo! Grottesco! Deve averle dato di volta il cervello. Sarà meglio appiopparle un bel ceffone. Forse così tornerà in sé. S’immaginò l’impronta delle sue dita su quella guancia piena, grassa e lustra. Non sarebbe stato giusto dare la preferenza a una guancia piuttosto che all’altra. Avrebbe dovuto colpirla con tutte e due le mani contemporaneamente. E se non avesse colpito con precisione, i segni rossi sarebbero stati più alti su una guancia che sull’altra. Non sarebbe stato bello. Lo studio dell’arte cinese aveva sviluppato in lui un appassionato senso della simmetria. Therese s’accorse che lui le stava fissando le guance. Dimenticò la storia del bussare, gli voltò le spalle e disse in tono invitante: «Non fa nulla». Così lui aveva vinto senza bisogno di schiaffi. Il suo interesse per le guance di lei si spense. Tutto soddisfatto si volse agli scaffali. Lei rimase ad aspettare. Perché non diceva niente? Sbirciando cautamente, notò che la sua espressione era cambiata. Allora preferì ritirarsi seduta stante in cucina. Infatti era solita risolvere là i misteri che le si presentavano. Perché s’è lasciata scappare quelle parole? Adesso a lui è passata di nuovo la voglia. Lei è una donna troppo per bene. Un’altra gli si sarebbe buttata senz’altro al collo. Con lui non si riesce a combinare nulla. Ma lei è fatta così. Se fosse più vecchia non se lo sarebbe lasciato scappare. Che razza d’uomo è? Forse non è per niente un uomo. Ci sono degli strani uomini che non sono veri uomini. I calzoni non vogliono dir niente, li portano così. Però non sono nemmeno donne. Non sarebbe la prima volta. Chissà quando gli tornerà la voglia. Possono passare degli anni, con un tipo simile. Non che lei sia vecchia, però non è nemmeno una ragazzina. Lo sa da sé, non c’è bisogno che nessuno glielo dica. Trent’anni li dimostra, ma venti non più. Gli uomini, per la strada, si voltano tutti a guardarla. Che cosa le ha detto il commesso del negozio di mobili? «Eh già, intorno alla trentina, tanto le signore che i signori pensano volentieri al matrimonio». A dire il vero, lei aveva sempre pensato di dimostrarne quaranta: c’è forse da vergognarsene, a cinquantasei anni? Ma se l’ha detto lui, un giovanotto; lui certo se n’intende. «Oh, mi scusi, quante ne sa lei!», gli aveva risposto. Una persona interessante. Non soltanto aveva capito subito quanti anni aveva, ma anche che era sposata. E lei è costretta a vivere con un uomo tanto vecchio. La gente potrebbe pensare che lui non l’ama. «Amare» e «amore», comunque declinati o coniugati, rientravano nel novero delle parole che Therese aveva appreso dalla piccola posta dei giornali. In gioventù era abituata a parole più precise. Più tardi, quando nella famiglia in cui prestava servizio aveva conosciuto anche questo termine insieme a parecchi altri, «amore» era rimasta per lei una parola straniera che suscitava la sua ammirazione. Lei veramente non accostava mai alle labbra un così sacro conforto. Non si lasciava però sfuggire nessuna buona occasione: ogni volta che leggeva la parola «amore» vi si soffermava e studiava a fondo il contesto in cui compariva. Certe volte la più allettante delle offerte di lavoro veniva eclissata dall’offerta d’amore di un annuncio matrimoniale. Lei leggeva «ottimo stipendio» e stendeva il braccio, la sua mano si piegava felice sotto il peso del denaro promesso. Poi il suo sguardo scivolava qualche colonna più avanti, sulla parola «amore» e là indugiava, riposando, per lunghi minuti. Non che per questo lei dimenticasse i suoi progetti di prima, il denaro che aveva in mano non lo restituiva in nessun caso: si limitava, per un breve attimo fremente, a ricoprirlo di amore. Therese ripeté forte: «Non mi ama». La parola principale la pronunciò «amma», e le parve di sentire già un bacio sulla bocca. Questo la consolò. Chiuse gli occhi. Mise da parte le patate che aveva finito di sbucciare, s’asciugò le mani nel grembiule e aprì la porta che dava nella sua cameretta. Una cascata di scintille le chiuse gli occhi. L’investì una vampata di calore. Piccole sfere danzavano nell’aria, lucciole rosse; la stanza era stretta, il pavimento le si aprì sotto, i suoi piedi precipitarono nella voragine, nebbia, nebbia, una strana nebbia, o forse era fumo? Dovunque si girasse tutto era vuoto, sgombro, un grande spazio; cercò un sostegno, male, stava male da morire, il baule, il corredo, chi li ha portati via, aiuto! Quando tornò in sé era sdraiata sul letto. La stanza emerse alla vista linda e ordinata, ogni cosa era al suo posto. Allora ebbe paura. Prima la stanza era vuota, ora di nuovo piena. Chi ci capiva niente! Là dentro lei non ci restava più. C’era un caldo da sentirsi male. La stanza era troppo piccola, troppo misera. Per poco non ci moriva, sola come un cane. Si rassettò le vesti gualcite e scivolò fino alla biblioteca. «C’è mancato poco che morissi», disse con semplicità. «Sono svenuta. Il cuore ha cessato di battermi. Il troppo lavoro e quell’orribile stanzino. Là dentro uno muore per forza!». «Come, ti sei sentita male dopo essertene andata di qui?». «Male no, però sono svenuta». «Ma è passato molto tempo. Io sto qui già da un’ora alle prese coi libri». «Cosa, tanto tempo?». Therese inghiottì. Per quanto ne sapeva, non era mai stata malata. «Andrò a chiamare il dottore». «Non ho bisogno del dottore. Preferisco cambiare stanza. Com’è che non riesco a dormire? Io ho bisogno di dormire bene. La stanza vicino alla cucina è la peggiore di tutta la casa. E’ una stanza da domestici. Se io avessi una serva, dormirebbe là. Là non si può proprio dormire. Tu ti sei scelto la stanza migliore. Quindi io ho il diritto di prendermi la migliore dopo la tua, quella accanto. Uno come te è capace di pensare sul serio che solo lui ha bisogno di dormire. Se le cose vanno avanti così finisce che mi ammalo, e allora voglio vedere che farai. Te lo sei scordato quanto costa una serva?». Che cosa voleva da lui? Delle proprie stanze poteva disporre come voleva. A lui non importava minimamente dove lei dormisse. A causa del suo svenimento non l’interruppe: per fortuna gli svenimenti capitano di rado. Per pietà – falsa pietà, come disse a se stesso si costrinse a prestarle nuovamente ascolto. «Chi pensa a dare fastidio? Ognuno ha la sua stanza, e dunque non può succedere niente. Io non sono una così. Le altre donne si comportano in maniera scandalosa. C’è da arrossire. Ma io ne ho forse bisogno? Di mobili nuovi, ho bisogno. La stanza è grande, ce ne sta di roba, là dentro. Sono forse una mendicante?». Ora Kien aveva capito che cosa voleva: voleva già degli altri mobili. Lui le aveva sbattuto la porta in faccia. Dunque era colpa sua se lei era svenuta. Non si devono spalancare le porte con tanta violenza. L’emozione l’aveva fatta star male. S’era spaventato pure lui. Lei gli aveva risparmiato i rimproveri: a titolo d’indennizzo le si potevano concedere i mobili.

«Hai ragione», disse, «compra pure una nuova stanza da letto». Subito dopo mangiato Therese scivolò su e giù per le strade finché non ebbe trovato il miglior negozio di mobili. Qui si fece dire i prezzi delle stanze da letto. Per quanto sfacciatamente alto, per lei nessun prezzo era abbastanza caro. Quando i proprietari, due grassi fratelli, gareggiando l’un l’altro nelle offerte dissero alla fine un prezzo che sicuramente era eccessivo per qualsiasi persona onesta, lei girò di scatto la testa verso la porta e dichiarò in tono di sfida: «Cosa credono lor signori, che uno i soldi li rubi?». Uscì senza salutare, tornò dritta a casa, ed entrò nello studio di suo marito. «Che vuoi?». Lui era furibondo: lei osava entrare nella sua stanza alle quattro del pomeriggio. «Devo un po’ preparare mio marito ai prezzi che ci sono in giro. Altrimenti si spaventa, quando la moglie gli chiede di punto in bianco i soldi. Quanto costano ora le stanze da letto! Se non l’avessi visto con i miei occhi non ci crederei. Ho cercato dei mobili solidi, niente di speciale. Dappertutto i prezzi sono gli stessi». Disse la cifra con riverenza. Lui non aveva alcuna voglia di rimasticare cose sistemate già da un pezzo, già dall’ora del pranzo. In fretta riempì un assegno per la somma che lei gli aveva detto, e con il dito indicò prima il nome della banca dove doveva riscuoterlo e poi la porta. Soltanto fuori Therese riuscì a convincersi che quel prezzo pazzesco stava davvero scritto sulla carta. Allora le rincrebbe per tutti quei bei soldi. Non è necessario che lei abbia la camera da letto più elegante. Finora è vissuta in maniera seria e rispettabile: non diventerà immorale proprio ora che è sposata. Non ha bisogno di lussi, lei. Preferisce acquistarne una che costi la metà e depositare il resto alla Cassa di risparmio. Così avrà qualcosa su cui poter contare. Quanto tempo dovrebbe lavorare, lei, per guadagnare una somma simile! Non è nemmeno possibile calcolarlo. Ma lei lavorerà per lui ancora parecchi anni. E ne ricava forse qualcosa? No! Una serva se la passa meglio della padrona di casa. La padrona di casa deve pensare a tutto lei, altrimenti non arriva a concludere niente. Perché è stata così stupida? Avrebbe dovuto fare un patto con lui prima di andare allo stato civile. Avrebbe dovuto ricevere ancora il suo stipendio. Il lavoro è lo stesso di prima. Anzi, di più, perché ora ci sono pure la stanza da pranzo e i mobili della stanza di lui. Tutta roba da spolverare. E’ forse una cosa da niente? Uno stipendio più alto di prima, dovrebbe avere. Non c’è proprio giustizia. Era tanto indignata che l’assegno le tremava nelle mani. A cena sfoderò il suo sorriso più maligno. Gli angoli degli occhi e della bocca s’incontrarono in prossimità delle orecchie. Attraverso la stretta feritoria delle palpebre gli occhi dardeggiarono verdognoli: «Di cucinare domani non se ne parla. Non ho tempo. Non posso fare tutto quanto». S’interruppe, curiosa di vedere l’effetto delle sue parole. Si vendicava della cattiveria di lui. Violava le clausole del contratto e parlava a tavola. «Dovrei farmi appioppare della roba scadente solo per cucinare un pranzo?! Pranzare si pranza tutti i giorni. La stanza da letto si compra una volta sola. Chi va piano va sano. Domani non cucino. Davvero!». «Davvero?». Un’idea formidabile gli era balenata, divorando diritti e necessità del vivere quotidiano. «Davvero no?». Dal suono della sua voce si sarebbe detto che stesse ridendo. «Non c’è niente da ridere!», replicò lei irritata. «A furia di lavorare non s’arriva a concludere altro. Sono forse una serva?». Di ottimo umore lui l’interruppe: «Pensa soprattutto ad essere avveduta. Entra in più negozi che puoi; confronta i prezzi prima di decidere. I negozianti sono imbroglioni per natura, alle donne poi cercano sempre di farla il doppio che agli altri. A mezzogiorno riposati in una trattoria e fa’ un pasto abbondante, oggi non sei stata bene. Non venire a casa, fa caldo, ti strapazzeresti troppo. Dopo il pranzo puoi continuare a cercare con calma. L’importante è che tu non faccia le cose con precipitazione. Non ti preoccupare per la cena. Ti consiglio caldamente di restare fuori tutto il giorno fino alla chiusura dei negozi». Con uno sforzo era riuscito a dimenticare che lei aveva già scelto la stanza e gli aveva pure chiesto la somma precisa che sarebbe venuta a costare. «A cena si può mangiare qualcosa di freddo», disse Therese e pensò: ora cerca un’altra volta di prendermi con le buone. Si vede subito quando una persona si vergogna. E’ una cosa da farsi, sfruttare così la propria moglie? Con una serva si può fare quel che si vuole. Sfido, la si paga per questo. Ma con la moglie no. Mica per niente una è la padrona di casa. Il giorno dopo Therese uscì con la ferma intenzione di fare i suoi acquisti solo da quell’interessante persona che aveva indovinato al primo sguardo la sua età e la sua condizione di donna sposata. In banca incassò l’assegno e portò subito alla Cassa di risparmio la metà del denaro. Per farsi meglio un’idea dei prezzi, visitò parecchi negozi di mobili. Passò la mattinata a tirare ostinatamente sui prezzi. S’accorse che non v’era alcuna difficoltà a risparmiare. Avrebbe portato dell’altro denaro alla Cassa di risparmio. Il nono negozio in cui entrò era quello dove il giorno prima aveva protestato per i prezzi troppo alti. La riconobbero immediatamente. Il suo modo d’inclinare la testa e di parlare a scatti rimanevano impressi per sempre nella memoria di chi l’avesse vista anche una sola volta. Dopo l’esperienza del giorno prima, le mostrarono cose più convenienti. Lei esaminò i letti da capo a piedi, battendo sul legno e appoggiando l’orecchio alle spalliere per sentire se erano vuote. A volte i mobili sono già rosi dai tarli prima di uscire dal negozio. Aprì ogni comodino, si chinò e vi cacciò dentro il naso per sentire se non era già stato adoperato. Soffiò sugli specchi e vi passò sopra un paio di volte un panno che aveva ottenuto di prepotenza da «lor signori». Tutti gli armadi incontrarono la sua disapprovazione. «Qui dentro non ci sta niente. Mi scusi, ma che razza di armadi si fabbricano oggigiorno? Questi van bene per la povera gente che non ha niente da metterci dentro. La gente come noi ha bisogno di spazio». La trattavano con riguardo nonostante il suo aspetto modesto. Pensavano che fosse stupida. La gente stupida si vergogna a non comprare niente. I due fratelli non ne sapevano molto sulla psicologia del cliente: la loro esperienza era limitata alle giovani coppie, la cui felicità essi incoraggiavano con facile successo mediante consigli ambigui che si potevano interpretare a seconda dei gusti, in chiave cinica o paterna. Per l’eccitazione di quella donna matura, loro, maturi uomini di mondo, non provavano il minimo interesse. Dopo mezz’ora trascorsa a offrirle personalmente garanzie per i propri mobili il loro zelo cominciò a raffreddarsi. Therese non aspettava che il momento in cui le avrebbero fatto un simile sgarbo. Aprì l’enorme borsa che portava sotto il braccio, ne tolse il grosso rotolo di banconote e disse in tono pungente: «Devo vedere se ho abbastanza denaro con me». Sotto gli occhi dei due neri e rotondi fratelli, cui un simile contenuto della borsa era giunto del tutto inaspettato, Therese contò lentamente i biglietti. «Perbacco, ne ha di soldi!», pensarono pieni d’entusiasmo, una sola ditta, un sol uomo. Appena ebbe finito, lei ripose con delicatezza le banconote nella borsa, chiuse e se n’andò. Sulla soglia si volse indietro esclamando: «Ai clienti di riguardo, a quanto pare, lor signori non ci tengono!». S’incamminò verso il negozio di quell’interessante commesso. Dato che era già l’una, camminava in fretta per arrivare prima della chiusura. Tutti la guardavano: tra la folla degli uomini in calzoni e delle donne in sottana corta, lei era l’unica persona le cui gambe funzionassero in segreto, nascoste dalla gonna blu inamidata che le giungeva fino ai piedi. Si può camminare anche scivolando, fu l’unanime constatazione. Si poteva persino egregiamente: infatti lei sorpassava tutti. Therese avvertì gli sguardi della gente. Trent’anni, pensò, e si mise a sudare per la gioia e la fretta. Le costava fatica tener ferma la testa. Sfoderò un sorriso trionfante. Sorretti dalle orecchie come da ampie ali, i suoi occhi spiccarono il volo verso il cielo per scendere infine in una stanza da letto a buon mercato. Therese, angelo guernito di trine, vi s’accomodò a proprio agio. Eppure non parve caduta dalle nuvole quando si ritrovò improvvisamente davanti al ben noto negozio. Il suo sorriso orgoglioso si tramutò in un sogghigno compiaciuto. Entrò e si diresse scivolando verso il giovanotto: dimenava i fianchi con tanto slancio che l’ampia gonna tesa cominciò a ondeggiare. «Eccomi qua un’altra volta», disse con umiltà. «Bacio le mani, signora, che onore inaspettato! Che cosa la conduce da noi, signora, se è lecita la domanda?». «Una stanza da letto: lei sa, no?». «Me lo sono subito immaginato, signora. Naturalmente un letto a due piazze, se è lecita l’espressione». «Ma s’immagini, a lei è lecito tutto». Lui scosse la testa profondamente rattristato. «Oh no, a me no, signora, sono forse io il felice mortale? Lei, signora, non m’avrebbe certo sposato. Un povero commesso».

«E perché? Non si può mai sapere. Anche i poveri sono esseri umani. La superbia non è il mio pane». «Si vede da questo che lei ha un cuore d’oro, signora. Il suo signor marito è proprio da invidiare». «Ah, mi scusi: gli uomini oggigiorno son fatti in una tal maniera!». «La signora non vorrà dire…». L’uomo interessante alzò stupito le sopracciglia. I suoi occhi parevano il muso umido di un cane e lui glieli strofinava addosso. «Credono che una sia la loro serva. Dal pagare però si guardano bene. Una serva almeno la pagano». «In compenso, adesso la signora può scegliersi una bella stanza da letto. Venga, prego. Ho qui qualcosa di eccellente, di prima qualità: lo sapevo che la signora sarebbe tornata, e l’ho tenuta da parte apposta per la signora. Avremmo potuto venderla già sei volte, sinceramente. Il signor marito ne sarà contento. La signora torna a casa: come stai, tesoro, dice il signor marito. Buon giorno tesoro, dice la signora, ho trovato una stanza da letto per noi due, tesoro. Voglio dire, signora, che lei dice così, e intanto si siede sulle ginocchia del signor marito. Mi scuserà, signora, io parlo così alla buona, ma non c’è nessuno che sappia resistere a una cosa simile, nessun uomo al mondo, neanche un marito. Se io fossi sposato – non dico con lei, signora, come potrei pensare a una cosa simile io, povero commesso – dico con una donna, mettiamo pure con una donna vecchia diciamo di quarant’anni – ma certo lei non è neppure in grado d’immaginare una cosa simile, signora!». «Be’, mi scusi, nemmeno io sono più una ragazzina!». «E io invece la penso diversamente, se la signora non ha niente in contrario. Posso persino ammettere che lei, signora, abbia giusto passato i trenta, ma il punto non è questo. Io lo dico sempre: in una donna la cosa più importante sono i fianchi. I fianchi ci vogliono e uno deve poterli vedere. Altrimenti che m’importa che ci siano se poi non li posso vedere? Ecco, prego, se ne convinca lei stessa: qui ha veramente dei magnifici…». Therese avrebbe voluto gridare, nella sua estasi non trovava parole. Lui esitò qualche istante, poi completò la frase: «…materassi!». I mobili lei non li aveva ancora degnati d’uno sguardo. Lui l’aveva portata con i suoi discorsi a un opportuno grado d’eccitazione, aveva avvicinato la mano ai suoi fianchi frementi per ripiegare poi sui magnifici e comodi materassi. Il gesto rassegnato col quale lui, povero commesso, aveva detto addio a quei fianchi irraggiungibili aveva provocato in Therese, se possibile, un’emozione ancora più profonda. Oggi non faceva che sudare. Come stregata seguì i movimenti della bocca, della mano di lui. I suoi occhi, che di solito scintillavano di una luce cattiva e cangiante, obbedirono e si posarono placidi, acquosi e quasi azzurri sui materassi. Magnifici, naturalmente. Quell’uomo interessante sa tutto. Come se n’intende di mobili! C’è da vergognarsi davanti a lui. Fortuna che può starsene zitta. Altrimenti che cosa penserebbe di lei! Lei di mobili non se ne intende affatto. Di tutti gli altri negozianti nessuno se n’è accorto. Perché? Perché gli altri sono stupidi. L’uomo interessante s’accorge subito di tutto. E’ meglio che lei non parli. E poi lui ha una voce che pare di burro fuso. «La scongiuro, signora, non dimentichi la cosa più importante! Come lei farà dormire il suo signor marito, così il suo signor marito tratterà lei. Se il suo signor marito dormirà in un buon letto, lei potrà ottenere da lui tutto ciò che vorrà. Mi creda, signora. La felicità coniugale non dipende solo dalla buona cucina, la felicità coniugale dipende dai mobili, specialmente da quelli della stanza da letto, ma, oserei dire, principalmente dai letti, dai letti matrimoniali se vogliamo. Cerchi di capirmi, signora cara, anche il suo signor marito in fondo non è che un essere umano. Può anche possedere la più bella signora del mondo, una signora nel fiore degli anni, ma che gliene importa se dorme male? Se dorme male è di cattivo umore; se dorme bene, be’, allora è facile che gli venga voglia di farsi un po’ vicino. Le dirò una cosa, signora, lei mi può credere, io me n’intendo abbastanza di questa partita, sono nel ramo da dodici anni, e nello stesso posto da otto: a che servono i fianchi se il letto è scomodo? Un uomo se n’infischia anche dei più bei fianchi di questo mondo. Anche se è un signor marito. La signora può esibirsi nella danza del ventre all’orientale, la signora può dare l’estremo risalto alla propria bellezza e metterglisi davanti svestita, nuda per così dire: le do la mia parola che non serve a niente se il signor marito è di cattivo umore, non serve a niente neanche se si tratta di lei, signora carissima, ed è tutto dire. Lo sa lei che fa il signor marito se la signora è vecchia e brutta – cioè, voglio dire, se il letto è vecchio e brutto? Il signor marito prende il volo e si cerca dei letti migliori. E che letti, mi dica? Dei letti della nostra ditta. Potrei mostrarle degli attestati di gratitudine, signora bellissima, scritti da gentili signore come lei. Non s’immagina neppure quanti matrimoni felici noi siamo orgogliosi d’avere sulla nostra tranquilla coscienza. Con noi non ci sono divorzi. Noi i divorzi non sappiamo neanche che cosa siano. Noi facciamo del nostro meglio e i signori sono soddisfatti. Io le consiglierei questa camera, signora – a dire il vero sono buone tutte, glielo garantisco, signora – ma questa la raccomando in maniera del tutto particolare al suo cuore d’oro, mia cara signora!». Therese s’avvicinò solo per fargli piacere. Era d’accordo su tutto. Aveva paura di perderlo. Esaminò la camera che lui le consigliava, ma non avrebbe nemmeno saputo dire che forma avesse. Si stillava il cervello per trovare il modo d’ascoltare ancora quella voce di burro. Se dice «sì» e paga, poi se ne dovrà andare e con quell’uomo interessante sarà tutto finito. In cambio dei suoi bei soldi potrà pure pretendere qualcosa. Questa gente ci guadagna, con lei. Non è certo una vergogna se lo fa parlare un po’. C’è gente che esce senza comprare nulla e non si vergogna. Lei è una persona per bene e non si comporta così. Però ci vuole il suo tempo. Non sapeva proprio a che pretesto appigliarsi, e tanto per dire qualcosa, replicò: «Mi scusi, ma questo può dirlo chiunque!». «Mi permetta, gentile signora, per non dire graziosa signora, non penserà che io l’inganni. Quello che io le raccomando, glielo raccomando io. Mi può credere, signora, di me si fidano tutti. E non mancherò di dargliene la prova. Vuol venire qui, signor Gross?». Il signor Gross, il principale, un ometto mingherlino dalla faccia schiacciata e dagli occhietti spauriti, apparve sulla soglia del suo ufficio e s’inchinò ripiegandosi, piccolo com’era, in due metà ancora più piccole. «Che c’è?», chiese rifugiandosi imbarazzato come un ragazzino timido, accanto all’ampia sottana di Therese. «Dica lei, signor Gross, c’è mai stato un solo cliente che non si sia fidato di me?». Il principale tacque. Non s’azzardava a dire bugie davanti alla mamma, lei avrebbe potuto picchiarlo. Sulla sua faccia si manifestò chiaramente il conflitto tra il senso degli affari e il rispetto. Therese s’accorse di questa lotta interpretandola erroneamente. Confrontò il commesso con il principale. Costui avrebbe voluto metter bocca nelle trattative, ma non ne aveva il coraggio. Per rendere ancora più completo il trionfo dell’uomo interessante lei accorse in suo aiuto con trombe e tamburi. «Mi scusi, ma che bisogno c’è di un altro? Basta che una donna l’ascolti e subito si fida di lei! Io credo ad ogni parola che lei dice. Perché dovrebbe mentire? Che bisogno c’è di quest’altro? Io a lui non credo». L’omino si ritirò in tutta fretta nel suo ufficio. Succede sempre così. Lui non ha ancora aperto bocca e già la mamma dice che mente. Ha la stessa fortuna con ogni donna. Da bambino era la mamma, poi è venuta la moglie, una sua vecchia impiegata. Il suo matrimonio è cominciato così, che lui ogni tanto cercava di rabbonire la sua dattilografa chiamandola «mamma» quando lei si lamentava di qualcosa. Da quando è sposato non gli è più concesso tenere un’impiegata. In negozio vengono mamme su mamme. Questa è certamente una di loro. Per questo lui s’è fatto costruire l’ufficio in fondo alla bottega. E di là possono chiedergli d’uscire solo in caso di assoluta necessità. Gliela farà pagare a quel Villani. Lo sa che lui non è capace di sostenere la parte del principale davanti a una mamma. Quel Villani vorrebbe diventare socio, e per metterlo sotto i piedi gli fa fare di queste figure davanti ai clienti. Ma il principale della ditta di mobili «Gross e madre» è lui, il signor Gross. Sua madre, quella vera, vive ancora ed è direttamente interessata agli affari. Due volte la settimana, al martedì e al venerdì, viene a controllare i libri e a strapazzare gli impiegati. Verifica i conti con molta esattezza: per questo è così difficile imbrogliarla. Lui però ci riesce lo stesso: senza quegli imbrogli non potrebbe vivere. Quanto a sé si considera, e a ragione, il vero titolare della ditta; tanto più che le strapazzate che lei gli fa gli riescono molto utili nei rapporti con gli impiegati. Nei giorni che precedono la visita della madre, cioè il lunedì e il giovedì, lui può impartire ordini a destra e a manca. Tutti obbediscono e filano perché, se qualcuno si mostrasse insolente, lui il giorno dopo potrebbe dirlo alla mamma. Il martedì e il venerdì lui sta in negozio tutto il giorno, e allora non si sente volare una mosca, nessuno s’arrischia a dire una parola, nemmeno lui; però è bello lo stesso. Soltanto al mercoledì e al sabato diventano sfacciati. Oggi è mercoledì.Il signor Gross siede sulla poltrona del suo ufficio e tende l’orecchio ai rumori che vengono dall’esterno. Il Villani sta parlando di nuovo come una macchinetta. Quell’uomo vale tant’oro quanto pesa, ma socio non lo diventerà mai. Cosa? Lei vuole invitarlo a pranzo? «Il principale non lo permetterebbe in nessun caso, signora. Sarebbe veramente il mio più ardente desiderio, signora». «Ma, mi scusi, un’eccezione si può sempre fare. Pago io!». «Il suo cuor d’oro mi commuove profondamente, signora, ma è impossibile, è assolutamente impossibile. Al principale non piace scherzare». «Possibile? Come si può essere tanto villani?». «Se lei, signora, sapesse come mi chiamo io si metterebbe a ridere. Io mi chiamo Villani». «Non ci trovo niente da ridere. Perché mai? Villani è un nome come un altro. E lei non è affatto un villano». «Ringrazio vivamente per il complimento e bacio le mani, signora. Se andiamo avanti così finisce che gliela bacio davvero quella dolce manina». «Ma, mi scusi, se qualcuno ci sente chissà che cosa può pensare». «Io non mi vergogno, signora, e non ho motivo di vergognarmi. Come ho già detto, davanti a due fianchi… pardon, volevo dire davanti a due mani così belle. Quale ha poi deciso di prendere, signora? Facciamo questa qui?». «Prima però viene a pranzo con me». «Lei mi rende l’uomo più felice del mondo, signora. Un povero commesso la prega di scusarlo. Il principale…». «Quello non può dirle niente». «Lei si sbaglia, signora carissima. Sua madre vale dieci principali. E anche lui non è certo un cane di bottega». «Ma che razza d’uomo è? Quello non è un uomo. In confronto è un uomo persino il marito che ho a casa io. Dunque, come la mettiamo? Si potrebbe quasi credere che io non le piaccia». «Ma che dice, signora! Mi porti qui un uomo al quale lei non piaccia! Scommetto qualunque cosa che non lo troverà mai. Un uomo simile non esiste, signora carissima. Maledico il mio crudele destino. Il principale non permetterebbe mai che uno come me si godesse un simile trionfo. Come, dice lui, la cliente se ne va con un semplice commesso: tutt’a un tratto la cliente incontra il suo signor marito, il signor marito diventa, se così posso dire, una furia. Ne nasce uno scandalo senza precedenti. Il commesso mi torna in negozio, ma la cliente no. E chi ne paga le spese? Io! Uno svago che mi costa salato, dice il signor principale. Anche questo è un punto di vista, signora. La signora conosce la canzone del povero Gigolo, del bel Gigolo? “Anche se il cuore non ti regge in petto…”. Basta, fermiamoci qui. Vedrà che sarà soddisfatta del suo acquisto, signora carissima». «Mi scusi, ma allora lei proprio non vuole. Pago io». «Se la signora fosse libera stasera, ma già me lo figuro. Su questo punto il signor marito è inflessibile. Devo dire che lo capisco. Se avessi la fortuna d’essere il marito di una bella donna non so dirle, bellissima signora, fino a che punto non starei in guardia. “Anche se il cuore non le regge in petto, di staccarsi da me non le permetto”. Il secondo verso è opera mia. M’è venuta un’idea, signora. Scriverò una canzonetta ispirata a lei, a lei distesa sul letto nuovo con addosso nient’altro che il pigiama, per così dire, e con i magnifici… pardon, restiamo dunque intesi così. Posso pregare la signora di favorire alla cassa?». «Ma non ci penso neppure! Prima andiamo a pranzo insieme». Il signor Gross era stato a sentire con crescente agitazione. Perché mai quel Villani continua a tirare in ballo lui per trarsi d’impaccio? Invece d’esser contento che la mamma gli paga il pranzo. Questi impiegati sono tutti affetti da mania di grandezza. Ogni sera viene a prenderlo al negozio una ragazza diversa, certe creature che potrebbero essere sue figlie. La mamma se n’andrà senza comprare la stanza. Nessuna madre tollera che si rifiutino i suoi inviti. Quel Villani esagera. Ormai quel Villani comincia a prender la mano alla ditta. Oggi è mercoledì. Chi ha detto che un Gross non può fare il principale proprio al mercoledì? Mentre tendeva le orecchie gli si drizzò la cresta. Si sentiva appoggiato dalla mamma che, là fuori, era impegnata in una lotta tenace con il commesso. Di lui, Gross, parlava con lo stesso tono che usano tutte le madri. Come poteva dirlo al Villani? Se parlava troppo, di sicuro quello gli dava una rispostaccia – era mercoledì e lui ci perdeva una buona cliente. Se parlava troppo poco, quello magari non lo capiva. La cosa migliore era impartire un ordine secco. E intanto guardare in faccia la mamma? No. Meglio mettersi davanti a lei voltandole le spalle: davanti a tutti e due, il Villani avrebbe provato maggior soggezione. Aspettò ancora un po’, fino a che fu chiaro che non sarebbe seguita una conciliazione amichevole tra le due parti. Senza far rumore saltò giù dalla poltrona e con due lunghi passettini raggiunse la porta a vetri. La spalancò di colpo, cacciò fuori svelto la testa, che del suo corpo era la parte più grossa, e garrì con la sua voce stridula: «Vada pure, Villani». All’altro morì in bocca un «il principale!», con cui tentava per la centesima volta di giustificarsi. Therese girò la testa e sussurrò con impeto: «Ha visto, che le dicevo?». Prima di uscire per il pranzo avrebbe voluto rivolgere al principale uno sguardo di riconoscenza, ma quello era scomparso già da un pezzo nel suo ufficio. Gli occhi di Villani si accesero di una luce cattiva. Fissarono con aria di scherno la gonna inamidata di lei. Naturalmente egli evitò di guardarla in faccia. Ora il burro fuso della sua voce avrebbe saputo di bruciaticcio. Lui lo sapeva, e rimase zitto. Soltanto al momento di cederle il passo sulla porta del negozio aprì per abitudine le braccia e la bocca e disse: «Dopo di lei, signora carissima».

Mobilitazione Per anni la casa al numero 24 della Ehrlichstrasse era stata al sicuro da accattoni e venditori ambulanti. Giorno per giorno il portinaio stava in agguato nella sua guardiola vicinissima all’atrio e fermava ogni figura losca. A coloro che facevano assegnamento sulla compassione lo spioncino ovale che s’apriva a media altezza sopra la scritta Portiere incuteva una paura diabolica. Ogni volta che vi passavano davanti si chinavano come avessero ricevuto Dio sa quale dono e ringraziassero con profonda gratitudine. Ma la loro precauzione era vana. Al normale spioncino il portiere non dedicava alcuna attenzione. Quando loro cercavano di passare strisciando al di sotto di esso, già da un pezzo erano stati notati. Lui aveva un suo personale e sperimentato sistema. Da buon poliziotto in pensione era scaltro e inesorabile. Li avvistava sì attraverso uno spioncino, ma non attraverso quello a cui loro cercavano di sottrarsi. A cinquanta centimetri da terra aveva praticato nel muro della guardiola un secondo spioncino. Qui, nel punto in cui nessuno avrebbe mai supposto la sua presenza, si metteva in ginocchio e stava all’erta. Il mondo per lui era fatto di gonne e di calzoni. Quelli portati dagli inquilini li conosceva perfettamente, gli altri li giudicava dal taglio, dal valore e dal decoro. Compiva queste valutazioni con la stessa sicurezza di cui un tempo dava prova nell’effettuare un arresto. Di rado si sbagliava. Quando compariva qualche individuo sospetto, lui tendeva, ancora in ginocchio, il braccio corto e nerboruto verso la maniglia della porta che – altra sua invenzione – era applicata alla rovescia: l’impeto con cui balzava in piedi la faceva scattare. Poi investiva urlando l’individuo e lo malmenava fino a lasciarlo mezzo morto. Il primo di ogni mese, quando gli portavano la pensione, lasciava via libera a tutti. Gli interessati lo sapevano e si presentavano in fitte schiere agli inquilini, la cui fame di mendicanti era rimasta insaziata per trenta giorni. Il due o il tre del mese qualche ritardatario riusciva ancora a passare, o per lo meno non veniva liquidato così crudelmente. Dal quattro in poi solo i novellini tentavano la sorte. Kien, dopo un piccolo incidente, aveva stretto amicizia con lui. Una sera rincasava da una passeggiata inconsueta e nell’atrio era già buio. All’improvviso qualcuno l’aveva apostrofato: «Lurido pezzente, vuoi che ti trascini alla polizia?». Il portiere era schizzato fuori dalla guardiola saltandogli al collo. Questo si trovava assai in alto, e non era facile raggiungerlo. L’uomo s’era accorto del suo grossolano errore e se n’era vergognato: era in gioco il suo prestigio d’estimatore di calzoni. Con gentilezza strisciante aveva trascinato Kien nella guardiola rivelandogli il segreto della sua invenzione, e aveva ordinato ai suoi quattro canarini di cantare. Questi non ne avevano voluto sapere. Kien aveva cominciato a capire a chi doveva la propria tranquillità: da alcuni anni infatti i mendicanti non suonavano più alla sua porta. Il marcantonio gli stava a brevissima distanza nell’angusto stanzino, e lui aveva promesso all’uomo, a suo modo solerte, un piccolo compenso mensile. La somma che gli aveva nominato superava le mance che quello riceveva da tutti gli altri inquilini messi insieme. Nel primo impeto di gioia il portiere avrebbe voluto fracassare i muri della guardiola con i suoi pugni coperti di peli rossicci. Così avrebbe mostrato al benefattore fino a che punto si meritasse quel suo apprezzamento. Era tuttavia riuscito a tenere a freno i propri muscoli e spalancando la porta che dava sul corridoio s’era limitato a ruggire: «Conti pure su di me, professore». Da quel momento in poi, nessuno in casa aveva più osato parlare di Kien altro che come del «professore», sebbene in realtà egli non lo fosse. I nuovi inquilini venivano subito informati di quest’essenziale condizione che il portiere poneva alla loro permanenza in quella casa. Appena Therese fu uscita per restar fuori tutta la giornata, Kien mise la catena alla porta e si domandò che giorno fosse. Era l’otto, il primo del mese era passato, non v’era da temere che si presentassero mendicanti. Oggi desiderava una quiete assai maggiore del solito. Una grande cerimonia stava per essere celebrata. Per tale motivo aveva allontanato Therese. Il tempo non era molto: alle sei, dopo la chiusura dei negozi, lei sarebbe ricomparsa. Soltanto i preparativi richiedevano alcune ore. Bisognava eseguire lavori manuali d’ogni genere. Mentre attendeva ad essi avrebbe potuto abbozzare mentalmente il discorso ufficiale. Doveva riuscire un capolavoro d’erudizione, non troppo arido e neppure troppo dimesso, intessuto di allusioni agli avvenimenti contemporanei, un compendio dei risultati raggiunti nel corso di una vita intensamente vissuta, insomma uno di quei discorsi che intorno alla quarantina si cominciano ad ascoltare con piacere. Oggi infatti Kien usciva dal suo riserbo. Appese ad una sedia giacca e panciotto e si rimboccò in fretta le maniche della camicia. Disprezzava i vestiti, è vero: ma di fronte ai mobili prendeva anch’essi sotto la propria tutela. Poi s’accostò a gran passi al letto, rise e gli mostrò i denti. Gli parve di non conoscerlo sebbene vi dormisse dentro ogni notte. Non lo guardava ormai da tanto tempo che esso, nella sua immaginazione, era diventato ancor più tozzo e vistoso. «Come va, amico?», esclamò. «Ti sei rimesso magnificamente!». Dal giorno prima era di ottimo umore. «Ma ora, fuori. E presto, intesi?». L’afferrò con tutte e due le mani dalla parte della spalliera e cominciò a spingerlo. Il mostro non si mosse. Kien vi puntò contro le spalle; da questo secondo attacco si attese un risultato migliore. Il letto però si limitò a scricchiolare; evidentemente ci teneva a farsi beffe di Kien. Il quale cominciò a gemere e a mugolare, spingendo pure con le ginocchia. L’impresa era al di sopra delle sue deboli forze. L’assalì un tremito. Si sentì montar dentro una gran collera e volle provare con le buone. «Sii ragionevole», cominciò a blandirlo, «poi torni qui. E’ solo per oggi. Oggi è la mia giornata di libertà. Lei non è in casa. Di che hai paura? Nessuno ti ruberà!». Le parole che sprecava per un mobile gli costavano un tale sforzo di volontà che nel frattempo s’era completamente dimenticato di spingere. Parlò a lungo tentando di convincere il letto, e intanto per la stanchezza teneva penzoloni le braccia, che gli dolevano assai. Assicurò al letto che non era per antipatia, ma solo perché in quel momento non aveva bisogno di lui, doveva pur capire. Chi aveva dato l’incarico di acquistarlo? Lui. Chi aveva sborsato i soldi? Lui, e con piacere. E fino ad oggi non l’aveva forse trattato sempre col massimo rispetto? Solo per rispetto s’era sempre rigorosamente astenuto dal guardarlo. Solo che una persona non è sempre in vena di manifestare il proprio rispetto. Tutti i contrasti finiscono con l’appianarsi, e il tempo sana tutte le ferite. Poteva forse rinfacciargli una sola espressione ostile? I pensieri sono esenti da dazio. Gli prometteva di farlo tornare al posto che s’era conquistato a suo tempo, se ne faceva garante di persona, glielo giurava! Forse il letto avrebbe finito col cedere. Ma Kien poneva tutta l’energia di cui era capace nelle sue parole. Per le braccia non ne rimaneva più nemmeno un filo. Il letto restava là muto e immobile. Kien montò su tutte le furie. «Sfacciato pezzo di legno!», gridò. «Chi è il tuo padrone?». Il bisogno di scaricarsi era divenuto impellente; moriva dalla voglia di dare una lezione a quel mobile temerario. A questo punto gli venne in mente il suo potente amico, il portiere. Lasciò l’appartamento volando sui suoi trampoli, percorse le scale come se avessero avuto non cento ma dieci gradini e cavò fuori dal loro stanzino i muscoli che lui non aveva. «Ho bisogno di lei!». Il tono della sua voce e la sua figura richiamarono alla mente del portiere una tuba. A dire il vero, lui preferiva le trombe, dal momento che a sua volta ne possedeva una. Più di tutto però aveva un debole per gli strumenti a percussione. Si limitò a brontolare: «Eh, le donne!», e lo seguì. Era fermamente convinto che ci fosse bisogno di battere la moglie, e per aver modo d’augurarselo disse a se stesso che lei doveva essere già rincasata. Attraverso lo spioncino l’aveva vista uscire. Lui la detestava perché da semplice governante era diventata una «signora professoressa». Quanto ai titoli lui, da buon funzionario a riposo, era incorruttibile, e una volta concesso a Kien il titolo di professore non esitava a trarne tutti i vantaggi. Da quando gli era morta la figlia tisica non aveva più bastonato nessuna donna, e viveva solo. La sua faticosa professione non gli lasciava tempo per le donne e inoltre gli inibiva ogni possibilità di fare conquiste. A volte gli accadeva d’infilare una mano sotto le gonne di qualche domestica, e di pizzicarle le gambe. Ma lo faceva con aria tanto seria da far sfumare del tutto le sue già scarse probabilità di successo. Al punto di picchiarle non arrivava mai. Da anni si struggeva dal desiderio di tornare una volta a battere a dovere una femmina. Saliva davanti a Kien prendendo alternativamente a pugni con una mano il muro e con l’altra la ringhiera: così s’allenava un poco. Udendo un simile fracasso gli inquilini aprivano le porte dei loro appartamenti e osservavano quella coppia disparata ma concorde: Kien con le maniche rimboccate, il portiere con i suoi pugni. Nessuno arrischiò una parola. Si scambiarono qualche occhiata solo quando si sentirono al sicuro dietro le spalle. Quando il portiere si trovava in giornate particolarmente forzute per le scale non si sentiva volare una mosca, e nemmeno il più sottile degli spilli avrebbe trovato il coraggio di cadere per terra. «Dov’è?», ruggì amichevolmente appena giunto di sopra. «Ce la sbrigheremo alla svelta!». Fu introdotto nello studio. Il professore s’arrestò sulla soglia, puntò, pieno di gioia maligna, il lungo indice contro il letto e ordinò: «Sgomberare!». Il portiere dette al mobile un paio di spallate per saggiarne la resistenza. Gli sembrò molto scarsa. Con aria sprezzante si sputò sulle mani e se le cacciò in tasca – di loro non aveva bisogno – appoggiò la testa alla spalliera e in un attimo spinse il letto fuori dalla stanza. «Questo si chiama lavorare di testa», spiegò. Cinque minuti dopo tutti i mobili di tutte le stanze si trovavano fuori, nel corridoio. «Dico, non sono i libri che le mancano!», balbettò quel cranio servizievole. Voleva ripigliar fiato senza farsene accorgere, e a questo scopo disse la prima cosa che gli saltò in mente, con voce non più sonora di quella d’un uomo di forze normali. Poi se n’andò: dalle scale, avendo ormai ripreso fiato, ruggì verso l’interno dell’appartamento: «Se le serve ancora qualcosa, professore, conti pure su di me». Kien s’affrettò a non rispondere. Dimenticò persino di mettere la catena e si limitò a gettare uno sguardo sulla catasta di ciarpame che ingombrava l’oscuro corridoio, una massa d’ubriachi privi di sensi. Evidentemente non riuscivano a chiarire a se stessi quali di quelle gambe appartenessero a un mobile e quali all’altro. Se qualcuno avesse calato sulle loro schiene qualche buona frustata si sarebbero certamente raccapezzati. I suoi nemici si pestavano i piedi l’un l’altro e si raschiavano all’osso le teste verniciate. Con cautela, per non profanare la sua cerimonia con rumori sgradevoli, si chiuse alle spalle la porta della stanza. Scivolò arditamente lungo gli scaffali e sfiorò con delicatezza il dorso dei libri. Teneva gli occhi ben spalancati perché non si richiudessero com’era ormai loro abitudine. Lo colse una vertigine, per la gioia e il tardivo ricongiungimento. Nella commozione dei primi istanti pronunciò parole impreviste e irragionevoli. Lui era sicuro, disse, della loro fedeltà. Erano tutti a casa loro. Avevano mostrato di avere carattere. Lui li amava. Li pregava di non volergliene. Certo avevano il diritto di sentirsi offesi. Voleva assicurarsi della loro presenza col brutale contatto delle mani. Degli occhi soltanto non si fidava più, da quando li adoperava in tanti modi diversi. Era una cosa che diceva solo a loro, a loro diceva tutto. Loro sapevano mantenere un segreto. Lui dubitava dei suoi occhi. Dubitava di tante cose. I suoi nemici avrebbero goduto di quei suoi dubbi. Aveva molti nemici. Nomi non ne voleva fare. Perché quello era un gran giorno del Signore, e lui voleva perdonare. Reintegrato nei suoi diritti, quel giorno voleva amare. Quanto più s’allungava la fila dei libri passati in rassegna, quanto più intatta e completa si ricomponeva davanti ai suoi occhi la vecchia biblioteca, tanto più ridicoli gli apparivano i suoi nemici. Come potevano avere l’ardire di smembrare un corpo, un organismo vivente chiudendo delle porte? Ma i tormenti non avevano potuto niente contro di essa. Anche se l’avevano incatenata a tradimento, anche se l’avevano torturata per intere, terribili settimane, essa in realtà era tuttora invitta. Un’aria balsamica spirava tra le membra finalmente riunite di quell’unico corpo. Esse si rallegravano di appartenere di nuovo l’una all’altra. Il corpo respirava; anche il padrone del corpo respirò profondamente.

Le porte però oscillavano avanti e indietro sui cardini, turbando la solennità del suo stato d’animo. Guastavano grossolanamente l’effetto della prospettiva. Doveva tirare aria da qualche parte: alzò gli occhi, le finestre del soffitto erano aperte. Con tutte e due le braccia afferrò la prima delle porte di comunicazione, l’estrasse dai cardini – quant’erano cresciute nel frattempo le sue forze! – la portò nel corridoio e la posò sopra il letto. Lo stesso fece con le altre. Appesi ad una sedia che il portiere aveva portato fuori sebbene fosse quella dello scrittoio, Kien notò la sua giacca e il panciotto. Aveva dunque iniziato la cerimonia in maniche di camicia. Ne fu lievemente imbarazzato, completò il proprio abbigliamento e tornò, più calmo, nella biblioteca. Si scusò con umiltà per il suo comportamento di poco prima. S’era lasciato travolgere dalla gioia e non aveva rispettato il programma. Soltanto un miserabile allunga come niente fosse le mani sull’amata. Chi vale qualcosa non recita davanti a lei la parte del grand’uomo. Non v’è davvero bisogno di protestare un affetto che è assolutamente ovvio. All’amata si concede la propria protezione senza vantarsene. La si abbraccia nei momenti solenni e non nei momenti di ebbrezza. Il vero amore si confessa davanti a un altare. Proprio questo era ciò che ora Kien si proponeva. Spostò la buona, vecchia scaletta fino al punto giusto e vi salì alla rovescia, in modo che le sue spalle toccassero gli scaffali, la sua testa il soffitto, il prolungamento delle sue gambe – e cioè la scala – il pavimento, e i suoi occhi abbracciassero tutto intero lo spazio unitario della biblioteca; quindi tenne alla sua amata il seguente discorso: «Da qualche tempo o, per esser più precisi, dal momento in cui una potenza straniera s’è introdotta nella nostra vita, vado accarezzando l’idea di porre le nostre relazioni su una solida base. La vostra esistenza è garantita a termini di contratto; ma noi, credo bene, siamo abbastanza avveduti da non ignorare il pericolo nel quale voi versate nonostante l’esistenza di tale contratto legalmente valido. «Non c’è bisogno che vi ricordi in modo particolareggiato la storia antichissima e superba delle vostre sofferenze. Scelgo soltanto un esempio per mostrarvi in maniera persuasiva quanto vicini siano odio e amore. La storia d’un paese che tutti noi in egual misura veneriamo, di un paese in cui voi avete goduto delle più grandi attenzioni e dell’affetto più grande, di un paese in cui vi si è tributato persino quel culto divino che ben meritate, narra un orribile evento, un crimine di proporzioni mitiche, perpetrato contro di voi da un sovrano diabolico per suggerimento di un consigliere ancor più diabolico. Nell’anno 213 avanti Cristo, per ordine dell’imperatore cinese Shi Hoang-ti – un brutale usurpatore che ebbe l’ardire di attribuire a se stesso il titolo di “Primo, Augusto, Divino” – vennero bruciati tutti i libri esistenti in Cina. Quel delinquente brutale e superstizioso era per parte sua troppo ignorante per valutare esattamente il significato dei libri sulla base dei quali veniva combattuto il suo tirannico dominio. Ma il suo primo ministro Li-Si, un uomo che doveva tutto ai propri libri, e dunque uno spregevole rinnegato, seppe indurlo, con un abile memoriale, a prendere questo inaudito provvedimento. Era considerato delitto capitale persino parlare dei classici della poesia e della storia cinese. La tradizione orale doveva venire estirpata a un tempo con quella scritta. Venne esclusa dalla confisca solo una piccola minoranza di libri; quali, potete facilmente immaginare: le opere di medicina, farmacopea, arte divinatoria, agricoltura e arboricoltura cioè tutta una marmaglia di libri di puro interesse pratico. «Confesso che il puzzo di bruciato dei roghi di quei giorni giunge ancor oggi alle mie narici. A che giovò il fatto che tre anni più tardi a quel barbaro imperatore toccasse il destino che s’era meritato? Morì, è vero, ma ai libri morti prima di lui ciò non arrecò alcun giovamento. Erano bruciati e tali rimasero. Ma non voglio tacere quale fu, poco dopo la morte dell’imperatore, la fine del rinnegato Li-Si. Il successore al trono, che aveva ben capito la sua natura diabolica, lo destituì dalla carica di primo ministro dell’impero che egli aveva rivestito per più di trent’anni. Fu incatenato, gettato in prigione e condannato a ricevere mille bastonate. Non un colpo gli venne risparmiato. Fu costretto a confessare mediante la tortura i suoi delitti. Oltre all’assassinio di centinaia di migliaia di libri aveva infatti sulla coscienza anche altre atrocità. Il suo tentativo di ritrattare più tardi la propria confessione fallì. Venne segato in due sulla piazza del mercato della città di Hien-Yang, lentamente e nel senso della lunghezza, perché in questo modo il supplizio dura più a lungo. L’ultimo pensiero di questa belva assetata di sangue fu per la caccia. Oltre a ciò non si vergognò di scoppiare in lacrime. Tutta la sua stirpe, dai figli a un pronipote di appena sette giorni, sia donne che uomini, venne sterminata: tuttavia, invece di essere condannati al rogo, come sarebbe stato giusto, ottennero la grazia di venir passati a fil di spada. In Cina, il paese in cui la famiglia, il culto degli antenati, il ricordo delle singole persone sono tenuti in così gran conto, nessuna famiglia ha mantenuto viva la memoria del massacratore Li-Si; solo la storia l’ha fatto, proprio quella storia che l’indegna canaglia, più tardi finita come ho detto, aveva voluto distruggere. «Quando nei testi di un qualche storico cinese leggo la storia del rogo dei libri non tralascio mai di andare a consultare in tutte le fonti esistenti anche l’edificante fine del massacratore Li-Si. Per fortuna, essa è stata descritta ripetutamente. Non m’è mai riuscito di trovar pace o sonno prima d’averlo visto segare in due almeno dieci volte. «Spesso mi sono chiesto, profondamente rattristato, per quale ragione tale atrocità sia dovuta avvenire proprio in Cina, proprio in quella che è la terra promessa di tutti noi. Ogni volta che noi facciamo presente quale meravigliosa rivelazione sia la Cina, i nostri nemici, sempre zelanti, ci ricordano la catastrofe dell’anno

213. Tutto ciò che possiamo replicare è che anche là il numero delle persone colte è microscopicamente piccolo se lo si paragona alla massa degli altri. Talvolta il fango della palude analfabeta sommerge sia i libri che gli eruditi. Nessun paese della terra è al sicuro dai cataclismi. Perché si pretende dalla Cina una cosa impossibile? «So bene che il terrore di quei giorni vi è rimasto nel sangue, e così pure il terrore di parecchie altre persecuzioni. Non mi spinge durezza di cuore o insensibilità a parlarvi dei martiri del vostro glorioso passato. No: io voglio solo scuotervi e ottenere il vostro appoggio per prendere quei provvedimenti che debbono tutelarci dal pericolo. «Se fossi un traditore potrei illudervi con belle parole e nascondervi la calamità che ci minaccia. Ma proprio io sono colpevole della situazione in cui siamo venuti a trovarci. Posseggo abbastanza carattere da confessarlo davanti a voi. Se mi domandate come sia stato possibile che io mi dimenticassi di me a tal segno – e avete tutti i diritti di pormi una simile domanda – non posso far altro che rispondervi a mio disdoro: mi sono dimenticato di me perché mi sono dimenticato del nostro grande maestro Mong, il quale dice: “Agisce e non sa ciò che si fa, segue le proprie consuetudini e non sa nemmeno perché, va errando tutta la vita e non conosce il proprio cammino: così è la massa degli uomini”. «Sempre e senza eccezione bisogna guardarsi dalla massa: questo ci dice il maestro con le sue parole. Essa è pericolosa perché è priva d’istruzione, e dunque d’intelligenza. Ma ormai il danno è fatto, ai consigli del maestro Mong io ho anteposto il desiderio di garantirmi cure corporali e un trattamento umano. Di tale miope atteggiamento stiamo pagando duramente il fio. Il carattere, non lo straccio della polvere, rende l’uomo veramente tale. Guardiamoci però ugualmente dal cadere nell’estremo opposto. Finora nessuno vi ha torto una lettera. Se qualcuno dovesse imputarmi d’aver trascurato le cure che è mio dovere prodigarvi non me lo potrei mai perdonare. Se qualcuno ha motivo di lagnarsi, si faccia pure avanti». Kien tacque e si guardò attorno con aria di sfida e di minaccia. Anche i libri tacquero, nessuno si fece avanti, e Kien proseguì la sua ben preparata allocuzione. «Ero sicuro che il mio invito avrebbe avuto questa risposta. Vedo che continuate ad essermi fedeli e, dato che lo meritate, voglio svelarvi i piani dei vostri nemici. Prima di tutto dovrò provocare la vostra sorpresa con una comunicazione di grande importanza e di estremo interesse. Nel corso della generale ispezione da me compiuta ho accertato che nella parte della biblioteca occupata dal nemico sono stati effettuati indebiti spostamenti di volumi. Per non provocare uno scompiglio ancor maggiore nelle vostre file mi sono astenuto dal dare l’allarme. Respingo immediatamente ogni voce allarmistica e dichiaro qui, sotto giuramento, che non si lamentano perdite di alcun genere. Io mi rendo garante con la mia parola che questa assemblea è veramente plenaria e atta a deliberare. Noi siamo ancora in grado, come organismo integro e compatto, di predisporre la difesa, uno per tutti, tutti per uno. Perché ciò che non è ancora accaduto può accadere. Già l’alba di domani potrebbe aprire dei vuoti nelle nostre file. «Io so che cosa trama il nemico con questi spostamenti: vuole rendere più difficile il controllo delle nostre forze. Crede che noi non avremo mai il coraggio di annullare le sue conquiste nel territorio già occupato e pensa così, confidando nella nostra ignoranza della nuova situazione, di perpetrare, ancor prima della dichiarazione di guerra, rapimenti di cui noi non potremmo accorgerci. Siate sicuri che comincerà dai più nobili tra voi, da quelli per i quali può pretendere il riscatto più alto. Perché è evidente che il nemico non pensa affatto ad usare i libri rapiti contro i loro camerati. Sa bene che cosa ha probabilità di successo e che cosa non ne ha, e per condurre la guerra ha bisogno di denaro, denaro e ancora denaro. Per lui i trattati vigenti non sono che pezzi di carta. «Se volete essere trascinati lontano dalla vostra patria e dispersi in tutto il mondo come schiavi che vengono valutati, toccati, comprati, schiavi ai quali non si rivolge mai la parola, ai quali si presta a malapena orecchio quando essi effettuano il proprio servizio, nelle cui anime nessuno mai si cura di leggere, che vengono posseduti ma non amati, abbandonati a triste decadenza o rivenduti per lucro, usati ma non compresi: allora restate pure con le mani in mano e arrendetevi al nemico! Ma se avete ancora in voi un cuore coraggioso, un’anima valorosa, un nobile spirito, insorgete con me per combattere la guerra santa! «Non sopravvalutare la forza del nemico, popolo mio! Tu lo chiuderai fra le tue lettere in una stretta mortale, le tue righe saranno le clave che s’abbatteranno con violenza sul suo capo, i tuoi caratteri palle di piombo che s’attaccheranno ai suoi piedi, le tue copertine le corazze che ti proteggeranno da lui! Tu possiedi mille astuzie per adescarlo, mille lacci per irretirlo, mille fulmini per abbatterlo, popolo mio, forza, grandezza, saggezza dei millenni!». Kien fece una pausa. Esausto e vibrante d’entusiasmo si accasciò sulla scaletta. Le sue gambe vacillarono: o era la scala? Le armi che aveva testé decantato eseguirono davanti ai suoi occhi una danza di guerra. Corse del sangue: trattandosi di sangue di libri egli sentì un malessere mortale. Ma non doveva svenire, non doveva perdere conoscenza! A questo punto si levò un applauso scrosciante; pareva che un uragano percorresse una foresta di fogli; da tutte le parti si levavano grida di giubilo. Qua e là nella moltitudine egli distingueva, dalle loro parole, singole opere. La loro lingua, le loro voci: sì, erano loro, i suoi amici, i suoi fidi che lo seguivano nella guerra santa! Ad un tratto si sentì risollevare sulla scala, s’inchinò alcune volte e poi, confuso per l’eccitazione, appoggiò la mano sinistra sulla parte destra del petto, là dove neppure lui aveva un cuore. L’applauso pareva non voler cessare più. Gli sembrava d’assorbirlo con gli occhi, con le orecchie, col naso, con la lingua, con tutta la pelle madida e vibrante. Non avrebbe mai pensato di poter tenere un discorso tanto incendiario. Ripensò al timor panico che s’era impadronito di lui prima del discorso – e che altro era stato il suo scusarsi se non timor panico? – e sorrise. Per fissare un termine concreto alle ovazioni scese dalla scala. Sul tappeto vide delle macchie di sangue e si toccò la faccia. Quel piacevole umidore era sangue. Ricordò che in quel frattempo s’era trovato a giacere sul pavimento, e che solo l’inizio degli applausi gli aveva impedito di perder coscienza e gli aveva dato la forza di tornare in cima alla scala. Corse in cucina – doveva uscire immediatamente dalla biblioteca, forse qualche goccia di sangue era già schizzata sui libri – e si lavò ben bene tutte le macchie rosse. Era contento che la ferita fosse toccata a lui piuttosto che a uno dei suoi. Aveva ripreso forza e, pieno di nuovo ardore bellicoso, s’affrettò a ritornare sul teatro delle operazioni. L’applauso scrosciante era cessato. Soltanto il vento soffiava malinconicamente dalle finestre del soffitto. Ora non abbiamo tempo per le lamentazioni, pensò, altrimenti ben presto dovremo cantarle in riva ai fiumi di Babilonia. Salì impetuosamente sulla scala, allungò il suo viso in un’espressione il più possibile severa e tuonò con voce imperiosa, che fece tremare di paura i vetri su in alto: «Sono lieto che abbiate inteso ragione a tempo. L’entusiasmo non basta per fare una guerra. Dalla vostra approvazione deduco che siete pronti a combattere sotto il mio comando. «Dichiaro quanto segue: 1) Noi ci troviamo in stato di guerra. 2) I traditori verranno giudicati con procedura sommaria. 3) Il comando è centralizzato. Io sono il comandante supremo, l’unico capo e l’unico ufficiale. 4) E’ abolita tra le forze combattenti ogni distinzione derivante da nobile passato, reputazione, grandezza e valore pecuniario. La democratizzazione dell’esercito trova espressione materiale nel fatto che a partire da oggi ciascun volume starà col dorso rivolto verso la parete. Tale misura accrescerà il nostro senso di solidarietà, e priverà il nemico, rapace ma ignorante, di ogni elemento di valutazione. 5) La parola d’ordine è Kung». Così egli concluse il suo breve proclama. Non si curò dell’effetto ottenuto dalle sue parole. Il successo della precedente orazione bellica aveva esaltato il suo senso di potenza. Si sapeva sorretto dall’unanime affetto di tutta la sua armata. Ritenne sufficiente quest’unico attestato e passò senz’altro all’azione. Ogni singolo volume venne estratto dagli scaffali e sistemato col dorso contro la parete. Soppesando tra le mani i suoi vecchi amici in fretta, naturalmente, senza interrompere il lavoro – egli si sentì sopraffare dal dolore di doverli ridurre all’anonimato di un esercito in assetto di guerra. Anni prima nulla avrebbe potuto indurlo a commettere una simile crudeltà. à la guerre comme à la guerre, si giustificò ora, e sospirò. I discorsi di Gotamo Budda, in sé molto amanti della pace, minacciarono con miti parole l’obiezione di coscienza. Lui rise beffardamente e gridò: «Provatevi!». Ma dentro di sé non si sentiva così sicuro come poteva sembrare dal tono della voce. Infatti quei discorsi riempivano dozzine di volumi che stavano là, uno accanto all’altro, in pali, in sanscrito, in traduzioni cinesi, giapponesi, tibetane, inglesi, tedesche, francesi, italiane, un’intera compagnia, una potenza che incuteva rispetto. Giudicò la loro condotta pura e semplice ipocrisia. «Perché non vi siete messi a rapporto prima?». «Noi non ti abbiamo applaudito, signore». «Avreste potuto interrompermi». «Abbiamo taciuto, signore».

«Questa è proprio una cosa degna di voi!», tagliò corto lui. Tuttavia il loro silenzio gli rimase come una spina nel cuore. Chi, già alcuni decenni prima, aveva elevato il silenzio a regola suprema della propria esistenza? Proprio lui, Kien. Dove aveva imparato a comprendere il valore del silenzio, a chi doveva questa svolta decisiva nella sua evoluzione spirituale? A Budda, l’illuminato. Budda era solito tacere. Forse doveva la sua fama proprio al fatto che taceva tanto. Per il sapere non aveva grande predilezione. A tutte le possibili domande, rispondeva o col silenzio o facendo capire che non valeva la pena dare una risposta. Veniva naturale il sospetto che lui, questa risposta, non la sapeva. Infatti ciò che sapeva, la sua famosa serie causale, una forma primitiva di logica, lo sfoderava ad ogni occasione. Quando non taceva ripeteva sempre la stessa cosa. Se dai suoi discorsi si tolgono le similitudini che cosa rimane? Appunto la serie causale. Un povero di spirito! Uno spirito che ha messo su pancia per pura inerzia. E’ possibile immaginarsi un Budda senza pancia? C’è silenzio e silenzio. Budda si vendicò di queste offese inaudite: tacque. Kien s’affrettò a girare tutti i volumi dei discorsi per allontanarsi da quel settore demoralizzante e disfattista. S’era proposto un compito assai difficile. Prendere decisioni bellicose è presto fatto: poi però si tratta di tenere saldamente in pugno ogni singolo individuo. Gli obiettori di coscienza comunque erano una trascurabile minoranza. Le maggiori opposizioni riguardarono piuttosto il quarto punto del suo proclama, quello che riguardava la democratizzazione dell’esercito, la prima misura veramente concreta che lui aveva preso. Che cumulo di vanità era necessario superare a questo riguardo! Piuttosto che rinunciare alla loro gloria personale quei pazzi preferivano lasciarsi rubare. Schopenhauer annunciò la sua volontà di vivere, rivelando un postumo attaccamento a questo peggiore tra tutti i mondi. Comunque si rifiutava di combattere spalla a spalla con un Hegel. Schelling rispolverò le sue vecchie accuse e dimostrò l’identità tra la dottrina di Hegel e la sua, che era di precedente formulazione. Fichte gridò in tono ironico: «Io!». Immanuel Kant sostenne più categoricamente di quanto non avesse fatto in vita la necessità di una pace perpetua. Nietzsche enumerò a gran voce i propri titoli, Dioniso, Anti-Wagner, Anticristo, Salvatore. Altri s’intromisero e approfittarono di quel momento, proprio di quel momento, per lamentare la loro condizione di geni incompresi. Alla fine Kien volse le spalle al fantastico pandemonio della filosofia tedesca. Pensò di rifarsi con i francesi, meno sublimi e forse fin troppo lineari, ma venne accolto con una gragnuola di malignità. Essi lo schernirono per il suo aspetto ridicolo. Non sapeva servirsi a dovere del proprio corpo: per questo andava in guerra. Era sempre stato modesto: per questo li umiliava, per esaltare se stesso. E’ il sistema di tutti gli innamorati: crearsi un’opposizione immaginaria per potersi presentare come vincitori. Dietro la sua guerra santa non v’era altro che una donna, una governante incolta, vecchia, inservibile e assolutamente insipida. Kien montò su tutte le furie: «Voi non mi meritate», fremette, «vi abbandono quanti siete al vostro destino». «E’ meglio che tu ti rivolga agli inglesi», gli consigliarono. Erano troppo occupati con il loro spirito per ingaggiare una seria battaglia con lui, e il loro consiglio si rivelò buono. Dagli inglesi trovò proprio ciò di cui aveva bisogno in quel momento: un solido terreno prammatico sul quale era possibile trovare un’intesa. Le loro obiezioni, quelle poche bene inteso che si lasciarono sfuggire nonostante la loro flemma, erano lucide, pratiche e nondimeno ben ponderate. Alla fine comunque non seppero risparmiargli un grave rimprovero. Perché mai aveva cercato la parola d’ordine nella lingua di una razza di colore? Kien esplose e investì urlando anche gli inglesi. Maledisse il suo destino che gli riservava una delusione dopo l’altra. Meglio essere un kuli che il comandante in capo, esclamò, e impose il silenzio alle sue migliaia di fanti. Impiegò ore e ore a girarli tutti. Avrebbe potuto facilmente colpire i loro fianchi con qualche colpo leggero, ma non osò trarre le estreme conseguenze dal nuovo ordinamento disciplinare e non fece del male a nessuno. Stanco e scontento, profondamente demoralizzato, si trascinava lungo gli scaffali più per forza di carattere che per convinzione, perché ormai essi gli avevano tolto ogni fiducia. Per i piani superiori ricorse all’aiuto della scaletta, ma anch’essa lo trattava senza affetto, anzi con ostilità. Uscì più volte dalla sua guida e s’abbatté caparbiamente sul tappeto. Lui la rialzava con le sue braccia magre e prive di forza e quest’atto gli riusciva ogni volta più gravoso. Non aveva nemmeno più l’orgoglio sufficiente a farle la sfuriata che meritava. Nel salire cercava di trattare i pioli con particolare riguardo per evitare che gli giocassero qualche cattivo scherzo. Era in condizioni così disperate da dover trattare con i guanti persino la propria scala, una semplice ausiliaria. Quand’ebbe terminato di girare i libri in quella che poco prima era la sala da pranzo, si fermò a contemplare la propria opera. Decise di riposare per tre minuti, che trascorse disteso sul tappeto, ansimando ma con l’orologio alla mano. Poi fu la volta della stanza vicina.

La morte Sulla via del ritorno Therese dette sfogo alla propria indignazione. Lei invita a pranzo quel bel signore e lui, per ringraziarla, la tratta con insolenza. Gli ha forse chiesto qualcosa? Lei non ha certo bisogno di correr dietro agli altri uomini. E’ una donna sposata. Non una serva che va col primo che capita. Al ristorante lui, per prima cosa, prende la lista e chiede che cosa deve ordinare. Lei è stata tanto sciocca da dire: «Però pago io!». Quel che non s’è ordinato l’amico! C’era da vergognarsi davanti alla gente. Le ha giurato di essere un signore. Non avrebbe mai pensato di doversi ridurre a fare il commesso. Lei l’ha consolato. A questo punto lui ha detto che sì, in compenso ha fortuna con le donne, ma che vantaggio gliene viene? Di un capitale, ha bisogno, sia pure modesto, perché ognuno ci tiene ad essere indipendente. Le donne di capitali non ne hanno, tutt’al più, hanno dei risparmi, pochi spiccioli, con simili bazzecole non è certo possibile impiantare un commercio: un altro forse lo farebbe, ma lui no, lui vuole o tutto o niente, non s’accontenta delle briciole. Prima d’attaccare la seconda cotoletta le prende la mano e dice: «Questa è la mano che mi porterà fortuna». E così dicendo gliela solletica. Sa solleticare da vero artista, quell’uomo. E nessuno le ha mai detto che lei porta fortuna. Proprio non le piacerebbe, ha soggiunto lui, partecipare ai suoi affari? E dove ha trovato, di punto in bianco, il denaro necessario? Qui lui s’è messo a ridere e ha detto: il capitale glielo darà la sua amica. Lei sente il sangue montarle alla testa. Come può avere un’amica e starsene seduto là con lei? Anche lei è un essere umano. Quanti anni ha quest’amica? gli ha chiesto. Trenta, ha detto lui. E’ bella? ha chiesto lei. La più bella donna del mondo, ha detto lui. Allora lei gli ha chiesto di fargliela vedere. «Subito, eccomi pronto a servirla, anche in questo», e tutt’a un tratto le infila un dito in bocca – che bel dito grosso! – e dice: «Eccola!». Poiché lei non risponde la prende per il mento – davvero un tipo intraprendente – allunga una gamba sotto il tavolo, stringe forte son cose da farsi queste? – le guarda in bocca e dice che arde d’amore per lei e vuol sapere quando potrà sperimentare quei suoi magnifici fianchi. Si fidi di lui. D’affari lui se n’intende. Con lui non c’è pericolo di rimetterci. A questo punto lei gli ha detto che ama la verità più d’ogni altra cosa e che sente il dovere di dirglielo subito: lei è una donna priva di capitali. Suo marito l’ha sposata per amore, lei era una semplice dipendente come lui. A lui lo può dire. Quanto allo sperimentare, deve prima vedere d’organizzare le cose. Certo anche a lei piacerebbe. Le donne son fatte così. Lei di solito non è così, ma quand’è il caso sa fare un’eccezione. Il signor Villani non deve credere che lei non abbia altra risorsa che lui. Per la strada tutti gli uomini si voltano a guardarla. Tuttavia non vede l’ora di poterlo incontrare. Suo marito va a dormire a mezzanotte in punto e s’addormenta subito: è un tipo così metodico. Lei dispone di una stanza particolare dove prima dormiva la governante, che ora però ha lasciato la casa. Lei vuole starsene in pace, per questo non riesce a sopportare il marito: quell’uomo è così insistente. E nello stesso tempo è un vero uomo. Ecco perché lei dorme da sola nella stanza dove prima dormiva la governante. A mezzanotte e un quarto scenderà e gli aprirà il portone. Lui non deve aver paura: il portiere ha il sonno pesante, è stanco morto dopo aver lavorato tutto il giorno. Lei dorme per conto suo. La stanza da letto la compra soltanto perché la casa abbia un aspetto decente. Lei è sempre disponibile: organizzerà le cose in modo che lui possa venire ogni notte. Una donna ha pur diritto di avere qualcosa dalla vita. In men che non si dica ci si ritrova a quarant’anni e la giovinezza è finita per sempre. Bene, ha detto lui, si disferà del suo harem. Lui, quand’è innamorato, farebbe qualunque cosa per una donna. E lei, come è giusto, dovrà contraccambiarlo chiedendo il capitale al marito. Da un’altra donna non l’accetterebbe mai: solo da lei, perché stanotte lo attende la suprema felicità, l’estasi dell’amore. Lei ama la verità più d’ogni altra cosa, gli fa notare, e sente il dovere di dirglielo subito: suo marito è avaro e non dà niente a nessuno. Non si lascia togliere di mano nulla, nemmeno un libro. Se lei avesse un capitale, lo investirebbe subito nel suo commercio. A lui ogni donna crede sulla parola, non ve ne sarebbe una che non si fiderebbe di un uomo come lui. Lui pensi soltanto a venire. Lei non ne vede l’ora. Ai tempi suoi c’era un bel proverbio che diceva: «Il tempo vien per chi lo sa aspettare». Morire devono tutti, prima o poi. E’ la vita. Lui venga ogni notte a mezzanotte e un quarto e avrà il capitale più presto di quanto non pensi. Lei non ha sposato il vecchio per amore. Bisogna pensare anche al proprio futuro. A questo punto lui scosta una gamba di sotto il tavolo e dice: «Benissimo, mia cara, ma quanti anni ha questo marito?». Più di quaranta, di ciò è ben sicura. Lui scosta anche l’altra gamba, s’alza in piedi e dice: «Mi permetta, questo oltrepassa ogni limite!». Lei lo prega di riprendere a mangiare: non è certo colpa sua, ma suo marito sembra uno scheletro e di sicuro non ha molta salute. Ogni mattina, alzandosi, lei pensa: ora lo trovo morto. Poi, quando entra nella sua stanza e gli porta la colazione, lo trova ancora vivo. Anche sua madre buonanima era così. A trent’anni era già malata e poi è morta a settantaquattro. E anche allora, se è morta, è stato solo per fame. Quella stracciona, a guardarla nessuno l’avrebbe detto. A questo punto l’interessante cavaliere posa per la seconda volta forchetta e coltello e dice: lui non mangia più, ha paura. Lì per lì non vuol dire perché, ma poi apre la bocca e osserva: Ci vuole così poco a morire avvelenati! Noi, per esempio ce ne stiamo qui insieme felici e contenti e pranziamo pregustando le delizie della notte: il trattore o un cameriere, per invidia, ci versa di nascosto una polverina nel piatto ed eccoci tutti e due nel freddo della tomba. Così il bel sogno d’amore è svanito prima ancora che noi lo si sia potuto godere. Lui però non crede che lo faranno, perché in un locale pubblico una cosa simile viene subito a galla. Se fosse sposato, avrebbe sempre paura. Una donna è capace di tutto. Lui conosce meglio delle sue tasche le donne, di dentro e di fuori, non soltanto i fianchi e le gambe, benché, per chi se ne intende, queste siano le parti migliori di una donna. Le donne ci sanno fare. Prima s’assicurano che il testamento sia in loro favore, poi fanno la festa al marito e sopra il cadavere ancor caldo porgono la mano all’amante fedele per convolare con lui a felici nozze. L’altro naturalmente non è da meno e il fatto non salta più fuori. Lei però è stata pronta a rispondere. Certe cose lei non le fa. Lei è una donna per bene. A volte salta fuori tutto e allora si finisce in galera. La galera non è il posto adatto a una donna per bene. Tante cose andrebbero meglio se non si finisse subito in galera. Non si può manco muoversi: basta che salti fuori qualcosa e subito arriva la polizia e ti spedisce in galera. Non stanno certo a pensare che queste cose una donna non è in grado di sopportarle. Cacciano il naso dappertutto. Che cosa interessa a loro come una donna vive con suo marito? Una donna dev’essere rassegnata a tutto. Una donna non è un essere umano. E intanto il marito non serve a nulla. Un marito simile è forse un uomo? No che non è un uomo. Un uomo così non lo rimpiange nessuno. La cosa migliore sarebbe ancora che l’amante prendesse una mazza e gli calasse un bel colpo in testa mentre dorme. Ma lui, di notte, si chiude sempre dentro a chiave perché ha paura. Pensi l’amante a sistemare la cosa: non dice che poi non salta fuori niente? Lei non lo fa. Lei è una donna per bene. A questo punto l’uomo l’interrompe. L’esorta a non gridare così forte. Gli dispiace per il deplorevole malinteso. Lei non vorrà sostenere che lui l’ha istigata a commettere un veneficio? Lui ha un cuor d’oro e non farebbe del male a una mosca. Per questo le donne vanno pazze per lui. «Capiscono quel che è buono!», ha detto lei. «Io pure», dice lui. Tutt’a un tratto si alza e fingendo che le sia venuto freddo prende il cappotto di lei all’attaccapanni. In realtà l’ha fatto soltanto per posarle un bacio sul collo. Le labbra di quell’uomo sono come la sua voce. E che ha detto mentre la baciava? «A me piace baciare un bel collo… e lei pensi un po’ alla faccenda!». Poi torna a sedere e ride: «E’ così che si fa! Le è piaciuto il pranzo? Ora bisognerà pagare!». E lei ha pagato per tutti e due. Perché è stata tanto sciocca? Era tutto così bello. Poi per la strada le cose hanno cominciato ad andar male. Lui tace per un pezzo, lei non sa che cosa dire. Arrivati al negozio di mobili lui domanda: «Sì o no?». «Ma sì, mi scusi! A mezzanotte e un quarto precisa!». «Intendo il capitale», dice lui. Con tutta innocenza lei gli dà questa bella risposta: «Il tempo viene per chi lo sa aspettare». Poi entrano tutti e due nel negozio. Lui scompare nel retro. All’improvviso spunta il principale e dice: «Spero che la signora abbia pranzato bene. La stanza da letto verrà consegnata domattina. O forse la signora ha qualcosa in contrario?». «No», dice lei, «però preferirei pagare oggi». Lui prende il denaro e le dà la ricevuta. A questo punto l’uomo interessante esce dal retro e le dice ad alta voce, davanti a tutta la gente: «Quanto al posto di cavalier servente dovrà cercarsi qualcun altro, cara signora. Conosco signore più giovani di lei. E mille volte più belle». Lei è corsa fuori in tutta fretta sbattendo la porta, e sulla strada è scoppiata in singhiozzi davanti a tutti. Gli aveva forse chiesto qualcosa? Lei gli paga il pranzo e lui la tratta con insolenza. E’ una donna sposata, lei. Non ha certo bisogno di correr dietro agli altri uomini. Non è una serva che va col primo che capita. Potrebbe averne dieci per ogni dito. Per la strada tutti gli uomini la guardano. E di chi è la colpa? Di suo marito. Lei gira tutta la città per comprargli i mobili, e che cosa ne ricava? Delle offese. Ci vada pure da solo. Ma già, lui non è buono a nulla. Eppure si tratta di casa sua: non è possibile che non gli interessino i mobili da accostare ai suoi libri. Perché lei ha tanta pazienza? Un uomo simile crede di potersi cacciare la gente sotto i piedi. Si fa ogni cosa al posto suo, e lui lascia che sua moglie venga insultata davanti a tutti. Se una cosa simile fosse capitata alla moglie di quell’uomo interessante… Già, ma lui non è sposato. Perché non è sposato? Perché è un uomo. Un vero uomo non si sposa finché non è diventato qualcuno. E quello che ho io in casa non è nessuno! E chi potrebbe mai essere? Un simile mucchio d’ossa! Si potrebbe quasi credere che sia un morto. A che scopo vive un essere di quella specie? Perché, quanto a vivere, vive ancora. Una persona simile non serve a nulla. Serve soltanto a impedire agli altri di godersi dei bei quattrini. Entrò in casa. Il portiere apparve sulla soglia del suo sgabuzzino e ruggì: «Gran novità quest’oggi, signora mia!». «Staremo a vedere», replicò lei e gli voltò le spalle con disprezzo. Quando fu di sopra aprì la porta. Nessuno si mosse. L’anticamera era ingombra di tutti i mobili della casa. Aprì senza rumore la porta della sala da pranzo e allibì. Le pareti avevano improvvisamente mutato aspetto. Prima erano scure, adesso erano bianche. Doveva essere accaduto qualcosa. Che cosa era accaduto? Nella stanza accanto, lo stesso cambiamento. Nella terza, quella che lei pensava di trasformare in stanza da letto, cominciò a capire. Suo marito aveva girato tutti i libri! I libri vanno disposti in modo che li si possa prendere per il dorso. Devono stare così perché sia possibile spolverarli. Altrimenti, come si può toglierli dagli scaffali? Per lei va bene così: ne ha abbastanza dell’interminabile spolverare. Per spolverare si stipendia una serva. Di soldi lui ne ha a sufficienza, per i mobili, li butta persino dalla finestra: farebbe meglio a risparmiare. Anche una moglie ha un cuore. Si mise a cercarlo per gettargli in faccia questo cuore. Lo trovò nel suo studio. Giaceva quant’era lungo sul pavimento, sotto la scaletta che sporgeva per un tratto oltre la sua testa. Il bel tappeto tutt’intorno era macchiato di sangue. Le macchie di questo genere sono assai difficili da togliere. Con che cosa le conviene provare? Al lavoro della moglie lui non pensa. Deve aver avuto troppa fretta, e così è caduto dalla scala. Che cosa aveva detto lei? Suo marito non è sano! Le piacerebbe che il suo uomo interessante vedesse questa scena, ora. Non che la cosa le faccia piacere, lei non è fatta a quel modo. Come si può morire così? Quell’uomo le fa quasi pena. A lei certo non piacerebbe salire sulla scala e cader giù morta. Son cose da farsi queste? Come si può essere così imprudenti? Ognuno ha quel che si merita. Per più di otto anni lei ha tolto la polvere andando ogni giorno su e giù per la scala: le è mai capitato qualcosa? Una persona ammodo pensa a reggersi bene. Perché è stato così sciocco? Ora i libri appartengono a lei. In questa stanza ne è stata girata solo la metà. Valgono un capitale, lui l’ha sempre detto. E deve saperlo, li ha comprati lui. Lei il cadavere non lo tocca. Uno s’affatica intorno a quella scala pesante e poi si trova nei pasticci con la polizia. Meglio lasciare tutto com’è. Non per il sangue, quello non le fa nessun effetto. Non è neppure sangue. Che sangue può mai avere uno come lui? Può fare delle macchie il suo sangue, ma niente di più. Le dispiace per il tappeto. In compenso, però, adesso lei è padrona di tutto, anche quel bell’appartamento deve valere qualcosa. I libri li venderà subito. Chi l’avrebbe mai detto solo ieri? Eppure succede proprio così: uno si permette di trattare la moglie con insolenza e in men che non si dica è bell’e morto. Lei l’ha sempre detto che le cose non potevano finir bene. Ma lei non aveva neppure il diritto d’aprir bocca. Un marito come quello crede di non esserci che lui al mondo. Andare a letto a mezzanotte e non lasciare in pace la moglie, son cose da farsi queste? Una persona per bene va a dormire alle nove e lascia in pace la moglie. Presa da pietà per il disordine che regnava sullo scrittoio, Therese scivolò verso di esso. Accese la lampada da tavolo e cercò il testamento fra le carte. Supponeva che prima di cadere lui si fosse preoccupato di stilarlo. Non dubitava minimamente d’esser stata nominata unica erede perché non aveva mai sentito parlare di altri parenti. Ma negli appunti scientifici, che si lesse dall’A alla Z, non v’era alcun accenno al patrimonio. Mise scrupolosamente da parte i fogli coperti di caratteri stranieri: dovevano avere un valore particolare, e si poteva ricavarne qualcosa vendendoli. Una volta, a tavola, lui le aveva detto che ciò che scriveva valeva oro, ma che a lui non interessava certo l’oro. Dopo aver trascorso un’ora a mettere in ordine e a leggere scrupolosamente ogni cosa, dovette constatare con indignazione che non v’era neppure l’ombra di un testamento: lui non aveva preparato proprio nulla. Era rimasto uguale a se stesso fino all’ultimo: un uomo che pensa solo a sé e non si cura minimamente della moglie. Sospirando decise di rovistare anche all’interno della scrivania, di passare tutti i cassetti, uno dopo l’altro, finché non avesse trovato il testamento. Già il primo tentativo le procurò un’amara delusione. La scrivania era chiusa a chiave. Lui teneva sempre le chiavi nella tasca dei pantaloni. Una bella disdetta, adesso era davvero servita. Non poteva certo frugargli le tasche. Se per caso si sporcava di sangue, chissà cosa poteva pensare la polizia. S’avvicinò il più possibile al cadavere, si chinò e non riuscì a capire dove fossero finite le tasche. Aveva paura anche solo a inginocchiarsi. Prima d’affrontare momenti di particolare gravità era solita togliersi la gonna. La ripiegò coscienziosamente e l’affidò all’angolo più remoto del tappeto. Poi s’inginocchiò a un passo di distanza dal cadavere, premette la testa contro la scala per avere un appoggio più solido e infilò lentamente nella tasca destra l’indice della mano sinistra. Non andò molto lontano. Lui stava disteso in maniera così goffa. Proprio in fondo, dentro la tasca, credette di sentire qualcosa di duro. A questo punto pensò con terrore che forse anche la scala era macchiata di sangue. S’alzò di scatto e si portò la mano alla fronte, toccandosi il punto ch’era stato a contatto della scala. Non trovò tracce di sangue. Tuttavia, la vana ricerca del testamento e delle chiavi l’aveva scoraggiata. «Bisogna fare qualcosa», disse a voce alta, «non si può certo lasciarlo qui per terra!». Si rimise la gonna e andò a chiamare il portiere. «Che c’è?», chiese lui in tono minaccioso. Non permetteva tanto facilmente che una persona qualunque lo distogliesse dal lavoro. Inoltre non aveva capito le sue parole, perché lei parlava sottovoce, come si conviene quando si discorre di un morto. «Ma, mi scusi, le dico che lui è morto!». Ora aveva capito. Antiche memorie gli si ridestarono dentro. Era in pensione ormai da troppo tempo per fidarsene subito e i suoi dubbi cedettero solo lentamente alla certezza che un così bel delitto era avvenuto per davvero. In egual misura mutò pure il suo atteggiamento. Divenne mite e innocuo come nei giorni potenti in cui esercitava l’ufficio del poliziotto, quando si trattava d’accalappiare una selvaggina di particolare natura. Si sarebbe quasi detto che fosse magro. Il ruggito gli si fermò in gola. I suoi occhi, di solito fissi sull’avversario, si rintanarono docilmente negli angoli, dove si misero in agguato. La bocca cercò d’abbozzare un sorriso ma ne fu impedita dai baffi rigidi, ben piegati e aderenti alla pelle. Allora intervennero due bravi mozziconi di dita, che forzarono gli angoli della bocca ad assumere un’inclinazione sorridente. L’assassina è annientata e non dà segni di vita. Lui si presenta davanti ai giudici indossando la sua uniforme, e spiega come si debba procedere in una faccenda del genere. Lui è il supertestimone di quel processo sensazionale. Il pubblico ministero conta soltanto su di lui. Non appena è passata in altre mani, l’assassina ha ritrattato ogni cosa. «Signori», dice lui con voce tonante, i giornalisti annotano ogni parola. «Bisogna saper trattare gli uomini nel modo giusto. Anche il delinquente non è che un essere umano. Io sono in pensione ormai da molti anni. Nel mio tempo libero studio il modo di vivere e di agire, l’anima, come si suol dire, di questi soggetti. Trattate il soggetto nel modo giusto e l’assassina confesserà il suo misfatto. Ma attenzione, signori: trattate il soggetto nel modo sbagliato e l’assassina negherà sfacciatamente, nel qual caso dovrà pensare poi il tribunale a raccogliere le prove! In questo sensazionale processo per omicidio voi potete contare su di me. Signori, io sono un testimone a carico. Ma io vi domando, signori: quanti testimoni a carico avete? Io sono l’unico! Ora fate bene attenzione. Le cose non sono così facili come voi credete. Si comincia con l’avere un sospetto. Non si dice niente e si studia a dovere la colpevole. Per le scale si comincia a discorrere: “Un uomo brutale”». Therese, da quando il portiere aveva cominciato a guardarla in maniera così amichevole, era in preda a una terribile paura. Non riusciva a spiegarsi quel cambiamento. Avrebbe fatto qualsiasi cosa perché lui ricominciasse a ruggire. Non la precedeva col suo passo pesante, come di consueto, ma camminava al suo fianco con aria sottomessa, e quando le chiese per la seconda volta, in tono incoraggiante: «Un uomo brutale?», lei seguitò a non capire di chi stesse parlando. Di solito si capiva bene ciò che diceva il portiere. Perché il suo umore tornasse ad essere quello che le era familiare, lei disse: «Sì». Lui le diede una spinta, e mentre i suoi occhi rimanevano rivolti su di lei con aria umile e sorniona, l’incitò con tutto il proprio corpo a difendersi dalla brutalità del marito. «E a volte bisogna pur difendersi!». «Sì». «E allora è facile che capiti qualcosa». «Sì». «Basta un niente e uno è bell’e spacciato». «Spacciato, sì». «Queste sono circostanze attenuanti». «Attenuanti». «La colpa è tutta di lui». «Di lui». «S’è dimenticato di fare testamento». «Sarebbe bella!». «Non si può certo vivere d’aria». «D’aria». «Non c’è bisogno del veleno». In quello stesso istante Therese stava pensando esattamente la stessa cosa. Non disse più una parola. Avrebbe voluto dire: l’uomo interessante ha cercato di convincermi, ma io mi sono rifiutata. Si fa presto a trovarsi nei pasticci con la polizia. A questo punto si ricordò che anche il portiere era nella polizia. Lui sa tutto. Tra un momento dirà: non bisogna avvelenare la gente; perché l’ha fatto? Ma lei non sopporta una cosa simile. E’ tutta colpa dell’uomo interessante. Si chiama signor Villani ed è un modesto impiegato della ditta «Gross & madre». Prima le voleva venire in casa a mezzanotte e un quarto per non darle pace. Poi ha detto che avrebbe preso una scure e avrebbe ammazzato il marito nel sonno. Lei non s’è prestata a niente, neanche ad avvelenarlo e adesso nei pasticci ci si trova lei. E’ colpa sua se il marito è morto? Il testamento le tocca di diritto. Il patrimonio è tutto suo: lei è stata in casa vicino a lui notte e giorno, ha sgobbato per lui come una serva. Perché non si poteva certo lasciarlo solo. Basta che lei esca una volta per comprargli la stanza da letto – di mobili lui non se ne intende – ed ecco che quello sale sulla scala e cade da restarci secco. Per dispiacerle le dispiace, naturalmente. Ma forse non usa che la moglie erediti qualcosa? Di piano in piano riprendeva sempre più coraggio. Si convinse d’essere innocente. Venisse pure la polizia. Aprì la porta dell’appartamento con la precisa coscienza d’essere la padrona di tutti i valori che v’erano custoditi. Il portiere prese scrupolosamente nota dell’espressione distesa che lei aveva assunto tutt’a un tratto. Con lui manovre simili servivano ben poco. Ormai aveva confessato. Pregustò il momento del confronto tra vittima e assassina. Lei lo fece passare per primo. Lui ringraziò ammiccando furbescamente e non la perdette d’occhio un istante. Quando fu sulla soglia dello studio gli bastò un’occhiata per avere un’idea ben precisa della situazione. La scala l’ha posata sul cadavere in un secondo tempo. Lui non si lascia metter nel sacco da un trucco del genere. E’ pratico di queste cose. «Signori, m’avvicino al luogo del delitto, mi rivolgo all’assassina e le dico: “Mi aiuti a sollevare la scala!”. Ora, loro certo non crederanno che io non sia in grado di sollevare una scala da solo» e qui mette in mostra i suoi muscoli – «ma ho voluto constatare che faccia avrebbe fatto l’imputata. La faccia è la cosa principale. E’ quella che rivela ogni cosa. La gente fa certe facce!». Prima ancora d’aver finito questo discorso s’accorse che la scala si muoveva. Rimase interdetto. Per un istante gli dispiacque che il professore fosse ancora vivo. Le ultime parole della vittima minacciavano di togliere al supertestimone gran parte del suo lustro. S’avvicinò alla scala in atteggiamento formale e la sollevò con una mano sola. Kien stava tornando in sé e si torceva per il dolore. Tentò d’alzarsi ma non vi riuscì. «Sarebbe questo il morto?», ruggì il portiere, tornato quello di sempre, e l’aiutò a rimettersi in piedi. Therese non credeva ai propri occhi. Solo quando Kien le stette davanti tutto accasciato ma pur sempre più alto del suo sostegno, e con voce fioca disse: «Maledetta scala!», lei si rese conto che era ancora vivo. «Questa è un’indecenza», gridò con voce stridula. «Cose simili non si fanno! Una persona a posto non fa così. Ma scusa! Si potrebbe quasi credere…». «Silenzio, strega!», urlò il portiere troncando la sua delirante protesta. «Va’ a chiamare il dottore. Intanto io lo metto a letto!». Si caricò il magro professore sulle spalle e lo portò nell’anticamera, dove tra gli altri mobili c’era anche il letto. Mentre lo svestiva Kien ripeteva senza posa: «Non sono svenuto, non sono svenuto». Non poteva rassegnarsi all’idea di aver perduto i sensi, sia pure per poco. «Ma dove sono i muscoli fra tutte queste ossa?», si domandò il portiere e scosse il capo. La pietà per quel povero scheletro gli fece dimenticare il suo orgoglioso sogno tribunalesco. Therese nel frattempo era andata a chiamare il medico. Per la strada a poco a poco si calmò. Tre stanze erano pur sempre sue, di questo aveva una dichiarazione scritta. Solo ogni tanto ripeteva singhiozzando tra sé: «Son cose da farsi queste, esser vivi quando si è già morti, son cose da farsi?».

La malattia Dopo la sua rovinosa caduta Kien dovette rimanere a letto per sei buone settimane. Al termine di una delle sue visite il medico prese da parte la moglie e dichiarò: «Dipende dalle sue cure se suo marito resterà in vita oppure no. Io non posso dire ancora nulla di definitivo. Non sono ancora riuscito a veder chiaro in questo caso, che è davvero molto strano. Perché non m’ha chiamato prima? Non bisogna scherzare con la salute». «Mio marito ha sempre avuto quella cera», replicò Therese. «A lui non capita mai niente. Ormai lo conosco da più di otto anni. Che fine farebbero i medici se nessuno fosse mai malato?». Il medico si contentò di questa osservazione. Sapeva che il suo paziente era in buone mani. A letto Kien non si sentiva affatto a proprio agio. Le porte erano state chiuse di nuovo contro la sua volontà, restava aperta solo quella della stanza accanto, in cui ora dormiva Therese. Gli sarebbe piaciuto sapere che cosa accadeva nel resto della biblioteca. All’inizio era troppo debole per mettersi a sedere: più avanti, malgrado le fitte lancinanti, riuscì a sollevarsi tanto da scorgere una parte della parete di fronte della stanza accanto. Pareva che là non vi fossero stati molti cambiamenti. Una volta s’avventurò fuori dal letto e arrivò barcollando fino alla soglia. Pieno di gioiosa impazienza batté la testa contro la cornice della porta prima ancora di riuscire a lanciare un’occhiata nell’altra stanza. Stramazzò al suolo e perdette i sensi. Ben presto venne scoperto da Therese, che lo lasciò là due ore per punirlo della sua disobbedienza, e infine lo trascinò fino al letto, ve l’issò sopra e gli legò le gambe con una robusta corda. Lei, in fondo, era più che soddisfatta della vita che conduceva ora. La nuova stanza da letto faceva la sua figura. Il ricordo dell’uomo interessante le ispirava per essa una certa tenerezza e le rendeva gradito il trattenervisi. Aveva chiuso a chiave le altre due stanze e custodiva le chiavi in una tasca segreta che s’era cucita appositamente nell’interno della gonna, in modo da portarsi sempre appresso almeno una parte della sua proprietà. Dal marito entrava ogni volta che ne aveva voglia: doveva pur curarlo, ne aveva il diritto. E lo curava sul serio; lo curò per giorni e giorni seguendo le prescrizioni di quel medico accorto e fiducioso. Nel frattempo aveva perquisito anche l’interno dello scrittoio senza trovare alcun testamento. Ascoltando il marito in preda al delirio ebbe notizia di un fratello. Per il fatto di non averne saputo nulla fino a quel momento, Therese fu tanto più sicura dell’insidiosa esistenza di costui. Quel fratello viveva soltanto per defraudarla quando si fosse trattato di raccogliere, tra breve, la sudata eredità. Nella febbre il consorte s’era tradito. Lei non dimenticava che lui era ancora in vita pur essendo in realtà già morto una volta, e tuttavia l’aveva perdonato perché lui era là per stilare un testamento che prima mancava. In qualunque punto della casa lei fosse, era sempre accanto a lui. Infatti parlava tutto il giorno a voce tanto alta che lui non poteva non sentirla. Lui era debole, e, – così gli aveva consigliato il medico – non doveva aprir bocca. Così non la poteva disturbare quando lei aveva qualcosa da dire. La sua parlata si perfezionò nel giro di poche settimane. Diceva ogni cosa che le passasse per la testa; arricchì il proprio vocabolario di espressioni che prima le era sì capitato di pensare, ma che non aveva mai pronunciato. Taceva solo ciò che aveva una qualche attinenza con la morte di lui. Al delitto compiuto dal marito accennava in termini generici. «Certi mariti non meritano che la moglie faccia tanti sacrifici per curarli. Una moglie fa qualsiasi cosa per suo marito; ma il marito che cosa fa per sua moglie? Il marito si comporta come se al mondo non ci fosse che lui. Ma la moglie si oppone, e ricorda al marito qual è il suo dovere. Uno sbaglio si può riparare. Quel che non si è fatto si può fare. Allo stato civile tutt’e due le parti dovrebbero far testamento, in modo che uno non debba patire la fame se l’altro muore. Morire si deve tutti: è la vita. Secondo me ogni cosa dev’essere al suo posto. Figli, con me, non ce ne sono, però ci sono io. Anch’io sono un essere umano. Non si vive di solo amore. Dopo tutto marito e moglie sono legati l’uno all’altra. La moglie però non serba rancore al marito. La moglie non ha un momento di pace, deve tenere gli occhi sempre aperti per vedere che cosa combina il marito. Potrebbe svenirmi un’altra volta, e il pensiero ce l’ho io». Una volta finito ricominciava da capo. Ripeteva le stesse cose dozzine di volte ogni giorno. Lui ormai conosceva a memoria il suo discorso, parola per parola. A seconda delle pause che lei faceva tra una frase e l’altra avrebbe potuto dire in anticipo se sarebbe stata preferita questa o quella variante. La sua litania gli cacciava dalla testa ogni altro pensiero. Le orecchie, che al principio aveva cercato di spingere a compiere movimenti di difesa, s’abituarono ad eseguire a tempo una successione di vani sussulti. Fiacco e spossato com’era, non riusciva a sollevare le dita fino all’orecchio che avrebbero dovuto tappare. Una notte gli crebbero improvvisamente sulle orecchie un paio di palpebre che poteva aprire e chiudere a piacere, come quelle degli occhi. Le provò cento volte e rise. Funzionavano alla perfezione, l’isolavano acusticamente, crescevano al momento opportuno ed erano subito complete. Per la gioia se le pizzicò. A questo punto riaprì gli occhi, le palpebre delle orecchie erano diventate due comuni lobi, aveva sognato. Che ingiustizia, pensò lui, la bocca posso chiuderla quando voglio, serrarla quanto voglio e, in fondo, che significa una bocca? Serve solo per mangiare, eppure è così ben protetta; le orecchie, invece, le orecchie sono esposte all’assalto di qualsiasi rumore! Quando Therese s’avvicinava al suo letto, lui fingeva di dormire. Se era di buon umore lei diceva piano: «Dorme». Se era di cattivo umore esclamava ad alta voce: «Vergogna!». Lei stessa non riusciva ad esercitare alcuna influenza sullo stato del proprio umore, che dipendeva dal punto del monologo a cui era giunta in quel momento. Non viveva che per quel suo discorso. Diceva: «Uno sbaglio si può riparare», e sogghignava. Non importa se colui che dovrà riparare lo sbaglio sta dormendo, lei lo curerà finché sarà guarito e ciò che non si è fatto, si farà. Dopo, lui può anche morire un’altra volta. Se però era arrivata giusto al punto in cui il marito si comportava «come se al mondo non ci fosse che lui», allora il suo sonno l’irritava ancora di più, e per dimostrargli che anche lei era un essere umano lo svegliava con il suo: «Vergogna!». Lo tormentava ogni ora per sapere a quanto ammontavano i suoi depositi, e se tutto il denaro si trovava nella stessa banca. Non era bene tenerlo tutto nella stessa banca. Lei era d’accordo che si tenesse una parte del denaro qua e una parte là. Il sospetto di Kien che lei avesse preso di mira i libri, s’era molto affievolito dal giorno dell’infortunio, al quale egli pensava assai malvolentieri. Capiva bene che cosa la moglie volesse da lui: un testamento, e precisamente un testamento in cui lui prendesse disposizioni solo a proposito del denaro. Proprio per questo lei gli rimaneva del tutto incomprensibile, nonostante la conoscesse alla perfezione, dalla prima all’ultima delle sue parole. Aveva sedici anni più di lui, secondo ogni possibile previsione sarebbe morta molto prima di lui. Che valore poteva avere del denaro di cui una cosa sola si poteva affermare con certezza, e cioè che lei non ne sarebbe mai entrata in possesso? Se lei, cosa altrettanto priva di senso, avesse allungato le mani sui libri, avrebbe potuto, nonostante la loro naturale inimicizia, essere sicura della sua comprensione. Ma quell’ossessivo, eterno interessarsi al denaro rappresentava per lui un vero enigma. Il denaro era la cosa più impersonale, più priva di importanza e di carattere che egli potesse immaginare. Bastava pensare con quanta facilità, senza merito né sforzo, l’aveva ereditato lui. Qualche volta la sua brama di sapere finiva col sopraffarlo e lo spingeva ad aprire gli occhi appena li aveva chiusi all’udire i passi della moglie. Sperava di scorgere in lei un qualche cambiamento, un gesto che ancora non conosceva, uno sguardo nuovo, un verso spontaneo che gli rivelasse perché lei parlava sempre di testamenti e di denaro. Si sentiva più a suo agio quando poteva collocarla là dove trovava posto tutto ciò per cui, nonostante la sua cultura e la sua intelligenza, lui non riusciva a trovare una spiegazione. Dei pazzi aveva un’idea semplice ed elementare: li definiva persone che fanno le cose più contraddittorie ma che usano le stesse parole per tutte le cose. Secondo questa definizione Therese – al contrario di lui era decisamente pazza. Il portiere, che veniva ogni giorno a far visita al professore, era di opinione diversa. Dalla donna non poteva certo aspettarsi nulla. Cominciarono a destarsi in lui non pochi timori sulla sorte del suo compenso mensile. Finché il professore restava in vita, poteva contare su quel ghiotto boccone. Ma con una donna c’era forse da fidarsi? Rivoluzionò il corso normale della sua giornata e cominciò a trascorrere un’ora al giorno al capezzale del professore per controllare personalmente la situazione. Therese lo faceva entrare in silenzio e, trovandolo insopportabilmente volgare, abbandonava subito la stanza. Prima di sedersi lui fissava con scherno la sedia. Poi i casi erano due, o diceva: «Io su una sedia!», oppure tastava la spalliera con gesto compassionevole. Finché vi stava seduto la sedia traballava e scricchiolava come una nave prossima ad affondare. Il portiere aveva dimenticato come si sta seduti. Davanti al suo spioncino stava in ginocchio; quando menava le mani stava in piedi; quando dormiva stava sdraiato. Non gli restava tempo per sedersi. Se per caso la sedia stava qualche minuto silenziosa lui cominciava a sentirsi inquieto e lanciava uno sguardo preoccupato alle sue gambe. No, non si erano indebolite, avevano ancora un ottimo aspetto. Soltanto quando ricominciavano a farsi sentire, lui riprendeva il discorso che aveva interrotto. «Le donne bisognerebbe ammazzarle tutte quante sono. Io le conosco, le donne. Adesso ho cinquantanove anni. Sono stato sposato ventitré anni, quasi la metà della mia vita. Sempre con mia moglie. Le conosco, le donne. Sono tutte canaglie. Faccia un po’ il conto degli avvelenamenti, professore, lei ha i libri, le ci vuol poco a vedere come stanno le cose. Le donne sono vigliacche. Io lo so. Se uno mi dice qualcosa, io gli allungo un ceffone che non se lo scorda più. Lurido miserabile, gli dico, come ti permetti? Ora prenda un po’ una donna. Quella se la batte subito, ci scommetto i miei pugni, guardi un po’ qua, un bel paio di pugni, no? A una donna posso dire quel che voglio, e lei non si muove. E perché non si muove? Perché ha una paura maledetta. E perché ha una paura maledetta? Perché è vigliacca. Ne ho bastonate io, di donne, avrebbe dovuto vedere lei! Mia moglie, quella non c’era pericolo che non fosse coperta di lividi. Mia figlia buonanima, a lei volevo bene sul serio, quella sì che era una donna, come si dice: con lei ho cominciato quand’era ancora una bimbetta. “Senti”, dico a mia moglie – quella non poteva fare a meno di strillare appena le toccavo la piccola – “quando si sposa finisce nelle mani di un uomo. Adesso è giovane, e così impara per tempo come vanno le cose. Sennò poi gli scappa via subito. Io non la do in moglie a uno che non picchia. A un uomo simile io ci sputo addosso. Un uomo deve saper menare le mani. Io sono per i pugni“. Ora mi dica un po’, crede che sia servito a qualcosa parlare così? Manco per sogno! La vecchia si metteva davanti a sua figlia e io potevo batterle tutte e due. Perché una donna con me non ci deve metter bocca. Non con me. Avrà sentito pure lei come strillavano tutte e due. Gli inquilini erano ancora in piedi e venivano a origliare. In questa casa mi rispettano tutti. Se voi la smettete la smetto anch’io, dicevo. Allora se ne stavano là senza muoversi più. Poi facevo una prova per vedere se strillavano di nuovo. Zitte zitte dovevano stare. Con la destra calavo un altro paio di colpi: non posso certo smettere di punto in bianco. Altrimenti perdo l’esercizio. Lo dico sempre io: picchiare è un’arte. E’ una cosa che s’impara un po’ alla volta. C’è un mio collega che colpisce subito allo stomaco. L’altro crolla e non sente più niente. Già, e adesso posso menar botte finché mi pare, dice il mio collega. Già, dico io, ma che gusto ci trovo se quello non sente niente? Uno, quand’è svenuto, io non lo picchio perché tanto non sente niente. In vita mia ho fatto sempre così. Io dico che uno deve imparare a picchiare in modo che l’altro non perda mai i sensi. Svenimenti non ce ne devono essere. Questo sì che è picchiare. Di ammazzare a furia di botte son capaci tutti. Bella fatica: basta che io le faccia così e il suo cranio è bell’e andato. Non ci crede? Non lo dico per vantarmi. Dico che son capaci tutti. Guardi, professore, può farlo anche lei. Non dico adesso che è in punto di morte…». Kien vedeva quei pugni crescere a dismisura fra tante imprese eroiche che avevano compiuto. Erano più grandi dell’uomo al quale appartenevano. Ben presto riempivano tutta la stanza. I peli rossi crescevano in proporzione, giungendo a spolverare energicamente i libri. Il pugno entrava nella stanza accanto e soffocava Therese nel letto dove lei tutt’a un tratto si trovava distesa. Poi colpiva la gonna che cadeva in pezzi con enorme fragore. Com’è bella la vita! esclamava Kien con voce squillante. Quanto a lui, era tanto magro ed esile che non aveva nulla da temere. Per precauzione occupava ancora meno spazio del solito. Era piatto come il lenzuolo. Nessun pugno al mondo avrebbe potuto fargli nulla. Quell’essere fedele e ben piantato compiva il suo dovere molto alla svelta. Sedeva là da appena un quarto d’ora e già Therese non esisteva più. Niente poteva resistere a tanta forza. Solo che poi si dimenticava d’andarsene e se ne stava seduto là, senza uno scopo apparente, per altri tre quarti d’ora. Ai libri non faceva nulla, ma a poco a poco Kien cominciò a provare un certo disagio davanti a lui. Un pugno non deve parlare tanto, altrimenti ci si accorge che non ha nulla da dire. Deve solo menar colpi. Una volta fatto questo se ne deve andare o almeno tacere. Ma quello non si curava gran che dei nervi e dei desideri di un ammalato, e si dilungava con enfasi su quello che era il suo unico argomento. All’inizio mostrava, è vero, qualche riguardo, e per far piacere a Kien parlava diffusamente di quel branco di canaglie che sono le donne. Però, ahimè, una volta esaurito l’argomento donne non restava che un unico tema di conversazione: il pugno in sé. Esso dunque era ancora pieno di vigore come ai bei tempi, benché avesse ormai raggiunto l’età in cui ci si abbandona volentieri a particolareggiati ricordi. Così, del pugno, Kien venne a conoscere tutta la gloriosa storia. Non poteva tenere gli occhi chiusi perché altrimenti esso l’avrebbe ridotto in poltiglia. Nemmeno le palpebre alle orecchie gli sarebbero servite in questo caso. Contro simili ruggiti nessuna protezione sarebbe stata sufficiente. Quando era trascorso metà del tempo destinato alla visita Kien cominciava a lamentarsi di antichi dolori solo apparentemente dimenticati. Già da bambino non si reggeva bene sulle gambe. A dire il vero, non aveva mai imparato a camminare a dovere. Durante le lezioni di ginnastica cadeva regolarmente dall’asse di equilibrio e, nonostante le sue lunghe gambe, in tutta la classe era quello che correva peggio. Gli insegnanti giudicavano innaturale il suo scarso rendimento fisico. In tutte le altre materie, grazie alla sua memoria di ferro, era il primo: ma a che gli serviva? A causa della sua ridicola figura, in fondo nessuno lo rispettava. Non si contavano gli sgambetti che gli venivano fatti e nei quali lui coscienziosamente incappava. D’inverno l’utilizzavano come fantoccio di neve. Lo gettavano nella neve e ve lo rotolavano finché il suo corpo non aveva assunto dimensioni normali. Quelle erano le sue cadute più fredde, ma anche le più morbide. Il ricordo di esse gli s’accavallava nella mente. Tutta la sua vita era stata una catena ininterrotta di cadute. Lui le aveva dimenticate, i propri dolori non lo facevano soffrire. Provava un senso d’oppressione e di disperazione solo quando vedeva svolgerglisi davanti agli occhi un elenco che, di solito, manteneva gelosamente segreto. Era l’elenco dei libri innocenti che lui aveva fatto cadere, il libro nero dei suoi veri peccati, un protocollo redatto con grande precisione in cui erano registrati ora e giorno esatti delle singole cadute. Allora egli si vedeva davanti gli angeli tubicini del giudizio universale, dodici portinai come il suo, con gote gonfie e braccia muscolose. Il contenuto dell’elenco fuoriusciva dalle loro tube esplodendogli negli orecchi. Pur nella sua angoscia non poteva fare a meno di ridere pensando ai poveri angeli del Giudizio michelangiolesco, che se ne stavano timidamente accovacciati in un angolo tenendosi la tuba nascosta dietro la schiena. Davanti a pezzi d’uomini come quei portinai non potevano che cedere umiliati le loro lunghe armi. Nella lista dei libri caduti figurava sotto il numero trentanove un grosso volume antico dal titolo: Armamento e tattica dei lanzichenecchi. Esso era appena rotolato con gran fracasso giù dalla scaletta che i portinai tubicini s’erano già trasformati in lanzichenecchi. Un immenso entusiasmo s’impadronì di Kien: il portiere era un lanzichenecco, che altro poteva mai essere? La figura tarchiata, la voce tonante, la fedeltà comprata a peso d’oro, la temerità che non arretrava davanti a nulla, nemmeno davanti alle donne, la millanteria e il continuo inconcludente sbraitare: un perfetto lanzichenecco. Da quel momento il pugno non gli fece più paura. Gli sedeva davanti un ben noto personaggio storico, e lui sapeva che cosa esso avrebbe fatto e che cosa non avrebbe fatto. Beninteso, la sua stupidità era tale da far rizzare i capelli: si comportava appunto come si addice a un lanzichenecco. Quel poveraccio, nato in ritardo, era venuto al mondo come un lanzichenecco soltanto nel ventesimo secolo e se ne stava rintanato tutto il giorno in quel suo buco oscuro, senza un libro, solo come un cane, esiliato dal secolo che era il suo e sbalestrato in un altro per il quale sarebbe sempre rimasto un estraneo. Collocato nell’innocua lontananza dell’inizio del Xvi secolo, il portiere si riduceva a niente, facesse pure il gradasso quanto voleva. Per dominare un uomo basta inquadrarlo storicamente. Alle undici in punto il lanzichenecco s’alzava. Quanto alla puntualità, lui e il professore erano due corpi e un’anima sola. Ripeteva gli atti che aveva compiuto al suo arrivo: riservava alla sedia un’occhiata compassionevole. «E’ ancora intera», assicurava e per dimostrarlo batteva la mano destra sul fondo della sedia che subiva pazientemente anche questo. «Per oggi non devo pagare niente!», aggiungeva, e scoppiava in una risata fragorosa all’idea di dover pagare qualcosa al professore per una sedia che gli si fosse rotta sotto. «Lasci pur tranquilla la mano, professore! Con uno come me non ne resterebbe neanche l’odore. Stia bene. E non faccia niente alla moglie. Quella vecchia gallina io non la posso mandar giù». Lanciava un’occhiata bellicosa nella stanza accanto, pur sapendo che lei non c’era. «Io sono per le giovani. Guardi un po’ la mia figliola buonanima, lei sì che era quella che ci voleva per me! Perché no? Perché è mia figlia? E’ giovane, è femmina e io con lei ci posso fare quel che voglio perché sono suo padre. Adesso è morta anche lei. E quella gallina tigliosa è ancora viva». Lasciava la stanza scuotendo la testa. Mai e in nessun luogo l’ingiustizia del mondo gli saltava agli occhi come quand’era al capezzale del professore. Quando stava di vedetta nel suo sgabuzzino non aveva tempo di meditare. Non appena saliva dal suo sarcofago nelle alte stanze di Kien pensieri di morte s’impadronivano di lui. Ripensava a sua figlia, si vedeva già davanti il professore morto, i suoi pugni erano disoccupati e lui si sentiva troppo poco temuto. Quando s’accomiatava, Kien lo trovava ridicolo. Il costume gli stava a pennello, ma ormai i tempi erano cambiati. Gli rincresceva che non sempre fosse possibile applicare il suo metodo storico. A Therese non c’era verso di trovare un posto adatto in tutta la storia dei popoli civili e incivili da lui conosciuti. Questa visita seguiva ogni giorno la medesima prassi. Kien era troppo intelligente per abbreviarla. Prima che Therese fosse stata accoppata, finché cioè il pugno aveva un bersaglio utile e giusto, lui non aveva nulla da temere. Prima che la paura fosse divenuta così forte da far riaffiorare alla sua memoria l’elenco segreto dei suoi dolori, lui non pensava ai lanzichenecchi, e il portiere non era ancora uno di loro. Quando alle dieci l’uomo entrava dalla porta Kien si diceva pieno di gioia: un uomo pericoloso, la farà a pezzi. Ogni giorno gioiva al pensiero della fine di Therese e dentro di sé esaltava la vita, che conosceva abbastanza anche prima senza per questo sentirsi indotto ad esaltarla. Non si risparmiava né il giudizio universale, né il casuale disprezzo degli angeli della Cappella Sistina, del quale anzi era stata presa accuratamente nota e al quale egli si dedicava ogni giorno come a un compito inderogabile. Forse riusciva a sopportare la desolazione, la durezza e l’oppressione di quelle lunghe settimane, ch’era obbligato a trascorrere sotto il segno di sua moglie, solo perché una quotidiana scoperta gli infondeva forza e coraggio. Nella sua vita di studioso le scoperte rappresentavano eventi grandi e essenziali. Ora doveva trascorrere il suo tempo a letto, in ozio, lontano dal lavoro: così si costringeva a scoprire ogni giorno che cosa fosse il portiere: un lanzichenecco. Aveva bisogno di lui più che d’un boccone di pane, di quel pane che mangiava in quantità tanto scarsa. Ne aveva bisogno come d’un boccone di lavoro. Durante le visite Therese era occupata. Soltanto perché aveva bisogno di tempo libero permetteva che entrasse in casa sua il portiere, quell’uomo volgare, i cui discorsi lei aveva ascoltato di nascosto già la prima volta. Lei stava facendo un inventario della biblioteca. Il fatto che quel giorno il marito avesse girato i libri le dava da pensare. Inoltre le faceva paura la comparsa di quel nuovo fratello che magari si sarebbe portato via i pezzi di maggior valore. Per sapere che cosa vi fosse in biblioteca, per impedire che la truffassero, un giorno cominciò il suo importante lavoro nella sala da pranzo, mentre nell’altra stanza il portiere imprecava contro le donne al capezzale del malato. Tagliò il sottile bordo bianco di alcuni vecchi giornali e armata di quei ritagli s’avvicinò ai libri. Ne prendeva uno in mano, leggeva il nome, lo pronunciava a voce alta e lo scriveva su una delle lunghe strisce di carta. Ad ogni lettera ripeteva tutto il nome, per non dimenticarselo. Quanto più numerose erano le lettere, quanto più spesso le capitava di pronunziare la parola tanto più stranamente essa si trasformava in bocca di lei. Le consonanti dolci al principio di un nome, B, D o G, si facevano più e più dure. Lei aveva una predilezione per tutto quanto era duro, le costava fatica evitare di lacerare con la sua durissima matita la carta da giornale. Le sue dita tozze non riuscivano a tracciare che lettere enormi. I lunghi titoli delle opere scientifiche l’indispettivano perché non bastavano per essi tutto lo spazio da un margine all’altro. Ogni libro una riga: aveva deciso così perché fosse più facile fare la somma di strisce così concepite e perché il lavoro compiuto avesse un aspetto migliore. Una volta giunta alla fine della riga non esitava a troncare il nome a metà mandando al diavolo il resto, che a lei non serviva. La sua lettera preferita era la O. nello scrivere la O le era rimasta una certa perizia ancora dal tempo di scuola. La O dovete chiuderla sempre per bene come fa la Therese, diceva sempre la maestra. La Therese fa le migliori O della classe. Poi era stata bocciata tre volte, ma non era colpa sua. Era colpa della maestra che non la poteva soffrire perché Therese aveva finito per fare delle O più belle delle sue. Tutti si facevano fare le O da lei, e delle O della maestra nessuno ne voleva mai sapere. Per questo le O le riuscivano piccole a volontà. Questi tondi ben fatti, regolari, annegavano in mezzo a vicini tre volte più grandi di loro. Se un titolo conteneva molte O, per prima cosa lei contava quante erano, poi le scriveva tutte alla svelta in fondo alla riga e utilizzava lo spazio rimasto al principio per scrivere il titolo, che mutilava convenientemente. Sotto le strisce finite tracciava una linea, faceva la somma dei libri, se l’imprimeva bene in mente – per i numeri aveva una buona memoria – e la riportava soltanto quando il risultato, anche dopo aver rifatto tre volte il conto, restava sempre lo stesso. Col passare delle settimane le sue lettere diventarono sempre più piccole e i tondi anche. Quando aveva finito di riempire dieci strisce le cuciva per bene una all’altra e le nascondeva un’ulteriore porzione faticosamente guadagnata, del proprio patrimonio: l’inventario di ben seicentotré libri – assieme alle chiavi nella nuova tasca della sottana. Dopo circa tre settimane s’imbatté nel nome Budda, che dovette scrivere un’infinità di volte. La dolcezza di quei suoni l’affascinò. Così si sarebbe dovuto chiamare il suo uomo interessante, non signor Villani. In cima alla scaletta chiuse gli occhi e sussurrò a fior di labbra, con tutta la dolcezza di cui era capace: «Signor Puda». Così da Puta, come il nome aveva suonato all’inizio in bocca sua, uscì un «signor Puda». Le sembrava che lui la conoscesse ed era fiera di lui perché i suoi libri non finivano mai. Lui sapeva parlare tanto bene, e ora aveva scritto ogni cosa. Le sarebbe piaciuto dare una scorsa a quei libri. Ma aveva forse il tempo di farlo? La presenza di lui la spronò a fare in fretta. Si rese conto che procedeva troppo lentamente: un’ora al giorno non bastava, e lei decise di sacrificare il sonno. Passava notti insonni a leggere e a scrivere in cima alla scala. Dimenticò che una persona per bene va a letto alle nove. Nel corso della quarta settimana terminò la sala da pranzo. Il suo successo le fece prendere gusto alla vita notturna: si sentiva bene solo quando poteva sprecare la luce. Il suo comportamento nei confronti di Kien divenne più sicuro. Le vecchie frasi presero un accento diverso. Parlava magari più lentamente di prima, ma con enfasi e non senza una certa dignità. Le tre stanze gliele aveva cedute lui spontaneamente, ma i libri se li era guadagnati. Quando iniziò il lavoro nella propria stanza da letto l’ultimo resto di paura era ormai vinto. Saliva sulla scala in pieno giorno il marito giaceva, sveglio, nella stanza accanto – prendeva una striscia e compiva il suo dovere nei confronti dei libri. Serrava i denti per restare in silenzio: ora non aveva tempo per parlare, doveva concentrarsi altrimenti sbagliava un titolo e doveva ricominciare tutto da capo. Il testamento, la cosa principale, non lo dimenticava di certo, e continuava come prima a curare il marito con sollecitudine e abnegazione. Quando c’era il portiere interrompeva la sua attività e andava in cucina. Quel chiacchierone avrebbe senz’altro disturbato il suo lavoro. Nella sesta e ultima settimana di degenza Kien cominciò a respirare un po’ più liberamente. Le sue sicure previsioni non s’avveravano più: la moglie s’interrompeva all’improvviso nel bel mezzo del discorso e taceva. Ormai, a fare il conto, parlava soltanto per metà della giornata. Diceva, come sempre, le stesse cose; ciononostante lui era preparato a qualche sorpresa e aspettava con il cuore in tumulto il grande avvenimento. Non appena lei cessava di parlare lui chiudeva gli occhi felice e s’addormentava per davvero.

Giovane amore Nel momento stesso in cui il dottore disse: «Domani si può alzare», Kien si sentì guarito. Però non saltò subito giù dal letto. Era sera, voleva cominciare la sua vita di uomo sano secondo le regole e a partire dalle sei del mattino. Cominciò il giorno dopo. Erano anni che non si sentiva così giovane e pieno d’energie. Mentre si lavava, tutt’a un tratto gli parve d’avere dei muscoli. Il forzato riposo gli aveva fatto bene. Chiuse la porta della stanza accanto e sedette dritto come un palo allo scrittoio. Le sue carte erano state messe sossopra, cautamente, ma non tanto da impedirgli di accorgersene. Fu contento di doverle riordinare, il contatto dei manoscritti gli faceva piacere. Aveva davanti a sé un’infinità di lavoro. Là sua moglie aveva cercato il testamento quando, subito dopo la caduta, la febbre gli aveva fatto perdere i sensi. Fra gli stati d’animo che si erano alternati in lui durante la malattia, un proposito era rimasto sempre immutato: non fare in nessun caso testamento, posto che lei ci teneva tanto. Decise, non appena l’avesse vista, d’investirla duramente, di ricacciarla, con prontezza ed efficacia, entro i suoi antichi limiti. Lei gli portò la colazione e avrebbe voluto dire: «La porta resta aperta». Dato però che aveva preparato un piano d’azione all’insegna del sorriso per la conquista del testamento, e dato che non sapeva ancora di che umore egli fosse da quando aveva lasciato il letto, si trattenne per non irritarlo prematuramente. Si limitò a chinarsi e ad infilare un pezzetto di legno sotto la porta perché non potesse venire senz’altro richiusa. Era di umore conciliante e disposta a spuntarla ricorrendo a vie traverse. Lui s’alzò di scatto, le piantò arditamente gli occhi in faccia e dichiarò con voce tagliente:

«Tra i miei manoscritti regna una confusione indescrivibile. Mi domando come la chiave sia potuta finire nelle mani sbagliate. L’ho ritrovata nella tasca sinistra dei pantaloni. Con rincrescimento mi vedo costretto a supporre che qualcuno l’abbia indebitamente tolta di là e ne abbia fatto un uso illecito rimettendola infine al suo posto». «Sarebbe bella…». «Lo chiedo per la prima e l’ultima volta: chi ha frugato nella mia scrivania?». «Si direbbe che…». «Voglio saperlo!». «Ho forse rubato qualcosa?». «Esigo una spiegazione!». «Potrebbe darla chiunque». «Che significa ciò?». «E’ la vita». «Che vita?». «Il tempo viene per chi lo sa aspettare». «Lo scrittoio…». «Lo dico sempre io». «Che cosa?». «L’umore di uno dipende dal letto». «Questo non m’interessa». «Lui ha detto che i letti sono buoni». «Quali letti?». «I letti matrimoniali fan bella figura». «I letti matrimoniali!». «Così li chiamano». «Io non faccio vita matrimoniale!». «Mi sono forse sposata per amore?». «Io ho bisogno di quiete!». «Una persona per bene va a letto alle…». «In futuro questa porta rimarrà chiusa». «L’uomo propone e Dio dispone». «Questa malattia m’ha fatto perdere sei settimane». «Una moglie si sacrifica giorno e notte». «Così non si va avanti». «E cosa fa il marito per sua moglie?». «Il mio tempo è prezioso». «Allo stato civile tutt’e due le parti dovrebbero…». «Io non faccio testamento». «Chi pensa al veleno?». «Un uomo di quarant’anni…». «La moglie ne dimostra trenta». «Cinquantasette». «Nessuno me l’ha mai detto». «Si può leggere sul certificato di nascita». «Di leggere son capaci tutti». «Ah sì?». «Una moglie se lo fa mettere nero su bianco. Sennò che gusto c’è? Tre stanze appartengono alla moglie, una al marito: questo è stato

messo per iscritto. La moglie fa entrare il marito e poi finisce che si trova sul lastrico. Perché è stata così stupida? Metter tutto per iscritto è la cosa migliore. A voce son capaci tutti. Quando meno te l’aspetti il marito sviene. Non si sa neppure qual è la banca. Una moglie deve sapere qual è la banca. Senza banca lei dice: niente. Parlo forse male? A che serve il marito se la moglie non sa la banca? Il marito non dice la banca. Che razza di marito è quello che non dice la banca? Quello non è un marito. Un marito dice la banca!». «Fuori!». «D’andarsene fuori son capaci tutti. A una moglie cosa gliene viene? Un marito fa testamento. Una moglie non può mai sapere. Il marito non deve comportarsi come se al mondo ci fosse solo lui. C’è anche la moglie. Per la strada tutti gli uomini mi guardano. In una donna quel che conta è un bel paio di fianchi. “Fuori!” non si dice. La stanza resta aperta. Le chiavi le ho io. Il marito cominci a procurarsi le chiavi, e poi chiuda quanto vuole. Può cercarle, le chiavi. Le chiavi stanno qui». E si batte la mano sulla gonna. «Fin qui il marito non allunga le mani. Vorrebbe, lui, ma non lo permetto io». «Fuori!». «Prima la moglie salva la vita al marito e poi può pure andarsene fuori. Il marito era bell’e morto. Chi è andato a chiamare il portiere? Forse il marito? Lui stava sotto la scala. Sentiamo, perché non è andato lui a chiamare il portiere? Il fatto è che non si poteva muovere. Prima era morto e adesso non vuol lasciare un soldo alla moglie. Questo fratello saltato fuori all’improvviso non ne avrebbe saputo niente. La banca deve farsi viva. Una donna vuole risposarsi. Ho forse avuto qualcosa da mio marito? In men che non si dica mi ritrovo a quarant’anni e gli uomini non mi guardano più. Anche una donna è un essere umano. Anche una donna ha un cuore!». Dalle grida era passata ai singhiozzi. A sentire la sua voce pareva che questo cuore, che anche una donna ha, si fosse spezzato. Stava là appoggiata allo stipite dando al corpo tutto intero quell’inclinazione che di solito riservava soltanto alla testa, e offriva uno spettacolo veramente pietoso. Era ben decisa a non cedere il passo e s’aspettava che lui le mettesse le mani addosso. Teneva la mano sopra la gonna, a mo’ di protezione, proprio nel punto dove nonostante la sua rigidezza essa mostrava il rigonfiamento delle chiavi e dell’inventario dei libri. Appena fu ben sicura della sua proprietà, ripeté: «Un cuore! Un cuore!», e si mise di nuovo a singhiozzare, questa volta colpita dalla bellezza e dalla singolarità di quella parola. A Kien cadde dagli occhi l’odiosa benda del testamento. La vide, povera e indifesa, mendicare un po’ d’amore, tutta dedita al suo tentativo di seduzione: non l’aveva mai vista così. L’aveva sposata per i libri, ma lei amava lui. Quel suo singhiozzare lo riempì di sgomento. La lascerò sola, pensò, da sola si calmerà più facilmente. Abbandonò in tutta fretta la stanza, l’appartamento e la casa. Le commoventi cure riservate ai Pantaloni del signor von Bredow erano quindi dirette a lui, non al libro. Lei s’era sdraiata sul divano solo per amor suo. Le donne hanno un’acuta sensibilità per lo stato d’animo dell’uomo amato. Lei s’era accorta del suo imbarazzo. Quando avevano lasciato insieme lo stato civile, gli aveva letto in fronte, come in un libro aperto, i suoi pensieri. Voleva venirgli in aiuto. Quando le donne amano rinunciano alla loro forza di carattere. Lei voleva dirgli: vieni! ma s’era vergognata, e invece di rivolgergli un invito, aveva gettato i libri sul pavimento. Tradotto in parole, ciò significava: non m’importa dei libri, m’importa di te. Un gesto simbolico come dichiarazione d’amore. Da allora lei aveva cercato senza sosta di conquistarlo. L’aveva costretto a consumare i pasti in comune, l’aveva costretto a comprarsi altri mobili. Lo sfiorava quanto più spesso poteva con la sua sottana inamidata. Se lui ora aveva un letto invece del divano era perché Therese aveva cercato un’occasione per parlare di letti. Lei aveva trasferito la propria stanza da letto e aveva comprato una camera matrimoniale. Il testamento durante la malattia era stato soltanto un pretesto per parlare con lui. Com’era la frase che ripeteva sempre? Quel che non si è fatto si farà. Povera creatura illusa! Sono trascorsi dei mesi da quando si sono sposati e lei continua ancora a sperare nel suo amore. Ha sedici anni più di lui, sa che morrà prima di lui, eppure insiste perché tutti e due facciano testamento. Certamente possiede qualche risparmio che gli vorrebbe lasciare. E perché lui non rifiuti di accettarlo, solo per questo, gli chiede un testamento. Che vantaggio potrebbe mai averne lei, che morirà tanto tempo prima? Lui invece potrebbe certo profittare di ciò che lei possiede. Gli dimostra il suo amore per mezzo del denaro. Ci sono vecchie zitelle che di colpo sacrificano per un uomo tutti i risparmi della loro vita, i risparmi di interi decenni, anzi no, i momenti più belli di ogni loro giornata, che non hanno vissuto, proprio per questo. Come avrebbe potuto, lei, innalzarsi al di sopra della sua sfera puramente economica? Per gli analfabeti il denaro rappresenta la prova decisiva di tutto: dell’amicizia, della bontà, dell’istruzione, del potere, dell’amore. In una donna questo semplice dato di fatto è complicato dalla sua debolezza. Soltanto perché gli vuole regalare i suoi risparmi lei ha dovuto tormentarlo per sei settimane ripetendo sempre le stesse parole. Non gli dice semplicemente, a bruciapelo: «Ti amo, eccoti i miei soldi»: nasconde la chiave della porta di comunicazione. Lui non la trova e così lei può respirare l’aria che respira lui. Lui con Therese non vuole aver a che fare più di tanto, e allora lei si contenta di respirare la sua stessa aria. Lui non pensa a chiedersi se la banca dove è depositato il suo denaro sia sicura. Lei trema per il timore che lui possa perdere il suo denaro. I risparmi di lei son troppo esigui per tenerlo a galla molto a lungo. Per vie traverse, fingendo d’aver paura per se stessa, non fa che chiedere della banca. Vuole salvarlo da una possibile catastrofe. Le donne sono sempre in pena per l’avvenire dell’uomo amato. Lei ha ancora pochi anni di vita e impiega le sue ultime forze per metterlo al sicuro prima della sua morte. Spinta dalla disperazione, durante la sua malattia ha rovistato nel suo scrittoio sperando di trovarvi dati più precisi. Per evitargli emozioni non ha lasciato la chiave nella toppa: l’ha rimessa dove l’aveva trovata. Da persona ignorante qual è, non può avere idea della sua precisione e delle sue facoltà mnemoniche. Lei è così ignorante che Kien si sente male soltanto a pensare alla sua parlata. Lui non può far nulla per lei. Non si sta al mondo solo per amare. Lui non s’è sposato per amore. Voleva provvedere ai suoi libri, e lei gli è sembrata la persona adatta. A Kien parve di trovarsi in una strada per la prima volta in vita sua. Fra le persone che incontrava distingueva uomini e donne. Le librerie davanti a cui passava fermavano certo la sua attenzione, ma di esse l’attiravano proprio le vetrine un tempo tanto disprezzate. Intere montagne di libri immorali non lo disturbavano. Ne leggeva i titoli e proseguiva il cammino senza neppure scuotere il capo. I cani correvano sul marciapiede, incontravano i loro simili e s’annusavano felici l’uno con l’altro. Lui rallentava il passo e li guardava pieno di stupore. Un pacchettino cadde a terra accanto ai suoi piedi. Un giovanotto si precipitò su di esso, lo raccolse, dette una spinta a Kien e non si preoccupò di scusarsi. Kien seguì con lo sguardo le dita che aprivano il pacchetto: comparve una chiave, sulla carta gualcita erano scritte alcune parole. Il giovanotto le lesse con un sogghigno e alzò gli occhi verso la casa. A una finestra del quarto piano una ragazza si sporgeva sopra i piumini esposti all’aria: fece dei cenni vivaci e scomparve in casa altrettanto rapidamente che la chiave nella tasca del giovanotto. «A che gli serve la chiave? Un ladro, e la cameriera, la sua amante, gli ha gettato la chiave». Nella successiva via traversa c’era un’importante libreria, lui la lasciò alla propria sinistra. All’angolo di fronte c’era un poliziotto che parlava con foga a una donna. Le parole che Kien gli vedeva da lontano sulle labbra l’attirarono: voleva sentirle. Quando fu abbastanza vicino i due si stavano separando. «Addio!», gracchiò il poliziotto. La sua faccia rossa risplendeva nella luce del giorno. «Arrivederci, signor ispettore!», gorgogliò la donna. Lui era grosso, lei ben tornita: Kien non riuscì a dimenticare la coppia. Mentre passava davanti al duomo giunsero al suo orecchio suoni strani e vellutati. Anche lui, ora, se la sua voce fosse stata docile ai suoi comandi come il suo umore, avrebbe cantato con quel tono. Tutt’a un tratto gli cadde addosso un grumo di sterco. Trasalì e alzò gli occhi incuriosito verso i pilastri. I piccioni si becchettavano e tubavano, di quello sterco nessuno aveva colpa. Erano vent’anni che non sentiva quei suoni, eppure ogni giorno passava di là durante la sua passeggiata. Però il tubare lo conosceva dai libri. «Esattamente», disse a bassa voce, e annuì come faceva ogni volta che una cosa reale corrispondeva al modello scritto. Ma questa volta non ritrasse alcun piacere da quella scarna conferma. Un piccione si posò sulla testa del Cristo che magro e malato, la faccia stravolta dal dolore, s’innalzava su un piedistallo. Non gli piaceva star solo, un altro piccione se n’accorse e subito andò a posarglisi vicino. Alla gente quel Cristo pare troppo sofferente, ha l’aria d’avere mal di denti. Ma non è così. La verità è che non resiste in mezzo ai quei piccioni i quali probabilmente si comportano così da mattina a sera. Lui non può fare a meno di pensare alla propria solitudine. Ma non bisogna pensarci, altrimenti che si combina più? Per chi mai sarebbe morto, lui, se sulla croce avesse cominciato a pensare alla sua solitudine? Sì, lui era davvero molto solo, suo fratello non gli scriveva più.

Per anni lui non aveva risposto alle lettere del fratello parigino, finché quello aveva perduto la pazienza a sua volta e non aveva più scritto. Quod licet Iovi non licet bovi. Da quando Georg aveva cominciato ad occuparsi tanto di donne, lui si considerava un Giove. Georg era un dongiovanni, non era mai solo, non sopportava la solitudine e così si circondava di donne. Anche lui era amato da una donna. E invece di rimanere accanto a lei era corso via ed ora stava là ad affliggersi per la sua solitudine. Girò immediatamente sui tacchi e con passi lunghi e speranzosi si diresse verso casa percorrendo le stesse strade fatte all’andata. Pensieri pietosi lo spingevano a camminare più rapidamente di quanto non fosse consigliabile per il suo poco coraggio. Lui può decidere le sorti di una vita. Può amareggiare e abbreviare gli ultimi anni di quell’infelice creatura che si strugge d’amore per lui. Bisogna trovare una via di mezzo. Le speranze di lei sono vane, lui non diverrà mai un uomo di mondo. A far figli pensa già abbastanza suo fratello. Per la discendenza della famiglia Kien si è già abbondantemente provveduto. Si dice che le donne manchino di senso critico: è vero, non capiscono con chi hanno a che fare. Lei vive con lui nella stessa casa da oltre otto anni. Sarebbe stato più facile sedurre Gesù Cristo che non lui. I piccioni tradiscano pure lo scopo della propria vita, loro non ne hanno nessuno. Avere una donna oltre a tanto lavoro sarebbe un delitto contro la natura della scienza. Lui sa apprezzare la fedeltà di lei, ciò che rientra nei ristretti limiti delle sue attitudini, lei lo fa. Lui odia il furto e l’appropriazione indebita. La proprietà non è una questione di cupidigia ma di ordine. Lui non pensa certo di sottrarle i meriti che le spettano. Per essere una donna, l’ha amato otto anni conservando un silenzio quasi incredibile. Lui non s’è mai accorto di nulla. Solo dopo il matrimonio le si è sciolta la lingua. Per sfuggire al suo amore egli farà tutto ciò che lei chiede per amore del marito. Lei teme il fallimento della sua banca? Bene, le dirà qual è, tanto lei la conosce già, una volta vi ha già riscosso un assegno. Così si potrà informare se è una banca sicura. Vuole donargli i suoi risparmi? Bene, le concederà quell’innocente soddisfazione: farà testamento perché anche lei possa avere il pretesto di fare il proprio. Costa tanto poco fare la felicità di un essere umano! Con questa decisione si scrollerà di dosso il rumoroso ed eccessivo amore di sua moglie. Oggi però si trovava in una delle sue giornate di debolezza. Segretamente sperava in un insuccesso. Il vero amore non si dà mai pace e prima che le vecchie preoccupazioni siano morte se ne crea di nuove. Lui non aveva mai amato, si sentiva come un ragazzo che non sa nulla, che saprà tutto fra poco, e che prova la stessa oscura angoscia sia davanti al sapere che davanti al non sapere. I pensieri gli si confusero in testa, tra sé si perdeva in chiacchiere come una donnetta. S’appigliava alla prima idea che gli passava per la mente senza vagliarla e subito l’abbandonava senza averla discussa a fondo, semplicemente perché gli era venuta in mente un’idea diversa, non un’idea migliore. Due erano le immagini che lo dominavano, quella della moglie innamorata e devota e quella dei libri assetati di lavoro. Quanto più s’avvicinava a casa tanto più si sentiva combattuto. Il suo intelletto capiva bene di che si trattasse, e se ne vergognava assai. Prese di mira l’amore e l’assalì con dure parole, ricorrendo alle armi più terribili: introdusse nel combattimento la sottana di Therese. La sua ignoranza, la sua voce, la sua età, le sue frasi, le sue orecchie: ogni cosa fece il suo effetto, la gonna però dette il colpo di grazia. Quando Kien giunse davanti a casa la gonna era definitivamente schiacciata sotto il peso dei libri ormai vicini. «Come ho potuto?», diceva a se stesso. «Solo? Solo io? E i libri?». Ogni piano lo portava sempre più vicino ad essi. Dall’anticamera gridò verso lo studio: «E’ la Banca nazionale!». Therese stava davanti alla scrivania. «Voglio fare testamento!», stabilì poi, e la spinse da parte con una mossa più brusca di quanto non fosse nelle sue intenzioni. Durante la sua assenza lei aveva scritto in cima a tre bei fogli nuovi la parola «Testamento». Glieli indicò tentando un sogghigno ma riuscì soltanto ad abbozzare un debole sorriso. Avrebbe voluto dire: «Che cosa dicevo io?», ma la voce le venne meno. Fu sul punto di svenire. L’uomo interessante la sostenne tra le sue braccia e lei ritornò in sé.

Giuda e il Salvatore. Sulle prime lei sospettò che nel testamento redatto dal marito vi fosse un errore, poi pensò ad uno stupido scherzo e infine ad una trappola. Il capitale che lui aveva in banca sarebbe infatti bastato tutt’al più a sostenere le spese di casa per altri due anni. Quando ebbe la cifra sotto gli occhi osservò ingenuamente che doveva esserci uno zero di meno. Le pareva ovvio che lui si fosse sbagliato nello scrivere. Mentre lui controllava l’esattezza della cifra lei era sicura di avere in vista dieci volte tanto, e rimase amaramente delusa di fronte alla realtà. Dov’era dunque quella gran ricchezza? Lei voleva impiantare all’uomo interessante il più bel negozio di mobili di tutta la città. Il testamento poteva bastare al più per una ditta come Gross & madre. Fino a quel punto, d’affari se n’intendeva anche lei: da molte settimane calcolava ogni sera, prima d’addormentarsi, i prezzi d’acquisto dei mobili. A una fabbrica in proprio aveva rinunciato perché in quel campo le mancava qualsiasi esperienza, e gli affari voleva seguirli anche lei. Ora se ne stava come stordita al vedere che la ditta Villani & moglie – quest’insegna era una delle principali condizioni che lei poneva – non sarebbe stata all’inizio più grande della ditta Gross & madre. D’altro canto l’uomo interessante era l’anima della ditta Gross & madre; una volta che lei fosse riuscita ad accaparrarsi l’anima del negozio, gli affari sarebbero andati così a gonfie vele che sarebbe stato possibile investirvi la maggior parte degli utili. Loro, per sé, non avrebbero avuto bisogno di nulla: non avevano già l’amore? In un paio d’anni la ditta Gross & madre avrebbe potuto andarsi a nascondere. Quando fu a questo punto, e già vedeva il piccolo principale sospirare al di là della porta a vetri e grattarsi la pelata perché la nuova ditta Villani & moglie, una ditta veramente di prim’ordine, gli sottraeva i clienti migliori, Kien disse: «Non c’è nessuno zero in meno. Vent’anni fa ce n’era uno in più». Lei non gli credette e disse in tono quasi scherzoso: «Ah sì? E si può sapere dove sono finiti tanti bei soldi?». Lui indicò i libri in silenzio. Alla parte del capitale che aveva speso per vivere, non accennò nemmeno: era davvero esigua, e inoltre lui se ne vergognava. A Therese passò la voglia di scherzare; dichiarò dignitosamente: «Eh già, il resto lo si manda prima a quel tale fratello saltato fuori all’improvviso. Il fratello se ne piglia nove parti prima che tu muoia, la moglie una parte sola quando sei morto». L’aveva smascherato. S’aspettava che ora lui si vergognasse e aggiungesse, prima che fosse troppo tardi, lo zero tanto discusso. Lei non s’accontentava delle briciole, lei voleva o tutto o niente. Si sentiva l’avvocata dell’uomo interessante ed usava tra sé i suoi stessi argomenti. Kien non sentì bene ciò che lei diceva perché era ancora intento a far scorrere lo sguardo sui libri. Quand’ebbe finito diede per senso del dovere una scorsa al documento e lo piegò saggiamente dicendo: «Domani andiamo dal notaio!». Therese s’allontanò per non litigare. Voleva dargli il tempo di ripensarci. Doveva per forza rendersi conto che non ci si può comportare così. La moglie è più vicina al marito di quel tale fratello saltato fuori all’improvviso. Al capitale rappresentato dai libri non pensava: tanto tre quarti dei libri le appartenevano già. Ciò che ora le interessava era soltanto il patrimonio al di fuori della biblioteca. Doveva cercare di rimandare il più possibile la visita al notaio. Una volta che il testamento fosse stato depositato là per il capitale non vi sarebbe stato più nulla da fare. Una persona per bene non continua a cambiare testamento. Ci sarebbe stato da vergognarsi di fronte al notaio. Per questo la cosa migliore era fare subito quello giusto, così non v’era più bisogno di farne altri. Kien avrebbe voluto sbrigare subito tutte le formalità. Oggi però provava un certo rispetto per Therese, perché lei lo amava. Sapeva che un’analfabeta come lei aveva bisogno di ore per stendere un documento ufficiale. Non s’offrì d’aiutarla perché ciò l’avrebbe umiliata: i sentimenti di lei meritavano tanto riguardo. La compiacenza testé dimostratale aveva un senso solo se lui non le faceva capire d’aver intuito le sue intenzioni. Temeva di vederla scoppiare in lacrime non appena lui avesse alluso alla donazione che lei si proponeva di fargli. Per questo motivo si mise al lavoro dimenticando il testamento e tutti i pensieri che lo riguardavano e lasciando aperta la porta di comunicazione con la stanza da letto di lei. Si dedicò con la massima energia alla sua vecchia trattazione: Influenza del canone Pali sulla forma del Bussoku Sekitai giapponese. Durante il pranzo si studiarono apertamente a vicenda senza dire una parola. Lei soppesava le probabilità d’ottenere una rettifica del testamento, lui pensava agli errori d’ortografia che indubbiamente lo scritto della moglie avrebbe contenuto. Che fosse il caso di ricopiarglielo o soltanto di correggerglielo? Impossibile evitare l’una e anche l’altra di queste misure. Erano bastate quelle poche ore di lavoro per ottundere notevolmente la delicatezza dei suoi sentimenti. Ne aveva tuttavia ancora quanto bastava per rimandare all’indomani la decisione. Therese trascorse una notte insonne, tutta presa dalle sue preoccupazioni finanziarie. Finché il marito continuò a lavorare, e cioè fino a mezzanotte, l’angustiò il pensiero che venisse sprecata tanta luce. Da quando era prossima al realizzarsi dei suoi desideri ogni centesimo sperperato la faceva soffrire il doppio di prima. Stava sdraiata sul letto con ogni cautela e con la maggior leggerezza possibile, perché aveva intenzione di rivendere come nuova nel suo negozio quella bella stanza da letto. Finora essa non aveva neppure un graffio, le sarebbe dispiaciuto dover far riverniciare i mobili. La preoccupazione per il letto e il timore di danneggiarlo continuò a tenerla sveglia anche dopo che Kien fu andato a dormire e lei ebbe visto che i suoi conti tornavano esattamente. Non aveva più niente a cui pensare, s’annoiava, l’indomani non si sarebbe annoiata più. Passò il resto della notte ad accrescere, grazie alla propria abilità nello scrivere le O, le somme che avrebbe ereditato. Le sue rivali restavano un bel tratto indietro: parecchie spuntavano dove non c’era posto per loro. Nessuna aveva la gonna inamidata. Nessuna dimostrava trent’anni. La migliore ne aveva più di quaranta, ma i suoi zeri facevano ridere, e l’uomo interessante la buttava subito fuori. Per la strada gli uomini non si voltavano a guardarla. I soldi non ti mancano, sciattona che non sei altro – gridava Therese dietro a quella sfacciata – perché non ti fai inamidare la gonna? Troppo pigra per lavorare e per giunta spilorcia, ci vuol poca fatica a esser così. Poi si rivolgeva all’uomo interessante e gli dimostrava la sua gratitudine. Avrebbe voluto chiamarlo col suo bel nome, Villani non s’adattava a lui: ma se l’era scordato. S’alzò, accese senza far rumore la luce sul comodino, tolse l’inventario dalla tasca della gonna e cercò finché non ebbe trovato il nome per il quale nessuna luce le sarebbe parsa troppo cara. Poco mancò che per l’emozione non pronunciasse forte «Puda», mentre un nome simile andava sussurrato. Spense di nuovo la luce e s’abbandonò pesantemente sul letto, dimenticando che andava trattato con riguardo. Gli disse innumerevoli volte: «Signor Puda». Ma lui era un uomo assennato, non solo interessante, e non si lasciava disturbare mentre lavorava. Esaminava le donne l’una dopo l’altra. Parecchie di loro venivano avanti come se fossero curve sotto il peso di moltissimi zeri. «Sta’ attento», diceva Therese, «sono gli anni, non gli zeri!». Perché lei amava la verità più d’ogni altra cosa. Il signor Puda aveva davanti a sé un bel foglio di carta liscia e su di esso riportava in bell’ordine gli zeri. Tutto in lui era bello e ordinato. Poi, improvvisamente, scorreva il foglio con i suoi occhi stillanti amore e diceva con la sua bella voce: «Spiacente, signora, è assolutamente da escludersi, signora!». E subito la vecchia gallina veniva cacciata fuori. Dove lo trovava tanto coraggio un simile arnese? Ma così sono le donne al giorno d’oggi. Basta che abbiano qualche soldo e subito credono che l’uomo più affascinante non aspetti che loro. Il momento più bello per Therese era quello in cui il signor Puda s’accorgeva che un certo capitale era il più grande di tutti. Allora lui diceva: «Cara signora, non posso che dirle d’accomodarsi, signora!». Non ci vuol molto a immaginare di che vecchiaccia si trattasse. Tuttavia s’accomodava. Ecco, ora lui le avrebbe detto: «Mia bellissima signora!». Therese aveva un po’ di paura. Aspettava che lui aprisse la bocca: allora si faceva avanti e si metteva tra di loro tenendo nella destra un lapis appuntito. Si limitava a dire: «Un momento, prego!», e disegnava sul foglio, dietro alla cifra del suo capitale, una bella O. il suo nome stava in cima a tutti gli altri, non era forse lei la prima donna provvista di capitali che lui aveva incontrato? Ora avrebbe potuto dire qualcosa: invece si ritirava con discrezione e taceva. Ma il signor Puda parlava per lei: «Spiacente, signora, è assolutamente da escludersi, signora!». A questo punto più d’una vecchia gallina scoppiava in lacrime. Vedersi sfuggire la felicità dopo averla sfiorata non è certo un piacere. Il signor Puda non si curava delle lacrime. «Per prima cosa una donna deve dimostrare trent’anni, poi può anche piangere», diceva. Therese capiva a chi alludesse e ne era orgogliosa. Tutti vanno a scuola otto anni eppure non imparano niente. Perché la gente non impara a scrivere le O? Non è forse un’arte anche questa? Verso mattina non fu più capace di resistere a letto dall’eccitazione. Era già pronta da un pezzo quando Kien, alle sei, si svegliò. Non fece il minimo rumore e tese le orecchie per seguire i suoi movimenti mentre si vestiva, si lavava, batteva la mano sui libri. L’isolamento in cui lei viveva e il passo silenzioso di lui avevano assai acuito la sensibilità del suo udito a determinati rumori. Capiva esattamente, nonostante il tappeto morbido e lo scarso peso di lui, in che direzione egli si muovesse: faceva i giri più inutili, solo per lo scrittoio non dimostrava alcun interesse. Gli fece una visita solo alle sette, fermandosi qualche minuto accanto ad esso. Therese credette di sentire per un attimo lo scricchiolio della sua penna. Che uomo inetto, pensò, scrive le O facendo scricchiolare la penna. Attese di sentire un secondo scricchiolio. Dopo gli avvenimenti della notte faceva conto su almeno due zeri, e sentendosi, anche così, molto povera, mormorò: «Questa notte era tutto più bello». Ora lui si stava alzando e spingeva da parte la sedia; aveva già finito e non v’era stato un secondo scricchiolio. Gli andò incontro con impeto. Sulla soglia si scontrarono. Lui domandò «Fatto?», lei: «Già finito?». Il sonno gli aveva fatto perdere l’ultimo rimasuglio di delicatezza. Quella stupida storia da donnicciole non l’interessava più. Il testamento gli era tornato in mente solo quando era rispuntato fuori tra i manoscritti. L’aveva riletto con fastidio e aveva notato un incomprensibile errore: il penultimo numero del deposito bancario da lui indicato era un sette invece di un cinque. Stizzito corresse l’errore e si chiese come fosse possibile scambiare un cinque proprio col sette. Forse perché tutti e due sono numeri primi; questa acuta spiegazione, l’unica possibile, perché per il resto il cinque e il sette non hanno nulla in comune, l’ammansì. «Una buona giornata!», mormorò. «Ora si tratta di lavorare e di metterla a profitto!». Però, per prima cosa, voleva sistemare gli scarabocchi di Therese, in modo da non essere disturbato più tardi durante il lavoro. Al momento dello scontro lei non si fece niente, era protetta dalla gonna. Kien, naturalmente, si fece male. Lui aspettava la risposta di lei, e lei quella di lui. Dato che lui non rispondeva, lei lo spinse da parte e s’avvicinò scivolando allo scrittoio. Esatto: il testamento era là. S’accorse che ora il penultimo numero era cinque anziché sette, di nuovi zeri non v’era alcuna traccia. Così lui quello spilorcio, in tutta fretta le aveva sottratto dell’altro denaro. Così com’era scritta la cifra, la somma sottratta ammontava a venti scellini; ma se vi si aggiungeva uno zero, faceva duecento. E con un secondo zero la cifra saliva a duemila. Lei non si lasciava certo derubare di duemila scellini. Che cosa avrebbe detto l’uomo interessante se lo veniva a sapere? «Un momento: qui è il nostro negozio che ne fa le spese, cara signora!». Deve stare attenta, lui potrebbe anche finire per buttarla fuori: gli serve una persona ordinata, certo non sta a perdere tempo dietro a una sciattona. Si voltò e disse a Kien, che stava dietro di lei: «Questo cinque va tolto!». Lui non le badò. «Dammi il tuo testamento!», le ingiunse bruscamente. Lei sentì chiaramente le sue parole. Dal giorno prima stava all’erta e registrava ogni minima alterazione in lui. In tutti i molti anni della sua vita non aveva mai messo insieme tanta presenza di spirito come in quelle poche ore. Capì che lui pretendeva da lei un testamento. Subito le si presentò alla mente la parte teorica della predica che aveva ripetuto per intere settimane: «Allo stato civile tutte e due le parti dovrebbero…». Non era passato un secondo dalla sua ingiunzione che lei già ribatteva: «Scusami, siamo forse allo stato civile?». Sinceramente indignata per quella pretesa, abbandonò la stanza. Kien non si curò di capire il motivo di una risposta così pungente. Si limitò a constatare che lei non voleva ancora dargli il suo documento. Per oggi, quindi, gli sarebbe stata risparmiata la fastidiosa visita al notaio. Tanto meglio: s’adattò con gioia e si dedicò completamente alla nota trattazione. La muta schermaglia tra i due andò avanti alcuni giorni. Mentre lui, di fronte al silenzio di lei, si tranquillizzava sempre più poco mancava che tornasse l’uomo di un tempo – in lei l’agitazione cresceva di ora in ora. Durante i pasti si tratteneva a stento dal parlare. In presenza di lui non inghiottiva neppure un boccone per paura che le scappasse fuori qualche parola. La sua fame cresceva assieme ai suoi timori. Prima di sedere a tavola con lui mangiava a sazietà in cucina, da sola. Tremava ad ogni moto del suo viso, chi poteva dire se quel movimento non si sarebbe trasformato all’improvviso nella parola «notaio»? Qualche volta lui diceva una frase; le sue frasi non erano frequenti. Lei temeva ognuna di quelle frasi come una condanna a morte. Se lui avesse parlato di più la paura di lei si sarebbe frantumata in mille piccole paure. Invece parlava poco: questo era un conforto per lei. Ma la paura rimaneva grande e intensa. Se lui cominciava con un: «Oggi…», lei diceva in fretta a se stessa con tono deciso: «Oggi niente notai!», e continuava a ripetersi questa frase a una velocità per lei nuova e incredibile. Il suo corpo si copriva di sudore, anche la faccia, lei se n’accorgeva; purché la faccia non la tradisse! Correva fuori a prendere un piatto. Leggeva sulla faccia di lui desideri che lui non provava affatto. Ora egli avrebbe potuto ottenere da lei qualunque cosa, a patto di non dire una parola. La sollecitudine di lei era rivolta agli zeri, ma intanto chi ne traeva profitto era lui. Lei aveva il presentimento di un’orribile sciagura. Curava il vitto con particolare applicazione: purché gli piaccia, pensava, e piangeva. Forse voleva farlo ingrassare, infondergli forza perché riuscisse a scrivere gli zeri; forse voleva soltanto dimostrare a se stessa quanto quegli zeri lei li meritasse. La sua contrizione giunse in profondità. La quarta notte le venne in mente che cosa rappresentasse per lei l’uomo interessante: un peccato. Non lo chiamò più; quando le veniva tra i piedi lo guardava male e diceva: «Ogni cosa a suo tempo!», e lo toccava col piede perché lui capisse. Gli affari non andavano più bene. Un affare bisogna meritarselo perché vada bene. Non le restava che un rifugio, la cucina: là si sentiva la persona semplice e modesta di un tempo. Là quasi dimenticava di essere la padrona di casa, non avendo intorno a sé mobili costosi. Una sola cosa la turbava anche in quel luogo: l’agenda degli indirizzi che se ne stava là, morta. Era una sua proprietà. Per precauzione ritagliò l’intero elenco dei notai e lo fece sparire di casa con la spazzatura. Kien non notò nulla di tutto ciò. A lui bastava che lei stesse zitta. Una volta, tra Cina e Giappone, disse a se stesso che questo era il risultato della sua saggia politica. Lui le aveva tolto ogni pretesto per parlare. Aveva strappato il pungiglione al suo amore. In quei giorni riuscì a condurre in porto numerose congetture. Tre ore gli bastarono per ricostruire una frase pressoché irrecuperabile. Le lettere esatte uscivano come per gioco dalla sua penna. Il terzo giorno poté già spedire la sua vecchia trattazione. Di nuove ne aveva già cominciate due. Litanie più antiche gli si presentavano, facendogli dimenticare quelle di Therese. A poco a poco riuscì a tornare indietro, ai tempi precedenti il suo matrimonio. La sottana gli ricordava talvolta l’esistenza di lei perché aveva perduto molto del suo decoro e della sua rigidezza: si muoveva più rapidamente e certo non veniva più stirata con la stessa cura. Lui si limitò a constatare il fatto, senza rompersi il capo a ricercarne i motivi. Perché non avrebbe dovuto lasciare aperta la porta che comunicava con la stanza da letto di lei? Lei non abusava della sua compiacenza e si guardava bene dal disturbarlo. La sua presenza durante i pasti la tranquillizzava. Temeva che lui potesse ancora mettere in pratica la minaccia di abolire i pasti in comune e si comportava, per essere una donna, con discrezione. Un po’ meno zelo l’avrebbe reso ancora più contento. Ma lei avrebbe finito col perdere anche quell’abitudine. Non c’era bisogno di troppi piatti in tavola: servivano soltanto a distrarlo da più felici pensieri. Quando il quarto giorno, alle sette di mattina, lui lasciò la casa per la solita passeggiata, Therese – a vederla la si sarebbe detta la discrezione in persona – scivolò verso lo scrittoio. Non osò avvicinarsi subito. Vi girò attorno un paio di volte e passò a rassettare la stanza senza aver concluso nulla. Sentiva di non esser ancora giunta al punto sperato e cercava di differire più che poteva il momento della delusione. All’improvviso ricordò che i delinquenti vengono riconosciuti dalle impronte digitali. Tolse dal baule i suoi bei guanti, gli stessi che l’avevano aiutata a trovare marito, li calzò e con mille precauzioni per non sporcarli si rimise a cercare il testamento. Gli zeri non c’erano ancora. Temette che ormai ci fossero già, ma scritti con mano così leggera da risultare invisibili. Un esame più approfondito la tranquillizzò. Molto tempo prima che Kien tornasse, tutt’e due, lei e la stanza, davano ormai l’impressione che non fosse accaduto assolutamente nulla. Scomparve in cucina e là s’immerse di nuovo nel consueto affanno di cui aveva cessato d’occuparsi alle sette. Il quinto giorno accadde la stessa cosa. Dedicò al testamento un po’ più di cura e non risparmiò né tempo né guanti. Il sesto giorno era domenica. S’alzò di malumore, aspettò che il marito uscisse per la sua passeggiata e guardò come ogni giorno le maligne cifre del testamento. Non soltanto il numero 12’650, anche la forma di ogni numero le era ormai entrata nel sangue e nella carne. Prese una striscia di carta e copiò la somma, esattamente com’era nel testamento. I numeri assomigliavano a quelli di Kien come gocce d’acqua; nessun grafologo sarebbe riuscito a distinguerli. Adoperava la striscia per il lungo perché v’entrassero quanti zeri voleva, e ve ne mise una buona dozzina. I suoi occhi sfavillarono quando vide lo strepitoso risultato. Passò un paio di volte la mano ruvida sulla striscia di carta e disse: «Quant’è bella!». Poi impugnò la penna di Kien, si chinò sul testamento e trasformò la cifra 12’650 in 1’265’000. Il lavoro eseguito a penna risultò ben fatto e preciso quanto il precedente a matita. Quand’ebbe terminato il secondo zero non riuscì a rialzarsi. La penna rimase attaccata alla carta e si preparò a tracciare un altro zero. Dato che lo spazio scarseggiava, questo l’avrebbe dovuto fare più piccolo e più stretto. Therese si rese conto del pericolo che la minacciava. Qualunque nuovo tratto di penna avrebbe rappresentato un’irregolarità rispetto alle dimensioni delle altre lettere e cifre. Avrebbe richiamato senz’altro l’attenzione su quel punto. Per poco non distruggeva la propria opera. La striscia dai molti zeri stava là accanto. Il suo sguardo che, per guadagnar tempo, s’era distolto dal testamento, cadde appunto sulla striscia. Il desiderio di diventare in un sol colpo più ricca di qualsiasi negozio di mobili del mondo crebbe sempre più. Se vi avesse pensato prima avrebbe fatto più piccoli i due zeri precedenti, in modo da farvene entrare un terzo. Perché era stata così sciocca? Ora tutto sarebbe stato perfettamente a posto. Lottava disperatamente con la penna che voleva scrivere. La fatica era superiore alle sue forze. Cominciò ad ansimare per l’avidità, la rabbia e la stanchezza. I sussulti si comunicarono alle braccia: la penna minacciava di spruzzare la carta d’inchiostro. Atterrita da quel pensiero, Therese la ritrasse rapidamente. Si rese conto d’aver rialzato il busto e il suo respiro si fece un po’ più normale. «Bisogna sapersi contentare», sospirò, e interruppe, forse per tre minuti, il lavoro pensando ai milioni perduti. Poi controllò che l’inchiostro fosse asciutto, si cacciò in tasca la sua bella striscia, ripiegò il testamento e lo rimise dove l’aveva trovato. Non si sentiva per nulla soddisfatta; i suoi desideri miravano più in alto. Dato che aveva ottenuto solo una parte di ciò che era possibile, il suo umore mutò: ad un tratto le parve d’essere un’imbrogliona e decise di andare in chiesa. Dopo tutto era domenica. Lasciò un biglietto sulla porta: «Sono in chiesa, Therese», come se quello fosse da anni il luogo per lei più familiare e naturale. Scelse la chiesa più grande della città, il duomo. Una più piccola sarebbe servita soltanto a ricordarle che a lei toccava qualcosa di più. Per le scale s’accorse di non essersi vestita. Si sentì molto abbattuta, tuttavia tornò indietro e cambiò la prima gonna blu con la seconda, che era assolutamente identica alla prima. Per la strada dimenticò d’osservare che gli uomini la guardavano. Nel duomo si vergognò. La gente le rideva dietro. E’ forse una bella cosa ridere in chiesa? A lei non importa nulla, perché lei è una donna per bene. Tra sé pronunciò con la massima enfasi la frase «una donna per bene», la ripeté e si rifugiò in un cantuccio tranquillo del duomo. Là v’era un quadro raffigurante l’ultima cena, dipinto con costosi colori a olio. La cornice era tutta dorata. La tovaglia non le piacque. La gente non distingue ciò che è veramente bello; inoltre era già sporca. La borsa invece sembrava proprio di poterla prendere in mano, dentro v’erano trenta belle monete d’argento; queste non si vedevano, però la borsa sembrava proprio vera. Giuda la teneva stretta in pugno. Non v’era pericolo che se la lasciasse portar via, era talmente avaro. Non dava niente a nessuno. Era come suo marito. Per questo ha tradito il Salvatore. Suo marito è magro. Giuda è grasso e ha la barba rossa. In mezzo a tutti siede l’uomo interessante. Ha un viso così bello, pallidissimo, e gli occhi proprio come si conviene. Lui sa tutto. E’ interessante, ma è anche una persona assennata, e dunque si guarda ben bene la borsa. Non per niente gl’interessa sapere quanto contiene. Un altro dovrebbe contare gli scellini, lui non ne ha bisogno, gli basta dare un’occhiata dall’esterno. Suo marito è un sordido avaro. Fare tante storie per venti scellini. Lei non si lascia menare per il naso, prima in quel punto c’era un sette, e lui l’ha cambiato in fretta e furia in un cinque. Ora sono duemila. L’uomo interessante s’arrabbierà. Ne ha forse colpa lei? Lei è la colomba bianca che gli scende in volo proprio sulla testa. Risplende perché è tanto innocente. Il pittore ha voluto che fosse così. Lui deve saperlo, è il suo mestiere. Lei è la colomba bianca. Ci provi pure Giuda: non riuscirà mai ad acchiapparla. Lei può volare dove vuole. Lei vola accanto all’uomo interessante, lei sa ciò che è bello. Giuda non può obiettare nulla, tra poco dovrà andarsi a impiccare. E allora nemmeno la borsa gli servirà più. Non potrà portarla con sé. I soldi appartengono a lei. Lei è la colomba bianca. Giuda questo non lo capisce. Lui pensa solo alla sua borsa. Per questo dà un bacio al buon Salvatore e lo tradisce. Fra poco arriveranno i soldati e lo prenderanno. Che ci provino. Lei si farà avanti e dirà: «Questo non è il Salvatore. Questo è il signor Villani, un semplice impiegato della ditta Gross & madre. Non potete fargli niente. Io sono sua moglie. Giuda cerca sempre d’imbrogliarlo. Ma lui non ne ha colpa». Lei deve badare che non gli accada nulla. Giuda vada pure a impiccarsi. Lei è la colomba bianca. Therese s’era inginocchiata davanti al quadro e pregava. Fu per decine di volte la colomba bianca. Lo diceva dal più profondo del cuore, senza mai distogliere lo sguardo da essa. Volava nelle mani dell’uomo interessante, e lui l’accarezzava dolcemente perché lei lo salvava ogni volta: con le colombe si fa così. Quando si alzò s’accorse con stupore di avere delle ginocchia. Per un attimo dubitò della loro esistenza e se le toccò. Uscendo dalla chiesa rise lei in faccia alla gente. Rideva alla sua particolare maniera, cioè senza ridere. La gente guardava tutta seria e si vergognava. E che facce avevano: da veri delinquenti! Già si sa che razza di gente è quella che va in chiesa. Riuscì a schivare la borsa della questua. Davanti al portale della chiesa s’aggiravano innumerevoli colombe, non bianche però. A Therese dispiacque non aver nulla per loro. A casa c’era tanto pane duro che ammuffiva. Dietro il duomo una vera colomba bianca si posò su una statua. Therese la guardò: era il Cristo dal mal di denti. Si disse che era proprio una fortuna che l’uomo interessante non avesse un simile aspetto. Costui avrebbe dovuto vergognarsi. Tornando a casa sente improvvisamente una musica. E’ la banda militare, e suona le marce più belle. Questo sì che è divertente, questo sì che le piace. Si gira e tutt’a un tratto comincia a scivolare a tempo con i soldati. Il capobanda continua a guardarla. E anche i soldati: che male c’è? Lei si volta indietro, bisogna pure che li ringrazi per la musica. Vengono anche altre donne, ma lei è la più bella di tutte. Il capobanda fa proprio una bella figura. Quello sì che è un uomo, e come se n’intende di musica! I suonatori aspettano il segnale della sua bacchetta. Senza la bacchetta nessuno si muove. Ogni tanto lui cessa di suonare. Allora lei solleva di slancio la testa, il capobanda ride e subito attacca un nuovo brano. Se solo non ci fossero tanti bambini. Le tolgono la visuale. Una musica simile bisognerebbe sentirla tutti i giorni. Meglio di tutto sono le trombe. Da quando lei è là tutti trovano la banda molto divertente. In breve si fa una gran ressa. A lei non importa. A lei tutti fanno posto. Nessuno trascura di guardarla. E lei, sottovoce, a tempo, canticchia: dimostro trent’anni, trent’anni, trent’anni.

Un milione in eredità Kien trovò il biglietto sulla porta. Lo lesse perché leggeva sempre tutto e lo dimenticò non appena si fu seduto allo scrittoio. Improvvisamente qualcuno disse: «Eccomi qua!». Therese stava alle sue spalle e subito lo sommerse sotto un diluvio di parole. «Già, la grande eredità! C’è un notaio proprio a tre case di distanza. E’ mai possibile trascurare così un’eredità? Il testamento finirà per sporcarsi. Oggi è domenica. Domani è lunedì. Bisogna dare qualcosa al notaio, sennò sbaglierà tutto. Non occorre che sia una gran cifra. Sarebbe denaro sprecato. A casa il pane duro ammuffisce. Non è un’arte essere una colomba. Per forza, là non hanno niente da mangiare. La banda militare suona le marce più belle. Marciare e intanto guardarsi attorno non è certo da tutti. E il capobanda, chi guarda continuamente? Non lo vado a dire al primo che capita. La gente non sa stare agli scherzi. Un milione e duecentosessantacinquemila. Il signor Villani farà tanto d’occhi. Li ha già così belli. Tutte le donne van pazze per lui. E io non sono forse una donna? Di civettare son capaci tutte. Io sono la prima che gli porta un capitale…». Lei era entrata sicura della vittoria, ancora tutta presa dalla musica militare e dal capobanda. Oggi tutto era così bello. Giornate simili ci vorrebbero tutti i giorni. Parlare, voleva. Aveva davanti agli occhi la cifra 1’265’000 e con le mani dava gran colpi alla biblioteca chiusa nella tasca della sua gonna. Chissà quanto poteva valere. Forse due volte tanto. Il mazzo delle chiavi tintinnava. Per parlare oggi gonfiava le gote ancor più del solito. Essendo stata zitta una settimana parlava senza concedersi pause. In preda all’esaltazione tradiva i propri pensieri più segreti. Non nutriva alcun dubbio d’aver ottenuto tutto ciò che v’era da ottenere, lei era una persona che mirava al sodo. Parlò per un’ora intera a colui che aveva davanti. Aveva dimenticato chi egli fosse. Aveva dimenticato la superstiziosa paura con cui nei giorni precedenti aveva spiato ogni movimento del suo volto. Era una persona qualsiasi, a cui poteva raccontare tutto, in questo momento aveva bisogno di uno così. Sciorinò le più trascurabili inezie viste o pensate nelle ore precedenti. Lui si sentì sopraffatto, doveva essere accaduto qualcosa di straordinario. Per un’intera settimana lei s’era comportata in modo esemplare. Perché lo disturbasse in maniera tanto grossolana doveva esservi – l’aveva scritto in faccia – un particolare motivo. Il suo linguaggio era confuso, temerario e felice. Si sforzò di capirla. E a poco a poco capì. Una certa persona interessante le aveva lasciato in eredità un milione. Si trattava senz’altro di un suo parente il quale, nonostante la sua ricchezza, faceva di professione il capobanda: un uomo interessante se non altro per questo. Una persona, comunque, che aveva moltissima stima di lei, altrimenti non l’avrebbe nominata sua erede. Con il milione lei voleva impiantare un negozio di mobili: aveva saputo soltanto oggi della fortuna toccatale, era corsa subito in chiesa a far atto di ringraziamento e là, in un dipinto, aveva ravvisato nella figura del Salvatore i tratti del defunto. (La gratitudine come causa di illusione dei sensi!). In duomo aveva fatto voto di portare ogni giorno del mangime ai piccioni. A lei non piace che ai piccioni si porti il pane vecchio e ammuffito di casa. Anche i piccioni sono più o meno come gli esseri umani (e se anche fosse?), domani lei vuole andare con lui dal notaio per far verificare il testamento. Lei teme che il notaio, trattandosi di una grossa eredità, chieda un onorario troppo alto e desidera quindi che questo venga concordato con lui prima del colloquio. Parsimoniosa e buona massaia anche da milionaria! Ma quell’eredità era poi veramente tanto grossa? 1’265’000 – che cosa significava questa cifra? Confrontiamola col valore della biblioteca! La sua biblioteca gli era venuta a costare in totale la ridicola somma di neppure 600’000 corone d’oro. L’eredità paterna ammontava a 600’000 corone d’oro, di cui gli rimaneva ancora qualche spicciolo. Che cosa voleva impiantare, lei, con quell’eredità? Un negozio di mobili? Che sciocchezza! Piuttosto si poteva ingrandire la biblioteca. Avrebbe comprato dal vicino l’appartamento attiguo e avrebbe abbattuto la parete divisoria. In tal modo avrebbe guadagnato altri quattro grandi vani per la sua biblioteca. Anche là avrebbe fatto murare le finestre e aprire dei lucernari nel soffitto. In otto locali vi sarebbe stato posto per più di sessantamila volumi. Recentemente era stata annunciata la vendita della biblioteca del vecchio Silzinger, ma non era probabile che l’avessero già messa all’asta; comprendeva circa ventiduemila volumi, naturalmente non si poteva neppure confrontare con la sua, ma un paio di cose di primaria importanza vi si trovavano senza dubbio. Lui si sarebbe preso un milione in cifra tonda per la biblioteca, del resto lei avrebbe potuto fare ciò che voleva. Poteva anche darsi che il resto fosse sufficiente per un negozio di mobili, lui non s’intendeva di cose simili, non gli interessavano, non voleva aver a che fare con questioni di denaro e d’affari. Bisognava informarsi se la biblioteca del vecchio Silzinger era già stata messa all’asta. Per poco non s’era lasciato scappare una preda importante. S’immergeva troppo nei suoi studi, e finiva per privarsi dei mezzi indispensabili al lavoro scientifico. Uno studioso deve tener d’occhio il mercato librario così come chi specula in borsa deve conoscere l’andamento dei corsi. Ampliare la biblioteca portandola da quattro a otto vani. Non è una cattiva idea. Bisogna progredire. Non ci si deve fermare. A quarant’anni un uomo ha ancora tutta la vita davanti a sé, come ci si può ritirare a quarant’anni? L’ultimo acquisto di una certa importanza risale a due anni fa. Ecco come si arrugginisce. Esistono anche altre biblioteche, non solo la sua. La povertà è una cosa disgustosa. Fortuna che lei mi ama. Mi chiama signor Villani perché sono così villano con lei. Trova che i miei occhi siano belli. Crede che io piaccia a tutte le donne. Sono davvero troppo villano con lei. Se non mi amasse si terrebbe tutta per sé la sua eredità. Ci son dei mariti che si fanno mantenere dalle mogli. Ripugnante. Piuttosto il suicidio. Ma per la biblioteca non ho niente in contrario a che lei faccia qualcosa. Forse che i libri hanno bisogno di mangiare? Penso di no. L’affitto lo pago io. Mantenere uno vuol dire dargli gratis vitto e alloggio. Alle spese per l’appartamento vicino penserò io. Lei è sciocca e ignorante, però ha un parente morto. Mancanza di delicatezza? E perché? Io non lo conosco. Compiangerlo sarebbe pura ipocrisia. La sua morte non è una disgrazia, la sua morte ha un senso più profondo. Ogni essere umano occupa un posto vuoto, sia pure per un breve istante. Il posto di quest’uomo era la sua morte. Ed ora è morto. Non c’è pietà che possa richiamarlo in vita. Che caso singolare! Questa ricca ereditiera finisce proprio in casa mia in veste di governante. Per otto anni compie in silenzio il suo dovere e tutt’a un tratto, proprio mentre sta per ereditare un milione, io me la sposo. Sono appena arrivato a scoprire fino a che punto lei mi ami ed ecco che muore il suo ricco capobanda. Un felice destino, improvviso e immeritato. La malattia rappresenta davvero la svolta della mia vita, l’addio ad una condizione modesta, alla piccola e soffocante biblioteca in cui sono vissuto finora. Non c’è forse nessuna differenza tra il nascere sulla luna o sulla terra? Facciamo pure l’ipotesi che la luna sia grande la metà della terra: non si tratta soltanto della quantità di materia; la diversa grandezza comporta una diversità di tutti i particolari fra loro. Trentamila nuovi libri! E ognuno di essi è uno stimolo a nuove idee e a nuovo lavoro. Che rovesciamento della situazione attuale! In quell’istante Kien abbandonò la forma conservatrice della teoria evoluzionistica di cui fino a quel momento era stato seguace e passò a fogli spiegati dalla parte dei rivoluzionari. Ogni progresso è condizionato da mutamenti improvvisi. Le prove relative, le quali fino ad allora, come capita nel sistema di tutti gli evoluzionisti, erano rimaste nascoste sotto una foglia di fico, si presentarono ad un tratto alla sua coscienza. Un uomo colto ha tutto a portata di mano e può farne uso non appena sia necessario. L’anima di un uomo colto è un arsenale splendidamente fornito. Di esso si scorge ben poco perché queste persone, proprio a causa della loro cultura, di rado hanno il coraggio di servirsene. Una parola che Therese pronunciò con entusiasmo e con passione riportò Kien sul terreno concreto. «Dote», era la parola, e lui l’accolse con gratitudine. Tutto ciò di cui aveva bisogno in quel momento storico gli cadeva in grembo da solo. L’eredità del capitalismo, amato e praticato per secoli in seno alla sua famiglia, si risvegliò in lui con immenso vigore, come se esso non avesse avuto ormai da lungo tempo la peggio in una battaglia durata venticinque anni. L’amore di Therese, vera colonna dell’imminente paradiso, gli portava una dote. Era suo diritto non disdegnarla. L’aveva presa in moglie quand’era una povera ragazza, senza sospettare minimamente che lei avesse un parente ricco prossimo a morire, e ciò dimostrava a sufficienza l’onestà dei suoi sentimenti. Per lei sarà un piacere fare ogni tanto, non troppo spesso, una rapida passeggiata sulle otto scale della nuova biblioteca. La coscienza che un suo parente ha contribuito a questa grandiosa istituzione la ripagherà della perdita del suo negozio di mobili. Pieno di gioia perché la sua rivoluzione procedeva con la massima naturalezza, Kien si stropicciò le lunghe dita. Nessun muro teorico gli sbarrava il cammino. Quello pratico, che lo separava dall’appartamento attiguo, sarebbe stato demolito. Converrà dare subito inizio alle trattative con il vicino. Informare il capomastro Putz. Dovrà cominciare i lavori domani stesso. Il testamento dev’essere verificato subito. Bisogna senz’altro mettersi oggi stesso in contatto col notaio. Attenzione all’asta Silzinger! Il portiere dovrà sbrigare subito alcune commissioni. Kien avanzò d’un passo e ordinò: «Va’ a chiamare il portiere!». Nel suo racconto Therese era tornata al pane ammuffito e alle colombe affamate. Mise ancora una volta in evidenza quest’assurdità che urtava il suo senso dell’economia e per sottolineare la sua indignazione aggiunse: «Ci mancherebbe altro!». Ma Kien non tollerava d’essere contraddetto. «Va’ a chiamare il

portiere! Subito!». Therese si rese conto che lui aveva detto qualche cosa. Che ha da dire, lui? Farebbe meglio a lasciarle finire il discorso. «Ci mancherebbe altro!», ripeté. «Che cosa mancherebbe? Va’ a chiamare il portiere!». Il portiere Therese non lo poteva soffrire comunque, per via delle mance. «Che ha da fare qui il portiere? Da me non avrà un soldo!». «Questo lo decido io. Sono io il padrone di casa». Lo disse non tanto perché fosse necessario, ma perché ritenne opportuno farle sentire la sua solidissima volontà. «Scusa, il capitale è mio». Lui aveva segretamente aspettato questa risposta. Sua moglie era e rimaneva una donna maleducata e ignorante. Cambiò tono quel tanto che era necessario per salvare i suoi progetti senza che ne soffrisse la sua dignità: «Nessuno lo nega. Ma abbiamo bisogno di lui. Deve fare subito alcune commissioni». «E’ un peccato buttare tanti soldi. Quello s’intasca un patrimonio». «Non c’è bisogno d’agitarsi! Il milione non ce lo tocca nessuno». Queste parole destarono la diffidenza di Therese. Ecco, ora ricomincia a mercanteggiare per sottrarle altro denaro. Lei ci ha già rimesso duemila scellini. «E i duecentosessantacinquemila?», disse, soffermandosi su ogni numero e lanciandogli delle occhiate inequivocabili. E’ giunto il momento di conquistarla rapidamente e per sempre. «I duecentosessantacinquemila appartengono a te». Sovrappose al suo viso scarno i tratti di un florido benefattore: le faceva un regalo, accettava in anticipo e con piacere i suoi ringraziamenti. Therese cominciò a sudare. «Tutto, appartiene a me!». Perché continua a sottolineare questo punto? Lui mascherò la sua impazienza con una frase formale: «Ho detto già una volta che nessuno nega i tuoi diritti. Ora non si tratta di questo». «Scusa, questo lo so anch’io. Carta canta e villan dorme». «Dobbiamo sistemare insieme la questione dell’eredità». «E tu che c’entri?». «Ti offro ufficialmente il mio aiuto». «Di chieder l’elemosina son capaci tutti. Prima si mercanteggia, poi si chiede l’elemosina. Non è così che ci si comporta!». «Temo che ti possano raggirare». «Che ipocrita!». «Di solito, quando è in gioco un’eredità di milioni, si fanno improvvisamente vivi dei falsi parenti». «Qui c’è solo l’autore del testamento». «Nessuna moglie, nessun figlio?». «Che freddure sono queste?». «Un colpo di fortuna davvero incredibile». Colpo di fortuna? Therese rimase nuovamente interdetta. Uno cede il suo denaro prima ancora di morire: che c’entra la fortuna? Da quando Kien aveva cominciato a parlare Therese aveva la netta impressione che lui la stesse raggirando. Sorvegliava ogni parola che gli usciva

di bocca come un cerbero dalle cento teste. Si sforzava di rispondergli in maniera precisa e inequivocabile. Uno dice qualcosa e prima di accorgersene si ritrova con la corda al collo. Il marito ha letto di tutto. Per lei egli era ad un tempo la controparte e l’avvocato di questa. Nel difendere la proprietà appena conquistata lei sviluppava energie che giungevano a spaventarla. Tutt’a un tratto fu in grado di immedesimarsi in un’altra persona. Sentiva che per lui il testamento non poteva rappresentare un colpo di fortuna. Dietro quelle parole fiutò una nuova trappola. Lui le nascondeva qualcosa. E che cosa si può nascondere? Un patrimonio. Il marito possedeva più di quanto non le lasciasse. Il terzo zero che lei non aveva scritto le bruciava il palmo della mano. Alzò il braccio come per una fitta improvvisa. Il suo primo impulso fu di precipitarsi allo scrittoio, prendere il testamento e aggiungervi con gesto deciso lo zero. Ma sapeva che cosa fosse in gioco, e riuscì a dominarsi. Era tutto effetto della sua grande discrezione. Perché era tanto sciocca? Essere discreti vuol dire essere sciocchi. Ora è di nuovo in possesso di tutto il suo giudizio. Deve riuscire a tirargli fuori il resto. Dove l’ha nascosto? Glielo chiederà in modo che lui neppure se n’accorga. Tornò a sfoderare, largo e maligno, il ben noto sorriso. «E il resto che fine farà?». Aveva raggiunto il culmine dell’astuzia. Non gli chiedeva dove fosse nascosto il resto. A una domanda del genere lui non avrebbe risposto. Voleva prima di tutto fargli ammettere che questo resto esisteva. Kien le rivolse uno sguardo pieno di gratitudine e d’affetto. Lei s’era opposta solo in apparenza: era proprio ciò che lui aveva sospettato sin dall’inizio. Trovava anzi molto bello da parte di Therese chiamare il milione, che era la parte più consistente, «il resto». Evidentemente un simile passaggio dalla grossolanità all’amore era tipico nelle persone della sua specie. Cercò di mettersi nei suoi panni e capì che lei doveva aver avuto per un pezzo sulla punta della lingua quella manifestazione del suo attaccamento, e che aveva esitato tanto a darla solo per accrescerne l’effetto. Era rozza ma leale. Cominciò a capirla anche meglio di prima. Peccato che fosse così vecchia, ormai era troppo tardi per fare di lei un vero essere umano. Capricci come quelli recentemente sperimentati non potevano più esserle permessi. Questo è il primo passo di ogni processo educativo. Ogni segno di gratitudine rivolto a lei e d’amore rivolto ai nuovi libri scomparvero dal suo viso: assunse un tono severo e borbottò come se ora fosse offeso: «Con il resto amplierò la mia biblioteca». Therese sobbalzò spaventata e trionfante. Aveva preso due piccioni con una fava. La sua biblioteca! Quando lei aveva in tasca l’inventario! Dunque esisteva veramente un resto! L’aveva detto lui stesso. Therese non sapeva quale punto affrontare per primo. Decise la sua mano, che s’era involontariamente posata sulla tasca. «I libri sono miei!». «Che cosa?!». «Tre stanze appartengono alla moglie, una al marito». «Ma ora si tratta di otto stanze. Le altre quattro verranno aggiunte adesso, quelle qui accanto, voglio dire. Ho bisogno di

spazio per la biblioteca Silzinger. Comprende da sola più di ventiduemila volumi». «E dove li prendi i soldi?». Ecco che ricominciava: ormai queste continue allusioni l’avevano stancato. «Dalla tua eredità. E con ciò l’argomento è chiuso». «Non se ne fa niente». «Non si fa niente di che?». «L’eredità è mia». «Ma ne dispongo io». «Prima il marito pensi a morire, poi disponga». «Che significa questo?». «Io non accetto mercanteggiamenti». Come, come? Doveva forse fare la voce grossa? La biblioteca di otto stanze che gli stava davanti agli occhi gli fece trovare un’ultima, piccola dose di pazienza. «Si tratta del nostro interesse comune». «Voglio anche il resto!». «Non ti rendi conto…». «Dov’è il resto?». «Di fronte al marito una moglie deve…». «E intanto il marito ruba il resto alla moglie». «Io esigo un milione per l’acquisto della biblioteca Silzinger!». «D’esigere son capaci tutti. Io voglio il resto. Voglio tutto quanto!». «Qui comando io!». «Io sono la padrona di casa!». «Pongo un ultimatum. Esigo categoricamente un milione per l’acquisto…». «Voglio il resto! Voglio il resto!». «Ti do tre secondi di tempo. Conto fino a tre…». «Di contare son capaci tutti. Conto pure io». Erano tutt’e due sul punto di piangere per il dispetto. Con le labbra contratte dall’ira contarono tutt’e due, urlando sempre più forte: «Uno! Due! Tre!!!». I numeri, piccole duplici esplosioni, uscivano dalla loro bocca nel medesimo istante. Per lei si confondevano con i milioni cui sarebbe ammontato il suo capitale con l’aggiunta del resto. Per lui rappresentavano i nuovi locali. Lei avrebbe continuato a contare per tutta l’eternità, lui dopo il tre giunse soltanto fino al quattro. A questo punto si fermò. Al massimo della tensione, irrigidito come non mai, s’avvicinò a lei urlando nelle orecchie aveva ancora, come modello, la voce del portiere -: «Fuori il testamento!». Le dita della sua mano destra tentarono di stringersi in un pugno e percossero l’aria con la massima energia. Therese cessò di contare, lui l’aveva distrutta. Era veramente sconcertata. Aveva previsto una lotta all’ultimo sangue. Invece tutt’a un tratto lui diceva di sì. Se non fosse stata così presa dal desiderio di ottenere il resto non si sarebbe più raccapezzata. Una volta che nessuno la vuol più raggirare la sua collera svanisce. Lei non vive certo per montare in collera. Raggiunge lo scrittoio girando intorno al marito. Lui si ritrae. Sebbene lei sia distrutta, teme che possa restituirgli il pugno che era diretto a lei e non all’aria. Ma

lei non se n’è neppure accorta. Si mette a frugare tra le carte, le getta spudoratamente sossopra e ne toglie una dal mucchio. «Com’è possibile che il testamento di un’altra persona… sia finito tra i miei manoscritti?». Lui tenta di pronunciare urlando anche questa frase piuttosto lunga, e per questo non riesce a dirla alla moglie tutta in una volta. Si ferma tre volte per riprender fiato. Prima che lui sia arrivato alla fine, lei già replica: «Come sarebbe a dire un’altra persona?». Spiega in fretta il testamento, lo stende sul tavolo lisciandolo a dovere, avvicina penna e calamaio e cede discretamente il posto al proprietario del restante patrimonio. Quando lui, non ancora del tutto rabbonito, s’avvicina, gli occhi gli cadono subito sulla cifra. Gli pare che essa abbia qualcosa di familiare, ma la cosa principale è un’altra: la cifra è esatta. Mentre discutevano una vaga paura l’aveva messo in guardia contro la stupidità di quella donna analfabeta, che forse aveva letto male il numero. Soddisfatto alza lo sguardo verso la parte superiore del foglio, siede e s’accinge a un esame accurato. A questo punto riconosce il proprio testamento. Therese dice: «La cosa migliore sarebbe scrivere tutto da capo». Dimentica il pericolo che incombe sui suoi zeri. E’ tanto convinta della loro validità quanto Kien dell’amore di sua moglie. Lui dice: «Ma questo è il mio…». Lei sorride: «Scusa, che cosa ho…». Lui balza in piedi furibondo. Lei dichiara: «Ogni promessa è debito». Prima ancora di saltarle alla gola lui ha capito ogni cosa. Lei insiste perché scriva. Pagherà lei il foglio nuovo. Lui s’affloscia sulla sedia come se fosse grasso e pesante. Lei vuol sapere, alla fine, come stanno le cose. Pochi attimi dopo e per la prima volta ognuno aveva veramente capito l’altro.

Bastonate Il piacere maligno con cui lui le dimostrò, documenti alla mano, quanto poco possedesse ancora, aiutò Therese a superare il peggio. Si sarebbe dissolta nelle sue principali componenti, sottana, orecchie e sudore, se l’odio per Kien, un odio che lui esasperava con pedantesca voluttà, non fosse diventato per lei un elemento di coesione. Egli le fece vedere quanto aveva ereditato a suo tempo. Tolse tutti i conti relativi agli acquisti di libri dai diversi cassetti in cui li aveva cacciati a seconda dell’umore. La sua capacità di ricordare tutte le minuzie della vita di ogni giorno, che di solito gli riusciva molesta, ora gli tornò utile. Sul rovescio del testamento ormai inutilizzabile annotò le somme rintracciate. Therese, benché in pezzi, fece mentalmente l’addizione, arrotondando le cifre. Voleva sapere quanto restava in realtà. Risultò che la biblioteca era costata assai più di un milione. Questo sorprendente risultato non fu per lui di alcun conforto: un valore così alto non lo ripagava della perdita dei nuovi locali. Vendicarsi di un simile inganno era il suo unico pensiero. Durante quella minuziosa operazione non pronunciò una sillaba né in più né – cosa che per lui rappresentava un’impresa ben più difficile – in meno del necessario. Nessun malinteso era più possibile. Quand’ebbe finito di calcolare quella cifra tremenda, aggiunse a voce alta nel modo smozzicato in cui parlano gli scolari: «Il resto l’ho speso per l’acquisto di singoli libri e per il mio mantenimento». Allora Therese si sciolse in lagrime e straripò, gran fiume impetuoso, attraverso la porta nel corridoio, sfociando in cucina. Quando fu l’ora d’andare a dormire interruppe il suo pianto, si tolse la gonna inamidata, l’appoggiò su una sedia, sedette nuovamente davanti ai fornelli e ricominciò a piangere. La stanza là accanto, in cui per otto anni aveva vissuto così bene da governante, l’invitava al sonno. Ma le parve indecoroso por termine così presto al suo lutto, e non si mosse. Il giorno dopo, nella mattinata, mise in atto le decisioni prese durante il lutto. Chiuse a chiave le tre stanze che le appartenevano isolandole dal resto dell’appartamento. Il bel sogno era finito, così è spesso la vita, ma in fin dei conti lei possedeva tre stanze e i libri che vi erano conservati. I mobili non voleva adoperarli fino alla morte di Kien. Non bisognava sciupare nulla. Kien aveva trascorso il resto della domenica allo scrittoio. Voleva dare ad intendere di lavorare, avendo ormai compiuto la sua missione chiarificatrice. In realtà stava lottando con la sua brama di nuovi libri. Questa brama s’era risvegliata in lui con tale veemenza che il suo studio insieme con gli scaffali e i volumi gli sembrava vecchio e privo d’ogni interesse. Cercava continuamente di costringersi a tender la mano verso i manoscritti giapponesi che stavano sul tavolo. Quando vi riusciva, li toccava e subito se ne ritraeva quasi nauseato. Che importanza avevano? Essi stavano ormai da quindici anni nella sua cella. Non sentì fame né a mezzogiorno né alla sera. La notte lo colse ancora allo scrittoio. Sul manoscritto cominciato disegnò, contrariamente alle sue abitudini, segni privi di senso. Verso le sei del mattino s’appisolò; all’ora in cui era solito alzarsi sognò il gigantesco edificio di una biblioteca costruito, al posto dell’osservatorio, presso un cratere del Vesuvio. Lui camminava su e giù per la biblioteca tremando di paura in attesa dell’eruzione del vulcano, che sarebbe dovuta avvenire entro otto minuti. La sua paura e il suo camminare durarono infinitamente a lungo, gli otto minuti che lo separavano dalla catastrofe rimanevano immutati. Quando si svegliò la porta di comunicazione con la stanza accanto era già chiusa a chiave. Se n’avvide, ma l’ambiente non gli parve più angusto di prima. Non era questione di porte: tutto era egualmente vecchio, le stanze, le porte, i libri, i manoscritti, lui stesso, la scienza, la sua vita. Barcollando leggermente per la fame s’alzò in piedi e tentò di aprire l’altra porta, quella che dava sul corridoio. Si accorse d’esser chiuso dentro. Si rese conto che s’era alzato con l’intenzione d’andarsi a prendere qualcosa da mangiare e, nonostante la sua debolezza, se ne vergognò. Nella scala gerarchica delle attività umane il mangiare occupava il gradino più basso. Il mangiare era divenuto oggetto di culto mentre in realtà non serviva ad altro che a dare l’avvio a una serie di altre disprezzate funzioni. Gli venne anzi in mente di dover compiere quanto prima una di queste, e si sentì autorizzato a scuoter la porta. Lo stomaco vuoto e lo sforzo fisico lo prostrarono talmente che fu di nuovo sul punto di scoppiare in lagrime, come il giorno prima durante il conteggio. Ma oggi gli mancava persino la forza di piangere. Si limitò a protestare con voce lamentosa: «Non voglio da mangiare, non voglio da mangiare». «Così va bene!», disse Therese che aspettava là fuori già da un po’ tendendo l’orecchio per cogliere i suoi primi movimenti. Non deve certo illudersi che lei gli dia qualcosa da mangiare. Un marito che non porta a casa soldi non mangia. Questo doveva dirglielo, temeva che lui si dimenticasse del mangiare. Dato che ora, al mangiare, lui rinunciava spontaneamente, aprì la porta e gli comunicò quale fosse la sua opinione in proposito. Inoltre non gli avrebbe certo permesso di sporcarle la casa. Il corridoio davanti alle sue stanze apparteneva a lei. Così dice la legge. Che cosa sta scritto nei passaggi privati delle case? Aprì un biglietto che teneva in mano ripiegato più volte e dopo averlo stirato lesse: «Il transito è permesso fino a nuovo ordine». Era scesa dabbasso e sia dal macellaio che dalla fruttivendola, dove nessuno la poteva soffrire, aveva fatto la spesa per una persona sola, benché in quel modo tutto venisse a costarle più caro e, di solito, lei acquistasse le provviste per più giorni. Ai loro sguardi interrogativi aveva risposto in tono aggressivo: «Da oggi non gli darò più da mangiare!». Proprietari, clienti e personale di tutti e due i negozi erano rimasti stupefatti. Poi aveva copiato parola per parola l’iscrizione affissa al più vicino passaggio privato. Mentre lei scriveva la borsa della spesa con tutte le buone cose che v’erano dentro era rimasta per terra, nel sudiciume della strada. Al suo ritorno Kien dormiva ancora. Lei chiuse a chiave la porta del corridoio e si mise in agguato. Adesso il momento era venuto, e lei gli disse tutto. Gli ritira il permesso di transito. Lui non potrà più utilizzare il suo corridoio fino alla cucina e al gabinetto. Là Kien non ha niente da fare. Se le sporcherà ancora una volta il corridoio dovrà pulirlo lui. Lei non è una serva, ed è capace di portare la cosa in tribunale. Dall’appartamento lui potrà uscire, ma solo se lo farà secondo le regole. Ora lei gli farà vedere come. Senza aspettare la sua risposta strisciò rasente alla parete fino alla porta d’ingresso: la gonna sfiorò effettivamente il muro senza sconfinare nella parte di corridoio che apparteneva a lei. Poi scivolò in cucina, prese un pezzo di gesso che conservava ancora dai tempi di scuola e tracciò una grossa linea tra la sua parte di corridoio e quella di lui. «Questo è solo per ora», disse, «poi si farà con il colore a olio». Nello stordimento provocato in lui dalla fame Kien non aveva capito che cosa stesse accadendo. I movimenti di lei gli apparivano privi di senso. Siamo ancora sul Vesuvio? si chiese. No, sul Vesuvio c’era il terrore degli otto minuti, quella femmina non c’era, forse, in fondo, il Vesuvio non era tanto male. L’unico affanno era rappresentato dal pericolo dell’eruzione. Nel frattempo però l’affanno suo personale s’era fatto più impellente e lo spinse a calcare la parte proibita di corridoio come se Therese non vi avesse tracciato alcuna linea. Kien raggiunse a lunghi passi la sua meta, Therese lo seguì.

L’indignazione di lei uguagliava quanto a intensità l’affanno di lui. Lei l’avrebbe senz’altro raggiunto, ma lui aveva un buon vantaggio. Si chiuse dentro a chiave, com’è buona regola, e questo lo salvò dalle mani di Therese. Lei si mise a scuotere la porta chiusa e stridette a più riprese: «Questa storia finisce in tribunale! Questa storia finisce in tribunale!». Quando s’accorse che tutto era inutile si ritirò in cucina. Davanti ai fornelli, dove le venivano sempre le idee migliori, le balenò una soluzione veramente giusta. D’accordo, gli permetterà di passare per il corridoio. Lei sa essere comprensiva. Il marito deve poter uscire. Ma lei che ne avrà in cambio? A lei nessuno regala niente. Deve sempre guadagnarsi tutto. Gli darà il corridoio, ma lui in cambio le cederà una parte della sua camera. Le sue stanze, lei deve tenerle da conto: e a dormire dove andrà? Le tre stanze nuove le ha chiuse a chiave. Ora chiuderà anche la vecchia cameretta. Là non deve entrare nessuno. A questo punto dovrà per forza dormire nella stanza di lui. Le restano forse altre soluzioni? Lei sacrifica il suo bel corridoio e lui le fa posto nella sua stanza. I mobili li prenderà dalla cameretta dove prima dormiva la governante. In cambio lui potrà andare al gabinetto ogni volta che ne avrà voglia. Corse subito in strada e chiamò un facchino. Con il portiere non voleva aver a che fare perché quello era comprato dal marito. Non appena la voce di lei l’aveva lasciato in pace, Kien s’era addormentato per lo sfinimento. Quando si svegliò si sentì fresco e pieno di coraggio. Andò in cucina e mangiò senza rimorsi alcune fette di pane e burro. Quando poi, senza sospettare nulla, mise piede nella sua stanza, la vide rimpicciolita della metà. Nel mezzo, di traverso, c’era il paravento. Dietro il paravento trovò Therese fra i suoi vecchi mobili. Lei stava giusto dando gli ultimi ritocchi e trovava tutto molto bello anche così. Per fortuna l’impudente facchino se n’era già andato. Le aveva chiesto un patrimonio, ma lei non gli aveva dato che la metà e l’aveva cacciato fuori, cosa di cui si sentiva molto orgogliosa. Soltanto il paravento non le piaceva, aveva un’aria stravagante. Da un lato era tutto bianco e senza disegni, dall’altra non aveva che degli uncini, lei avrebbe preferito un bel tramonto, sanguigno. Indicò il paravento e disse: «Di questo non c’è bisogno. Per conto mio si può anche togliere». Kien tacque. Si trascinò fino allo scrittoio e si lasciò cadere con un lieve gemito sulla sedia che stava dietro ad esso. Dopo qualche minuto si rialzò in piedi. Voleva vedere se i libri nella stanza accanto erano ancora vivi. La sua preoccupazione scaturiva più da un senso del dovere radicato in lui da molto tempo che non da un moto d’amore. Dal giorno prima provava tenerezza soltanto per i libri che non possedeva. Therese si parò davanti alla porta prima che lui la raggiungesse. Come aveva fatto ad accorgersi dei suoi movimenti stando al di là del paravento? Com’era possibile che la sottana la facesse avanzare più in fretta di quanto le gambe non facessero avanzare lui? Per il momento non toccò né lui né la porta. Prima ancora che lui si fosse deciso ad affrontare la fatica che ogni parola gli costava lei aveva già cominciato a strepitare: «Il signor marito non ci provi nemmeno. Perché io sono tanto buona da permettergli di usare il corridoio lui crede che anche le stanze gli appartengano. Quelle sono mie, ho la dichiarazione scritta. Carta canta e villan dorme. Il marito non deve toccare la maniglia. Tanto, così non può entrare, perché le chiavi le tengo io. E io non le tiro fuori. La maniglia appartiene alla porta. La porta appartiene alla stanza. Porta e maniglia appartengono a me. Io non permetto che il marito tocchi la maniglia!». Lui fece col braccio un gesto maldestro per scansare le parole di lei e così facendo le sfiorò senza volerlo la sottana. Allora lei si mise a strillare alla disperata, come per invocare aiuto. «Io non permetto che il marito mi tocchi la sottana! La sottana è mia! Me l’ha forse comprata il marito? Io, me la sono comprata! L’ha forse inamidata e stirata il marito? Io, me la sono inamidata e stirata. Le chiavi stanno forse nella sottana? Macché, neanche ci pensano. Le chiavi non le tiro fuori. Il marito può strapparmi la sottana a morsi ma io le chiavi non le tiro fuori perché non stanno nella sottana. Una moglie fa qualsiasi cosa per suo marito. Ma la sottana no! La sottana no!». Kien si passò una mano sulla fronte. «Sono in un manicomio», disse, così piano che lei non lo sentì. Uno sguardo ai libri lo convinse del contrario. Si ricordò del proposito che l’aveva indotto ad alzarsi. Non ebbe il coraggio di attuarlo. Come avrebbe potuto entrare nella stanza accanto? Passando sul cadavere di lei? A che gli serve il suo cadavere se poi non ha le chiavi? Lei è stata abbastanza furba da nasconderle. Non appena riavrà le chiavi in mano lui spalancherà tutte le porte. Non ha certo paura di sua moglie. Gli si diano le chiavi in mano e lui la getterà per terra come niente fosse. Se si ritirò vicino alla scrivania fu soltanto perché in quel momento una battaglia non prometteva alcun successo. Therese montò la guardia davanti alla sua porta per un altro quarto d’ora, continuando a strillare imperterrita. Il fatto che lui fosse ipocritamente tornato a sedere dietro lo scrittoio non le fece la minima impressione. Soltanto quando cominciò a venirle meno la voce si diede per vinta e scomparve pian piano dietro il paravento. Non si fece più vedere fino a sera. Ogni tanto faceva sentire dei suoni smozzicati che parevano frammenti di un sogno. Infine ammutolì. Lui respirò più liberamente: ma non per molto. Ad un tratto suoni inconfondibili tornarono a squarciare quel vuoto e quel silenzio deliziosi. «I seduttori dovrebbero essere impiccati. Prima fanno una promessa di matrimonio e poi non fanno testamento. Ma ti prego, signor Puda: ricorda che chi va piano va sano. Son cose da farsi queste, non avere i soldi per un testamento!». Non è lei che parla, si disse Kien: questa è soltanto una reazione del mio udito eccitato, si tratta, per così dire, di echi. Poiché ora lei taceva lui si tranquillizzò a questa spiegazione. Gli riuscì di sfogliare i manoscritti che aveva davanti. Stava leggendo la prima frase che gli echi lo disturbarono nuovamente. «Ho forse commesso un delitto? Giuda è una canaglia. Anche i libri valgono qualcosa. Il mondo non è più quello di una volta. Il signor nipote aveva sempre voglia di scherzare. La vecchia era proprio una stracciona. Il tempo viene per chi lo sa aspettare. Anche le chiavi fan parte della mia proprietà.

Così è la vita. Le chiavi a me non le ha regalate nessuno. Tanti bei soldi per niente. Di chieder l’elemosina son capaci tutti. Di essere maneschi son capaci tutti. La sottana no». Proprio questa frase, che più d’ogni altra si prestava ad essere interpretata come un’eco delle urla precedenti, lo convinse che Therese stava parlando per davvero. Impressioni che credeva del tutto dimenticate riaffiorarono in lui rinverdite e soffuse di un alone di felicità. Era di nuovo a letto malato, costretto a sopportare per sei settimane le sue litanie. Lei, allora, ripeteva sempre le stesse cose: lui aveva imparato a memoria le sue parole ed era lui, a rigor di termini, a tenerla in pugno. Allora sapeva in anticipo quale fosse la frase, la parola di turno. Allora veniva il portiere e le faceva la pelle ogni giorno. Quello era stato un periodo meraviglioso. Quanto tempo era passato! Fece il conto e giunse a un risultato sconvolgente. Da quando s’era alzato era trascorsa appena una settimana. Provò a cercare un motivo che potesse spiegare l’abisso che separava il grigiore dei giorni presenti da quell’aureo passato. E forse sarebbe riuscito a trovarlo, ma Therese ricominciò a parlare. Ciò che lei diceva era incomprensibile, ed esercitava su di lui un potere dispotico. Non era possibile impararlo a memoria: come prevedere, dunque, ciò che sarebbe venuto poi? Era incatenato e non sapeva da che. Verso sera lo liberò la fame. Si guardò bene dal chiedere a Therese se c’era qualcosa per cena. Di nascosto – così credette lui – e senza far rumore lasciò la stanza. Solo quando fu in trattoria si voltò indietro per vedere se lei l’avesse seguito. No, sulla porta lei non c’era. Ci si provi! disse, e sedette arditamente a un tavolo in uno dei locali interni, in mezzo a coppie che a quanto pareva non erano sposate. E così, alla mia età, sarei finito anch’io in un separé, sospirò, e fu stupito al vedere che sui tavoli non scorrevano fiumi di champagne e che quella gente, anziché comportarsi in maniera indecorosa, divorava con avida ingordigia bistecche e cotolette. Gli uomini gli facevano quasi pena perché s’erano messi con delle donne. Però, considerando quant’erano ingordi, vietò a se stesso qualsiasi sentimento del genere, forse perché lui stesso era tanto affamato. Insistette perché il cameriere gli risparmiasse la presentazione della lista e gli portasse ciò che a lui da specialista qual era così s’espresse Kien – pensava fosse buono. Lo specialista corresse in un baleno la sua opinione sul conto dell’individuo miseramente vestito che gli stava davanti, riconobbe il segreto buongustaio che si nascondeva nei panni di quel magro signore e gli presentò quanto v’era di più caro. Kien era stato appena servito e già gli sguardi di tutti gli amanti erano concentrati su di lui. Il proprietario di quelle ghiottonerie se n’accorse e inghiottì il cibo, che pure trovava eccellente, con ostentata riluttanza. «Prendere» o «inghiottire» gli parevano le espressioni più neutre e quindi più adatte a indicare le funzioni nutritive. Insistette caparbiamente su pensieri concernenti codesta materia e li svolse in lungo e in largo davanti al proprio spirito che lentamente si rinfrancava. Il rilievo dato a questa sua peculiarità gli restituì un po’ di coscienza del proprio valore. Con gioia sentì che il suo carattere aveva ancora una grande riserva di tratti peculiari e si disse che Therese non meritava altro che pietà. Tornando a casa accarezzò l’idea di farle sentire questa pietà. Spalancò la porta di casa con energia. Vide già dal corridoio che nella sua stanza la luce non era accesa. L’idea che lei stesse già dormendo lo riempì di una gioia tumultuosa. Cautamente, senza rumore, timoroso che le sue dita ossute potessero far chiasso abbassando la maniglia, Kien aprì la porta. Il proposito di mostrare alla moglie tutta la sua pietà gli venne in mente nell’istante meno adatto. Sì, disse a se stesso, farò così. Per pietà mi asterrò dallo svegliarla. Riuscì a conservare ulteriormente la propria forza di carattere. Non accese la luce e si avvicinò pian piano, in punta di piedi, al proprio letto. Mentre si spogliava l’indispettì il fatto che sotto la giacca si dovesse portare un panciotto e sotto il panciotto una camicia. Ognuno di questi capi produceva un suo particolare rumore. La solita sedia accanto al letto non c’era. Tralasciò di cercarla e posò gli abiti sul pavimento. Pur di non svegliare Therese sarebbe stato disposto a stendersi anche lui sotto il letto. Pensò quale fosse il modo più silenzioso per entrare nel letto. Dato che in lui la testa era la parte più pesante e i piedi la parte più lontana dalla testa, decise che questi, come parte più leggera, dovessero salire per primi. Una gamba era già sulla sponda del letto; ora si trattava, con un abile salto, di farvi giungere anche l’altra. Il busto e la testa rimasero per un istante sospesi a mezz’aria e ricaddero poi involontariamente, in cerca di un appoggio, sul cuscino. A questo punto Kien avvertì la presenza di qualcosa d’insolitamente morbido; pensò: «Un ladro!», e chiuse gli occhi più in fretta che poté. Essendo sdraiato sopra il ladro, non s’azzardò a muoversi. Nonostante la paura sentì che il ladro era di sesso femminile. Di sfuggita e alla lontana provò soddisfazione al vedere quanto in basso fossero caduti quel sesso e quell’epoca. Rigettò l’idea di difendersi affiorata in una qualche latebra omicida del suo cuore. Se la ladra, come gli è parso lì per lì, sta veramente dormendo, lui, dopo un controllo sufficientemente lungo, striscerà via furtivamente, raccoglierà i propri vestiti, lascerà aperto l’appartamento e si rivestirà accanto allo sgabuzzino del portiere. Però non lo chiamerà subito: aspetterà molto, molto tempo. Soltanto se udrà avvicinarsi dei passi da sopra busserà allo sgabuzzino. In questo frattempo la ladra avrà assassinato Therese. Sarà costretta ad assassinarla, perché Therese si difenderà. Therese non è tipo da lasciarsi derubare senza difendersi. Anzi, è già stata assassinata. Therese giace in un lago di sangue dietro il paravento. Sempre che la ladra abbia colpito giusto. Magari all’arrivo della polizia sarà ancora viva e riverserà la colpa su di lui. Sarebbe bene darle un altro colpo per sicurezza. No, non è necessario. La ladra è tanto stanca che s’è messa a dormire. Una ladra non si stanca tanto facilmente. Deve esserci stata una lotta terribile. Una donna robusta. Un’eroina. Tanto di cappello. Lui non vi sarebbe riuscito. Lei l’avrebbe avviluppato nella sua sottana, soffocandolo. Il solo pensiero gli dà l’affanno. Lei deve aver avuto l’intenzione di fargli qualcosa del genere, di sicuro lo voleva assassinare. Tutte le mogli vogliono assassinare i loro mariti. Aspettava solo il testamento. Se lui l’avesse fatto, a quest’ora sarebbe là morto al posto suo. Tanta è la perfidia che può albergare in un essere umano, anzi – non siamo ingiusti – in una femmina. Lui l’odia ancora. Divorzierà da lei. Dev’essere possibile anche se è morta. Non permetterà che sia seppellita sotto il suo nome. Assolutamente. Nessuno deve venire a sapere che è stato sposato con lei. Darà al portiere tutto il denaro che vuole purché taccia. Quel matrimonio potrebbe danneggiare la sua reputazione. Un vero studioso non può permettersi passi falsi di questa portata. Senza dubbio l’avrà tradito. Tutte le mogli tradiscono i loro mariti. De mortuis nil nisi bene. Purché siano morti, purché siano morti! Deve controllare. Forse si tratta solo di morte apparente. Può capitare anche agli assassini più robusti. Gli esempi citati dalla storia sono innumerevoli. La storia è una cosa sordida. La storia è una cosa che fa paura. Se Therese è ancora viva lui la ridurrà in poltiglia. Ne ha tutto il diritto. Lei gli ha fatto perdere la nuova biblioteca. Lui si sarebbe senz’altro vendicato di lei. Ma ecco che arriva un altro e l’assassina. A lui sarebbe spettata la prima pietra. Gliel’hanno tolta di mano. E allora scaglierà l’ultima. Deve colpirla. Morta o non morta che sia. Le deve sputare addosso! Deve calpestarla, deve colpirla! Kien s’alzò vibrante di collera. In quello stesso momento lo raggiunse un tremendo ceffone. Fu sul punto di sussurrare «ssst!» all’assassina, per via del cadavere che forse non era ancora morto. La delinquente cominciò a strepitare. Aveva la voce di Therese. Dopo le prime tre parole egli ebbe la certezza che assassina e cadavere erano tutt’uno. Conscio della propria colpa, tacque e si lasciò bastonare di santa ragione. Appena lui era uscito di casa Therese aveva scambiato i letti, tolto di mezzo il paravento e rivoluzionato anche il restante mobilio. Durante questo lavoro che aveva eseguito piena d’esultanza, aveva continuato a ripetersi la medesima frase: possa crepare, possa crepare. Dato che alle nove non era ancora rientrato, s’era messa a letto, come si conveniva a una persona per bene, ed aveva atteso con impazienza il momento in cui lui avrebbe acceso la luce per scaricargli addosso la riserva d’ingiurie accumulata durante la sua assenza. Se invece non avesse acceso la luce e fosse entrato nel suo letto, avrebbe aspettato ad insultarlo che tutto fosse finito. Dato però che lei era una donna per bene, contava che si verificasse la prima eventualità. Quando lui era entrato di soppiatto nella stanza e s’era svestito accanto a lei, le si erano impietriti cuore e bocca. Per non dimenticarsi d’insultarlo s’era proposta di pensare incessantemente durante il piacere: «E’ un vero uomo, questo? Questo non è un vero uomo!». Quando lui le era rovinato addosso all’improvviso non aveva fiatato per paura che lui se n’andasse. Le era rimasto sopra solo pochi istanti, ma a lei erano parsi altrettante giornate. Lui non si muoveva, era leggero come una piuma, lei respirava appena. A poco a poco la sua attesa s’era trasformata in esasperazione. Quando lui era balzato su, lei aveva sentito che stava per sfuggirle. Aveva cominciato a colpirlo come un’ossessa e l’aveva investito con gli insulti più volgari. Le bastonate sono un balsamo per un moralista che è stato sul punto di lasciarsi trascinare a un delitto. Finché non cominciò a sentire troppo male, Kien si colpì lui stesso con la mano di Therese ed aspettò che lei gli gridasse il nome che s’era meritato. Perché, a ben guardare, che cos’era lui? Un profanatore di cadaveri. Era stupito della mitezza dei suoi insulti, l’avrebbe creduta capace di titoli ben diversi, e soprattutto di quell’unico che lui meritava. Non voleva infierire e lo teneva in serbo per ultimo? Lui non aveva nulla da opporre ai termini generici cui lei faceva ricorso. Non appena fosse arrivato il «profanatore di cadaveri», lui avrebbe fatto un cenno d’assenso ed avrebbe espiato la sua colpa con una confessione che, per un uomo del suo stampo, aveva certo un’importanza maggiore d’un paio di percosse. Ma quel paio di percosse non finivano più: cominciò a trovarle eccessive. Le ossa gli dolevano e lei, per ripetere frasi sudicie e banali, non trovava il tempo per il fatidico «profanatore di cadaveri». S’era alzata a sedere e lo lavorava un po’ coi pugni, un po’ coi gomiti. Era davvero tenace, solo dopo vari minuti cominciò ad avvertire una leggera stanchezza alle braccia: interruppe le sue urla composte esclusivamente di sostantivi pronunciando la frase completa: «Manco per sogno!», lo scaraventò giù dal letto tenendolo per i capelli in modo che non le sfuggisse e, seduta sull’orlo del letto, cominciò a pestarlo coi piedi finché le sue braccia non si furono riposate. Allora gli si mise a cavalcioni sullo stomaco, s’interruppe di nuovo, questa volta per un: «Il bello deve ancora venire!», e cominciò a schiaffeggiarlo a turno con la sinistra e con la destra. A poco a poco Kien perdette i sensi. Già prima però aveva dimenticato l’espiazione di cui le era debitore. Gli dispiaceva d’esser tanto lungo. Piccolo e magro, mormorò, piccolo e magro. Così la superficie da percuotere sarebbe stata tanto esigua! Si fece piccino, il colpo andò a vuoto. Si era messa a bestemmiare, ora? Colpiva il pavimento, colpiva il letto, lui udiva i colpi sonori. Non le riusciva quasi più di cogliere nel segno, lui s’era fatto piccolo; per questo lei bestemmiava. «Storpio!», gli gridò. Per fortuna! Lui calava a vista d’occhio, con impressionante rapidità. Ormai anche lui doveva cercare il proprio corpo, lei non lo trovava mai, lui era così piccolo che scompariva persino a se stesso. Lei continuò a dargli colpi sodi e ben assestati. Alla fine disse ansimando: «Bisogna pure riposarsi», sedette sul letto e affidò l’incombenza alle proprie gambe che l’assolsero in maniera non altrettanto coscienziosa. Lavoravano sempre più adagio, e alla fine smisero spontaneamente. Appena i suoi arti ebbero cessato di muoversi Therese non seppe più trovare altri insulti. Tacque. Lui non si muoveva. Lei si sentiva tutta pesta. Dietro il suo silenzio subodorò qualche particolare perfidia. Per proteggersi dai suoi propositi cominciò a minacciarlo. «Io mi rivolgo al tribunale. Queste cose non le tollero. Un marito non aggredisce la moglie. Io sono una persona per bene. Sono una donna. Il marito si piglierà dieci anni. Sui giornali questa si chiama violenza carnale. Ho le prove. Io leggo i processi. Non azzardarti a muoverti. Di mentire sono capaci tutti.

Che cosa ci fai qui? Ancora una parola e vado a chiamare il portiere. Lui mi deve proteggere. Una donna è sola. Con la forza sono capaci tutti. Io divorzio. L’appartamento è mio. A un delinquente non tocca un bel nulla. Fermo, non agitarti. Ho forse chiesto qualcosa? Sono ancora tutta dolorante. Un marito dovrebbe vergognarsi. Spaventare così la moglie! Adesso potrei essere morta. Allora sì che lui si troverebbe nei pasticci! Non ha neppure la camicia da notte. A me che importa? Lui dorme senza camicia da notte. Così si vede subito tutto. Basta che io apra la bocca e tutti mi crederanno. In prigione io non ci vado. Io ho il signor Puda. Provi un po’ il marito: l’avrà a che fare con Puda. Con quello non la spunta nessuno. Glielo dico subito. Ecco cosa si ottiene a voler bene a qualcuno». Kien conservava un silenzio ostinato. Therese disse: «E’ morto». Non appena ebbe pronunciato queste parole capì quanto l’avesse amato. S’inginocchiò accanto a lui e cercò i segni dei suoi colpi e delle sue pedate. Allora s’accorse che era buio, si alzò e accese la luce. Già a tre passi di distanza vide che il corpo di Kien era terribilmente sconciato. «Deve vergognarsi, pover’uomo!», disse: la sua voce tradiva la pietà. Tolse il lenzuolo dal proprio letto – poco mancò che si togliesse la camicia – e ve l’avvolse con cura. «Adesso non si vede niente», disse, e se lo prese delicatamente in braccio come un bambino. Lo portò sul letto e lo coprì cercando di riscaldarlo e di calmarlo. Gli lasciò anche il lenzuolo «ché non si raffreddi». Avrebbe avuto voglia di sedersi accanto al suo letto e di curarlo. Tuttavia non soddisfece questo desiderio perché così lui avrebbe dormito più tranquillo; spense la luce e si rimise a letto. Non serbò rancore al marito per il lenzuolo mancante.

Pietrificato Due giorni trascorsero in silenzio e in una specie di stordimento. Appena fu tornato completamente in sé, Kien s’arrischiò a considerare segretamente l’immensità della propria disgrazia. Erano necessarie molte percosse per ridurre il suo spirito in potere della moglie: lui ne aveva ricevute ancora di più. Dieci minuti di botte in meno e lui sarebbe stato pronto a qualunque vendetta. Forse Therese aveva subodorato il pericolo e per questo l’aveva picchiato fino all’ultimo. Debole com’era, egli non voleva nulla e temeva una sola cosa: altre botte. Quando lei s’avvicinava al letto si rattrappiva come un cane bastonato. Lei posava la scodella con il cibo sulla sedia accanto al letto e subito gli voltava le spalle: lui non doveva credere che ci fosse di nuovo da mangiare. Finché era ammalato, Therese era tanto sciocca da dargliene. Lui si trascinava fino alla scodella e leccava con gran fatica una parte dell’elemosina concessagli. Lei sentiva lo schioccare della sua lingua avida e si sentiva tentata di chiedergli: «Ti è piaciuto?». Si negava anche questa gioia e per rifarsi pensava a un mendicante al quale aveva dato qualcosa quattordici anni prima. Costui era senza gambe, senza braccia: era forse un uomo? E tuttavia aveva una certa rassomiglianza col signor nipote. Lei veramente non gli avrebbe dato nulla, quelli sono tutti imbroglioni: prima fanno gli invalidi e poi appena tornano a casa stanno benissimo. Ma a quel punto lo storpio aveva detto: «Come sta il signor marito?». Che abile domanda! Così s’era pigliato una bella moneta da dieci centesimi. Gliel’aveva gettata nel cappello lei stessa. Era tanto povero. A lei non piace fare queste cose, di solito non le fa. Ma lei sa anche fare le sue eccezioni, e per questo il marito riceve qualcosa da mangiare. Kien, il mendicante, soffriva acutamente ma si guardava bene dal gridare. Invece di girarsi verso il muro teneva d’occhio Therese e seguiva il suo andirivieni con paura sospettosa. Lei non faceva rumore ed era agile malgrado la sua pesantezza. O forse dipendeva dalla stanza il fatto che lei apparisse così all’improvviso e poi altrettanto all’improvviso scomparisse? I suoi occhi avevano un luccichio maligno, erano occhi da gatto. Quando voleva dire qualcosa e s’interrompeva prima di cominciare, il rumore che le usciva di bocca era quello di un gatto che soffia. Una tigre sanguinaria a caccia di carne umana era entrata nella pelle e nei panni di una fanciulla. Poi s’era appostata piangente all’angolo di una via ed era così bella che un dotto le s’era avvicinato. Lei gli aveva mentito astutamente e lui, mosso a compassione, se l’era portata a casa facendo di lei una delle sue mogli. Era un uomo assai coraggioso e dormiva con lei volentieri più che con qualunque altra. Una notte lei s’era tolta la pelle di fanciulla e gli aveva squarciato il petto. Dopo avergli divorato il cuore era scomparsa dalla finestra, lasciando sul pavimento la sua pelle radiosa. Pelle e cadavere erano stati trovati da una delle altre mogli, la quale aveva invocato disperatamente un atto di magia che richiamasse in vita il marito. S’era abbassata fino a recarsi dall’uomo più potente di tutta la regione, un pazzo che viveva nel fango del mercato, e per ore s’era rotolata ai suoi piedi. Allora, davanti a tutti, il pazzo le aveva sputato su una mano e lei aveva dovuto inghiottire lo sputo. Poi aveva pianto e s’era afflitta per molti giorni, perché amava il morto anche senza cuore. Dall’infamia che aveva inghiottito per amor suo era nato sul tiepido suolo del suo petto un nuovo cuore. Allora l’aveva dato al marito e questi era tornato a lei. In Cina ci sono donne che amano veramente. Nella biblioteca di Kien c’è soltanto la tigre. Però non è né giovane né bella e invece di una pelle radiosa porta una sottana inamidata. A questa tigre più che il cuore del dotto interessano le ossa. Il più perfido degli spiriti cinesi ha maniere più delicate che non la corporea Therese. Ah, se lei non fosse altro che uno spirito non potrebbe picchiarlo! Dalla sua pelle, vorrebbe uscire lui, e lasciargliela in mano perché lei la picchiasse liberamente. Le sue ossa hanno bisogno di pace, le sue ossa devono riposarsi, senza ossa la scienza è morta. Chissà se ha ridotto anche il proprio letto, dall’altra parte del paravento, così come ha ridotto lui. Il pavimento non è crollato sotto i suoi pugni. Questa casa ne ha passate tante. E’ antica, e come tutte le cose antiche è costruita solidamente. Anche Therese è un esempio di ciò. Basta osservarla con imparzialità. Essendo una tigre ha prestazioni superiori a quelle di una qualunque altra donna. Potrebbe tener testa al portiere. Qualche volta, in sogno, lui urtava e urtava la sua sottana finché Therese cadeva a terra. Allora gliela sfilava dai piedi. Improvvisamente si trovava in mano un paio di forbici e la tagliuzzava in pezzetti minutissimi. Questa operazione lo teneva occupato molto tempo. Una volta tagliuzzata la gonna, trovava i pezzi ancora troppo grandi: lei sarebbe forse riuscita a ricucirli insieme. Per questo, senza nemmeno alzare gli occhi ricominciava da capo il lavoro; ogni brandello veniva tagliato nuovamente in quattro. Poi rovesciava su Therese un sacco pieno di brandelli blu. Come era avvenuto che i brandelli erano finiti nel sacco? Il vento li portava lontano da lei, addosso a lui, essi gli s’appiccicavano sulla pelle, se li sentiva, grandi lividi blu, su tutto il corpo, e si lamentava ad alta voce. Therese strisciava fino a lui e diceva: «Lamenti non ne voglio sentire! Che succede?». Era tornata blu. Una parte dei lividi s’era dunque posata anche su di lei. Strano, gli pareva d’averli tutti lui. Però cessava di lamentarsi. Lei era soddisfatta di questa risposta. Le venne in mente per caso il cane che c’era dai suoi ultimi padroni. Quello passava a cuccia prima ancora che uno gli dicesse qualcosa. Così andava bene. In capo a pochi giorni l’assistenza, che consisteva in un’unica scodella di cibo da mattina a sera, divenne per Kien altrettanto molesta che i dolori del suo corpo pieno di lividi. Avvertiva la diffidenza della moglie quando questa si avvicinava. Già al quarto giorno lei aveva perduto la voglia di continuare a nutrirlo. Di starsene a letto son capaci tutti. Esaminò il suo corpo, per brevità, attraverso le coperte e decise che ben presto lui sarebbe stato nuovamente bene. Infatti non si torceva nemmeno. Chi non si torce non ha dolori. Era ora che s’alzasse, non aveva più bisogno che lei gli cuocesse le pietanze. Gli avrebbe detto semplicemente: «Alzati!». Una vaga paura le disse però che lui avrebbe potuto balzare in piedi all’improvviso e strappandosi di dosso coperte e lenzuola mostrare una gran quantità di lividi come se ne avesse colpa lei. Per evitare una cosa del genere stette zitta e il giorno dopo gli portò la scodella piena solo a metà. Inoltre aveva cucinato male, a bella posta. Kien notò il mutamento, non nel cibo ma nella moglie. Interpretò in maniera sbagliata le sue occhiate indagatrici e paventò nuove percosse. A letto era indifeso. Giaceva davanti a lei in tutta la sua lunghezza; dovunque lei colpisse, in alto o in basso, qualcosa da colpire c’era sempre. Avrebbe potuto sbagliare soltanto nel senso della larghezza, ma questa garanzia non gli bastava. Furono necessari altri due giorni e due notti perché la paura acuisse la sua voglia d’alzarsi al punto di spingerlo a fare un primo tentativo. Il suo senso del tempo non veniva mai meno, lui era ancora in grado di dire in ogni momento che ora fosse, e per ristabilire di colpo l’ordine, una mattina s’alzò dal letto alle sei in punto. La sua testa scricchiolava come legna secca. Lo scheletro era squassato, e non v’era modo di farlo stare saldamente in piedi. Effettuando volta per volta accorte flessioni dalla parte opposta, egli riuscì ad evitare una caduta. A poco a poco, grazie a miracoli di equilibrio, poté infilarsi gli abiti che aveva tolti da sotto il letto. Ogni nuovo involucro veniva salutato con esultanza, esso rappresentava un ispessirsi della sua corazza, un’importante protezione. I movimenti che faceva per tenersi in equilibrio rassomigliavano a una danza piena di profondi significati. Attanagliato dai piccoli demoni dei suoi dolori, ma sfuggito al grande demonio della morte, Kien raggiunse a passo di danza il suo scrittoio. Là, un po’ stordito per l’eccitazione, sedette e dondolò ancora un poco braccia e gambe finché esse non si calmarono e non tornarono alla loro antica sottomissione. Da quando non aveva più nulla da fare Therese dormiva fino alle nove. Lei era la padrona di casa e quelle, spesso, dormono anche di più. Tocca ai domestici essere in piedi alle sei. Tuttavia non riusciva a dormire così a lungo e, una volta sveglia, il dolore per il suo patrimonio sfumato non le dava più tregua. Bisognava che si vestisse per sentire sulla carne il duro contatto delle chiavi. Per questo, da quando il marito stava a letto in seguito alle percosse, aveva trovato una soluzione davvero geniale. Alle nove si metteva a letto con le chiavi tra i seni. Fino alle due badava bene a non addormentarsi. Alle due s’alzava e nascondeva nuovamente le chiavi nella gonna. Là nessuno le avrebbe trovate. Poi s’addormentava. A quel punto era tanto stanca per la lunga veglia che faceva tutto un sonno fino alle nove, proprio come una signora. Così si arriva a qualcosa, e la servitù resta con tanto di naso. Grazie a tutto ciò Kien poté attuare il suo proposito senza che lei se n’accorgesse. Dallo scrittoio lui poteva vedere il suo letto. Vegliava sul sonno di lei come sul proprio bene più prezioso, e nel corso di tre ore si spaventò a morte un centinaio di volte. Lei possedeva la felice virtù di lasciarsi andare durante il sonno. Se in sogno aveva mangiato qualcosa di buono ruttava e faceva vento. Nello stesso tempo diceva: «Son cose da farsi?», riferendosi a cose che sapeva solo lei. Kien però riferiva quelle parole a se stesso. L’avventura che stava vivendo lo sospingeva da una parte all’altra; il letto gemeva rumorosamente e Kien gemeva con esso. Talvolta lei sogghignava ad occhi chiusi. A Kien spuntavano quasi le lacrime. Se sogghignava con maggior vivacità pareva che piangesse; allora a Kien veniva da ridere. Se non avesse ormai imparato ad essere prudente sarebbe scoppiato a ridere sul serio. Con stupore la sentì invocare Budda. Dubitò delle sue orecchie, ma lei ripeté: «Puda! Puda!», proprio come se piangesse, e lui sapeva che cosa significasse Puda nel linguaggio di lei. Quando lei tolse la mano da sotto le coperte lui trasalì. Lei però non menò colpi, si limitò a stringere il pugno. Perché, che cosa ho fatto, si domandò lui e si rispose: lo saprà lei. Aveva un sincero rispetto per l’acuta sensibilità della moglie. Il suo crimine, per il quale lei l’aveva punito così duramente, era stato espiato ad usura, ma non dimenticato. Therese allungò la mano verso il punto dove di solito erano nascoste le chiavi. Scambiò la pesante coperta per la gonna e trovò le chiavi sebbene non vi fossero. La sua mano calò pesantemente su di esse, le palpeggiò, giocherellò, le prese ad una ad una fra le dita e per la gioia si ricoprì di grosse, lucenti gocce di sudore. Kien arrossì senza sapere perché. Il braccio grasso di lei era infilato in una manica stretta e tesa. Il pizzo di cui essa era guarnita all’imboccatura era destinato all’uomo che dormiva nella stessa stanza. A Kien esso parve molto ammaccato. Pronunciò piano questa parola che gli stava a cuore. Sentì dire: «ammaccato». Chi aveva parlato? Alzò fulmineamente il capo e rivolse di nuovo lo sguardo a Therese. Chi altri poteva sapere fino a che punto lui fosse ammaccato? Lei dormiva. Lui non si fidò dei suoi occhi chiusi e aspettò con il fiato sospeso una seconda osservazione. «Come si può essere così temerari?», pensò lui. «Lei è sveglia e io la guardo sfrontatamente in faccia!». Si proibì l’unico mezzo a sua disposizione per appurare l’imminenza del pericolo e abbassò le ciglia come un ragazzo vergognoso. Attese con le orecchie spalancate.

- questa era la sua impressione – una gragnuola d’insulti. Invece di essi intese un respiro regolare. Dunque s’era riaddormentata. Dopo un quarto d’ora i suoi occhi le si avvicinarono quatti quatti, sempre pronti a battere in ritirata. Lui si sentì molto furbo e si permise un pensiero orgoglioso: lui era David e sorvegliava il dormiente Golia. Costui, tutto sommato, si poteva definirlo uno sciocco. Era vero che nel primo combattimento David non aveva vinto; però era sfuggito ai mortali assalti di Golia, e chi poteva dire come si sarebbero svolte le cose in futuro? Il futuro, il futuro, come fare per rifugiarsi nel futuro? Una volta passato il presente lui non avrà più nulla da temere da esso. Ah, se fosse possibile cancellare il presente! L’infelicità del mondo dipende dal fatto che noi si vive troppo poco nel futuro. Che importanza avrà fra cent’anni il fatto che oggi lui venga percosso? Una volta trascorso il presente, non si vedranno più i lividi. La colpa di tutti i dolori è del presente. Lui non vede l’ora che giunga il futuro perché allora nel mondo vi sarà più passato. Il passato è buono, non fa male a nessuno, lui vi si è mosso liberamente per vent’anni ed è stato felice. Chi si sente felice nel presente? Certo, se non avessimo i cinque sensi, anche il presente sarebbe sopportabile. Allora si vivrebbe nel ricordo, e cioè pur sempre nel passato. In principio era il Verbo, ma: era. Vale a dire che il passato esisteva già prima del Verbo. Lui s’inchina dinanzi alla priorità del passato. La Chiesa cattolica avrebbe in sé molto di buono ma per i suoi gusti comprende troppo poco passato. Duemila anni, in parte inventati: cos’è questo a paragone di tradizioni che abbracciano un periodo di tempo doppio o triplo? Un prete cattolico è superato da una qualunque mummia egiziana. Perché quella è morta lui si crede superiore. Ma le piramidi non sono affatto più morte della basilica di San Pietro: al contrario, sono più vive perché più antiche. Ma i romani credono di avere l’esclusiva del passato. Negano ai loro antenati la reverenza dovuta. Questo significa bestemmiare Dio. Dio è il passato. Lui ci crede in Dio. Verrà un giorno in cui gli uomini sostituiranno ai propri sensi il ricordo e al tempo il passato. Verrà un giorno in cui un unico passato abbraccerà tutti gli uomini, in cui non vi sarà nulla all’infuori del passato e tutti crederanno: appunto nel passato. Kien s’inginocchiò mentalmente e nel suo travaglio levò una preghiera al Dio del futuro: il Passato. Da molto tempo non sapeva più pregare; pure, davanti a questo Dio, ne fu di nuovo capace. Alla fine lo pregò di perdonarlo se non s’era inginocchiato materialmente. Ma certo lui già sapeva: à la guerre comme à la guerre, a lui non c’era bisogno di ripetere due volte la stessa cosa. Perché ciò che v’era in lui di inaudito e realmente divino era proprio la capacità di comprendere subito ogni cosa. Il Dio della Bibbia, in fondo, era un povero analfabeta. Più d’una divinità cinese di secondo piano aveva una cultura notevolmente più estesa. Lui avrebbe potuto raccontare cose tali riguardo ai Dieci Comandamenti da far rizzare i capelli al Passato. Ma il Passato conosce tutto meglio di lui. Per il resto lui si permetterà di liberarlo da quel ridicolo genere femminile che i tedeschi gli hanno affibbiato. (1) Che i tedeschi pongano l’articolo femminile dinanzi a ciò che v’è di meglio in loro, i loro pensieri astratti, è uno di quegli incomprensibili tratti di barbarie con cui essi annullano i propri meriti. In futuro lui santificherà con desinenze maschili tutto ciò che riguarda il Passato. Il genere neutro è troppo puerile per Dio. Nella sua qualità di filologo lui è perfettamente conscio dell’odio che s’attirerà in tal modo. Ma in ultima analisi la lingua esiste per l’uomo e non l’uomo per la lingua. Per tale motivo prega il Passato di approvare una simile modifica. Mentre negoziava con Dio era tornato a poco a poco al proprio posto d’osservazione. Non era possibile dimenticare Therese, neppure mentre pregava era riuscito a liberarsene completamente. Lei russava a scatti che imprimevano il ritmo alla sua preghiera. A poco a poco i movimenti di lei divennero più vivaci: non v’era dubbio che tra poco si sarebbe svegliata. La paragonò con Dio e la trovò insignificante. Proprio di passato era paurosamente priva. Non aveva antenati da cui fosse discesa e non possedeva alcuna cognizione. Povera creatura senza Dio! E Kien si chiese se la cosa più saggia non fosse rimettersi a dormire. Forse, in tal caso, lei avrebbe aspettato fino al risveglio di Kien e intanto le sarebbe sbollito il primo impeto di rabbia per la sua arbitraria ricomparsa allo scrittoio. In quel momento Therese, con uno scatto possente, si rovescia dal letto sul pavimento. L’urto è sonoro. Kien trema in tutto lo scheletro. Dove può cacciarsi? Lei l’ha visto. Sta venendo! L’ucciderà! Lui cerca un nascondiglio nel tempo. Corre su e giù per la storia, attraverso i secoli. Le migliori fortezze non offrono garanzie contro le bocche da fuoco. Cavalieri? Assurdo. Mazze ferrate svizzere? I moschetti inglesi ci spaccano in due armatura e cranio. Gli svizzeri sono battuti e annientati a Marignano. Soprattutto niente lanzichenecchi, niente mercenari. E’ in arrivo un’armata di fanatici. Gustavo Adolfo, Cromwell ci massacra tutti. Niente età moderna, niente Medioevo. Ecco, una falange. I romani la sfondano, elefanti indiani, frecce incendiarie, i cavalli s’inalberano. Dove riparare? Su una nave? Il fuoco greco! In America, in Messico? I sacrifici umani, là ci scannano. In Cina, in Cina! I Mongoli, piramidi di teschi. In un mezzo secondo ha esaurito il suo patrimonio storico. Non v’è salvezza in nessun posto, tutto crolla, dovunque uno si nasconda, i nemici lo stanano, le civiltà tanto amate cadono come castelli di carta davanti a barbari predoni, a zucche vuote e dure. A questo punto Kien si fece di pietra.

Strinse l’una contro l’altra le gambe rinsecchite. La mano destra si posò, serrata a pugno, sul suo ginocchio. Coscia e avambraccio si tennero fermi l’un l’altro. Il braccio sinistro rafforzò il petto. La testa s’alzò leggermente. Gli occhi guardarono lontano. Tentò di chiuderli. Dal loro rifiuto capì d’essere un sacerdote egiziano di granito. Era diventato una statua. La storia non l’aveva abbandonato. Nell’antico Egitto aveva trovato un rifugio sicuro. Finché la storia stava dalla sua parte nessuno poteva ucciderlo. Therese lo trattò come fosse d’aria, anzi: di pietra, corresse lui. Lentamente la sua paura cedette il posto a un profondo senso di pace. Lei si guarderà bene dall’assalire una pietra. Chi sarebbe così sciocco da ferirsi la mano picchiando una pietra? Pensò agli spigoli del proprio corpo. La pietra è buona, gli spigoli di una pietra sono ancor meglio. I suoi occhi, apparentemente fissi nelle lontananze dell’infinito, in realtà esaminavano il suo corpo in ogni particolare. Si rammaricò di conoscersi così poco. L’immagine che aveva del proprio corpo era magra. Avrebbe voluto avere uno specchio sullo scrittoio. Gli sarebbe piaciuto nasconderlo sotto la pelle dei propri abiti. Se avesse seguito il proprio desiderio di conoscenza si sarebbe denudato completamente e si sarebbe passato in rivista punto per punto, esplorando e scovando un osso dopo l’altro. Oh, lui sospettava l’esistenza di ogni sorta d’angoli segreti, di punte e spigoli duri ed aguzzi. Le sue ammaccature sostituivano lo specchio. Quella femmina non provava alcun rispetto davanti a uno studioso. Aveva avuto l’ardire di toccarlo come se lui fosse un uomo qualunque. Ora la puniva trasformando se stesso in pietra: contro la tremenda durezza di questa si sarebbero infranti i piani di lei. Ogni giorno ormai si ripeteva il medesimo gioco. La vita di Kien, distrutta dai pugni di sua moglie, allontanata dai libri nuovi e da quelli vecchi dall’avidità di lei e di lui stesso, trovò un vero scopo. Al mattino egli si alzava tre ore prima di lei. Avrebbe potuto utilizzare questo periodo, che era il più tranquillo, per lavorare. E infatti lavorava: ma ciò che intendeva un tempo per lavoro era ormai una cosa lontana, rimandata a un futuro migliore. Adesso raccoglieva le forze di cui aveva bisogno per esercitare la sua arte. Senza il tempo necessario non è possibile imparare un’arte. Subito dopo il risveglio s’ottengono di rado prestazioni perfette. Bisogna rilassarsi; bisogna accostarsi alla propria creazione liberamente e con naturalezza. Così Kien trascorreva quasi tre ore in ozio al suo scrittoio. Rivolgeva nella mente pensieri di vario genere, badando però che essi non lo portassero troppo lontano dal suo oggetto. Poi, quando la lancetta dell’orologio che egli aveva nel cervello (ultimo residuo della rete con cui lo studioso aveva imprigionato il tempo) faceva scattare la soneria perché ormai erano vicine le nove, lui cominciava lentamente a pietrificarsi. Sentiva il freddo diffondersi nel suo corpo e lo valutava in base all’uniformità con cui vi si distribuiva. V’erano giorni in cui la metà sinistra del corpo si raffreddava più rapidamente di quella destra; questo fatto gli procurava una profonda inquietudine. «Dall’altra parte!», ordinava allora, e correnti di calore, inviate da destra, riparavano l’errore a sinistra. La sua abilità nel pietrificarsi aumentava di giorno in giorno. Non appena raggiunto lo stato pietroso controllava la durezza del materiale esercitando con le cosce una leggera pressione sul fondo della sedia. Questo controllo durava solo pochi secondi, una pressione più prolungata avrebbe stritolato la sedia. Quando, più avanti, cominciò a temere per le sorti della sedia, trasformò in pietra anche questa. Cadere durante il giorno davanti agli occhi della moglie avrebbe reso ridicola la sua pietrificazione e sarebbe stato anche molto doloroso: il granito è pesante. E poi la sicurezza con cui giunse in breve a valutare il grado di durezza raggiunto rese a poco a poco superfluo qualsiasi controllo. Dalle nove del mattino fino alle sette di sera Kien rimaneva nella sua incomparabile posizione. Sullo scrittoio c’era un libro aperto, sempre lo stesso. Lui non lo degnava di uno sguardo. I suoi occhi erano occupati esclusivamente a fissare un punto lontano. La moglie si dimostrò abbastanza intelligente da non disturbarlo mai durante la sua esibizione. S’aggirava sempre indaffarata per la stanza. Lui capiva quanto le faccende domestiche fossero diventate per lei una seconda natura e tratteneva un sorriso che sarebbe stato fuori luogo. Lei girava al largo dalla monumentale statua egiziana. Non le offriva né cibo né ingiurie. Kien vietava a se stesso sia la fame che altre necessità corporali. Alle sette infondeva calore e respiro nella pietra, che s’animava rapidamente. Aspettava che Therese fosse nell’angolo più remoto della stanza. Era infallibile nell’avvertire la lontananza della moglie. Allora balzava in piedi e lasciava in fretta la casa. In trattoria, mentre prendeva il suo unico pasto, quasi s’addormentava per la stanchezza. Si diffondeva in riflessioni sulle difficoltà della giornata appena trascorsa e, quando gli veniva qualche buona idea per il giorno dopo, faceva un cenno d’approvazione col capo. Sfidava a gareggiare con lui chiunque si credesse capace d’imitare il suo modo di trasformarsi in statua: nessuno si presentava. Alle nove era già a letto e dormiva. Anche Therese s’adattò a poco a poco all’angusta situazione. Poteva fare e disfare a piacimento nella sua nuova stanza senza che nessuno la disturbasse. La mattina, prima d’infilarsi calze e scarpe, camminava delicatamente qua e là sul tappeto. Era il più bello di tutta la casa, le macchie di sangue non si vedevano più. Alla sua vecchia pelle callosa faceva bene sentirsi accarezzare dal tappeto. Finché durava il contatto con esso le passavano per il capo soltanto immagini gradevoli. Chi a un certo punto la disturbava era il marito, che non le concedeva alcuna soddisfazione. Kien aveva raggiunto una tale abilità nell’evitare ogni rumore che persino la sedia sulla quale sedeva, un mobile antico e caparbio, scricchiolava solo di rado. Le tre o quattro volte al giorno che la sedia si faceva notare – e il rumore era tanto più forte nel gran silenzio – erano per lui assai penose. Li considerava i primi sintomi di stanchezza e fingeva a bella posta di non sentirli. Al minimo scricchiolio Therese subodorava immediatamente l’avvicinarsi del pericolo, interrompeva la propria beatitudine, scivolava in fretta verso le scarpe e le calze, le infilava e riprendeva il filo dei pensieri del giorno prima. Le tornavano alla mente le grandi preoccupazioni che l’assillavano di continuo. Teneva il manto in casa soltanto per pietà. Tanto, il letto di lui occupava poco posto. Le servivano le chiavi dello scrittoio: là dentro, infatti, c’era il libretto di banca di Kien. Finché non fosse entrata in possesso anche del libretto con il resto del denaro gli avrebbe lasciato ancora per qualche giorno un tetto sul capo. Forse in futuro lui se ne sarebbe ricordato e si sarebbe vergognato d’averla sempre trattata così male. Se qualcosa si muoveva attorno a lui le venivano dei dubbi circa la possibilità d’impossessarsi del libretto di banca, cosa che invece, di solito, le pareva certa. Non temeva resistenza da parte di un pezzo di legno quale lui era per la maggior parte del tempo: ma riteneva l’uomo in carne ed ossa capace di tutto, persino di rubarle il libretto. Verso sera la tensione saliva in tutti e due a livelli molto alti. Lui chiamava a raccolta le ultime energie per non rianimarsi troppo presto; lei diventava furiosa all’idea che tra poco lui sarebbe tornato in trattoria a rimpinzarsi e ad ubriacarsi spendendo i quattrini che lei s’era guadagnati col sudore della fronte, anche se ormai non ve n’erano comunque quasi più. Da quanto tempo quell’uomo viveva senza risparmio, guardandosi bene dal portare a casa un centesimo? Ogni essere umano ha un cuore. Forse che lei è di pietra? Bisogna salvare questo povero patrimonio. I delinquenti t’inseguono come i selvaggi, vogliono subito tutti qualcosa. Non si vergognano, loro. Lei è una povera donna sola. Il marito, invece di aiutarla, s’ubriaca. Ormai non serve più a niente. Prima riempiva pagine e pagine che avevano pur sempre il loro valore. Adesso è troppo pigro anche per questo. Ma lei gestisce forse un ospizio? Vada pure a ricovero. Di un mangiatore a ufo lei non sa che farsene. La ridurrà alla miseria. Meglio che vi si riduca lui: bel divertimento, grazie tante. Per la strada, a uno come lui, nessuno darà niente. L’aspetto del povero ce l’ha senz’altro, ma sa forse chiedere l’elemosina nel modo giusto? Non ci pensa neppure. E allora muoia pure di fame. Resta da vedere come se la caverà quando lei sarà giunta al limite della propria bontà. Sua madre buonanima è morta di fame, e adesso le muore di fame pure il marito! Di giorno in giorno la sua collera raggiungeva un grado più alto. Lei la soppesava per vedere se era sufficiente all’azione decisiva e la trovava troppo leggera. La cautela con cui procedeva era eguagliata soltanto dalla tenacia. Si diceva: oggi è troppo povero (oggi non posso ancora tenergli testa), e troncava di colpo la sua collera perché gliene rimanesse un po’ per l’indomani. Una sera – Therese aveva messo da poco i ferri al fuoco e la loro temperatura era ancora piuttosto bassa – ecco che la sedia di Kien scricchiolò per tre volte di seguito. Non mancava che una simile impudenza: lei afferrò quel lungo pezzo di legno insieme alla sedia di cui faceva parte e lo gettò nel fuoco. Questo crepitò lanciando fiamme altissime, un calore furibondo penetrò i ferri. Lei li trasse fuori con le mani – non aveva paura di scottarsi, proprio un simile calore aveva aspettato fino a quel momento – uno dopo l’altro, con tutti i loro nomi: mendicante, beone, delinquente, e stringendoli in mano s’accostò con essi allo scrittoio. Persino adesso sarebbe stata disposta a trattare: se lui cedeva spontaneamente il libretto lei l’avrebbe buttato in strada solo più tardi. Bastava che lui non parlasse e lei non avrebbe detto niente. Gli avrebbe permesso di rimanere finché lei non l’avesse trovato. Doveva solo lasciarla cercare: era tempo di farla finita. Appena la sedia ebbe scricchiolato tre volte Kien indovinò, con l’acuta sensibilità della statua, che cosa fosse in gioco per la propria arte. Sentì Therese avvicinarsi. Represse un moto di gioia, esso avrebbe nociuto alla sua temperatura. S’era esercitato per tre settimane: il giorno della rivelazione era venuto. Ora si sarebbe manifestata la perfezione della sua opera. Lui era sicuro di essa come mai nessun artista prima di lui. Rapidamente, prima della tempesta, infuse nel proprio corpo una dose supplementare di freddo. Premette le piante dei piedi contro il pavimento: erano dure come la pietra, grado di durezza dieci, diamante, spigoli acutissimi, taglienti come lame. Sulla lingua, prima delle percosse, gustò un po’ del vetroso tormento che teneva in serbo per la moglie. Therese l’afferrò per le gambe della sedia e lo spinse pesantemente da parte. Lasciò andare la sedia, s’avvicinò allo scrittoio e aprì un cassetto. Rovistò nel cassetto, non trovò nulla e passò al secondo. Anche nel terzo, nel quarto e nel quinto non trovò ciò che cercava. Lui capì: un’astuta tattica. Lei non cercava nulla, che cosa avrebbe potuto cercare? I manoscritti per lei erano tutti uguali, carta ne avrebbe trovata già nel primo cassetto. Lei faceva leva sulla sua curiosità. Lui avrebbe certo domandato che cosa stesse cercando. Una volta che avesse parlato non sarebbe più stato di pietra e lei l’avrebbe ammazzato di botte. Stava cercando di attirarlo fuori dal suo guscio di pietra. Tirò e squassò lo scrittoio da tutte le parti. Ma lui conservò il suo sangue freddo e non fiatò. Mise un indescrivibile disordine tra i fogli. La maggior parte, invece di metterli in ordine, li lasciò sul piano dello scrittoio. Molti fogli caddero sul pavimento. Lui conosceva bene il loro contenuto. Altri li raccolse insieme alla rinfusa. Trattava i suoi manoscritti come carta straccia. Le sue dita erano rozze e buone per il serrapollici. Nello scrittoio c’era il frutto del lavoro e della pazienza di decenni. Il suo sfacciato agitarsi lo riempì d’irritazione. Non deve trattare così le sue carte. Che cosa importa a lui delle sue astute tattiche? Quegli appunti gli servono per più tardi. Là c’è del lavoro che l’aspetta. Potesse cominciarlo subito! Lui non è nato per fare l’artista. La sua arte gli costa molto tempo. Lui è uno studioso. Quando verranno i tempi migliori? L’arte è per lui un’attività transitoria, che gli fa perdere settimane su settimane. Da quanto tempo s’è dedicato all’arte? Da venti, no: da dieci, no: da cinque settimane, non saprebbe dirlo. La sensazione del tempo gli s’è confusa. Ora gli sta insudiciando la sua ultima trattazione. Lui si vendicherà in maniera terribile. Teme di non riuscire più a dominarsi. Lei già scuote la testa. Gli lancia occhiate cariche d’odio. Odia la sua rigida calma. Ma lui non è calmo, non resiste più, vuole la pace; le sottoporrà una proposta, armistizio, lei deve togliere di là le sue dita, le sue dita fanno a pezzi le sue carte, i suoi occhi, il suo cervello, lei deve chiudere i cassetti; via dallo scrittoio, via dallo scrittoio, quel posto è riservato a lui, lui non la sopporta, lui la schiaccerà. Ah, se potesse parlare! La pietra è muta. Lei spinge con la sottana i cassetti vuoti facendoli rientrare nello scrittoio. Calpesta manoscritti sparsi per terra, sputa su tutto ciò che sta sul piano. Per la rabbia fa a pezzi il contenuto dell’ultimo cassetto. L’impotente crepitio della carta gli trafigge il cuore. Lui raffrena il bollore che sta penetrandolo: ora s’alzerà, una fredda pietra, la farà a pezzi stringendosela contro. Ne raccoglierà i pezzi e li ridurrà in polvere. Si abbatterà su di lei, penetrerà in lei, un’immane piaga d’Egitto. Afferrerà se stesso, tavola dei dieci comandamenti, e lapiderà con essa il suo popolo. Il suo popolo ha dimenticato il comandamento di Dio. Dio è potente e Mosè leva il braccio punitore. Chi è duro come Dio? Chi è freddo come Dio? Tutt’a un tratto Kien si alza e si getta con impeto su Therese. Non emette un suono, stringe le labbra coi denti, una tenaglia: se parla non è più pietra, i denti affondano nella lingua. «Dov’è il libretto di banca?», urla stridula Therese prima di cadere a pezzi. «Dov’è il libretto di banca? Beone, delinquente, ladro!». Ah, ecco: il libretto di banca cercava. Le sue ultime parole lo fanno sorridere. Ma non sono le sue ultime parole. Lei l’afferra per la testa e lo scaglia contro lo scrittoio. Gli caccia i gomiti tra le costole. Grida: «Fuori di casa mia». Sputa, gli sputa in faccia. Lui sente tutto, fa male: non è di pietra. Se lei non va in pezzi, va in pezzi la sua arte. Tutto è menzogna, non esiste la fede, non esiste Dio. La schiva, si difende, restituisce i colpi. La colpisce, le sue ossa sono aguzze. «Ti denuncio! Il posto dei ladri è in galera! La polizia lo troverà! Il posto dei ladri è in galera! Fuori di casa mia!». Gli tira le gambe per farlo cadere. Se riesce a gettarlo per terra, si scatenerà come l’altra volta. Non vi riesce. Lui è forte. Allora l’afferra per il colletto e lo trascina fuori di casa. Gli sbatte fragorosamente la porta alle spalle. Sul pianerottolo lui si lascia cadere a terra. E’ stanco, malgrado tutto. La porta si riapre, Therese getta fuori cappotto, cappello e borsa. «Provati un po’ a venire ancora a mendicare», urla e sparisce. La borsa gliela lascia perché dentro non c’è nulla. I libri se li tiene in casa. Il libretto l’ha lui, in tasca. Se lo stringe al cuore, benché sia soltanto un libretto di banca. Lei non sospetta che cosa le sfugga assieme al mendicante. Ma qual è il ladro che si tiene sempre addosso il proprio crimine?

NOTE:

(1) In tedesco il passato (die Vergangenheit) è femminile (N‘d’T’).

Parte seconda: Un mondo senza testa

Il paradiso ideale

Da quando era stato cacciato di casa Kien era sovraccarico di lavoro. Per tutta la giornata percorreva la città con passo tranquillo e tenace. Ai primi albori era già ritto sulle lunghe gambe. A mezzogiorno non si concedeva né cibo né riposo. Per economizzare le proprie forze aveva suddiviso il campo della sua attività in settori ai quali s’atteneva scrupolosamente. Nella borsa portava un’enorme pianta della città, scala 1|5000, sulla quale le librerie erano indicate con gradevoli cerchietti rossi. Entrava in una libreria e chiedeva del proprietario in persona. Se questi era partito o era andato a pranzo s’accontentava del capo commesso. «Ho urgente bisogno, per un lavoro scientifico, delle seguenti opere», diceva, e leggeva da un foglietto che non c’era, un lungo elenco di libri. Per non doversi ripetere pronunciava il nome degli autori con una chiarezza e una lentezza forse eccessive. Si trattava di opere rare, e l’ignoranza di quella gente non era facile a immaginarsi. Sebbene leggesse, pure con la coda dell’occhio osservava attentamente la faccia di chi l’ascoltava. Fra un titolo e l’altro intercalava brevissime pause. Colui che gli stava di fronte non s’era ancora ripreso da un nome difficile che lui provava gusto a gettargliene in faccia un altro. Le espressioni sconcertate lo divertivano. Alcuni dicevano: «Un momento, per favore», altri si portavano la mano alla fronte o alle tempie, ma lui continuava tranquillamente la sua enumerazione. Il suo foglietto comprendeva ogni volta dalle due alle tre dozzine di volumi. A casa li aveva già tutti, ed ora se li comprava di nuovo. Pensava di scambiare più tardi con altri libri, o di vendere quei doppioni che al momento costituivano per lui un peso. Del resto la sua nuova attività non gli veniva a costare un centesimo. Metteva a punto i suoi elenchi per la strada. In ogni libreria ne leggeva uno nuovo. Quando aveva finito, ripiegava il foglietto con pochi gesti sicuri, lo metteva nel portafoglio accanto agli altri, s’inchinava con profondo disprezzo e usciva dal negozio. Non aspettava risposta. Che cosa gli avrebbero potuto rispondere quegli sciocchi? Se avesse cominciato a discutere con loro dei libri richiesti, non avrebbe fatto che perdere dell’altro tempo. Aveva già perso in uno stato singolare, rigido e immobile allo scrittoio, tre settimane. Per riguadagnare il tempo perduto camminava tutto il giorno con tanta bravura, con tanta costanza e con tanto zelo che, senz’ombra di vanità, poteva ben essere soddisfatto di se stesso, e lo era infatti moltissimo. Le persone con cui la sua professione lo portava a contatto si comportavano in maniera diversa a seconda dell’umore e del carattere. Alcuni, i meno, s’irritavano perché lui non li lasciava parlare; i più erano felici di poter stare ad ascoltarlo. Bastava vederlo e sentirlo parlare per capire subito quanto mostruoso fosse il suo sapere. Una sua frase valeva il contenuto di interi negozi zeppi di libri. Di rado la sua importanza veniva riconosciuta appieno. Se non fosse stato così quei poveri stolti avrebbero interrotto tutti quanti il loro lavoro e si sarebbero raccolti intorno a lui spalancando gli orecchi e rimanendo in ascolto finché non fossero loro scoppiati i timpani. Quando mai avrebbero incontrato nuovamente un simile portento d’erudizione? Il più delle volte uno solo approfittava dell’occasione di ascoltarlo. Lo temevano, come accade a tutti i grandi uomini; per loro era troppo lontano ed estraneo e il loro imbarazzo, cui lui s’era proposto di non prestare attenzione, lo commuoveva nel più profondo dell’anima. Non appena lui aveva voltato loro le spalle, per il resto della giornata essi non parlavano d’altro che di lui e dei suoi elenchi. A rigor di termini il proprietario e il personale fungevano da suoi privati dipendenti. Non aveva nulla in contrario a che venisse concesso loro l’onore di una menzione collettiva nella sua biografia. In fondo non si comportavano male, l’ammiravano e gli procuravano tutto ciò di cui aveva bisogno. Intuivano oscuramente chi lui fosse, ed avevano almeno la forza di tacere in sua presenza. Infatti lui non entrava mai una seconda volta nella medesima libreria. Quando una volta, per errore, gli accadde di farlo lo buttarono fuori. Lui era troppo per loro, la sua presenza li opprimeva e loro se ne liberarono. Capiva benissimo il loro senso d’inferiorità, e in quell’occasione si comprò la pianta della città con i cerchietti rossi di cui s’è detto sopra. Nel cerchietto delle librerie già visitate disegnava una piccola croce: per lui esse erano morte. Del resto, la sua febbrile attività aveva uno scopo che non soffriva indugi. Da quando era sulla strada non aveva altro interesse che per le sue trattazioni rimaste a casa. Era intenzionato a portarle a termine, e senza una biblioteca ciò non era possibile. Quindi, dopo aver riflettuto, compilò un elenco delle opere specialistiche di cui aveva bisogno a tale scopo. I suoi elenchi nascevano obbedendo alle necessità del momento: egli escluse ogni arbitrio e capriccio e si permise di ricomprare solo i libri che gli erano indispensabili per il suo lavoro. Determinate circostanze lo costringevano a tenere provvisoriamente chiusa la biblioteca di casa sua. Apparentemente lui si sottometteva al destino, in realtà l’aggirava con l’astuzia. Non rinunciava a un solo pollice di scienza. Acquistava in blocco tutto ciò che gli serviva ed entro poche settimane si sarebbe rimesso al lavoro, il suo metodo di lotta era grandioso e adeguato a quelle tali circostanze, lui non era uomo da lasciarsi sopraffare, ora che era libero la sua intelligenza spiegava le ali, la sua statura cresceva col numero dei giorni in cui era stato padrone di se stesso, e il fatto che in quel frattempo si raccogliesse presso di lui una piccola biblioteca nuova di alcune migliaia di volumi era per lui ricompensa sufficiente alle sue fatiche. Temeva addirittura che potesse crescere troppo. Cambiava albergo tutte le notti: come avrebbe potuto trascinarsi dietro quel peso? Dato però che possedeva una memoria indistruttibile, portava chiusa in testa tutta la nuova biblioteca. La cartella era sempre vuota. La sera, dopo la chiusura dei negozi, sentiva la stanchezza e, appena uscito dall’ultima libreria, cercava l’albergo più vicino. Senza bagagli com’era, e col suo abito sdrucito, risvegliava la diffidenza dei portieri. Questi gli lasciavano dire le sue due o tre frasi pregustando il momento in cui l’avrebbero gettato fuori in malo modo. Lui diceva di desiderare una stanza grande e tranquilla per la notte. Qualora – soggiungeva – fosse possibile averne una solo in vicinanza di donne, bambini o marmaglia, pregava di venirne avvisato subito perché in tal caso avrebbe rinunciato. Alla parola «marmaglia», i portieri si sentivano disarmati. Prima ancora che gli indicassero la sua stanza, lui estraeva il portafoglio e dichiarava di voler pagare in anticipo. Kien aveva prelevato dalla banca tutti i suoi averi e così il portafoglio traboccava di rispettabili banconote. Per amore di quelle banconote i portieri scoprivano certe zone dei loro globi oculari che mai a nessuno era dato vedere, neppure alle eccellenze di passaggio o ai viaggiatori americani. Con la sua scrittura alta e angolosa Kien riempiva il modulo dell’albergo. Di professione si dichiarava proprietario di biblioteca. Quanto allo stato civile, l’ignorava: non era né celibe né sposato né divorziato, e indicava tutto ciò con un tratto trasversale di penna. Dava ai portieri mance incredibili, circa il cinquanta per cento del prezzo della camera. Quando pagava si rallegrava ogni volta al pensiero che il suo libretto di banca fosse sfuggito alle mani di Therese. Le riverenze entusiaste gli s’adattavano alla perfezione, e lui rimaneva immobile come un lord. Contrariamente alle sue abitudini – lui odiava le comodità dovute alla tecnica – faceva uso dell’ascensore perché la sera, data la sua stanchezza, la biblioteca che portava in testa gli pesava assai. La cena se la faceva portare in camera: era l’unico pasto di tutta la giornata. Poi, per rilassarsi un po’, si scaricava di dosso la biblioteca e si guardava attorno per vedere se vi fosse posto per essa. All’inizio, quando la sua libertà era ancora recente, non attribuiva particolare importanza al tipo di stanza, in fondo si trattava solo di dormirci, e i libri li posava soltanto sul divano. Più tardi ricorse anche all’armadio. Ben presto però la biblioteca fu troppo vasta per quei due mobili. Allo scopo di utilizzare il tappeto sempre sudicio suonava per la cameriera e chiedeva dieci fogli di pulitissima carta da pacchi. La stendeva sul tappeto e su tutto il pavimento; dato che alla fine gliene restava un po’, se ne serviva per ricoprire il divano e foderare l’armadio. Così, per un certo periodo, conservò l’abitudine d’ordinare ogni sera, insieme alla cena, anche della carta da pacchi; al mattino lasciava in camera quella del giorno prima. Le pile di libri diventavano sempre più alte, ma, anche cadendo, i volumi non si sarebbero insudiciati perché tutto il pavimento era ricoperto di carta. Se qualche volta si svegliava, pieno d’inquietudine, nel mezzo della notte, di certo aveva sentito un rumore come di libri che cadevano. Una sera, le pile di libri erano diventate troppo alte perfino per lui; possedeva ormai un numero stupefacente di libri nuovi. Allora chiese una scaletta. Quando gli venne chiesto a che cosa gli servisse replicò in tono severo e tagliente: «Questo non la riguarda». La cameriera aveva un’indole piuttosto apprensiva. Tempo addietro un furto con scasso in una stanza le era quasi costato il posto. Corse dal portiere e gli comunicò tutta eccitata ciò che aveva chiesto il signore del numero trentanove. Il portiere, uomo di carattere e buono psicologo, sapeva quel che doveva a Kien per la sua mancia, anche se ormai l’aveva già in tasca.

«Vada a dormire, scioccherella», le disse sogghignando, «m’assumo io la responsabilità di quel bandito». Lei non si mosse d’un passo. «E’ un tipo strano», disse con aria timida, «sembra uno spaventapasseri. Prima ha chiesto della carta da pacchi e adesso vuole una scala. Tutto il pavimento della stanza è coperto di carta da pacchi». «Carta da pacchi?», chiese il portiere; questa notizia fece su di lui un’eccellente impressione. Infatti solo le persone più distinte spingono a un tal punto il loro amore per la pulizia. «Certo, e che altro?», disse lei, inorgoglita al vedere che lui le dava ascolto. «Lo sa lei chi è quel signore?», domandò lui. Anche davanti a una dipendente non diceva «quello là», diceva «quel signore». «Il proprietario della Biblioteca di Corte, ecco chi è!». Lanciò nell’aria ogni sillaba di quella professione straordinaria come se si trattasse di un dogma. Per tappare la bocca alla ragazza aveva aggiunto di propria iniziativa «di Corte». E capì quanto grande fosse la raffinatezza del signore di sopra dal fatto che egli aveva tralasciato di scrivere il «di Corte», sul modulo dell’albergo. «Ma se la corte non c’è più». «Già, ma la Biblioteca di Corte c’è ancora. Come si può essere tanto stupidi? Crede forse che quegli altri i libri se li siano mangiati?!». La ragazza tacque. Le piaceva farlo andare in collera perché lui era tanto forte. S’accorgeva di lei soltanto quand’era in collera. Lei correva da lui per ogni piccolezza. Per qualche istante lui la sopportava: ma, una volta che era andato in collera, bisognava guardarsi da lui. L’ira del portiere le diede forza. Portò tutta contenta la scala a Kien. Avrebbe potuto chiedere al facchino di farlo lui ma lo fece lei stessa perché voleva obbedire al portiere. Chiese al proprietario della Biblioteca di Corte se poteva aiutarlo. Lui disse: «Sì, uscendo subito da questa stanza!». Poi chiuse a chiave la porta perché non si fidava di quell’invadente, tappò il buco della serratura con della carta, sistemò con cautela la scala in mezzo alle pile dei libri e salì sugli scalini. Si tolse dalla testa un pacco dopo l’altro secondo l’ordine degli elenchi e ne riempì la stanza fino al soffitto. Nonostante il peso si teneva in equilibrio sulla scala, gli pareva d’essere un acrobata. Da quando era padrone di se stesso riusciva a superare senza fatica qualunque difficoltà. Aveva appena finito che qualcuno bussò premurosamente alla porta. Lui s’irritò al vedersi disturbato. Dopo le esperienze fatte con Therese aveva una paura infernale che sguardi profani si posassero sui suoi libri. Era la cameriera che anche questa volta spinta dal suo attaccamento al portiere, chiedeva rispettosamente la restituzione della scala. «Il signor proprietario della Biblioteca di Corte non vorrà dormire con la scala nella stanza!». Il suo zelo era sincero; guardava quell’importante spaventapasseri con curiosità, amore e invidia, augurandosi che il portiere facesse tanto caso anche a lei. A Kien il suo modo di parlare rammentò Therese. Se fosse stata Therese Kien ne avrebbe avuto paura. Dato però che gliela ricordava soltanto, gridò: «La scala resta qui! Dormirò con la scala!». Per l’anima mia questa sì che è una persona distinta, si disse la ragazza, e si ritirò spaventata. Non l’aveva giudicato distinto al punto che non potesse nemmeno replicare alle sue parole. Lui però trasse le sue conseguenze da questo fatto. Le donne, fossero governanti, mogli o cameriere, erano da evitarsi in ogni caso. Da allora in poi chiese una stanza talmente grande che in essa si rendeva superflua e priva di senso una scala, e si portò appresso nella borsa la carta da pacchi. Il cameriere che lui chiamava per farsi portare la cena era, per fortuna, un uomo. Non appena si sentiva alleggerita la testa si metteva a letto. Prima d’addormentarsi confrontava il suo stato precedente con la situazione attuale. In ogni caso, verso sera i suoi pensieri tornavano spesso e con gioia a Therese, perché tutte le spese lui le pagava con il denaro che era riuscito a salvare da lei grazie al proprio valore. Quando c’entrava in qualche modo il denaro l’immagine di lei gli si presentava immediatamente davanti agli occhi. Durante il giorno col denaro non aveva a che fare: oltre al pranzo rinunciava anche al tram, e non senza ragione. Non lasciava che nessuna Therese gl’insozzasse con la sua presenza la grandiosa e importante impresa in cui era attualmente impegnato. Therese era il centesimo che passava da una mano all’altra. Therese era la parola sulla bocca di un analfabeta. Therese era la pietra che appesantiva lo spirito umano. Therese era la pazzia fatta persona. Rinchiuso per mesi insieme a una pazza, alla fine lui non era stato più in grado di resistere al malefico influsso della sua malattia e ne era rimasto contagiato. Avida all’eccesso, lei gli aveva trasmesso una parte della sua cupidigia. L’ardente desiderio dei libri altrui l’aveva allontanato dai propri. Era stato sul punto di derubarla di quel milione che supponeva in suo possesso. Il suo carattere, sempre a stretto e burrascoso contatto con lei, aveva corso il pericolo di naufragare contro lo scoglio del denaro. Ma non era naufragato. Il suo corpo aveva escogitato una difesa. Se lui avesse continuato a muoversi liberamente nell’appartamento sarebbe caduto irrimediabilmente vittima della malattia di lei. Per questo le aveva giocato lo scherzo della statua. Naturalmente non poteva trasformarsi in una vera pietra: bastava però che lei lo prendesse per una pietra. Della pietra lei aveva paura, e girava al largo. L’abilità con cui per settimane intere era rimasto seduto immobile sulla sedia le aveva confuso le idee. Vero è che le aveva confuse già da prima. Ma dopo quel trucco sagace aveva finito per non sapere nemmeno più chi egli fosse. Così, lui aveva avuto tempo per liberarsi di lei. A poco a poco era guarito. Lei aveva perduto ogni influenza su di lui. Non appena s’era sentito abbastanza forte aveva concepito un piano di fuga. Si trattava di riuscire a sfuggirle e nello stesso tempo di tenere lei agli arresti. Perché la fuga riuscisse lei doveva credere d’averlo cacciato di casa. Così lui s’era messo in tasca il libretto di banca. Nel corso di lunghe settimane lei aveva frugato tutta la casa. Cercare continuamente denaro era appunto la sua malattia. Non aveva trovato il libretto da nessuna parte. Alla fine aveva osato avvicinarsi allo scrittoio: ma allora s’era scontrata con lui. La delusione aveva provocato la sua ira. Lui aveva esasperato la sua rabbia al punto che lei, imbestialita, l’aveva cacciato dalla sua stessa casa. Ormai era fuori, libero. Lei pensava di essere la vincitrice: in realtà lui l’aveva chiusa in casa. Certo non sarebbe fuggita di là, e ora lui era perfettamente al sicuro dai suoi attacchi. E’ vero che aveva dovuto rinunciare alla propria abitazione, ma che cosa non farebbe un uomo per salvare la propria vita quando questa appartiene alla scienza? Allungò il corpo sotto le coperte e cercò di toccare con esso la maggior superficie possibile di lenzuolo. Pregò i libri di non cadere: era stanco e voleva finalmente riposare. Già tra la veglia e il sonno borbottò un «buona notte». Per tre settimane godette la sua recente libertà. La sfruttò sino in fondo con diligenza ammirevole e alla fine delle tre settimane aveva esaurito tutte le librerie della città. Un pomeriggio non seppe più dove andare. Ricominciare daccapo ed entrare di nuovo in quelle vecchie seguendo l’ordine che gli era ormai familiare? Non l’avrebbero riconosciuto? Cercava di evitare gli insulti. Chissà se la sua faccia era di quelle che s’imprimono immediatamente nella memoria. S’avvicinò allo specchio di un negozio di barbiere per esaminarvi i propri lineamenti. Aveva gli occhi celesti e non aveva guance. La sua fronte era una tormentata parete rocciosa. Il naso scendeva verso il basso come una cresta verticale, vertiginosamente stretta. In fondo, ben nascosti, erano rannicchiati due minuscoli insetti neri. Nessuno avrebbe potuto riconoscere in essi un paio di narici. La bocca era come la fessura di un distributore automatico. Due rughe profonde correvano come due cicatrici posticce dalle tempie fino al mento incontrandosi sulla punta di esso. Per effetto di quelle rughe e del naso la faccia, già di per sé lunga e scarna, si scomponeva in cinque strisce paurosamente strette, strette ma assai simmetriche; in nessun punto v’era spazio sufficiente a soffermarsi, e anche Kien si soffermò ben poco. Infatti, quando si guardò – non era abituato a guardarsi – si sentì all’improvviso molto solo. Decise d’andare in un posto dove vi fosse molta gente. Forse là avrebbe dimenticato quanto fosse solo il suo viso, e forse gli sarebbe venuto in mente un modo per proseguire quella che era stata la sua attività fino a quel momento. Rivolse lo sguardo alle insegne delle botteghe tutt’intorno, un aspetto della città per il quale prima d’allora non aveva mai avuto occhi, e lesse: «Al Paradiso ideale». Entrò con piacere. Scostò le pesanti cortine. Una spaventosa caligine gli mozzò il fiato. Come per difendersi fece meccanicamente altri due passi. La sua figura affilata fendeva l’aria pesante come un coltello. Gli occhi gli lagrimavano; li spalancò per vederci, essi cominciarono a lagrimare ancora di più e lui non vide niente. Una figura nera lo scortò fino ad un tavolino e gli ordinò di accomodarsi. Ubbidì. La figura ordinò per lui un caffè doppio e svanì nella nebbia. In questa ignota regione del mondo Kien s’aggrappò alla voce della sua scorta e accertò che essa era una voce maschile ma confusa, e perciò sgradevole. Si rallegrò di trovare una volta di più un uomo degno di disprezzo, come, secondo lui, erano tutti gli uomini. Una grossa mano gli spinse davanti il caffè doppio. Lui ringraziò cortesemente. Sorpresa, la mano rimase là immobile per un attimo; poi s’appiattì contro il marmo distendendo tutte e cinque le dita. Perché sogghignava così?, si domandò Kien, mentre la sua diffidenza si risvegliava. Quando la mano si ritirò insieme con l’uomo a cui apparteneva, Kien tornò padrone dei propri occhi. La nebbia si divise. Kien seguì con occhi sospettosi la figura, che era lunga e risecchita come lui. Essa si fermò davanti a un bancone, si girò e indicò l’ospite con il braccio teso. Disse alcune parole incomprensibili scuotendosi tutta dal ridere. Ma con chi stava parlando? Nelle vicinanze del bancone non c’era proprio nessuno. Il locale aveva un’aria incredibilmente sudicia e trascurata. Dietro il bancone si scorgeva distintamente una montagna di abiti sbrindellati e multicolori. Quella gente era troppo pigra anche per aprire un armadio; gettavano tutto nello spazio fra il bancone della mescita e lo specchio. Non si vergognavano neppure di fronte ai clienti! Anche a questi Kien cominciò ad interessarsi. Quasi ad ogni tavolino sedeva un individuo peloso con la faccia da scimmia che guardava ostinatamente nella sua direzione. Sullo sfondo strillavano delle strane ragazze. Il paradiso ideale era molto basso e pieno di sudicie nuvole tra il grigio e il bruno. Qua e là ciò che restava di una stella occhieggiava fra i torbidi strati. Un tempo tutto il cielo era disseminato di stelle d’oro: la maggior parte erano state spente dal fumo, le altre soffrivano di mancanza di luce. Piccolo era il mondo sovrastato da quel cielo. Avrebbe trovato comodamente posto in una camera d’albergo. Soltanto finché durava l’inganno della nebbia appariva vasto e confuso. Ogni tavolino di marmo conduceva l’esistenza separata di un pianeta. Il puzzo cosmico invece lo generavano tutti insieme. Ogni cliente fumava, taceva o batteva il pugno sul marmo duro. Da minuscole nicchie uscivano grida d’aiuto. All’improvviso un vecchio pianoforte fece sentire la propria voce. Kien lo cercò invano. Dove l’avevano nascosto? Vecchi figuri vestiti di cenci, col berretto in testa scostavano con gesti indolenti i pesanti tendaggi della porta, scivolavano lentamente tra i vari pianeti, qui salutando uno, là minacciando un altro, e alla fine sedevano nei posti dov’erano stati accolti con la maggiore ostilità. In brevissimo tempo il locale offrì una vista completamente diversa. Qualunque movimento era diventato impossibile. Chi avrebbe avuto il coraggio di pestare i piedi a un vicino del genere? Kien era l’unico che sedesse ancora solo. Aveva paura di alzarsi, e rimase. Fra i tavolini volavano parole ingiuriose. La musica infondeva in quella gente aggressività e vigore. Appena il pianoforte taceva, tutti s’afflosciavano pigramente. Kien si prese la testa fra le mani. Che razza di creature erano mai quelle? In quel momento spuntò vicino a lui una gobba gigantesca e chiese se era permesso. Kien guardò in basso aguzzando gli occhi. Dov’era la bocca da cui erano uscite quelle parole? Ma già il proprietario della gobba, un nano, s’issava con un balzo su una sedia. Riuscì a sedervisi sopra e guardò Kien con un paio di grandi occhi malinconici. La punta del naso fortemente adunco toccava le profondità del mento. La bocca era piccola quanto l’uomo, solo che…

non si riusciva a scorgerla. Niente fronte, niente orecchie, niente collo, niente tronco: quell’individuo constava soltanto di una gobba, di un naso imponente e di due occhi neri, tristi e quieti. Per molto tempo non disse nulla: evidentemente aspettava di vedere l’effetto della sua comparsa. Kien si stava abituando alla nuova situazione. All’improvviso udì una voce rauca che, da sotto il tavolo, domandava: «Come vanno gli affari?». Guardò in basso, lungo le proprie gambe. La voce stridette indignata: «Cosa sono, un cane?». Allora capì che la voce era quella del nano. Che cosa dovesse rispondere a proposito degli affari, Kien non lo sapeva davvero. Esaminò il naso esclusivo dell’ometto e ne fu insospettito. Dato che non era un uomo d’affari scrollò leggermente le spalle. La sua indifferenza fece grande impressione. «Il mio nome è Fischerle!». Il naso bezzicava sul piano del tavolino. A Kien dispiacque per il suo buon nome: perciò s’astenne dal rivelarlo e accennò solamente un rigido inchino che si poteva interpretare sia come un rifiuto che come un incoraggiamento. Il nano si decise per questa seconda interpretazione. Protese due braccia lunghe come quelle di un gibbone e afferrò la borsa di Kien. Il suo contenuto lo fece ridere. Gli angoli della bocca che si contrassero a destra e a sinistra del naso rivelarono finalmente l’esistenza della sua bocca. «Lei è nel ramo della carta, dico bene?», gracchiò tenendo alta la carta da pacchi ben ripiegata. A quella vista tutto il mondo raccolto sotto il cielo stellato scoppiò in un simultaneo cachinno. Kien, ben consapevole del profondo significato della sua carta, avrebbe voluto gridare «Che sfacciataggine!», e strappare la carta dalle mani del nano. Ma la semplice intenzione, temeraria com’era, gli parve già un enorme crimine. Per espiarlo assunse un’espressione imbarazzata e infelice. Fischerle non mollò. «Una novità, gente, una novità! Un piazzista muto!». Sventolò la carta stringendola fra le sue dita adunche e la gualcì in almeno venti punti. Kien si sentì stringere il cuore. Era in gioco la pulizia della sua biblioteca. Se solo avesse trovato un modo per salvarla. Fischerle montò in piedi sulla sedia – adesso era alto quanto Kien seduto – e cantò con voce rotta: «Io sono il pescatore, (1) e lui è il pesce!». Quando diceva «io» si batteva la carta sulla gobba, quando diceva «lui» la batteva sugli orecchi di Kien. Questi sopportò pazientemente: poteva dirsi ancora fortunato che quel nano furioso non l’ammazzasse. Infine quel trattamento cominciò a dolergli. Alla pulizia della sua biblioteca poteva ormai dire addio. Capì che là, senza un ramo di affari, si era perduti. Approfittò delle lunghe battute tra l’«io» e il «lui», s’alzò, fece un profondo inchino e dichiarò in tono deciso: «Kien, ramo librario». Fischerle s’interruppe prima del successivo «lui» e sedette. Era soddisfatto del proprio successo. Rientrò nella gobba e chiese con infinita umiltà: «Lei gioca a scacchi?», Kien espresse il suo rincrescimento. «Un uomo che non gioca a scacchi non è un uomo. Dagli scacchi si vede se uno ha del cervello, dico io. Uno può esser alto quattro metri ma deve giocare a scacchi, sennò è uno scimunito. Io so giocare a scacchi. Mica sono uno scimunito, io. Ora le faccio una domanda: se vuole mi risponda, se non vuole non mi risponda. Perché un uomo ha una testa? Glielo dico io, sennò lei ci si rompe la sua e sarebbe un peccato. Un uomo ha una testa per giocare a scacchi. Mi capisce? Se dice di sì siamo a posto. Se dice di no glielo dico un’altra volta, ma solo perché è lei. Io ho un debole per il ramo librario. Le faccio notare che ho imparato tutto da solo, mica dai libri. Chi crede che sia, lei, il campione di questo locale? Scommetto che non ci arriva. Glielo dirò io. Il campione si chiama Fischerle e siede a questo tavolo. E perché si è seduto qui con lei? Perché lei ha l’aria di una mezza tacca. Adesso, magari lei penserà che io mi butto sulle mezze tacche. Questo è falso, è idiota, è assurdo. Lei non ha idea di quanto sia bella mia moglie. Una donna così distinta lei non l’ha mai vista! Ma, domando io, dove lo trovi il cervello? Lo trovi nelle mezze tacche, dico io. Uno zerbinotto cosa se ne fa del cervello? Di portare a casa i soldi si occupa sua moglie, di giocare a scacchi non gli va perché per farlo dovrebbe piegare la schiena, e questo potrebbe danneggiare la sua bellezza. Qual è il risultato? Il risultato è che la mezza tacca ha il monopolio del cervello. Prenda un po’ i campioni di scacchi: tutti mezze tacche. Guardi, quando sul giornale vedo un uomo famoso un tantino bello mi dico subito: Fischerle, qui c’è qualcosa che non va. E infatti poi s’accorgerà che è andato a scegliere la foto sbagliata. Cosa crede lei, di foto ce ne sono a non finire, e tutti quanti pretendono di essere famosi: dove va a finire un giornale così? Un giornale non può certo fare i miracoli. Il miracolo, piuttosto, è che lei non giochi a scacchi. Tutti quelli del ramo librario giocano a scacchi. Bella bravura, per uno del ramo librario! Si piglia il suo libretto di scacchi e s’impara la partita a memoria. Ma cosa crede, che per questo qualcuno sia riuscito a battermi? Nessuno del ramo librario m’ha mai battuto, quant’è vero che lei è uno di loro, ammesso che sia vero!». Ascoltare e ubbidire era tutt’uno per Kien. Da quando aveva cominciato a parlare di scacchi, l’ometto era diventato il più innocuo degli ebrei. Non s’interrompeva mai, le sue erano domande retoriche ma lui non tralasciava di rispondere ad esse. In bocca sua la parola «scacchi» suonava come un ordine, quasi che dipendesse solo dalla sua clemenza aggiungervi o meno il mortale «matto». Il silenzio di Kien, che all’inizio l’aveva irritato, ora gli appariva un segno di attenzione e lo lusingava. Durante il gioco i suoi avversari lo temevano troppo per disturbarlo con obiezioni. Lui infatti si vendicava terribilmente ed esponeva alle risate generali la sventatezza delle loro mosse. Negli intervalli fra una partita e l’altra – lui trascorreva metà della sua vita davanti alla scacchiera – lo trattavano in maniera adeguata al suo aspetto. Se fosse stato possibile, lui avrebbe giocato senza interrompersi mai. Il suo sogno era una vita in cui si potessero sbrigare il mangiare e il dormire durante le mosse dell’avversario. Quando lui aveva vinto con estrema facilità per sei ore di fila e gli capitava di trovare un altro aspirante alla sconfitta, interveniva sua moglie e lo costringeva a smettere per evitare che la sua insolenza passasse i limiti. Lei gli era indifferente come un sasso.

Le stava insieme perché gli dava da mangiare. Ma quando lei spezzava la catena dei suoi trionfi lui cominciava a saltellarle intorno furibondo e la colpiva nei pochi punti ancora sensibili del suo corpo ormai torpido. Lei non si muoveva e, forte com’era, sopportava da lui ogni cosa. Erano le uniche tenerezze coniugali che lui le concedesse. Perché lei l’amava, lui era il suo bambino. Gli affari non le permettevano di averne altri. Al «Paradiso ideale» godeva del massimo rispetto perché unica fra tutte quelle ragazze poverissime e a buon mercato, aveva un anziano cliente fisso che da otto anni, con incrollabile fedeltà, si presentava da lei ogni lunedì. La chiamavano, a causa di questo suo reddito sicuro, la pensionata. Durante le frequenti scenate con Fischerle tutto il locale urlava a squarciagola; nessuno però avrebbe osato iniziare una nuova partita disprezzando il suo divieto. Fischerle la batteva soltanto perché era consapevole di questo. Per i clienti della moglie provava una certa tenerezza, quanta gliene restava dato il suo esclusivo amore per gli scacchi. Appena lei s’era allontanata con qualcuno lui si dedicava a suo piacimento alla scacchiera. Sugli sconosciuti che il caso faceva approdare nel locale lui aveva un diritto di priorità. Fiutava in ciascuno di loro un grande campione, dal quale avrebbe potuto imparare qualche cosa. Che lui però, ciononostante, l’avrebbe battuto, era un fatto che dava per scontato. Solo una volta che aveva visto sfumare la speranza di apprendere nuove combinazioni offriva allo sconosciuto la propria moglie per sbarazzarsi qualche tempo di lei. Consigliava segretamente all’individuo in questione – dato che si trovava ad avere, volta per volta, un debole proprio per il ramo d’affari di cui quello s’occupava – di restarsene pure di sopra con la moglie un paio d’ore; lei non era come certe, lei sapeva apprezzare un bell’uomo. Lo pregava però di non tradirlo, gli affari sono affari e

lui agiva contro il proprio interesse.

NOTE:

(1) Fischer significa «pescatore»; -le è il suffisso del diminutivo (N‘d’T’).

Prima, molti anni prima, quando la moglie non era ancora pensionata e aveva troppi debiti per farlo andare al caffè, Fischerle era costretto, nonostante la gobba, a cacciarsi sotto il letto ogni volta che lei portava un cliente nel suo angusto stanzino. Là egli stava ad ascoltare con la massima attenzione ogni parola dell’uomo – quelle di sua moglie non gli interessavano – e dopo un po’ aveva capito se si trattava di un giocatore di scacchi oppure no. Quand’era ben sicuro del fatto suo, a cose fatte, sgusciava con la massima rapidità da sotto il letto, facendosi per lo più molto male alla gobba, e invitava l’ignaro visitatore a una partita a scacchi. C’erano uomini che accettavano purché si giocasse a soldi: speravano di recuperare da quel sordido ebreo il denaro che, spinti da una forza maggiore, avevano dovuto regalare alla moglie. Credevano di essere dalla parte della ragione perché, ora, non avrebbero più concluso un simile affare ma poi finivano per perdere ancora altrettanto. La maggior parte respingeva le pretese di Fischerle stancamente, con diffidenza

o con indignazione. Nessuno stava a chiedersi di dove lui fosse sbucato tutt’a un tratto. Ma la passione di Fischerle cresceva col passare degli anni. Gli riusciva ogni volta più difficile aspettare tanto prima di fare la sua proposta. Spesso l’assaliva all’improvviso, con violenza incontenibile, il sospetto che là sopra stesse sdraiato un campione del mondo in incognito. Allora faceva troppo per tempo la sua comparsa accanto al letto e batteva, con le dita o col naso, la spalla della misteriosa celebrità finché questa non prendeva atto della presenza non di un insetto, come aveva supposto, ma del nano e della sua proposta. Non ve n’era uno che non perdesse la pazienza e non approfittasse dell’occasione per chiedere di ritorno il suo denaro. Dopo che la cosa s’era ripetuta varie volte

- una volta un adiratissimo mercante di bestiame aveva persino chiamato la polizia – sua moglie aveva dichiarato categoricamente che le cose dovevano cambiare o lei si sarebbe presa qualcun altro. Gli affari potevano andare bene o male: Fischerle veniva comunque spedito al caffè con la proibizione di rincasare prima delle quattro del mattino. Poco tempo dopo s’era presentato il sicuro cliente del lunedì e il peggio era stato superato. Costui rimaneva tutta la notte. Fischerle lo trovava ancora quando tornava a casa, e veniva regolarmente salutato con l’appellativo di «campione mondiale». Questa voleva essere una battuta di spirito – col passare del tempo aveva raggiunto l’età di otto anni – ma Fischerle la prendeva come un’offesa. Se il cliente di cui nessuno conosceva il cognome – egli non aveva mai rivelato neppure il proprio nome di battesimo – era particolarmente soddisfatto, provava pietà per l’ometto e si lasciava battere in una rapida partita. Era una di quelle persone a cui piace sbrigare tutto in una volta le attività non strettamente indispensabili. Quando lasciava la stanzetta s’era liberato per tutta una settimana dei pungoli sia dell’amore che della pietà. Con la sconfitta che si lasciava infliggere da Fischerle si risparmiava anche quei centesimi che altrimenti avrebbe dovuto tenere a disposizione dei mendicanti nel negozio che probabilmente possedeva. Sulla sua porta era appesa una targa: «Qui non si fa la carità». C’era però una categoria di persone che Fischerle odiava, ed era quella dei campioni mondiali di scacchi. Seguiva con una specie di furore tutte le partite importanti che gli venivano offerte da giornali e riviste. Una volta che aveva ripetuto per conto suo una di quelle partite, ne teneva a mente le mosse per anni. Data la sua indiscussa fama di campione del locale, gli riusciva facile dimostrare agli amici che quei grandi non valevano nulla. Una mossa dopo l’altra spiegava ad essi, che si fidavano senza riserve della sua memoria, ciò che era avvenuto in questo o in quel torneo. Non appena l’ammirazione che tali partite suscitavano nei suoi amici raggiungeva una misura che l’irritava, Fischerle inventava di sana pianta mosse sbagliate che non erano mai state compiute, e portava avanti il gioco come garbava a lui. Provocava rapidamente la catastrofe; tutti sapevano chi l’aveva subita, e anche là i nomi erano dei feticci: si levavano voci a dire che anche Fischerle, se avesse partecipato a un torneo, non se la sarebbe cavata meglio. Nessuno aveva riconosciuto l’errore del perdente. Allora Fischerle allontanava la sedia dal tavolo fino a che riusciva a toccare appena gli scacchi col braccio teso. Quella era la sua particolare maniera di esprimere il disprezzo, dato che gli angoli della bocca, di cui gli altri si servono a tale scopo, erano quasi completamente nascosti dal naso. Poi gracchiava: «Datemi un fazzoletto, questa partita la vinco ad occhi chiusi!». Se sua moglie era presente gli allungava il suo sudicio fazzoletto da collo, lei sapeva bene che non poteva privarlo dei trionfi del torneo, che avevano luogo solo una volta ogni paio di mesi. Se lei non era nel locale una delle ragazze teneva le mani davanti agli occhi di Fischerle. Con rapidità e sicurezza lui riportava indietro, una mossa dopo l’altra, la partita, fermandosi al punto in cui era stato commesso l’errore. Era, nello stesso tempo, il punto in cui aveva avuto inizio il suo imbroglio. Un altro imbroglio gli permetteva di condurre alla vittoria, con altrettanta sfacciataggine, il partito avverso. Tutti avevano seguito le sue mosse col fiato sospeso, ed erano sbalorditi. Le ragazze gli carezzavano la gobba e lo baciavano sul naso. I giovanotti, anche quelli belli che di scacchi se n’intendevano poco o nulla, picchiavano i pugni sui piani di marmo e dichiaravano, sinceramente indignati, che era una porcheria che Fischerle non diventasse campione del mondo. Così dicendo urlavano tanto forte che riconquistavano immediatamente il favore delle ragazze. Fischerle non si curava di ciò. Si comportava come se a lui degli applausi non importasse proprio nulla e si limitava ad osservare asciuttamente: «Che volete, io sono un povero diavolo. Se oggi uno mi desse la cauzione domani sarei campione del mondo!». «Oggi stesso!», gridavano tutti. E con ciò aveva fine l’entusiasmo. Grazie alla sua qualità di genio scacchistico incompreso e al cliente fisso di sua moglie, la pensionata, Fischerle godeva di un grande privilegio al «Paradiso ideale»: aveva il diritto di ritagliarsi e di tenersi tutte le partite di scacchi pubblicate dai giornali, sebbene questi, che avevano già passato una mezza dozzina di mani, dopo vari mesi venissero dati a un locale ancora più sordido. Fischerle però non conservava affatto quei quadratini: li strappava in pezzi minutissimi e li gettava con disgusto nel gabinetto. Viveva nel terrore che qualcuno volesse vedere una partita. Lui personalmente non era affatto convinto del proprio valore di scacchista. Le mosse reali che lui sopprimeva, mettevano a dura prova il suo abilissimo cervello. Per questo odiava come la peste i campioni mondiali. «Che cosa crede: se io avessi un sussidio!», stava dicendo ora a Kien. «Un uomo senza un sussidio è uno storpio. Sono vent’anni che aspetto un sussidio. Crede che io voglia qualcosa da mia moglie? Un po’ di pace, voglio, e un sussidio. Vieni a stare con me, mi ha detto lei, io ero ancora un ragazzo. Eh, ho detto io, che se ne fa Fischerle di una donna? Cosa vorresti? ha detto lei: non si dava tregua. Cosa vorrei? Un sussidio, vorrei. Con niente non si fa niente. Non si avvia un’impresa senza capitali. Il ramo degli scacchi è anche lui un ramo d’affari, perché non dovrebbe? Mi trovi qualcosa che non sia un ramo d’affari. Bene, ha detto lei, se vieni a stare con me ti darò un sussidio. Ora, io le domando: ci capisce qualcosa lei? Lo sa lei cos’è un sussidio? Glielo dico io in tutti i casi. Se lei lo sa, non guasta; se non lo sa, non guasta lo stesso. Stia bene attento: sussidio è una parola distinta. Questa parola viene dal francese e ha lo stesso significato del termine ebreo “capitale”!». Kien deglutì. Li riconoscerete dalle loro etimologie. Che locale! Deglutì e tacque. Era la cosa migliore da farsi in quel covo di assassini. Fischerle fece una brevissima pausa per osservare l’effetto della parola «ebreo» sull’uomo che aveva davanti. Non si può mai sapere. Il mondo brulica di antisemiti. Un ebreo sta sempre all’erta contro mortali nemici. Un nano gobbo, e specialmente uno che a dispetto di ciò sia riuscito ad arrivare al grado di ruffiano, è un acuto osservatore. Non gli era sfuggito il deglutire dell’altro: lui l’interpretò come un segno di imbarazzo e da quel momento pensò, cosa quanto mai lontana dal vero, che Kien fosse un ebreo. «Se ne fa uso soltanto nelle professioni distinte», continuò a spiegare rassicurato; si riferiva al sussidio. «Fidando nella sua solenne promessa io vado a stare con lei. Lo sa quand’è successo questo? A lei posso dirlo perché è un amico: è successo vent’anni fa. Da vent’anni lei non fa altro che risparmiare, non si concede un capriccio e non lo concede a me. Lo sa cos’è un monaco? Eh, lei non lo saprà perché è ebreo e gli ebrei non hanno monaci. Non fa niente: noi viviamo come due monaci. Mi spiego meglio, forse questo lo capirà, lei che non capisce niente: noi viviamo come due monache, le monache sono le mogli dei monaci. Ogni monaco ha una moglie, e questa si chiama monaca. Ma cosa crede lei, quelli vivono separati! Questo è il tipo di matrimonio che tutti quanti vorrebbero, bisognerebbe introdurlo anche tra gli ebrei, dico io. Eppure guardi, il sussidio non siamo ancora riusciti a metterlo insieme. Faccia un po’ il conto, i conti li saprà fare! Lei, amico mio, dà subito venti scellini. Non tutti danno tanto senza starci a pensare. Dove le trova oggi delle persone così nobili? Chi può concedersi una simile idiozia? Lei è mio amico. Lei, buono com’è, si dice: Fischerle deve avere il suo sussidio. Altrimenti va in malora. Posso permettere che Fischerle vada in malora? Sarebbe un peccato, no, non posso permetterlo. E allora che faccio? Regalo venti scellini alla moglie, lei mi porta con sé e il mio amico è contento. Per un amico faccio qualunque cosa. Glielo dimostrerò. Mi porti qui sua moglie, finché io non avrò il sussidio, s’intende, e le do la mia parola che non sono un vigliacco. Cosa crede, che io abbia paura di una donna? Cosa può farmi una donna? Lei ha moglie?». Questa era la prima domanda a cui Fischerle si aspettava una risposta. Beninteso, lui era sicuro dell’esistenza di questa moglie come era sicuro di avere la gobba. Però si struggeva dalla voglia di fare una partita. Veniva sorvegliato ormai da tre ore e non ne poteva più. Voleva condurre la discussione a un risultato pratico. Kien tacque. Che cosa avrebbe potuto dire? La moglie, per lui, era un argomento delicato, su cui non v’era modo, anche volendo, di dire qualcosa di vero. Lui, come è noto, non era né sposato, né celibe, né divorziato. «Lei ha moglie?», domandò Fischerle per la seconda volta.

Ma ora la domanda aveva già un tono minaccioso. Kien si stava tormentando per rispondere la verità. E a questo punto gli accadde di nuovo ciò che gli era accaduto poco prima a proposito del ramo librario. La necessità insegna la menzogna. «No, non ho moglie», dichiarò con un sorriso che illuminò la sua austera magrezza. Se doveva mentire, tanto valeva scegliere la bugia più piacevole. «Allora le impresto la mia!», esplose Fischerle. Se il ramo librario avesse avuto moglie la proposta di Fischerle sarebbe stata di diverso tenore: «Allora, le offro un diversivo». Invece, data la situazione, gracchiò forte verso la parte opposta del locale: «Vieni o non vieni?». Lei venne. Era alta, grassa e rotonda, vecchia mezzo secolo. Si presentò da sola accennando a Fischerle con un moto della spalla e aggiungendo, non senza una punta d’orgoglio: «Mio marito». Kien s’alzò e fece un profondissimo inchino. Aveva una terribile paura di tutto ciò che sarebbe potuto accadere da quel momento. A voce alta disse: «Molto lieto»; piano, così piano che nessuno lo potesse sentire: «Meretrice!». Con quell’antica parola l’aveva annientata davanti a se stesso. Fischerle disse: «Be’, siediti!». Lei obbedì. Il naso di lui giungeva al petto di lei. L’uno e l’altro si posarono sul piano di marmo. Improvvisamente il piccolo aprì la bocca e disse in tutta fretta, con voce stridula, come se avesse dimenticato la cosa più importante: «Ramo librario». Kien era tornato silenzioso. La donna al tavolino lo trovava detestabile. Confrontò le ossa di Kien con la gobba di suo marito e trovò quest’ultima assai migliore. Il suo coniglietto aveva sempre qualcosa da dire. Lui ce l’aveva, la lingua. Prima parlava un po’ anche con lei. Adesso la trovava troppo vecchia. Ha ragione, però. Comunque non va con nessun’altra. E’ un bambino tanto buono. Credono tutti che fra loro ci sia ancora qualcosa. Tutte le sue amiche gli fanno l’occhiolino. Le donne sono false. Lei non sa neppure cosa sia, la falsità! Anche gli uomini sono falsi. Di Fischerle ci si può fidare. Piuttosto che avere a che fare con una femmina, dice, preferisce non aver a che fare con nessuno. A lei va bene così. In fondo, di certe cose lei non ha bisogno. Solo che lui non deve dirlo a nessuna. E’ tanto discreto, lui. Di sua iniziativa non chiederebbe mai niente. Se soltanto badasse un po’ di più ai suoi vestiti! Certe volte si direbbe proprio che sia uscito da una pattumiera. Il Ferdl ha dato un ultimatum alla Mizzl: aspetta ancora un anno la moto che lei gli ha promesso. Se fra un anno la moto non arriva, lui ci sputa sopra e lei può pure cercarsene un altro. Adesso lei s’è messa a risparmiare a tutto spiano, ma come fa a mettere insieme i soldi per una moto? Il suo coniglietto non sarebbe mai capace di fare una cosa simile. E che begli occhi ha! E’ colpa sua se ha la gobba? Ogni volta che il suo Fischerle le procurava un cliente, lei capiva che lo faceva per sbarazzarsi di lei e gli era grata per il suo amore. Più tardi lo trovava di nuovo troppo arrogante. In genere lei era una creatura contenta del suo stato; nonostante conducesse una vita odiosa aveva a disposizione ben poco odio. Quel poco lo riservava al gioco degli scacchi. Mentre le altre ragazze con l’andar del tempo avevano imparato i rudimenti del gioco, lei non era mai riuscita a capire perché le diverse figure dovessero muoversi in maniera diversa. L’indignava vedere un re così impotente. Le avrebbe suonate volentieri a quella svergognata della regina. Perché proprio lei può fare tutto quel che vuole e il re, invece, no? Spesso seguiva il gioco col fiato sospeso. Un estraneo, dall’espressione del viso, l’avrebbe presa per una vera esperta. In realtà lei aspettava soltanto che venisse mangiata la regina. Quando ciò avveniva lei intonava una canzone di trionfo e lasciava subito il tavolo. Condivideva l’odio del marito per la regina dell’avversario; l’amore con cui egli custodiva la propria la rendeva gelosa. Le sue amiche, di mentalità più indipendente della sua, ponevano se stesse al vertice della scala sociale e chiamavano la regina puttana e il re magnaccia. La pensionata era l’unica che tenesse un po’ di più al rispetto della reale scala gerarchica, scala di cui, grazie al suo cliente fisso, aveva già raggiunto il gradino più basso. Lei che, di solito, dava il la agli scherzi più sguaiati, non seguiva gli altri nel loro vilipendio del re. Quanto alla regina degli scacchi, persino «puttana» le sembrava una parola troppo gentile. Le torri e i cavalli le piacevano perché sembravano proprio veri, e quando i cavalli di Fischerle traversavano la scacchiera al galoppo serrato lei era solita scoppiare, con la sua voce placida e pigra, in una sonora risata. Vent’anni dopo che Fischerle era venuto a stare con lei armato della sua scacchiera accadeva ancora che gli chiedesse con l’aria più candida del mondo perché non si lasciavano le torri agli angoli della scacchiera come al principio del gioco, dove facevano assai più bel vedere. Fischerle sputava sul suo cervello da femmina e non rispondeva. Quando le sue domande cominciavano a infastidirlo lei voleva soltanto sentirgli dire qualcosa, a lei piaceva il suo gracchiare, nessuno aveva una così bella voce da corvo – lui le tappava la bocca con qualche drastica esortazione: «Ce l’ho la gobba

o non ce l’ho? Accidenti se ce l’ho! Allora vieni un po’ a farci il taboga! Chissà che dopo il cervello non ti funzioni meglio!». La gobba di lui l’addolorava. Lei avrebbe preferito non parlarne mai. Aveva la sensazione d’essere, in parte, responsabile anche lei di quel difetto del suo bambino. Non appena aveva scoperto questa sua debolezza, che a lui pareva davvero una pazzia, Fischerle aveva cominciato ad approfittarsene per ricattarla. La sua gobba era l’unica minaccia pericolosa di cui egli disponesse. In quel momento, tuttavia, lei la contemplava amorevolmente. La gobba era pur qualcosa, un simile scheletro non era proprio niente. Era contenta che Fischerle l’avesse chiamata al suo tavolo. Di Kien non si curava minimamente. Dopo qualche minuto, poiché tutti tacevano, disse: «Be’, e allora? Quanto mi regali?». Kien arrossì. Fischerle le urlò in faccia: «Non dire stupidaggini! Non permetto che si offenda il mio amico. E’ un uomo che ha del cervello. Non è uno che parla tanto per parlare. Prima di dire una parola ci pensa su cento volte. Quando dice qualcosa dice davvero qualcosa. Lui s’interessa del mio sussidio e offre spontaneamente venti scellini». «Sussidio? Che roba è?». Fischerle strepitò: «Sussidio è una parola distinta. Viene dal francese e ha lo stesso significato del termine ebreo “capitale”. E dove ce l’ho io un capitale?». La donna non capiva quel trucco. Suo marito doveva proprio ricorrere a una parola straniera? Ciò che a lui importava era di ottenere ragione. Fissò la moglie con uno sguardo grave e profondo, indicò Kien con il naso e dichiarò solennemente: «Lui sa tutto». «Tutto, cosa?». «Be’, che noi due risparmiamo per gli scacchi». «Ma io non ci penso neppure: con quel che guadagno! Non sono mica la Mizzl, io, e tu non sei mica il Ferdl. Da te cosa mi viene? Un cavolo, ecco quel che mi viene. Lo sai cosa sei tu? Uno storpio, ecco cosa sei! Te ne puoi andare a chieder l’elemosina se non ti va bene così!». Chiamò Kien a testimonio di quell’inaudita ingiustizia. «E’ uno sfacciato, glielo dico io! Cose da non credersi. Uno storpio come lui! Potrebbe ben essere contento!». Fischerle si fece ancora più piccolo, considerò persa la partita e si limitò a dire a Kien in tono malinconico: «Beato lei che non è sposato. Prima risparmiamo ogni centesimo per vent’anni e adesso lei s’è mangiata tutto il sussidio coi suoi cari amici!». Davanti a una menzogna tanto impudente la moglie restò senza parola: «Senta, questo lo posso giurare», gridò non appena si fu ripresa. «In vent’anni non sono mai stata con nessun uomo all’infuori di lui!». Fischerle mostrò a Kien un palmo della mano con aria rassegnata: «Una puttana che non è mai stata con nessun uomo!». Alla parola «puttana», alzò le sopracciglia. Colpita da questo insulto la moglie scoppiò a piangere forte. Le sue parole divennero incomprensibili, ma si aveva l’impressione che fra i singhiozzi parlasse di una pensione. «Lo vede, adesso lo ammette anche lei». Fischerle aveva ripreso coraggio. «Da chi crede che la riceva la pensione? Da un signore che viene tutti i lunedì. In casa mia. Sa una cosa? Una donna non può non giurare il falso. E perché non può non giurare il falso? Perché è falsa lei! Ora domando: lei sarebbe capace di giurare il falso? Io sarei capace di giurare il falso? Manco per sogno! E perché? Perché siamo tutti e due gente che ha del cervello. Ha mai visto una persona intelligente e falsa? Io no!». La moglie piangeva sempre più forte. Kien gli dette ragione di cuore. Tutto preso dalla sua paura non s’era mai posto il problema se Fischerle mentisse o dicesse la verità. Da quando la donna sedeva al tavolino ogni gesto ostile verso di lei, da qualunque parte venisse, rappresentava per lui una liberazione. Da quando gli aveva chiesto un regalo, lui aveva capito chi aveva davanti: una seconda Therese. Degli usi del luogo poco capiva, una cosa tuttavia gli parve sicura: un nobile spirito racchiuso in un corpo infelice aspirava da vent’anni a elevarsi al di sopra del fango del proprio ambiente e Therese non lo permetteva. Egli era costretto ad imporre a se stesso rinunce senza limiti, gli occhi costantemente fissi sulla meta da raggiungere: una libera intelligenza. Altrettanto costantemente Therese si sforzava di riportarlo nel fango. Lui risparmia, ma non per grettezza: è un’anima grande; lei sperpera tutto, perché lui non possa sfuggirle. Lui ha afferrato soltanto un piccolissimo lembo del mondo dello spirito e vi s’aggrappa con la forza di uno che sta per affogare. Il gioco degli scacchi è la sua biblioteca. Se parla di rami d’affari è soltanto perché in quel luogo è vietato un linguaggio diverso. Ma è sintomatico che egli collochi tanto in alto il ramo librario. Kien immagina le lotte che quell’uomo sconfitto dalla vita deve affrontare persino per conquistarsi la propria abitazione. Si porta a casa un libro per leggerselo di nascosto e lei glielo strappa in mille pezzi che volano da ogni parte. Lei lo costringe a lasciarle la casa a disposizione per i propri orribili scopi. Forse paga una serva, una spia che tenga la casa libera dai libri quando lei è fuori. I libri sono proibiti, la sua condotta è permessa. Dopo lunghe lotte lui è riuscito a ottenere da lei una scacchiera. Lei l’ha confinato nella stanza più piccola di tutta la casa, ed ora lui siede là per lunghe notti e nel maneggiare quelle figure di legno ritrova la propria dignità di uomo. Riesce a sentirsi quasi libero solo quando lei riceve quelle visite. In quelle ore per lei è come se lui non esistesse. A tanto è necessario arrivare perché lei non lo tormenti. Ma anche allora, lui tende corrucciato l’orecchio per sentire se lei non gli compaia all’improvviso davanti, ubriaca. Puzza di alcool. Fuma. Spalanca la porta e rovescia la scacchiera con i suoi piedi informi. Il signor Fischerle strilla come un bambino. Era giunto proprio al punto più interessante del suo libro. Raccoglie le lettere sparse tutt’intorno e volge il viso da un’altra parte perché lei non possa godere delle sue lagrime. E’ un piccolo eroe. E’ un uomo di carattere. Quante volte gli sfiora le labbra la parola «meretrice»? Tuttavia non la pronuncia tanto lei non capirebbe. Lei l’avrebbe cacciato di casa già da molto tempo, ma aspetta da lui un testamento a proprio favore. Probabilmente lui possiede pochi beni. Ma anche quei pochi bastano a far nascere in lei la mania di derubarlo. Lui non ha alcuna intenzione di sacrificarle anche quell’ultimo resto dei suoi averi. Si rifiuta, e solo per questo ha ancora un tetto sopra la testa. Se sapesse che deve quel tetto alle mire che lei ha sul suo testamento! Non bisogna dirglielo. Potrebbe attentare alla propria vita. Lui non è di granito. La sua costituzione da nano… Mai prima d’ora Kien s’era immedesimato a tal punto in un’altra persona. Lui era riuscito a liberarsi di Therese. L’aveva battuta usando le sue stesse armi, l’aveva vinta con l’astuzia e l’aveva rinchiusa. Ed ecco che tutt’a un tratto lei sedeva al suo tavolo e là avanzava pretese come prima, strepitava come prima e – unica novità era arrivata a trovarsi una professione degna di lei. Ma il suo deleterio agitarsi non era rivolto contro di lui, a lui badava poco: era rivolto contro l’uomo che gli stava di fronte e che già la natura, con un suo tristo gioco etimologico, aveva percosso fino a farne uno storpio. Kien si sentiva profondamente debitore nei confronti di quell’uomo. Doveva fare qualche cosa per lui. Lo stimava. Se il signor Fischerle non avesse avuto un’anima tanto sensibile gli avrebbe offerto addirittura del denaro. Senza dubbio lui avrebbe saputo come utilizzarlo. Però non voleva offenderlo in alcun caso, così come non gli sarebbe passato per la testa di offendere se stesso. Forse un modo c’era: riprendendo quel discorso che Therese aveva interrotto con femminea insolenza. Estrasse il portafoglio tuttora gonfio di banconote di grosso taglio. Tenendolo, contro la sua abitudine, lungamente in mano, ne tolse tutto il denaro e cominciò tranquillamente a contarlo. Il signor Fischerle doveva convincersi con i propri occhi che l’offerta che si aveva in animo di fargli non costituiva affatto un gran sacrificio. Arrivato al trentesimo biglietto da cento scellini, Kien abbassò lo sguardo sull’ometto. Forse era già ammansito a sufficienza perché gli si potesse proporre la donazione: che gusto c’è a contare il denaro? Fischerle si guardava furtivamente attorno: solo dell’uomo intento a contare sembrava non interessarsi per nulla, certo per delicatezza d’animo e per ripugnanza verso la vile moneta. Kien non si lasciò scoraggiare, continuò a contare, ma forte, ora, con voce alta e chiara. Chiese mentalmente scusa all’ometto per la propria invadenza, s’accorgeva benissimo di ferire le sue orecchie. Il nano si agitava sulla sedia con aria inquieta. Posò la testa sul tavolino, in quel modo si turava almeno un orecchio, da persona sensibile qual era; poi cominciò a premere contro il petto della moglie, ma che faceva? Sembrava che volesse allargarglielo, non era già ampio abbastanza? Così facendo toglieva a Kien la visuale. La moglie sopportava ogni cosa, e adesso stava anche zitta. Certo, contava su quel denaro. Ma si sbagliava. Therese non avrebbe avuto niente. A quota quarantacinque i tormenti dell’ometto erano giunti al limite. Con aria supplichevole fece: «Ssst! Ssst!». Kien s’intenerì. Che fosse meglio risparmiargli il regalo? In fondo non poteva certo costringerlo. No, no: più tardi esso gli avrebbe fatto piacere, forse quei soldi gli avrebbero permesso di prendere il volo e di liberarsi da quella Therese. A quota cinquantatré Fischerle agguantò la moglie per la faccia e gracchiò come un ossesso: «Non sei capace di star ferma? Si può sapere cosa vuoi, guindolo idiota? Che ne capisci tu di scacchi? Cavalla matta! Ne ho abbastanza di te. E girati!». Aggiungeva qualcosa ad ogni numero, la donna sembrava confusa e fece la mossa di andarsene. Questo a Kien non garbava. Dev’essere presente quando lui farà il regalo all’ometto. E’ necessario che lei si stizzisca al vedere che non le tocca nulla, altrimenti che gusto ne avrà il marito? Il puro e semplice denaro gli dà ben poca gioia. Glielo deve consegnare prima che lei se ne vada. Raggiunse una cifra tonda – la prossima era sessanta – e smise di contare. S’alzò tenendo in mano un biglietto da cento scellini. Avrebbe preferito presentarne più d’uno, ma non voleva offendere il nano né con una somma troppo grossa né con una troppo piccola. Si raddrizzò in tutta la sua lunghezza e osservò un attimo di silenzio per accrescere la solennità del proprio intento. Poi parlò, e furono le parole più cortesi della sua vita: «Stimatissimo signor Fischerle! Mi è impossibile tacere la preghiera che sto per rivolgerle. Abbia la gentilezza di accettare questo piccolo contributo al suo sussidio, come lei ama dire!». Al posto di un «grazie», l’ometto bisbigliò: «Ssst! Va bene, va bene!», e seguitò a scagliarsi contro la moglie: evidentemente era confuso. Con le sue occhiate e le sue parole furibonde la stava quasi gettando giù dal tavolo. Tanto poco gl’interessava il denaro offertogli che neanche lo degnò di uno sguardo. Per non mortificare Kien tese il braccio e fece l’atto di prendere la banconota. Invece di questa, gli capitò sottomano tutto il mazzo e lui non se n’accorse nemmeno, tanto era eccitato. A Kien venne da sorridere. Ecco un uomo che per discrezione si comporta come il più avido dei grassatori.

Appena se n’accorgerà si vergognerà a morte. Per risparmiargli quell’umiliazione Kien mise la banconota al posto del mazzo. Le dita del nano erano dure e insensibili e rimasero strette, naturalmente contro la volontà del loro proprietario, intorno al mazzo. Continuarono a non accorgersi di nulla anche quando vennero allontanate una dopo l’altra dal mazzo e tornarono a serrarsi automaticamente intorno all’unica banconota da cento scellini rimasta alla fine. Il gioco degli scacchi ha indurito queste mani, pensò Kien, il signor Fischerle è abituato a tenere strette le sue pedine, esse sono l’unica cosa che lo mantenga in vita. Nel frattempo s’era seduto. La sua buona azione lo rendeva felice. Per di più Therese, coperta d’insulti, s’era alzata con il viso paonazzo e ora lasciava davvero il tavolino. Poteva pure andarsene, non gli serviva più. Da lui non poteva aspettarsi nulla. Il compito di Kien era aiutare il marito a trionfare su di lei, questo compito era pienamente riuscito. Nel tumulto delle sue sensazioni di letizia Kien non aveva prestato attenzione a ciò che stava accadendo intorno a lui. All’improvviso ricevette un pesante colpo sulla spalla. Sobbalzò e rivolse lo sguardo da quella parte. Un’enorme mano era posata su di lui, e una voce tuonava: «Non regali qualcosa anche a me?». Una buona dozzina di ceffi sedeva intorno a lui. Da quanto tempo? Prima non li aveva notati. Interi mucchi di pugni si posarono sul tavolino, altri ceffi s’avvicinarono: quelli più arretrati, che erano in piedi, s’appoggiavano sopra quelli davanti che stavano seduti. Una voce femminile gridò in tono lamentoso: «Fatemi andare avanti, qui non vedo niente!». Un’altra, stridula: «Ferdl, questa è la volta che ti fai la moto!». Qualcuno sollevò la borsa aperta, la scosse, non trovò i soldi e ruggì deluso: «Va’ al diavolo, scimunito, tu e la tua cartaccia!». La gente era tanta che non si vedeva più il locale. Fischerle gracchiava. Nessuno gli dava retta. Sua moglie era tornata e strillava a più non posso. Un’altra donna assai grassa si fece strada in mezzo ai ceffi menando colpi a destra e a manca e vociò: «Voglio qualcosa anch’io!». Era coperta di tutti quei brandelli di abiti che Kien aveva scorto poco prima dietro il bancone di mescita. Il Paradiso tremava. Diverse sedie si rovesciarono. Una voce d’angelo piangeva di gioia. Quando Kien capì di che si trattava qualcuno gli aveva già infilato la borsa in testa. Non vedeva e non udiva più nulla, soltanto si rendeva conto di trovarsi disteso sul pavimento in tutta la sua lunghezza, mentre mani d’ogni peso e misura perquisivano ogni tasca, ogni buco, ogni cucitura del suo vestito. Lui tremava in tutto il corpo, non tanto per sé quanto per la sua testa: a costoro poteva venire in mente di gettare sossopra i libri che essa conteneva. L’ammazzeranno, ma lui non rivelerà il nascondiglio dei suoi libri. Fuori i libri!, ordineranno, dove sono i libri? Ma lui non li tirerà fuori mai, mai, mai: è un martire, morirà per i suoi libri. Le sue labbra si muovono, vorrebbero dire fino a che punto sia saldo il suo proposito ma non osano farlo ad alta voce e pronunciano le sillabe silenziosamente. In realtà a nessuno passa per la mente di fargli domande: preferiscono sincerarsi di persona. Lui viene sospinto varie volte qua e là sul pavimento. Manca poco che lo spoglino nudo. Per quanto lo voltino e lo rivoltino non riescono a trovargli addosso niente. All’improvviso Kien si rende conto d’esser solo. Tutte le mani sono scomparse. Si tocca furtivamente la testa e vi lascia sopra la mano per proteggersi dal prossimo assalto. Subito dopo vi posa anche l’altra. Tenta di alzarsi senza togliersi le mani dalla testa. I nemici aspettano proprio questo momento per afferrare a mezz’aria i libri indifesi: attenzione, attenzione! Vi riesce. E’ fortunato. Ora è in piedi. Dove sono i ceffi? Preferisce non guardarsi attorno, potrebbero notarlo. Il suo sguardo che, per prudenza, lui rivolge all’angolo opposto del locale, cade proprio da quella parte su un mucchio di individui che si colpiscono a pugni e a coltellate. Ora sente anche le loro urla furibonde. Non vuole badare a loro: potrebbero a loro volta badare a lui. Sgattaiola via sulla punta delle sue lunghe gambe. Qualcuno l’afferra da dietro. Pur correndo è tanto prudente da non voltarsi. Sbircia dietro di sé con la coda dell’occhio, trattenendo il respiro, le mani strette intorno alla testa. Era solo il tendaggio della porta. Sulla strada respira a fondo. Che peccato che una simile porta non si possa sbattere. La biblioteca è salva. Poche case più avanti l’aspettava il nano. Gli porse la borsa. «C’è anche la carta», disse. «Le farò vedere che tipo sono!». Fra tutte le sue pene Kien s’era completamente dimenticato che esistesse al mondo una creatura di nome Fischerle. Per questo rimase tanto più colpito da quell’incredibile prova d’attaccamento. «Anche la carta», balbettò, «come posso ringraziarla…». Non s’era ingannato sul conto di quell’uomo. «E questo è ancora niente», dichiarò l’ometto. «Venga un po’ dentro il portone!». Kien obbedì, era profondamente commosso e potendo avrebbe abbracciato l’ometto. «Lo sa quant’è la ricompensa per chi ritrova un oggetto smarrito?», domandò quello non appena un portone li ebbe nascosti agli occhi dei passanti. «Lo saprà di certo: il dieci per cento. Là dentro si stanno ammazzando tutti quanti uomini e donne, e questo ce l’ho io!». Estrasse il portafoglio di Kien e glielo consegnò come un dono munifico. «Sarei proprio uno stupido. Crede che voglia finire in galera per questi?». Da quando si trovava in pericolo il suo bene più caro, Kien s’era completamente dimenticato anche dei soldi. Scoppiò a ridere di fronte a tanta coscienziosità e accettò il portafoglio rallegrandosi più per Fischerle che per il denaro ritrovato, e ripeté: «Come posso dimostrarle la mia gratitudine? Come posso dimostrarle la mia gratitudine?». «Il dieci per cento», disse il nano. Kien tolse dal mazzo una buona parte di banconote e le tese a Fischerle. «Prima le conti!», gridò quello, «gli affari sono affari. Poi magari se ne vien fuori a dire che l’ho derubato». Kien aveva un bel contare: che ne sapeva di quanto denaro vi fosse prima? Fischerle invece sapeva perfettamente quante banconote aveva messo da parte. Il suo invito a contare si riferiva solo alla propria ricompensa. Ma Kien, per fargli piacere, ricontò scrupolosamente tutto il mazzo. Quando, per la seconda volta nella giornata, fu arrivato a sessanta, Fischerle vide di nuovo su di sé l’ombra della galera. Decise di battersela – per questa evenienza aveva messo in salvo già prima la ricompensa – e fece, in gran fretta, un ultimo tentativo: «Lo vede anche lei: ci sono tutti!». «Naturalmente», disse Kien, lieto di non dover più contare. «Ora mi conti la ricompensa e siamo pari!». Kien ricominciò a contare e arrivò fino a nove: avrebbe continuato per tutta l’eternità, ma a questo punto Fischerle disse: «Alt! Il dieci per cento». Lui conosceva bene l’ammontare dell’intera somma. Mentre aspettava sotto il portone aveva esaminato lestamente e a fondo il portafoglio. Una volta sistemato l’affare dette la mano a Kien e alzando tristemente gli occhi verso di lui disse: «Lei deve sapere che cosa sto rischiando per lei. Con il “Paradiso ideale” ormai è finita. Crede che io possa tornare là dentro? Quelli mi trovano addosso tutti questi soldi e mi ammazzano. Perché dicono: da chi li ha avuti Fischerle, questi soldi? E io posso forse dire da chi li ho avuti? Se dico: dal ramo librario, è la volta che mi ammazzano di botte e poi quando il povero Fischerle è ammazzato di botte gli rubano i soldi dalle tasche. Se non dico niente, al Fischerle li portano via mentre è ancora vivo. Lei mi capisce: se Fischerle resta in vita non ha più di che vivere, e se è morto è morto. Lo vede che cosa si ricava dalle amicizie?». Sperava di ottenere una mancia supplementare. Kien si sentì obbligato ad aiutare quell’uomo, il primo che avesse incontrato nella sua vita, a raggiungere un’esistenza nuova e dignitosa. «Io non sono commerciante, sono studioso e bibliotecario», disse, e si chinò cortesemente verso il nano. «Entri al mio servizio e io provvederò a lei». «Come un padre», completò l’ometto. «Me l’ero immaginato. Bene, andiamo!». E prese un’energica rincorsa. Kien gli trottò dietro, cercando tra sé un lavoro per il suo nuovo famulo. Un unico non deve mai accorgersi che gli si fanno dei regali. Avrebbe potuto aiutarlo quando, alla sera, si trattava di scaricare e di riporre i libri.

La gobba Poche ore dopo aver preso servizio Fischerle s’era reso perfettamente conto dei desideri e delle particolarità del suo padrone. Quando presero alloggio per la notte Kien lo presentò al portiere come suo «amico e collaboratore». Per fortuna il portiere riconobbe il generoso proprietario di biblioteca che aveva già pernottato là una volta; altrimenti padrone e collaboratore sarebbero stati buttati fuori senza complimenti. Fischerle si sforzò di seguire con gli occhi ciò che Kien scriveva sul modulo dell’albergo. Era troppo basso, e non arrivò neppure a cacciare il naso nelle «generalità». La sua paura andava a un secondo modulo, che il portiere teneva pronto per lui. Kien, però, che riparava in una sola sera la mancanza di delicatezza di cui aveva dato prova in un’intera vita, s’avvide delle difficoltà che lo scrivere presentava per lui e lo registrò sul proprio modulo sotto la formula «accompagnato da…». L’altro modulo lo restituì al portiere dicendo: «Questo non serve». Così risparmiò a Fischerle la fatica di scrivere e, cosa ancor più importante ai suoi occhi, l’umiliazione di sapersi registrato nella rubrica della servitù. Appena furono nella loro stanza Kien prese la carta da pacchi e cominciò a lisciarla ben bene. «E’ molto gualcita», disse, «ma non ne abbiamo altra». Fischerle colse l’occasione per rendersi indispensabile e ripeté l’opera su ciascuno dei fogli che il padrone considerava già racconciati. «E’ stata colpa mia, per quella faccenda delle botte», dichiarò Fischerle. Il risultato corrispose all’ammirevole abilità delle sue dita. Poi i fogli di carta vennero stesi sul pavimento delle due stanze. Fischerle saltava qua e là, si stendeva per terra e strisciava, un rettile gibboso di singolare brevità, da un angolo all’altro. «Siamo quasi a posto, è una cosa da niente!», continuava a ripetere ansimando. Kien sorrideva, non era abituato né a quello strisciare né alla gobba e si sentiva felice dell’onore che il nano gli faceva. Tuttavia la spiegazione ormai imminente lo spaventava un poco. Forse aveva sopravvalutato l’intelligenza di quell’omino che aveva quasi la sua stessa età ed era vissuto in esilio, senza libri, per un gran numero di anni. Avrebbe potuto fraintendere l’incombenza che s’intendeva affidargli. Forse avrebbe addirittura chiesto: «Dove sono i libri?», prima di arrivare a capire dove essi venissero conservati durante il giorno. La cosa migliore era che continuasse ancora un po’ a trascinarsi sul pavimento. Nel frattempo Kien sarebbe riuscito a escogitare un’immagine terra terra che riuscisse più chiara a quel cervello non educato. Anche le dita dell’ometto costituivano per lui motivo d’inquietudine. Si muovevano ininterrottamente, lisciavano la carta troppo a lungo. Erano affamate, e le dita affamate vogliono un nutrimento. Avrebbero chiesto quei libri che Kien non era disposto a lasciar toccare da chicchessia. Temeva insomma di entrare in qualche modo in conflitto con la fame d’istruzione dell’omino. Fischerle avrebbe potuto rimproverargli – e con qualche parvenza di ragione che là v’erano dei libri che rimanevano inutilizzati. Come avrebbe potuto difendersi? Spesso un matto pensa cose che dieci savi non prendono in considerazione. Ecco che questo matto gli stava ormai davanti e diceva: «Fatto!». «Allora, per favore, mi aiuti a scaricare i libri!», disse Kien tutto d’un fiato e si stupì lui stesso della propria audacia. Per tagliar corto a ogni domanda importuna, si tolse dalla testa un pacco di libri e lo porse all’ometto. Quello seppe prenderlo abilmente con le sue lunghe braccia e disse: «Così tanti! Dove devo metterli?». «Tanti?», esclamò Kien offeso. «Questo è soltanto un millesimo!». «Ho capito, ho capito! l’uno per mille. Devo starmene qui un anno intero? Non ce la faccio, sono così pesanti; dove devo metterli?». «Sulla carta. Cominci da quell’angolo là, in modo che dopo non ce li troviamo fra i piedi!». Fischerle s’avviò cautamente in quella direzione. Si guardò dal compiere qualunque movimento brusco che potesse mettere in pericolo il suo carico. Arrivato all’angolo, s’inginocchiò, posò a terra con precauzione la pila di libri e allineò per bene i lati della pila perché nessuna irregolarità avesse a turbare la vista. Kien l’aveva seguito. Già gli porgeva il secondo pacco; diffidava dell’ometto, aveva quasi l’impressione di venir preso in giro. In mano a Fischerle il lavoro pareva procedere da solo. Prendeva in mano un pacco dopo l’altro, la sua sveltezza aumentava con la pratica. Tra le pile lasciava spesso qualche centimetro di spazio in modo che le dita vi potessero entrare comodamente. Pensava a tutto, anche alla partenza dell’indomani. Non lasciava che le pile superassero una certa altezza e al momento opportuno effettuava un controllo passandovi sopra leggermente la punta del naso. Per quanto assorto nelle sue misurazioni diceva ogni volta: «Il signore mi vorrà scusare!». La pila non arrivava mai più in alto del suo naso. Kien aveva qualche dubbio: temeva che, a causa di pile tanto basse, lo spazio venisse a mancare troppo in fretta. Non aveva la minima voglia di dormire con mezza biblioteca in testa. Per il momento però tacque e lasciò fare al suo famulo. Cominciava già a provare dell’affetto per lui. Gli aveva perdonato la scarsa considerazione che poc’anzi aveva avvertito nel grido: «Così tanti!». Aspettava con gioia il momento in cui il pavimento che c’era a disposizione nelle due stanze sarebbe stato tutto coperto e lui avrebbe potuto abbassare con lieve ironia lo sguardo sull’ometto dicendo: «E adesso che gliene pare?». Dopo un’ora Fischerle si trovò in gravi difficoltà a causa della sua gobba. Aveva un bel torcersi e scansarsi in tutti i sensi: urtava sempre da qualche parte. Ad eccezione di uno stretto passaggio che conduceva dal letto di una stanza a quello dell’altra, tutto lo spazio era uniformemente ricoperto di libri. Fischerle sudava e non s’azzardava più a passare la punta del naso sopra la sommità delle sue pile. Provò a tirare in dentro la gobba, non vi riuscì. L’attività fisica stava andando oltre le sue forze. Era così stanco che avrebbe volentieri sputato su tutte quelle pile per coricarsi subito. Resistette però finché, anche con la migliore volontà, non sarebbe più stato possibile trovare un solo posto libero, e a questo punto s’accasciò mezzo morto. «Una biblioteca simile non l’ho mai vista in vita mia», borbottò. Kien rise illuminandosi tutto. «Questa non è che la metà!», disse. Fischerle non se l’aspettava. «All’altra metà penseremo domani», affermò in tono minaccioso. Kien si sentì colto in fallo. Aveva esagerato: in realtà erano stati scaricati due terzi abbondanti di libri. Che cosa avrebbe pensato di lui l’ometto se la cosa fosse venuta a galla? Alle persone precise non piace farsi sbugiardare. Domani dovrà pernottare in un albergo dove ci siano stanze meno spaziose. Gli passerà dei pacchi più piccoli, due pacchi fanno esattamente una pila, e se con la punta del naso Fischerle arriverà ad accorgersi di qualcosa lui gli dirà semplicemente: «La punta del naso non è sempre alla stessa altezza. Stando con me imparerà varie altre cose». Ormai l’ometto è tanto stanco che fa pena guardarlo. Bisogna concedergli un po’ di riposo, se l’è meritato. «Rispetto la sua stanchezza», dice Kien, «ciò che si fa per i libri è sempre ben fatto. Ora può andare a dormire. Il seguito a domani». Lo tratta con ogni riguardo, ma né più né meno che come un servitore. Il lavoro che ha compiuto l’abbassa a questo rango. Fischerle si coricò e quando si fu alquanto riposato gridò a Kien, nell’altra stanza: «Cattivi questi letti!». Stava magnificamente, in vita sua non s’era mai sdraiato su un materasso tanto morbido, doveva pur dire qualcosa. Kien, come ogni sera prima d’addormentarsi, si trovava in Cina. In conformità alle singolari avventure di quella giornata i suoi pensieri si presentavano diversi dal solito. Riusciva a considerare la possibilità di volgarizzare la propria scienza senza sentirsi subito salire la nausea. Sentiva che il nano lo comprendeva. Ammetteva la possibilità che esistessero nature affini. Chi fosse riuscito a donare a tali nature un po’ d’istruzione, un po’ di umanità, avrebbe compiuto un’impresa non disprezzabile. Gli inizi sono sempre difficili. D’altra parte non era bene incoraggiare gli abusi. Il quotidiano contatto con una simile mole di cultura avrebbe continuamente accresciuto la fame dell’ometto; un giorno o l’altro lui l’avrebbe sorpreso mentre s’accostava a un libro e tentava di leggerlo. Ciò non doveva accadere, sarebbe stato nocivo per lui: si sarebbe guastato quel po’ di cervello che aveva. Quali erano le capacità ricettive di quel poveretto? Bisognava prepararlo a voce. Non c’era fretta di giungere alla lettura individuale. Ci sarebbero voluti degli anni prima che lui potesse conoscere alla perfezione il cinese. Ma si doveva fare in modo che già prima entrasse in confidenza con gli esponenti e con i principi della cultura cinese. Per destare il suo interesse, avrebbe dovuto allacciarsi alle circostanze della vita quotidiana. Sotto il titolo «Mong Tse e noi», si poteva mettere insieme una simpatica meditazione. Che cosa ne avrebbe pensato lui? Kien si ricordò che il nano aveva appena detto qualcosa; che cosa, non sapeva, ma ciò significava che era ancora sveglio. «Che cosa può ancora dirci Mong Tse?», gridò ad alta voce. Questo titolo era migliore. Se ne desumeva subito che Mong Tse era una persona. Uno studioso si risparmia volentieri eccessive bestialità. «Ho detto che i letti sono cattivi!», esclamò di rimando Fischerle a voce ancora più alta. «Letti?». «Pieni di cimici!». «Che! Dorma, piuttosto, e non dica freddure! Domani dovrà imparare molte cose». «Sa che le dico? Oggi ho già imparato abbastanza». «Questo lo dice lei. Ora dorma, conto fino a tre». «Dormire io? Già, e magari, intanto, qualcuno ci ruba i libri, e noi siamo rovinati. Non voglio correre rischi. Crede che uno possa dormire in queste condizioni? Lei forse, perché lei è ricco. Ma io no!». Fischerle aveva veramente paura di addormentarsi. Lui ha le sue abitudini. Se si mette a dormire è capace di rubare a Kien tutti i suoi soldi. Quando sogna non ha la minima idea di ciò che fa. Uno sogna le cose che lo colpiscono maggiormente. Ciò che Fischerle ama più di ogni altra cosa è affondare le mani dentro montagne di banconote. Quando è stanco di affondarvi le mani ed è ben sicuro che nessuno dei suoi falsi amici s’aggiri nelle vicinanze, vi si siede sopra e gioca una partita a scacchi. Lo starsene così in alto offre notevoli vantaggi. Si può badare contemporaneamente a due cose: da lontano si vede chiunque venga a rubare e da vicino si tiene la scacchiera. I gran signori sbrigano così i loro affari. Con la destra uno muove gli scacchi, con la sinistra si pulisce le dita sudicie nelle banconote. Perché ce ne sono persino troppe. Diciamo qualche milione. Che cosa si può fare con tanti milioni? Regalarne un po’ non sarebbe male, ma chi s’attenta a farlo? Basta che s’accorgano, quella gentaglia, che un uomo piccolo possiede qualcosa, e subito gli portano via tutto. Un uomo piccolo non deve crescere al di sopra di se stesso. Lui ha il capitale per farlo ma non può farlo. Che ci sta a fare seduto là sopra? dicono quelli. Dove diavolo può metterli tanti milioni, quest’ometto, se non ha dove tenerli? Un’operazione sarebbe la cosa più astuta. Si va da un famoso chirurgo e gli si sventola un milione sotto il naso. Signore, gli si dice, mi tagli la gobba e il milione è suo. Per un milione un uomo diventa un artista. Quando la gobba è sparita si dice: Caro signore, il milione era una frottola, ma un paio di biglietti da mille non glieli toglie nessuno. Quello magari arriva persino a dir grazie. La gobba viene bruciata. A questo punto si potrebbe vivere dritti per il resto dei propri giorni. Ma l’uomo astuto non è tanto stupido da farlo. Prende il suo milione, arrotola le banconote strette strette e con esse si fa una nuova gobba. Poi se l’applica alla schiena. Nessuno s’accorge di nulla. Lui sa di essere dritto, la gente lo crede gobbo. Lui sa di essere milionario, la gente lo crede un povero diavolo. Quando si corica piglia la gobba e se la sposta sullo stomaco. Gran Dio, anche a lui piacerebbe, una buona volta, dormire sul dorso. A questo punto Fischerle finisce sulla gobba ed è persino grato al dolore che lo strappa al dormiveglia. Non può sopportare una cosa simile, dice a se stesso: tutt’a un tratto comincia a sognare che il mucchio dei soldi sia nell’altra stanza, va per prenderlo e si rovina con le proprie mani. Non appartiene già tutto a lui? La polizia è inutile. Lui rinuncia al suo intervento. Se li guadagnerà tutti onestamente. Nell’altra stanza dorme un idiota, in questa un uomo che ha del cervello. Alla fine di chi saranno i soldi? Fischerle ha un bel cercare di convincersi: è troppo abituato a rubare. Da diverso tempo ormai non ruba più, perché nel suo ambiente non c’è nulla da rubare. A intraprendere spedizioni a più vasto raggio non s’azzarda, perché la polizia lo tiene d’occhio. E’ così facile identificarlo. In questi casi lo zelo dei poliziotti non conosce limiti. Giace sveglio per metà della notte, gli occhi febbrilmente spalancati, le mani intrecciate nei modi più strani. Allontana da sé il mucchio di denaro, e anziché pensare ad esso sopporta ancora una volta le ingiurie e i colpi nelle costole di cui l’hanno sempre coperto in qualsiasi corpo di guardia. E’ proprio necessario tutto questo? E per giunta ti portano via ogni cosa, e non ne rivedi più nemmeno l’ombra. Questo non è rubare! Quando giunge al punto che gli insulti non gli fanno più effetto, che della polizia ne ha fin sopra i capelli e che un braccio già gli penzola fuori dal letto, si rammenta di alcune partite di scacchi. Sono abbastanza interessanti da trattenere a letto lui: il braccio invece resta fuori, pronto a scattare. Gioca con maggior prudenza del solito, prima di certe mosse riflette per un tempo ridicolmente lungo. Come avversario si sceglie un campione mondiale. Gli detta ogni mossa con orgoglio. Un po’ meravigliato dell’obbedienza che incontra, sostituisce il vecchio campione con uno nuovo; anche questo accetta molti ordini da lui. A ben guardare, Fischerle gioca per tutti e due. L’altro non sa trovare mosse migliori di quelle che Fischerle gli impone, annuisce umilmente e nonostante ciò viene sbaragliato. La cosa si ripete varie volte, finché Fischerle dice: «Con gente tanto stupida io non gioco!», e allunga anche le gambe fuori dalla coperta. Poi dichiara: «Un campione mondiale? Dove sarebbe un campione mondiale? Qui non ce ne sono!». Per esserne sicuro si alza e fruga la stanza. Una volta conquistato il titolo quella gente cerca sempre di nascondersi. Non trova nessuno. Eppure gli era parso che un campione mondiale sedesse sul letto e giocasse con lui: sarebbe pronto a giurarlo. Non si sarà per caso nascosto nella stanza accanto? Niente paura, Fischerle lo trova senz’altro. Con tutta calma cerca anche là, la stanza è vuota. Apre l’armadio e vi caccia dentro in fretta una mano, non v’è giocatore di scacchi che gli possa sfuggire. Si muove senza fare alcun rumore, ed è naturale: bisognerebbe forse svegliare quel lungo topo di biblioteca soltanto perché Fischerle vuol dare una lezione al suo nemico? Magari questo non c’è nemmeno e lui si gioca un buon posto per un ghiribizzo. Sotto il letto caccia il naso in ogni angolino. Da quanto tempo non sta più sotto un letto! Gli pare di trovarsi a casa sua. Mentre ne esce, il suo sguardo si posa su una giacca appesa a una sedia, e subito gli viene in mente quanto i campioni mondiali siano avidi di soldi: non ne hanno mai abbastanza, per strappargli il titolo bisogna mettergli sul tavolo una quantità di denari in contanti, di certo anche quel briccone è a caccia di quattrini e s’aggira nelle vicinanze del portafoglio. Forse non l’ha ancora preso, bisogna salvarlo dalle sue grinfie, un tipo simile è capace di tutto. Poi, domani, il denaro è sparito e lo spilungone crede che l’abbia preso Fischerle. Ma a lui non la si fa. Da sotto il letto tende le sue lunghe braccia verso il portafoglio, lo piglia e torna nel suo rifugio. Avrebbe potuto uscire del tutto, ma a che scopo? Il campione mondiale è più grande e più forte di lui, di sicuro se ne sta dietro la sedia tenendo d’occhio il denaro, e al vedere che Fischerle lo precede gli appioppa un ceffone. Così, invece, nessuno s’è accorto di niente. Quell’imbroglione resti pure là. Nessuno l’ha chiamato. La cosa migliore sarebbe che si dileguasse. C’è forse bisogno di lui? Ben presto Fischerle dimentica il campione mondiale. Nell’angolo più riposto del suo nascondiglio sotto il letto conta i bei biglietti nuovi, per divertimento, non per altro. Quanti siano lo ricorda bene già da prima. Appena ha finito ricomincia da capo. Fischerle ora viaggia verso un paese lontano, l’America. Là si reca dal campione mondiale Capablanca, e dice: «Cercavo proprio lei!», gli presenta la sua cauzione e gioca finché non lo mette a terra. Il giorno dopo la fotografia di Fischerle sta su tutti i giornali, e lui, per giunta, fa pure un buon affare. A casa la gentaglia del «Paradiso», fa tanto d’occhi; sua moglie, quella puttana, scoppia a piangere e grida che, se l’avesse saputo, l’avrebbe lasciato giocare sempre, gli altri le appioppano un paio di ceffoni, nient’altro che un po’ di fracasso: si sa, questo succede quando una non capisce un’acca del gioco. Le donne sono la rovina degli uomini. Se lui fosse rimasto a casa non avrebbe combinato mai niente. Un uomo deve tagliare la corda, il segreto è tutto qui. Se uno è un vigliacco non diventerà mai campione mondiale.

Provi ora qualcuno a dire che gli ebrei sono dei vigliacchi. I giornalisti gli chiedono chi sia. Nessuno lo conosce. Non ha l’aspetto di un americano. Di ebrei ce ne sono dappertutto, ma da dove viene questo che ha liquidato trionfalmente il Capablanca? Il primo giorno, lui li tiene sulla corda. I giornali vorrebbero raccontare qualcosa ai lettori, ma non sanno niente. Dappertutto c’è scritto: «Il mistero del campione mondiale». Naturalmente ci s’immischia la polizia. Vogliono metterlo di nuovo in gattabuia. Eh no, signori, adesso le cose non sono più tanto semplici, adesso lui spende e spande e la polizia si pregia di lasciarlo libero. Il secondo giorno ci sono in cifra tonda cento giornalisti. Ciascuno gli promette, diciamo, mille dollari in contanti, sui due piedi, purché dica qualche cosa. Fischerle tace. I giornali cominciano a stampare frottole. Che altro potrebbero fare? I lettori non intendono più ragione. Fischerle è ospite di un albergo mastodontico, con tanto di bar di lusso come quelli dei transatlantici. Il cameriere vorrebbe far sedere al suo tavolo le donne più belle, non delle puttane come quelle là, ma fior di milionarie innamorate di lui. Lui ringrazia infinitamente, ma più tardi, risponde, ora non ha tempo. E perché non ha tempo? Perché sta leggendo tutte le frottole che i giornali riportano sul suo conto. Gli ci vuole tutto il giorno, com’è possibile arrivare in fondo? Si viene disturbati ogni momento. I fotografi chiedono che conceda loro un minuto. «Ma signori, con la gobba!», dice lui. «Un campione mondiale è sempre un campione mondiale, egregio signor Fischerle. La gobba non c’entra». Lo riprendono da destra, da sinistra, da dietro, da davanti. «Non si potrebbe farla sparire con un ritocco?», propone lui, «così avrete qualcosa di bello per il vostro giornale». «Come lei desidera, stimatissimo signor campione mondiale». Ma dove aveva gli occhi? Le sue fotografie sono tutte senza gobba. E’ scomparsa. Non ce l’ha. Ciò che ancora l’angustia è la statura. Chiama il cameriere e gli mostra un giornale. «Brutta foto, vero?», domanda. Il cameriere dice: «Well». In America la gente parla inglese. Lui trova che la foto è eccellente. «Hanno stampato soltanto la testa», dice. In questo ha ragione. «Vada pure», dice Fischerle e gli regala cento dollari di mancia. Stando alla fotografia lui potrebbe benissimo essere alto. Nessuno si rende conto della sua statura. Perde ogni interesse per gli articoli. Perché dovrebbe leggere tante pagine scritte in inglese? Lui capisce solo «well». Più tardi si fa portare subito le ultime edizioni e guarda ben bene la propria fotografia. Dappertutto c’è solo la testa. Il naso è lungo, è vero, ma è forse colpa sua? Lui è sempre stato per gli scacchi fin da piccolo. Avrebbe potuto mettersi in testa anche qualcos’altro, il calcio o il nuoto o la boxe: non c’è mai stato verso. Ed è stata la sua fortuna. Se per esempio adesso fosse campione mondiale di boxe dovrebbe farsi fotografare mezzo nudo per i giornali, tutti scoppierebbero a ridere e addio soddisfazione. Il giorno dopo ci sono già mille giornalisti. «Signori», dice lui, «sono sorpreso che dappertutto mi si chiami Fischerle. Io mi chiamo Fischer. Spero che vorranno provvedere alla rettifica!». Gli danno la loro parola d’onore. Poi s’inginocchiano davanti a lui – come sono piccoli! – e l’implorano di dire finalmente qualche cosa. Il giornale li butta fuori, dicono: se oggi non riescono a cavargli niente perderanno il posto. Devo pensare ai miei interessi, dice lui a se stesso, per niente non si fa niente, ora ha già regalato cento dollari al cameriere, ai giornalisti non regalerà niente. «Fate un’offerta», dichiara arditamente. Mille dollari! grida uno. Che coraggio! strilla un altro: diecimila! Un altro ancora lo prende per la mano e sussurra: centomila, signor Fischer. Quella gente ha quattrini a palate. Lui si tura le orecchie. Finché non arrivano al milione non ne vuol sapere. I giornalisti si scatenano e finiscono con l’accapigliarsi, ognuno vuole dare di più, i suoi dati anagrafici vengono messi all’asta. Uno arriva a cinque milioni, e tutt’a un tratto scende un gran silenzio. Nessuno osa offrire di più. Il campione mondiale si toglie le dita dalle orecchie e dichiara: «Vi dirò una cosa, signori. Che ci guadagno, io, a mandarvi in rovina? Proprio niente. Quanti siete? Mille? Datemi diecimila dollari ciascuno e io lo dico a tutti quanti insieme. Così io intasco dieci milioni e nessuno di voi va in rovina. D’accordo?». Quelli gli buttano le braccia al collo e lui è sistemato una volta per tutte. Poi sale su una sedia, ora non ve ne sarebbe più bisogno ma lui lo fa lo stesso, e racconta loro la pura e semplice verità. Lui è un campione mondiale venuto dal Paradiso. Prima che loro ci credano passa un’ora buona. Il suo matrimonio non era felice. Sua moglie, una pensionata, s’era messa su una cattiva strada, era divenuta, come si usa dire dalle sue parti, nell’ambiente del Paradiso, una puttana. Voleva che lui accettasse denaro da lei. Lui non sapeva a che santo votarsi. Se non accettava i soldi, gli aveva detto la moglie – lei l’avrebbe ammazzato. Lui aveva dovuto rassegnarsi: s’era piegato al ricatto e aveva tenuto in serbo quel denaro per lei. Per vent’anni ha dovuto assistere a un simile spettacolo. Alla fine non ne ha potuto più. Un giorno le ha chiesto categoricamente di smetterla altrimenti lui diventava campione mondiale di scacchi. Lei ha pianto, ma di smetterla non se l’è sentita. Era troppo abituata al dolce far niente, ai bei vestiti e ai signori ben rasati. Lui è spiacente per lei, ma un uomo deve mantenere la sua parola. Dal Paradiso se n’è venuto direttamente in America, ha messo a terra Capablanca e adesso eccolo qua. I giornalisti sono entusiasti. Lui pure. Fa una fondazione. Paga un sussidio a tutti i caffè del mondo: in cambio i proprietari s’impegnano sotto giuramento ad affiggere alle pareti dei loro locali, sotto forma di manifesti, tutte le partite giocate dal campione del mondo. Danneggiare i manifesti è vietato a termini di legge. Chiunque deve convincersi di persona che il campione del mondo gioca meglio di lui. Altrimenti c’è il pericolo che arrivi un imbroglione, magari un nano o qualche altro storpio, e sostenga di giocare meglio. La gente non pensa di controllare le mosse dello storpio. E’ capace di prestargli fede solo perché lui sa mentire bene. Adesso però basta! D’ora in poi ad ogni parete sarà appeso un manifesto. Quel furfante dice una sola mossa non vera, tutti vanno a confrontare il manifesto e chi deve vergognarsi fino alla radice della sua gobba miserabile? Lui, l’imbroglione! Per di più il proprietario s’impegna ad affibbiargli un paio di ceffoni perché s’è permesso d’insultare il campione mondiale. Provi invece a sfidarlo, se ne ha i soldi. Per questo sussidio Fischer stanzia un intero milione. Lui non è uno spilorcio. Anche alla moglie manda un milione, perché non debba più battere il marciapiede. In cambio lei s’impegna per iscritto a non venire mai in America e a non raccontare niente delle vecchie storie alla polizia. Fischer sposa una milionaria. Così si rifà della perdita. Si fa confezionare degli abiti nuovi da un sarto di classe, in modo che la moglie non s’accorga di niente. Si costruisce un palazzo colossale con vere torri, cavalli, alfieri, pedine, tutto come dev’essere. La servitù veste la livrea, in trenta immensi saloni Fischer gioca simultaneamente, notte e giorno, trenta partite, con figure vive alle quali impartisce gli ordini. Basta una parola e i suoi schiavi si spostano dove vuole lui. Gli avversari vengono da ogni parte del mondo, poveri diavoli che vogliono imparare qualcosa da lui. Parecchi si vendono la camicia per pagarsi il lungo viaggio. Lui li ospita generosamente, offre loro un pasto completo, minestra, pane, carne con due contorni, qualche volta un bell’arrosto invece del solito manzo. Ognuno ha il diritto di farsi battere una volta da lui. In cambio della grazia che concede non pretende niente. Solo, al momento di andarsene, devono segnarsi nel libro dei forestieri e dichiarare formalmente che lui è il campione mondiale. Lui difende il suo titolo. La seconda moglie intanto va a spasso in automobile. Una volta la settimana ci va anche lui. Al castello si spengono tutti i lampadari, la luce gli costa da sola un patrimonio. Sul portone appende un cartello: «Torno subito. Fischer, campione mondiale». Non sta fuori neppure due ore ma quando torna c’è già una coda di visitatori, come in tempo di guerra. «Cosa si compra qui?», domanda un passante. «Come, non lo sa? Allora lei è forestiero!». Mossi a compassione, gli altri gli dicono chi abita in quel luogo. Perché capisca bene glielo dicono prima uno per uno, e poi, un’altra volta, in coro: «Il campione del mondo Fischer dà l’elemosina». Il forestiero resta senza parole. In capo a un’ora riacquista la favella: «Allora oggi è giorno di ricevimento». Era proprio ciò che aspettavano quelli del luogo. «Oggi per l’appunto non è giorno di ricevimento. Sennò ci sarebbe molta più gente». Ora parlano tutti insieme. «E lui dov’è? Il castello è tutto buio!». «In automobile con la moglie. Questa è già la seconda moglie. La prima era una semplice pensionata. La seconda è una milionaria. L’automobile appartiene a lui. Non è un taxi: se l’è fatta costruire espressamente». Quello che dicono è la pura verità. Lui siede nella sua automobile, gli va proprio giusta. Per la moglie è un po’ troppo piccola, lei deve stare chinata tutto il tempo. In compenso però si gode la sua compagnia. Di solito lei ha la sua auto personale. In quella lui non sale perché è troppo grande. La sua però è costata di più. La fabbrica ha costruito quell’unico esemplare. Ci si sta bene come sotto il letto. Guardar fuori è noioso. Chiude forte gli occhi. Niente si muove. Sotto il letto si sente a casa sua. Da sopra gli giunge la voce della moglie. Che gliene importa di lei? Ormai ne ha fin sopra i capelli. Di scacchi non capisce un’acca. Anche l’uomo dice qualcosa. Che sia uno di loro. Si sente subito che ha del cervello. Aspettare, aspettare, perché aspettare? Che gliene importa a lui di aspettare? Quello parla in lingua, dev’essere un esperto, sicuramente un campione in incognito. Quella gente ha sempre paura d’essere riconosciuta. Fanno come i re: vanno a donne in incognito. Dev’essere un campione mondiale, non un campione qualunque! Deve giocare con lui. Non resiste più. Ha la testa piena da scoppiare di buone mosse. Lo metterà a terra come niente. Fischerle sguscia rapidamente, senza rumore, da sotto il letto e si alza sulle sue gambe storte. Gli si sono intorpidite. Barcolla e si appoggia al bordo del letto. La moglie è scomparsa: tanto meglio, così lo lascerà in pace. Nel letto è coricato, solo, un ospite lungo: si direbbe che dorma. Fischerle gli batte sulla spalla e gli chiede ad alta voce: «Lei gioca a scacchi?». L’ospite dorme sul serio. Bisogna scuoterlo. Fischerle fa per afferrarlo alle spalle con tutte e due le mani, e a questo punto s’accorge che nella sinistra stringe qualcosa. Un pacchettino che lo disturba, gettalo via, Fischerle! Col braccio sinistro fa il gesto di scagliarlo via, ma la mano non lascia il pacchetto. Vuoi o non vuoi?!, grida, che significa ciò?! La mano rimane salda. Si stringe intorno al pacchetto come a una regina appena catturata. Lui lo guarda più da vicino, il pacchetto è un fascio di banconote. Perché dovrebbe gettarle via? Gli possono servire, in fondo lui è un povero diavolo. Forse appartengono all’ospite, che continua a dormire. Appartengono a Fischerle, lui è un milionario. Com’è arrivato fin là quell’ospite? Sarà certo un forestiero che vuole giocare con lui. La gente dovrebbe leggere il cartello sul portone. Uno non può stare in pace neppure durante le gite in automobile. Il forestiero ha una faccia che non gli è nuova. Una visita dal Paradiso. Non sarebbe male. Ma questo è il ramo librario! Che cosa cerca qui? Ehi, ramo librario, ramo librario! Una volta lui era al suo servizio. In quel periodo doveva stendere per terra la carta da pacchi e poi… Fischerle s’ingobbisce ancora di più per le risa. Ridendo si sveglia del tutto. E’ nella stanza d’albergo, lui dovrebbe dormire di là, ha rubato i soldi. Meglio filare alla svelta. Deve andare in America. Fa due o tre passi di corsa, in direzione della porta. Come ha potuto essere tanto sciocco da ridere così forte! Forse ha svegliato il ramo librario. Torna pian piano accanto al letto e s’assicura che l’altro dorma. Lo denuncerà. Non sarà tanto pazzo da non denunciarlo. Rifà gli stessi passi in direzione della porta, ma questa volta cammina invece di correre. Come può svignarsela dall’albergo? La stanza è al terzo piano. Deve svegliare il portiere. Domani la polizia l’acciufferà prima che sia riuscito a salire su un treno. E perché l’acciufferà? Perché ha la gobba. La tasta piena d’odio con le sue lunghe dita. Non vuole tornare in gattabuia. Quei maiali gli tolgono i suoi scacchi. Lui deve poterle toccare, le figure, perché il gioco gli dia soddisfazione. E quelli lo costringono a giocare soltanto nella sua testa. Chi potrebbe sopportare una cosa simile? Lui vuol fare fortuna. Potrebbe ammazzare il ramo librario. Un ebreo non fa di queste cose. E poi con che ammazzarlo? Potrebbe farsi dare la sua parola che non lo denuncerà. «O la parola o la vita», gli dirà. Quello è senz’altro un vigliacco e gli darà la parola. Ma ci si può fidare di un simile idiota? Di lui chiunque può fare quel che vuole. Quello non manca alla sua parola perché vuol mancare, ci manca per cretineria. Stupidaggini: Fischerle tutti quei soldi li ha addosso. All’America è meglio dire addio. No, lui se la squaglia. Provino ad acciuffarlo. Se non l’acciuffano diventerà campione mondiale in America. Se l’acciuffano s’impiccherà. Un bel divertimento. Diavolo! Questo non può farlo: è senza collo. Una volta s’e impiccato per una gamba e gli hanno tagliato la corda. Per l’altra gamba non s’impiccherà davvero! A metà strada fra il letto e la porta Fischerle si tormenta alla ricerca di una soluzione. E’ disperato per la sua disdetta, gli viene da urlare. Ma può farlo? Finirebbe per svegliare l’altro. Possono passare delle settimane prima che si presenti un’occasione come questa. Settimane, settimane: lui aspetta già da vent’anni! Ha una gamba in America e l’altra nel cappio: decidersi è presto detto! La gamba americana fa un passo avanti, quella impiccata un passo indietro. E’ un’indecenza. Comincia a colpire la gobba. Il denaro se lo caccia tra le gambe. E’ tutta colpa della gobba. La batterà finché gli farà male: se l’è meritato. Se non la batte deve per forza urlare. E se urla l’America è bell’e andata. Fischerle, inchiodato esattamente a mezza via tra il letto e la porta si flagella la gobba. Alza alternativamente le braccia come tanti manici di frusta da sopra le spalle e percuote la gobba con cinque corregge a due nodi, le sue dita. La gobba se ne sta zitta. Si erge, montagna inesorabile, al di sopra dei bassi contrafforti delle spalle, turgida e dura. Potrebbe gridare: basta! Invece tace. Fischerle va acquistando pratica. Si rende conto di che cosa sia in grado di sopportare la gobba, e si prepara a una tortura di maggior durata. Non conta la sua rabbia, conta che i colpi siano bene assestati. Le sue lunghe braccia gli paiono ancora troppo corte. Comunque le adopera come sono. I colpi s’abbattono con regolarità. Fischerle ansima. Gli ci vuole un accompagnamento musicale. Al Paradiso c’è un pianoforte. Qui la musica se la fa da solo. Gli vien meno il respiro, canta. Per l’eccitazione la voce ha un suono aspro e stridulo. «La finirai una buona volta, la finirai una buona volta!». Fiacca quella bestiaccia a furia di bastonate, la copre di lividi. Lo denunci pure. Prima di ogni colpo pensa: «Giù, carogna!». La carogna non si muove. Fischerle è in un bagno di sudore. Le braccia gli dolgono, le dita sono flosce e senza più energia. Lui insiste, è paziente, giurerebbe che la gobba sta per esalare l’ultimo respiro. Solo che, per falsità d’animo, finge di star bene. Fischerle la conosce. Vuol vederla in faccia. Si sloga il collo per deridere il ceffo della sua nemica. Che? Si nasconde? Vigliacca storpia! Un coltello, un coltello! L’ucciderà a coltellate: dov’è un coltello? A Fischerle viene la bava alla bocca, grosse lagrime gli escono dagli occhi, piange perché non ha un coltello, piange perché la storpia continua a tacere. Le forze abbandonano le sue braccia. Lui s’accascia come un sacco vuoto. E’ finita, s’impiccherà. I soldi cadono sul pavimento. All’improvviso Fischerle balza in piedi e urla: «Scacco matto!». Kien sta sognando da gran tempo libri che cadono mentre lui cerca di arrestarli con il suo corpo. Lui è sottile come uno spillo, alla sua destra e alla sua sinistra rotolano a terra autentici tesori, adesso crolla anche il pavimento e lui si sveglia. Dove sono i libri, geme, dove sono? Fischerle ha dato scacco matto alla gobba, raccoglie il fascio di banconote ai suoi piedi, s’avvicina al letto e dice: «Sa una cosa? Può dirsi davvero fortunato!». «I libri! I libri!», si lamenta Kien. «Tutto in salvo. Ecco il capitale. Io per lei sono un tesoro». «In salvo – ho sognato…». «Lei ha sognato… Ma io ho preso le botte». «Allora c’è stato davvero qualcuno!». Kien balza in piedi. «Dobbiamo fare subito un controllo!». «Non si agiti. Io l’ho sentito subito: non era ancora entrato in camera. Io corro qui e m’infilo sotto il suo letto per vedere cosa fa. Cosa crede che cercasse? I soldi! Allunga la mano, e in quel mentre io l’afferro. Lui picchia e io rispondo. Implora pietà, io non ho pietà. Vuole andare in America, io non ce lo lascio andare. Crede che abbia toccato un libro? Neppure uno. Aveva del cervello, però era anche stupido. In America non ci sarebbe mai arrivato. Lo sa dove sarebbe arrivato? Detto fra noi, dritto in galera. Adesso se n’è andato». «Ma che aspetto aveva?», domanda Kien. Vuol mostrarsi riconoscente verso l’ometto per una vigilanza tanto efficace. Il ladro non gli interessa affatto. «Che posso dirle? Era uno storpio come me, giurerei che gioca bene a scacchi. Un povero diavolo». «Non pensiamoci più», dice Kien e lancia al nano uno sguardo crede lui – affettuoso. Poi tutti e due tornano a letto.

La grande pietà La sede del Monte dei pegni porta, in memoria di una pia e materna sovrana che una volta l’anno riceveva i poveri in casa, l’appropriato nome di Theresianum. Ai mendicanti venivano tolti già a quel tempo gli ultimi averi, e cioè quella tanto invidiata porzione d’amore che Cristo aveva donato loro circa duemila anni fa e la sporcizia dei loro piedi. Lavando questa la sovrana pensava al titolo di buona cristiana che le stava tanto a cuore e che lei riacquistava ogni anno aggiungendolo agli altri suoi innumerevoli. Il Monte dei pegni si erge superbo con i suoi molti piani, le sue mura spesse e imponenti, ben protetto dall’esterno, simile in tutto a un cuore regale. Tiene udienza ad ore fisse. Fa entrare di preferenza mendicanti o gente che intende diventare tale. La gente gli si getta ai piedi e offre, come negli antichi tempi, una decima, che però è tale solo di nome. Infatti per il cuore regale è un milionesimo, per il mendicante è tutto. Il cuore regale accetta ogni cosa, è grande e spazioso, contiene mille stanze diverse ed altrettanti bisogni. Ai mendicanti che tremano da capo a piedi viene graziosamente concesso d’alzarsi, ed essi vengono contraccambiati con un piccolo dono, un’elemosina in contanti. Ciò è sufficiente a farli uscire di sé e dal palazzo. Da quando vive soltanto sotto forma d’istituzione la sovrana ha abbandonato l’usanza della lavanda dei piedi. In compenso s’è affermata un’altra consuetudine. Per le elemosine i mendicanti pagano degli interessi. Gli ultimi saranno i primi, e per questo motivo il tasso d’interesse che devono pagare loro è il più alto di tutti. Un privato che osasse chiedere interessi tanto alti finirebbe in tribunale per usura. Per i mendicanti si fa un’eccezione, dato che nel loro caso non si tratta, appunto, che di somme da mendicanti. E’ innegabile che essi sono contenti di questo tipo d’affari. Fanno ressa agli sportelli e non vedono l’ora di obbligarsi a pagare gli interessi corrispondenti a un quarto della somma ricevuta in elemosina. Chi non ha niente è pronto a dare qualcosa. Tuttavia anche fra loro vi sono individui sordidi e pieni d’avidità che si rifiutano di ripagare elemosina e interessi e preferiscono rinunciare ai loro pegni piuttosto che aprire la borsa. Dicono di non averla, la borsa. Persino a costoro viene permesso d’entrare. Il grande, benevolo cuore posto nel mezzo del tumulto cittadino non ha agio di controllare le affermazioni di quei bugiardi. Rinuncia alle elemosine, rinuncia agli interessi e s’accontenta di pegni che valgono cinque o dieci volte tanto. Là si va accumulando un tesoro in centesimi. I mendicanti portano i loro cenci, il cuore è vestito di velluto e di seta. Una schiera di devoti funzionari lavora al suo servizio con solerzia e abilità fino al raggiungimento dell’agognata pensione. Fedeli vassalli del loro signore, stimano ogni cosa e ogni persona al di sotto del suo valore. E’ loro dovere trasudare disistima. Quanto più esigue sono le elemosine distribuite, tanto più numerosa è la gente che si può rendere felice. Il cuore è grande ma non immenso. Di tanto in tanto svende le sue ricchezze a prezzi irrisori, per far posto a nuovi regali. I centesimi dei mendicanti sono inesauribili quanto il loro amore per l’immortale imperatrice. Là gli affari vanno a gonfie vele anche quando ristagnano in tutto il resto del paese. Solo in casi rarissimi si tratta di refurtiva, come sarebbe invece auspicabile nell’interesse di una più intensa circolazione della merce. Fra le stanze di quella divinità misericordiosa in cui gli oggetti vengono valutati e conservati, quelle riservate ai gioielli, all’oro e all’argento occupano il posto d’onore, non lontano dal portone principale. Là il terreno è solido e si può stare sicuri. I piani si succedono in relazione al valore degli oggetti impegnati. Sopra a tutto, più in alto ancora dei cappotti, delle scarpe e dei francobolli, al sesto ed ultimo piano, vi sono i libri. Sono sistemati in un corpo aggiunto; ad essi si arriva salendo una comune scala, in tutto simile a quelle delle case d’affitto. Là manca ogni traccia della grandiosità principesca del corpo principale. In quel cuore traboccante non v’è molto spazio per il cervello. Ci si arresta pensierosi ai piedi della scala e ci si vergogna: per i bruti che portano là i loro libri spinti da avidità di denaro, per la scala che non è pulita come il caso richiederebbe, per gli impiegati che ricevono in pegno i libri invece di leggerli, per le stanze immediatamente sotto al tetto, espostissime al pericolo d’incendi, per uno Stato che non vieta senz’altro d’impegnare i libri, per un’umanità che, da quando la stampa è divenuta un’operazione tanto facile, ha del tutto dimenticato la santità che spira da ogni lettera stampata. Ci si chiede perché mai gli insignificanti affari riguardanti i gioielli non vengano sbrigati al sesto piano e perché dato che è evidentemente impensabile un radicale rimedio a quella che pure è un’onta per l’intera cultura – non vengano assegnati ai libri i bei locali del pianterreno. In caso d’incendio, i gioielli si potrebbero gettare tranquillamente in istrada. Sono bene imballati, anche troppo bene per dei semplici minerali. Le pietre non si fanno male. I libri, invece, che precipitano sulla strada dal sesto piano, sono, per una persona sensibile, votati alla morte. Si cerchi d’immaginare i tormenti cui è sottoposta la coscienza degli impiegati. L’incendio guadagna terreno; loro resistono ai propri posti, ma sono impotenti. La scala è crollata. Devono scegliere tra il fuoco e la caduta dal sesto piano. Le loro opinioni sono discordi. Uno tiene già un libro fuori dalla finestra e l’altro glielo strappa e lo getta in mezzo alle fiamme. «Meglio bruciato che sfasciato!», afferma lanciando in faccia al collega tutto il suo disprezzo. Quello a sua volta spera che sotto vengano tese delle reti per raccogliere sane e salve le povere creature. «La pressione dell’aria la sopporteranno senz’altro!», sibila al suo nemico. «E dove sarebbe la rete che lei dice, se posso saperlo?». «I pompieri la stenderanno subito». «Per ora sento solo i volumi che si sfracellano di sotto». «Per amor del cielo, stia zitto!». «Insomma gettiamoli nel fuoco, avanti!». «Non posso». Non gli regge il cuore, lui deve ai libri la conquista della sua umanità. E’ come una madre che lancia il suo bambino dalla finestra fidando nella buona sorte: qualcuno lo fermerà prima che tocchi terra, nel fuoco invece la sua fine è sicura. L’adoratore del fuoco ha più carattere, l’altro più cuore. Tutt’e due sono giustificabili, tutt’e due compiono il loro dovere fino all’ultimo, tutt’e due periscono nell’incendio, ma che giova ai libri tutto questo? Kien stava appoggiato alla ringhiera e si vergognava già da un’ora. Si sentiva come un uomo che veda l’inutilità di tutta la propria esistenza. Sapeva bene in qual modo disumano l’umanità sia solita trattare i libri. Aveva già assistito più volte a delle aste, cui doveva rarità invano cercate nel mercato antiquario. Se una cosa poteva arricchire il suo sapere lui ne aveva sempre accettato anche i lati negativi. In lui s’era impressa profondamente più d’una sensazione di pena ricevuta durante le aste. Non avrebbe mai dimenticato la stupenda Bibbia di Lutero per la quale s’erano accapigliati come avvoltoi i mercanti di New York, di Londra e di Parigi, e che alla fine era risultata falsa. La delusione delle canaglie offerenti non l’aveva toccato, però gli era parso inconcepibile che l’inganno giungesse a contaminare quella sfera. Veder toccare i libri prima dell’acquisto, vederli esaminare, aprire, richiudere come se si trattasse di schiavi: tutto ciò gli trapassava il cuore. La messa all’incanto, la gara di offerte e controfferte da parte di persone che in vita loro non erano arrivate a leggere nemmeno un migliaio di libri gli sembrava una rivoltante impudenza. Ogni volta che era costretto a recarsi ad una di quelle aste provava fortissimo il desiderio di portarsi appresso cento mercenari ben armati, di far somministrare mille nerbate ai mercanti, cinquecento agli amatori e di confiscare a scopo di assistenza i libri in questione. Ma cos’erano quelle esperienze a paragone con la sconfinata amarezza di quel Monte di pegni? Le dita di Kien s’intrecciavano alle decorazioni, tanto complicate quanto di cattivo gusto, della ringhiera di ferro. Le scrollavano con la segreta speranza di far cadere l’intero edificio. L’ignominia di quel culto idolatra l’opprimeva. Era pronto a farsi seppellire sotto i sei piani dell’edificio a una sola condizione: che non lo si ricostruisse mai più. Ci si poteva fidare della parola di quei barbari? Abbandonò uno degli scopi che l’avevano condotto fin là: rinunciò a visitare i locali superiori. Finora erano state superate le peggiori previsioni. Il corpo aggiunto dell’edificio era di aspetto ancor più umile di quel che gli avevano riferito. La larghezza della scala, che dalla sua guida era indicata in metri 1,50 circa, in realtà giungeva tutt’al più a 105 centimetri. Le persone disinteressate sbagliano spesso l’ordine delle cifre. La sporcizia era là da venti giorni, non da due soltanto. Il campanello dell’ascensore non funzionava. Le porte a vetri che conducevano nel corpo aggiunto erano male oliate. Il cartello che indicava la via per arrivare al reparto libri era stato dipinto su un miserabile cartone, con pessimo inchiostro di china, da dita inesperte. Un altro cartello appeso sotto a questo recava, stampata con cura, la scritta: «Francobolli al 1o piano». Una gran finestra s’affacciava su un cortiletto. Il colore del soffitto era indefinibile. In pieno giorno s’intuiva quanto dovesse essere scarsa la luce che la lampadina elettrica poteva dare di sera. Kien aveva preso scrupolosamente nota di tutto ciò. Tuttavia, al momento di calcare i gradini della scala, indietreggiò spaventato. Come avrebbe potuto sopportare l’orrendo spettacolo che l’attendeva di sopra? La sua salute era scossa. Temeva di rimanere vittima di un colpo. Sapeva bene che ogni vita deve finire, ma finché sentiva dentro di sé quel peso teneramente amato doveva aversi dei riguardi. Chinò la sua testa pesante sopra la ringhiera e si vergognò. Fischerle stava a guardare con orgoglio. Era ad una certa distanza dal suo amico. Al Monte dei pegni lui era di casa quanto al Paradiso. Era venuto per ritirare un portasigarette d’argento che non aveva mai visto in vita sua. La polizza l’aveva vinta a un furfante che aveva battuto due dozzine di volte a scacchi, e la conservava ancora gelosamente in tasca quand’era entrato al servizio di Kien. Stando alle voci, si doveva trattare di un portasigarette nuovo e massiccio, merce di prima qualità. Al Theresianum Fischerle era già riuscito migliaia di volte a rivendere polizze a gente che vi aveva interesse. Un egual numero di volte era stato a guardare mentre venivano riscattati i tesori suoi o di altre persone. Oltre al suo sogno principale, diventare campione del mondo di scacchi, lui ne accarezzava uno minore: sognava di riscattare una polizza di sua proprietà, di sbattere sul muso all’impiegato l’intero importo compresi gli interessi, di aspettare con tutti gli altri, all’ufficio consegne, la restituzione del suo oggetto e poi di fiutarlo ed esaminarlo da ogni lato come se l’avesse sempre avuto sotto gli occhi e sotto il naso. E’ vero che, dato che non fumava, di un portasigarette non avrebbe saputo che farsene, ma gli pareva che fosse giunto almeno uno dei momenti sognati, e perciò aveva chiesto a Kien un’ora di permesso. Sebbene lui avesse spiegato di che si trattava Kien aveva opposto un netto rifiuto alla sua richiesta. In lui aveva piena fiducia, aveva detto, ma da quando Fischerle s’era preso metà della biblioteca, lui si sarebbe ben guardato dal perderlo di vista un solo istante. S’era già dato il caso di coscienziosissimi studiosi che s’erano trasformati in delinquenti per amore dei libri. Si poteva quindi ben capire quanto grande fosse la tentazione in una persona intelligente e assetata di scienza che per la prima volta si trovava a sostenere il peso dei libri e del loro fascino. Quanto alla ripartizione del carico, era accaduto che al mattino, quando Fischerle aveva cominciato a caricare i libri, Kien non era più riuscito a capire come fino a quel momento avesse potuto sopportare da solo tutto quel peso. L’esattezza del suo servitore l’aveva quasi messo in pericolo. Prima, al mattino, si alzava e se n’andava via carico di tutto. Non s’era mai chiesto come facessero i libri, che la sera prima erano stati da lui accatastati sul pavimento, a ritornare nella sua testa: se la sentiva piena e se n’andava. Con l’intervento di Fischerle tutto ciò era cambiato di colpo. La mattina dopo il tentativo di furto questi s’era avvicinato al letto di Kien come camminando sui trampoli, l’aveva pregato caldamente di fare attenzione nell’alzarsi e aveva chiesto se poteva cominciare a caricare. Com’era sua abitudine non aveva atteso la risposta: aveva raccolto senza fatica la pila più vicina e l’aveva portata all’altezza della testa di Kien, che giaceva ancora nel letto, dicendo: «Questi sono a posto!». Mentre Kien si lavava e si vestiva, l’ometto, che a lavarsi non teneva gran che, aveva continuato a lavorare con impegno. Dopo mezz’ora aveva già finito la prima stanza. Kien aveva tirato di proposito le cose per le lunghe. Si chiedeva come avesse fatto fino ad allora, ma non riusciva a ricordarsene. Strano, cominciava a perdere la memoria. Finché si trattava di simili faccende esteriori la cosa non lo preoccupava. Comunque era consigliabile fare un attento esame per vedere se quella perdita di memoria non s’estendesse anche al campo scientifico. Ciò sarebbe stato terribile. La sua memoria veniva considerata un fenomeno, un dono di Dio, già quando lui frequentava le scuole: famosi psicologi l’avevano esaminato. In un minuto lui aveva imparato a memoria, del pi greco, le prime sessantacinque cifre dopo la virgola. Quegli illustri signori avevano scosso senza eccezione la testa. Forse lui aveva caricato troppo la sua. Bastava guardare: accoglieva un pacco dopo l’altro, una pila dopo l’altra e invece avrebbe dovuto trattarla con un po’ di riguardo. Si ha una testa sola e la si può portare una sola volta a un tale grado di perfezione: ciò che si distrugge in essa è perduto per sempre. Aveva emesso un profondo sospiro e aveva detto: «Lei se la passa bene, caro Fischerle!». «Sa che le dico?», – l’ometto aveva capito subito di che si tratta-va -. «L’altra stanza me la carico io, anche Fischerle ha una testa. O crede di no?». «Sì, ma…». «Che ma e ma… sa che le dico? Sono offeso!». Dopo molto esitare Kien aveva dato il suo consenso. Fischerle però aveva dovuto giurare su quanto aveva di più caro, cioè sull’intelligenza, di non aver mai rubato. Oltre a ciò aveva protestato la propria innocenza ripetendo più volte: «Ma signore, con questa gobba! Che idea ha lei del rubare?». Per un momento Kien aveva pensato di chiedere una cauzione. Dato però che la cauzione più grande non avrebbe distolto lui stesso dalla sua propensione per i libri aveva abbandonato quel progetto. Aveva azzardato ancora: «Lei sarà di certo un buon camminatore!». Fischerle aveva fiutato il tranello e aveva replicato: «A che scopo mentire? Nel tempo che lei fa un passo io ne faccio mezzo. A scuola ero sempre l’ultimo nella corsa». Intanto s’era inventato il nome di una scuola per il caso che Kien gliel’avesse chiesto: in realtà a scuola non c’era mai stato. Ma Kien era alle prese con pensieri più gravi. Stava per dare la più grande prova di fiducia della sua vita. «Le credo!», aveva detto con semplicità. Fischerle aveva esultato: «Lo vede, è quel che dico anch’io», e il patto dei libri era stato concluso. Dato che era il servitore, l’ometto s’era addossato la metà più pesante. Per la strada precedeva Kien di non più di due passetti. La gobba, che c’era in tutti i casi, impediva che si notasse il portamento curvo che lui aveva assunto in quell’occasione particolare. Ma il suo passo strascicato era più eloquente di interi volumi. Kien si sentiva alleggerito. Seguiva a testa alta il suo fiduciario senza volgere lo sguardo né a destra né a sinistra ma tenendolo sempre fisso sulla gobba che dondolava di qua e di là come quella di un cammello, non con la stessa lentezza, ma certo altrettanto ritmicamente. Ogni tanto protendeva le braccia per vedere se la punta delle dita raggiungesse ancora la gobba. Se ciò non avveniva, affrettava il passo. Aveva architettato un piano contro eventuali tentativi di fuga. Avrebbe agguantato la gobba con una stretta di ferro e si sarebbe gettato quant’era lungo sul malfattore. Avrebbe dovuto solo badare che la testa di costui non riportasse danni. Se la prova del braccio dava risultato positivo, vale a dire se Kien non aveva bisogno né di affrettare né di rallentare il passo, allora si impadroniva di lui una sensazione frizzante, piacevole e tumultuosa, quale conoscono solo coloro che possono permettersi il lusso di nutrire fiducia senza timore di restar delusi. S’era concesso due intere giornate di libertà sotto il pretesto di rimettersi dagli strapazzi passati, di prepararsi a quelli futuri, e di battere un’ultima volta la città alla ricerca di librerie sconosciute. I suoi pensieri erano lieti e tranquilli, lui seguiva passo passo la rinascita della sua memoria, trascorreva le prime vacanze che si fosse spontaneamente concesso dai tempi dell’università in compagnia di una creatura devota, di un amico che teneva in grandissimo conto il cervello – come era solito dire lui invece di istruzione – senza peraltro mostrarsi importuno; che portava con sé una biblioteca di notevoli dimensioni, senza aprire abusivamente uno solo dei libri che si struggeva di leggere; deforme e per sua stessa confessione cattivo camminatore, eppure abbastanza robusto e tenace di far buona prova come facchino. Poco mancava che Kien cedesse alla tentazione di credere nella felicità, questa spregevole meta degli analfabeti. Quando essa viene da sola, quando non la si rincorre e non la si tiene stretta a forza e la si tratta con un certo distacco, si può tranquillamente sopportarne la vicinanza per un paio di giorni. Allo spuntare del terzo giorno dell’era della felicità Fischerle aveva chiesto un’ora di permesso. Kien aveva alzato la mano per battersi la fronte, e in circostanze diverse l’avrebbe fatto. Accorto com’era aveva però deciso di tacere e di smascherare, nel caso che esistessero veramente, i piani proditori dell’ometto. La storia del portasigarette d’argento gli era parsa una spudorata menzogna. Dopo aver espresso il suo no dapprima con mille giri di parole e poi sempre più esplicitamente e irosamente, tutt’a un tratto aveva detto: «Bene, l’accompagno!». Quel miserabile storpio si sarebbe visto costretto a confessare il suo sporco piano. Lui l’avrebbe seguito sino allo sportello e avrebbe guardato la presunta polizza e il presunto portasigarette. Dato che essi non esistevano affatto, il manigoldo sarebbe caduto in ginocchio ai suoi piedi in presenza di tutti, e gli avrebbe chiesto perdono piangendo. Fischerle aveva intuito il suo sospetto e ne era rimasto sinceramente offeso. Quello aveva tutta l’aria di prenderlo per un pazzo: proprio dei libri sarebbe andato a rubare, e libri di quel genere poi! Solo perché lui voleva andare in America e si stava guadagnando duramente il denaro per il viaggio ecco che lo trattavano come un uomo senza cervello. Mentre si recavano al Monte dei pegni lui aveva raccontato a Kien come questo fosse all’interno. Gli aveva descritto l’imponente edificio con tutti i suoi locali, dallo scantinato fino alla soffitta. Alla fine aveva represso un lieve sospiro e aveva detto: «Dei libri è meglio non parlare!». Kien era stato assalito da un’ardente curiosità. Aveva fatto domande su domande finché non era riuscito a cavare di bocca all’ometto, che si mostrava assai reticente, l’orribile verità. Aveva creduto alle sue parole sapendo che gli uomini sono capaci di tutto, ne aveva dubitato perché quel giorno era mal disposto verso il nano. Fischerle aveva trovato accenti tali che non era possibile ignorare. Aveva descritto il modo in cui i libri vengono presi in consegna. Un maiale quello che li stima, un cane quello che rilascia la polizza, una femmina quella che li avvolge in certi luridi stracci e vi appiccica sopra un numero. Un vecchio pieno d’acciacchi che cade continuamente per terra li trascina via. Il cuore sembra spezzarsi per tutto il tempo che si segue con gli occhi costui. Si vorrebbe restare davanti al vetro finché non si siano asciugate le lacrime e non sia possibile tornare in strada, dato che ci si vergogna a mostrarsi con gli occhi rossi, ma quel maiale grugnisce: «Non c’è altro», ti butta fuori e riabbassa lo sportello. Vi sono persone particolarmente sensibili che anche a questo punto non riescono ad andarsene. Allora comincia ad abbaiare, il cane, e bisogna correr per forza perché quello morde. «Ma è inumano!», s’era lasciato sfuggire di bocca Kien. Mentre il nano procedeva col suo racconto l’aveva raggiunto e si era messo a camminare accanto a lui. Il cuore non gli batteva più. S’era fermato in mezzo alla strada che stavano attraversando. «E’ proprio come le dico io!», aveva dichiarato Fischerle con voce piagnucolosa. Pensava allo schiaffo che gli aveva affibbiato quel cane quando lui era andato un giorno dopo l’altro per un’intera settimana a elemosinare un vecchio libro di scacchi. Il maiale aveva assistito alla scena scoppiando di grasso e di soddisfazione. A questo punto Fischerle aveva taciuto. Sentiva d’essersi già vendicato abbastanza. Anche Kien non aveva più detto una parola. Una volta giunti alla meta il portasigarette aveva perduto per lui ogni interesse. Era stato a guardare mentre esso veniva riscattato e mentre Fischerle se lo strofinava ripetutamente sulla giacca. «Non lo riconosco più. Le trattano bene, le cose!». «Le cose». «Chissà se è proprio il mio portasigarette». «Portasigarette». «Sa che le dico? Io faccio una denuncia. Sono tutti una manica di ladri. Questa non la mando giù! Cosa sono io, una bestia? Anche un povero diavolo ha dei diritti!». Parlava ormai con tanto fervore che gli astanti, che sino ad allora s’erano limitati ad osservare con stupore la sua gobba, avevano cominciato a prestare attenzione anche alle sue parole. Quella gente, che in un posto simile si sentiva imbrogliata in ogni caso, pur non credendo ad uno scambio dei pegni aveva preso partito per il gobbo che la natura aveva trattato ancor peggio di loro. Fischerle aveva suscitato un brontolio generale, e quasi non credeva alle proprie orecchie: la gente lo stava a sentire! Aveva continuato a parlare, il brontolio era cresciuto d’intensità, lui avrebbe gridato per l’entusiasmo, ma a questo punto un grassone vicino a lui aveva brontolato: «Se è così vada a reclamare, no?». Fischerle s’era strofinato addosso in fretta un altro paio di volte il portasigarette, l’aveva aperto e aveva gracchiato: «Toh! Ma guarda! Sa che le dico? E’ proprio il mio!». Loro gli avevano perdonato la delusione provocata così sventatamente, contenti per lui che il portasigarette fosse quello giusto, in fondo non era che un povero storpio. Un altro al posto suo non l’avrebbe passata liscia. Al momento di uscire dalla sala Kien gli aveva chiesto: «Cos’era quel baccano poco fa?». Fischerle aveva dovuto ricordargli il motivo per cui erano venuti. Gli aveva messo il portasigarette sotto gli occhi finché, alla fine, Kien non l’aveva visto. La confutazione di un sospetto che, dopo le notizie più recenti aveva perduto molto rilievo, aveva avuto su di lui un effetto assai modesto. «Ora mi porti in quel posto», gli aveva ordinato. Si stava vergognando ormai da un’ora. Dove ci porterà questo mondo? E’ evidente che ci troviamo alla vigilia di una catastrofe. La superstizione trema davanti alla cifra tonda dell’anno mille e davanti alle comete. Il saggio, che già gli antichi indiani consideravano santo, manda al diavolo comete e giochetti di cifre e dichiara: la nostra lenta rovina è l’empietà che s’è diffusa fra gli uomini, ecco il veleno che ci distruggerà tutti. Guai a coloro che verranno dopo di noi! Essi sono perduti, erediteranno da noi un milione di martiri e gli strumenti di tortura con cui mandare al martirio il secondo milione. Non v’è governo che possa sopportare il peso di tanti santi. In ogni città s’innalzeranno per l’Inquisizione palazzi a sei piani come questo. Chissà se gli americani non costruiranno Monti di pegni alti fino a toccare il cielo! Là i prigionieri, tenuti per anni in attesa del rogo, languiranno al trentesimo piano. Che atroce ironia, un simile carcere in mezzo alle nuvole! Porre rimedio invece di lamentarsi? Fatti invece di lacrime? Com’è possibile? Come si possono conoscere i luoghi? Il cammino della vita lo si percorre tutto con gli occhi bendati. Che cosa si vede delle tremende miserie che circondano ognuno? Si sarebbe mai scoperta quell’infamia, quell’irreparabile, bestiale, spietata infamia, se un nano incontrato per caso, un nano di nobile sentire non ne avesse parlato esitando per la vergogna, come oppresso da un incubo, piegato sotto il peso delle proprie atroci parole? Bisognerebbe prenderlo ad esempio. Di ciò non ha mai parlato a nessuno. Sedeva silenzioso nella sua spelonca maleodorante, e anche quando giocava a scacchi aveva davanti agli occhi quelle immagini di miseria impresse ormai per sempre nel suo cervello. Soffriva invece di perdersi in chiacchiere. Verrà il giorno della resa dei conti, diceva a se stesso. Aspettava, osservava giorno per giorno gli sconosciuti che entravano nel suo locale, struggendosi dal desiderio d’incontrare un essere umano, un cuore nobile, qualcuno che sapesse vedere, udire, sentire. Finalmente quel qualcuno è venuto, lui l’ha seguito, gli ha offerto i suoi servigi, gli s’è subordinato nella veglia e nel sonno e, giunto il momento, ha parlato. Alle sue parole la strada non è sprofondata, nessuna casa è crollata, il traffico non s’è fermato, ma a quel qualcuno a cui parlava s’è fermato il respiro, e quel qualcuno è Kien. Lui l’ha ascoltato, l’ha capito, prenderà ad esempio quell’eroico nano. Bando alle chiacchiere! Ora si tratta di agire. Senza sollevare lo sguardo lasciò la ringhiera e si piantò di traverso sulla stretta scala. A questo punto qualcuno gli diede una spinta. I suoi pensieri si tradussero spontaneamente in azione. Fissò con severità lo sviato e chiese: «Desidera?». Lo sviato, uno studente mezzo morto di fame, portava sotto il braccio una pesante cartella. Possedeva le opere di Schiller e si recava al Monte dei pegni per la prima volta. Poiché quelle opere erano assai sciupate e lui era immerso nei debiti fin sopra le orecchie, che aveva troppo lunghe, il suo comportamento in quel luogo era improntato a timidezza. Davanti alla scala anche l’ultimo residuo di spavalderia aveva abbandonato la sua testa, che aveva troppo piccola: perché studiare? Suo padre, sua madre, gli zii e le zie erano più propensi agli affari. Aveva preso la rincorsa ed era andato a sbattere contro una severa figura, certo il direttore di quel luogo, che l’aveva fissato con occhi penetranti e gli aveva sbarrato il cammino con voce tagliente. «Desidera?». «Io – io vorrei andare al reparto libri». «Sono io». Lo studente, che provava rispetto per professori e simili perché costoro s’erano sempre divertiti a farsi beffe di lui, e che provava altrettanto rispetto per i libri perché ne possedeva tanto pochi, portò la mano al cappello facendo l’atto di toglierselo. A questo punto si ricordò di non averlo. «Che intendeva fare lassù?», chiese Kien in tono minaccioso. «Oh, solo questo Schiller». «Faccia vedere!». Lo studente non osava presentargli la cartella. Sapeva che nessuno al mondo gli avrebbe accettato quello Schiller, ma per i prossimi giorni esso rappresentava la sua ultima speranza: non aveva nessuna voglia di seppellirla così rapidamente. Kien gli tolse la cartella con un energico strattone. Fischerle si sbracciava a far cenni al suo padrone bisbigliando vari «Pst! Pst!». L’audacia di una rapina consumata su una pubblica scala l’impressionava vivamente. Forse il ramo librario era più scaltro di quanto lui non pensasse. Forse faceva solo finta d’esser matto. Ma là, sulla scala, non era consigliabile. Continuò a gesticolare vivacemente dietro le spalle dello studente, e intanto iniziò i preparativi per potersela dare a gambe al momento opportuno. Kien aprì la cartella ed esaminò con attenzione lo Schiller. «Otto volumi», constatò, «in sé l’edizione non vale nulla, le sue condizioni poi sono scandalose!». Le orecchie dello studente divennero di fuoco. «Cosa pensava di ricavarne? Voglio dire quanti… soldi?». Questa parola ripugnante la pronunziò per ultima, e anche allora con esitazione. Lo studente ricordava ancora, dai tempi d’oro della sua giovinezza trascorsa in gran parte nel negozio paterno, che ogni prezzo va inizialmente tenuto il più alto possibile per aver poi modo di calare. «Nuovo mi è costato 32 scellini». Aveva assunto il giro di frase e il tono di voce di suo padre. Kien prese il portafoglio, ne tolse trenta scellini, vi aggiunse due monete che estrasse dal borsellino, porse l’intera somma allo studente e disse: «Non faccia mai più una cosa simile, amico mio! Non c’è uomo che valga tanto quanto i libri che possiede, creda a me!». Gli restituì la cartella piena e gli strinse cordialmente la mano. Lo studente aveva fretta, maledisse le formalità con cui veniva trattenuto. Aveva già raggiunto la porta a vetri – Fischerle, al culmine dello sbalordimento, s’era spostato per lasciarlo passare allorché Kien gli gridò dietro: «Perché proprio Schiller? Legga l’originale! Legga Immanuel Kant!». «Tu sì che sei originale!», sogghignò tra sé lo studente, e corse via più in fretta che poté. L’agitazione di Fischerle era senza limiti: stava quasi per piangere. Afferrò Kien per i bottoni dei pantaloni – la giacca era troppo in alto per lui – e garrì: «Lo sa cos’è questa? Una pazzia, ecco cos’è! I soldi uno li ha o non li ha. Se li ha, non li dà via, se non li ha non li dà via lo stesso. E’ stato un delitto, il suo! Si vergogni, grande com’è!». Kien non prestò ascolto alle sue parole. Era molto soddisfatto della sua azione. Fischerle continuò a tirarlo per i pantaloni finché il delinquente non s’accorse di lui. Avvertì il muto rimprovero, come disse a se stesso, presente nell’atteggiamento del nano e per rabbonirlo gli parlò delle aberrazioni mentali di cui è tanto ricca la vita degli abitanti dei paesi esotici. I ricchi cinesi, disse, che si preoccupano della propria salute anche nell’aldilà, sono soliti donare grosse somme per il mantenimento, presso qualche convento buddista, di coccodrilli, porci, tartarughe e altri animali. Nel convento vengono costruiti laghetti e recinti speciali per le bestie, i monaci non hanno nient’altro da fare che nutrirle e curarle, guai a loro se muore uno dei coccodrilli per cui è stata fatta la donazione. Una dolce morte naturale attende il più grasso dei maiali, e la ricompensa per la buona azione il nobile donatore. Ai monaci rimane quanto basta per la sussistenza di tutti loro. Chi visiti un santuario in Giappone trova dei bambini accovacciati ai margini della strada con degli uccelli chiusi in piccole gabbie disposte una accanto all’altra. Gli uccelli, addestrati a ciò, sbattono le ali ed emettono alte strida. I pellegrini buddisti che percorrono quella via pensano alla propria beatitudine e si muovono a compassione degli animali. In cambio di una piccola somma a titolo di riscatto i bambini aprono la porta della gabbia e lasciano liberi gli uccelli. Riscattare gli animali è un’usanza assai diffusa in quel paese. Che importa ai pellegrini che proseguono il cammino se poi i padroni attireranno nuovamente in gabbia gli uccelli addomesticati? Il medesimo uccello può servire dieci, cento, mille volte, durante la sua esistenza di prigioniero, a suscitare la compassione dei pellegrini. Questi ultimi, ad eccezione di alcune persone di provenienza campagnola e di mentalità particolarmente ottusa, sanno bene cosa ne sarà degli uccelli non appena loro avranno voltato le spalle. Ma il vero destino degli animali è loro del tutto indifferente. «E’ facile capire il perché», Kien trasse la morale dal suo racconto. «Non si tratta che di animali. A un uomo essi non possono che essere indifferenti. Il loro modo di comportarsi è di una stupidità tale che basta da solo a condannarli. Perché non volano via!? Perché non cercano almeno di allontanarsi saltellando se sono state loro accorciate le ali? Perché si lasciano attirare un’altra volta in gabbia? La loro bestiale stupidità ricada pure sul loro capo! In sé l’usanza del riscatto ha, come ogni superstizione, un significato più profondo. L’effetto di una simile azione sull’uomo che la compie dipende, naturalmente, dall’oggetto del riscatto. Metta dei libri, dei libri veri e intelligenti al posto di quegli animali sciocchi e ridicoli e l’azione che lei compie avrà un enorme valore morale. Lei avrà riportato sulla retta via il povero sviato che cercava rifugio nell’inferno. Stia pur certo che quello Schiller non verrà trascinato al macello una seconda volta. Riportando sulla retta via la persona che, secondo il diritto odierno – o piuttosto secondo l’ingiustizia odierna – può disporre liberamente dei libri come se fossero animali, schiavi o operai, lei renderà nello stesso tempo più sopportabile la sorte di quei libri. Giunto a casa, un uomo che sia stato richiamato in tal modo al suo dovere si getterà ai piedi di quelli che fino a quel momento ha considerato suoi servi mentre dal punto di vista dello spirito dovrebbe essere lui il loro servitore, e prometterà loro solennemente di ravvedersi. Se poi uno è così indurito da non potersi ravvedere, il riscatto sarà sempre servito a strappare all’inferno le sue vittime. Lo sa che cosa significa l’incendio di una biblioteca? Buon Dio: l’incendio di una biblioteca al sesto piano! Provi ad immaginarselo! Decine di migliaia di volumi, vale a dire milioni di pagine, miliardi di lettere, e ognuna di esse brucia, ognuna implora, grida, urla aiuto al punto da rompere i timpani, da spezzare il cuore di chi ascolta… ma lasciamo perdere. In questo momento sento una gioia che non sentivo da anni. Proseguiremo sulla via testé intrapresa. Il nostro obolo per alleviare la miseria generale è esiguo, ma noi lo daremo ugualmente. Se ognuno dice a se stesso: da solo sono troppo debole, non accadrà mai nulla e l’infamia continuerà a dilagare. In lei, Fischerle, ho una fiducia illimitata. Poco fa lei era offeso perché io non le avevo comunicato prima il mio progetto. Ma esso ha preso forma solo nel momento in cui le opere di Schiller mi hanno urtato in silenzio. Non ho avuto tempo d’informarla. Ora però le comunico le due parole d’ordine che ci guideranno in quest’operazione: agire invece di lamentarsi! Fatti invece di lacrime! Lei quanto denaro ha?». Fischerle, che all’inizio aveva interrotto il racconto di Kien con esclamazioni stizzite come: «Che c’entro io coi giapponesi?», «E perché non dei pesci sole?», e aveva ostinatamente insultato i pii pellegrini chiamandoli «vagabondi», ma che cionostante non aveva perduto una sola parola, cominciò a calmarsi quando sentì parlare di oboli e di progetti per l’avvenire. Stava giusto riflettendo sul modo in cui salvare il denaro che avrebbe dovuto servirgli per andare in America, quel denaro che gli apparteneva, che aveva già avuto fra le mani e che aveva restituito solo provvisoriamente, per precauzione. A questo punto la domanda di Kien: «Quanto denaro ha?», lo fece cadere dalle nuvole. Strinse i denti e tacque, beninteso soltanto in considerazione del proprio utile, altrimenti gli avrebbe detto chiaro e tondo ciò che pensava di lui. Il senso di quella commedia cominciava a divenirgli chiaro. Quel nobile signore si stava pentendo della ricompensa che Fischerle s’era onestamente guadagnato restituendogli il portafoglio. Era troppo vigliacco per riprendersi il denaro di notte. Del resto non l’avrebbe mai trovato: quando dormiva, Fischerle lo teneva, ben arrotolato, tra le gambe. Che faceva allora quel gentiluomo, sedicente studioso e bibliotecario, in realtà nemmeno uomo d’affari del ramo librario ma semplice furfante, libero di circolare soltanto perché aveva la fortuna di non avere una gobba: che faceva? Quel giorno, appena uscito dal Paradiso, era stato contento di riavere il denaro rubato Dio sa dove. Temeva che Fischerle andasse a chiamare gli altri e per questo aveva subito sborsato la ricompensa. Poi, per riprendersi anche quel dieci per cento, aveva detto con aria da gran signore: «Entri al mio servizio!». Ma che faceva poi il filibustiere? Dava ad intendere d’essere matto. Bisogna riconoscerlo: è uno spasso vedere quanto lo sa fare bene. Fischerle c’è cascato. Ha simulato per un’ora intera sentimenti mai avuti, finché a un certo punto arriva un tale con dei libri. Per quello sacrifica volentieri trentadue scellini, dal momento che s’aspetta trenta volte tanto da Fischerle. Avere un simile giro d’affari e non concedere a un povero borsaiolo i pochi soldi della sua ricompensa! Quanto sono meschini questi gran signori! Fischerle non ha parole. Non se lo sarebbe mai aspettato. Da quel pazzo meno che mai. Nessuno vuole obbligarlo ad essere pazzo sul serio, ma perché dev’essere così spilorcio? Fischerle gliela farà pagare. Che belle storie sa raccontare! Che abbia del cervello è fuor di dubbio. Si vede subito la differenza tra un povero borsaiolo e un filibustiere di vaglia. All’albergo tutti gli credono. Per poco non gli credeva anche Fischerle. Mentre Fischerle ribolliva d’odio e nello stesso tempo gli strisciava ai piedi per l’ammirazione, Kien lo prese confidenzialmente sottobraccio e disse: «Non è più in collera con me, vero? Quanto denaro ha? Dobbiamo far causa comune!». «Canaglia!», pensò fra sé Fischerle. «Tu giochi bene le tue carte, ma io giocherò ancora meglio le mie!». A Kien disse: «Avrò un trenta scellini». Il resto era ben nascosto.

«E’ poco, ma è meglio che niente». Kien non ricordava più d’aver regalato qualche giorno prima una grossa somma all’ometto. Accettò subito l’obolo di Fischerle, ringraziò profondamente commosso per tanta abnegazione e fu quasi sul punto di fargli balenare la beautitudine eterna. Da quel giorno i due si condussero una lotta all’ultimo sangue della quale l’uno dei due non aveva il minimo sospetto. L’altro, che come attore si sentiva più debole, s’incaricò della regia, sperando di compensare in tal modo il proprio svantaggio. Ogni mattina Kien compariva nel cortile antistante l’atrio. Già prima dell’apertura degli sportelli andava su e giù accanto al portone principale del Theresianum e osservava con cura i passanti. Se uno si fermava lui gli si faceva vicino e chiedeva: «Che cosa cerca lei qui?». Le risposte più sgarbate e più volgari non riuscivano a renderlo perplesso; un buon risultato gli dava ragione. Chi passava per quella via prima delle nove di mattina dava un’occhiata, in genere per semplice curiosità, ai manifesti sui quali era scritto quando e dove avrebbe avuto luogo la prossima asta e che cosa sarebbe stato offerto nel corso di essa. I passanti paurosi lo prendevano per un investigatore privato che facesse la guardia ai tesori del Theresianum e cercavano d’evitare ogni contrasto con lui. Le persone di carattere imperturbabile si rendevano conto di ciò che lui aveva chiesto solo due strade più avanti. I litigiosi gli rispondevano a male parole e contro le loro abitudini sostavano a lungo, immobili, davanti ai manifesti. Lui li lasciava fare. Si imprimeva i loro visi nella mente: pensava che si trattasse di persone particolarmente consapevoli della loro colpa che esploravano la zona prima di tornare, magari appena un’ora più tardi con il capro espiatorio sotto il braccio. Il fatto che poi, in realtà, non tornassero mai lo attribuiva ai suoi sguardi inesorabili. All’ora giusta si recava nel piccolo vestibolo del corpo aggiunto. Chi apriva la porta a vetri scorgeva per prima cosa accanto alla finestra quella figura risecchita e dritta come un fuso e per arrivare alla scala doveva passare davanti ad essa. Quando rivolgeva la parola a qualcuno Kien non mutava minimamente espressione. Si limitava a muovere le labbra come due coltelli affilati. Ciò cui mirava era anzitutto il riscatto di quei poveri libri, in secondo luogo il ravvedimento di quelle bestie sotto spoglie umane. Di libri era esperto, di uomini doveva ammetterlo – meno: decise quindi di divenire un buon psicologo. Per meglio orientarsi ripartì in tre gruppi le persone che comparivano davanti alla porta a vetri. Per i primi la borsa rigonfia rappresentava un peso, per i secondi un mezzo, per i terzi una gioia. I primi tenevano stretti i libri con tutte e due le braccia, senza grazia, senz’amore, allo stesso modo, appunto, in cui si porta un pacco pesante. Se ne servivano per spingere la porta. Non avrebbero esitato nemmeno a strisciare i libri lungo la ringhiera delle scale, qualora vi fossero arrivati. Dato che volevano liberarsi in fretta del loro peso non si preoccupavano di nascondere i libri, e li tenevano sempre sul petto e sullo stomaco. Accettavano di buon grado le offerte, s’accontentavano di qualsiasi somma, non contrattavano e se ne riandavano esattamente com’erano venuti con in più il peso d’un pensiero, dato che portavano con sé il denaro e qualche dubbio sulla liceità della sua accettazione. Per questo gruppo Kien non provava molta simpatia, quella gente apprendeva con eccessiva lentezza, per redimerli sarebbero state necessarie alcune ore a testa. Un vero e proprio odio destava invece in lui il secondo gruppo. Coloro che ne facevano parte nascondevano i libri dietro la schiena. Al più ne mostravano un piccolo lembo, tra il braccio e le costole, allo scopo di eccitare la voglia del compratore. Accoglievano con diffidenza le offerte più allettanti. Si rifiutavano di aprire le cartelle o il pacco. Contrattavano fino all’ultimo e alla fine avevano sempre l’aria d’averci rimesso. Tra loro ve n’erano alcuni che intascavano il denaro e poi cercavano ugualmente di recarsi di sopra, all’inferno. Ma allora Kien sapeva toccare certi tasti che stupivano persino lui. Sbarrava loro la strada e, trattandoli come si meritavano, esigeva l’immediata restituzione del denaro. Quando sentivano ciò loro se la battevano. Preferivano il poco denaro che avevano già in tasca al molto che avrebbero ricevuto nella soffitta. Kien era convinto che lassù venissero pagate somme enormi. Quanto più denaro sborsava, quanto meno gliene restava, tanto più l’opprimeva il pensiero della sleale concorrenza dei demoni di lassù. Del terzo gruppo non era venuto ancora nessuno. Tuttavia lui era certo della sua esistenza. Aspettava con paziente struggimento un esemplare di esso, i cui tratti peculiari egli conosceva a menadito. Un giorno verrà finalmente l’uomo che porta i suoi libri con gioia, l’uomo per il quale la via dell’inferno è lastricata di tormenti, l’uomo che s’accascerebbe al suolo se gli amici che porta con sé non gli infondessero incessantemente nuovo vigore. Il suo passo è quello di un sonnambulo. La sua sagoma appare al di là della porta a vetri, lui esita, come spingerla senza fare il minimo male ai suoi amici? Alla fine vi riesce. L’amore aguzza l’ingegno. Alla vista di Kien che è la sua coscienza incarnata, diventa di bragia. Con un supremo sforzo di volontà si scuote e avanza di qualche passo, a testa china. Prima ancora che Kien gli abbia rivolto la parola si arresta accanto a lui obbedendo a un comando interiore. Già presagisce ciò che la coscienza avrà da dirgli. Cade fra loro l’orribile parola «denaro». Lui sbigottisce come se fosse stato condannato alla ghigliottina, scoppia in singhiozzi. «Questo no! Questo no!». Denaro non ne accetta. Piuttosto s’ucciderà. Vorrebbe fuggire ma le forze gli vengono meno, inoltre deve evitare ogni movimento troppo brusco per non recar danno ai suoi amici. La coscienza l’accoglie fra le sue braccia e gli parla con benevolenza. Un peccatore pentito, dice, vale più di cento giusti. Forse gli lascerà in eredità la sua biblioteca. Quando arriverà quell’uomo Kien potrà abbandonare il suo posto per un’ora; quell’unico che non accetta nulla compensa i mille che pretendono di più. Fintanto che aspetta, tuttavia, darà ai mille ciò che ha. Può darsi che uno del primo gruppo, una volta a casa, rientri in sé. Per quelli del secondo gruppo non nutre nessuna speranza. Le vittime le salva tutte. Per questo, non per un suo piacere personale, lui sta in quel luogo. Al di sopra della testa di Kien, alla sua destra, era appeso un cartello che vietava nel modo più rigoroso di fermarsi sulle scale e nei corridoi come pure vicino ai radiatori. Già il primo giorno Fischerle richiamò su di esso l’attenzione del suo mortale nemico. «Penseranno che lei è senza carbone», disse. «Qui in giro ci sta solo la gente senza carbone, e anche a quelli non è permesso restare. Li cacciano via. Il riscaldamento è per i gatti. Perché ai clienti non si raffreddi il cervello mentre salgono le scale. Se uno ha freddo deve andarsene subito: qui potrebbe venirgli caldo. Se uno non ha freddo può rimanere. Nel caso suo crederanno che abbia freddo!». «Il radiatore però sta solo al mezzanino, quindici scalini più in su», replicò Kien. «Gratis non è permesso riscaldarsi, non importa se uno si riscalda pochissimo. Sa che le dico? Anch’io una volta mi sono fermato lì dove sta lei, eppure mi hanno cacciato via». Questa non era una bugia. Kien si disse che i suoi concorrenti avevano tutto l’interesse a farlo cacciar via e accolse con gratitudine l’offerta dell’ometto di fargli da palo. La sua ansia per la mezza biblioteca che gli aveva affidato s’era attenuata. Incombevano pericoli più gravi. Ora che s’erano associati per un’opera comune con comuni parole d’ordine Kien escludeva senz’altro la possibilità di un inganno da parte di Fischerle. Quando il giorno dopo si recarono al loro posto di lavoro Fischerle disse: «Sa che le dico? Vada avanti lei! Noi non ci conosciamo. Io mi fermo qui fuori da qualche parte. Non venga a disturbarmi. Non le dico nemmeno dove sono. Se quelli capiscono che noi siamo insieme è tutto lavoro sprecato. In caso di necessità le passerò davanti strizzando l’occhio. Prima scappa lei, poi scappo io. Non dobbiamo scappare insieme. Ci diamo appuntamento dietro la chiesa gialla. Lei aspetterà là finché non arriverò anch’io. Capito?». Sarebbe rimasto sinceramente sorpreso se la sua proposta fosse stata respinta. Dato il suo interesse per Kien, lui non pensava certo di liberarsene. Chi poteva pensare che prendesse il volo con una semplice ricompensa, una mancia, quando lui puntava su tutto il capitale? L’imbroglione, il ramo librario, quel cane astuto, intuì la parte onesta delle intenzioni di Fischerle e ubbidì.

Quattro e il loro futuro Kien era appena scomparso all’interno dell’edificio che Fischerle tornò lentamente sui suoi passi fino all’angolo più vicino, svoltò in una traversa e si mise a correre a perdifiato. Giunto davanti al «Paradiso ideale», concesse prima di tutto un po’ di riposo al suo corpo sudato, sbuffante e tremante, dopo di che si decise ad entrare. A quell’ora, di solito, la maggior parte degli abitanti del Paradiso dormiva ancora. Lui aveva contato su questo fatto: di gente pericolosa e violenta in quel momento non sapeva che farsene. Gli unici presenti erano: il lungo cameriere, un venditore a domicilio che dall’insonnia da cui era afflitto ricavava almeno il vantaggio di poter stare in giro ventiquattr’ore su ventiquattro; un invalido cieco che davanti allo scadente caffè che prendeva ogni mattina prima d’iniziare la sua giornata di lavoro faceva ancora uso dei propri occhi; una vecchia giornalaia che veniva chiamata «la Fischerina», perché assomigliava a Fischerle e, come tutti sapevano, era segretamente e infelicemente innamorata di lui; infine un fognaiolo che aveva l’abitudine di rimettersi dal servizio notturno e dal puzzo delle fognature immergendosi nel puzzo del Paradiso. Veniva considerato la persona più seria fra quelle che bazzicavano là perché alla moglie, con cui, in un felicissimo matrimonio, aveva generato tre figli, versava tre quarti della paga settimanale. Il quarto restante finiva nel corso di una sola notte o di un sol giorno, nella cassa della proprietaria del Paradiso. La Fischerina tese un giornale all’uomo amato che stava entrando e disse: «Guarda chi si vede! Dove sei stato tutto questo tempo?». Quando paventava delle noie con la polizia Fischerle era solito sparire alcuni giorni. Tutti dicevano: «E’ andato in America», ridevano ogni volta della battuta – come poteva un simile omiciattolo arrivare nell’immenso paese dei grattacieli? – e lo dimenticavano finché non si rifaceva vivo. L’amore di sua moglie, la pensionata, non giungeva al punto di farla stare in pensiero per lui: l’amava soltanto quando l’aveva vicino, e sapeva che lui era abituato agli interrogatori e alla guardina. Quando cadeva la battuta dell’America lei pensava tra sé che sarebbe stato pur bello, una volta, non spartire i suoi soldi con nessuno. Da molto tempo avrebbe voluto comprarsi un quadro della Madonna per il suo stanzino. Una pensionata deve averlo, un quadro della Madonna. Non appena lui si fidava ad uscire dai suoi nascondigli – dove per lo più si rifugiava senza avere alcuna colpa, soltanto perché altrimenti la polizia l’avrebbe trattenuto in ogni caso durante le indagini e gli avrebbe tolto la scacchiera – si recava innanzitutto al caffè, e dopo pochi minuti lei vedeva nuovamente lui, il suo caro bambino. La Fischerina era l’unica che chiedesse ogni giorno sue notizie e facesse tutte le possibili congetture sulla sua assenza. Lui poteva leggere i giornali della Fischerina senza pagare. Prima di cominciare il suo giro lei correva zoppicando al Paradiso, gli porgeva la copia che stava in cima al suo pacco fresco di stampa e aspettava pazientemente, il pesante carico sotto il braccio, che lui finisse di leggere. Lui poteva aprire il giornale, gualcirlo e ripiegarlo malamente, gli altri potevano solo guardare al di sopra delle sue spalle. Quand’era di cattivo umore, lui la tratteneva a lungo intenzionalmente, e lei ne subiva un grave danno. Se la canzonavano per questa sua incomprensibile stupidità lei si stringeva nelle spalle, dondolava la gobba – che poteva competere con quella di Fischerle sia in grandezza che in espressività – e diceva: «E’ l’unico bene che ho al mondo!». Forse amava Fischerle solo per poter ripetere questa frase lamentevole. La pronunciava strillando e pareva quasi che decantasse due giornali, L’unico bene e Al mondo. Oggi Fischerle non aveva occhi per il suo giornale. Lei lo giustificò, il giornale non era più fresco, lei però gliel’aveva offerto con le migliori intenzioni, pensando che lui non leggesse nulla da moltissimo tempo, chissà da dove veniva. Fischerle la prese per le spalle – era bassa come lui – la scrollò e garrì: «Tutti qua, gente, ho qualcosa per voi!». All’infuori del cameriere tisico che non si lasciava dare ordini da un ebreo, che non provava mai curiosità e che rimase tranquillamente presso il bancone, tutti i presenti, vale a dire tre persone, gli s’avvicinarono quasi soffocandolo per l’interesse. «Con me ognuno può guadagnare venti scellini al giorno. Prevedo tre giorni di lavoro». «Otto chili di saponette», calcolò in fretta il venditore a domicilio sofferente d’insonnia. Il cieco guardò Fischerle negli occhi con aria dubbiosa. «Questo sì che sarebbe un bel colpo», borbottò il fognaiolo. La Fischerina sentì soltanto le parole «con me» e non badò alla somma. «Dovete sapere che ho fondato una ditta. Sottoscrivete che v’impegnate a versare tutto al principale, che poi sarei io, e siete assunti». Gli altri avrebbero preferito sapere prima di che si trattasse, ma Fischerle si guardò bene dal rivelare i suoi segreti d’affari. Si tratta di un ramo, più di tanto lui non dice, dichiarò categoricamente. In compenso il primo giorno darà in acconto cinque scellini a testa. Era una proposta da prendere in considerazione. «Il sottoscritto s’impegna a versare pronta cassa ogni centesimo incassato per conto della ditta Siegfried Fischer. Il sottoscritto si assume la piena responsabilità di eventuali danni». In men che non si dica Fischerle scrisse queste frasi su quattro fogli di un blocco d’appunti presentatogli dal venditore a domicilio. Costui, come unico vero uomo d’affari fra tutti i presenti, sperava d’ottenere una compartecipazione e gli incarichi migliori, e cercava d’attirare su di sé il favore del principale. Il fognaiolo, che era padre di famiglia e il più stupido di tutto il gruppo, firmò per primo. Fischerle andò in collera perché la firma del fognaiolo era grande come la sua, e si piccava che la sua fosse la più grande di tutte. «Che gradasso!», garrì, dopo di che il venditore s’accontentò di un angolino remoto e di una firma piccolissima. «Non si riesce neanche a leggerla!», dichiarò Fischerle e costrinse l’uomo, che si vedeva già nei panni di rappresentante generale, a firmare con caratteri meno modesti. Il «cieco», si rifiutò di muovere un dito prima di ricevere quattrini. Era costretto a guardare senza batter ciglio i bottoni che la gente gli gettava nel cappello: per questo quand’era fuori servizio, non si fidava di nessuno. «Che roba!», fece Fischerle disgustato, «come se io avessi mai detto bugie a qualcuno!». Tolse da sotto l’ascella alcune banconote strettamente arrotolate, cacciò un biglietto da cinque scellini in mano a ciascuno di loro e si fece dare subito una ricevuta dell’«acconto di stipendio». «Così va già meglio», disse il «cieco». «Altro è promettere, altro è mantenere. Per un uomo simile io vado a chiedere anche l’elemosina, se è necessario!». Per un uomo simile il venditore sarebbe passato attraverso il fuoco, il fognaiolo attraverso liquame e letame. Solo la Fischerina non abbandonò la nota tenera. «La mia firma non gli serve», asserì. «Io non lo deruberò mai. E’ l’unico bene che ho al mondo». Fischerle riteneva la sua sottomissione tanto ovvia che, dopo il primo saluto, le aveva voltato le spalle. La gobba di lui le diede coraggio, da quel lato Fischerle le ispirava sì amore ma non rispetto. La pensionata non era nel locale e la Fischerina si sentiva quasi la moglie del nuovo principale. Costui non appena ebbe udito tanta insolenza, si girò e le mise in mano la penna ordinando: «Scrivi, tu non hai niente da dire!». La donna obbedì allo sguardo dei suoi occhi neri; lei li aveva soltanto grigi, e accusò ricevuta persino dei cinque scellini che non aveva ancora intascato. «Ecco, adesso siamo a posto!». Fischerle si mise accuratamente in tasca i quattro foglietti e sospirò: «E cosa ci ricavi dagli affari? Nient’altro che pensieri. Vi giuro che preferirei essere ancora il pover’uomo che ero prima. Beati voialtri!». Sapeva che ai loro dipendenti i signori, abbiano o non abbiano dei pensieri, parlano sempre così; lui comunque li aveva davvero. «Andiamo!», disse poi. Fece con ostentazione, come un piccolo benefattore, un cenno da sotto in su al cameriere e lasciò il caffè assieme al suo nuovo personale. Per la strada spiegò a ognuno di loro le mansioni che dovevano svolgere. Parlò separatamente a ciascuno dei suoi dipendenti ordinando agli altri tre di tener dietro a una certa distanza, come se lui non avesse niente a che fare con loro. Riteneva necessario trattare costoro in modo diverso a seconda del loro grado d’intelligenza. Dato che aveva fretta e riteneva che il fognaiolo fosse il più fidato di tutti gli diede la precedenza nei confronti degli altri. «Lei è un buon padre di famiglia», gli disse, «per questo ho subito pensato a lei. Un uomo che consegna alla moglie il settantacinque per cento della sua paga vale tant’oro quanto pesa. Quindi stia attento a non rovinarsi con le sue stesse mani. Sarebbe un peccato per quei cari bambini». Gli avrebbe dato un pacco, il pacco si chiamava «arte».

- «ripeta: arte!». – «Adesso perché do tanti soldi alla moglie, lei crede che non so cos’è un’arte!». Al Paradiso il fognaiolo veniva costantemente beffato per i suoi rapporti familiari, che suscitavano l’invidia generale. A furia di colpi contro il suo rozzo orgoglio Fischerle riuscì a cavare da lui quel po’ d’intelligenza che aveva. Gli spiegò tre volte la strada per filo e per segno. Il fognaiolo non era mai stato al Theresianum: quand’era necessario ci andava la moglie per lui. Il socio d’affari sta al di là della porta a vetri, vicino alla finestra. E’ lungo e magro. Gli si passa davanti lentamente senza dire una parola, neanche una, e si aspetta finché non attacca discorso lui. A questo punto si dice forte: «Arte, signore! Non accetto meno di duecento scellini. Questa è vera arte!». Quando furono davanti a una libreria Fischerle ordinò al fognaiolo di aspettarlo. Dentro acquistò la sua merce. Dieci romanzi dozzinali da due scellini l’uno vennero incartati in un pacco di ottimo effetto. Ripeté tre volte le istruzioni già date in precedenza; era lecito supporre che anche uno stupido di quella fatta avesse capito. Nel caso che il socio d’affari volesse scartare i libri, lui doveva stringerseli al petto gridando: «No! No!». Doveva poi recarsi con pacco e denaro in un posto convenuto, dietro la chiesa. Là avrebbe ricevuto la sua paga. A condizione che non raccontasse nulla a nessuno del suo lavoro, neanche agli altri dipendenti, l’indomani alle nove in punto avrebbe potuto trovarsi di nuovo dietro la chiesa. Lui, Fischerle, aveva un debole per gli onesti fognaioli, non tutti possono provenire da un ramo d’affari. Con tali parole il buon padre di famiglia venne congedato. Mentre il fognaiolo aspettava davanti alla libreria, gli altri tre, in conformità agli ordini del principale, avevano continuato a camminare senza curarsi minimamente dei confidenziali richiami del loro collega, al quale le nuove disposizioni avevano fatto dimenticare le antiche. Fischerle aveva contato anche su questo, e il fognaiolo svoltò in un vicolo laterale prima che gli altri potessero vedere il pacco, che lui portava come il preziosissimo poppante di ricchissimi genitori. Fischerle fece un fischio, raggiunse i tre e trasse in disparte la Fischerina. Il venditore comprese che lo si teneva in serbo per incarichi più importanti e disse al «cieco»: «Vedrà, io sarò l’ultimo!». Con la Fischerina l’ometto andò per le spicce. «Io sono l’unico bene che hai al mondo», disse, ricordandole la sua frase d’amore preferita. «Be’, vedi, a dirlo ci vuol poco. A me piacciono le prove. Se intaschi di nascosto anche un solo centesimo fra noi tutto è finito e io non toccherò più un giornale, te lo giuro, e tu puoi aspettarne un altro che sia fatto proprio come te!». Le successive istruzioni vennero impartite senza fatica. La Fischerina pendeva dalle labbra di Fischerle; per vederlo parlare si fece ancora più piccola di quanto non fosse; baciare, lui non poteva a causa del naso: lei era l’unica che conoscesse la sua bocca. Al Monte di pietà lei era di casa. Ora doveva andare avanti e aspettare il principale dietro la chiesa. Là avrebbe ricevuto un pacco per il quale doveva chiedere duecentocinquanta scellini e là sarebbe tornata col denaro e col pacco. «Corri!», le gridò infine. Non la sopportava per quel suo amore insistente. All’angolo successivo si fermò e si fece raggiungere dal «cieco», e dal venditore. Quest’ultimo lasciò la precedenza al cieco e fece un rapido cenno d’intesa al principale. «Sono indignato!» sostenne Fischerle e lanciò un’occhiata piena di considerazione al «cieco», che nonostante il suo cencioso abito da lavoro si voltava a guardare tutte le donne squadrandole con diffidenza da capo a piedi. Avrebbe pagato chissà quanto per sapere che effetto faceva loro il nuovo taglio dei suoi baffi. Le ragazze giovani le odiava perché si scandalizzavano della sua professione. «Un uomo come lei», continuò Fischerle, «costretto a farsi imbrogliare in questa maniera!». Il «cieco», si fece attento. «Uno le mette un bottone nel cappello – me l’ha raccontato lei stesso – vede che è un bottone e… dice grazie. Se poi non dice grazie, addio cecità e addio clientela. Ecco in che modo è costretto a farsi imbrogliare un uomo come lei! Verrebbe da spararsi! Gli imbrogli sono una porcheria. Non ho forse ragione?». Al cieco, un pezzo d’uomo che aveva fatto la guerra per tre anni in prima linea, vennero le lacrime agli occhi. Quell’inganno cui doveva sottostare ogni giorno e di cui pure s’accorgeva immediatamente era il suo più grande dolore. Solo perché lui è costretto a guadagnarsi il pane tanto duramente il primo monello che passa si permette di beffarlo come un somaro! Pensava spesso, e sul serio, di uccidersi. Se ogni tanto non avesse avuto fortuna con le donne l’avrebbe già fatto da molto tempo. Al Paradiso, ogni volta che trovava un interlocutore, raccontava la storia dei bottoni concludendo con la minaccia di ammazzare uno di quei mascalzoni e poi se stesso. Dato che ripeteva ormai da anni quella storia, nessuno lo prendeva più sul serio, e la sua diffidenza cresceva più che mai. «Proprio così!», gridò, agitando il braccio attorno alla gobba di Fischerle, «un bambino di tre anni sa se ha in mano un soldo o un bottone! E io non dovrei saperlo? Io non dovrei saperlo? Non sono mica cieco!». «E’ proprio quello che dico io», subentrò Fischerle. «Tutto dipende dalla mania che ha la gente d’imbrogliare il prossimo. Perché gli uomini devono essere imbroglioni? Uno dovrebbe dire: caro signore, oggi non ho un centesimo, in compenso domani le darò il doppio. Ma no, il gradasso preferisce imbrogliarla, e lei mandi pure giù il suo bottone. Lei deve cambiare mestiere, caro mio! Sto pensando già da un pezzo che cosa potrei fare per lei. Sa che le dico? Se in questi tre giorni lavora bene io la tengo con me per parecchio tempo. Non dica niente agli altri, deve tenere il massimo segreto. Loro, detto tra noi, li licenzio tutti, adesso li ho assunti un paio di giorni solo per compassione. Con lei è diverso. Lei non può soffrire gli imbrogli, lei ha l’animo del vero signore, e io ho l’animo del vero signore: deve ammettere che siamo fatti l’uno per l’altro. E perché lei riconosca la stima che ho di lei le anticipo tutto l’onorario di oggi. Agli altri non do niente». Il cieco ricevette effettivamente i restanti quindici scellini. Prima non aveva creduto ai suoi orecchi, ora gli capitava lo stesso con gli occhi. «Di ammazzarsi ormai non se ne parla più!», esclamò. In cambio di quella gioia avrebbe rinunciato a dieci donne, lui calcolava in donne. Seguì con entusiasmo, e quindi assai facilmente, le spiegazioni che Fischerle gli dette da quel momento. Il lungo socio d’affari lo fece ridere, tanto si sentiva di buon umore. «Morde?», domandò. Gli era venuto in mente il suo cane, lungo e magro, che la mattina l’accompagnava al posto di lavoro e la sera lo veniva a riprendere. «Che ci si provi!», minacciò Fischerle. Per un attimo si domandò se non fosse il caso di affidare al cieco un importo più alto di quello previsto di trecento scellini: l’uomo sembrava davvero entusiasta. Fischerle mercanteggiò con se stesso, l’attirava molto l’idea di guadagnare trecento in un colpo solo. Si rese conto tuttavia che il rischio era eccessivo, che una perdita così forte avrebbe potuto rovinarlo e costrinse le sue voglie a contentarsi di quattrocento. Il cieco doveva recarsi sulla piazza davanti alla chiesa e là aspettare lui, Fischerle. Quando il cieco fu scomparso alla vista il venditore pensò che fosse giunta la sua ora. Raggiunse il nano a rapidi passetti e proseguì al suo fianco. «Il tempo che ci vuole a liberarsi di quelli!», disse. Teneva la testa piegata, ma non gli riusciva di abbassarla fino all’altezza di Fischerle; per lo meno si sforzò di guardare dal basso in alto, parlando come se il nano, da quando si chiamava principale, fosse alto il doppio. Fischerle tacque. Non pensava minimamente a dare confidenza a quell’individuo. Gli altri tre li aveva trovati al Paradiso come mandati dalla provvidenza, davanti al quarto invece stava in guardia. Oggi e poi basta, si disse. Il venditore ripeté: «Il tempo che ci vuole a liberarsi di quelli, non trova?». Fischerle perdette la pazienza. «Sa che le dico, lei adesso non deve parlare: è in servizio! Ora parlo io! Se ha voglia di parlare si cerchi un altro posto!». Il venditore si dominò e fece un inchino. Giunse le mani che fino a quel momento aveva soffregato una contro l’altra facendo i suoi calcoli. Testa, tronco e braccia cominciarono ad agitarsi vivacemente. Come dimostrare ancora la sua sottomissione? I suoi nervi erano così sconvolti che quasi si sarebbe girato a testa in giù per giungere umilmente anche i piedi. Lui combatteva per liberarsi della sua insonnia. Per lui la parola ricchezza s’associava a sanatori e cure complicate. Nel suo paradiso c’erano sonniferi ad effetto sicuro. Là si dormiva per quindici giorni di seguito, senza svegliarsi una sola volta. Si veniva nutriti nel sonno. Dopo quindici giorni ci si svegliava: prima non era permesso, bisognava adattarsi, che cosa ci si poteva fare? I medici erano severi come poliziotti. Poi si andava a giocare a carte una mezza giornata. C’era una stanza apposta per questo, frequentata solo da uomini d’affari di vaglia. In poche ore si raddoppiava la propria ricchezza, tanta era la fortuna che si aveva al gioco. Poi si tornava a dormire per altri quindici giorni. Tempo se ne aveva quanto si voleva. «Perché traballa in questa maniera? Si vergogni!», gridò Fischerle. «La smetta di traballare o io, di lei, non so che farmene!». Il venditore si svegliò di soprassalto dal suo sonno e cercò, nei limiti del possibile, di calmare le sue membra irrequiete. Tornò ad essere tutto avidità. Fischerle vide che quell’individuo sospetto non offriva alcun motivo di scontentezza né il minimo appiglio per il suo licenziamento. Furibondo cominciò a impartire istruzioni. «Stia bene attento o la mando al diavolo! Lei riceverà da me un pacco. Un pacco, capisce? Un venditore come lei dovrebbe sapere cos’è un pacco. Con questo pacco lei andrà al Theresianum. Non occorre che le insegni la strada, lei ci passa tutta la giornata, buono a nulla com’è. Là spinge la porta a vetri che c’è prima di salire al reparto libri. La smetta di traballare, le dico! Se traballa così, sfonda la vetrata e poi se la vede lei. Vicino alla finestra c’è un signore magro, distinto. E’ un mio buon socio. Lei gli va incontro e tiene la bocca chiusa. Se lei si mette a parlare prima che parli lui quello le volta le spalle e la pianta in asso. E’ fatto così, è una persona autorevole. Perciò è meglio che lei stia zitto! Non ho nessuna voglia d’impegnarmi con lei in un processo per risarcimento di danni, ma se mi combina qualche guaio mi ci impegnerò, stia pur sicuro, non le permetterò di mandarmi in fumo affari che mi costano tanta fatica! Se lei è uno stupido nevrastenico è meglio che fili. Preferisco un operaio delle fogne piuttosto che uno come lei. Dov’ero arrivato? Se ne ricorda?». Fischerle s’accorse improvvisamente che cominciava ad abbandonare il linguaggio distinto appreso nel giro di pochi giorni grazie alla compagnia di Kien. Quel linguaggio gli pareva invece l’unico indicato per parlare a quel dipendente presuntuoso. Fece una pausa per calmarsi e approfittò dell’occasione per cogliere l’odiato concorrente in un momento di disattenzione. Il venditore replicò con prontezza: «Era arrivato dove c’è il cliente magro, e devo stare zitto». «Lei è arrivato, non io!», strepitò Fischerle. «E il pacco dove sta?». «Lo tengo in mano io». L’umiltà di quell’ipocrita portava Fischerle alla disperazione. «Uffa», sospirò, «prima di arrivare a farle capire una cosa c’è tutto il tempo di vedersi crescere un’altra gobba». Il venditore sogghignò e si rifece con la gobba di Fischerle degli insulti che doveva ingoiare. Anche alla sua altezza però non si sentiva al sicuro dagli sguardi dell’altro, e abbassò gli occhi con fare furtivo. Fischerle però non s’era accorto di nulla perché stava febbrilmente cercando nuove offese. Voleva evitare le espressioni volgari che correvano al Paradiso: a un frequentatore dello stesso locale non avrebbero fatto la minima impressione. Continuare a ripetere «stupido», gli riusciva noioso. Accelerò improvvisamente l’andatura e quando lì per lì il venditore ambulante rimase indietro di mezzo passo si girò verso di lui con aria sprezzante e disse: «E’ già stanco. Sa che le dico, si vada a far sotterrare!». Poi proseguì con le sue istruzioni. Gli ingiunse di chiedere al suo magro socio cento scellini come «acconto», ma soltanto dopo che quello l’avesse fermato e gli avesse rivolto la parola; poi, senza una sillaba di più, di tornare con l’acconto e col pacco sulla piazza dietro la chiesa. Il resto l’avrebbe saputo là. Una sola parola sul suo lavoro, anche con gli altri dipendenti, e sarebbe stato licenziato su due piedi. Al pensiero che il venditore avrebbe potuto spifferare ogni cosa e mettersi d’accordo con gli altri contro di lui addolcì un po’ il tono. Per compensare i suoi attacchi precedenti rallentò il passo e quando, per questo, l’altro venne a trovarsi improvvisamente un buon metro davanti a lui disse: «Fermo, dove corre? Non c’è tanta fretta!». Il venditore prese tutto ciò per una nuova angheria. Le altre parole che Fischerle gli disse in tono calmo e cordiale, come se fossero ancora due compari del Paradiso, se le spiegò con la paura che l’altro doveva avere di sue iniziative arbitrarie. Nonostante il suo nervosismo non era uno sciocco. Sapeva valutare esattamente gli uomini e i motivi delle loro azioni. Per convincerli a comprare fiammiferi, lacci da scarpe, blocchi d’appunti o addirittura merce costosa come le saponette, usava più acume, intuizione e persino discrezione di tanti famosi diplomatici. Soltanto quando si trattava del suo sogno di poter dormire a volontà i suoi pensieri si perdevano in una nebbia indistinta. Adesso poi arrivò a capire che il successo del nuovo affare dipendeva da un segreto. Il resto della strada fino alla meta fu impiegato da Fischerle per dimostrare con diversi esempi quanto quel tale apparentemente così inoffensivo, quel signore magro e distinto, fosse in realtà pericoloso. In guerra aveva combattuto tanto che alla fine era diventato pazzo furioso. Magari non si muoveva e non faceva male a nessuno per un’intera giornata. Se però uno gli diceva anche una sola parola di troppo lui gli puntava contro la vecchia rivoltella d’ordinanza e l’abbatteva su due piedi. I tribunali non gli potevano far nulla, lui in quei momenti era incapace d’intendere e di volere, e si portava sempre appresso il certificato medico. La polizia lo conosceva. A che scopo arrestarlo? si dicevano i poliziotti, tanto l’assolverebbero sicuramente un’altra volta. Del resto, la gente lui non l’ammazzava. Mirava alle gambe. Dopo un paio di settimane le persone colpite stavano di nuovo bene. Solo in un caso non ammetteva scherzi. Era quando qualcuno faceva troppe domande. Le domande non le sopportava. Uno, per esempio, chiedeva innocentemente notizie della sua salute. Non passava un secondo e quel tale era già cadavere. In quel caso, infatti, il cliente mirava dritto al cuore. Era una sua abitudine. Non poteva farci niente. Anzi, dopo gli rincresceva. Di morti veri e propri, ammazzati in quel modo, finora ve n’erano stati solo sei. Il fatto era che tutti conoscevano quella sua pericolosa abitudine e solo sei gli avevano fatto domande. Per il resto si potevano concludere con lui gli affari più vantaggiosi. Il venditore non credette una sola parola. D’altra parte aveva una fantasia facilmente infiammabile. Si vide davanti agli occhi un signore ben vestito che, prima ancora che uno si fosse svegliato del tutto, lo massacrava a colpi di rivoltella. Decise d’evitare le domande e di scoprire il mistero in qualche altro modo. Fischerle si mise un dito davanti alla bocca e fece «ssst!». Erano arrivati davanti alla chiesa dove, gli occhi pieni di devozione canina, aspettava il cieco. In quel frattempo non aveva squadrato neppure una donna, s’era accorto soltanto che glien’erano passate davanti parecchie. Nella sua immensa gioia s’era rallegrato all’idea di trattare con gentilezza i suoi colleghi: quei poveri diavoli sarebbero stati licenziati fra tre giorni, mentre lui aveva trovato una sistemazione per tutta la vita. Salutò il venditore con tanta cordialità da far pensare che non lo vedesse da anni. Dietro la chiesa i tre s’imbatterono nella Fischerina. Stava là da dieci minuti col fiato grosso per la gran corsa. Il cieco le fece una carezza sulla gobba. «Che ne dici, vecchia!», ruggì e rise con tutta la sua faccia pallida e rugosa. «Ce la passiamo bene, oggi!». Forse una volta o l’altra le avrebbe fatto il piacere, alla vecchia. La Fischerina strillò forte. Aveva sentito che quella non era la mano di Fischerle, tuttavia s’era detta: eppure dev’essere lui. Poi aveva sentito la voce rozza del cieco. Così il suo strillo era passato dallo spavento all’estasi e dall’estasi alla delusione. La voce di Fischerle era seducente. Lui sì che avrebbe potuto vendere i giornali per la strada! Glieli avrebbero addirittura strappati di mano. Ma lui era sprecato per qualsiasi lavoro. Si sarebbe stancato. Meglio che continuasse a fare il principale. Perché, oltre alla bella voce, lui aveva un occhio acuto. Il fognaiolo girava l’angolo proprio in quel momento: lui se n’accorse per primo, ordinò agli altri: «Restate qui!», e gli corse incontro. Lo trascinò sotto il tetto sporgente della chiesa, gli tolse il pacco, che quello portava fra le braccia nella medesima posizione in cui v’era stato deposto, e gli sfilò i duecento scellini dalle dita della mano destra. Da questi prese quindici scellini e glieli posò sulla mano, che però dovette aprire lui stesso. A questo punto la bocca maldestra del fognaiolo era arrivata a formulare la prima frase del suo rapporto. «E’ andata bene», cominciò. «Lo vedo, lo vedo!», esclamò Fischerle. «Domani alle nove in punto. Alle nove in punto. Qui. Qui. Alle nove in punto qui!». Il fognaiolo s’allontanò a passi goffi e pesanti e cominciò a guardarsi da vicino la paga. Infine, dopo una pausa ostinata dichiarò: «Va bene». Lottò fino al Paradiso contro la sua inveterata abitudine, e alla fine vi cedette ancora una volta. Quindici scellini li avrebbe dati alla moglie, e altri cinque se li sarebbe bevuti. E così fu. Sulle prime aveva pensato di berseli tutti. Solo quando fu sotto il tetto della chiesa Fischerle si rese conto di aver organizzato male le cose. Se ora consegnava il pacco alla Fischerina il venditore che stava là vicino, avrebbe visto tutto. Bastava che quello capisse che si trattava ogni volta dello stesso pacco e il segreto era sfumato. A questo punto la Fischerina, quasi avesse indovinato i suoi pensieri, lo raggiunse di propria iniziativa sotto il tetto della chiesa e disse: «Adesso tocca a me». «Ce n’hai messo del tempo, cara mia!», l’investì lui e le consegnò il pacco. «Via!». Lei partì in gran fretta zoppicando. La gobba nascose alla vista degli altri il pacco che stava portando. Il cieco, nel frattempo, aveva cercato di far capire al venditore che con le donne non si combina niente. Per prima cosa un uomo deve avere un lavoro rispettabile, un bel lavoro, un lavoro in cui si possano tenere gli occhi aperti. Anche a fare il cieco non si combina niente. La gente crede che con uno che pare cieco ci si possa permettere qualunque scherzo. Quando si è arrivati a farsi una posizione le donne vengono da sole, a dozzine, dopo un po’ non si sa più dove metterle. La massa non capisce un accidente di queste cose. Sono come i cani, sbrigano la faccenda dove capita. Diavolo, lui è fatto di tutt’altra pasta! Lui ha bisogno di un letto decente, di un materasso di crine, di una stufa che non faccia odore e di un bel pezzo di donna. L’odore di carbone non lo sopporta, è un odio che gli è rimasto dal tempo di guerra. Lui, per esempio, non è tipo di accontentarsi di una qualsiasi. Prima, quand’era ancora un mendicante, tentava la fortuna con tutte. Adesso si comprerà un vestito elegante, presto avrà quattrini a palate e allora le donne se le potrà scegliere. Ne raccoglierà un centinaio, le tasterà una per una – non occorre che siano nude, si può fare anche così – e poi se ne prenderà tre o quattro. Più di tante non ne regge in una volta sola. E’ finita coi bottoni. «Ci vorrà un letto a due piazze», sospirò. «Dove li sistemo altrimenti quei tre bei pezzi di donne?». Il venditore aveva ben altre preoccupazioni. Si stava slogando il collo per dare un’occhiata al di là della gobba della Fischerina. Porta un pacco o non lo porta? Il fognaiolo è arrivato con un pacco e se n’è andato a mani vuote. Perché Fischerle se l’è trascinato sotto il tetto della chiesa? Finché stanno là non si vedono né lui né il fognaiolo né la Fischerina. Naturalmente il pacco è stato nascosto in chiesa. Che idea colossale! Chi va a cercare della refurtiva in una chiesa? Lo storpio si sta rivelando una testa fina. Il pacco è un’importante fornitura di cocaina. Come avrà fatto quel furfante a mettere le mani su un affare di questa portata? In quel momento il nano li raggiunse in fretta dicendo: «Pazienza, signori miei! Prima che quella vada e torni con le sue gambe storte abbiamo tutto il tempo di morire». «Di morire ormai non se ne parla più, signori!», ruggì il cieco. «Tutti dobbiamo morire, principale», disse il venditore con un inchino e girò in fuori le palme delle mani proprio come avrebbe fatto Fischerle nella sua situazione. «Certo, se avessimo qui un buon giocatore di scacchi», aggiunse, «ma uno come noi è men che niente per un campione». «Campione, campione!». Fischerle scosse il capo offeso. «Fra tre mesi sarò campione mondiale, signori miei!». I due impiegati si guardarono pieni d’entusiasmo. «Evviva il campione mondiale!», ruggì improvvisamente il cieco. Il venditore s’unì in gran fretta al grido con la sua vocetta stridula – al Paradiso appena apriva bocca, tutti dicevano: «Eccolo che suona il mandolino». «Campione», riuscì a dirlo, ma «mondiale», gli restò nella strozza. Per fortuna a quell’ora la piccola piazza era deserta, non v’era nemmeno uno degli estremi avamposti cittadini della civiltà, i poliziotti. Fischerle fece un inchino ma s’accorse d’essersi spinto troppo oltre e gracchiò: «Purtroppo devo chiedere più silenzio durante le ore di lavoro! Meglio che non parliamo!». «Ma come?», disse il cieco che voleva tornare a discorrere dei suoi piani per il futuro e che col suo «evviva» credeva d’essersene acquistato il diritto. Il venditore si portò un dito alle labbra e fece: «Io dico sempre: il silenzio è d’oro», e ammutolì. Il cieco restò solo con le sue donne. Non si lasciò distogliere dal suo diletto e continuò a parlare a voce alta. Cominciò col dire che colle donne non si combina niente, terminò con il letto a due piazze e, avendo l’impressione che Fischerle non capisse gran che di simili questioni, ripeté ogni cosa da capo e descrisse con dovizia di particolari alcune delle cento donne che venivano conservate per lui. Attribuì a ciascuna le più incredibili natiche e indicò il loro peso in chilogrammi aumentando le cifre man mano che procedeva. Alla sessantacinquesima, che citò come esempio per quelle della sesta decina, le natiche pesavano da sole sessantacinque chili. Non aveva predisposizione ai calcoli e, una volta detto un numero, preferiva non cambiare. Tuttavia ebbe l’impressione che sessantacinque chili fossero un po’ troppi e dichiarò: «Quello che dico è sempre la verità! Non sono capace di raccontar frottole, io, è un’abitudine che mi è rimasta dal tempo di guerra». Frattanto Fischerle era già sufficientemente occupato con se stesso. Doveva ad ogni costo scacciare il pensiero degli scacchi che si stava impossessando di lui. In quel momento non temeva nulla quanto il suo crescente desiderio di giocare una partita. Il suo affare avrebbe potuto fallire a causa di ciò. Batté sulla piccola scacchiera che teneva nella tasca destra della giacca e che nello stesso tempo serviva da scatola per gli scacchi. Li sentì saltare là dentro tutti eccitati, borbottò: «State buoni adesso», e tornò a battervi sopra finché non fu stanco di sentirne solo il rumore. Il venditore pensava agli stupefacenti, collegò il loro effetto con il suo bisogno di sonno. Se in chiesa trovava il pacco avrebbe rubato qualche pacchettino per provare anche con quelli. Temeva soltanto che durante quei sonni frutto del veleno fosse inevitabile sognare. Se bisogna sognare preferisce non addormentarsi nemmeno. Quello che intende lui è un sonno vero, dove si viene nutriti mentre si dorme e non ci si sveglia prima che siano trascorsi almeno quindici giorni. A questo punto Fischerle notò che la Fischerina stava scomparendo sotto il tetto della chiesa dopo avergli fatto dei cenni concitati. Afferrò il cieco per il braccio dicendogli: «Naturalmente, ha proprio ragione!», al venditore: «Lei resti qua», e condusse con sé il primo fino alla porta della chiesa. Là gli ordinò di aspettare e trascinò la Fischerina all’interno della chiesa. Lei era terribilmente eccitata e non riusciva a spiccicar parola. Per calmarsi un po’ gli mise frettolosamente in mano il pacco e i duecentocinquanta scellini.

Mentre lui contava il denaro respirò profondamente e disse singhiozzando: «Mi ha domandato se mi chiamo signora Fischerle!». «E tu hai detto…?», gridò lui, tremando dalla paura che, con una risposta idiota, lei gli avesse mandato a monte l’intero affare, ma certo che gliel’ha mandato a monte e per di più ora ci gode, quell’oca! Se uno le dice che è sua moglie lei perde la testa. Non l’ho mai potuta digerire, e poi quell’altro asino, perché fa delle domande tanto stupide, non gliel’ha fatta conoscere, sua moglie? Solo perché lei ha la gobba e lui ha la gobba quello va a pensare che debba esser sua moglie; ormai quello s’è accorto di qualcosa e lui dovrà scomparire con quei miseri quattrocentocinquanta scellini, bello schifo! «Cos’hai detto tu?», gridò per la seconda volta. S’era dimenticato di essere in chiesa. Per le chiese, di solito, provava rispetto e timore perché il suo naso era molto appariscente. «Io… non… dovevo… dire… niente!», rispose lei, singhiozzando prima di ogni parola, «ho scosso la testa». A Fischerle cadde dal cuore il peso di tutto il denaro che aveva creduto sfumato. Una volta passata, la paura che lei gli aveva messo in corpo lo fece montare su tutte le furie. Avrebbe voluto affibbiarle un paio di ceffoni per parte, ma purtroppo non ve n’era il tempo. La spinse fuori dalla chiesa e le stridette in un orecchio: «Domani puoi pure tornare a vendere i tuoi sudici giornali! Non te li guarderò mai più!». Lei capì che il suo impiego con lui era sfumato. Non era nello stato d’animo di calcolare quanto vi perdesse. Un signore la prendeva per la moglie di Fischerle e lei non doveva dire niente. La gente s’accorge che lei gli appartiene e lei non deve parlare. Che disgrazia, che terribile disgrazia! In tutta la sua vita non s’era mai sentita così felice. Sulla via del ritorno continuò a singhiozzare: «E’ l’unico bene che ho al mondo». Dimenticò che lui doveva ancora liquidarle venti scellini, una somma per cui in tempi magri doveva andare attorno almeno una settimana. Accompagnava la sua melodia con l’immagine del signore che le aveva detto «signora Fischerle». Dimenticava che tutti la chiamavano la Fischerina. Singhiozzava anche perché non sapeva dove abitasse quel signore e dove lo si poteva trovare. Gli avrebbe offerto i giornali ogni giorno. Lui le avrebbe fatto di nuovo quella domanda. Fischerle però s’era sbarazzato di lei. Non l’aveva truffata intenzionalmente. Prima la paura e poi la collera in cui questa s’era dissolta avevano fatto perdere anche a lui ogni lucidità. Tuttavia, se il suo licenziamento si fosse svolto tranquillamente, senza dubbio avrebbe tentato lo stesso di sottrarle il suo compenso. Consegnò il pacco al cieco consigliandogli di far buona prova e di tacere, in fondo era in gioco un posto che lui avrebbe potuto occupare per tutta la vita. Nel frattempo il cieco, che credeva di poter toccare con mano le sue donne tanto distintamente se le vedeva davanti, aveva chiuso gli occhi per dimenticarle. Quando li aprì erano scomparse tutte, anche quelle più pesanti e lui ne provò un leggero rincrescimento. Al posto loro gli erano tornati in mente per filo e per segno i suoi nuovi doveri. Il consiglio di Fischerle risultò quindi superfluo. Nonostante la fretta necessaria all’impresa, Fischerle si staccò da lui tutt’altro che volentieri: aveva puntato troppo forte sui bottoni. Inoltre lui, per sua natura tanto indifferente al fascino femminile, non era in grado di valutare esattamente quanto quell’uomo ci tenesse a procurarsi delle donne. Tornato dal venditore disse: «E un uomo d’affari dovrebbe fidarsi di gentaglia simile!». «Ha proprio ragione!», disse l’altro che, come uomo d’affari escludeva se stesso dal novero della gentaglia. «Per cosa si vive?». A causa di quei quattrocento scellini che rischiava di perdere si sentiva stanco della vita. «Per dormire», replicò il venditore ambulante. «Lei dormire!». Un riso sfrenato colse il nano al pensiero del venditore che dormiva, lui che ogni giorno si lamentava per ore della sua insonnia. Quando rideva le sue narici parevano una doppia bocca spalancata, e sotto ad esse comparivano due sottili fessure, gli angoli della bocca vera. Questa volta il riso era così convulso che dovette reggersi la gobba come gli altri si reggono la pancia. Vi mise sotto le mani e trattenne coscienziosamente ogni scossa che agitava il suo corpo. Aveva appena finito di ridere – il venditore era offeso fin nel profondo dell’anima dall’incredulità che si mostrava verso il suo sonno – quando comparve il cieco, che si fermò sotto il tetto della chiesa. Fischerle si precipitò verso di lui, gli strappò di mano il denaro, rimase stupefatto al vedere che la somma era quella prevista – o forse gli aveva detto cinquecento? No: quattrocento – e gli chiese, per mascherare la sua eccitazione: «Com’è andata?». «Arrivato alla porta a vetri mi sono scontrato con una, una donna le dico: se non avessi avuto qui questo stupido pacco l’avrei proprio toccata davanti, era così grassa! A quel socio gli manca una rotella». «Perché? Cosa le salta in mente?». «Non s’arrabbi ma quello s’è messo a imprecare contro le donne! Quattrocento sono tanti, ha detto. Ma dato l’incidente della donna sarà accomodante e pagherà. La colpa è sempre delle donne. Se avessi potuto parlare le avrei dette io un paio di parole a quell’idiota! Le donne! Per cosa vivrei io, se non ci fossero le donne? Io le vado a sbattere contro a regola d’arte e lui si mette a imprecare!». «E’ fatto così, è uno scapolo impenitente. Non permetto che venga insultato: è mio amico. Non permetto neanche che si parli di lui, perché parlarne vuol già dire insultarlo. Gli amici non s’insultano. Io l’ho mai insultata, lei?». «No, questo bisogna riconoscerlo, lei è buono come il pane». «Lo vede? Domani alle nove venga di nuovo qui, intesi? E bocca chiusa, dal momento che è mio amico. Vediamo se un uomo deve proprio essere rovinato dai bottoni!». Il cieco se n’andò, si sentiva così bene che scordò ben presto le stranezze del cliente. Con venti scellini era già possibile fare qualcosa. Prima di tutto la cosa più importante. La cosa più importante era una donna e un vestito: il vestito nuovo doveva essere nero per accordarsi con i baffi neri appena inaugurati, ma con venti scellini non si comprano vestiti neri. Restava la donna. Il venditore, offeso e curioso com’era, dimenticò ogni riguardo nonché la sua inveterata pusillanimità. Voleva sorprendere il nano proprio nel momento in cui scambiava i pacchi. La prospettiva di dover più tardi frugare tutta una chiesa, anche se piccola, alla ricerca di un pacco, non gli sorrideva affatto. Comparendo all’improvviso avrebbe scoperto almeno approssimativamente dove esso si trovava, dal momento che il nano sarebbe pur provenuto da qualche parte. L’incontrò davanti al portale, ricevette il pacco e s’allontanò in silenzio. Fischerle lo seguì sveltamente. Il risultato del quarto tentativo era importante da un punto di vista non finanziario ma di principio. Se Kien sborsava anche quei cento scellini l’ammontare della somma che affluiva soltanto nelle tasche di Fischerle novecentocinquanta scellini, avrebbe superato l’altra che gli era stata pagata a titolo di ricompensa. Durante le fasi della truffa organizzata ai danni del ramo librario, Fischerle era sempre stato cosciente del fatto che stava lottando contro il nemico che solo il giorno prima aveva tentato di sottrargli tutto. Naturalmente un uomo deve difendere la propria pelle. Davanti a un assassino si diventa assassini. Davanti a un furfante ci si abbassa persino a trasformarsi in furfanti. Solo che il caso in questione si presenta un po’ imbrogliato. Può darsi che l’amico s’incaponisca a volere indietro la ricompensa, può darsi che sprofondi sempre più nella sua bassezza: quante volte accade che uno si cacci in testa un’idea impossibile e magari per essa metta in gioco tutto il suo patrimonio. Anche questo è già stato una volta patrimonio di Fischerle, quindi lui ha tutto il diritto di portarglielo via. Può darsi però che ora questa buona occasione si esaurisca. Non tutti sono capaci di cacciarsi in testa delle idee. Se quello fosse un uomo di carattere come è Fischerle, se tenesse alla ricompensa quanto Fischerle tiene agli scacchi, allora gli affari andrebbero a gonfie vele. Ma come si fa a sapere chi si ha davanti? Forse non è che un gradasso, un debole che già rimpiange i suoi quattrini e tutt’a un tratto dice: «Adesso ne ho abbastanza!». Quello, per cento scellini, è capace di rinunciare a tutta la ricompensa. Come può sapere che gli verrà tolto tutto e che per giunta, alla fine non otterrà niente? Se questo ramo librario possiede solo un briciolo di cervello – e finora si direbbe di sì dovrà continuare a pagare finché non ci sarà più niente. Fischerle dubita che abbia tanto cervello, e non è cosa da tutti nemmeno la coerenza che, in lui, s’è sviluppata col gioco degli scacchi. A lui serve un uomo di carattere, carattere come il suo, un uomo che sappia portare le cose alle estreme conseguenze: per un uomo simile lui sarebbe pronto a pagare, un uomo simile lo prenderebbe come socio nel suo affare, basta solo che lo trovi. Gli andrà incontro fino sulla porta del Theresianum, l’aspetterà là. Nel sacco può mettercelo anche più tardi. Invece di un uomo di carattere gli trottò incontro il venditore a domicilio. S’arrestò spaventato davanti a lui. Non s’aspettava di trovarsi di fronte il principale proprio là. Era stato tanto accorto da chiedere venti scellini in più di quel che Fischerle gli aveva ordinato. Portò la mano alla tasca sinistra dei pantaloni, dove aveva nascosto il suo guadagno – no, non si vedeva niente – e lasciò cadere il pacco. Per il momento a Fischerle era indifferente il modo in cui si trattava la sua merce: voleva sapere qualcosa. Il suo impiegato s’era inginocchiato per raccogliere il pacco; con sua gran meraviglia Fischerle l’imitò. Là, per terra, afferrò la destra del venditore e vi trovò i cento scellini. E’ soltanto un pretesto, pensò il venditore, ha paura per il pacco che vale un occhio della testa. Maledizione, perché non gli ho dato un’occhiata prima? Adesso è troppo tardi. Fischerle s’alzò e disse: «Stia attento a non cadere! Si porti il pacco a casa e domani alle nove in punto venga col pacco alla chiesa! La saluto». «Come, e la mia provvigione?». «Pardon, sono così distratto!». Per caso la cosa era vera anche questa volta. «Prego!», e gli dette il saldo. Il venditore entrò – «domani alle nove? Oggi stesso, caro mio!», in chiesa. Dietro una colonna s’inginocchiò di nuovo e pregando, per il caso che entrasse qualcuno mentr’era al lavoro, aprì il pacco. Erano libri. L’ultimo dubbio sparì: l’avevano ingannato. Il pacco giusto era da qualche altra parte. Incartò i libri, li nascose sotto un banco e si mise a cercare. Pregando percorse di soppiatto tutta la chiesa e sempre pregando guardò sotto ogni banco. La ricerca era minuziosa: si trattava di un’occasione che non si sarebbe ripresentata tanto presto. Più d’una volta si vide in presenza del suo mistero ma poi era solo un libro di preghiere dalla copertina nera. Dopo un’ora nutriva un odio implacabile contro tutti i libri di preghiere. Dopo un’altra ora le spalle gli dolevano e la lingua gli pendeva secca fuori dalla bocca. Le labbra continuavano a muoversi come se mormorassero preghiere. Quand’ebbe finito ricominciò da capo. Era troppo intelligente per ripetere meccanicamente gli stessi movimenti. Sapeva che ciò che è sfuggito una volta sfugge anche la seconda, e cambiò la successione dei suoi atti. Durante quel tempo non entrarono in chiesa che poche persone. Lui tendeva le orecchie per cogliere i rumori insoliti e non appena ne percepiva uno si fermava immediatamente. Una bigotta gli fece perdere venti minuti: temeva che potesse scoprire il sacro mistero prima di lui e la tenne costantemente d’occhio. Finché lei rimase in chiesa, non ebbe neppure l’ardire di sedersi. Nel primo pomeriggio – ormai non sapeva più da quanto tempo stesse cercando – procedeva a zig zag e toccava venendo da sinistra la terza fila dei banchi di destra e venendo da destra la terza fila dei banchi di sinistra. Era l’ultimo ordine che aveva escogitato per le sue ricerche. Verso sera s’accasciò sul pavimento in un punto qualsiasi della chiesa e, stanco morto, s’addormentò. Aveva sì raggiunto il suo scopo, ma prima che fossero trascorsi i quindici giorni, la sera stessa, vennero chiuse le porte, fu svegliato dal sagrestano che lo scosse energicamente e lo buttò fuori. Il pacco vero se lo dimenticò.

Rivelazioni. Quando Fischerle apparve dietro la porta a vetri ammiccando vivacemente, Kien lo salutò con un sorriso benigno. La pietosa missione che si era assunto da breve tempo disponeva il suo animo alla mitezza, ed esso si sentiva portato ai paragoni. Si domandò che significato avesse il bagliore di quei malinconici fuochi; l’impetuosa corrente dell’amore aveva travolto anche il ricordo dei segnali convenuti. La fede di Kien, incrollabile come la sua sfiducia nell’umanità profanatrice di libri, spaziava in uno dei suoi campi favoriti. Egli deplorava la debolezza del Cristo, quel curioso dissipatore. Davanti ai suoi occhi passava una distribuzione di cibo dopo l’altra, una guarigione dopo l’altra, una parola dopo l’altra, e lui pensava a tutti i libri che si sarebbero potuti salvare con tanti miracoli. Sentiva che il suo stato d’animo attuale era affine a quello del Cristo. In molti casi si sarebbe comportato anche lui allo stesso modo, solo gli oggetti dell’amore di Cristo gli sembravano frutto di aberrazione, proprio come nel caso dei giapponesi. Poiché il filologo era sempre vivo in lui, decise, una volta che fossero tornati tempi più tranquilli, di sottoporre il testo dei Vangeli a un’analisi fondamentalmente nuova. Poteva darsi che in realtà a Cristo non interessassero affatto gli uomini, e che una barbara gerarchia avesse falsificato le parole originali del suo fondatore. L’inattesa comparsa del Logos nel Vangelo di San Giovanni offriva abbondanti motivi di sospetto, proprio a causa dell’interpretazione corrente, che su quel punto rimanda a influssi greci. Kien sentiva d’avere in sé sufficiente dottrina per ricondurre il cristianesimo alle sue vere origini, e se pure non era il primo a portare l’autentica parola del Salvatore tra un’umanità le cui orecchie sono sempre pronte ad accoglierla, tuttavia sperava, non senza fondati motivi d’ordine interiore, che la sua interpretazione fosse l’ultima. L’interpretazione di Fischerle relativa a un pericolo incombente rimase invece incompresa. Per un po’ quello continuò ad ammiccare chiudendo alternativamente l’occhio destro e il sinistro; alla fine si precipitò verso Kien, l’afferrò per un braccio, sussurrò: «Polizia!», – la parola più spaventosa che conoscesse. – «Corra! Io la precedo!», e, contrariamente alla sua promessa, si fermò di nuovo sulla porta per vedere l’effetto delle sue parole. Kien lanciò uno sguardo addolorato verso l’alto: non verso il cielo ma, al contrario, verso l’inferno del sesto piano. Promise di ritornare in quel santo vestibolo, forse il giorno stesso. Disprezzava con tutto il cuore i sordidi farisei che lo perseguitavano. Da vero santo non dimenticò neppure, prima di mettere in moto le sue lunghe gambe, di ringraziare con un rigido ma profondo inchino il nano per il suo avvertimento. Nel caso che, per viltà, avesse dimenticato il proprio dovere minacciò il rogo alla propria biblioteca. Accertò di proposito che i suoi nemici non si facevano vedere. Che cosa temevano? La forza morale della sua intercessione? Lui non intercedeva per dei peccatori, lui intercedeva per dei libri innocenti. Se nel frattempo fosse stato torto un capello anche ad uno solo di essi, avrebbero avuto modo di conoscerlo da un altro lato. Lui conosceva alla perfezione anche l’Antico Testamento e si riservava il diritto della vendetta. Ah, demoni – esclamò – voi mi state tendendo un qualche agguato, ma io abbandono a testa alta la vostra bolgia! Non ho paura perché dietro di me vi sono innumerevoli milioni. Accennò col dito verso l’alto. Poi cominciò lentamente a fuggire. Fischerle non lo perdeva d’occhio. Non aveva alcuna voglia di lasciare che il suo denaro uscisse dalle tasche di Kien per finire in quelle di qualche furfante. Temeva l’apparizione di sconosciuti che venissero a impegnare dei libri e sollecitava Kien col naso e con le braccia. Dal contegno esitante dell’altro trasse un motivo di sicurezza per il proprio futuro. Quell’uomo, a quanto sembrava, aveva del carattere, e s’era cacciato in testa di recuperare l’antica ricompensa in questo e in nessun altro modo. Non l’avrebbe mai creduto capace di tanta coerenza e provò ammirazione per lui. Si propose di secondare i piani di quell’uomo di carattere. Avrebbe aiutato Kien a sbarazzarsi del suo capitale fino all’ultimo centesimo, nel tempo più breve e senza troppa fatica. Dato però che sarebbe stato un vero peccato disperdere qua e là una somma in origine così rilevante, Fischerle doveva badare bene a che non s’immischiassero persone non autorizzate. Ciò che accadeva fra quei due uomini di carattere riguardava loro due e nessun altro. Accompagnava ogni passo di Kien crollando la gobba in segno d’incoraggiamento, ogni tanto indicava un angolo buio, si portava il dito alle labbra e camminava in punta di piedi. Quando gli passò davanti un impiegato – per caso proprio il maiale che s’occupava della stima nel reparto libri – tentò un inchino e gli scagliò incontro la gobba. Kien s’inchinò a sua volta per pura vigliaccheria. Sentiva che quel sedicente essere umano, che un quarto d’ora prima era sceso giù per la scala, lassù aveva funzioni di demonio, e tremò all’idea che gli si proibisse di sostare vicino alla finestra. Finalmente Fischerle, grazie alla sua forza di volontà, riuscì a trascinarlo fino alla piazza dietro la chiesa e sotto il tetto. «Eccola in salvo», disse in tono di scherno. Kien si stupì della grandezza del pericolo che l’aveva minacciato fino a un attimo prima. Poi abbracciò l’ometto e disse con voce tenera e affettuosa: «Se non avessi lei…», – «…sarebbe già da un pezzo in guardina!», completò Fischerle. «Ma come, col mio modo d’agire trasgredisco dunque la legge?». «Sempre, si trasgredisce la legge. Va a mangiare un boccone perché ha fame e subito l’accusano d’aver rubato un’altra volta. Aiuta un povero diavolo e gli regala un paio di scarpe, quello se ne va con addosso le sue scarpe e subito la si vede accusato di favoreggiamento. Si addormenta su una panchina, resta là a sognare per dieci anni e la svegliano perché dieci anni prima ha fatto qualcosa – la svegliano?! – la trascinano via! Lei vuol salvare un paio di libri e subito la polizia circonda il Theresianum: c’è un poliziotto in ogni angolo, avrebbe dovuto vedere le rivoltelle di nuovo tipo! L’operazione è comandata da un maggiore, io gli ho guardato tra le gambe. Cosa crede che tenga in mano, più in basso che può perché nessuna delle persone alte che gli passano davanti se ne accorga? Un mandato di cattura! Il capo della polizia ha emesso un mandato di cattura speciale, perché lei è una persona di riguardo. Lei sa benissimo di essere quel che è, non c’è bisogno che glielo dica io! Alle undici in punto lei sarà arrestato vivo o morto all’interno del Theresianum. Fuori di là non può succederle niente, perché fuori non è un malfattore. Alle undici in punto. E adesso che ora è? Le undici meno tre minuti. Guardi lei stesso!». Lo trascinò sul lato opposto della piazza, da dove si vedeva l’orologio della chiesa. Erano là da pochi istanti quando suonarono le undici. «Che le dicevo, son già le undici! Ha avuto una bella fortuna! Ricorda quell’uomo che abbiamo salutato? Quell’uomo era il maiale». «Il maiale!». Kien non aveva dimenticato una parola del racconto che Fischerle gli aveva fatto la prima volta. Da quando s’era alleggerito la testa la sua memoria era di nuovo eccellente.

Strinse il pugno, anche se in ritardo, ed esclamò: «Miserabile vampiro! Ah, se l’avessi tra le mani!». «Sia contento di non avercelo! Se lei avesse provocato il maiale l’avrebbero arrestato ancor prima. Cosa crede lei, che non mi facesse schifo inchinarmi davanti a un maiale? Ma dovevo metterla in guardia. Deve sapere che amico sono per lei!». Kien stava pensando all’aspetto del maiale: «E io che l’avevo creduto un semplice demonio», disse, tutto confuso. «Lo è. Perché un demonio non dovrebbe essere anche un maiale? Gli ha visto la pancia? Al Theresianum corre una certa voce… ma è meglio che non le dica niente». «Che voce?». «Poi lei si agita». «Che voce?». «Giuri che se glielo dico lei non corre subito là! Correrebbe incontro alla sua rovina e i libri non ne avrebbero nessun vantaggio!». «Va bene, lo giuro, ma parli una buona volta!». «Ha giurato! Non gli ha visto la pancia?». «Sì, ma la voce, la voce!». «Subito. Non ha notato niente in quella pancia?». «No!». «C’è chi dice che quella pancia abbia degli spigoli». «Che significa questo?». La voce di Kien tremava. Si stava preparando a qualcosa d’inaudito. «Si dice – devo reggerla, altrimenti qui succede una disgrazia – si dice che è così grasso per via dei libri». «Vuol dire che lui…», «…mangia i libri!». Kien lanciò un grido e stramazzò per terra. Nella caduta trascinò con sé l’ometto che si fece male contro il selciato e, per vendicarsi, continuò a parlare. «Che volete, dice il maiale – l’ho sentito io stesso, una volta, parlare così – che devo farne di tutta questa porcheria? Ha detto proprio porcheria, i libri li chiama sempre così, lui ci prova gusto a mangiare porcheria. Che volete, dice, questa porcheria resta qua per mesi e mesi: è meglio che ne ricavi qualcosa e mi ci riempia la pancia». Ha scritto un libro di cucina pieno di ricette, e adesso sta cercando un editore. «Al mondo, dice, ci sono troppi libri e troppi stomaci affamati. La mia pancia la devo alla mia cucina, dice, voglio che tutti abbiano una pancia come la mia e che i libri scompaiano; se le cose andassero come dico io tutti i libri dovrebbero scomparire! Si potrebbero bruciare, ma nessuno ne ricaverebbe niente. Per questo io dico che bisogna mangiarli crudi con olio e aceto come l’insalata, impanati e fritti come le cotolette, con sale e pepe, con zucchero e cannella; ha ben centotré ricette quel porco, e ogni mese ne inventa una nuova, per conto mio è un’indecenza, dico bene?». Mentre Fischerle gracchiava queste parole senza mai interrompersi Kien si torceva per terra. Colpiva il selciato con i suoi gracili pugni come per dimostrare che persino la dura crosta della terra è più tenera di un essere umano. Un dolore lancinante gli trapassava il cuore. Avrebbe voluto lanciare l’allarme, salvare, liberare, ma invece della bocca parlavano i suoi pugni, e il loro suono era debole. Colpivano le pietre del selciato una dopo l’altra, senza saltarne nessuna. Colpirono fino a insanguinarsi, la bocca gli si coprì di schiuma che si mescolò al sangue dei suoi pugni tanto erano vicine a terra le sue labbra tremanti. Quando Fischerle tacque Kien s’alzò barcollando, si aggrappò alla gobba e, dopo aver mosso inutilmente le labbra un paio di volte, emise con voce acutissima un grido che si diffuse per tutta la piazza: «Can-ni-ba-li!

Can-ni-ba-li!». Tendeva il braccio libero in direzione del Theresianum, e con l’altro piede batteva sul terreno che pochi istanti prima aveva quasi baciato. I passanti, che a quell’ora cominciavano già a comparire, si fermarono sbigottiti; la sua voce pareva quella di un uomo ferito a morte. S’aprì qualche finestra, un cane ululò in un vicolo laterale, un medico in camice bianco venne sulla porta del suo negozio e, subito dietro l’angolo della chiesa, si sentì odore di polizia. La pesante fioraia che aveva il banco davanti alla chiesa raggiunse per prima l’uomo che aveva gridato e chiese al nano che cosa avesse il signore. Teneva ancora in mano le rose fresche e la rafia che stava per legarvi attorno. «Gli è morto un parente», disse Fischerle con aria triste. Kien non sentiva niente. La fioraia legò le rose, le mise in braccio a Fischerle e disse: «Queste sono per lui, da parte mia». Fischerle annuì, mormorò: «C’è appena stato il funerale», e la congedò con un lieve gesto della mano. In cambio dei suoi fiori lei andò da un passante all’altro e raccontò che a quel signore era morta la moglie. Piangeva perché la buonanima di suo marito, scomparso dodici anni prima, l’aveva sempre picchiata. A lui non sarebbe mai passato per la testa di piangere a quel modo la sua morte. Sentiva pena anche per se stessa, identificandosi con la defunta moglie di quel magro signore. Il parrucchiere sulla porta del negozio – il presunto medico – annuì seccamente: «Così giovane e già così vedovo», aspettò un poco e poi sogghignò sulla sua freddura. La fioraia gli lanciò un’occhiataccia e singhiozzò: «Gli ho dato le mie rose, io!». La notizia della moglie defunta raggiunse anche i piani superiori delle case, qualche finestra si richiuse. Un damerino commentò: «Non si può far niente», e rimase là solo perché era rimasta una camerierina giovane e affettuosa che avrebbe consolato tanto volentieri quel poveretto. Il vigile urbano non sapeva che fare; l’aveva informato un garzone che stava andando al lavoro. Quando Kien cominciò di nuovo a gridare – tutte quelle persone l’irritavano – il rappresentante della legge fu sul punto d’intervenire. Lo distolsero le fervide preghiere della fioraia. La vicinanza della polizia riempì Fischerle di paura: balzò verso l’alto cercando di giungere all’altezza di Kien, gli chiuse la bocca, lo trasse giù verso di sé. In quella posizione, simile a un temperino chiuso a metà, lo trascinò fino al portale della chiesa dicendo forte: «La preghiera lo calmerà!», fece un cenno col capo verso il pubblico e scomparve con Kien dentro la chiesa. Nel vicolo il cane ululava ancora. «Le bestie sentono sempre queste cose», disse la fioraia. «Anche la buonanima di mio marito…», e raccontò al vigile la propria storia. Ora che non aveva più davanti agli occhi quel signore le dispiaceva per i suoi fiori tanto costosi. Dentro il venditore a domicilio era ancora al lavoro, e lo svolgeva con grande energia. All’improvviso comparve Fischerle in compagnia del ricco socio d’affari, costrinse quella pertica a sedere in un banco, disse forte: «Ma è matto?», si guardò attorno e continuò a parlare a bassa voce. Il venditore si spaventò molto, lui aveva truffato Fischerle e il socio sapeva di quanto. S’allontanò quatto quatto dai due e si nascose dietro una colonna. Dall’oscurità del suo sicuro nascondiglio si mise a sorvegliarli, poiché una brillante intuizione gli aveva rivelato per quale motivo essi fossero là: per portare o per ritirare il pacco. Nella chiesa buia e angusta Kien ritornò lentamente in sé. Avvertiva la vicinanza di un essere i cui sommessi rimproveri gl’infondevano un nuovo calore. Non riusciva a capire ciò che quell’essere gli diceva, ma erano parole che lo calmavano. Fischerle si stava dando disperatamente da fare, era andato molto al di là delle sue intenzioni. Mentre pronunciava tutte le possibili parole di consolazione cercava di capire che tipo d’uomo fosse veramente quello che gli stava accanto. Se era un pazzo, lo era davvero in larghissima misura; se dava solo ad intendere di esserlo, era il più audace imbroglione del mondo. Un filibustiere che si lascia arrivare la polizia a due passi di distanza e non taglia la corda, che bisogna salvare a forza dalle grinfie della legge, che riesce a convincere della sua disgrazia una fioraia al punto che quella gli regala delle rose, che rischia settecentocinquanta scellini senza batter ciglio, che si lascia raccontare da uno storpio le bugie più colossali senza ammazzarlo di legnate: il campione mondiale dei filibustieri! Riuscire a gabbare un simile campione della sua specialità è un vero piacere: Fischerle non sopporta gli avversari di cui c’è da vergognarsi. A lui piace avere avversari di pari livello, in qualunque gioco, e, dato che per ragioni finanziarie ha scelto come avversario Kien, lo giudica di livello pari al suo. Tuttavia lo tratta come se fosse il più grande allocco di questo mondo: lui stesso cerca di farsi passare come tale, ci tiene ad essere trattato così. Per distrarlo, non appena lo sente respirare con più calma, gli chiede di ragguagliarlo sui fatti della mattinata. Kien non è alieno dall’idea di sottrarsi, ricordando momenti meno tristi, alla sconsolata oppressione che, da quando ha scoperto simili atrocità, grava su di lui. Appoggia le spalle, le costole e altre ossa alla colonna che chiude la sua fila di banchi e sorride col debole sorriso di un malato in via di guarigione ma ancora bisognoso di molte, molte cure. Fischerle è pronto ad aver cura di lui: un nemico simile lo si mantiene volentieri in vita. S’arrampica sul banco, vi s’inginocchia sopra e porta il suo orecchio vicinissimo alla bocca di Kien. Qualcuno potrebbe sentirlo. «Così non si strapazza troppo», dice. Kien non riesce più ad accogliere nulla senza farvi caso. Qualsiasi gesto cortese da parte di un essere umano gli pare un miracolo. «Lei è un uomo», mormora con voce affettuosa. «Uno storpio non è un uomo: ne ho forse colpa io?». «L’unico storpio è l’uomo!». Kien tenta di parlare a voce più alta. Si guardano negli occhi e per questo Kien dimentica ciò che bisognerebbe tacere in presenza del nano. «No», dice Fischerle, «l’uomo non è uno storpio, altrimenti io sarei un uomo!». «Questo non lo permetto. L’uomo è l’unica bestia!». Kien alza la voce, proibisce e comanda. Fischerle si diverte moltissimo a questa scaramuccia, tale la considera lui. «E perché il nostro maiale lo chiamiamo maiale e non un uomo?». Ecco, ora l’ha battuto. Kien balza in piedi. Lui è invincibile. «Perché i maiali non si possono difendere! Io protesto contro questa usurpazione di titolo! Gli uomini sono uomini e i maiali sono maiali. Tutti gli uomini sono uomini e basta! Il suo maiale è un uomo! Guai all’uomo che oserà farsi passare per maiale! Io lo farò a pezzi! Can-ni-ba-li! Can-ni-ba-li!». La chiesa risuonò di accuse furiose. Pareva deserta. Kien s’abbandonava alla sua ira. Fischerle non sapeva più che fare, in chiesa si sentiva malsicuro. Quasi avrebbe trascinato di nuovo Kien sulla piazza. Là però c’era la polizia. La chiesa poteva crollargli addosso ma lui non sarebbe corso tra le braccia della polizia! Fischerle conosceva storie terribili di ebrei rimasti sepolti sotto le macerie di una chiesa, crollata perché non era posto per loro. Gliele aveva raccontate sua moglie, la pensionata, perché lei era una donna pia e avrebbe voluto convertirlo alla propria fede. Lui non credeva a nulla, se non al fatto che essere ebrei è uno di quei delitti che si puniscono da soli. Nel suo smarrimento si guardò le mani, che teneva sempre all’altezza di un’immaginaria scacchiera, e s’accorse delle rose che teneva, ormai tutte schiacciate, sotto il braccio destro. Le trasse fuori e si mise a gridare: «Rose, belle rose, belle rose!». La chiesa si riempì di rose gracchianti, dall’alto della navata centrale, dalle navate laterali, dal coro, dal portale, da ogni parte i rossi uccelli volarono incontro a Kien. (Il venditore ambulante stava rannicchiato pieno di apprensione dietro la sua colonna. Capiva che si trattava di una lite fra i due soci, e se ne rallegrava perché mentre litigavano uno dei due avrebbe finito per lasciarsi sfuggire un accenno al pacco. Però avrebbe preferito che essi fossero già fuori, il frastuono era assordante, poteva uscirne una gazzarra, in simili occasioni accorre sempre gentaglia d’ogni specie, e magari qualcuno gli rubava il suo pacco). I cannibali di Kien vennero soffocati dalle rose. La sua voce era ancora indebolita dagli sforzi di poco prima e non riusciva a tener testa a quella del nano. Non appena la parola «rose», ebbe raggiunto la sua coscienza smise di gridare e si girò, tra stupito e confuso, verso Fischerle. Da dove venivano quei fiori? Lui era in tutt’altra regione: i fiori sono inoffensivi, vivono d’acqua e di luce, di terra e d’aria, non sono uomini, non fanno del male ai libri, vengono mangiati, vengono distrutti dagli uomini, i fiori hanno bisogno di protezione, bisogna proteggerli dagli uomini e dagli animali: dov’è la differenza? Bestie, sempre bestie, sia gli uni che gli altri, questi divorano fiori, quelli divorano libri, l’unico naturale allegato dei libri è il fiore. Prese le rose dalle mani di Fischerle, si ricordò del loro profumo che conosceva attraverso le poesie d’amore persiane, se le avvicinò agli occhi: era vero, erano profumate. Ciò servì a calmarlo completamente. Disse: «Continui pure a chiamarlo maiale. Soltanto ai fiori non rivolga mai insulti». «Li ho portati per lei», spiegò Fischerle, lieto di non dover più gridare all’interno della chiesa. «Mi sono costati un occhio della testa. Lei me li ha schiacciati con tutto il suo urlare. Che colpa ne hanno questi poveri fiori se al mondo ci sono uomini di quella specie?».

Decise che da quel momento in poi avrebbe dato ragione a Kien su qualunque punto. Contraddirlo era troppo pericoloso. Una simile petulanza poteva portarlo in prigione. Il destinatario del mazzo ricadde esausto sulla panca, s’appoggiò di nuovo alla sua colonna e facendosi passare le rose davanti agli occhi con la stessa precauzione che se fossero state libri, cominciò a raccontare i lieti avvenimenti della mattinata. Il tempo in cui, in quel vestibolo luminoso dove nessuno gli poteva sfuggire, lui aveva riscattato tranquillamente e senza alcun sospetto vittime innocenti gli pareva lontano come la sua giovinezza. Delle persone che aveva aiutato a ritornare sulla retta via conservava un’immagine precisa, come se non fosse passata più di un’ora: stupiva lui stesso della chiarezza della sua memoria, che in quel caso superava addirittura se stessa. «Quattro grossi pacchi sarebbero finiti nello stomaco del maiale o sarebbero stati tenuti in serbo per un futuro incendio. Sono riuscito a salvarli. Devo forse gloriarmene? Non credo. Sono diventato più modesto. E allora perché lo racconto? Forse perché anche lei, che mira a risultati definitivi, impari a comprendere il valore di un piccolo atto di bontà». In queste parole aleggiava l’aria limpida che segue la tempesta. La sua voce di solito secca e dura, aveva in quel momento un suono al tempo stesso mite e piccante. Nella chiesa c’era un gran silenzio. Tra una frase e l’altra s’interrompeva spesso, e poi ricominciava a parlare sottovoce. Descrisse le quattro anime perdute a cui aveva offerto il braccio; i loro tratti risultarono un po’ confusi se confrontati ai contorni netti dei pacchi che portavano: infatti questi vennero descritti per primi, carta, forma e presunto contenuto, in nessun caso lui aveva eseguito un vero e proprio controllo. Essi erano ben confezionati, le persone avevano un’aria modesta e confusa, e lui non voleva precluder loro la via del ritorno. Che senso avrebbe avuto la sua opera di redenzione se lui si fosse mostrato duro? Tranne l’ultimo, si trattava di creature di rara bontà: maneggiavano i loro amici con delicatezza, chiedevano grosse somme perché i libri restassero in loro possesso. Da sopra sarebbero senz’altro ridiscesi senza aver concluso nulla, si leggeva loro in faccia quanto fossero fermi e decisi; da lui prendevano il denaro e poi s’allontanavano senza una parola, profondamente commossi. Il primo, probabilmente un operaio, alla sua domanda l’aveva investito malamente: l’aveva scambiato per un mercante, e mai parole dure erano state accolte con maggior piacere. Dopo di lui era comparsa una signora; il suo aspetto gli aveva ricordato qualcuno che conosceva: lei s’era creduta schernita da dei demoni di servizio ed era diventata paonazza, però aveva taciuto. Dopo di lei era venuto un cieco che s’era scontrato con una donna volgare, la moglie di un demonio guardaportone. S’era liberato dalle braccia della donna tenendosi attaccato al pacco che portava e s’era fermato con sorprendente sicurezza davanti al suo benefattore. I ciechi con dei libri in mano sono uno spettacolo commovente. S’aggrappano con tutte le forze alla loro consolazione e alcuni, ai quali la scrittura Braille poco s’addice perché in essa è stato stampato un numero troppo esiguo di libri, non desistono mai e non confessano mai, neppure a se stessi, la verità. Li si sorprende davanti a un libro stampato nei nostri caratteri: ingannano se stessi e credono di leggere. Uomini simili sono troppo rari e se v’è qualcuno che merita la vista sono proprio questi ciechi. Per amor loro si vorrebbe che le mute lettere parlassero. La richiesta del cieco era stata la più alta di tutte, per delicatezza lui gli aveva tenuto nascosto il motivo per cui l’accoglieva e aveva detto che era a causa di quella donna screanzata. Perché ricordargli la sua disgrazia? Per consolarlo aveva preferito fargli presente la sua fortuna: se avesse avuto moglie avrebbe dovuto scontrarsi continuamente con lei e sprecare ogni momento della sua vita, perché così sono le donne. Il quarto, un tipo insignificante e meno riguardoso verso i propri libri, che sobbalzavano violentemente sul suo braccio, aveva chiesto – come era facile immaginare – una somma modesta e nelle sue parole s’era avvertita una punta di volgarità. Da questo racconto il nano dedusse che neppure un soldo s’era disperso, cosa che l’avrebbe afflitto molto. Confermò l’aspetto volgare dell’ultimo, che lui stesso aveva incontrato davanti al portone. Quell’uomo era senz’altro un venditore a domicilio, e sarebbe tornato anche l’indomani. Bisognava metterlo a posto una volta per sempre. Il venditore riuscì a sentire le ultime parole; ormai si era abituato al tono delle voci. Cessata la rumorosa lite s’era avvicinato, lentamente anche se pieno di curiosità, e li aveva raggiunti proprio nel momento in cui il discorso cadeva su di lui. Rimase indignato per la falsità del nano, e quando i due lasciarono la chiesa si rimise al lavoro con tanto maggior fervore. Fischerle si decise a fare un grande sacrificio, condusse Kien all’albergo più vicino per rimetterlo in forze in vista dell’indomani e soffocò la sua stizza per la forte mancia che l’altro diede con il suo denaro. Quando Kien saldò il conto per le due stanze, mentre una stanza sola sarebbe andata pure benissimo, e aggiunse a titolo di mancia il cinquanta per cento dell’intera somma – come se Fischerle, per ciò che riguardava la sua stanza, fosse d’accordo su una tale pazzia – e poi, ben conscio della propria colpa, lo guardò in faccia sorridendo, Fischerle provò una gran voglia di prenderlo a schiaffi. Quelle spese non erano forse superflue? Che differenza faceva dare al portiere uno scellino di mancia invece di quattro? Entro pochi giorni tutto il capitale sarebbe stato comunque nelle tasche di Fischerle, in viaggio per l’America. Certo il portiere non s’arricchiva con quella bazzecola, mentre Fischerle s’impoveriva d’altrettanto. E con un individuo così falso bisognava, oltretutto, mostrarsi gentile. Certo lo faceva per irritarlo, in modo che lui perdesse la pazienza proprio ora che era vicino alla meta, e perdendo il controllo di sé gli offrisse lui stesso un pretesto per licenziarlo. Ma lui se ne guarderà bene. Anche oggi stenderà per terra la carta, accatasterà i libri, gli augurerà la buona notte e prima d’addormentarsi si lascerà dare tutti quei pazzi nomi; domani s’alzerà alle sei, quando persino le puttane e i delinquenti dormono ancora, rimetterà a posto i libri e riprenderà a recitare la commedia. Preferirebbe giocare la peggior partita di scacchi di questo mondo. Lo spilungone non può certo pensare che lui, Fischerle, creda davvero all’esistenza dei suoi impossibili libri. Vuole soltanto incutergli rispetto: ma Fischerle lo rispetterà finché gli farà comodo rispettarlo, non un secondo di più. Appena avrà raccolto tutto il denaro per il viaggio gli dirà chiaro ciò che pensa. «Lo sa cos’è lei, signore?», gli griderà. «Un volgare imbroglione, ecco cos’è!». Kien passò il pomeriggio a letto, stanco per le emozioni della mattinata. Non s’era svestito perché non voleva dare troppa importanza a un riposo fuori orario. Quando Fischerle gli chiese ripetutamente se doveva cominciare con i libri scrollò le spalle con indifferenza. L’interesse per la sua biblioteca privata, che non correva comunque alcun rischio, era assai diminuito. Fischerle notò il cambiamento. Fiutò un’astuzia che valeva la pena di scoprire o una fessura attraverso la quale si poteva tentare di mettere a segno un paio di piccole ma dolorose stoccate. Continuò a informarsi con insistenza dei libri. Non pesavano un po’ troppo al signor bibliotecario? Né la testa né i libri erano abituati alla posizione in cui egli si trovava attualmente. Lui non voleva metterci bocca, però non si assumeva alcuna responsabilità per il disordine che poteva crearsi nella sua testa. Non era almeno il caso di far portare altri cuscini, in modo che la testa potesse stare in posizione verticale? Se Kien girava il capo di scatto l’ometto gridava, dimostrando in tutti i modi la sua paura: «Per amor del cielo, stia attento!». Una volta addirittura gli s’avvicinò d’un balzo e gli tenne le mani sotto l’orecchio destro per raccogliere i libri. «Stavano cadendo!», disse in tono risentito. A poco a poco riuscì a suscitare in Kien lo stato d’animo desiderato. Questi si ricordò dei propri doveri, s’astenne da ogni discorso superfluo e rimase sdraiato rigido e immobile. Purché l’ometto la smettesse di parlare. Le sue parole e i suoi sguardi gli comunicavano una profonda inquietudine, come se la sua biblioteca si trovasse in gran pericolo, cosa che non si poteva davvero dire. Un’eccessiva preoccupazione può riuscire opprimente. Inoltre oggi gli pareva più opportuno pensare ai milioni di libri la cui vita era minacciata. Fischerle gli sembrava troppo meticoloso. Lui, senza dubbio a causa della gobba, s’occupava continuamente del proprio corpo e manteneva quell’atteggiamento anche di fronte al corpo del suo padrone. Chiamava per nome cose che è meglio non nominare e non andava al di là di capelli, occhi e orecchie. A che scopo? Che in una testa possano trovar posto oggetti d’ogni genere è fuor di dubbio, ma solo gli spiriti gretti si occupano dei particolari esteriori. Prima d’allora non era mai stato importuno. Ma Fischerle non lo lasciava in pace. Il naso di Kien cominciò a colare e lui dopo aver lasciato, senza muoversi, che la cosa continuasse per un pezzo, decise per amor dell’ordine di procedere contro la grossa goccia che gli si era formata sulla punta. Estrasse un fazzoletto e fece per soffiarsi. Fischerle gemette forte. «Ferma, ferma, aspetti che venga io!». Gli strappò di mano il fazzoletto lui non ne aveva – s’avvicinò cautamente al naso e raccolse la goccia come se si trattasse di una perla preziosa. «Sa che le dico?», disse Fischerle. «Io con lei non ci resto! Lei ora stava per soffiarsi, e i libri sarebbero usciti fuori dal naso! Come si sarebbero ridotti non c’è bisogno che glielo dica. Lei non ha cuore per i suoi libri! Con uno così io non ci resto!». Kien era senza parole. In fondo al suo cuore gli dava ragione, ma proprio per questo il suo tono insolente l’irritava ancor più. Gli pareva di parlare lui stesso per bocca di Fischerle. Sotto il peso dei libri, che nemmeno leggeva, il nano stava cambiando a vista d’occhio. La vecchia teoria di Kien ne riceveva una brillante conferma. Prima che lui avesse il tempo di preparare una risposta Fischerle riprese a garrire: l’arrendevolezza del padrone lo sorprendeva. Non rischiava nulla, e insolentendolo sfogava tutta la rabbia che aveva in sé per la mancia vergognosa. «Provi a pensare che sia io a soffiarmi il naso. Cosa direbbe lei? Mi licenzierebbe su due piedi! Una persona di cervello non si comporta così. Lei riscatta i libri degli altri e i suoi li tratta come cani. Un bel giorno non avrà più soldi, d’accordo, questo non importa, ma se non avrà più neppure i libri, cosa farà? Vuol ridursi a chiedere l’elemosina nella sua vecchiaia? Io no. E questo sarebbe un ramo librario! Guardi un po’ me! Sono forse uno del ramo librario? No. E come li tratto i libri? Con tutti i riguardi li tratto, come un giocatore di scacchi tratta la regina, come una puttana tratta il suo magnaccia, cosa devo dirle per farmi capire? Come una madre tratta il suo bambino!». Tentava di tornare al suo vecchio linguaggio ma la cosa gli riusciva solo a metà. Non gli venivano in mente che parole distinte, e dato che erano distinte si disse: «Bene anche così», e ne fu soddisfatto. Kien s’alzò, gli s’avvicinò e, non senza dignità, disse: «Lei è uno storpio insolente! Esca dalla mia camera! La licenzio!». «Ah, pure ingrato è, sporco ebreo!», gridò Fischerle. «Da uno sporco ebreo non ci si può aspettare altro! Esca subito lei dalla mia camera o chiamo la polizia. Qui ho pagato io. Mi rimborsi subito le spese o la denuncio!». Kien esitò. Gli pareva d’aver pagato lui, ma in questioni di denaro non era mai sicuro del fatto suo. Inoltre aveva l’impressione che il nano lo volesse truffare, e se ora licenziava il suo fedele servitore voleva almeno tener conto dei suoi consigli e non mettere più in pericolo i libri. «Quanto ha speso per mio conto?», domandò con voce sensibilmente più incerta. Fischerle, che tutt’a un tratto s’era sentito di nuovo sulle spalle il peso della gobba, respirò a fondo e, dato che le cose si mettevano così male per lui, dato che forse dell’America non si sarebbe più parlato; dato che era colpa della sua stupidità se gli avvenimenti avevano preso quella piega; dato che lui si odiava, odiava se stesso, la sua piccolezza, la sua piccineria, il suo meschino futuro, la sconfitta a due passi dalla vittoria, il suo guadagno, miserabile se paragonato al principesco capitale che avrebbe potuto guadagnare senza fatica in pochi giorni; dato che, se non gli fosse troppo dispiaciuto per i suoi soldi, quel guadagno iniziale, una bazzecola su cui sputava, l’avrebbe volentieri gettato in faccia a Kien assieme alla cosiddetta biblioteca su cui vomitava, rinunciò anche alla somma che Kien aveva pagato per la stanza e per il portiere. Disse: «Ci rinuncio!». Questa frase gli costò tanto che il modo in cui la pronunciò conferì maggior dignità a Fischerle che non a Kien tutta la sua statura e severità. In quella rinuncia vibrava l’umanità offesa e la coscienza d’aver agito con le migliori intenzioni e d’essere stato frainteso nel peggiore dei modi. Allora Kien cominciò a capire. Non aveva ancora pagato al nano un centesimo di stipendio, ne era sicuro, non se n’era mai parlato, e l’altro, anziché farsi almeno rimborsare le spese sostenute, rinunciava a tutto. Lui l’aveva licenziato perché la nobile sollecitudine per la sua biblioteca aveva spinto Fischerle a usare espressioni sconvenienti. L’aveva chiamato storpio. Poche ore prima quello stesso storpio gli aveva salvato la vita quando tutta la polizia della capitale era mobilitata contro di lui. Lui doveva al nano organizzazione e sicurezza, anzi, persino il primo impulso alla propria opera benefica. Lui, per pura negligenza, si gettava sul letto senza mettere a dormire i libri e allorché il servitore, come pure era suo dovere, gli faceva notare quanto scomoda fosse la posizione dei libri e quanto grande il pericolo cui essi erano esposti, lui lo scacciava dalla sua stanza. No, non era caduto tanto in basso da perseverare per semplice caparbietà in un peccato che offendeva lo spirito della sua biblioteca. Posò la mano sulla gobba di Fischerle, ve la premette sopra amichevolmente come per dire: non prendertela, altri la gobba l’hanno in testa; che assurdità: non esistono altri, gli altri non sono che uomini, soltanto noi due fortunati non lo siamo; e ordinò: «E’ tempo che cominciamo a scaricare i libri, caro signor Fischerle!». «E’ quel che penso anch’io», replicò Fischerle, inghiottendo a fatica le lagrime. L’America emerse gigantesca e più bella che mai ai suoi occhi, e nessun filibustiere, anche se meschino come Kien, avrebbe mai potuto affondarla.

Morta di fame Una piccola festa di riconciliazione avvicinò ancor più i due. A parte il loro comune amore per la cultura e, rispettivamente, per l’intelligenza, v’erano molti campi in cui entrambi avevano fatto esattamente le medesime esperienze. Kien parlò per la prima volta della moglie pazza che teneva chiusa in casa, dove non poteva nuocere a nessuno. Era vero che là c’era la sua grande biblioteca, ma la moglie non aveva mai dimostrato il minimo interesse per i libri, sicché non era presumibile che, nella sua follia, sospettasse sia pur lontanamente il valore di ciò che la circondava. Un essere di alto sentire come Fischerle certo comprendeva quale dolore gli cagionasse la forzata lontananza dalla sua biblioteca. Tuttavia nessun libro avrebbe potuto trovare un rifugio più sicuro che tra le mani di quella pazza, dominata da un unico pensiero: quello del denaro. Lui teneva con sé soltanto un piccolo surrogato della biblioteca, e così dicendo accennò alle pile di libri che nel frattempo erano state deposte per terra. Fischerle annuì devotamente. «Eh sì», Kien riprese il racconto, «lei non ci crederà, ma esistono persone che pensano sempre al denaro. E’ stato un bel gesto da parte sua rifiutare il denaro anche se si trattava di denaro speso onestamente. Vorrei dimostrarle che il mio scatto di poco fa era dovuto soltanto a un malumore momentaneo o, forse, addirittura a un mio senso di colpa. Vorrei indennizzarla per le offese che lei ha dovuto subire in silenzio. Consideri come indennizzo quanto mi accingo a rivelarle sul modo in cui vanno effettivamente le cose a questo mondo. Mi creda, caro amico, esistono persone che non solo qualche volta ma sempre, in ogni ora, in ogni minuto, in ogni secondo della loro vita pensano al denaro! Vado più in là, e sostengo che può trattarsi persino di denaro altrui. Gente di questo stampo non arretra davanti a nulla. Sa che cosa voleva estorcermi mia moglie?». «Un libro!», esclamò Fischerle. «Questo si potrebbe ancora capire, anche se sarebbe pur sempre un delitto da condannare severamente. No: un testamento!». Fischerle aveva sentito parlare di casi del genere. Conosceva lui stesso una donna che aveva tentato qualcosa di simile. Per contraccambiare la fiducia di Kien gli raccontò bisbigliando quella storia misteriosa: prima però lo pregò caldamente di non tradirlo mai, ne andava della sua vita. Kien rimase non poco sbalordito quando seppe di chi si trattava: della moglie dello stesso Fischerle. «Ora posso confessarglielo», esclamò, «sua moglie, appena l’ho vista, mi ha subito ricordato la mia. Sua moglie non si chiama per caso Therese? Allora non ho voluto darle un dispiacere e per questo ho tenuto per me la mia impressione». «No, si chiama la pensionata, non ha un altro nome. Quando non era ancora la pensionata la chiamavano la magra, perché è tanto grassa». Il nome non corrispondeva, ma tutto il resto sì. La storia del testamento di Fischerle fece affiorare in lui sospetti di ogni genere. Non poteva darsi che Therese fosse, a sua insaputa, una meretrice di professione? La si poteva credere capace di qualunque bassezza. In apparenza andava a dormire presto, ma forse passava la notte in qualche Paradiso. Rivide l’orribile scena di lei che si spogliava in sua presenza e spazzava via i libri dal divano-letto. Solo una meretrice poteva arrivare a tanta impudenza. Mentre Fischerle parlava Kien confrontava i particolari – malattia, litania e tentato omicidio – con quelli che ben conosceva dai tempi della convivenza con Therese, e che aveva comunicato al nano pochi minuti prima. Non v’era dubbio, se le due donne non erano la stessa persona erano di certo gemelle. Più tardi, quando Fischerle cedendo a uno slancio improvviso gli propose di darsi del tu e attese ansiosamente, vibrando d’amicizia, la sua risposta, Kien non solo decise di esaudire quel suo desiderio, ma promise anche, quantunque il nano non fosse uno studioso e la sua istruzione dovesse ancora iniziare, di dedicargli il suo prossimo lavoro d’una certa importanza, forse proprio la rivoluzionaria opera sul Logos nel Nuovo Testamento. Nel corso della festa di riconciliazione Fischerle venne a sapere che in patria v’erano persone che parlavano il cinese meglio dei cinesi, e per di più un’altra dozzina di lingue. «Me l’ero immaginato», disse. Questo fatto, ammesso che fosse vero, gli fece veramente impressione; lui però non vi credette. Comunque non era cosa da poco che uno desse anche solo ad intendere d’avere tanto cervello. Una volta poi che ebbero cominciato a darsi del tu non la finirono più di scoprirsi punti in comune. Elaborarono il loro piano di redenzione per i prossimi giorni. Fischerle calcolò che in una settimana circa il capitale si sarebbe esaurito: poteva darsi che si presentasse gente con libri più pregiati del solito, e mandare alla rovina proprio questi sarebbe stato un delitto meritevole della pena di morte. Malgrado gli spiacevoli calcoli, Kien andò in estasi a tali parole. Una volta dato fondo al capitale si sarebbe passati a misure più energiche, aggiunse Fischerle assumendo una espressione di grande serietà. Che cosa intendesse con ciò non lo disse. A mo’ di caparra comunicò a Kien i suoi piani per il futuro più immediato. La missione avrebbe avuto inizio alle nove e trenta e sarebbe terminata alle dieci e trenta. A quell’ora la polizia era occupata altrove. Da precedenti esperienze Fischerle sapeva che i poliziotti di guardia al Theresianum venivano ritirati alle nove e venti e ritornavano sul posto alle dieci e quaranta. Gli arresti, disse, erano fissati per le undici, certo il caro amico ricordava il suo arresto della mattinata a cui era sfuggito per un soffio. Kien se ne ricordava, naturalmente: suonavano proprio le undici quando avevano alzato gli occhi verso il campanile. «Sei un acuto osservatore, Fischerle!», disse. «Per forza, caro amico: quando s’è vissuti tanto tempo circondati soltanto da gentaglia! Vivere non è certo un piacere, chiunque sia onesto ci rimette, all’infuori di me naturalmente: comunque tutti possono imparare». Kien si rese conto che Fischerle possedeva proprio ciò che mancava a lui, la conoscenza della vita pratica fin nei più particolari. Il mattino dopo, alle nove e mezzo in punto, era al suo posto, fresco, sollevato e pronto a tutto. Si sentiva più fresco perché non portava più con sé tutto il peso della sua erudizione, Fischerle s’era caricato anche il resto della biblioteca. «Nella mia testa c’è parecchio posto», aveva detto scherzando, «e se non basta sistemo qualcosa anche nella gobba!». Inoltre Kien era sollevato perché non l’opprimeva più l’odioso segreto di sua moglie, e pronto a tutto perché obbediva agli ordini di un altro. Alle otto e trenta Fischerle s’accomiatò da lui; voleva fare una piccola ricognizione. Se non tornava voleva dire che era tutto in ordine. Dietro la chiesa s’incontrò con i suoi dipendenti. La Fischerina, nonostante il licenziamento s’era presentata di nuovo. Teneva il naso parecchi centimetri più in alto del solito. Il principale le doveva i venti scellini della sua paga, e dipendeva dalla sua clemenza ricordarglielo o meno. Confidando in quel debito aveva osato avvicinarsi a lui. Il fognaiolo imprecava contro la moglie. Invece di contentarsi dei quindici scellini che le aveva portato, lei aveva subito chiesto dove fossero gli altri cinque. Sapeva sempre tutto. Lui l’adorava proprio per questo. Persino quella mattina l’aveva svegliato a scossoni chiedendogli conto del paio di scellini che lui s’era bevuto. «Questo succede», disse il cieco che da due ore, gemendo, andava su e giù dietro la chiesa e non aveva neppure preso il solito caffè mattutino, «questo succede quando si ha una donna sola. Un uomo ha bisogno di cento donne!». Poi s’informò sul conto della moglie del fognaiolo. Il suo peso gli dette da pensare, e ammutolì. Il venditore, che il sagrestano aveva strappato il giorno prima al suo sonno senza sogni, si ricordò soltanto ora del pacco dimenticato sotto il banco. Si mise a cercarlo pieno di paura benché si trattasse soltanto di libri. Lo trovò, Fischerle era già fuori e lo salutò con un cenno del naso. «Signore e signori», cominciò il principale, «non abbiamo tempo da perdere. Oggi è un giorno importante. La nostra impresa sta facendo enormi progressi. Il giro d’affari aumenta. Fra pochi giorni sarò un uomo arrivato. Fate il vostro dovere e non mi dimenticherò di voi!». Guardò il fognaiolo con aria inespressiva, il cieco con un’occhiata carica di promesse, la Fischerina con clemenza e il venditore a domicilio con disprezzo. «Il mio socio comparirà fra mezz’ora. Nel frattempo vi darò alcune istruzioni in modo che possiate orientarvi. Chi non saprà orientarsi verrà licenziato!». Li prese da parte uno dopo l’altro nello stesso ordine del giorno prima e impresse loro in mente le somme assai più cospicue che avrebbero dovuto chiedere oggi. Il socio d’affari non riconobbe il fognaiolo, cosa tutt’altro che strana perché al posto della faccia costui aveva una luccicante bovina. Alla Fischerina chiese se non fosse già stata là il giorno avanti, al che lei, secondo le istruzioni ricevute, si mise ad imprecare con violenza contro la sua sosia. Quella donna senza cuore impegnava libri ormai da anni, mentre lei non l’aveva mai fatto. Kien, favorevolmente impressionato dalla sua indignazione, le credette e pagò ciò che lei chiedeva. Nel cieco, Fischerle aveva riposto le speranze di maggior lucro. «Prima gli dica quanto vuole. Poi aspetti qualche istante. Se lui sta a pensarci gli pesti i piedi finché non lo vedrà bene attento e gli dica all’orecchio: tanti saluti da sua moglie Therese. E’ morta». Il cieco avrebbe voluto sapere qualcosa di costei, gli dispiaceva che il suo peso, presumibilmente cospicuo, gli fosse stato sottratto dalla morte. Si rammaricava per ogni donna defunta; gli uomini, per morti che fossero, non destavano in lui la minima compassione. Per le donne grasse che non avrebbero più potuto appartenergli diventava nei giorni fortunati un profanatore di cadaveri e nei giorni di bottonella un semplice poeta. Oggi Fischerle tagliò corto alle sue domande con un accenno al suo futuro privo di bottoni. «Prima liberiamoci dei bottoni, signor mio, poi penseremo alle donne! Bottoni e donne non s’accordano!». Con simili prospettive gli fu facile portare la defunta Therese fino a Kien. Il suo nome non cadde nell’oblio durante il percorso dal Mercato del fieno dietro la chiesa fino al vestibolo del reparto libri. L’intelligenza e la memoria del cieco, da quando era stato ferito in guerra, non andavano oltre il nome e il tipo delle diverse donne. Allorché, gli occhi fissi sulle natiche dell’ignuda Therese, il cieco comparve sulla soglia della porta a vetri, sbottò a dire il suo nome, corse incontro a Kien e, per eseguire gli ordini del principale, gli pestò, quantunque in ritardo, i piedi. Kien cambiò colore. La vide arrivare. E’ evasa. La sua sottana blu è fiammante. Quella pazza l’ha tinta di blu e inamidata, tinta e inamidata. Anche Kien è blu, ma afflosciato. Lei lo sta cercando, ha bisogno di lui, ha bisogno di nuove forze per la sua sottana. Dov’è la polizia? Bisogna arrestarla subito, è un pericolo pubblico, ha abbandonato la biblioteca, polizia, polizia, perché non viene la polizia? Ahimè, la polizia arriva solo alle dieci e quaranta, che disgrazia, se ci fosse Fischerle, almeno Fischerle, lui non ha paura, ha per moglie la sua gemella, lui saprebbe cosa fare, la sua l’ha liquidata, lui la distruggerebbe. Ah, la sottana blu, è orribile, perché non muore, perché non muore? Deve morire, adesso, sulla porta a vetri, prima che lo raggiunga, prima che lo batta, prima che apra la bocca, dieci libri per la sua morte, cento, mille, mezza biblioteca, tutta la biblioteca, quella che ha in testa Fischerle, purché lei muoia, per sempre, è tanto, ma lui lo giura, darà tutta la biblioteca ma lei dev’essere morta, morta, assolutamente morta! «Purtroppo è morta», dichiara il cieco con sincera afflizione, «e le manda tanti saluti». Kien si fece ripetere almeno dieci volte la fausta notizia. I particolari non gli interessavano, del fatto, del puro e semplice fatto non riusciva a saziarsi: si pizzicava le ossa, si chiamava per nome. Quando si rese conto che non aveva sentito male, non aveva sognato e non aveva equivocato sulla persona, domandò se la notizia fosse proprio sicura, e da chi l’avesse appresa il signore. Per gratitudine si mostrò cortese. «Therese è morta e le manda tanti saluti», ripeté il cieco stizzito. Al cospetto di quell’uomo il suo sogno si riduceva pelle e ossa. La fonte era sicura, disse, ma non poteva nominarla. Per il pacco chiedeva quattromilacinquecento scellini, però se lo doveva riportare via. Kien s’affrettò a pagare il suo debito in denaro. Temeva che l’uomo potesse chiedergli la biblioteca che lui aveva giurato di dargli. Che fortuna che quella mattina Fischerle l’avesse presa tutta lui. A Kien non sarebbe stato possibile mantenere la promessa su due piedi: Fischerle non era presente, e lui dove poteva prendere i libri? In ogni caso pagò in fretta perché il latore della lieta novella sparisse subito. Se Fischerle, che lui non sapeva dove fosse, avesse fiutato un pericolo, sarebbe venuto ad avvisarlo e la biblioteca sarebbe stata perduta. Giuramento o no, una biblioteca valeva più di qualsiasi giuramento. Il cieco impiegò molto tempo a contare il denaro. Con somme simili una mancia fruttava parecchio, lui avrebbe anche potuto chiederla ma, ormai, non era più un mendicante. Era impiegato presso una ditta che aveva un grosso giro d’affari. Al suo principale voleva bene perché aveva posto fine alla schiavitù dei bottoni. Per esempio, se adesso otteneva una mancia di cento scellini poteva comprarsi subito un paio di donne in una volta. Il principale non poteva aver niente in contrario. Tese per abitudine la mano vuota e disse che lui non era un mendicante, ma che comunque si permetteva di chiedere… Kien fissava la potta, gli parve che un’ombra si stesse avvicinando, cacciò in mano all’uomo una banconota, per caso proprio da cento scellini, l’allontanò da sé e supplicò: «Vada via per favore, presto, presto!». Al cieco non rimase tempo di pentirsi della sua poca accortezza (avrebbe potuto chiedere di più): era troppo preso dalle conseguenze del suo colpo di fortuna. Giunse parlando forte alla presenza di Fischerle. A costui interessava di più l’esito del colpo che non i vezzeggiativi del cieco, il quale non stava più nella pelle per l’affetto e il denaro. Esitò un poco prima di prendergli il denaro di mano, non glielo strappò: era sempre troppo presto per scoprire l’esiguità della somma e la grandezza della delusione. Fu sopraffatto dallo sbalordimento per quel suo successo al cento per cento. Ricontò parecchie volte il denaro, ripetendo ogni volta: «Che carattere! Ne ha di carattere, l’uomo! Fischerle, devi andarci piano con un carattere simile!». Il cieco pensò che si riferisse a lui e si ricordò istantaneamente dei cento scellini che aveva nella mano sinistra. Li mise sotto il naso del nano ed esclamò: «Guardi un po’ la mia mancia, principale. E non gliel’ho chiesta in elemosina. Uno che dà cento scellini di mancia è una brava persona!». E Fischerle, per la prima volta da quando dirigeva la sua nuova ditta, si lasciò sfuggire una parte del bottino tanto era preso dal carattere del suo nemico. A questo punto si fece avanti il venditore che, come il giorno prima, era l’ultimo della serie. La sua faccia infelice dispiacque al cieco. Buono com’era per natura, gli consigliò di chiedere una mancia. Il principale sentì. Non appena il venditore, quella serpe infida che pensava sempre e solo al proprio interesse, gli venne vicino, Fischerle si risvegliò automaticamente dal suo sogno e l’investì: «Non ci provi nemmeno!». «Ma le pare!», replicò l’infelice. Dal giorno prima, e nonostante il breve sonno, era assai deperito. Con la forza non otteneva niente, di questo s’era reso conto. Credeva tuttora, fermamente e ostinatamente, che il vero pacco fosse nascosto in chiesa, ma così bene che nessuno poteva trovarlo. Per questo motivo aveva abbandonato quella strada e ne aveva presa un’altra. Avrebbe voluto diventare piccolo come Fischerle per riuscire a penetrare nei suoi pensieri, anzi ancora più piccolo, tanto piccolo da poter entrare nei pacchi misteriosi e da poterne dirigere la vendita dall’interno. «Che pazzo sono», si disse, «più piccolo di un nano non c’è nessuno». Ma che la statura del nano fosse in stretta relazione col nascondiglio del pacco era una cosa che non osava mettere in dubbio. Era troppo intelligente. Mentre gli altri dormivano lui vegliava. Se alle ore di sonno s’aggiungevano quelle di veglia risultava di quanto lui fosse più intelligente degli altri. Lui lo sapeva, era troppo intelligente per non saperlo, ma avrebbe fatto tanto volentieri a meno della sua intelligenza, diciamo per quindici giorni, dormendo per tutto quel tempo come ogni altra persona, in uno di quei sanatori dotati di tutte le comodità che ci sono al giorno d’oggi: un uomo come lui gira dappertutto e sente parlare di una quantità di cose; anche gli altri ne sentono parlare, ma poi dormono e si dimenticano tutto, lui invece non dimentica niente perché non può dormire, per questo s’imprime nella mente ogni parola. Il cieco gli sta facendo dei cenni dietro le spalle di Fischerle: tiene in alto il biglietto da cento scellini e muove silenziosamente le labbra ripetendogli il consiglio della mancia. Trema all’idea che il venditore torni indietro malcontento: vorrebbe discorrere un po’ con lui delle sue donne. Il principale non capisce niente di quell’argomento, è un nano deforme. Il fognaiolo è un vigliacco per via della moglie: non va con nessun’altra, ubriacarsi è l’unica cosa che fa oltre ad andare con la moglie. Agli altri è meglio non parlare del nuovo impiego, quelli vogliono tutti qualcosa e in men che non si dica a uno, di tutti i suoi quattrini, non resta in mano neanche una donna. Il venditore è l’unico. Quando gli si parla di qualcosa quello non dice una parola, tace, con lui si può discorrere meglio che con tutti gli altri. Nel frattempo quell’unico con cui si può discorrere cerca di tenere a mente il suo incarico. Deve chiedere la somma colossale di duemila scellini. Se il socio gli chiede se è già stato là il giorno prima, lui dovrà dire: «Si capisce, con questo stesso pacco! Non si ricorda di me?». Nel caso che lo spilungone dia segni d’insofferenza il venditore dovrà ritirarsi in tutta fretta, senza soldi, in caso di necessità potrà anche lasciare là il pacco. Lo spilungone infatti ha l’abitudine di estrarre in men che non si dica la rivoltella e di sparare. Il pacco può restare là. I libri che contiene non hanno un gran valore. Fischerle regolerà i conti col socio quando costui sarà tornato normale e si potrà parlargli. Con questo piano diabolico Fischerle pensava di sbarazzarsi del venditore. Si vedeva davanti Kien furibondo, vedeva la sua indignazione per l’imprudente richiesta e per la ricomparsa del venditore con gli stessi libri. Vedeva se stesso, Fischerle, stringersi nelle spalle e licenziare il suo impiegato con un sogghigno affabile. «Non vuole più vederla. Che posso farci io? Purtroppo sono costretto a licenziarla. Dice che lei l’ha offeso. Cosa gli ha fatto? A questo punto non c’è più rimedio. Può andare. Appena mi metterò in affari con qualcun altro l’assumerò di nuovo, diciamo fra un anno o due. Intanto stia bene, vedrò cosa posso fare per lei. Ho sempre avuto un debole per i venditori a domicilio. Lui dice che lei è un uomo volgare, una serpe infida che pensa solo al proprio interesse. Che ne so io di cosa intende dire? Vada pure». Fischerle aveva calcolato tutto: aveva solo sottovalutato l’effetto che la ferale notizia avrebbe avuto su Kien. Il venditore trovò un socio stravolto che sorrideva senza posa anche nel trattare gli affari più seri, che sborsò sorridendo la somma colossale e alla fine, non senza un leggero sorriso, dichiarò: «La sua faccia non m’è nuova». «Neanche a me la sua», replicò sgarbatamente il venditore. Ne aveva abbastanza di vedersi trattare a sorrisi, quel socio lo stava prendendo in giro oppure era pazzo. Dal momento che maneggiava somme tanto cospicue la prima ipotesi pareva la più verosimile. «Dove ci siamo conosciuti?», chiese Kien sempre sorridendo. Sentiva il bisogno di parlare della sua fortuna con una persona inoffensiva, con uno al quale non avesse promesso alcuna biblioteca e che non lo conoscesse. «Ci siamo conosciuti in chiesa», rispose il venditore, disarmato dal cordiale interessamento dell’altro. Voleva vedere come quel gran signore avrebbe reagito al sentir nominare la chiesa. Forse, di punto in bianco, avrebbe trasferito nelle sue mani l’intero affare. «In chiesa», ripeté Kien, «naturalmente, in chiesa». Non aveva la minima idea di quale chiesa stesse parlando l’altro. «Ecco, deve sapere… che è morta mia moglie». Il suo viso scarno era raggiante. Si protese in avanti, il venditore indietreggiò involontariamente e, spaventatissimo, sbirciò le mani e le tasche di Kien. Le mani erano vuote, quanto alle tasche non si poteva sapere. Kien lo seguì; davanti alla porta a vetri afferrò per una spalla l’uomo che tremava come una foglia e gli sussurrò all’orecchio: «Era un’analfabeta». Il venditore non capiva niente, rabbrividì da capo a piedi e mormorò con fervore: «Condoglianze, condoglianze!». Tentò di svincolarsi ma Kien non lo lasciò andare e annunciò sorridendo che egual sorte minacciava tutti gli analfabeti: ognuno di essi la meritava, ma nessuno l’aveva meritata quanto sua moglie, della cui morte lui aveva avuto notizia pochi minuti prima. La morte attendeva chiunque, tanto più quindi gli analfabeti! Così dicendo agitò il pugno libero e la sua faccia si stirò assumendo l’espressione severa che aveva normalmente. Il venditore cominciò a capire che l’uomo lo stava minacciando di morte, interruppe la sua giaculatoria, chiamò aiuto gemendo forte e lasciò cadere il pacco sui piedi del suo terribile avversario che lì per lì fu costretto dal dolore a lasciare la presa. Allora lui serrò le mascelle e sgattaiolò via in gran fretta; se smetteva di gridare forse lo spilungone non gli sparava alle spalle. Dentro di sé l’implorò caldamente di non sparare finché lui non avesse voltato l’angolo, assicurò che non l’avrebbe fatto mai più. Davanti al Theresianum si esaminò gli abiti per vedere se non fosse stato ferito senza accorgersene. Ebbe la presenza di spirito di chiedere la sua provvigione a Fischerle prima di licenziarsi. Soltanto dopo che il nano, pieno d’entusiasmo per la fortuna che lo seguiva anche là dove lui non la cercava, ebbe contato i duemila scellini e gli ebbe pagato i suoi venti, il venditore riprese a tremare e raccontò fra i singhiozzi che, senza che lui gli avesse rivolto una sola domanda, il ricco socio gli aveva sparato addosso e l’aveva quasi colpito. Lui rinunciava a una simile rappresentanza. Inoltre Fischerle doveva risarcirlo per lo spavento patito. Il nano gli promise sei rate mensili di cinquanta scellini l’una, la prima pagabile entro un mese a partire da quel giorno. (A quel tempo sarebbe stato in America da un pezzo). Il venditore si disse d’accordo e se n’andò. Kien raccolse i libri che erano caduti. La loro sorte l’addolorava, ancor più l’addolorava il fatto che l’uomo si fosse dileguato, avrebbe voluto dirgli qualche altra cosa. Gli lanciò dietro, sottovoce e teneramente, queste parole: «Ma è già morta, è una notizia sicura, mi creda, non ci può sentire!». Non osava parlare più forte. Sapeva perché l’uomo stava fuggendo così: di quella donna avevano paura tutti. Ieri, quando aveva parlato di lei con Fischerle, costui era impallidito. Il suo nome diffondeva il terrore, bastava sentirlo per rimanere pietrificati. Fischerle, il rumoroso, il chiassoso Fischerle, bisbigliava parlando della sua gemella e lo sconosciuto a cui Kien aveva pagato il riscatto dei libri non credeva che lei fosse morta. Perché fuggiva? Perché era così vile? Eppure lui gli avrebbe dimostrato che non poteva non essere morta, la sua morte era ovvia, era la conseguenza della sua natura o per meglio dire della sua condizione. Lei aveva consumato se stessa, aveva divorato se stessa per avidità di denaro. Poteva darsi che avesse dei viveri in casa, chissà in quanti posti aveva ammassato provviste: in cucina, nella sua vecchia stanza di domestica (lei in realtà non era altro che una governante), sotto i tappeti, dietro i libri. Ma tutto finisce con l’esaurirsi. Per settimane s’era nutrita di quei viveri, poi essi erano terminati. Lei s’era accorta d’aver dato fondo a tutte le sue provviste ma non s’era coricata aspettando la morte. Al suo posto lui avrebbe fatto così. Avrebbe preferito qualunque morte a una vita indegna d’esser vissuta. Lei invece, spinta alla follia dall’ossessione di trovare il testamento, aveva divorato se stessa brano a brano. Aveva avuto il testamento davanti agli occhi fino all’ultimo istante. A brandelli s’era strappata la carne di dosso, quella iena: era vissuta riempiendosi la bocca del proprio corpo, divorando la carne sanguinolenta prima ancora di cuocerla; secondo quale ricetta avrebbe potuto cucinarla? Poi era morta ridotta già ad uno scheletro. La gonna copriva rigida le sue ossa spolpate, pareva che l’avesse gonfiata una tempesta. In realtà essa era quella di sempre, la tempesta aveva spazzato via soltanto lei da sotto la gonna. L’avevano trovata perché un giorno era stata sfondata la porta dell’appartamento. Quel fedele, brutale lanzichenecco, il portiere, indagava da tempo sull’assenza del suo padrone. Aveva bussato ogni giorno ed era preoccupato perché non riceveva risposta. Aveva aspettato parecchie settimane prima di permettersi di forzare la serratura. L’appartamento era chiuso a chiave dall’esterno. Una volta entrato, aveva trovato il cadavere e la sottana. Essi erano stati deposti insieme nella bara. L’indirizzo del professore non era noto ad alcuno, altrimenti l’avrebbero informato del funerale. Era stata una fortuna per lui: invece di piangere sarebbe scoppiato a ridere alla presenza di tutti i passanti. Aveva seguito il feretro soltanto il portiere, l’unico che avesse partecipato al lutto, e anche lui l’aveva fatto solo per fedeltà verso il suo padrone. Un grosso cane da macellaio era balzato sulla bara, l’aveva gettata a terra e ne aveva strappato la sottana inamidata. Mordendola s’era insanguinato tutto il muso. Il portiere s’era detto che la sottana era una parte di lei, in vita le premeva più del suo stesso cuore; ma poiché il cane pareva arrabbiato dalla fame lui non aveva osato ingaggiare una lotta con la bestia. S’era limitato a seguire la scena, e pieno d’emozione aveva visto la sottana scomparire pezzo per pezzo nelle sue fauci. Lo scheletro aveva continuato il suo cammino sul carro. Poiché nessuno l’accompagnava più, esso era stato gettato sul gran monte di rifiuti fuori della città; nessun cimitero di nessuna confessione l’avrebbe accolto. Poi era stato mandato a Kien un messaggero con la notizia della sua orribile fine. A questo punto Fischerle entrò dalla porta a vetri e disse: «Vedo che sta già per andarsene». «Ho fatto bene a decidere di rinchiuderla», disse Kien. «Rinchiudere me? Le consiglio di non provarci!». Fischerle si spaventò. «Se l’è meritata, quella morte. Ancor oggi non so di sicuro se fosse in grado di leggere e scrivere correntemente». Fischerle comprese. «E la mia non sa giocare a scacchi. Che ne dice? Un’indecenza, no?». «Mi sarebbe piaciuto conoscere qualche particolare. Le notizie sono così scarse! L’uomo che m’ha garantito il fatto mi è scappato via». A dire il vero l’aveva mandato via lui, ma si vergognava di confessare a Fischerle il voto mostruoso che aveva fatto. «E quell’asino ha piantato qua il pacco. Dia pure a me! Porto già tutto, posso portare anche questo». Dicendo queste parole si ricordò dell’affratellamento del giorno prima e si scusò con Kien per avergli dato del «lei»: era accaduto soltanto a causa del rispetto che gli aveva sempre tributato. In realtà, essendo ormai quattro volte più ricco di lui, cominciava già a disprezzarlo. Gli rivolgeva la parola per pura bontà, e se non fosse stato per l’ultimo quinto del capitale avrebbe taciuto. Inoltre l’abitazione di Kien cominciava a destare il suo interesse. Forse la moglie era morta davvero. Tutti gli indizi parlavano a favore di quest’ipotesi. Se fosse stata ancora in vita si sarebbe riportata a casa il marito già da tempo. Qualsiasi moglie si riporta a casa un marito così stupido e con tanti soldi per le mani. Non credeva affatto che lei fosse pazza, tutti i particolari che Kien raccontava sul suo conto erano perfettamente normali. Che quell’uomo debole e magro fosse riuscito a imprigionare qualcuno, e per giunta una donna tanto energica, gli pareva impossibile e ridicolo. Quella avrebbe sfondato la porta, si poteva starne sicuri, tanto più se era pazza. Dunque era morta. Ma che ne sarebbe stato ora dell’appartamento? Se conteneva oggetti di valore, si poteva senz’altro portar via qualcosa; se c’erano soltanto libri, per lo meno bisognava impegnarli. Quanto all’appartamento, si poteva rivenderlo in cambio di una forte buonuscita. In ogni caso era accaduta una disgrazia e un capitale, piccolo o grande che fosse, giaceva del tutto improduttivo. Per la strada Fischerle alzò lo sguardo verso Kien con aria preoccupata e gli chiese: «Dunque, caro amico, che facciamo adesso dei bei libri che hai a casa? La puttana se n’è andata e i libri sono là soli». Unì strettamente le dita tese della mano destra, le afferrò con la sinistra e le piegò di colpo, come se lui personalmente avesse torto il collo alla puttana. Kien gli fu grato per quest’ammonimento, che s’era aspettato di sentirsi dare. «Rassicurati», disse, «senza dubbio il portiere ha ben richiuso l’appartamento. E’ la persona più onesta di questo mondo. In caso contrario potrei forse andarmene così tranquillamente a passeggio con te? Se peraltro quella donna fosse davvero una meretrice è cosa che non mi sentirei di affermare con sicurezza». Lui era giusto, lei morta, e gli sembrava opportuno non condannarla senza prove sicure. Inoltre si vergognava di non essersi accorto per otto anni della sua vera professione. «Non esistono donne che non siano puttane!». Fischerle, come al solito, aveva trovato la soluzione migliore. Era il frutto degli anni trascorsi al Paradiso. Kien la trovò subito convincente. Lui non aveva mai toccato una donna. Poteva esservi, a prescindere dalla scienza, una miglior giustificazione a ciò del semplice fatto che le donne son tutte quante meretrici? «Purtroppo, devo darti ragione», disse, per conferire al proprio assenso l’aspetto di un’esperienza personale. Ma Fischerle ne aveva abbastanza di puttane e passò a parlare del portiere. Dubitava della sua onestà. «Prima di tutto», dichiarò, «di persone oneste non ne esistono, eccetto noi due naturalmente; in secondo luogo non esistono portieri onesti. Di che vive un portiere? Di ricatti. E perché? Perché altrimenti non potrebbe vivere. L’appartamento da solo non basta a sfamare un portiere. Un altro forse, ma non un portiere. Da noi c’era un portiere che pretendeva da mia moglie uno scellino per ogni cliente. Se lei qualche notte tornava a casa senza il cliente – nel mestiere tutto è possibile lui le chiedeva dov’era il cliente. Non c’è, rispondeva lei. Lo tiri fuori o io la denuncio, diceva lui. Allora lei scoppiava a piangere. Dove poteva trovarlo il cliente? Tante volte andavano avanti così per un’ora, e alla fine lei doveva tirarlo fuori, e magari alle volte era un tizio piccolo così», Fischerle tenne il palmo della mano all’altezza delle sue ginocchia, «e si sarebbe potuto benissimo tenerlo nascosto se quell’individuo fosse stato un po’ comprensivo. Peccato per lo scellino! E di chi era il danno? Mio, naturalmente!». Kien gli spiegò che in quel caso si trattava di un lanzichenecco, un uomo leale, fidato e forte come un orso, che non lasciava varcare la porta a mendicanti, venditori a domicilio e altra gentaglia. Era un piacere vedere come trattava quei furfanti, molti dei quali non sapevano nemmeno leggere e scrivere. Parecchi li aveva ridotti letteralmente degli storpi. Per ripagarlo della quiete di cui poteva godere grazie alla sua opera – perché per gli studi è necessaria quiete, quiete e ancora quiete – lui gli aveva fissato un piccolo compenso di cento scellini al mese. «E quello là li accetta! Quello là li accetta!». La voce di Fischerle diede nel falsetto. «Un ricattatore, dico bene? Un autentico ricattatore! Bisogna farlo arrestare, e subito! Arrestare, ti dico, arrestare!». Kien tentò di rabbonire il suo amico. Non doveva paragonare un uomo così ordinario con se stesso. Certo era una mancanza di finezza accettare del denaro per un servizio reso, ma quella deprecabile abitudine s’era ormai radicata nel popolino e s’andava estendendo anche alle persone colte. Platone aveva lottato inutilmente contro una simile tendenza. Per quel motivo Kien aveva sempre odiato l’idea d’accettare una cattedra universitaria. Per i suoi lavori scientifici non aveva mai voluto un centesimo. «Platone è bravo», ribatté Fischerle, che sentiva quel nome per la prima volta. «Lo conosco Platone. Platone è un uomo ricco, e anche tu sei ricco. Come lo so? Lo so perché soltanto un uomo ricco può parlare così. Ma ora guarda un po’ me. Io sono un povero diavolo, non ho niente, non sono niente, non sarò mai niente, eppure non accetto niente. Questo sì che è carattere! Quel tuo portiere, quel ricattatore, intasca i cento scellini, un patrimonio dico io, e di giorno bastona i poveri diavoli. Di notte però… Scommettiamo che di notte dorme sodo? Se arriva uno scassinatore lui non s’accorge di niente, se ne sta a letto e dorme, i cento scellini li ha già in tasca e i libri li lascia rubare tranquillamente. Io queste cose non le posso vedere, è una porcheria, dico bene?». Kien disse di non sapere se il portiere avesse il sonno duro. Era probabile di sì, dato che tutto in lui era duro ad eccezione di quattro canarini che dovevano cantare ogni volta che lui ne aveva voglia. Di essi parlò per amore di completezza. D’altronde quell’uomo esercitava la sua vigilanza in maniera veramente fanatica: s’era aperto uno speciale spioncino a cinquanta centimetri da terra per osservare meglio chi entrava e chi usciva, e stava là inginocchiato tutto il giorno. «Gente simile io non la sopporto!», esplose Fischerle. «Sono i migliori spioni. Che razza di spione! Che razza di mascalzone! Se mi capitasse fra le mani, amico mio, faresti tanto d’occhi al vedere come te lo concio, lo stendo a terra col dito mignolo! Le spie non le posso soffrire! Sono o non sono canaglie le spie? Sì che sono canaglie, dico bene?». «Non credo proprio che il mio portiere abbia mai fatto la spia di professione», disse Kien, «sempre ammettendo che questa professione esista realmente. Lui era funzionario di polizia, ispettore se non erro, e ormai è in pensione da molto tempo». In questo caso Fischerle rinuncia subito. Uno scasso del genere non gli interessa: non vuole avere a che fare con la polizia, prima d’andare in America, e tanto meno con un poliziotto in pensione, quelli in pensione sono i peggiori. Per pigrizia s’accaniscono contro gli innocenti. Non potendo più arrestare nessuno diventano dei cani arrabbiati alla prima occasione e a furia di bastonate storpiano un povero storpio inoffensivo. Certo che è un peccato: rifornirsi ancor meglio per l’America non guasterebbe. In America non ci si va una volta sola. Per un campione mondiale non è bello arrivare come un mendicante. Sì, campione non lo è ancora, ma lo diventerà e allora la gente potrebbe dire: è venuto a mani vuote, perché ora dovrebbe averle piene? E’ meglio che gli portiamo via tutto. In America, nonostante il suo titolo, Fischerle non si sente affatto sicuro. Furfanti ce ne sono in ogni parte del mondo, e in America tutto è colossale. Di tanto in tanto si caccia il naso sotto l’ascella sinistra e si ritempra annusando il suo denaro, che conserva in quel punto. Ciò lo consola, e il suo naso, dopo che ha indugiato là qualche istante, si risolleva di ottimo umore. Kien però non si sentiva più tanto felice per la morte di Therese. Le parole di Fischerle gli avevano ricordato il pericolo cui era esposta la sua biblioteca. Tutto lo spingeva a tornarvi, il bisogno che essa aveva di lui, il dovere, il lavoro. Che cosa lo tratteneva qui? Un nobile amore. Finché gli rimaneva una goccia di sangue nelle vene avrebbe continuato a liberare degli infelici, a riscattarli dal rogo, a salvarli dalle fauci di quel maiale. A casa l’attendeva, inevitabilmente, l’arresto. Bisognava guardare bene in faccia la realtà. Lui era corresponsabile della morte di Therese. La maggior parte della colpa ricadeva su di lei, lui però l’aveva rinchiusa. Secondo la legge avrebbe dovuto farla ricoverare in un manicomio. Ringraziò il cielo di non aver seguito la legge. In manicomio lei sarebbe stata ancora viva. Lui l’aveva condannata a morte, la fame e l’avidità di lui avevano eseguito la condanna. Lui non negava neppure uno iota di ciò che aveva fatto. Era pronto ad assumersene le responsabilità davanti al tribunale. Il suo processo non poteva che concludersi con un travolgente verdetto d’assoluzione. Era vero d’altra parte che l’arresto di uno studioso tanto noto, probabilmente il più grande sinologo dell’epoca, avrebbe destato uno spiacevole rumore, cosa da evitarsi nell’interesse della scienza. Il principale testimone a discarico sarebbe stato proprio il portiere. Kien si fidava di lui, tuttavia le riserve di Fischerle sulla venalità di una simile natura avevano sortito il loro effetto. I lanzichenecchi passano dalla parte del signore che li paga meglio. Il nocciolo della questione era rappresentato dalla parte avversa. Esisteva questa parte avversa? E aveva interesse a corrompere il portiere con somme irresistibili? Therese non aveva nessuno. Non l’aveva mai sentita parlare di parenti. Nessuno aveva seguito il suo funerale. Se nel corso del processo si fosse presentato qualcuno sostenendo d’essere suo parente, lui, Kien, avrebbe richiesto un’indagine minuziosa sulla sua provenienza. Comunque, non era da escludersi che potessero esservi dei parenti. Aveva intenzione di parlare col portiere prima del suo arresto. Un aumento del suo compenso a duecento scellini avrebbe certo conquistato del tutto quello spione, come diceva tanto bene Fischerle. Con ciò non ci si rendeva colpevoli né di corruzione né di altri reati: il portiere doveva dichiarare la verità, la pura verità. In nessun caso era ammissibile che colui che era probabilmente il più grande sinologo dell’epoca venisse punito a causa di una donna di bassa estrazione, di una donna di cui non si poteva nemmeno dire con certezza se sapesse leggere e scrivere correntemente. La scienza esigeva la sua morte. Essa esigeva anche la piena assoluzione e riabilitazione di Kien. Gli studiosi del suo rango si possono contare sulle dita di una mano. Di donne, purtroppo, ve ne sono a milioni. E per di più Therese rientrava nel novero delle più insignificanti. Innegabilmente la sua morte era stata quanto di più straziante ed atroce si potesse immaginare. Ma di essa, proprio di essa, l’unica responsabile era proprio lei. Dipendeva da lei lasciarsi morire tranquillamente di fame. Migliaia di penitenti indiani erano morti prima di lei di quella lenta morte, convinti che essa servisse alla loro redenzione. Il mondo li ammira ancor oggi. Nessuno depreca il loro destino, e il loro popolo, il più saggio dopo quello cinese, li chiama santi. Perché Therese non s’era imposta di fare altrettanto? Era troppo attaccata alla vita. La sua avidità non conosceva limiti, e lei l’aveva prolungata di ogni spregevole secondo che aveva potuto. Avrebbe divorato i suoi simili se solo ne avesse avuto accanto qualcuno. Lei odiava gli uomini. Chi si sarebbe sacrificato per lei? Nel momento del bisogno s’era ritrovata sola e abbandonata come meritava. Allora era ricorsa all’unico mezzo che ancora le rimanesse: aveva divorato il suo stesso corpo, brano per brano, striscia per striscia, pezzo per pezzo, mantenendosi in vita tra sofferenze inenarrabili. Il testimone non aveva trovato lei, aveva trovato le sue ossa tenute insieme da una gonna blu inamidata che lei soleva sempre portare. Aveva meritato quella fine. La difesa di Kien era divenuta una puntuale requisitoria contro Therese. Dopo la sua morte lui l’annientava una seconda volta. Sedeva già da tempo con Fischerle nella stanza di un albergo dov’erano entrati quasi senza accorgersene. La rigorosa concatenazione dei suoi pensieri non s’era interrotta un solo istante. Egli taceva ed esaminava ogni minima circostanza. Affrontò un testo esemplare composto dalle parole che la donna divorata aveva usato in vita. Lui era un maestro in fatto di brillanti congetture, e garantiva l’esattezza di ogni singola parola. Certo gli rincresceva immensamente dover sprecare tanta precisione filologica per un semplice assassinio. Agiva così per cause di forza maggiore e prometteva al mondo di ripagarlo ampiamente con le opere che avrebbe scritto nell’immediato futuro. Colei del cui caso si stava discutendo gli aveva per l’appunto impedito di dedicarsi al suo lavoro. Ringraziava il presidente per il trattamento oltremodo premuroso che lui, come imputato d’omicidio, non si sarebbe mai atteso. Il presidente s’inchinava e dichiarava con squisita cortesia di sapere bene che cosa spettasse al più grande sinologo dell’epoca. Il «probabilmente», da cui Kien, parlando di se stesso, faceva precedere l’espressione: «il più grande sinologo», veniva omesso dal presidente in quanto assolutamente superfluo. Quel pubblico riconoscimento riempiva Kien di legittimo orgoglio, che conferiva alla sua requisitoria contro Therese un tono alquanto più mite. «E’ giusto riconoscerle alcune attenuanti», disse a Fischerle. Costui sedeva sul letto accanto a Kien dolendosi per lo scasso sfumato e annusando il suo denaro. «Nemmeno nel periodo peggiore, quando il suo carattere era ormai completamente fiaccato dalla fame, ha osato toccare un libro. E si noti che si tratta di una donna ignorante». Fischerle s’indispettì perché capiva ciò che l’altro intendeva, non poteva fare a meno di capire ogni sciocchezza; maledisse la propria intelligenza e soltanto per forza d’abitudine replicò ai discorsi del povero diavolo che gli stava accanto. «Amico mio», disse, «tu sei pazzo. Uno non può fare quel che non conosce. Credi forse che non si sarebbe mangiata di buon appetito i libri più belli se solo avesse saputo quanto questo sia semplice? Io dico che se il libro di cucina con le centotré ricette compilato da quel nostro maiale del Theresianum fosse stato già stampato… be’, preferisco non continuare». «Che intendi dire?», chiese Kien con gli occhi sbarrati. Sapeva benissimo che cosa intendeva dire il nano, ma voleva che un altro pronunciasse quella terribile verità sulla sua biblioteca, non lui, neppure mentalmente. «Quel che ti posso dire, amico mio, è solo questo: che andando a casa avresti trovato il tuo appartamento vuoto, ripulito, senza più un foglio, non parliamo poi dei libri». «Sia lodato il cielo!». Kien respirò profondamente. «Lei è ormai sottoterra e quel libro vergognoso non uscirà tanto presto. Nel mio processo saprò ben io portare il discorso su quest’argomento. Il mondo mi sentirà! Intendo rivelare senza alcun riguardo tutto ciò che so. Uno studioso avrà pure voce in capitolo!». Dopo la morte di sua moglie il linguaggio di Kien s’era fatto più ardito e persino le difficoltà che l’attendevano non servivano che a stimolare a nuove imprese il suo spirito combattivo. Trascorse con Fischerle un pomeriggio pieno d’eccitazione. Quand’era di umore malinconico il nano si sentiva incline agli scherzi. Si fece raccontare per filo e per segno la faccenda del processo e non sollevò mai obiezioni. A Kien dette gratis diversi buoni consigli. Non aveva qualche parente che potesse aiutarlo? Un processo per omicidio non era cosa da poco. Kien nominò il suo fratello parigino, un celebre psichiatra che s’era fatto precedentemente un patrimonio come ginecologo. «Un patrimonio, dici?». Fischerle decise immediatamente di far tappa a Parigi prima di recarsi in America. «Questo è l’uomo che fa al caso mio», disse, «lo consulterò per la mia gobba!». «Ma non è un chirurgo!». «Non importa, se ha fatto il ginecologo può fare di tutto». Kien sorrise dell’ingenuità di quella cara persona che evidentemente non sospettava neppure l’esistenza delle specializzazioni. Pure gli dette con piacere l’indirizzo esatto, che Fischerle s’annotò su un suo sudicio foglietto, e gli raccontò molte cose sulla bella amicizia che v’era stata fra lui e suo fratello molti anni – addirittura decenni – prima. «La scienza esige che un uomo le si dedichi completamente», concluse, «non permette di coltivare le normali relazioni. Ci ha separati la scienza». «Quando ci sarà il tuo processo io non ti potrò servire comunque. Sai che ti dico? In quel frattempo me ne vado a Parigi e dico a tuo fratello che vengo da parte tua. Pensi che dovrò pagargli qualcosa dal momento che sono tuo amico?». «No, certo», rispose Kien, «ti darò una lettera di presentazione in modo che tu possa recarti tranquillamente da lui. Mi farebbe piacere che riuscisse veramente a liberarti della gobba». Si mise a sedere e scrisse subito – per la prima volta in otto anni – una lettera a suo fratello. La proposta di Fischerle gli giungeva assai a proposito. Sperava di poter presto tornare a dedicarsi completamente ai suoi studi, e nonostante la stima che aveva per l’ometto pensava che costui gli sarebbe stato di peso. Per la verità la sensazione di doversene prima o poi liberare era nata in lui solo da quando avevano cominciato a darsi del tu. Una volta che Fischerle non avesse più avuto la gobba, Georg avrebbe potuto benissimo dargli un posto d’infermiere nella sua clinica psichiatrica. Il nano portò la lettera ben sigillata e con tanto d’indirizzo nella sua stanza, tolse un libro dal pacco – la merce che il venditore aveva abbandonato per terra – e vi mise dentro la lettera. Il resto del pacco sarebbe servito l’indomani al solito scopo. Secondo un calcolo preciso, Kien possedeva ancora duemila scellini. Sarebbe stato un gioco sottrarglieli nel corso di una mattinata. La sera trascorse dunque tra discorsi vibranti d’indignazione sul conto del maiale e d’altri esseri degeneri di quella fatta. Il giorno seguente cominciò male. Kien s’era appena messo davanti alla sua finestra quando fu spinto da un uomo che portava un pacco. Evitò per un soffio di cadere contro il vetro. Il rozzo figuro cercò di passare per forza. «Desidera? Che cosa vuole qui? Aspetti!». Tutti i richiami furono vani. L’uomo si precipitò di sopra senza neppure voltarsi. Dopo aver lungamente riflettuto Kien giunse alla conclusione che doveva trattarsi di libri pornografici. Era l’unica spiegazione alla furia impudente con cui quel tale s’era sottratto a un controllo del suo pacco. Poi comparve il fognaiolo, si fermò goffamente davanti a Kien e chiese con voce tonante quattrocento scellini. Adirato com’era contro l’individuo che era passato prima, Kien lo riconobbe. L’investì con voce tremante: «Lei è stato qui anche ieri! Si vergogni!». «Anche l’altro ieri», farfugliò ingenuamente il fognaiolo. «Veda d’andarsene subito! Si penta dei suoi peccati! Lei farà una cattiva fine!». «Voglio i miei soldi!», disse il fognaiolo. Si rallegrava già all’idea di potersi bere ancora una volta i suoi cinque scellini. Senza troppo pensare – cosa che non faceva mai – sapeva per certo una cosa: che come lavoratore avrebbe ricevuto la sua paga soltanto quando avesse consegnato il frutto del suo lavoro, e cioè il denaro incassato. «Lei non avrà niente!»,

dichiarò Kien con decisione e si piantò nel mezzo della scala. Era pronto a tutto. Per impegnare i libri quell’uomo avrebbe dovuto passare sul suo cadavere. Il fognaiolo si grattò la testa. Gli ci sarebbe voluto poco a ridurre in poltiglia quel mucchio di ossa, ma non gli era stato ordinato di farlo. Lui si limitava a eseguire gli ordini. «Vado a sentire il principale», grugnì e sgombrò il campo presentando a Kien il posteriore. Un congedo siffatto gli riusciva più facile di un qualsiasi discorso. Kien sospirò. La porta a vetri cigolò. Ed ecco comparire una sottana blu e un pacco imponente. Dietro veniva Therese, che portava l’uno e l’altra. Al suo fianco camminava il portiere. Con la sinistra costui si sollevò sopra la testa un pacco ancor più voluminoso e lo passò alla destra, che lo sostenne con la massima facilità.

L’adempimento Dopo aver cacciato di casa suo marito, il ladro, Therese aveva trascorso un’intera settimana a perquisire il proprio appartamento. Procedette come se facesse le grandi pulizie, e si suddivise il lavoro. Dalle sei del mattino fino alle otto di sera si trascinava sui piedi, sulle ginocchia, sulle mani, sui gomiti aguzzando gli occhi alla ricerca di una qualche fessura segreta. Trovava polvere in punti dove neppure nei periodi di maggior pulizia ne aveva mai sospettato la presenza, e ne dava la colpa al ladro dato che, come si sa, la gente di quella risma è sempre sporca. Nelle fessure che erano troppo sottili per le sue grosse forcine introduceva un foglio di pesante carta da pacchi. Dopo l’uso soffiava via la polvere dal foglio e vi passava sopra un panno: il pensiero di toccare con della carta sudicia il libretto di banca perduto le riusciva insopportabile. Durante il lavoro non portava i guanti perché si sarebbero sciupati, però se li teneva sempre vicini, bianchi di bucato, per il caso che avesse trovato il libretto. I bei tappeti, che avrebbero potuto rovinarsi a causa di quell’andirivieni, vennero avvolti in giornali e portati nel corridoio. I libri vennero passati uno per uno, nel dubbio che contenessero qualcosa. A venderli non pensava ancora seriamente: voleva prima consigliarsi con un uomo esperto. Tuttavia guardava il numero delle pagine, provando un senso di rispetto per i libri che contavano più di cinquecento pagine: quelli valevano certo qualcosa, e prima di decidersi a rimetterli al loro posto li soppesava come polli spennati al mercato. Non imprecava contro il libretto di banca. Le piaceva occuparsi della casa. Avrebbe solo voluto che vi fossero più mobili. Bastava immaginarsi l’appartamento senza più libri per capire subito che razza di persona vi avesse abitato: un ladro. Dopo una settimana dichiarò: qui non c’è niente. In casi simili una persona per bene si rivolge alla polizia. Decise d’aspettare, prima di denunciarlo, di aver finito il denaro ricevuto ultimamente per le spese domestiche. Voleva dimostrare alla polizia che il marito aveva preso il volo con tutto il denaro, senza lasciarle neppure un centesimo. Quando usciva per la spesa girava al largo dal portiere. Temeva che le chiedesse notizie del professore. Per la verità, fino a quel momento non s’era mosso, però il primo del mese si sarebbe fatto vivo senz’altro. Il primo di ogni mese riceveva la mancia. Quel mese non avrebbe avuto niente, lei se lo vedeva già davanti alla porta a mendicare. Era ben decisa a buttarlo fuori a mani vuote. Nessuno poteva costringerla a sborsare un soldo, e se lui diventava insolente lei l’avrebbe denunciato. Un giorno Therese indossò la migliore delle sue sottane inamidate. Con quella sembrava più giovane. Il suo blu era un tantino più chiaro di quello dell’altra, che lei portava tutti i giorni. Una camicetta di un bianco abbagliante vi s’accordava assai bene. Aprì la porta della stanza da letto nuova, scivolò fino all’armadio a specchio, disse «eccomi di nuovo qua», e sogghignò da un orecchio all’altro. Dimostrava trent’anni e aveva una fossetta nel mento. Le fossette sono belle. Fissò un convegno al signor Villani. L’appartamento ora è suo, e il signor Villani può venire. Gli vorrebbe chiedere che cosa gli conviene fare. I libri valgono milioni, e a lei farebbe piacere che anche qualcun altro ne traesse beneficio. A lui serve un capitale. Lei sa riconoscere chi è veramente capace. Lei non vuol dormire su tutto quel denaro: che cosa le frutterebbe? Risparmiare è bene ma guadagnare è meglio. In men che non si dica ci si trova ad avere il doppio di prima. Lei non ha mica dimenticato il signor Villani. Nessuna donna può dimenticarlo. Le donne sono così. Fanno tutte a gara per conquistarlo. Anche lei vuole la sua parte. Suo marito se n’è andato. Non tornerà più. Lei non dice quel che lui ha fatto. Non è mai stato buono con lei, ma dopotutto è suo marito. Per questo preferisce non dire niente. Di rubare era capace ma di lavorare no. Ah, se fossero tutti come il signor Villani! Che voce ha il signor Villani! E che occhi! Lei gli ha trovato un nome, questo nome è Puda. Il nome è bello, il signor Villani è ancora più bello. Lei ne conosce, di uomini. Ce n’è forse uno che le piaccia quanto il signor Villani? Se lui pensa qualcosa di male cerchi le prove. Non deve pensare cose del genere. Venga pure da lei. Venga e le dica dei magnifici fianchi. Lo dice così bene! A queste parole lei si dondola davanti allo specchio. Solo ora si rende conto di quanto è bella. Si toglie la sottana e si contempla i magnifici fianchi. E’ proprio vero. Lui è così esperto. Non è solo interessante: è tutto. Come lo sapeva? I suoi fianchi non li ha mai visti. Ma lui se n’accorge subito, lui le donne le guarda attentamente. Poi chiede quando li può provare. Un uomo deve arrischiarsi. Altrimenti non è un uomo. Forse che una donna può dirgli di no? Therese si tocca i fianchi con le mani di lui. Sono vellutate come la sua voce. Lei lo guarda negli occhi con la sua fossetta. Gli regalerà una cosa, dice. Torna alla porta e prende il mazzo di chiavi che vi sta appeso. Davanti allo specchio gli consegna il regalo tintinnante e gli dice che può entrare nelle sue stanze quando vuole. Sa bene che non ruberà niente anche se lei non c’è. Il mazzo di chiavi cade a terra e lei si vergogna perché lui non l’accetta. Gli dice signor Puda e gli chiede se non può chiamarlo semplicemente Puda. Lui non dice niente, non riesce a saziarsi dei suoi fianchi. Questo è molto bello. Ma le sarebbe tanto piaciuto sentire la sua voce. Gli confiderà un grande segreto. Lei ha un libretto della Cassa di risparmio, e lui potrà custodirlo per lei.

Deve dirgli anche il numero del libretto? Sta scherzando. Si spaventa: lui avrebbe potuto chiederglielo, e lei non gliel’avrebbe detto. Non finché non lo conoscerà meglio. Lo conosce così poco. Ma lui non ha detto niente. Dov’è? Lo cerca intorno ai fianchi, se li sente freddi. Invece sente caldo al petto. Le mani di lui sono là, sotto la camicetta, ma lui non c’è. Lo cerca nello specchio e in esso trova la sua sottana. Sembra nuova, e il blu è il colore più bello perché lei è fedele al signor Puda. Se l’infila di nuovo, le sta bene, e se il signor Puda vorrà lei tornerà a togliersela. Lui verrà oggi stesso, resterà tutta la notte, verrà ogni notte, è tanto giovane! Ha un harem, ma se ne disferà per amor suo. Che importa se una volta è stato villano con lei? In fondo questo è il suo nome! Del nome lui non ha colpa. E’ tutta sudata, ora andrà da lui. Therese raccolse le chiavi rifiutate, chiuse accuratamente la stanza, si rimproverò per aver usato lo specchio della camera buona quando nell’altra stanza c’era il pezzo di specchio rotto e rise a più non posso perché aveva cercato inutilmente di riporre le chiavi nella tasca interna che in quella gonna non c’era affatto. Non riconobbe il suono del suo riso – lei non rideva mai – e credette che in casa vi fosse un estraneo. Allora, per la prima volta da quando viveva sola, si sentì inquieta. Corse a ispezionare il nascondiglio dove teneva il suo libretto di risparmio: era al suo posto. Quindi in casa non c’erano ladri, altrimenti per prima cosa avrebbero rubato il libretto. Tuttavia per maggior sicurezza se lo portò appresso. Nell’atrio si chinò profondamente quando passò davanti al portiere. Aveva molto denaro con sé, e temeva che lui le chiedesse la mancia proprio oggi. Per la strada il rumore del traffico accrebbe la gioia di Therese. Scivolava rapida incontro alla sua gioia, la sua meta era nel cuore della città. Il rumore cresceva di strada in strada. Tutti gli uomini la guardavano. Lei se ne accorgeva, ma viveva per un unico uomo. Aveva sempre desiderato vivere per un unico uomo e ciò ora stava avvenendo. Un’auto ebbe l’insolenza di rischiare d’investirla. Therese girò la testa verso il guidatore e disse: «Mi scusi, non ho tempo per lei!», e volse le spalle al pericolo. Dal volgo, in futuro, l’avrebbe protetta Puda. Lei non aveva paura neanche da sola perché ormai tutto apparteneva a lei. Mentre attraversava la città prese possesso di tutti i negozi. C’erano perle che sarebbero state bene con la sua gonna e brillanti adatti alla sua camicetta. Di pellicce non ne avrebbe portate, le donne per bene non ne portano, ma fa sempre piacere averne qualcuna nell’armadio. Quanto alla biancheria, la più bella era la sua, che aveva merletti molto più alti. Ad ogni buon conto si prese pure alcune vetrine di biancheria. Mise la sua ricchezza nel libretto di risparmio, che si gonfiò sempre di più, là il denaro era tutto al sicuro e lui avrebbe potuto vederlo. Davanti al negozio di lui si fermò. Le lettere dell’insegna s’avvicinarono ai suoi occhi. Prima lesse Gross & madre, poi lesse Villani & moglie. Quell’insegna sì che le piaceva: per essa poteva anche sacrificare qualche istante del suo pochissimo tempo. I due concorrenti si scagliarono uno contro l’altro, il signor Gross era un ometto e incassò una bella razione di botte. Allora le lettere si misero a danzare per la gioia, e quando la danza fu finita lei lesse tutt’a un tratto Gross & moglie. Ciò non le piacque affatto. Esclamò: «Che coraggio!», ed entrò nel negozio. Subito qualcuno baciò la mano alla cara signora. Era la sua voce. Quando lei fu a due passi da lui alzò la borsa e disse: «Eccomi di nuovo qui». Lui s’inchinò e chiese: «La signora desidera? In che posso servire la signora? Forse una stanza da letto nuova? Per il nuovo marito?». Da mesi Therese si tormentava per il timore che lui non la riconoscesse più. Aveva fatto di tutto per poter essere subito riconosciuta. Aveva trattato la sottana con cura, l’aveva lavata, inamidata e stirata ogni giorno, ma l’uomo interessante ne aveva tante, di donne! E adesso lui diceva: «Per il nuovo marito?». Lei capì il senso riposto di quelle parole. L’aveva riconosciuta. Vinse ogni timidezza, non si guardò attorno, nemmeno per vedere se vi fossero altre persone nel negozio, gli s’avvicinò fino a sfiorarlo e ripeté parola per parola ciò che s’era esercitata a dire davanti allo specchio. Lui la guardò in faccia con i suoi occhi umidi. Era bellissimo, lei era bellissima, tutto era bellissimo, e quando arrivò ai magnifici fianchi lei prese a gingillarsi con la sottana, esitò, s’afferrò alla borsa e ricominciò il suo discorso da capo. Lui dimenava le braccia esclamando: «La signora desidera? Ma signora! Desidera?». Perché lei parlasse più sottovoce le s’avvicinò ancora di più, la sua bocca s’apriva e si chiudeva proprio accanto a quella di lei, avevano esattamente la stessa statura e lei parlava sempre più forte e più in fretta. Non dimenticava una parola, ognuna le usciva di bocca come un proiettile perché il suo respiro era affannoso e rotto. Quando arrivò ai fianchi per la terza volta si sciolse il nastro legato dietro, però si premette la borsa contro la sottana in modo da non farla cadere. Il commesso si sentì svenire dalla paura, lei non voleva abbassare la voce, le sue guance rosse e sudate sfioravano quelle di lui. Se almeno fosse riuscito a capire, non aveva la minima idea di chi fosse quella donna e di che cosa volesse. L’afferrò per le braccia prosperose e gemette: «La signora desidera?». Lei s’interruppe ancora una volta immediatamente prima dei fatidici fianchi, li portò trionfalmente e chiassosamente a termine, alitò un «sì!», e gli s’introdusse a forza tra le braccia. Era più grossa di lui ed ebbe l’impressione che lui l’abbracciasse. A questo punto la gonna cadde a terra. Therese se n’accorse e fu ancora più felice perché tutto veniva da sé. Quando s’accorse della resistenza dell’altro sbigottì nel pieno della sua beatitudine e singhiozzò: «Se lei permette». La voce di Puda disse: «Ma cara signora! Ma cara signora! Ma cara signora!». La cara signora era lei. Si sentirono risuonare altre voci, voci non belle, la gente li stava guardando, a lei non importava nulla; lei era una donna per bene. Il signor Puda si vergognava, si schermiva, si divincolava ma lei non lo lasciava andare, gli aveva intrecciato saldamente le mani dietro la schiena. Lui gridava: «Mi scusi, signora, la prego, signora, insomma mi lasci andare, signora». Lei gli teneva la testa sulla spalla e le guance di lui parevano di burro. Perché si vergogna? Lei non si vergogna. Si farà mozzare le mani ma non lo lascerà. Il signor Puda pestava i piedi e urlava: «Permetta, prego, io non la conosco, permetta, prego, mi lasci andare!». Poi venne molta gente, e tutti picchiarono sulle mani di Therese, lei si mise a piangere ma non lasciò la presa. Una persona robusta le aprì le dita una per una e ad un tratto le strappò il signor Puda. Therese barcollò, si passò la manica della camicetta sugli occhi e disse: «Ma, mi scusi, come si può essere così villani!», e smise di piangere. La persona robusta era una donna alta e corpulenta. Il signor Puda s’era sposato! Nel negozio c’era un baccano infernale e Therese, quando lo sguardo le cadde sulla gonna ai suoi piedi, ne capì il perché. Accanto a lei c’era una quantità di persone, e tutte ridevano come se fossero state pagate per farlo. Pareti e soffitto tremavano, i mobili traballavano. Qualcuno gridò: «Pronto soccorso!», qualcun altro: «Polizia!». Indignatissimo il signor Villani si ripulì il vestito – aveva un particolare amore per le spalle imbottite cantilenando: «Anche la cortesia ha un limite, cara signora!»; non appena fu soddisfatto delle condizioni del vestito si ripulì la guancia che lei gli aveva toccato. Lui e Therese erano i soli a non ridere. La sua salvatrice, la «madre», lo squadrò con diffidenza: dietro quell’incidente subodorava un imbroglio galante. Essendo, per quanto riguardava lui, parte interessata, propendeva per la polizia. Quella svergognata meritava una buona lezione. Lui la sua l’aveva già avuta. Senza contare che era un uomo tanto caro, anche se lei non l’avrebbe mai ammesso apertamente. Il negozio richiedeva un’inflessibile severità. Malgrado tutti questi calcoli lei rideva, di un riso aspro e rumoroso. I presenti parlavano tutti assieme. Therese tornò a infilarsi la sottana in mezzo alla gente. Un’impiegata rise della sottana. Therese non permetteva che essa venisse insultata e disse: «Mi scusi, chissà quanto pagherebbe, lei!», indicando intanto gli alti pizzi della sua sottoveste che erano anch’essi, oltre alla sottana, qualcosa di speciale. La gente non la finiva più di ridere. Therese era molto contenta, aveva paura della moglie. Che fortuna che l’avesse abbracciato, se non l’avesse fatto ora non vi sarebbe riuscita mai più. Finché quelli ridevano a lei non poteva accadere niente. Quando si ride non si fa niente a nessuno. Un impiegato magro, uno che non pareva neppure un vero uomo, proprio come il suo ex marito, il ladro, disse: «L’amica del signor Villani!». Un altro, un vero uomo questo, disse: «Bella amica!». Che a questo punto tutti ridessero ancora più forte le parve una pura volgarità. «Certo che sono bella!», gridò. «Dov’è la mia borsa?». La borsa era sparita. «Dov’è la mia borsa? Chiamo la polizia!». La madre si stupì di tanta impudenza. «Ah sì?», dichiarò, «ora telefono io alla polizia!». Si voltò e si diresse verso il telefono. Il signor Gross, il piccolo principale suo figlio, era stato per tutto il tempo dietro di lei cercando di dire qualcosa. Nessuno lo voleva ascoltare. Le tirò disperatamente una manica, lei lo spinse via e proclamò con rude voce mascolina: «Gliela faremo vedere! Vedremo chi è il padrone qua dentro!». Il signor Gross non sapeva più che pesci pigliare. Quando lei aveva ormai il telefono in mano giocò il tutto per tutto e le diede un pizzicotto. «Ma è una nostra cliente», bisbigliò. «Come?», chiese lei. «Ha comprato una bella stanza da letto». Soltanto lui aveva riconosciuto Therese.

La madre lasciò cadere il telefono, si voltò verso il personale e licenziò in tronco tutti quanti senza eccezione. «Non permetto che si offendano i miei clienti!». I mobili tremarono di nuovo, ma non per le risa. «Dov’è la borsa della signora? Entro tre minuti voglio vedere la borsa!». Gli impiegati si gettarono per terra dal primo all’ultimo e strisciarono ubbidienti qua e là. A nessuno era sfuggito il fatto che nel frattempo Therese aveva raccattato la sua borsa. Essa stava nel punto dove prima si trovava la madre. Il signor Villani si rialzò per primo e notò con stupore la borsa al braccio di Therese. «A quel che vedo», cantilenò, «la signora ha già ritrovato la borsa. La signora è sempre fortunata. Che cosa desidera la signora, se è permessa la domanda?». La madre prese atto con benevolenza del suo zelo. Si diresse a passo marziale verso di lui e approvò con un cenno del capo. Therese disse: «Per oggi niente, grazie». Villani si chinò profondamente sulla sua mano e disse con mesta umiltà: «Allora bacio la sua graziosa mano, signora». Le baciò il braccio al di sopra del guanto, canticchiò: «Bacio la mano, madame», e indietreggiò, facendo con la mano sinistra un elegante gesto di rinuncia. Il personale scattò in piedi allineandosi per far ala al suo passaggio. Therese esitò, alzò orgogliosamente la testa e nel congedarsi disse: «Mi scusi, posso fare le mie congratulazioni?». Lui non capì che cosa intendesse dire, ma la forza dell’abitudine lo spinse a fare un inchino. Poi lei uscì fra due ali di persone. Tutte le schiene erano curve e tutti salutavano. Dietro c’era la madre, che la riverì con voce tonante. Il principale accanto a lei preferì tacere. Oggi s’era preso fin troppa libertà. Certo avrebbe dovuto far presente già prima che si trattava di una cliente. Quando Therese fu giunta alla porta che, tenuta aperta da due impiegati divenne il suo arco di trionfo, lui scomparve in fretta nel suo ufficio. Forse la mamma si sarebbe scordata di lui. Therese udì fino all’ultimo esclamazioni ammirate. «Che eleganza!». «E che bella gonna!». «Che bel blu!». «E che borsa gonfia!». «Come una principessa!». «Il Villani sì che è fortunato!». Non era un sogno. Il fortunato continuava a baciarle la mano, lei era già sulla strada. Anche la porta si chiuse lentamente e con rispetto. Continuarono a guardarla anche da dietro i vetri. Lei si girò solo una volta e scivolò via sorridendo. Così andavano le cose quando un uomo straordinario amava qualcuno. Lui s’era sposato! Poteva forse starsene ad aspettare lei? Avrebbe dovuto farsi viva prima. Come l’aveva presa tra le braccia! Poi tutt’a un tratto aveva avuto paura. Nel negozio c’era la moglie. Il capitale l’ha avuto dalla moglie, non può fare una cosa simile. Lui è un uomo per bene. Sa bene come ci si deve comportare. Se n’intende, lui. Davanti l’ha abbracciata, dietro s’è schermito. Ha protestato perché la moglie lo sentisse. Che uomo accorto! E che occhi! E che spalla! E che guancia! La moglie è forte. La moglie è una donna che sa il fatto suo, ma non s’è accorta di niente. Per la borsa voleva chiamare subito la polizia. Così dev’essere una moglie. Lei sarebbe stata una moglie esattamente come quella, ma il ladro non se n’è voluto andare prima e lei è arrivata troppo tardi. E’ colpa sua se c’è stato di mezzo quel ladro? Lui le ha baciato la mano. Che labbra!

L’ha aspettata. In principio voleva accettare il capitale soltanto da lei, poi tutt’a un tratto è arrivata una col capitale più grosso di ogni altra – le donne non lo lasciano mai in pace – e lui se l’è presa. Avrebbe dovuto lasciarsi scappare tutto quel denaro? Però ama solo lei. La moglie non l’ama. Quando arriva lei tutti devono gettarsi per terra e cercarle la borsa. Sulla porta ci sono tanti occhi, e tutti guardano lei. Perché s’è messa la sottana nuova? E’ tanto contenta. Che fortuna averlo abbracciato in tutta fretta. Chissà quando vi sarebbe riuscita un’altra volta. La sottana le sta bene. Anche la sottoveste le sta bene. I merletti della sottoveste sono cari. Lei non è come certe. Lei ha pensato: poveretto, perché non deve godere un po’ i suoi fianchi? Lui li trova magnifici. Adesso li ha visti. Per lei non ha importanza che lui sia un uomo sposato. Therese trovò la via di casa come in sogno. Non badava né alle strade né alle impertinenze. La sua fortuna l’aveva immunizzata contro ogni sfortuna. Davanti a lei si aprivano decine di strade sbagliate, lei seguiva quella giusta che la riportava alla sua proprietà. Uomini e veicoli provavano soggezione all’apparire della sua figura inamidata. Lei risvegliava ovunque attenzione e simpatia, ma questa volta non se n’accorgeva nemmeno. La scortava un gran numero d’impiegati. Il cordone protettivo era di gomma, ad ogni passo che lei faceva esso si spostava un po’ in avanti. Si sentiva uno schioccare di baciamani, una vera pioggia, l’aria n’era piena, erano tutti per lei. Mogli che sapevano il fatto loro telefonavano alla polizia. Le borse di Therese venivano rubate. Non c’erano più piccoli principali, erano scomparsi, non li si vedeva nei loro negozi, soltanto sulle insegne si leggeva ancora il loro nome. Dozzine di donne che dimostravano trent’anni cadevano tra le braccia di signori Puda che avevano braccia, occhi, spalle e guance. Le sottane blu inamidate scendevano per terra. Magnifici fianchi si ammiravano negli specchi. Moltissime mani non lasciavano la presa, mai avrebbero lasciato la presa. Interi negozi ridevano, orgogliosi di tanta bellezza. Governanti lasciavano cadere stupite gli stracci della polvere, ladri restituivano la refurtiva, s’andavano a impiccare e poi si lasciavano seppellire. In tutta la terra v’era una sola ricchezza, e questa ricchezza era affluita tutta in un solo punto. Non apparteneva a nessuno. Cioè apparteneva soltanto a una tale persona. La si poteva tenere. Rubare era proibito. Ma nessuno vi badava, tutti avevano qualcosa di meglio da fare. Si sbatteva il latte. Il blocco di burro che ne usciva era d’oro massiccio grosso come la testa di un bambino. I libretti di risparmio erano pieni da scoppiare. Anche i bauli dei corredi erano pieni da scoppiare. Pieni di libretti di risparmio. Nessuno pretendeva niente. C’erano due persone che sapevano intendersela. Una era una donna, ed era la padrona di tutto. L’altra si chiamava Puda, e quella non era padrona di niente, ma in compenso poteva intendersela con la donna. Madri buonanima si rivoltavano nella tomba, quelle invidiavano a uno persino l’aria che respirava. Le mance ai portieri venivano abolite perché ognuno aveva la sua pensione. Tutto ciò che si diceva risultava subito vero. Per le carte lasciate da un ladro si riceveva del buon contante. Coi libri s’incassava un bel mucchio di quattrini.

L’appartamento veniva venduto. Uno nuovo non costava niente ed era più bello, quello vecchio non aveva neppure le finestre. Therese era già vicina a casa. Il cordone di gomma, rotto già da tempo, s’era disperso. Anche la pioggia di baciamani era cessata. In compenso s’avvicinavano gli oggetti abituali. Erano assai semplici, meno ricchi, in cambio però si era sicuri di trovarli e di possederli. Quando fu davanti al suo portone Therese disse: «Posso essere contenta che si sia sposato. Adesso la roba è tutta mia». Soltanto allora cominciò a stillarsi il cervello per scoprire che capitale avrebbe mai prestato al signor Villani. Per affari del genere è necessario un contratto e una firma. Lei può chiedere interessi elevati, e anche la partecipazione all’impresa. Nessuno si sogni di rubare. E’ una fortuna che non si sia arrivati a questo punto. Come si può essere così sventati da dar via dei quattrini? Nessuno restituisce un soldo. E’ la vita. «Che fine ha fatto il professore?». Il portiere le sbarrò il passo col suo ruggito. Therese trasalì e tacque, cercando una risposta. Se gli diceva che il marito era un ladro l’altro faceva subito la denuncia. Lei voleva aspettare a denunciarlo. Altrimenti la polizia avrebbe trovato il denaro per le spese domestiche e le avrebbe detto di metterlo in conto. Come se non gliel’avesse dato lui! «Ormai non lo vedo da otto giorni. E’ forse morto?». «Mi scusi, come sarebbe a dire morto, è vivo e vegeto. Non sa neanche cosa voglia dire essere morti». «Pensavo che fosse malato. Tanti saluti da parte mia, verrò a fargli una visita. Sempre a sua disposizione». Therese chinò la testa con fare scherzoso e domandò: «Per caso lei sa dov’è? Avrei bisogno di lui per le spese di casa». Il portiere smascherò l’imbroglione attraverso le parole di sua moglie. Volevano truffargli il suo compenso. Il professore si nascondeva per non dargli più niente. Che poi non era nemmeno professore. Lui l’aveva nominato professore di sua iniziativa. Un paio d’anni prima si chiamava soltanto dottor Kien, un titolo che non vale niente! Quanto ha dovuto sudare lui prima che tutti gli inquilini lo chiamassero professore! Nessuno lavora per niente. In cambio del suo lavoro uno riceve una pensione. Non gli fa certo un regalo, quell’attaccapanni: lui vuole il suo compenso perché si tratta di una pensione. «Vuol dire», ruggì in faccia a Therese, «che suo marito non è a casa?». «Ma no, mi scusi! da una settimana. Dice che ne ha abbastanza. Di punto in bianco se ne va e mi lascia sola. Soldi per le spese di casa non ce ne sono. Son cose da farsi? Vorrei sapere a che ora va a dormire adesso. Una persona per bene va a letto alle nove». «Si può denunciare la sua scomparsa». «Ma mi scusi, se ha deciso lui di andarsene! Ha detto che tornerà». «Quando?». «Quando ne avrà voglia, ha detto. E’ sempre stato così, pensa soltanto a sé; scusi, anche la moglie è un essere umano. Che colpa ne ho io?». «Sta’ bene attenta, strega: io vengo a cercarlo. Se è di sopra, vi sbatto uno contro l’altra fino a rompervi le ossa. Mi deve cento scellini. Quell’anima di un cane vedrà come lo concio. Io non sono così, ma adesso lo divento!». Therese lo precedeva di già. Nelle sue parole sentì lo stesso odio per Kien che animava lei. Fino a quel momento aveva temuto il portiere scorgendo in lui l’unico e invincibile amico di Kien. Quella era già la seconda fortuna che le capitava nella giornata. Se lui vedeva che le sue parole erano la pura verità l’avrebbe aiutata. Tutti erano contro il ladro. Perché era un ladro? Il portiere si chiuse alle spalle con gran fracasso la porta dell’appartamento. I suoi passi furibondi spaventarono gl’inquilini che abitavano sotto la biblioteca, e che da anni erano abituati a un silenzio di tomba. Le scale si riempirono di persone che discutevano animatamente. Tutti pensavano al portiere. Fino a quel momento il professore era stato il suo beniamino. Gli inquilini detestavano il professore per via della mancia, che il portiere rinfacciava loro ad ogni occasione. Probabilmente il professore non voleva più pagare. Non che non avesse ragione, ma quelle bastonate se le meritava. Quando c’era di mezzo il portiere le bastonate non mancavano mai. Tuttavia la gente che tendeva eccitata le orecchie non riusciva a capire come mai non si sentissero voci ma soltanto il rintronare dei ben noti passi. Infatti la collera del portiere era tanto grande che egli perquisiva l’appartamento in silenzio. Non voleva sperperare la sua collera. Pensava, una volta trovato Kien, di dare un esempio valido per tutti. Le imprecazioni s’andavano accumulando a dozzine dietro i suoi denti, che lui digrignava ferocemente. I peli rossicci gli si drizzarono sui pugni. Se n’accorse quando, nella stanza da letto nuova di Therese, spostò gli armadi lavorando di testa. Quella carogna poteva essersi cacciata in qualunque posto. Therese lo seguiva piena di comprensione. Dove lui si fermava, si fermava anche lei, dove lui guardava, guardava anche lei. Il portiere non le badava molto, dopo qualche minuto cominciò a trattarla come la propria ombra. Lei s’accorse che lui teneva a freno il proprio odio crescente. Insieme a quello di lui cresceva anche il suo. Non era soltanto un ladro, suo marito: l’aveva anche piantata in asso, lei, una donna indifesa. Taceva per non disturbare il portiere. Quanto più s’avvicinavano l’uno all’altra, tanto meno lei lo temeva. Davanti alla sua stanza da letto lei gli aveva ancora ceduto il passo. Quando aprì le altre due stanze chiuse a chiave entrò invece per prima. Lui ispezionò solo superficialmente la vecchia stanzetta di lei accanto alla cucina. Riusciva ad immaginarsi Kien, per nascosto che egli fosse, solo in una stanza spaziosa. In cucina ebbe voglia per un attimo di fare a pezzi tutte le stoviglie. Ma poi gli parve di sprecare i propri pugni, sputò sui fornelli e lasciò tutto com’era. Di là tornò a passi pesanti nello studio. Per la strada si fermò a lungo in contemplazione dell’attaccapanni ad albero. Kien non vi stava appeso. Rovesciò l’imponente scrittoio. Per farlo dovette servirsi di tutti e due i pugni e si vendicò crudelmente per quest’onta. Tese la mano verso uno scaffale e scagliò a terra qualche dozzina di volumi. Poi si guardò attorno per vedere se Kien non spuntasse da nessuna parte. Era la sua ultima speranza.

«Se l’è svignata!», constatò. La voglia di imprecare gli era passata. Si sentiva depresso per la perdita dei cento scellini. Assieme alla sua pensione essi gli permettevano di soddisfare la sua passione. Era un uomo che aveva sempre un enorme appetito. Che cosa ne sarebbe stato del suo spioncino se lui avesse dovuto patire la fame? Alzò tutti i due i pugni sotto gli occhi di Therese. I peli erano ancora ritti. «Ecco, guardi», ruggì, «in vita mia non sono mai stato tanto furioso. Mai!». Therese stava osservando i libri sul pavimento: mostrandole i pugni lui ritenne se stesso scusato e lei risarcita. Lei infatti lo era, ma non grazie ai pugni. «Mi scusi, quello non era un vero uomo», disse. «Una puttana era!», ruggì la parte lesa. «Un delinquente! Un furfante matricolato! Un assassino!». Therese avrebbe voluto intervenire con «un mendicante», ma lui era già a «delinquente». E quando lei se ne uscì col suo «ladro», l’«assassino», di lui aveva ormai precluso ogni possibilità di rincarare la dose. Egli imprecò per un tempo sorprendentemente breve. Ben presto si rabbonì e raccolse i libri. Quanto gli era stato facile gettarli a terra, tanto difficile gli riuscì rimetterli a posto. Therese andò a prendere la scala e vi salì lei stessa. Quella giornata così ricca di successi l’induceva a dondolare i fianchi. Il portiere le porse i libri con una mano e le cacciò l’altra su per le gonne pizzicandole con forza la coscia. Lei si sentì l’acquolina in bocca. Era la prima donna che lui riusciva a conquistare con il suo metodo amoroso: le altre le aveva tutte violentate. Therese sospirò mentalmente: che uomo! Perché non lo rifà? A voce alta disse, pudica: «Ancora!». Lui le porse un’altra pila di libri e la pizzicò con altrettanta forza sulla coscia sinistra. La saliva le colò di bocca. A questo punto si ricordò che cose simili non si fanno. Lanciò un grido e si gettò dalla scala nelle sue braccia. Lui la lasciò cadere tranquillamente per terra, le strappò di dosso la sottana inamidata e la prese. Quando si rialzò disse: «Quello storpio la vedrà!». Therese singhiozzò: «Adesso io sono tua!». Aveva trovato un vero uomo, e non aveva alcuna intenzione di lasciarselo scappare. Lui replicò: «A cuccia!», e la sera stessa si trasferì da lei. Di giorno stava al suo posto, di notte, a letto, le dava consigli. A poco a poco venne a sapere che cosa fosse accaduto veramente e le ordinò d’impegnare i libri alla spicciolata prima che il marito tornasse. La metà se la sarebbe tenuta lui, perché gli toccava di diritto. Riuscì ad incuterle un adeguato spavento facendole capire in che rischiosa posizione si fosse venuta a trovare. Ma lui, disse, era della polizia e l’avrebbe aiutata. Anche per questo motivo lei gli ubbidiva ciecamente. Ogni tre o quattro giorni si recavano al Theresianum carichi di volumi.

Il ladro Il portiere riconobbe al primo sguardo il suo professore d’un tempo. Il suo nuovo posto di consigliere presso Therese gli garbava di più, e soprattutto gli rendeva di più del vecchio compenso mensile. Non aveva alcun interesse a vendicarsi: per questo non mostrò di serbargli rancore, e volse gli occhi altrove come se vi fosse qualcosa che attirava la sua attenzione. Il professore stava alla sua destra. Lui fece passare definitivamente il pacco sul braccio sinistro e ve lo soppesò a lungo, concentrandosi profondamente nel suo esame. Therese aveva preso l’abitudine di fare ogni cosa proprio come lui. Con una mossa brusca mostrò al ladro tutto il suo disprezzo e si strinse appassionatamente al suo bel pacco voluminoso. Il portiere era già passato. A questo punto il marito le sbarrò il passo. Lei lo scostò senza una parola. Senza una parola lui posò la mano sul pacco. Lei vi diede uno strattone, lui lo tenne saldamente. Il portiere sentì un rumore. Continuò a camminare senza voltarsi. Voleva che quell’incontro si svolgesse pacificamente e si disse che lei doveva aver solo sfiorato la ringhiera col suo pacco. Ora anche Kien era passato agli strattoni. La resistenza di Therese aumentò. Lei volse la faccia verso di lui e lui chiuse gli occhi. Questo la disorientò. L’uomo, che stava già di sopra, non interveniva. Allora pensò alla polizia e al delitto che stava commettendo. Se la mettevano in prigione il ladro si sarebbe ripreso l’appartamento, lui era fatto così, non si sarebbe certo vergognato. Non appena ebbe perduto l’appartamento si sentì mancare le forze. Kien riuscì a portare dalla sua parte più della metà del pacco. I libri gli dettero forza e disse: «Dove li stai portando?». Li aveva visti. Eppure la carta non era strappata in nessun punto. Lei vide nuovamente in lui il padrone di casa. Nella frazione di un secondo rivisse tutti gli otto anni trascorsi al suo servizio. Sentì che il proprio dominio era finito. Le restava una consolazione: chiamare in suo aiuto la polizia. Gridò: «Che sfacciato!». Dieci gradini più in su qualcuno s’impose, deluso, di fermarsi. Se quel lurido individuo si fosse piantato dopo in mezzo alle scale, bene: ma adesso, prima d’avere incassato i quattrini dei pacchi! Soffocò in gola il ruggito che gli stava uscendo e con la mano fece un cenno a Therese. Lei era troppo occupata e non se n’accorse. Gridando altre due volte: «Che sfacciato!», squadrò con curiosità il ladro. Nei suoi pensieri lei l’aveva visto aggirarsi coperto di cenci, tendendo a tutti senza vergogna il cavo della mano, così fanno i mendicanti, e rubando dove poteva. In realtà lui aveva un aspetto molto migliore di quando stava a casa. Lei non riusciva a spiegarsi tutto ciò. Ad un tratto s’accorse che la giacca di Kien mostrava un rigonfiamento sul lato destro del petto. Un tempo lui non portava mai denaro con sé, il portafoglio era sempre quasi vuoto. Ora pareva ben fornito. Tutto le fu chiaro: il libretto di banca l’aveva lui. Il denaro era stato prelevato. Invece di nasconderlo in casa lo portava con sé. Il portiere era a conoscenza di ogni particolare, persino del suo libretto della Cassa di risparmio. Tutto quello che v’era in casa lui l’aveva trovato da solo o gliel’aveva fatto dire a furia di pizzicotti. Lei s’era tenuta per sé soltanto il sogno del libretto di banca nascosto in una fessura segreta. Senza sentirsi le spalle coperte da un simile segreto non sarebbe riuscita a godersi la vita. Ora, piena di tronfia soddisfazione per esser riuscita a tenergli nascosto tanti giorni il suo segreto, gridò – se n’era appena uscita con un altro, lamentoso «Che sfacciato!» -: «E’ un ladro, è un ladro!». La sua voce suonava al tempo stesso indignata ed entusiasta, come quella di tutti coloro che consegnano un malfattore alla polizia. Solo la nota malinconica, che molte donne assumono in tali occasioni quando si tratta di un uomo, mancava in lei, poiché nel caso suo si trattava di consegnare il suo primo uomo al secondo, il quale faceva appunto parte della polizia. Lui scese i gradini e ripeté cupamente: «Lei è un ladro!». Non vedeva altra via d’uscita da quella penosa situazione. Quanto al furto, pensava che fosse una necessaria bugia di Therese. Posò la sua mano pesante sulla spalla di Kien e dichiarò, come se fosse tuttora in servizio: «In nome della legge la dichiaro in arresto! Mi segua senza dare nell’occhio». Il pacco pendeva dal mignolo della sua mano sinistra. Guardò Kien in faccia con aria imperiosa e alzò le spalle. Il suo dovere non gli consentiva alcuna eccezione. Il passato era passato. Allora potevano anche andare d’accordo. Ora lui doveva arrestarlo. Quanto avrebbe voluto dirgli: «Si ricorda?». Kien crollò, e non solo sotto la pressione della mano, e mormorò: «Lo sapevo». Il portiere fu messo in allarme da quella dichiarazione. I delinquenti pacifici sono infidi. Fingono di essere tranquilli e poi tentano la fuga. Per questo bisogna far sentire la stretta della polizia. Kien lasciò fare. Tentò di tenersi eretto: la sua statura lo costringeva a piegarsi. Il portiere s’intenerì. Da anni non arrestava più nessuno. Aveva temuto qualche difficoltà. I malfattori sono recalcitranti. Se non lo sono tagliano la corda. Se si è in uniforme vogliono sapere il numero di matricola. Se non lo si è vogliono vedere una tessera. Eccone finalmente uno che gli dava poco filo da torcere. Si lasciava interrogare, lo seguiva, non protestava la sua innocenza, non faceva storie, di un malfattore simile c’era di che essere contenti. Giunto alla porta a vetri si voltò verso Therese e disse: «Visto come si fa?». Sapeva che una donna lo stava a guardare; però non era sicuro che lei fosse in grado d’apprezzare i dettagli del suo lavoro. «Un altro si metterebbe subito a menar le mani. Con me un arresto è una cosa da niente. Non bisogna dare nell’occhio. Solo le schiappe danno nell’occhio. Se uno è competente il malfattore lo segue da solo. Gli animali domestici bisogna domarli. I gatti sono selvatici di natura. I leoni ammaestrati si vedono al circo. Le tigri saltano attraverso un cerchio di fuoco. L’uomo ha un’anima. La mano dell’autorità lo prende per l’anima e lui obbedisce come un agnellino». Pronunciò queste parole solo mentalmente, per quanto ardesse dal desiderio di ruggirgliele in faccia. In un altro luogo e in altre circostanze quell’arresto, di cui per tanto tempo aveva sentito la mancanza, gli avrebbe preso la mano. Quand’era ancora in servizio arrestava proprio per dare nell’occhio e per questa sua abitudine era in pessimi rapporti con i suoi superiori. Annunciava a gran voce la sua impresa finché non gli si raccoglieva intorno un crocchio di curiosi. Nato per fare il saltimbanco si creava ogni giorno il suo circo. Poiché la gente gli lesinava gli applausi s’applaudiva da solo. Per dare contemporaneamente una dimostrazione della sua forza si serviva, anziché dell’altra mano, degli arrestati. Se quelli erano forti faceva cadere una pioggia di ceffoni e cercava di eccitarli a una partita di pugilato. Poiché li disprezzava per la loro inferiorità, durante l’interrogatorio dichiarava che loro l’avevano maltrattato. Ai più deboli concedeva, bontà sua, un aumento della pena. Se poi si trovava davanti uno più forte di lui – con i veri delinquenti poteva capitare – la sua coscienza gli imponeva di accusarlo falsamente perché i cattivi soggetti devono essere tolti di mezzo. Solo da quando aveva dovuto limitarsi a un unico caseggiato, mentre prima aveva a disposizione tutto un quartiere, s’era fatto più discreto. Si sceglieva gli avversari fra miserabili mendicanti e venditori a domicilio, e spesso anche per costoro doveva stare in agguato giorni e giorni. Essi lo temevano, si mettevano reciprocamente in guardia, solo i novellini finivano per abboccare, eppure lui li scongiurava di venire. Sapeva bene che gli si rifiutavano per dispetto. Il circo s’era ridotto agli inquilini. Così viveva nella speranza di un arresto vero, chiassoso, eseguito in circostanze di estrema difficoltà. Ma a questo punto erano sopravvenuti gli ultimi avvenimenti. I libri di Kien gli procuravano del denaro. Faceva lui la maggior parte del lavoro e provvedeva a coprirsi da ogni parte. Tuttavia non l’abbandonava mai la spiacevole sensazione d’intascare quattrini che non s’era guadagnato. Quand’era nella polizia aveva sempre pensato che là si pagasse il lavoro dei suoi muscoli. Per la verità faceva in modo che l’elenco riuscisse pesante, e sceglieva i libri in base alla loro grossezza. Se n’erano andati per primi i volumi più grandi ed antichi, rilegati in pergamena. Per tutto il percorso fino al Theresianum lui sollevava di slancio il suo pacco, lo teneva ogni tanto in bilico sulla testa, toglieva a Therese il suo, poi le diceva di restare indietro e glielo lanciava tra le braccia. A lei quei colpi facevano male, e una volta se ne lamentò. Allora lui cercò di darle ad intendere che lo faceva per la gente. Quanto peggio trattavano i pacchi, tanto meno qualcuno avrebbe potuto pensare che i libri non appartenessero a loro. Lei se ne rendeva conto, però la cosa non le piaceva ugualmente. Tuttavia, anche così lui era scontento: gli pareva d’essere un debole, e ogni tanto diceva che tra poco sarebbe diventato un ebreo. Solo a causa di questa spina, che egli pensava fosse la sua coscienza, rinunciò ad esaudire il suo vecchio sogno e arrestò Kien senza far chiasso. Ma Therese non si lasciò defraudare della sua legittima gioia. Il portafoglio rigonfio l’aveva notato lei. Aggirò, scivolando con sveltezza, i due uomini e si piantò tra i battenti della porta a vetri che la sua gonna aveva aperto con una spinta. Con la destra afferrò la testa di Kien come se volesse abbracciarla e la trasse giù verso di sé. Con la sinistra gli tolse il portafoglio. Kien sopportava il suo braccio come una corona di spine; del resto non si mosse. Le sue braccia erano imprigionate dalla stretta poliziesca del portiere. Therese alzò il fascio di banconote che aveva trovato e gridò: «Visto?». Il nuovo marito guardò con ammirazione tutti quei soldi ma scosse la testa. Therese avrebbe voluto rispondere. Disse: «Non ho forse ragione? Non ho forse ragione?». «Io non sono una pasta frolla», replicò il portiere. La frase si riferiva tanto alla sua coscienza quanto alla porta che Therese ostruiva. Lei voleva un riconoscimento, una lode, una parola che si riferisse al suo denaro prima che lei l’intascasse. Al momento d’intascarlo la trafisse una spina. Ora l’uomo sa tutto, lei non ha più nessun segreto. Un momento così importante e lui non dice una parola. Deve dirlo che donna è lei! Il ladro l’ha trovato lei. Lui voleva passare oltre facendo finta di niente. E adesso vuole far finta di niente anche con lei. Questo poi no. Lei ha un cuore. Lui sa solo dare pizzicoti. Non sa dire una parola. A cuccia, ecco quello che sa dire. Non è interessante. Non è abile. E’ un vero uomo, niente di più. Lei si vergogna davanti al signor Villani. Che cos’era prima? Un semplice portiere! Non ci si mette con gente del genere. Lei se l’è preso in casa, e adesso lui non dice nemmeno grazie. Se lo sapesse il signor Villani! Non le bacerebbe più la mano. Lui sì che ha una bella voce. Tutti quei soldi li ha trovati lei, e lui glieli porta via. Deve dargli tutto quanto? Ne ha abbastanza di lui. Senza soldi lei ci sta, ma se lui vuole i soldi lei dice di no. Ne ha bisogno per quando sarà vecchia. Vuole avere una vecchiaia decorosa. Dove le deve prendere le sottane se lui gliele strappa sempre? Lui strappa e prende i soldi. Dica almeno qualcosa! Così deve comportarsi un uomo! Offesa e infuriata sventolava il denaro qua e là. Arrivò a cacciarglielo sotto il naso. Lui intanto rifletteva. Il gusto dell’arresto gli era passato. Da quando lei maneggiava il portafoglio, lui vedeva chiare le conseguenze. Non voleva finire in prigione per lei. Lei era abile ma lui conosceva la legge. Era della polizia, lui. Che ne capiva lei di quelle cose? Avrebbe voluto essere ancora al suo vecchio posto, ormai non la sopportava più. Lei l’aveva frastornato. Per colpa sua lui aveva perduto il suo compenso mensile. Sapeva da un pezzo qual era la verità: lui aveva continuato ad odiare ufficialmente Kien solo per via della partecipazione agli utili. Lei era vecchia. Era invadente. Ne aveva voglia tutte le notti. Lui voleva picchiare, lei voleva quell’altra cosa. E prima si lasciava solo pizzicare. Bastava che lui le desse un paio di colpi e subito cominciava a strillare. Diavolo! Su una donna così lui ci sputa. La storia viene a galla. Lui ci perde la pensione. Le darà querela. Lei deve risarcirlo per la perdita della pensione. Lui manterrà la partecipazione. La cosa migliore sarebbe fare una denuncia. Quella puttana! Sono forse suoi i libri? Chi glieli ha dati? Peccato per il professore. Era troppo buono per lei. Di uomini così non se ne trovano più. E si va a sposare quella troia. Non è mai stata una governante. Sua madre è morta da accattona. L’ha confessato lei stessa. Se avesse quarant’anni di meno. Sua figlia buonanima, quella sì che era una buona creatura. Doveva accucciarglisi vicino quando lui faceva la posta ai mendicanti, e allora lui pizzicava e guardava. Guardava e pizzicava. Quella sì che era vita! Se arrivava un mendicante c’era qualcuno da bastonare. Se non arrivava nessuno c’era sempre la ragazza. Lei piangeva, ma non le serviva a niente. Contro un padre non c’è niente da fare. Era tanto cara. Poi di punto in bianco è morta. I polmoni, la guardiola. Aveva bisogno di lei. Se l’avesse saputo prima l’avrebbe mandata via. Il professore ha fatto in tempo a conoscerla. Lui non le ha mai fatto del male. Gli inquilini la tormentavano, poverina. Perché era sua figlia. E quella troia non l’ha mai salutata! Avrebbe voglia di ammazzarla. Si fronteggiano pieni d’odio. Una parola di Kien, anche una buona parola, li riavvicinerebbe subito. Davanti al suo silenzio il loro odio arde e si consuma con altissime fiamme. Uno tiene fra le mani il corpo, l’altra il denaro di Kien. Lui, Kien, l’hanno già perduto. Ah, se potessero averlo! Il corpo s’inclina come un giunco. Una violenta bufera lo piega verso terra. Le banconote lampeggiano nell’aria. Improvvisamente il portiere urla in faccia a Therese: «Restituisci i quattrini!». Lei non può. Libera la testa di Kien dal suo abbraccio, ma la testa non si rialza, rimane nella stessa posizione. Lei s’aspettava un movimento. Dato che esso non viene scaglia le banconote in faccia al nuovo marito e grida con voce stridula: «Non ci riesci a bastonarmi. Hai paura! Sei una pasta frolla, tu! Son cose da farsi queste? Che vigliacco! Che plebeo! Che smidollato! Ah!». L’odio le suggerisce proprio le parole che colpiscono nel segno. Con un braccio lui comincia a scuotere Kien. Lui non si lascia dare dello smidollato. Con l’altro braccio batte Therese. Deve liberare il passaggio. Le farà vedere chi è lui. Lui non è così, ma adesso lo diventa. Le banconote volano sul pavimento. Therese singhiozza: «Tutti quei bei soldi!». L’uomo l’afferra saldamente. I colpi sono troppo leggeri. Meglio scuoterla. La schiena di lei urta contro i battenti della porta a vetri, spalancandoli. Lei s’aggrappa al pomolo della porta. Lui l’afferra per il collo della camicetta, l’attira contro di sé e la scaglia nuovamente contro la porta, contro di sé, contro la porta. Nello stesso tempo si lavora anche Kien. Con Kien si ha l’impressione di tenere in mano uno straccio. Quanto meno sente sotto le mani lui, tanto più s’accanisce contro lei. A questo punto arriva di corsa Fischerle. Il fognaiolo l’ha informato del rifiuto di Kien. E’ furibondo. Che significa questo? Tante storie per duemila scellini! Non ci mancava che questo! Ieri ne sborsa quattromilacinquecento tutti in una volta, e adesso sospende i pagamenti. Che gli impiegati l’aspettino. Torna subito. Già dal corridoio sente gridare: «Tutti quei bei soldi! Tutti quei bei soldi!». La cosa lo riguarda. Qualcuno l’ha preceduto. Gli viene da piangere. Uno s’ammazza di lavoro e un altro s’intasca i profitti. E una donna, per giunta. Chi potrebbe tollerare una cosa simile? Ora l’acchiapperà subito. Gli dovrà restituire tutto. A questo punto vede la porta a vetri muoversi su e giù. Si ferma spaventato. C’è pure un uomo. Esita. L’uomo colpisce la porta con la donna. La donna è pesante. L’uomo dev’essere forte. Lo spilungone non ha tanta forza. Forse lo spilungone non c’entra per niente. Perché un uomo non dovrebbe picchiare la moglie? Di certo quella non gli vuol dare i soldi. Fischerle ha i suoi affari. Preferirebbe aspettare che quei due finiscano ma la cosa va troppo per le lunghe. S’infila cautamente fra i battenti della porta. «Con permesso», dice con un sogghigno. E’ impossibile non provocare nessuno: per questo ride in anticipo. La coppia deve accorgersi che lui ha le migliori intenzioni. Dato che a qualcuno potrebbe sfuggire la sua risata preferisce sogghignare subito. La sua gobba finisce fra Therese e il portiere, e impedisce a quest’ultimo di attirarsi la donna abbastanza vicino per poterla poi scaraventare contro la porta con la necessaria violenza. Dà un calcio alla gobba. Fischerle si rovescia addosso a Kien e s’aggrappa a lui. Kien è così magro e la sua funzione fisica così irrilevante in tutto l’episodio, che il nano s’accorge di lui solo nel momento in cui lo tocca. Lo riconosce. Proprio in quell’istante Therese geme di nuovo: «Tutti quei bei soldi!». Lui ricorda la relazione sospettata poco prima, sestuplica la sua attenzione e abbraccia con una sola occhiata le tasche di Kien, quelle dello sconosciuto, le giarrettiere della donna – purtroppo la gonna gliene nasconde la vista – le scale al cui termine sono posati due enormi pacchi e il pavimento ai propri piedi. A questo punto vede i soldi. Si china svelto come un fulmine e comincia a raccoglierli. Le sue lunghe braccia s’infilano tra sei gambe. Ora sposta con forza un piede, ora raccoglie con delicatezza una banconota. Non grida se qualcuno gli calpesta le dita, sono incerti del mestiere ai quali è abituato. Non tratta tutti i piedi allo stesso modo. Quelli di Kien li spinge da parte, quelli della donna li solleva come farebbe un calzolaio, quanto all’uomo evita ogni contatto con lui: sarebbe tanto inutile quanto pericoloso. Recupera quindici banconote, lavorando tiene il conto e sa sempre con esattezza a che punto è arrivato. Manovra abilmente persino con la gobba. Di sopra continuano a picchiarsi, lui ha imparato al Paradiso che non bisogna disturbare una coppia intenta a picchiarsi. Se vi si riesce, nel frattempo le si può portar via tutto quanto. Le coppie sono rabbiose. Delle cinque banconote che ancora mancano quattro sono lontane, la quinta la tiene l’uomo sotto un piede. Mentre striscia verso le altre quattro Fischerle non perde di vista quel piede. Potrebbe sollevarsi e non bisogna lasciarsi sfuggire quell’attimo. Soltanto ora Therese s’accorge di lui che, a una certa distanza, raccoglie qualcosa da terra con la lingua. Lui tiene le mani intrecciate dietro la schiena, i soldi se li è infilati fra le gambe e lavora con la lingua in modo che gli altri se lo vedono, non capiscano che cosa stia raccogliendo. Therese si sente debole: quella vista la rianima. L’intenzione del nano le è familiare come se lei lo conoscesse dalla nascita. Vede se stessa intenta a cercare il libretto di banca, a quel tempo era ancora la padrona di casa. Si libera improvvisamente dalla stretta del portiere e grida: «Ladri! Ladri! Ladri!». Intende il nano per terra, il portiere, il ladro suo marito, il mondo intero e strilla senza posa, sempre più forte, non la smette più, ha fiato per dieci. Di sopra si sente uno sbatter di porte, molti passi, pesanti, risuonano sulla scala. L’usciere addetto all’ascensore dall’altra parte s’avvicina adagio. Non si darebbe maggior pena nemmeno se stessero assassinando un bambino. Da ventisei anni ormai è addetto all’ascensore: per l’esattezza vi è addetta la sua famiglia, lui si occupa della sorveglianza. Il portiere s’irrigidisce. Vede già qualcuno che il primo d’ogni mese viene a togliergli la pensione invece di portargliela. Per di più lo mettono dentro. I canarini muoiono perché non possono più cantare per nessuno. Lo spioncino viene murato. Salta fuori tutto quanto e gli inquilini oltraggiano sua figlia anche nella tomba. Lui non ha paura. Lui non dormiva per il pensiero che gli dava la ragazza. Le voleva un bene dell’anima. Le dava da mangiare, le dava da bere mezzo litro di latte al giorno. Lui è pensionato. Non ha paura. Anche il dottore dice che sono i polmoni. La mandi via di qui! Già, e con che soldi, signor mio? La pensione gli serve per mangiare. Lui è fatto così. Senza mangiare non riesce a vivere. E’ un effetto del suo mestiere. Senza di lui la casa andrebbe in rovina. La cassa malattie – sì, bella roba! Così un bel giorno lei gli torna con un bambino in braccio. In quel buco di guardiola! Lui non ha paura. Fischerle invece dice forte: «Adesso ho paura», e in fretta caccia il denaro in una tasca della giacca di Kien. Poi si fa ancora più piccolo. Fuggire è impossibile. La gente è già là, inciampa sui pacchi. Lui tiene tutte e due le braccia strette contro il corpo. I soldi di prima, quelli per il viaggio, stanno bene arrotolati nel cavo delle ascelle. Una vera fortuna che le sue ascelle siano fatte a quel modo. Quand’è vestito nessuno s’accorge di niente. Lui non si lascerà metter dentro. Alla polizia lo spogliano e gli portano via tutto. Per quelli ha sempre rubato. Che ne sanno loro della sua ditta? Avrebbe dovuto registrarla! Già, così poi doveva pagare le tasse. Comunque la ditta ce l’ha. Lo spilungone è un idiota. Che bisogno c’era che riconoscesse il fognaiolo proprio all’ultimo momento? Ora i soldi li ha di nuovo in tasca. Pover’uomo! Non bisogna piantarlo in asso. Potrebbero portargli via i soldi. Quelli li molla subito, è troppo buono. Fischerle è fedele. Non abbandonerà un socio d’affari. Quando lui sarà in America lo spilungone dovrà provvedere da solo a se stesso. Allora non ci sarà più nessuno ad aiutarlo. Stretto alle ginocchia di Kien Fischerle si fa sempre più piccolo, ben presto non rimane di lui che la gobba. A volte la gobba diventa uno scudo sotto il quale lui scompare, un guscio dentro il quale lui si ritira, una conchiglia che gli si richiude attorno. Il portiere se ne sta a gambe aperte, saldo come una roccia, gli occhi fissi sulla figlia ammazzata di botte. Stringe ancora in mano quello straccio di Kien, i suoi muscoli vi si sono abituati. A furia di urla Therese richiama là tutti gli abitanti del Theresianum. Non pensa a niente. E’ già abbastanza occupata a dosare il fiato. Urla meccanicamente. Urlare le fa bene. Sente che in quel modo ha la meglio. Nessuno la batte più. I quattro, immobili, vengono separati da un gran numero di mani e trattenuti come se si stessero ancora picchiando. Tutti li vogliono vedere in faccia. Fanno ressa intorno a loro. Dalla strada i passanti accorrono in massa al Theresianum. Gli impiegati e i clienti insistono sul loro diritto di precedenza. Là dentro loro sono di casa. L’usciere che da ventisei anni sorveglia l’ascensore deve ristabilire l’ordine, spinger fuori i passanti e chiudere le porte del Theresianum. Ma lui non ha tempo per questo. E’ finalmente arrivato vicino alla donna che invoca aiuto e si ritiene indispensabile in quel posto. Un’altra donna scorge la gobba di Fischerle sul pavimento e corre in strada urlando: «Un omicidio! Un omicidio!». Ha preso la gobba per un cadavere. Di più non sa. L’assassino è magro, gracile, come avrà potuto fare una cosa simile?, nessuno l’avrebbe mai creduto capace di tanto. Avrà sparato, dice uno. Ma certo, tutti hanno sentito lo sparo. L’hanno sentito a tre strade di distanza. Ma non è vero, quella era solo la gomma di un’automobile. Là però s’è sentito uno sparo! La folla non vuol rinunciare al suo sparo. Si stringe minacciosa intorno a colui che si permette di dubitarne. Bisogna fermarlo! E’ un complice! Vuole soltanto confondere le tracce! Dall’interno giungono nuove notizie. Le dichiarazioni della donna vengono rettificate. Il magro è la vittima. E il cadavere sul pavimento? E’ vivo. E’ l’assassino, cercava di nascondersi. Voleva squagliarsela strisciando fra le gambe ma l’hanno acciuffato. Le notizie successive sono più precise. Il piccolo è un nano. Eh, gli storpi! Ma il colpo l’ha dato un altro. Uno rosso di capelli. Eh, i rossi! Il nano l’ha istigato. Ammazzatelo! L’allarme l’ha dato la donna. Brava la donna! Ha gridato a più non posso. Una donna? Quella non sa neanche cosa sia la paura. L’assassino l’ha minacciata. Il rosso. La colpa è sempre dei rossi. L’ha presa per il colletto. Non hanno sparato. Certo che no. Nessuno ha sentito lo sparo. Lo diceva, lui! Qualcuno ha messo in giro la voce dello sparo. Il nano. Dov’è? E’ dentro. Avanti! Dentro non c’è più posto. E’ tutto pieno. Che omicidio! La donna ne ha passate di tutti i colori. Ogni giorno bastonate. L’ha mezza ammazzata di botte. Ma perché s’è andata a prendere un nano? Io non lo prenderei. Già, perché tu ne hai uno intero. In mancanza di meglio. C’è scarsità di uomini. Eh, la guerra! Questa gioventù corrotta! Anche questo qui è giovane. Neanche diciott’anni. E già nano. Che stupidaggine, quello è nato storpio. Se ti dico che lo so! Lui l’ha visto. Era dentro. Non ha resistito. Quanto sangue! Per questo è così magro. Un’ora fa era ancora grasso. Eh, la perdita di sangue! Io invece dico che i cadaveri si gonfiano. Sì, però solo quelli degli annegati. Che ne sa lei di cadaveri? Ha strappato i gioielli al cadavere. Allora è stato per i gioielli. Davanti al reparto degli ori. Una collana di perle. La baronessa. Lui era soltanto il servitore no, era il barone. Diecimila scellini. Ventimila! Un aristocratico. Un bell’uomo. Che se ne fa di lei? Oh bella, dovrebbe lasciare la moglie? La moglie dovrebbe lasciarlo! Eh, gli uomini! Lei è viva. Lui è il cadavere. Che morte! Per un barone! Gli sta bene. I disoccupati non hanno neanche da mangiare. Che se ne fa di una collana di perle? Bisognerebbe impiccarla. E’ quello che dico anch’io. Tutti quanti. E tutto il Theresianum. Dargli fuoco! Sai che falò! All’interno lo svolgimento dei fatti è tanto incruento quanto è cruento all’esterno. Appena la gente comincia ad accalcarsi il vetro della porta va in mille pezzi. Nessuno si ferisce. La sottana di Therese protegge l’unico realmente in pericolo, Fischerle. Non appena l’afferrano per il colletto lui comincia a gracchiare: «Lasciatemi, sono l’infermiere!». Indica Kien e continua a ripetere: «Dovete sapere che quest’uomo è pazzo. Capite? Io sono l’infermiere. State in guardia, è pericoloso! Dovete sapere che quest’uomo è pazzo. Io sono l’infermiere». Nessuno gli bada. E’ troppo piccolo, ci s’aspetta qualcosa di grosso. L’unica su cui sia riuscito a far colpo lo prende per un cadavere e annuncia l’assassinio a quelli che stanno fuori. Therese continua ad urlare. La cosa funziona ottimamente. Teme che, se smette, la gente l’abbandoni. A metà assapora la sua felicità, a metà suda per la paura di ciò che verrà più tardi. Fa pena a tutti. La consolano. E’ intimorita. L’usciere le posa persino la mano sulla spalla. Precisa che fa una cosa simile per la prima volta in ventisei anni. Lei però deve smetterla. La prega lui personalmente. Lui queste cose sa capirle. Ha tre figli. Se vuole lei può andare a casa sua. Là potrà riprendersi. In ventisei anni non ha mai invitato nessuno. Therese si guarda bene dallo smettere. Lui ne è offeso. Ritira persino la mano. Con rispetto parlando, è del parere che dallo spavento le abbia dato di volta il cervello. Fischerle afferra al volo queste sue parole e geme: «Le dico che il pazzo è lui, lei è normale! Mi creda, io me n’intendo di pazzi! Sono l’infermiere!». Per la verità un paio d’impiegati che non hanno trovato niente di meglio da fare lo tengono fermo; tuttavia nessuno gli presta la minima attenzione, perché gli sguardi di tutti sono rivolti all’uomo dai capelli rossi. Questi s’è lasciato mettere tranquillamente le mani addosso senza ammazzare nessuno, non ha nemmeno ruggito. Ma a tanta quiete segue una tempesta spaventosa non appena qualcuno cerca di staccarlo da Kien. Non vuol lasciare il professore, gli s’aggrappa con tutte le sue forze, con la destra scaglia la gente lontano da sé, il pensiero rivolto alla figlia teneramente amata, copre Kien di vezzeggiativi: «Professore! Lei è il mio unico amico! Non mi abbandoni! Io m’impicco! Non è stata colpa mia. Il mio unico amico! Io sono della polizia. Non sia in collera! Io sono una pasta d’uomo!». Le sue dichiarazioni d’affetto sono così fragorose che subito tutti riconoscono in Kien il ladro. Ci vuol poco a capire che l’altro lo sta schernendo, e tutti si compiacciono con se stessi per il proprio acume. Ognuno l’ha capito, ognuno sente quant’è giusto il desiderio del rosso di fare personalmente giustizia di quel delinquente. L’ha afferrato per il braccio, se lo stringe al cuore e gli dice le parole che si merita. Quando uno è tanto forte vuole vendicarsi da solo, uno così fa pure a meno della polizia. Naturalmente si tenta di trattenerlo, ma gli stessi che lo trattengono non possono non ammirarlo, quell’eroe che sistema ogni cosa da sé, loro farebbero esattamente lo stesso, anzi lo fanno, loro sono lui, sopportano di buon grado persino i violenti spintoni che si danno da soli. L’usciere pensa che qui la sua dignità sarà in migliori mani. Lascia perdere la donna che giudica fuori di sé dallo spavento e copre con la sua mano carnosa ma autorevole la spalla dell’uomo furibondo. Con voce né troppo alta né troppo bassa rende noto che da ventisei anni non un solo ascensore s’è mosso senza la sua sorveglianza, lui mantiene l’ordine là dentro da ventisei anni e una cosa simile non gli è mai capitata, lo garantisce personalmente. Le sue parole si perdono nel frastuono. Dato che il rosso non si cura di lui gli si china confidenzialmente all’orecchio e dichiara che lui sa capire molto bene queste cose. Lui, da ventisei anni, ha tre figli. Un tremendo spintone lo riporta vicino a Therese. Il suo berretto cade per terra. Si rende conto che bisogna fare qualcosa e va a chiamare la polizia. Finora quest’idea non era venuta a nessuno. Quelli che partecipano direttamente alla scena attribuiscono a se stessi le funzioni di polizia e quelli che stanno più lontano sperano di arrivare a loro volta a quel grado. Due si assumono l’incombenza di mettere al sicuro i due pacchi di libri. Si servono dello stretto passaggio che l’usciere si sta aprendo nella ressa e gridano da tutte le parti: «Largo!». Bisogna depositare i pacchi nella stanza del corpo di guardia prima che qualcuno se li porti via. Strada facendo decidono d’esaminarne prima il contenuto. Scompaiono indisturbati. Non vengono rubati altri pacchi solo perché non ve ne sono più. Grazie all’usciere anche la polizia, che ha un posto di guardia all’interno del Theresianum, sente odore di bruciato e poiché l’informatore ha parlato di quattro persone coinvolte si mette in cammino forte di sei uomini. L’usciere ha indicato il posto con esattezza ma offre loro anche il suo aiuto, e li precede. La folla circonda ammirata la polizia. Basta l’uniforme per capire quante cose le siano permesse in qualunque momento. Cose che gli altri possono fare solo quando la polizia è lontana. Tutti fanno largo con premura. Uomini che hanno lottato duramente per conquistarsi il loro posto vi rinunciano a favore dell’uniforme. Altri, di carattere meno deciso, indietreggiano con un attimo di ritardo e sfiorano rabbrividendo la stoffa ruvida. Tutti puntano il dito su Kien. Ha tentato di rubare. Ha rubato. Se lo sono subito immaginato tutti. Therese viene trattata con rispetto dalla polizia. Lei è la derubata. Ha scoperto lei il reato. Viene presa per la moglie del rosso perché gli lancia occhiate astiose. Due poliziotti si piantano alla sua destra e alla sua sinistra. Non appena s’accorgono della sottana blu il loro rispetto si trasforma in sorridente cordialità. Gli altri quattro strappano a Kien la sua rossa vittima; a tal fine è inevitabile il ricorso alla forza: il rosso è letteralmente incollato al ladro. In un modo o nell’altro costui deve aver colpa anche di questo, dal momento che è il colpevole. Il portiere crede che lo stiano arrestando. La sua paura cresce. Rivolto a Kien ruggisce chiedendo aiuto. Lui è della polizia! Professore! No, l’arresto no! Giù le mani! La figlia! Colpisce selvaggiamente intorno a sé. La sua forza dà sui nervi alla polizia. Tanto più che lui afferma di farne parte. Essa s’impegna in una lunga lotta. I quattro uomini cercano di risparmiarsi. Altrimenti, col mestiere che fanno, dove andrebbero a finire? Tempestano il rosso da tutte le parti e in tutte le maniere possibili. I presenti si dividono in due fazioni. Il cuore degli uni batte per l’eroe, gli altri stanno sempre dalla parte della polizia. Ma non ci si ferma ai cuori. Agli uomini prudono le mani, le donne urlano a squarciagola; per non immischiarsi con la polizia, tutti si precipitano su Kien. Lo picchiano, lo spingono, lo calpestano. La scarsa superficie che lui offre agli aggressori non consente che una soddisfazione assai scarsa. Viene deciso di comune accordo di strizzarlo come un panno bagnato. Quanto lui sia cosciente della sua colpa lo si capisce dal suo silenzio. Non fiata, tiene gli occhi chiusi, niente riesce a farglieli aprire. Fischerle non può assistere a questo spettacolo. Da quando è arrivata la polizia non fa che pensare ai suoi impiegati che l’aspettano fuori. Per un attimo lo trattiene il denaro nella tasca di Kien. L’idea di ripigliarselo sotto gli occhi di sei poliziotti l’inebria. Però si guarda bene dall’attuarla. Aspetta un’occasione favorevole per tagliare la corda. Non se ne presenta nessuna. Osserva col fiato sospeso i carnefici di Kien. Quando colpiscono la tasca dove lui ha infilato il denaro, si sente trapassare il petto. Quella tortura finirà col ridurlo in pezzi. Cieco di dolore si salva tra le gambe più vicine. L’agitazione del gruppo più prossimo ai protagonisti della scena torna a suo vantaggio. Più lontano, dove nessuno sospettava la sua esistenza, la gente comincia ad accorgersi di lui. Con il tono più lamentoso possibile grida: «Ah, mi manca l’aria, fatemi uscire!». Tutti ridono e s’affrettano a soccorrerlo. In mancanza dell’agitazione dei fortunati in prima fila ci s’accontenta di divertirsi a guardare lui. Dei sei poliziotti nemmeno uno l’ha visto; era troppo in basso, la sua gobba non s’è fatta notare. Per strada lo fermano anche quando non ha fatto niente. Oggi è fortunato. Raggiunge la folla immensa raccolta davanti al Theresianum. Là lo stanno aspettando da un quarto d’ora. Le sue ascelle sono intatte. Contro i giustizieri di Kien la polizia non interviene. E’ troppo occupata. Quattro lottano con il rosso, due piantonano Therese. Non possono lasciarla sola. Lei non grida più da un pezzo. Ora riprende a strillare: «Di più! Di più! Di più!». Batte il tempo a coloro che strizzano quello straccio di Kien. La sua scorta tenta di calmarla. Finché lei si agita con tanto impeto i due ritengono inutile qualsiasi intervento. Gli incitamenti di Therese sono rivolti anche alle quattro brave persone intente a domare il portiere. Lei ne ha abbastanza di farsi pizzicare. Ne ha abbastanza di farsi derubare. La sua paura della polizia cede il posto a sentimenti d’orgoglio. Fanno tutti ciò che dice lei. Basta che lei ordini. Così si fa! Lei è una donna per bene. «Di più! Di più! Di più!». Therese balla, la sottana ondeggia. Un ritmo travolgente s’è impadronito di tutti. Chi rimbalza da una parte, chi dall’altra, lo slancio cresce di continuo. Lo strepito si compone in un suono unitario; anche quelli che non partecipano direttamente all’azione cominciano ad ansimare. A poco a poco le risate si spengono. Le operazioni di pegno s’interrompono. Tutti, anche ai più lontani sportelli, si mettono in ascolto. Chi accosta la mano all’orecchio, chi porta il dito alle labbra: parlare è proibito. Chi venisse con l’intenzione di sbrigare qualche commissione potrebbe essere certo di suscitare l’ira più silenziosa. Il Theresianum, sempre in gran movimento, è dominato da una pace infinita. Un unico respiro affannoso rivela che esso è ancora in vita. Tutte le creature che lo popolano gonfiano insieme i polmoni ed espirano insieme con entusiasmo. Grazie a questo generale stato d’animo le guardie riescono a domare il portiere. Due l’immobilizzano nella stretta poliziesca, un terzo tiene d’occhio i suoi piedi che un po’ tirano calci e un po’ cercano di trascinarsi appresso il professore. Il quarto ristabilisce l’ordine. Kien viene tuttora picchiato, ma nessuno ci trova più gusto. Lui non si comporta né da uomo né da cadavere. Per quanto lo si strizzi non se ne cava un gemito. Potrebbe parare i colpi, coprirsi la faccia, contorcersi o almeno sussultare, ci si aspetta da lui qualunque cosa ma lui delude. Un individuo del genere deve averne d’ogni colore sulla coscienza, questo è vero, ma se occhio non vede bastonata non duole. Disgustati e ormai liberi da una fastidiosa incombenza l’abbandonano nelle mani della polizia. E’ necessario un grande sforzo di volontà per non impiegare, gli uni contro gli altri, le mani rimaste inattive. Tutti si osservano a vicenda e scorgendo i panni altrui ognuno rientra nei propri e ravvisa negli occasionali compagni di lotta colleghi e coinquilini. Therese dice: «Così va bene!». Che altro potrebbe ancora ordinare? Adesso vorrebbe andarsene e si prepara a lavorare di gomiti e di testa. Il poliziotto che ha preso in consegna Kien si stupisce dell’indole tranquilla di quest’uomo che ha sulla coscienza un simile parapiglia. E, dato che ha sofferto più di tutti gli altri sotto i pugni del rosso, ne odia la moglie. In ogni caso deve seguirli anche lei. Le due sentinelle l’arrestano con gioia. Si vergognano d’essere rimasti inattivi mentre gli altri quattro rischiavano la vita contro il rosso. Therese li segue perché lei non ha nulla da temere. Li avrebbe anzi seguiti in ogni caso. Al posto di polizia ha intenzione di mettere convenientemente nei guai i due uomini. Un’altra guardia, nota per la sua memoria di ferro, conta gli arrestati sulle dita: uno, due, tre. E il quarto dov’è? domanda all’usciere. Costui aveva seguito la mischia con aria offesa e aveva finito di ripulirsi il berretto proprio nel momento in cui tutti i nemici erano stati arrestati. Ora la sua freddezza si sciolse: di un quarto lui non sapeva niente. La guardia dalla memoria di ferro asserì che proprio lui aveva parlato di quattro persone. L’usciere negò. Lui manteneva l’ordine là dentro da ventisei anni. Aveva tre figli. C’era quindi da supporre che sapesse contare. Altri gli vennero in aiuto. Nessuno aveva visto il quarto. Il quarto era un’invenzione, il quarto se l’era inventato il ladro per allontanare da sé i sospetti. Quel volpone sapeva bene perché taceva. Anche il genio mnemonico s’accontentò di quella spiegazione. Tutti e sei gli uomini erano indaffaratissimi. I tre prigionieri vennero pilotati con precauzione attraverso i resti della porta a vetri e la folla. Kien sfiorò nel passare l’unico frammento di vetro rimasto conficcato nella porta e si tagliò la manica. Quando giunsero davanti al posto di guardia cominciò a colare del sangue. I pochi curiosi che li avevano seguiti fin là lo guardarono stupiti. Quel sangue riusciva loro incredibile. Era il primo segno di vita che Kien avesse dato. Quasi tutti s’erano dispersi. Alcuni erano tornati a sedere dietro gli sportelli, altri a porgere i loro pegni con aria supplichevole o arrogante. Tuttavia gli impiegati s’abbassavano a scambiare qualche parola sull’accaduto persino con i poveri diavoli. Accoglievano le opinioni di gente davanti alla quale avevano il sacrosanto dovere di tapparsi le orecchie. Riguardo all’oggetto del crimine non fu possibile mettersi d’accordo. Oggetti preziosi, suggerivano alcuni: se non fosse stato così non sarebbe valsa la pena di fare tanta ressa. Libri, sostenevano altri: il luogo parlava a favore di quest’ipotesi. Persone più posate rimandavano ai giornali della sera. La maggioranza dei partiti propendeva per una questione di denaro. Gli impiegati obiettavano, più gentilmente del solito, che chi ha tanti quattrini non frequenta il Monte di pietà. Ma forse avevano già impegnato qualcosa. Anche questo tuttavia sembrava da escludersi: l’impiegato che avesse eseguito l’operazione li avrebbe senz’altro riconosciuti e non v’era uno fra gli impiegati che non pensasse d’essere lui quel tale. Alcuni compiangevano il loro rosso eroe, i più avevano già cessato d’interessarsene. Per mostrarsi persone di cuore trovavano che la moglie meritasse ancor più compassione, quantunque fosse vecchia. Nessuno l’avrebbe sposata. Era un peccato aver perso tanto tempo, e d’altra parte esso era trascorso in maniera vivace.