lunedì 7 giugno 2021

QUANDO LEI ERA BUONA Philip Roth

 


QUANDO LEI ERA BUONA

Philip Roth 

Quando era ancora una bambina, Lucy Nelson ha vissuto il fallimento di un padre alcolizzato e violento che entrava e usciva di prigione. Da allora ha sempre cercato di correggere gli uomini intorno a lei: anche se questo poteva voler dire sacrificare se stessa nel tentativo. Con i ritratti infallibili e precisi di Lucy e di Roy, il marito infantile e sfortunato, Roth ha creato un grande quadro della vita americana e dei suoi sentimenti, dei suoi desideri e dei suoi rancori, una visione allo stesso tempo spietata e piena di compassione.

Il terzo romanzo di Philip Roth, pubblicato nel 1967 e proposto oggi in una nuova traduzione, procede con la stessa ineluttabilità della tragedia greca. «Quando lei era buona è un passo avanti rispetto alla maggior parte dei romanzi usciti in questi anni. Roth è uno scrittore serio, uno di quelli che volge le spalle alle mode e alle aspettative, uno capace di prendersi dei rischi. Per questo e per altri motivi Roth è uno dei pochi scrittori di oggi di cui valga la pena occuparsi in futuro». Recensione originale del «New York Times»

In questo romanzo tanto divertente quanto terrorizzante, assoluta protagonista è, caso unico nei romanzi di Philip Roth, una donna. Lucy Nelson reagisce alle ferite dell’infanzia con una rabbia ferocemente moralista: il suo desiderio di essere «buona», anzi di essere la più buona di tutti, condurrà lei e chi la circonda al disastro.

QUANDO LEI ERA BUONA


CAPITOLO PRIMO

Non essere ricco, non essere famoso, non essere potente, nemmeno essere felice, ma essere civile, – questo era il sogno della sua vita. Quando lasciò la casa, o baracca, di suo padre nei boschi del Nord dello stato, quali fossero le caratteristiche di una tale vita non avrebbe saputo spiegarlo; aveva in programma di viaggiare fino a Chicago per scoprirlo.

Sapeva per certo quel che non voleva, cioè vivere come un selvaggio. Suo padre era un uomo violento e ignorante – cacciatore di pellicce, poi taglialegna e, negli ultimi anni della sua vita, sorvegliante alle miniere di ferro. La madre era una donna laboriosa e d’indole servile che non si sarebbe mai permessa di volere qualcosa di diverso da ciò che aveva; o se invece lo voleva, se invece era diversa da come sembrava, di certo non riteneva prudente parlare dei propri desideri di fronte al marito. Uno dei più vividi ricordi d’infanzia di Willard è la volta in cui una squaw chippewa purosangue si presentò alla loro casupola con una radice da far masticare a sua sorella Ginny, che aveva la febbre alta per la scarlattina. Willard aveva sette anni e Ginny uno, e la squaw, stando a come la racconta oggi Willard, ne aveva più di cento. La bambina delirante non morì, e in seguito Willard capì che il padre avrebbe preferito che fosse morta. Nel giro di pochi anni si accorsero che la povera piccola Ginny non riusciva a imparare a fare due più due, o a elencare nel giusto ordine i giorni della settimana. Se fosse stata una conseguenza della malattia, o se invece Ginny fosse nata Così, nessuno l’avrebbe mai saputo. Willard non dimenticò mai la brutalità di quell’episodio, che per lui consisteva nel fatto che non si facesse nulla, perché quel che stava accadendo stava accadendo a una bambina di un anno. Quel che stava accadendo – così perlopiù lo percepiva lui all’epoca – era ancora più profondo dei suoi occhi… Mentre prendeva coscienza delle proprie peculiari attrattive, il bambino settenne aveva di recente scoperto che, talvolta, ciò che sulle prime gli veniva negato in seguito gli veniva concesso quando lui guardava negli occhi l’altra persona abbastanza a lungo perché trasparissero la sincerità e l’intensità del suo desiderio, e risultasse evidente che non si trattava di una cosa che lui semplicemente voleva, ma di una cosa di cui lui aveva bisogno. Il successo di questa strategia, che a casa era scarso, era invece considerevole alla scuola di Iron City, dove la giovane maestra aveva una predilezione per quel ragazzino così dinamico, allegro e intelligente. La sera in cui Ginny giaceva gemente nella sua culla, Willard fece tutto quel che poteva per richiamare l’attenzione del padre, ma lui continuava a mandar giù la sua cena. E, quando finalmente parlò, fu solo per dire al figlio di piantarla di dimenarsi e di fissarlo, e mettersi a mangiare. Ma Willard non riusciva a inghiottire neanche un boccone. Di nuovo si concentrò, di nuovo fece risalire agli occhi tutta la sua emozione, sperò con tutto il cuore – una speranza puramente altruistica, niente per sé; non avrebbe sperato mai più niente per sé – e rivolse la sua supplica alla madre. Ma lei si limitò a voltarsi dall’altra parte e piangere. Più tardi, quando il padre uscì dalla baracca e la madre portò i piatti alla tinozza, lui attraversò la stanza buia fino all’angolo dove giaceva Ginny. Mise una mano nella culla. La guancia che toccò sembrava una borsa dell’acqua calda. Accanto ai piedi roventi della bambina trovò la radice che la donna indiana aveva portato loro quella mattina. Ci avvolse attorno con cura le dita di Ginny, ma appena le lasciò andare quelle tornarono a distendersi.

Raccolse la radice e gliela accostò alle labbra. – Prendi, – disse, come se stesse cercando di convincere un animale a mangiare dalla sua mano.

Gliela stava ficcando fra le gengive quando la porta si aprì. – Ehi, tu… lasciala stare, va’ via, – e così, inerme, andò a letto e, a sette anni, per la prima volta ebbe il terrificante sentore che nell’universo esistessero forze ancora più immuni al suo fasci no, ancora più avulse dai suoi desideri, ancora più indifferenti ai bisogni e ai sentimenti umani, di quanto lo fosse suo padre.

Ginny visse con i genitori fino alla morte della madre. Poi il padre di Willard, ormai ridotto una vecchia carcassa, si trasferì in una stanza ad Iron City, e Ginny fu portata a Beckstown, nell’angolo nordoccidentale dello stato, dove all’epoca c’era una clinica per frenastenici. Ci volle quasi un mese perché la notizia di quel che aveva fatto il padre giungesse a Willard. Ignorando le obiezioni di sua moglie, quella sera stessa salì in macchina, e guidò per quasi tutta la notte. L’indomani a mezzogiorno tornò a casa con Ginny, – non a Chicago, ma nella cittadina di Liberty Center, duecentocinquanta chilometri a valle di Iron City lungo il fiume, il punto più a sud raggiunto da Willard quando a diciott’anni aveva deciso di trasferirsi nel mondo civile.

Dopo la guerra la cittadina di campagna che era stata un tempo Liberty Center si stava sempre più trasformando nel sobborgo di Winnisaw che avrebbe finito per diventare. Ma quando ci si stabilì Willard non c’era nemmeno un ponte sul fiume Slade che collegasse Liberty Center sulla sponda orientale con il capoluogo di contea su quella occidentale; per andare a Winnisaw bisognava prendere un traghetto dal pontile, oppure, in pieno inverno, camminare sul ghiaccio. Liberty Center era una cittadina di casette bianche ombreggiate da grossi olmi e aceri, con un palco per la banda nel mezzo di Broadway, la strada principale.

Delimitata a ovest dal pallido corso del fiume, a est si apre verso la campagna, che nell’estate del 1903, quando vi giunse Willard, era di un verde così acceso da ricordargli, – come diceva sempre per far ridere i giovani -, un tizio di sua conoscenza che a un picnic aveva mangiato mezzo chilo di insalata di patate andata a male.

Finché non era venuto giù dal Nord, per lui «fuori città» aveva sempre significato i maestosi boschi che si stendevano fino al Canada, e le intemperie che giungevano da lassù, folate di vento, di grandine, di pioggia e di neve. Mentre «città» significava Iron City, dove venivano portati i tronchi perché fossero lavorati, e il minerale grezzo perché venisse caricato sui carri merci; la sferragliante, ronzante, brulicante, polverosa città di frontiera fino alla quale ogni giorno di scuola lui camminava, oppure d’inverno, quando usciva di casa nelle gelide e fosche nebbie mattutine, correva – attraverso boschi infestati dagli orsi e dai lupi. Perciò, al vedere Liberty Center, con la sua placida bellezza, il suo ordine sereno, la sua garbata calma estiva, tutto ciò che in lui era stato tenuto a freno, tutta quella tenerezza di cuore che per diciotto anni era stata il suo fardello segreto, nonché talvolta la sua vergogna, prese a traboccare. Se mai esisteva un luogo dove la vita poteva essere meno tetra e dura e crudele della vita che aveva conosciuto da bambino, se mai esisteva un posto dove un uomo non era costretto a vivere come un bruto, dove non era costretto a ricordare di continuo che nel mondo c’era qualcosa che o detestava il genere umano oppure ignorava la sua esistenza, quel luogo era quello. Liberty Center!

Oh, dolce nome! Almeno per lui, perché davvero si era finalmente liberato dalla terribile tirannia degli uomini crudeli e della natura crudele. Trovò una stanza; poi trovò un impiego, diede un esame e si piazzò abbastanza in alto da essere assunto come impiegato delle poste; poi trovò una moglie, una ragazza determinata e rispettabile di una famiglia perbene; e poi ebbe una figlia; e poi un giorno si comprò, realizzando, scoprì, un desiderio molto profondo, una casa tutta sua, con un portico davanti e un giardinetto sul retro: al pianoterra un salotto, una sala da pranzo, una cucina e una camera da letto; al piano di sopra altre due camere da letto e un bagno.

Nel 1915, sei anni dopo la nascita della figlia, e in seguito alla sua promozione a vicedirettore dell’ufficio postale cittadino, al pianoterra fu costruito un altro bagno sul retro. Nel 1962 si dovette rifare il marciapiede davanti a casa, una spesa enorme per un uomo che ormai viveva con la pensione governativa, ma una spesa da farsi, perché in cinque o sei punti si era deformato ed era diventato pericoloso per i passanti. E in effetti, fino a oggi, ora che la sua notoria prontezza di riflessi, o irrequietezza che dir si voglia, è pressoché svanita; ora che diverse volte nel giro di un pomeriggio si ritrova su una poltrona su cui non ricorda di essersi seduto, destandosi da un sonno di cui non ricorda di aver avuto bisogno; ora che la sera per slegarsi le scarpe emette un gemito che nemmeno ode; ora che a letto gli ci vogliono parecchi minuti per chiudere le dita a pugno, e a volte è costretto ad addormentarsi senza avercela fatta; ora che alla fine di ogni mese, guardando la nuova pagina del calendario, si convince che quello sulla porta della dispensa sia il mese e l’anno in cui sicuramente morirà, che uno di quei grossi numeri neri che i suoi occhi stanno lentamente scorrendo sia la data in cui lui scomparirà per sempre dal mondo… nondimeno, ancora oggi continua a occuparsi con la massima sollecitudine possibile della ringhiera del portico che sta cedendo, del rubinetto del bagno che gocciola o di una bulletta che sta venendo via dalla passatoia nel corridoio – e tutto ciò per continuare a garantire non solo la comodità di coloro che ancora vivono con lui, ma anche la dignità del tutto, per quel che vale. Un pomeriggio di novembre del 1954, una settimana prima del giorno del Ringraziamento, proprio al crepuscolo, Willard Carroll giunse in macchina a Clark’s Hill, parcheggiò accanto alla recinzione, e salì a piedi il vialetto fino al lotto di famiglia. Il vento si faceva di minuto in minuto più freddo e più forte, così che, quando Willard ebbe raggiunto la sommità della collina, i rami degli alberi spogli, che mentre scendeva dall’auto si limitavano a schioccare uno contro l’altro, adesso producevano un cupo boato. In alto nel cielo tempestoso c’era una strana luce, mentre in basso sembrava già notte. Della città si distinguevano quasi soltanto la linea nera del fiume e i fari delle auto in movimento lungo Water Street verso il ponte di Winnisaw. Come se, fra tutti i posti, proprio quello fosse stato la sua destinazione, Willard si lasciò cadere sulla fredda panca in pietra di fronte alle due lapidi, sollevò il colletto del giaccone da caccia rosso, tirò giù i paraorecchie del berretto, e lì, davanti alle tombe di sua sorella Ginny e sua nipote Lucy, e ai rettangoli riservati agli altri di loro, aspettò. Cominciò a nevicare. Che cosa aspettava? Si rese conto in fretta della stupidità del proprio comportamento. La corriera per andare incontro alla quale lui era uscito di casa si sarebbe fermata dietro l’emporio di Van Harn entro qualche minuto; e poi, che suo suocero restasse o meno a sedere lì in un gelido cimitero, dalla corriera sarebbe sceso Whitey, valigia in mano. Tutto era pronto per il ritorno a casa, che Willard stesso aveva contribuito a determinare. E dunque?

Doveva fare marcia indietro? Cambiare idea? Lasciare che Whitey si trovasse un altro finanziatore… o un altro allocco? Giusto, oh sì, proprio così – che venisse pure buio, che venisse pure freddo, lui se ne sarebbe restato lì seduto sotto la neve… E la corriera sarebbe arrivata e il tizio sarebbe sceso e avrebbe puntato dritto verso la sala d’aspetto, tutto tronfio per essere di nuovo riuscito a far fesso qualcuno – solo per scoprire che questa volta non c’era nessun allocco di nome Willard ad aspettarlo nella sala d’aspetto. Ma a casa Berta stava preparando la cena per quattro; mentre usciva dalla porta della cucina per andare in garage, Willard le aveva dato un bacio sulla guancia: – Andrà tutto bene, Mrs Carroll, – ma fu come se avesse parlato a se stesso, vista la reazione che aveva suscitato. E a dire il vero, proprio a se stesso stava parlando. Era uscito in retromarcia nel vialetto e aveva alzato lo sguardo verso il piano di sopra, dove sua figlia Myra era affaccendata in camera sua così da farsi trovare lavata e vestita quando il padre e il marito avrebbero varcato la soglia. Ma la cosa più triste, la cosa più sconcertante, era la piccola luce accesa in camera di Lucy. Solo la settimana prima, Myra aveva spostato il letto da un lato della stanza all’altro, e aveva tolto le tende che erano rimaste appese lì per tutti quegli anni, poi era uscita a comprare un copriletto nuovo, così che perlomeno la camera non sembrasse più quella dove aveva dormito, o cercato di dormire, Lucy l’ultima notte che aveva trascorso in quella casa. Naturalmente, riguardo al come e dove Whitey avrebbe trascorso le sue notti, cosa poteva fare Willard se non starsene zitto?

In segreto era sollevato dal fatto che a quel modo Whitey sarebbe stato «in prova»… se solo avesse dormito in un altro letto invece che in quello. E poi, a Winnisaw, un vecchio amico e confratello massone di Willard, Bud Doremus, stava aspettando che il lunedì mattina per prima cosa Whitey si presentasse a lavorare da lui al ferramenta all’ingrosso.

Gli accordi con Bud risalivano all’estate, quando Willard aveva accettato di accogliere di nuovo in casa suo genero, ma solo temporaneamente. «Solo temporaneamente» era la garanzia che aveva dato a Berta; perché aveva ragione lei, non poteva essere la replica del 1934, con uno che si presentava lì nel bisogno per una breve permanenza e in qualche modo riusciva a vivere per sedici anni a sbafo sul groppone di qualcun altro, e un groppone nemmeno tanto largo. Ma ovviamente, aveva detto Willard, si dava il caso che l’altro tizio fosse il padre della moglie di quel qualcuno… E questo cosa significa, aveva chiesto Berta, che anche questa volta saranno sedici anni? Perché padre di sua moglie lo sei ancora; questo non è cambiato. Berta, tanto per cominciare non credo che mi restino altri sedici anni. Be’, aveva detto lei, neanch’io, il che potrebbe essere un’altra ragione per non iniziare nemmeno. Vuoi dire che dovremmo lasciarli a se stessi? Prima ancora di sapere se è cambiato davvero oppure no?, aveva chiesto Willard. E se ha veramente messo la testa a posto, una volta per tutte? Oh, certo, aveva detto Berta. Be’, fare del sarcasmo può anche essere la tua risposta, Berta, ma si dà il caso che non sia la mia. Vuoi dire che si dà il caso che non sia quella di Myra, aveva detto lei. Io sono aperto a tutte le opinioni, aveva detto lui, non lo nego, perché dovrei? Bene, allora magari dovresti essere aperto alla mia, di opinione, aveva detto Berta, prima di ricominciare un’altra volta con questa tragedia. Berta, aveva detto lui, fino al primo gennaio darò a quest’uomo un posto dove ritrovare l’orientamento. Il primo gennaio, aveva detto lei, ma di quale anno? Del Duemila? Seduto da solo su al cimitero, con i rami degli alberi sollevati dal vento, e il buio della città che pareva risucchiato verso il cielo mentre scendeva la prima neve, Willard stava ricordando i giorni della Depressione, e anche le notti, quando a volte si svegliava nel buio pesto e non sapeva se tremare o essere lieto del fatto che in ogni letto della casa dormisse qualcuno che aveva bisogno di lui. Erano trascorsi appena sei mesi dacché era andato a Beckstown a salvare Ginny da una vita tra i frenastenici, quando aveva aperto la porta a Myra e Whitey e alla loro figlioletta di tre anni, Lucy. Oh, se la ricorda ancora la bambina minuscola, vivace, dai capelli dorati che era stata Lucy: briosa e dolce e intelligente. Ricorda quando stava imparando a prendersi cura di se stessa, come cercava di trasmettere quel che sapeva alla zia Ginny, e come Ginny, poveretta, riusciva a malapena a padroneggiare le più basilari funzioni corporee, figuriamoci le sottigliezze dei ricevimenti pomeridiani, o il mistero di come si arrotolano insieme due calzini bianchi formando una palla. Oh, sì, ricorda tutto. Ginny, una donna adulta, pienamente sviluppata, che guardando in giù con quella sua faccia pallida e stolida aspettava che fosse Lucy a dirle cosa doveva fare… la piccola Lucy, non più grande di un uccellino. Alle calcagna della bambina felice, Ginny correva sul prato, con la punta degli stivaletti rivolta all’infuori, a rapidi passettini per non restare indietro, – una scena stranamente bella, ma anche malinconica, perché segno non solo del loro reciproco amore, ma anche di come nel cervello di Ginny si confondessero molte cose che nella vita reale sono separate e distinte. Ginny sembrava sempre pensare che in qualche modo Lucy fosse lei stessa – cioè un’altra Ginny, o il resto di Ginny, o quella Ginny che la gente chiamava Lucy. Quando Lucy mangiava un gelato, negli occhi di Ginny compariva un’espressione felice e contenta, come se fosse lei a mangiarlo. Oppure, se per punizione Lucy veniva mandata a letto presto, Ginny singhiozzava e andava a dormire come se fosse stata anche lei in castigo… una scena di tipo differente, che rendeva gli altri famigliari tristi e infelici. Quando per Lucy giunse il momento di cominciare la scuola, la cominciò anche Ginny, solo che lei non avrebbe dovuto. Seguiva Lucy fin lì, poi si piazzava fuori dal pianoterra dove c’era l’asilo e la chiamava. Sulle prime la maestra spostò Lucy di banco, nella speranza che, non vedendola, Ginny si stancasse, o stufasse, e tornasse a casa. Ma Ginny non faceva che chiamare più forte, e di conseguenza Willard dovette farle una ramanzina, dicendole che, se non avesse lasciato in pace Lucy, lui avrebbe dovuto tenere per tutto il giorno chiusa a chiave in camera sua una bambina cattiva di nome Virginia. Ma la punizione si rivelò inefficace, sia come minaccia sia una volta attuata: appena la lasciavano uscire dalla stanza per andare in bagno, lei scappava giù per le scale con quella sua buffa andatura a papera e correva alla scuola. E comunque Willard non poteva mica segregarla. Se era andato a prendere la sorella e l’aveva portata a vivere in casa sua non era certo per tenerla legata a un albero in giardino. Era il suo parente più prossimo ancora in vita, spiegò a Berta quando lei suggerì come possibile soluzione un lungo guinzaglio; era la sua sorellina, a cui quando aveva appena un anno era successa una cosa terribile. Però Lucy, gli fu ricordato – come se ce ne fosse stato bisogno -, era la figlia di Myra, e sua nipote, e come poteva imparare qualcosa a scuola se per tutto il giorno Ginny se ne stava là fuori a cantilenare con il suo vocione monocorde: «Luu–cy… Luu–cy…»? Alla fine venne il giorno che sembrava completamente assurdo. Visto che Ginny non la smetteva di stare fuori dall’aula di una scuola elementare a invocare un nome senza far male a nessuno, Willard la caricò in macchina e la riportò alla clinica statale di Beckstown. La sera prima, il preside gli aveva di nuovo telefonato a casa e, con la massima cortesia, aveva fatto presente che le cose non potevano più continuare così. Willard nutriva la convinzione che nel giro di qualche settimana Ginny avrebbe afferrato l’idea, ma il preside gli aveva detto a chiare lettere, come già aveva detto poco prima ai genitori della bambina, che, se Ginny non veniva rinchiusa una volta per tutte, Lucy avrebbe dovuto essere tenuta lontana dalla scuola, cosa che, ovviamente, avrebbe costituito una violazione della legge dello stato. Durante il lungo viaggio in macchina fino a Beckstown, Willard cercò ripetutamente di far comprendere in qualche modo la situazione a Ginny, ma per quanto si sforzasse, per quanti esempi trovasse – vedi, Ginny, quella è una mucca, e quella è un’altra; e quello è un albero, e quello è un altro albero -, non riuscì a convincerla che Ginny era una persona e Lucy un’altra. Arrivarono intorno all’ora di cena. Prendendola per mano, la condusse per il viottolo infestato dalle erbacce fino al lungo edificio in legno a un unico piano dove avrebbe dovuto trascorrere il resto dei suoi giorni. E perché? Perché non riusciva a comprendere il fatto più basilare della vita umana, il fatto che io sono io e tu sei tu.

Nell’ufficio, il direttore diede a Ginny il bentornato alla scuola professionale di Beckstown. Un’inserviente si caricò sulle braccia tese una coperta e due asciugamani, uno grande e uno piccolo, e la pilotò verso l’ala femminile. Seguendo le istruzioni dell’inserviente, lei srotolò il materasso e cominciò a prepararsi il letto. «Sto facendo la stessa cosa che ha fatto mio padre! – pensò Willard. – Cacciarla via!»… e intanto il direttore gli stava dicendo: – E’ così che funziona, Mr Carroll. La gente pensa di poterseli tenere a casa, e poi li riportano indietro. Non si senta in colpa, va sempre a finire così.

Ginny visse pacificamente fra i suoi simili per altri tre anni; poi un inverno nella clinica dilagò un’epidemia di influenza e, prima ancora che al fratello potesse venir notificata la sua malattia, lei morì.

Quando Willard andò ad Iron City per comunicare la notizia al padre, il vecchio lo ascoltò accogliendo le sue parole senza neanche un sospiro; senza una sola cosa umana da dire; senza una lacrima per quella creatura, carne della sua carne e sangue del suo sangue, vissuta e morta ai margini della società umana. Morta sola, disse Willard, senza famiglia, senza amici, senza una casa… Il vecchio si limitò ad annuire, come se quella che il suo affranto figliolo gli stava riferendo fosse una bazzecola. Nel giro di un anno anche il vecchio morì, di emorragia cerebrale. Al modesto funerale organizzato per lui ad Iron City, sulla tomba del padre Willard si trovò improvvisamente e inesplicabilmente attanagliato da una sensazione che talvolta prende i teneri di cuore anche alla morte di un nemico: seppe per certo che il suo spirito era stato più profondo, e la sua vita più tragica, di quanto lui avesse mai immaginato. Si spazzò via la neve dalla spalla della giacca e batté a terra il piede destro perché gli stava venendo un formicolio. Guardò l’ora. «Be’, magari la corriera è in ritardo. E altrimenti, che aspetti pure. Quello non muore mica». Stava di nuovo ricordando: di tutte le cose, la festa del paese ad Iron City per il giorno dell’indipendenza, un quattro luglio di quasi sessant’anni prima, quando aveva vinto lui otto delle dodici gare di atletica in programma, stabilendo un primato tuttora imbattuto. Willard lo sa perché ogni cinque luglio fa sempre in modo di mettere le mani su un giornale di Iron City, tanto per sicurezza. Ricorda ancora quando era corso a casa attraverso i boschi al termine di quel giorno di gloria, sfrecciando su per la strada sterrata, fino alla baracca, per poi lasciar cadere sul tavolo tutte le medaglie che si era guadagnato; ricorda come il padre le aveva soppesate a una a una, poi lo aveva riportato fuori, dove si erano radunati alcuni vicini, e aveva detto alla madre di Willard di dar loro un «pronti via». Nella corsa che era seguita, duecento metri circa, il padre aveva distanziato il figlio di almeno sei metri. «Però io è tutto il giorno che corro, – aveva pensato Willard. – E ho anche corso fino a casa…» – Allora, chi è il più veloce? – lo aveva stuzzicato uno dei presenti mentre il ragazzo tornava alla baracca. Rientrati in casa, il padre aveva detto: – La prossima volta non dimenticartelo. - No, aveva detto il figlio… Bene, la storia era quella. E la morale? Cosa esattamente stavano cercando di dirgli i suoi ricordi? Be’, la morale, se ce n’era una, si sarebbe chiarita anni dopo. Una sera stava seduto in salotto di fronte al suo giovane genero Whitey, che si era stravaccato con un giornale e stava per addentare una mela dando così inizio alla sua confortevole serata, quando a un tratto non riuscì più a sopportarne la vista. Quattro anni di vitto e alloggio gratis! Quattro anni di smacchi e tentativi di ricominciare! Ed eccolo lì, bello spaparanzato nel salotto di Willard, a mangiare il cibo di Willard! A un tratto gli venne voglia di strappargli di mano la mela e intimargli di prendere e andarsene. «La festa è finita! Smamma! Via! E di dove vai non me ne frega niente!» Invece decise che era la serata adatta per dare un’occhiata ai suoi souvenir. Nella dispensa della cucina trovò un panno morbido e il lucidante di Berta per l’argenteria. Poi tirò fuori, da sotto le camicie di lana nel suo cassettone, la scatola di sigari piena di ricordi. Sedette sul letto, aprì la scatola e passò in rassegna il contenuto. Spinse tutto prima da un lato e poi dall’altro; alla fine sparpagliò ogni singola cosa sul copriletto: fotografie, ritagli di giornale… Le medaglie erano sparite. Quando tornò in soggiorno, Whitey si era addormentato. I cumuli di neve, vide Willard, erano lievitati fin quasi a oscurare le finestre; dall’altro lato della strada le case sembravano sprofondare fra onde bianche sempre più alte. «Ma non può essere, – pensò Willard. – Non può essere. Sto saltando alle conclusioni. Sto…» Il giorno dopo, in pausa pranzo, decise di fare una camminata fino al fiume e ritorno, e lungo la via si fermò al banco dei pegni di Rankin. Ridacchiando per tutto il tempo come se l’intera faccenda fosse stata una burla fra parenti, riscattò le medaglie. Quella sera dopo cena, invitò Whitey ad accompagnar lo a fare due passi in centro. Quel che disse al giovane uomo, una volta allontanatisi dalla casa, fu che non riusciva nel modo più assoluto a capacitarsi di come un uomo potesse appropriarsi dei beni di un altro uomo, frugare tra gli effetti personali di una persona e prendere una cosa, così come nulla fosse, soprattutto una cosa che aveva un valore sentimentale; nondimeno, se avesse potuto ricevere da Whitey ben precise garanzie riguardo al futuro, sarebbe stato disposto ad attribuire quel deplorevole episodio a una combinazione di tempi difficili e immaturità d’animo. Una pazzesca immaturità d’animo. D’altronde, nessuno meritava di venir escluso dalla razza umana sulla base di un singolo stupido atto – uno stupido atto, fra parentesi, che ci si sarebbe potuti aspettare da un bambino di dieci anni, non da un adulto di ventotto, quasi ventinove. Comunque, adesso le medaglie erano di nuovo al loro posto e, se lui gli avesse solennemente promesso che una cosa simile non sarebbe mai più accaduta, e pure che avrebbe immediatamente dato un taglio al suo nuovo vizio di bere whiskey, allora lui avrebbe considerata chiusa la faccenda. Dopotutto, Whitey era uno che aveva giocato per tre anni consecutivi come terza base nella squadra di baseball della scuola superiore di Selkirk; un giovanotto con un fisico da pugile professionista, e pure di bell’aspetto, – Willard tutto questo lo disse chiaro e tondo -, e ora cosa intendeva fare, devastare quel corpo sano di cui il buon Signore lo aveva dotato? A farlo smettere sarebbe dovuto bastare il rispetto per il suo corpo; ma, se ciò non era sufficiente, allora c’era il rispetto per la sua famiglia, e per la sua anima umana, dannazione. Stava in tutto e per tutto a lui: bastava che mettesse la testa a posto e, per quanto riguardava Willard, l’episodio, per quanto stupido, vile e sciocco, per quanto al di là di ogni umana comprensione, sarebbe stato completamente dimenticato. In caso contrario, non c’era altra scelta, si sarebbero dovuti prendere provvedimenti drastici. Sopraffatto dalla vergogna e dalla gratitudine, sulle prime il giovanotto non riuscì a fare altro che prendere la mano di Willard e scuoterla su e giù, con gli occhi lucidi di lacrime. Poi attaccò a giustificarsi. Era successo in autunno, quando alla piazza d’armi giù a Fort Kean era arrivato il circo. Lucy aveva subito cominciato a fargli una testa così con gli elefanti e i pagliacci ma, quando si era guardato nelle tasche, Whitey aveva trovato appena qualche spicciolo. Così aveva pensato di prendere in prestito le medaglie, per poi restituirle dopo qualche settimana… Ma a quel punto Willard ricordò chi era stato a portare al circo Lucy, e anche Myra e Whitey e Berta. Lui stesso. Quando glielo fece presente, Whitey disse che sì, sì, ci stava arrivando; lo ammetteva, aveva conservato per ultima la parte più vergognosa. – Mi sa che sono solo un vigliacco, Willard, però è difficile dire per prima la cosa peggiore. – Va be’, ragazzo, ora dilla. Togliti il peso dalla coscienza. Dunque, confessò Whitey mentre svoltavano da Broadway e si riavviavano verso casa, dopo aver preso in prestito le medaglie era rimasto talmente inorridito e sgomento da se stesso che, invece di usare i soldi per quel che aveva pensato, era andato dritto all’Earl’s Dugout a stordirsi di whiskey, sperando così di cancellare il ricordo della cosa stupida e perfida che aveva appena fatto. Sapeva di stare confessando un atto terribilmente egoistico, seguito da pura e semplice idiozia, però esattamente così era andata; e a dire il vero, per lui era tutto altrettanto misterioso che per chiunque altro. Era stata l’ultima settimana di settembre, subito dopo che il vecchio Tucker aveva dovuto lasciare a casa metà dei dipendenti… No, no, tirando fuori un calendario dal portafogli, ed esaminandolo alla luce del portico mentre entrambi battevano i piedi per scuotere via la neve dagli scarponi, senza alcun dubbio era stata la prima settimana di ottobre, disse a Willard, che quel giorno si era fatto dire la data precisa dal commesso di Rankin, e aveva saputo per certo che risaliva ad appena due settimane prima. Ma a quel punto erano già dentro casa. Seduta a fare la maglia accanto al camino c’era Berta; sul divano, con Lucy in braccio, c’era Myra, che stava leggendo alla bambina dal suo libro di poesie prima di mandarla a letto. Non appena lo vide, Lucy scivolò giù dal grembo della madre e corse a trascinare il papà in sala da pranzo, per giocare con lui come ogni sera «zompare».

Andava avanti così da un anno, da quando il vecchio padre di Whitey aveva visto la bimba che, dalla panchetta sotto la finestra della sala da pranzo, saltava sul tappeto. – Ehi, – aveva detto il grosso contadino chiamando gli altri, – Lucy ha zompato! – Una bizzarra espressione, pronunciata con accento ancor più bizzarro da un uomo ormai da quarant’anni cittadino americano. Così, dopo la morte del vecchio, ora toccava a Whitey starsene ammirato davanti alla figlia e, dopo ogni salto, cantilenare quelle parole che la bambina adorava sentire. «Ehi, Lucy ha zompato! Zompa di nuovo, ochetta Lucy. Due zompate e poi fili a letto». «No, tre!»

«Altre tre zompate e poi fili a letto». «No, quattro!»

«Andiamo, zompa, zompa e smettila di protestare, piccola ochetta zompatrice! Ehi, Lucy sta per zompare… Lucy è pronta a zompare… signore e signori, Lucy ha zompato ancora una volta!» Perciò cosa poteva fare Willard? Di fronte a una scena simile, cosa mai poteva fare? Se dopo la lunga deliberazione di quel pomeriggio aveva deciso di considerare passibile di perdono il furto di Whitey, adesso doveva prendersi la briga di svergognare il genero per una meschina bugia detta per salvarsi la faccia? Tuttavia, perché, perché, se si sentiva tanto depravato dopo aver preso le medaglie, perché diavolo Whitey non le aveva rimesse a posto? Non sarebbe stata la cosa più ovvia? E perché lui non aveva pensato di domandarglielo? Oh, ci teneva talmente tanto a mostrarsi duro e inflessibile, e a parlare in modo ragionevole e a mettere le cose in chiaro, e così via, che quella domanda non gli era neanche passata per la testa. Ehi, tu, perché non hai rimesso a posto le mie medaglie se ti sentivi tanto in colpa per quel che avevi fatto? Ma a quel punto Whitey stava portando in spalle Lucy su per le scale – «Due, tre, quattro zompate» – e lui stava sorridendo a Myra, dicendo che sì, sì, loro due avevano fatto una bella camminata rinvigorente. Myra. Myra.

Senza dubbio era stata la figlia più adorabile che un genitore potesse sognare. Qualunque cosa una bambina possa saper fare, lei già lo faceva quando le altre erano ancora attaccate al biberon. Sempre indaffarata con qualche occupazione tipicamente femminile: uncinetto, musica, poesia… Una volta, durante una recita scolastica, aveva declamato una poesia patriottica che aveva scritto tutta da sola, e quando aveva finito alcuni degli uomini fra il pubblico si erano alzati in piedi e avevano applaudito. Ed era così beneducata che le signore che venivano a casa per le riunioni della Stella d’Oriente, (organizzazione massonica femminile statunitense), all’epoca in cui la loro era ancora una famiglia di tre persone e Berta aveva il tempo di fare qualche attività extra, – dicevano sempre che per loro andava benissimo se la piccola Myra se ne stava li seduta a guardare. Oh, Myra! Una vera delizia per gli occhi: sempre alta e snella, con soffici capelli castani, una pelle di seta e gli occhi grigi di Willard, che su di lei erano uno schianto; magari, immaginava lui, se non fosse stato per la scarlattina, sua sorella Ginny avrebbe potuto essere come Myra: delicata, riservata, con un portamento principesco e una voce suadente. Quando era bambina, a Willard la delicatezza delle ossa di sua figlia faceva venire le lacrime agli occhi per la soggezione, soprattutto la sera, quando la guardava da sopra il giornale mentre si esercitava al pianoforte. C’erano momenti in cui aveva la sensazione che nulla al mondo potesse spingere un uomo a comportarsi bene nella vita quanto la vista dei polsi e delle caviglie sottili di una figlia. Earl’s Dugout of Buddies. Se solo quel posto l’avessero raso al suolo anni e anni prima! Se solo non fosse mai esistito… Su richiesta di Willard, all’Elks e anche alla Stanley’s Tavern (che adesso aveva cambiato gestione, gli sovvenne mentre giù in città si accendevano i lampioni) ora non consentivano più a Whitey di bere fino a ubriacarsi ma, per ogni barista umano, o semiumano, ce n’era un altro (di nome Earl) che si divertiva a soffiare l’assegno con lo stipendio a un marito e padre di famiglia e incassarlo al posto suo. E la cosa ironica era che, in tutto il cosiddetto Dugout of Buddies, probabilmente non c’era mai stato nemmeno un uomo che valesse un decimo di Whitey come lavoratore, marito e padre – cioè, quando non si lasciava sopraffare dagli eventi. Purtroppo, però, a quanto pareva le circostanze cospiravano sempre contro di lui proprio in quei periodi, che di rado duravano più di un mese di fila, in cui cadeva vittima di quella che andava chiamata col suo giusto nome: mancanza di carattere.

Probabilmente quel venerdì sera alla peggio sarebbe tornato barcollante verso casa, avrebbe spalancato la porta, fatto qualche folle proclama e si sarebbe accasciato sul letto ancora vestito – nulla di più, se le circostanze, o il destino, o comunque li si voglia chiamare, non avessero fatto si che, appena entrato in casa, vedesse per prima cosa la moglie Myra con i delicati piedini a mollo in una bacinella d’acqua. Poi doveva aver visto Lucy china sulla tavola da pranzo, e aver capito (per quel che poteva capire, in quella bruma alcolica, quando subodorava un’offesa nei suoi confronti) che, se aveva spinto indietro la tovaglia di pizzo e si era messa a fare i compiti al pianoterra, era stato per non lasciar sola la madre ad affrontare il drago al suo rientro. Willard e Berta erano usciti per la loro partita di ramino del venerdì. Willard e Berta erano usciti per la loro partita di ramino del venerdì. Mentre andavano in macchina dagli Erwin, lui quella sera aveva acconsentito malgrado tutto a trattenersi fino al momento del caffè e dei pasticcini, come tutte le persone normali. Se Willard voleva tornare a casa presto, aveva detto Berta, erano affari suoi. Quanto a lei, lavorava sodo per tutta la settimana e si toglieva ben poche soddisfazioni, perciò non intendeva troncare a metà la sua serata libera solo perché il genero a fine giornata preferiva andarsene a bere whiskey in un bar ammuffito invece di tornare a casa a mangiare cibo genuino con la sua famiglia.

Una soluzione ci sarebbe stata, e Willard sapeva benissimo qual era.

Comunque una cosa era certa: non era rinunciare alla partita del venerdì sera in compagnia dei suoi vecchi amici. Ma Myra coi piedi a mollo… Qualcosa gli diceva che non avrebbe dovuto andarsene lasciandola così.

Non che fossero dolori tanto forti, come invece sarebbe stato in seguito con le emicranie. Era la situazione che per qualche motivo non gli andava giù. – Dovresti stare seduta, Myra. Non capisco perché devi stare sempre in piedi. – Io sto seduta, papà. Certo che sto seduta. – Allora com’è che hai questo problema ai piedi? - Non è un problema. – E’ che passi tutto il pomeriggio a dare lezioni, Myra, in piedi sul pianoforte. – Papà, nessuno sta in piedi sul pianoforte. – Allora cos’è questa storia dei pediluvi…? – Papà, per favore -. Che altro avrebbe potuto fare? Si era rivolto verso la sala da pranzo: – Buonanotte, Lucy -. Visto che non rispondeva, era andato dov’era seduta a scrivere sul quaderno e le aveva toccato i capelli. – Hai perso la lingua, signorina?

Niente buonanotte? – Buonanotte, – aveva borbottato lei, senza neanche alzare gli occhi. Oh, lo sapeva che non avrebbe dovuto uscire. Ma Berta era già in macchina ad aspettarlo. No, quella scena aveva qualcosa che non gli piaceva. – Non tenerli troppo nell’acqua, Myra. – Su, papà, va’ a divertirti, – aveva detto lei, e così finalmente lui aveva preso la porta ed era andato alla macchina, solo per sentirsi dire che ci aveva messo cinque minuti per dire una cosa semplice come buonanotte. Ebbene, andò proprio come si era aspettato: quando Whitey tornò a casa, anche a lui quella scena non piacque. Il primo suggerimento che diede a Myra fu che perlomeno poteva tirare giù gli avvolgibili, in modo che quelli che passavano non fossero costretti ad assistere al suo martirio. Quando in preda al panico lei non si mosse, lui per farle vedere tirò giù un avvolgibile e quello si staccò dal rullo. E se aveva preso tutti quegli studenti di pianoforte (sette anni prima, trascurò di aggiungere) era solo per trasformarsi in una megera, così da spingerlo, se ci fosse riuscita – e mentre parlava sventolava l’avvolgibile che gli era rimasto in mano -, a correre dietro alle altre donne, in modo da avere anche quello di cui lagnarsi oltre ai suoi poveri piedini da invalida. Il motivo per cui insegnava pianoforte era lo stesso dannato motivo per cui non voleva andare con lui in Florida a cominciare una nuova vita laggiù.

E cioè che non aveva per lui il minimo rispetto! Lei cercò di spiegargli la stessa cosa che aveva spiegato a suo padre, e cioè che non vedeva alcuno specifico rapporto fra i suoi piedi e il suo lavoro, ma lui non era disposto ad ascoltare. No, lei preferiva starsene lì con i suoi poveri piedini a dar retta a quel che dicevano tutti, e cioè che suo marito era uno schifoso figlio di puttana buono a nulla, solo perché di tanto in tanto gli andava di farsi un bicchierino. Non ci fu una singola cosa fra quelle che un uomo non dovrebbe dire a una donna – anche a una che odia, e il fatto era che Whitey invece la amava, la adorava, la venerava, – che lui non avesse detto a Myra. Poi, come se un avvolgibile divelto e un rullo rotto e tutti quegli insulti fuori luogo non fossero stati abbastanza per una sola serata, prese la bacinella per lavare i piatti piena d’acqua calda e sale inglese e, senza alcun motivo plausibile, la rovesciò sul tappeto. Quasi tutto ciò che avvenne in seguito Willard lo venne a sapere da un comprensivo confratello massone che quella sera era di pattuglia. A quanto pareva, la polizia aveva fatto il possibile per dare l’impressione di un intervento amichevole e non di un vero e proprio arresto: si erano avvicinati senza accendere la sirena, avevano parcheggiato fuori dall’alone di luce del lampione e avevano aspettato pazientemente nell’ingresso mentre Whitey cercava di abbottonarsi il giaccone. Poi lo avevano portato giù dagli scalini e lungo il viottolo fino alla volante, così che i vicini alle finestre avessero l’impressione che i tre uomini, due dei quali con pistola e cinturone, stessero solo facendo una passeggiata rinvigorente. Non lo trattenevano, più che altro si limitavano a sorreggerlo, e intanto cercavano pure di sdrammatizzare, quando Whitey, usando tutta la forza che aveva, si divincolò. Sulle prime nessuno guardandolo indovinò che intenzioni avesse. Il suo corpo si piegò in due, così che per un istante parve mangiare la neve; poi si tirò su di scatto e, ondeggiando come se soffiasse un gran vento, tirò una palla di neve verso la casa. La neve farinosa le ricadde sui capelli, sul viso e sulle spalle del maglione; ma, sebbene avesse solo quindici anni e, col suo naso all’insù e i capelli biondi e lisci, non ne dimostrasse più di dieci, lei non fece una piega; restò dov’era, un mocassino sull’ultimo gradino e uno sul marciapiede, e un dito nel quaderno – pronta, a quanto pareva, a tornare ai suoi compiti interrotti solo per telefonare al commissariato. – E’ di pietra! – urlò Whitey. – E’ fatta di pietra! – E con ciò fece per avventarsi su di lei. E il confratello di Willard, fino a quel momento paralizzato dalla scena (da Lucy, disse, più che da Whitey, visto che di gente come lui ne conosceva a bizzeffe), si scosse e tornò al proprio dovere. – Nelson, è la tua bambina! – Al che l’ubriaco, o perché si era ricordato di essere il padre della ragazza, o perché sperava di dimenticarsene per sempre, sfuggì alla presa del poliziotto e fece quel che a quanto pareva aveva avuto intenzione di fare fin dall’inizio: si gettò faccia a terra nella neve. La mattina seguente per prima cosa Willard disse a Lucy di mettersi seduta e le fece una ramanzina. Tesoro, Io so quello che hai passato nelle ultime ventiquattr’ore. Lo so quello che hai passato nella vita, un sacco di cose che sarebbe stato meglio che tu non avessi visto. Però, Lucy, devo chiederti una cosa.

Devo fare assoluta chiarezza su una cosa. Ora, voglio chiederti perché, quando ieri sera hai visto quello che stava succedendo… Lucy, guardami… perché non mi hai telefonato dagli Erwin? Lei scosse il capo. - Lo sapevi che eravamo là, no? Annuì rivolta al pavimento. – E il numero è li nell’agenda. Allora, non è così, Lucy? - Non ci ho pensato. - Ma a che cosa pensavi, signorina… guardami! – Che volevo che la smettesse! - Però chiamare la prigione, Lucy… – Ho chiamato qualcuno che lo facesse smettere! - Ma perché non hai chiamato me? Voglio una risposta a questa domanda. - Perché no. Perché no cosa?

- Perché tu non ci riesci. - Io cosa? – Be’, - disse lei, indietreggiando, – tu non… - Adesso siediti, adesso vieni qui, e ascoltami. Prima cosa… siediti, ho detto! Che tu lo sappia o no, io non sono Dio. Sono solo me stesso, e questa è la prima cosa. - Non devi mica essere Dio. - Non mi rispondere, hai capito?

Sei solo una scolaretta, e forse, dico forse, non sai ancora un granché della vita. Magari credi di saperlo, ma ti assicuro che non è così, e a dirtelo è tuo nonno, e questa è casa mia. - Non l’ho chiesto io di vivere qui. - Però ci vivi, chiaro! Perciò sta’ zitta! Non devi mai più chiamare la prigione. Qui non c’è bisogno di loro! Chiaro? – La polizia, – sussurrò lei. - O la polizia che sia! E’ chiaro o no?

Non rispose. - Qui in questa casa siamo persone civili e ci sono cose che non facciamo, e questa è la prima cosa. Non siamo gentaglia, ricordatelo. Siamo in grado di appianare da soli i nostri dissidi, di risolvere da soli le nostre questioni, e non abbiamo bisogno che sia la polizia a farlo per noi. Si dà il caso che io sia il vicedirettore dell’ufficio postale di questa città, signorina, eventualmente te lo fossi scordato. Si dà il caso che io goda di una certa reputazione in questa comunità… e anche tu. - E mio padre? Anche lui gode di una certa reputazione, qualunque cosa questo significhi? - In questo momento non sto parlando di lui! Ci arriverò, e senza bisogno del tuo aiuto. Adesso sto parlando di te e di alcune cose che forse a quindici anni non sai ancora. Il nostro modo di procedere in questa casa, Lucy, è parlare con le persone. Mostrargli la retta via. E se non lo capiscono? - Lucy, di sicuro non le mandiamo in prigione! Poco ma sicuro. E chiaro? -No! - Lucy, non sono io quello che l’ha sposato, Lucy. Non sono io quello che vive nella stessa camera con lui, Lucy. - E allora? - E allora quello che ti sto dicendo è che ci sono un sacco di cose, un’infinità di cose, di cui tu non sai un bel niente. - So che questa è casa tua. E so che tu gli dai alloggio, qualunque cosa faccia o dica a lei… - Io do alloggio a mia figlia, ecco a chi. E do alloggio a te. Sono in una situazione difficile, Lucy, e faccio quello che posso per persone a cui si dà il caso che io voglia bene. - Già, – disse lei, cominciando a piangere, – forse non sei l’unico, lo sai? - Oh, lo so, lo so, dolcezza. Però, tesoro, capisci, sono i tuoi genitori. - Allora perché non si comportano da genitori! – gridò lei, correndo via. A quel punto intervenne Berta. - L’ho sentito quello che ti ha detto, Willard. L’ho sentito il tono. Il tono che usa sempre con me. – Anche con me, Berta. Con tutti noi. - Allora cosa intendi fare? Dove andremo a finire? Pensavo che diventare cattolica a quindici anni fosse il massimo a cui poteva arrivare. Scappare in una chiesa cattolica, starsene fra le suore per un intero fine settimana. E ora questo. - Berta, io posso dire solo quello che posso dire. Ho un numero limitato di parole, e un numero limitato di modi di dirle, dopodiché… - Dopodiché, disse Berta, – una bella sberla! Chi l’ha mai sentita una cosa simile?

Coprire di scandalo tutta la famiglia… - Berta, ha perso la testa. Era terrorizzata. E’ stato lui a dare scandalo, quel dannato idiota, facendo quel che ha fatto. - Be’, qualunque babbeo poteva prevederlo. E qualunque babbeo può prevedere quel che succederà adesso… magari questa volta arriva l’Fbi. - Berta, me ne occupo io.

Esagerare non serve a niente. - E come hai intenzione di occupartene, Willard? Tirandolo fuori dalla prigione? - Ci sto ancora pensando, a cosa fare. - Vorrei solo ricordarti, mentre ci pensi, Willard, che gli Higgle sono stati tra i fondatori di questa città. Gli Higgle sono stati fra i primi coloni a costruire dal nulla questa città. E stato mio nonno a costruire la prigione, Willard… E meno male che non è ancora vivo a vedere per chi l’ha costruita.

- Oh, queste cose le so, Berta. Le so e le tengo presenti. - Non prendere alla leggera il mio orgoglio, Mr Carroll. Sono una persona anch’io! - Berta, non lo farà più.

- No? Su in camera ha rosari e santini e ogni sorta di ammennicolo cattolico. E ora questo! Per come la vedo io, ci sta mettendo i piedi in testa. - Berta, te l’ho già spiegato: era spaventata. - E chi non è spaventato quando quel barbaro scende sul piede di guerra? Ai vecchi tempi, uno come lui lo avrebbero messo alla gogna. - Be’, mi sa che non sono più i vecchi tempi, – disse lui.

- Be’, è un vero peccato! Per ultima Myra. La sua Myra. – Myra, sono qui che rifletto su cosa fare. E devo dirti che sono combattuto.

Non mi sarei mai immaginato di assistere in vita mia a una cosa come quella che è successa qui. Ho parlato con Lucy. Le ho chiesto di promettermi che non succederà mai più una cosa simile. - E lei lo ha promesso? - Più o meno, direi di sì. E adesso ho appena finito di parlare con tua madre. Non ne può più, Myra. E non la biasimo. Ma credo di averla fatta ragionare. Perché, a dirla tutta, se fosse per lei lo lascerebbe marcire in prigione. Myra chiuse gli occhi, così infossati, infossati in cerchi violacei per tutti i suoi pianti segreti. - Ma io l’ho calmata, – disse lui. - Sì? - Più o meno, penso di sì. Si rimette alla mia decisione. Myra, – disse, – sono stati lunghi questi dodici anni. Per tutti qui è stata una dura lotta. - Papà, ci trasferiamo, perciò è finita. La lotta è finita. - Cosa?

– Andiamo in Florida. - In Florida! - Dove Duane potrà ricominciare… – Myra, può ricominciare quando e dove vuole, anche qui. - Ma qui sulla testa ha il tetto di qualcun altro, papà. - E come farete? Allora, cosa mi rispondi, Myra? Dov’è che in Florida troverà quella ferrea perseveranza che qui non riesce a trovare? Mi piacerebbe saperlo. – In Florida ha dei parenti. - Vuoi dire che adesso ha intenzione di vivere a sbafo da loro?

- Non a sbafo… - E supponiamo che quello che è successo ieri sera fosse successo in Florida. O in Oklahoma. O in qualunque altro posto! - Ma non succederebbe! - E perché no? Il clima mite? Il bel colore del cielo? - Perché potrebbe cavarsela da solo. E’ l’unica cosa che vuole. - Tesoro, è l’unica cosa che voglio anch’io. E’ quello che tutti vogliamo. Ma chi ce lo assicura, Myra, che da solo, con una figlia, con una moglie, con migliaia di responsabilità… - Ma lui è tanto buono -. E cominciò a singhiozzare. – La notte mi sveglio… oh, papà, mi sveglio e lui mi dice: «Myra, sei la cosa migliore che ho, Myra, Myra, non odiarmi». Oh, se solo potessimo andarcene…

Quando Lucy, a metà del suo primo semestre al college, si presentò a casa per il giorno del Ringraziamento e disse che stava per sposarsi, Whitey si sedette sul bordo del divano nel salotto e si afflosciò. – Ma io volevo che si laureasse, – disse, prendendosi la testa fra le mani, e i suoni che gli uscivano dalla bocca sarebbero bastati a intenerire tutto ciò che si era indurito contro di lui, se non fosse stato per il sospetto che li producesse proprio a tal fine. Per la prima ora pianse lacrimando come una donna, poi per un’altra ora ansimò come un bambino finché, anche se l’aveva fatto apposta per farsi perdonare, non perdonarlo divenne quasi impossibile, vedendolo comportarsi così al cospetto della sua famiglia. E poi accadde il miracolo. Sulle prime sembrava fosse ammalato, se non addirittura sul punto di compiere un gesto drastico. Era davvero spaventoso a vedersi. Per parecchi giorni di seguito non mangiò quasi niente, anche se si presentava sempre a tavola per cena; la sera sedeva fuori nel portico, rifiutandosi di parlare o di rientrare per non prendere freddo. Una volta, nel bel mezzo della notte, Willard lo sentì muoversi per casa, e scese in cucina in vestaglia, trovandolo che incombeva su una tazza di caffè. – Che succede, Whitey, non riesci a dormire? -… non voglio dormire. - Che c’è, Whitey, perché sei tutto vestito? – A quel punto Whitey si girò verso il muro, così che, quando il corpo grande e grosso di suo genero cominciò a tremare, Willard non vide altro che le sue spalle larghe e il suo collo taurino. - Che c’è, Whitey, che cosa hai in mente di fare? Dimmelo.

Il giorno dopo il matrimonio di Lucy, Whitey scese a colazione in camicia e cravatta, e andò a lavorare vestito così; la sera a casa tirò fuori la scatola con le spazzole, gli stracci e il lucido e diede alle scarpe una bella pulita. A Willard disse: – Vuoi che lucidi anche le tue, già che ci sono? – E così Willard gli passò le scarpe e restò lì seduto in calzini mentre proprio davanti ai suoi occhi accadeva l’incredibile. Quando giunse il fine settimana, Whitey imbiancò il seminterrato e spaccò un’intera catasta di legna; Willard restò a osservarlo dalla finestra della cucina mentre calava l’accetta menando fendenti poderosi e regolari. Così passò quel mese, poi un altro e, sebbene non fosse più di quel suo umore mesto e taciturno e avesse ripreso a ridere e scherzare, non potevano più esserci dubbi sul fatto che alla lunga finalmente qualcosa avesse fatto breccia nel suo cuore.

Quell’inverno si fece crescere i baffi. A quanto pareva all’inizio i ragazzi del negozio l’avevano preso in giro, ma lui non mollò, e a marzo ci si era già dimenticati del suo vecchio aspetto, e si cominciava a credere che, all’età di quarantadue anni, quel ragazzone gagliardo e robusto avesse abbandonato la cattiva strada per diventare finalmente uomo. Sempre più spesso Willard si ritrovò a chiamarlo, come avevano sempre fatto Berta e Myra, col suo nome di battesimo, Duane. In pratica cominciò a comportarsi così come Willard aveva avuto ogni ragione di aspettarsi, considerato il giovane volenteroso che era stato nel 1930.

All’epoca era già un ottimo elettricista, e anche un carpentiere piuttosto bravo, e aveva progetti, ambizioni, sogni. Uno di questi era costruire una casa per sé e per Myra, se solo fosse diventata sua moglie: una casa in stile Cape Cod, con un giardinetto cintato, da tirar su con le proprie mani… E non era un sogno campato in aria. A ventidue anni, sembrava possedere la forza e il vigore per riuscirci, e anche le competenze. Stando ai suoi calcoli, esclusi gli impianti (di cui aveva già accettato di occuparsi a prezzo di costo un amico idraulico di Winnisaw), avrebbe potuto tirar su una casa di due piani nel giro di sei mesi lavorando la sera e nei fine settimana. Addirittura si era portato avanti pagando un anticipo di cento dollari su un appezzamento all’estremità settentrionale della cittadina, una mossa saggia, perché laddove all’epoca c’erano solo boschi adesso sorgeva Liberty Grove, la zona più esclusiva della città. Aveva pagato l’anticipo, aveva cominciato a disegnare il progetto della casa ed era sposato da circa sei mesi quando sul paese si era abbattuta la calamità nazionale, presto seguita dalla nascita di una figlia. Venne fuori che Whitey aveva preso la Grande Depressione molto sul personale. Come un bambino piccolo che comincia a fare i primi passi, a tenersi in piedi, a sorridere, a mettere un piede davanti all’altro, quando all’improvviso dal nulla sbuca fuori una di quelle enormi palle di ferro che si usano per abbattere gli edifici e lo becca proprio in mezzo agli occhi. A Whitey ci vollero quasi dieci anni per trovare il coraggio di rialzarsi in piedi e provare di nuovo a camminare. Il lunedì 8 dicembre 1941 prese una corriera per Fort Kean per andare ad arruolarsi nella guardia costiera, e fu riformato per un soffio al cuore. La settimana successiva ci provò con la marina, e poi con la sua ultima scelta, l’esercito.

Spiegò loro che alla scuola superiore di Selkirk aveva giocato per tre anni nella squadra di baseball, ma non servì a niente. Finì a lavorare alla fabbrica di estintori di Winnisaw per l’intera durata della guerra, e la sera era sempre meno a casa e sempre più spesso all’Earl’s Dugout.

Adesso però era di nuovo in piedi, e comunicò a Myra che alla fine dell’anno scolastico avrebbe dovuto chiamare i genitori dei suoi studenti per comunicare loro che avrebbe smesso di dare lezioni di pianoforte. Sapeva bene quanto lui che, quando aveva cominciato con le lezioni, avrebbe dovuto essere solo una soluzione temporanea. Lui non avrebbe mai dovuto permetterle di continuare, anche se significava qualche dollaro in più ogni settimana. E non gli importava se non le pesava tenersi occupata in un modo o nell’altro. Non era quello il punto. Il punto era che lui non aveva bisogno di un materasso per ammortizzare le cadute. Perché non sarebbe più caduto. E il problema era proprio quello: tutti quei materassi e quei sostegni per aiutarlo a ricominciare erano serviti solo a impedirgli ogni progresso ricordandogli che era un fallito, e lo era sempre stato. A quel modo cominci a convincerti di essere un fallito, e di non poterci fare niente, e finisce che ti trovi davvero a non fare niente, se non continuare a fallire. Bere, perdere un impiego, trovarne un altro, bere, perdere anche quello… E’ un circolo vizioso, Myra. Magari, disse, se fosse andato sotto le armi quell’esperienza lo avrebbe cambiato, gli avrebbe ridato un po’ di fiducia in se stesso. Invece aveva dovuto restarsene a zonzo per Liberty Center per tutti quegli anni mentre gli altri uomini rischiavano la vita – e mentre la gente si chiedeva com’era che un omaccione come Whitey Nelson non era andato al fronte a rischiare la pelle, e lo additava sottovoce perché viveva a sbafo dal suocero. No, no, Myra, lo so quanto sparla la gente, lo so quello che dicono… e il peggio è che probabilmente hanno ragione. No, un soffio al cuore non è colpa di nessuno, però adesso non siamo più ai tempi della Depressione.

Guardati intorno. Siamo in pieno boom economico. E’ una nuova era, e questa volta non ho intenzione di restare indietro mentre tutti, dal primo all’ultimo, si arricchiscono e fanno soldi a palate come nulla fosse. Perciò, primo, lei doveva comunicare ai suoi genitori che dalla fine dell’anno scolastico non avrebbe più dato lezioni di musica. E, secondo, dovevano pensare ad andarsene dalla casa di suo padre. No, non in Florida. Probabilmente Willard aveva avuto ragione a dire che sarebbe stato un modo per sfuggire alla verità. Quello a cui stava pensando – ma per il momento non intendeva prometterglielo per poi farci di nuovo la figura del babbeo -, quello a cui stava pensando era un prefabbricato, tipo quelli che quel tizio aveva tirato su vicino a Clark’s Hill… E a quel punto a Myra, che stava riferendo al padre tutto quel che Duane aveva detto, vennero le lacrime agli occhi, e Willard le diede una pacca sulla spalla e si commosse anche lui e pensò: «Non è stato tutto invano», e l’unica cosa che lo rendeva infelice era che, a quanto pareva, tutto nasceva dal fatto che la piccola Lucy aveva deciso di sposare la persona sbagliata per la ragione sbagliata.

Primavera. Ogni sera Duane si alzava da tavola – dandosi una botta sulle ginocchia, come se il fatto stesso di alzarsi in piedi fosse un’esperienza rigenerante – e, lasciando che il suo nuovo sé sfidasse le vecchie tentazioni, faceva una passeggiata lungo Broadway fino al fiume.

Alle otto spaccate era di ritorno per lucidarsi le scarpe. Sera dopo sera, Willard sedeva davanti a lui in cucina a guardarlo, ipnotizzato, come se suo genero non fosse un uomo qualunque che si puliva le scarpe alla fine di una dura giornata, ma uno che, sotto i suoi occhi, stava inventando l’idea stessa di spazzolare e lucidare le scarpe. Cominciò addirittura a pensare che, invece di incoraggiarlo ad andar via da quella casa, adesso avrebbe dovuto incoraggiarlo a restare. Averlo li stava diventando un vero piacere. Una sera di maggio, prima di andare a dormire i due uomini si misero a parlare seriamente; l’argomento era il futuro. Quando sorse l’alba nessuno dei due riusciva più a ricordare chi fosse stato a proporre per primo che forse era davvero ora che Duane tornasse al progetto originario della sua vita, quello di mettersi in proprio. Con l’attuale boom edilizio, uno come lui, con le sue competenze di elettricista, nel giro di qualche settimana sarebbe stato sommerso di lavoro. Si trattava solo di trovare il capitale necessario per cominciare, il resto sarebbe venuto da sé. Qualche ora dopo, un assolato sabato mattina, rasati di fresco e con i vestiti buoni, andarono in banca a informarsi per un prestito. Quella sera alle sette, dopo un sonnellino e una buona cena, Duane uscì per la sua passeggiata igienica. Nel frattempo Willard si mise seduto con un taccuino e una matita e iniziò a calcolare le loro disponibilità finanziarie, aggiungendo taluni suoi risparmi al prestito promesso dalla banca… Alle undici stava riempiendo il foglio di X e cerchietti; a mezzanotte salì in auto per fare, ancora una volta, i soliti vecchi giri. Trovò Whitey nel vicolo dietro la bottega da barbiere di Chick, insieme a un nero a lui sconosciuto e a uno pneumatico con la fascia bianca. Whitey si teneva stretto lo pneumatico, mentre il tizio di colore era lungo disteso sul cemento. Willard fece tutto quel che poteva, a parte prenderlo a calci nelle costole, per staccare Whitey da quella gomma, ma a quanto pareva se n’era innamorato. – Porca miseria, – disse Willard, trascinandolo verso l’auto, – molla ‘sta roba! – Ma Whitey inscenò un sit–in sul marciapiede pur di non separarsi dalla sua gomma. Disse che lui e Cloyd avevano corso grandi rischi per procurarsela, e poi, Willard non lo vedeva? Era nuova di zecca. Whitey pesava venti chili più di Willard, e aveva ventanni di meno, perciò, ubriaco com’era, ci volle ancora quasi mezz’ora, li nel vicolo di Chick, prima che si staccasse da quella cosa che lui e il suo nuovo amico avevano «preso in prestito» da chissà dove. La mattina dopo, benché fosse del colore della farina d’avena, Whitey scese in orario per la colazione. E aveva la cravatta.

Tuttavia trascorsero due settimane prima che qualcuno tornasse a parlare di prestiti bancari, o personali, o di aprire una ditta come elettricista, e non fu Willard a tirare fuori l’argomento. Un sabato pomeriggio, i due erano seduti nel salotto ad ascoltare una partita dei White Sox quando Whitey si alzò e, guardando il suocero in cagnesco, presentò il suo atto d’accusa: – Allora le cose stanno così, Willard. Un unico sbaglio, e sulla mia nuova vita ci mettiamo una croce sopra! Poi, in giugno, mentre una sera si stavano tutti preparando per andare a letto, Myra fece a Whitey un’osservazione che non gli andò a genio, dato che riguardava la sua nuova vita, e quella di lei. Adolph Mertz, che quel pomeriggio era andato a prendere Gertrude dopo la lezione, le aveva chiesto se Whitey era ancora interessato ad aprire una ditta come elettricista; a Driscoll Falls c’era un tizio che andava in pensione, e vendeva a buon prezzo tutto quel che aveva, materiale, camioncino… Al che Whitey tentò di colpirla con i pantaloni e per poco non la prese in un occhio con la fibbia della cinghia. Ma non l’aveva fatto apposta voleva solo avvertirla di non stuzzicarlo più accusandolo di cose che non dipendevano da lui! Perché tirava in ballo dei progetti che non stavano andando in porto? Non lo sapeva come girava il mondo degli affari?, A quello stadio la cosa riguardava solo lui, e Willard – anche se adesso suo padre voleva tirarsi indietro. Fosse dipeso da lui, Whitey sarebbe tornato alla banca quanto prima, poco ma sicuro. Era stato Willard a togliergli il suo appoggio e a scoraggiarlo, dopo aver tirato fuori lui per primo l’idea. In effetti era sempre stato il fatto di vivere in casa di Willard a impedirgli di trovare la fiducia in se stesso. Un uomo adulto che viene trattato come un accattone! Certo, la colpa era sua, soltanto sua. Chi era stato però a invocare il suo paparino, anni prima, solo perché c’era la Depressione e lui era disoccupato, come metà della gente di quel paese, porca miseria! Chi era stato a volere che tornassero dal paparino con il suo comodo impiego governativo assicurato? Chi era stato a non voler partire per il Sud insieme al marito per cominciare una nuova vita? Chi? Lui? Certo, come no, sempre lui. Solo lui. Nessun altro che lui!

E quanto al fatto che l’aveva picchiata – disse di ritorno dalla cucina con un sacchetto di ghiaccio per il suo occhio -, l’aveva mai picchiata con l’intenzione di farle del male? – Mai! - gridò, mentre si rivestiva. – Neanche una volta. Willard si precipitò nell’ingresso mentre l’oltraggiato Whitey scendeva per la seconda volta le scale. Ora potete pure passare giorno e notte – disse, abbottonandosi la giacca - a chiacchierare e ridere e raccontarvi storie su quanto sono un fallito… perché me ne vado! – Aveva il viso rigato di lacrime, ed era così palesemente desolato e affranto che per un momento Willard si sentì del tutto confuso, o illuminato. Ad ogni modo vide la verità più chiaramente di quanto gli fosse mai capitato prima in quei quindici anni: Non ci può fare niente. E’ malato. Come Ginny. Ma quando Whitey gli passò davanti per la seconda volta, – dopo essere tornato in cucina per un altro bicchiere della loro preziosa acqua, se non gli spiaceva -, lui lasciò uscire quell’uomo malato senza fermarlo, e per sicurezza tirò il chiavistello, e gli urlò dietro: – Non me ne frega niente di cosa sei! Nessuno picchia mia figlia! Non in questa casa! E neanche fuori!

Whitey cominciò a bussare intorno alle due di notte. Willard comparve nell’ingresso in vestaglia e pantofole e trovò Myra in cima alle scale in camicia da notte. – Mi sa che piove, – disse lei. - Non ti bastano i dolori ai piedi? – le gridò Willard dal fondo delle scale. – Vuoi anche diventare cieca? Whitey cominciò a suonare il campanello. - Ma a che serve, – disse lei, – lasciarlo sotto la pioggia? E poi i dolori ai piedi non c’entrano niente con lui. – Io non sono suo padre, Myra… sono tuo padre! Che si prenda pure un po’ di pioggia! E poi non ne posso più di chiedermi se una cosa gli serve oppure no! - Non avrei dovuto tirar fuori quel discorso. Lo sapevo. – Myra, per favore la smetti di prenderti la colpa? Mi senti? Perché la colpa non è tua. E sua! Comparve anche Berta. – Se è colpa tua, allora va’ fuori anche tu a prenderti la pioggia, signorina. - Smettila, Berta… – disse Willard. - E’ questa la soluzione, Mr Carroll, che ti piaccia o meno! Lasciò soli nell’ingresso il marito e la figlia. Whitey cominciò a prendere la porta a calci. - Certo che ci vuole cervello, Myra, non trovi? Per prendere a calci una porta ci vuole proprio cervello. Restarono lì in piedi nell’ingresso mentre Whitey continuava a prendere a calci la porta e suonare il campanello. - Sedici anni, – disse Willard. – Sedici anni di questa solfa. E sentilo, ancora lì a comportarsi da idiota. Dopo altri cinque minuti, Whitey smise.

- Okay, – disse Willard. – Così va meglio. Io non la do vinta a uno che si comporta così, Myra, né ora né mai. Adesso che è tornata la calma, apro la porta. E noi tre ci sediamo nel salotto e, ci volesse anche fino a domattina, risolviamo la cosa una volta per tutte. Perché io non lascerò che ti picchi ancora, né te né nessun altro! Aprì la porta, ma Whitey non era più lì.

Era un mercoledì sera. La domenica arrivò Lucy. Indossava un abito pré–maman marrone scuro di una stoffa spessa, da cui il suo viso emergeva come una levigata piccola lampadina. Tutto in lei sembrava piccolo, e in effetti lo era, tranne la pancia. - Allora, – disse Willard in tono gioviale, – cos’ha per la testa la nostra Lucy? – La madre ha raccontato tutto a Roy, – rispose lei, in piedi nel mezzo del salotto. Parlò di nuovo Willard. – A proposito di cosa, tesoro? – Papà Will, non credere di risparmiarmi un dolore, perché non è così. Nessuno sapeva cosa dire. Finalmente, Myra: – Come va Roy con la scuola? Mamma, guarda che occhio. - Lucy, – disse Willard, prendendola per il braccio, – magari a tua madre non va di parlarne -. La fece sedere accanto a sé sul divano. – Perché non ci racconti di te. Sei tu quella che ha tante novità. Come sta Roy? Viene anche lui?

- Papà Will, disse lei, rialzandosi, – le ha fatto un occhio nero? - Lucy, ci stiamo male anche noi quanto te. Non è un bello spettacolo, e ogni volta che lo vedo mi brucia… ma per fortuna non ci sono lesioni. - Oh, splendido. Lucy, sono arrabbiatissimo, credimi. E lui lo sa. Di sicuro è venuto a saperlo. Sono già tre giorni che non si fa vivo. Quattro incluso oggi.

Mi sa che ha la coda fra le gambe, si vergogna troppo… - Ma quale sarà il risultato, papà Will? – disse Lucy. – Adesso? Be’, la verità era che Willard non aveva ancora preso una decisione in merito. Naturalmente Berta la sua decisione l’aveva presa, e gliela ripeteva ogni sera quando andavano a letto. Spente le luci, lui si girava da una parte, poi dall’altra, finché la moglie, che lui pensava fosse già addormentata al suo fianco, non diceva: – Non c’è bisogno di agitarsi tanto, Willard.

Lui se ne va e, se lei vuole seguirlo, se ne va anche lei. Ormai ha trentanove anni, se non sbaglio. – Il problema non è l’età, Berta, e tu lo sai. – No, per te non lo è. Per te lei è sempre una bambina. La tieni sottochiave come fosse d’oro zecchino. – Per me non è una bambina. Sto solo cercando di usare la testa. E’ complicato, Berta. – E’ semplice, Willard. – No, non è semplice affatto, e non lo è mai stato, neanche per sogno. Non quando c’era di mezzo una ragazza che andava alle superiori.

Non quando si trattava di sradicare un’intera famiglia… – Ma Lucy non vive più qui. e se anche se ne fossero andati? Cosa sarebbe successo?

Spiegamelo un po’. – Non so cosa sarebbe successo allora, Willard, e non so neanche cosa succederà adesso. Ma perlomeno noi due vivremo una vita decente negli ultimi anni che ci restano. Senza che ogni momento scoppi una tragedia. – Sai com’è, bisogna pensare anche agli altri, Berta. – Mi chiedo quando verrà il mio turno di essere una di questi altri. Quando sarò nella tomba, presumo, se duro fino ad allora. La soluzione, Willard, è semplice. – Invece non lo è, e non è che diventa semplice solo perché tu me lo ripeti cinquanta volte a sera. A volte le persone sono più fragili di quel che tu pensi! – Be’ è un problema loro. – Sto parlando di nostra figlia, Berta! - Ha trentanove anni, Willard. E suo marito ne ha più di quaranta, almeno in teoria. Sono problemi loro, non miei, e neanche tuoi. – Bene, – aveva detto lui dopo un minuto, – se ragionassero tutti così, vivremmo proprio in un bel mondo. Tutti che dicono agli altri che sono problemi loro, anche ai propri figli -. Lei non aveva risposto. – Se Abraham Lincoln avesse ragionato così, Berta Nessuna risposta. – Oppure Gesù Cristo. Non ci sarebbe nemmeno mai stato, un Gesù Cristo, se tutti ragionassero così. – Tu non sei Abraham Lincoln. Tu sei il vicedirettore dell’ufficio postale di Liberty Center.

E quanto a Gesù Cristo… – Non mi stavo paragonando a lui. Era solo per farti capire. – Io ho sposato Willard Carroll, a quanto ricordo, non ho sposato Gesù Cristo. – Oh, questo lo so anche io, Berta… – Lascia che ti dica una cosa, se avessi saputo per tempo che sarei diventata la consorte di un Gesù Cristo…

Perciò alla domanda di Lucy su quale sarebbe stato il risultato… – Il risultato? – ripeté Willard. Per raccogliere le idee, distolse lo sguardo dagli occhi inquisitori di Lucy e lo rivolse fuori dalla finestra. E proprio in quel momento chi è che stava avanzando lungo il marciapiede? Con i capelli umidi e ben pettinati, le scarpe luccicanti e i baffi da grand’uomo! - Eccolo, – disse Berta, – Mr Risultato in persona. Il campanello squillò. Una volta. Willard si rivolse a Myra. Gliel’hai detto tu di venire? Myra, lo sapevi che stava arrivando? – No.

No. Lo giuro. Whitey suonò di nuovo. - … E’ domenica, – spiegò Myra quando nessuno si mosse per aprire la porta. - E allora? – domandò Willard. - Magari ha qualcosa da riferirci. Qualcosa da dire. E’ domenica. E lui è tutto solo. - Mamma, – strillò Lucy, – ti ha picchiata. Con una cinghia! Ora Whitey cominciò a battere sul vetro della porta. Myra, innervosita, disse alla figlia: – E’ questo che Alice Bassart va in giro a raccontare? - Non è quello che è successo? No! – disse Myra, coprendosi l’occhio nero. – E’ stato un incidente… non l’ha fatto apposta. Non lo so che cosa è successo. Ma è acqua passata! - Per una volta, mamma, almeno per una volta, proteggiti!

- … Io so solo, – stava dicendo Berta, – mi stai ascoltando, Willard? Io so solo che secondo me ha in mente di spaccare con un pugno quel vetro da quindici dollari. Ma Willard stava dicendo: – Prima di tutto, voglio che vi diate tutte una calmata. Non si fa vivo da tre giorni interi, una cosa senza precedenti… - Oh, ma scommetto che un angolino caldo da qualche parte l’ha trovato, papà Will… e pure con uno sgabello da bar. - Sono sicura di no! – disse Myra. - E allora dov’era, mamma, all’Esercito della Salvezza? - Senti, Lucy, aspetta un momento, – disse Willard. – Non c’è bisogno di alzare la voce. Per quanto ne sappiamo non ha saltato un solo giorno di lavoro. Quanto alle notti, ha dormito da Bill Bryant e la moglie, sul loro divano… – Oh, voialtri! – gridò Lucy, uscendo dalla stanza per andare nell’ingresso. I colpi sul vetro si interruppero. Per un momento nessuno fiatò; ma poi Lucy fece scattare il chiavistello, urlando: – Mai! Lo capisci? Mai! No, – gemette Myra. – No. Lucy tornò nella stanza. Myra disse: -… Che cosa… Che cosa hai fatto? - Mamma, quell’uomo è al di là di ogni speranza! E al di là di tutto! - Amen, – disse Berta. - Oh, tu! - disse Lucy, rivolgendosi alla nonna. – Tu non capisci neanche quello che sto dicendo! - Willard! – disse Berta in tono acido. – Lucy! disse Willard. - Oh no, – strillò Myra, che nel frattempo si era precipitata nell’ingresso. – Duane! Ma lui stava già correndo via. Prima che Myra facesse in tempo ad aprire la porta e precipitarsi fuori nel portico, aveva già svoltato l’angolo e non si vedeva più. Scomparso.

Fino a ora. Lucy l’aveva chiuso fuori, e Whitey era rimasto a guardare; attraverso il vetro aveva visto la figlia diciottenne incinta che metteva il chiavistello per impedirgli di entrare. Dopodiché non aveva mai più osato tornare. Fino a ora, ora che erano passati quasi cinque anni e Lucy era morta… Dovevano essere già venti minuti che aspettava alla stazione. A meno che si fosse spazientito e avesse deciso di tornare da dov’era venuto; a meno che avesse deciso che forse questa volta gli conveniva sparire per sempre. Una fitta di dolore lungo la gamba destra, dall’anca alla punta del piede, una linea sfrigolante di acuto dolore. Cancro! Cancro alle ossa! Ecco… di nuovo! Anche il giorno prima Willard l’aveva sentito, un bruciore giù per il polpaccio, fino al piede. E il giorno prima ancora. Sì, l’avrebbero portato dal medico, gli avrebbero fatto una radiografia, l’avrebbero ficcato a letto, gli avrebbero raccontato bugie, somministrato antidolorifici, e un giorno, quando la sofferenza si fosse fatta troppo atroce, l’avrebbero spedito in ospedale e l’avrebbero lasciato andare in malora… Ma adesso il dolore si placò, come qualcosa che bollisse a fuoco lento. No, non era cancro alle ossa. Era solo la sua sciatica. Ma cosa si aspettava, a starsene seduto li fuori? Le spalle del giaccone erano coperte di neve, e anche la punta degli stivali. La prima patina invernale luccicava sui viottoli e le lapidi del cimitero. Il vento adesso era calato. Era una notte gelida, nera… e lui stava pensando che, sissignore, avrebbe dovuto stare attento con quella sciatica, non era uno scherzo. La cosa più furba probabilmente sarebbe stata passare un mesetto in sedia a rotelle, così da allentare la pressione sul nervo sciatico. Era stato quello il consiglio del dottor Eglund due anni prima, e forse non era un’idea così sciocca come gli era parsa allora.

Un lungo periodo di riposo. Con una coperta di lana sulle ginocchia, si sarebbe piazzato in un bell’angolino soleggiato, con il giornale, la radio e la pipa, e poi, qualunque cosa fosse successa in casa, avrebbe lasciato correre. Concentrato a far guarire una volta per tutte quel nervo sciatico. Ce l’avrai pure, a settant’anni, il diritto di filartela in un’altra stanza sulla tua sedia a rotelle… Oppure avrebbe potuto far finta di non sentire; lasciar intendere che stava diventando un po’ sordo. Chi se ne sarebbe accorto? Sì, quello poteva essere un buon modo per risolvere la faccenda, senza ricorrere alla sedia a rotelle.

Un’espressione stolida, una scrollata di spalle, e via. Nei mesi a venire, di tanto in tanto avrebbe potuto fingere di perdere colpi.

Sissignore, che se la cavassero pure senza di lui. Che usassero pure casa sua per un po’, a lui stava bene, ma a parte questo… be’, non ci stava tanto con la testa, ecco tutto. Magari per ribadire il concetto avrebbe potuto, di proposito, sapendo esattamente quel che stava facendo, e ovviamente non girato verso Berta, fare la pipì nel letto, come purtroppo aveva cominciato a fare il suo triste vecchio amico John Erwin. «Ma perché? Perché dar segni di demenza senile? Perché far finta di essere fuori di testa quando non è così!» Balzò in piedi. «Perché prendermi la polmonite e ammalarmi per la preoccupazione… quando non ho fatto che del bene!» La paura della morte, l’orribile, detestabile morte, lo spinse a serrare le palpebre. – Del bene! – gridò. – Agli altri! – E scese giù per la collina, spazzandosi via la neve dal giaccone e dal berretto, mentre le sue vecchie gambe doloranti lo portavano fuori dal camposanto, più in fretta che potevano. Fu solo quando ebbe lasciato la strada del cimitero e si trovò sotto i lampioni di South Water Street che il suo battito cardiaco cominciò a riacquistare qualcosa che somigliava a un ritmo naturale. Il fatto che di nuovo cominciasse l’inverno non significava che lui non avrebbe mai più visto la primavera. Non solo sarebbe vissuto fino ad allora, ma era vivo adesso. E lo erano tutti quelli che andavano in giro a far spese o erano al volante di un’auto; problemi o meno, erano vivi! Vivi! Siamo tutti vivi! Oh, cosa c’era andato a fare in un cimitero? A quell’ora, con quel tempo! Basta con quei ripensamenti cupi, malsani e inutili.

C’erano un sacco di altre cose a cui pensare, e non tutte brutte. Ad esempio poteva pensare alle risate che si sarebbe fatto Whitey quando gli avrebbe raccontato come una notte, quasi a decretare da solo la propria condanna, l’edificio che ospitava l’Earl’s Dugout era crollato, a partire dal tetto, ed era stato demolito. E pazienza se la Stanley’s Tavern aveva una nuova gestione. Whitey disprezzava quelle bettole da quattro soldi come chiunque altro, quando era in sé – e lo era molto più spesso di quanto potesse sembrare quando qualcuno si metteva di proposito a ricordare i punti bassi della sua vita. Lo si poteva fare con chiunque, pensare solo ai punti bassi… Presto Whitey avrebbe visto il nuovo centro commerciale, avrebbe fatto la prima passeggiata in Broadway… ma certo, avrebbero potuto farla insieme, e Willard avrebbe potuto mostrargli come era stato ristrutturato l’Elks… - Oh, diamine, quel tizio ha quasi cinquant’anni… che altro posso mai farei - Stava parlando ad alta voce adesso, mentre in auto entrava in città. C’è un impiego che lo aspetta a Winnisaw. E’ tutto pronto, e lui ha dato il suo assenso, ha detto che lo voleva, l’ha addirittura chiesto. E quanto al fatto che si stabilisca da me, è assolutamente temporaneo.

Credimi, sono troppo vecchio per quell’altra roba. Il piano è che il primo gennaio… Oh, senti, – gridò rivolto alla morta, - non sono Dio nell’alto dei cieli! Non sono stato io a creare il mondo! Non so predire il futuro! Dannazione, è suo marito… lei lo ama, che ci piaccia o meno! Invece di parcheggiare sul retro dell’emporio di Van Harn, ci si fermò davanti, in modo da avere un po’ più di strada da fare per arrivare alla sala d’aspetto, in modo da avere ancora trenta secondi per riflettere. Entrò nel negozio, sbattendosi il berretto bagnato contro il ginocchio. «E la cosa più probabile, – pensò, – la cosa più probabile è che non ci sia nemmeno». Non si infilò nella sala d’aspetto, ma ci sbirciò dentro. «La cosa più probabile è che me ne sia stato lassù a rimuginare senza alcun motivo. Alla fine mi sa che non gli è nemmeno passato per la testa di tornare». Ed eccolo lì Whitey, seduto su una panca, a guardarsi le scarpe. I capelli ingrigiti, e anche i baffi.

Incrociò le gambe prima da una parte e poi dall’altra, così che Willard vide la suola delle scarpe, pallida e liscia. Una piccola valigia, anch’essa nuova, era posata al suo fianco sul pavimento. «Dunque, disse Willard a se stesso, – l’ha fatto. Ha preso davvero una corriera ed è venuto. Dopo tutto quel che è successo, dopo tutta la desolazione che ha causato, ha avuto il coraggio di salire su una corriera e poi scendere e aspettare mezz’ora qui che lo venissi a prendere… Oh, che idiota!», pensò, e, ancora non visto, guardò in cagnesco il suo genero di mezza età, le sue scarpe nuove, la sua valigia nuova… oh, sì, un uomo nuovo! «Pezzo di deficiente! Razza di somaro, ladro, bugiardo e intrigante! Beone buono a nulla, incorreggibile sanguisuga! Femminuccia, mezzo delinquente! Chi se ne frega se non puoi farci nulla! Chi se ne frega se non lo fai apposta…» - … Duane, – disse, facendosi avanti. – Come te la passi, Duane?


PARTE SECONDA 

CAPITOLO PRIMO

Quando il giovane Roy Bassart fu congedato dall’esercito nell’estate del 1948, non sapeva cosa fare del proprio futuro, così restò per sei mesi con le mani in mano ad ascoltare cosa ne diceva la gente. Adagiava il suo corpo lungo e smilzo su una grossa poltrona imbottita nel soggiorno dello zio e subito si lasciava scivolare mezzo fuori, così che le sue scarpe militari e calze militari e pantaloni kaki diventavano ostacoli da scavalcare se volevi passare da lì, come spesso facevano sua cugina Eleanor e la sua amica Lucy quando c’era lui in visita. Restava seduto assolutamente immobile, con i pollici infilzati nei passanti dei pantaloni senza la cinghia e il mento reclinato sul lungo torace tubolare e, quando gli chiedevano se stava ascoltando quel che gli si diceva, annuiva senza neppure sollevare gli occhi dai bottoni della camicia. Oppure a volte, con la sua bella faccia vispa, con quegli occhi azzurri limpidi come il giorno, alzava lo sguardo sulla persona che lo stava consigliando o interrogando, e la fissava attraverso un riquadro che formava con le dita. Sotto le armi, Roy si era appassionato al disegno, e la sua specialità erano i profili. Era bravissimo con i nasi (più grandi erano, meglio era), bravo con le orecchie, bravo con i capelli, bravo con certi tipi di mento, e si era comprato un manuale per impadronirsi del segreto di disegnare le bocche, che erano il suo punto debole. Stava anche pensando di fare il tentativo di diventare un disegnatore professionista. Si rendeva conto che era una bella gatta da pelare, ma forse per lui era venuto il momento di buttarsi su qualcosa di difficile, invece di accontentarsi di quel che di più facile aveva sottomano. Al suo ritorno a Liberty Center a fine agosto, aveva subito annunciato il suo progetto di diventare disegnatore professionista, e ancora non aveva mollato in soggiorno la sacca da viaggio che già era scoppiata la prima discussione. Manco fosse un ragazzino di ritorno da un campo scout sul Gitche Gumee1, invece che un reduce delle isole Aleutine. Se nel periodo lontano da casa aveva dimenticato com’era stata per lui la vita nell’ultimo anno delle superiori, a Lloyd e a Alice Bassart bastò mezz’ora per rinfrescargli la memoria. La discussione, che andò avanti per giorni, consistette per la maggior parte nei suoi genitori che dicevano di aver avuto esperienze che lui non aveva avuto, e di Roy che diceva di avere adesso avuto esperienze che loro non avevano avuto. Dopotutto, poteva anche darsi, diceva, che la sua opinione contasse qualcosa… visto e considerato che l’oggetto del contendere era la sua carriera. Per dimostrare la fondatezza dei suoi propositi, trascorse l’intero terzo giorno dal suo ritorno a casa a copiare un profilo di ragazza da una bustina di fiammiferi. Lo fece e rifece un’infinità di volte, interrompendosi brevemente solo per pranzare, e soltanto dopo un intero pomeriggio dietro la porta chiusa a chiave della sua camera ritenne di aver ottenuto un buon risultato. Dopo cena scrisse l’indirizzo su tre diverse buste, prima che la sua calligrafia lo soddisfacesse, poi spedì il disegno all’istituto d’arte, che era a Kansas City, Missouri, andando a piedi fino all’ufficio postale in centro per assicurarsi che partisse con la spedizione della sera. Quando una lettera di risposta annunciò che Mr Roy Basket aveva vinto un corso per corrispondenza da cinquecento dollari per soli quarantanove dollari e cinquanta, gli venne da dar ragione allo zio Julian, secondo cui quella scuola serviva solo a spennare i polli, e lasciò perdere. Intanto però aveva dimostrato quel che intendeva dimostrare, e in quattro e quattr’otto. Quando era stato richiamato per i due anni di servizio militare, il padre aveva detto che sperava che un po’ di disciplina sarebbe servita a far maturare suo figlio. Visto che lui, doveva ammetterlo, aveva fallito nell’impresa.

Ebbene, alla fin fine in effetti Roy era maturato, e anche tanto. Però non era stata la disciplina, ma, a dirla fuori dai denti, il fatto di essere stato lontano da loro. Alle superiori poteva anche stargli bene navigare fra il 6 e mezzo e il 7, quando invece con un po’ di applicazione e con la sua intelligenza (Alice Bassart: Che non ti manca affatto, Roy), avrebbe potuto facilmente arrivare alla media dell’8, se non addirittura del 9, se solo avesse voluto. Ma adesso intendeva mettere in chiaro che lui non era più quello studente da 6 risicato, e non si sarebbe più lasciato trattare come tale. Se si applicava, riusciva, e riusciva bene. L’unico problema adesso era a cosa applicarsi. Aveva vent’anni, e nessuno doveva venirgli a dire che era ora che pensasse a diventare uomo. Perché lui ci pensava, eccome se ci pensava. Andò avanti a esercitarsi per conto proprio con il manuale di disegno, passando esasperato al collo e alle spalle, dopo quattro giorni in cui con la bocca andava di male in peggio. Sebbene non avesse affatto abbandonato l’idea iniziale di diventare disegnatore professionista, era disposto a fare un compromesso con i suoi, prestando quantomeno ascolto a qualunque proposta avessero da fargli. Doveva ammettere di essere tentato dalla proposta dello zio Julian: andare a lavorare per lui e cominciare dalla gavetta a conoscere il settore delle lavanderie a gettoni. Quel che più lo attirava era il fatto che la gente delle cittadine lungo il fiume l’avrebbe visto passare al volante del pick–up di Julian e avrebbe guardato a lui come a un bellimbusto; e le signore che gestivano le lavanderie a gettoni avrebbero guardato a lui come al nipote del capo, immaginando che la sua vita fosse un letto di rose mentre in realtà il suo vero lavoro sarebbe cominciato solo la sera, quando tutti avrebbero dormito, e lui invece dietro la porta della sua camera sarebbe rimasto sveglio fino all’alba, a perfezionare il proprio talento. Quel che invece non lo attirava troppo era l’idea di doversi appoggiare alla famiglia, e fin dal principio. Non sopportava il pensiero di sentir dire per il resto della vita: «Certo, all’inizio è stato Julian a dargli una spintarella…» Ma ancor più rilevante era il danno che, accettando una cosa simile, avrebbe arrecato alla propria individualità. Non solo non avrebbe mai avuto davvero rispetto di se stesso se avesse cominciato un mestiere per poi fare carriera solo grazie a legami privilegiati, ma come avrebbe fatto a realizzare il proprio potenziale se era destinato a venir trattato come uno di quei ragazzini ricchi che per tutta la vita vengono portati in braccio su per i gradini del successo? E poi c’era Julian da considerare. Aveva detto di essere assolutamente serio riguardo all’offerta, purché Roy fosse disposto a lavorare sodo e a lungo come lui avrebbe preteso. Be’, lavorare sodo e a lungo non lo turbava. Una volta, per pura cattiveria, un sergente di mensa veramente perfido lo aveva tenuto di corvée in cucina per diciassette ore consecutive a lavare pentole e padelle, e dopo quell’esperienza Roy si era reso conto di essere in grado di fare più o meno qualunque cosa. Perciò, una volta fatta una scelta riguardo alla direzione da dare alla propria vita, era pronto – per ribattere a Julian sul suo stesso tono – a farsi un mazzo così. Ma se fosse andato con Julian, e avesse cominciato a riscuotere lo stipendio, per poi a settembre decidere di andarsene all’istituto d’arte a Chicago; o addirittura all’accademia a New York, cosa per nulla impossibile? Le prendeva sul serio, le obiezioni dei suoi genitori (che loro se ne rendessero conto o meno), ma se alla fine avesse deciso lo stesso in favore di una carriera di disegnatore professionista, non avrebbe sprecato non solo il suo tempo ma anche quello di Julian? Probabilmente suo zio, al cui affetto lui teneva molto, lo avrebbe preso per un ingrato – forse non del tutto a torto. L’ingratitudine era una cosa da cui sentiva di doversi guardare. Sebbene fosse certo che i suoi compagni di classe a scuola e i suoi commilitoni nell’esercito lo consideravano accomodante e generoso – talvolta il suo sergente maggiore lo chiamava Stepin Fetchit2 -, si era sentito dire che tendeva all’egoismo. Non che non ci tendessero tutti, all’egoismo, però certa gente esagerava sempre, e lui non voleva dare il minimo appiglio a un’insinuazione che in ogni caso sarebbe stato ingiusto avanzare da parte di chiunque (e ancora più da parte di un padre).

Inoltre, ciò di cui aveva davvero voglia, dopo la monotonia e il tedio dei mesi precedenti, era l’avventura, e non ci si poteva certo aspettare che il settore delle lavanderie a gettoni fornisse chissà quali brividi, o anche solo particolari motivi d’interesse, a dirla tutta. Quanto alla sicurezza economica, per lui i soldi non avevano grande importanza.

Adesso aveva duemila dollari fra risparmi e congedo, più il sussidio per i reduci, e comunque non ambiva a diventare milionario. Ecco perché, quando il padre gli disse che gli artisti finivano a vivere nelle soffitte, Roy si sentì di replicare: – E cosa c’è di male? Cosa credi che siano le soffitte? Sono solai. Anche camera mia prima era un solaio, sai, – un dato di fatto che Mr Bassart non ebbe modo di negare. Ciò di cui aveva voglia era l’avventura, qualcosa con cui mettersi alla prova, un modo di scoprire fino a che punto lui era davvero un individuo. E se non fosse stata una vita da artista, avrebbe potuto magari essere un impiego in un paese straniero, dove per gli abitanti del luogo lui sarebbe stato un estraneo, da giudicare solo per quel che faceva e diceva, non per quel che già si sapeva di lui… Ma spesso dire quelle cose era solo un altro modo di dire che volevi tornare bambino. Era la zia Irene a sostenerlo, e lui fra sé era disposto ad ammettere che poteva anche aver ragione. Era sempre disposto a dare ascolto alle idee della zia Irene, perché:

(1) di solito diceva quel che aveva da dire in privato e non per far colpo sulla gente (tendenza tipica dello zio Julian);

(2) quando dicevi la tua o le davi contro, non ti interrompeva né alzava la voce (garbato modo di fare tipico di suo padre);

e

(3) non reagiva mai in modo isterico a una qualche idea che lui aveva tirato fuori solo per sentire che effetto faceva (abitudine tipica di sua madre).

Sua madre e la zia Irene erano sorelle ma, quanto a sangue freddo, non avrebbero potuto essere più diverse. Ad esempio, quando lui disse che forse avrebbe dovuto andarsene da Liberty Center con lo zaino in spalle per vedere cosa aveva da offrirgli il resto del paese, prima di fare una scelta decisiva a cui in seguito sarebbe rimasto vincolato, la zia Irene la trovò un’idea interessante. Sua madre invece reagì facendo scattare l’allarme rosso, come dicevano sotto le armi. Cominciò subito a dire che era appena tornato dopo due anni lontano da casa (fatto di cui ovviamente lui era all’oscuro…), e che avrebbe dovuto decidersi ad andare all’università dello stato (e a usare la sua intelligenza «come Dio vuole, Roy»), e fini per accusarlo di non ascoltare una parola di quel che lei diceva. Invece lui ascoltava, sì che ascoltava; anche sprofondato in quella grossa poltrona, assimilava tutte le obiezioni, più o meno. Con quelle che sua madre aveva già sollevato centinaia di volte pensava di avere il diritto di staccare la spina, però il nocciolo del suo discorso lo coglieva, più o meno. Voleva che lui fosse un bravo ragazzo e facesse come gli dicevano; voleva che lui fosse come tutti gli altri. E di fatto proprio lì nelle parole e nel tono di sua madre – ci sarebbero state ragioni a bizzeffe per filarsela via prima del calar del sole. Forse era quello che doveva fare, prendere il largo senza guardarsi indietro – una volta deciso quale parte del paese vedere per prima. C’era un letto pronto per lui a Seattle, Washington, dove abitava il suo miglior amico sotto le armi, Willoughby (nonché la sorellina di Willoughby, con cui in teoria era pronto un combino). Un altro suo buon amico, Hendricks, abitava in Texas; suo padre aveva un ranch, dove probabilmente Roy avrebbe potuto guadagnarsi la pagnotta se fosse rimasto al verde. E poi c’era Boston. Dicevano che Boston era bella. Era la città più storica d’America. «Potrei provare con Boston, – pensò, mentre la madre continuava allegramente a delirare.

- Sissignore, potrei prendere e puntare a est». Ma a essere onesti non gli sarebbe dispiaciuto ancora qualche mese di vita comoda prima di rimettersi sulla strada, se alla fine avesse deciso che per lui era quella la cosa migliore da fare. Aveva passato sedici mesi in quel buco nero di Calcutta (come lo chiamavano), ogni giorno dalle otto alle cinque in quello scintillante ufficio gestione parco automezzi – e poi le serate. Non voleva mai più vedere una pallina da ping–pong… e il clima! Al confronto Liberty Center pareva una giungla sudamericana.

Vento e neve e quel grande cielo grigio che era altrettanto esaltante da guardare quanto una lavagna cancellata. E il fango. E il rancio! E quella merdosa branda microscopica, umida e stretta, che osavano chiamare letto! In effetti se lo meritava di non andare da nessuna parte finché non avesse recuperato tutto il sonno perso su quel dannato letto - e avesse anche rimesso in funzione una o due delle sue papille gustative. Dopo un’esperienza come quella, di certo non disdegnava di farsi servire ogni mattina la colazione in una gradevole cucina luminosa, e avere di nuovo una camera sua dove non gli toccava mettere tutto in quadro col filo a piombo, o potersi prendere tutto il tempo che voleva (o che gli occorreva) quando era al cesso, con la porta chiusa e senza uno a destra e uno a sinistra che facevano i loro bisogni. Era una gran cosa, garantito, mangiare a colazione qualcosa che non sapesse di risciacquatura e cartone, e poi accomodarsi in soggiorno con il «Leader», e leggere in tutta calma, senza che nessuno gli strappasse dalle mani le pagine dello sport. Quanto alla madre che blaterava in continuazione rivolta a lui dalla cucina, non era così stupido da non capire che, se ci teneva tanto, era perché si dava il caso che fosse suo figlio. Lo amava. Semplice. A volte, quando aveva finito il giornale, la raggiungeva in cucina dove stava sfacchinando e, qualunque sciocchezza lei stesse dicendo, le assicurava che era proprio una brava bambina. A volte improvvisava addirittura con lei qualche passo di danza, cantandole una canzone all’orecchio. A lui non costava nulla, e lei era al settimo cielo. Era mossa da buone intenzioni, sua madre, anche se il modo in cui lo viziava ormai lo metteva un po’ in imbarazzo. Come quando gli aveva mandato quel pacco di copriasse di carta per il water. Ecco cosa aveva ricevuto un giorno all’adunata per la posta: cento grandi pezzi di carta velina a forma di ciambella, di cui sua madre aveva visto la pubblicità su una rivista medica nello studio del suo dottore; e in teoria lui ci si sarebbe dovuto sedere sopra… in caserma. Sulle prime aveva pensato di farli vedere al suo sergente maggiore, che era stato ferito alla schiena durante la seconda guerra mondiale ad Anzio. Ma, temendo che il sergente Hickey potesse fraintendere, e prendere in giro lui invece di sua madre, quella sera tardi era andato sul retro della mensa e li aveva buttati di nascosto in un bidone di spazzatura congelata, avendo la premura di rimuovere e distruggere il biglietto di accompagnamento. Diceva: «Roy, per favore, usali. Non tutti hanno alle spalle una famiglia pulita». Il che era un perfetto esempio di quanto sua madre fosse animata da buone intenzioni ma non avesse la minima idea del fatto che lui era un adulto a cui non si potevano più fare cose simili. Nondimeno, su a Adak c’erano state delle volte in cui aveva sentito la sua mancanza, e anche quella di suo padre, e aveva provato verso di loro gli stessi sentimenti di quando ancora non avevano cominciato a fraintendere ogni parola che gli usciva dalla bocca.

Dimenticava allora tutto quel che secondo loro lui faceva di sbagliato, e tutto quel che secondo lui loro facevano di sbagliato, e pensava che in realtà era molto fortunato ad avere alle spalle una famiglia che ci teneva così tanto a lui. Nella sua camerata c’era un ragazzo cresciuto nel collegio di Boys Town, in Nebraska, e, benché avesse per lui un grande rispetto, Roy lo compativa per tutto quel che si era perso, non avendo avuto una famiglia. Si chiamava Kurtz, e anche se, essendo pieno di brufoli, non era esattamente la persona che Roy avrebbe gradito trovarsi davanti durante i pasti, spesso l’aveva invitato a Liberty Center (quando finalmente fossero usciti da quella galera) per assaggiare la cucina di sua madre. Kurtz diceva che gli avrebbe fatto un gran piacere. Del resto, a tutti loro avrebbe fatto piacere: uno dei grossi eventi in caserma era l’arrivo di quelle che chiamavano «le cose buone di mamma Bassart». Quando Roy scrisse alla madre dicendole che era la seconda pin–up più popolare della caserma, dopo Jane Russell, lei cominciò a includere in ogni pacco due scatole di biscotti, una per Roy e l’altra per i ragazzi suoi amici. Quanto a Miss Jane Russell, il suo ultimo film era stato bandito dal cinema di Winnisaw da un’ingiunzione del tribunale, un’informazione di cui Alice Bassart sperava che Roy avrebbe fatto tesoro. Questo sì che Roy lo lesse al sergente Hickey, ed entrambi si fecero una bella risata. Dunque, nei mesi dopo il congedo, Roy si dedicò prima di tutto a mettersi in pari con il sonno, e poi a mettersi in pari con il cibo. Ogni mattina alle dieci meno un quarto circa, – ben dopo che il padre era uscito per andare a lavorare, scendeva in maglietta e pantaloni militari per fare colazione con due qualità di succhi di frutta, due uova, quattro fette di bacon, quattro fette di pane tostato, un bel po’ di confettura di ciliegie Bing, un bel po’ di marmellata d’arancia, e caffè – che, tanto per scioccare la madre, la quale a colazione non l’aveva mai visto bere altro che latte, lui chiamava «brodaglia» o «giava». Certe mattine si scolava un’intera caffettiera, e vedeva che lei non sapeva se scandalizzarsi per quel che beveva o gioire per quanto ne beveva. Le piaceva fare il suo dovere con lui quando si trattava di cibo e, dato che non gli costava niente, Roy la lasciava fare. «E lo sai cos’altro bevo, Alice?», diceva, dandosi una botta sullo stomaco con il palmo della mano mentre si alzava da tavola.

Non produceva lo stesso suono di quando lo faceva il sergente Hickey, che pesava centodue chili, ma era un bel suono lo stesso. «Roy, – diceva lei, – non fare il furbo. Bevi whiskey?»

«Oh, solo un bicchierino di tanto in tanto, Alice». «Roy…» E quello era il momento in cui – se vedeva che ci era cascata – andava da lei, la abbracciava e diceva: «Sei una brava bambina, Alice, però non devi credere a tutto quello che ti dicono». E poi le dava sulla fronte un gran bacio con lo schiocco, sicuro che questo non solo l’avrebbe messa subito di buonumore, ma avrebbe illuminato l’intera sua mattinata di compere e faccende. E aveva ragione, di solito era così. Tutto sommato, lui ed Alice avevano un buon rapporto. Poi un’occhiata al giornale dalla prima all’ultima pagina; poi un altro salto in cucina per un bicchiere di latte. In piedi accanto al frigorifero, lo mandava giù in due lunghe sorsate, poi chiudeva gli occhi assaporando la sensazione metallica del freddo che gli attraversava il ponte del naso; poi dal contenitore per il pane una manciata di biscotti Hydrox, una delle sue più vecchie passioni; poi «Io esco, mamma!» sul rumore di fondo dell’aspirapolvere… Nei primi mesi dopo il ritorno a casa, faceva lunghe camminate in tutta la città, e quasi sempre finiva per passare davanti alla scuola superiore. Era difficile credere che, solo due anni prima, lui fosse uno di quei ragazzini di cui vedeva le teste chine sui libri, a penare. Ma era quasi altrettanto difficile credere che non lo fosse più. Una mattina, tanto per togliersi uno sfizio, arrivò fino alla porta d’ingresso, accanto al pennone della bandiera, e si mise ad ascoltare la voce del suo vecchio professore di matematica, quel tesoruccio chiamato «Criss Cross, che ronzava monotona dalla finestra aperta della classe 104. Mai più in tutta la sua vita – mai più – Roy avrebbe dovuto andare alla lavagna e starsene li col gesso in mano mentre il vecchio «Criss» gli dettava un problema da risolvere davanti a tutta la classe. Con sua sorpresa, quella rivelazione lo intristì. Eppure aveva odiato l’algebra. L’avevano promosso per il rotto della cuffia. Quando aveva portato a casa un 6, suo padre aveva fatto i salti di gioia… Accipicchia, incredibile di cosa si può sentire la mancanza, pensò, se hai qualche rotella fuori posto, e riprese a scendere per la forra, fino al fiume, dove si sedette al sole accanto al pontile, per poi dividere in due i biscotti Hydrox, mangiando prima la metà vuota, poi quella a cui era rimasta attaccata la crema, e pensando: «Venti. Vent’anni. Roy Bassart ha vent’anni». Guardò il fiume che scorreva e pensò che l’acqua era come il tempo. Qualcuno avrebbe dovuto scriverci una poesia, pensò, e poi pensò: «Perché non io?»

L’acqua è come il tempo, Scorre… scorre… L’acqua è come il tempo, Passa… passa…

A volte ancora prima di mezzogiorno gli veniva un attacco di fame, e si fermava in centro al Dale’s Dairy Bar per un panino con pomodoro, bacon e formaggio, e un bicchiere di latte. Allo spaccio di Adak i panini con pomodoro, bacon e formaggio non li facevano. Non chiedermi perché, disse una volta allo zio Julian. Non li facevano e basta. Avevano il formaggio, il bacon, il pomodoro e il pane, però non mettevano insieme il tutto, nemmeno se gli spiegavi come fare. Potevi sgolarti fino a diventare rosso in faccia, ma il tipo dietro il bancone non lo faceva.

Le solite bestialità dell’esercito, come spiegò a Julian. Di pomeriggio spesso faceva un salto alla biblioteca pubblica, dove un tempo lavorava dopo la scuola la ragazza con cui un tempo faceva coppia fissa, Bev Collison. Con l’album da disegno in grembo, sfogliava le riviste in cerca di panorami da copiare. Aveva perso interesse per le teste umane, e aveva deciso che, invece di impazzire nel tentativo di ottenere una bocca che avesse l’aria di una cosa che si apriva e si chiudeva, si sarebbe specializzato in paesaggi. Sfogliò centinaia di numeri di «Holiday», trovando poco che lo ispirasse, anche se in tal modo finì per leggere di un sacco di posti e di usi e costumi che gli erano del tutto ignoti, perciò in fin dei conti non era tempo sprecato – a parte quando si addormentava, perché come al solito in biblioteca c’era l’aria viziata, e praticamente bisognava presentare richiesta scritta per farsi aprire la finestra in modo da fare un po’ di corrente. Proprio come nell’esercito. Una cosa banalissima, e ci mettevi tutta la giornata per strappare a qualcuno il permesso di farla. Oh, cavoli, che bello essere liberi. Con tutta la vita davanti. Tutto un futuro in cui avrebbe potuto essere e fare quel che voleva. In autunno, di solito nel tardo pomeriggio tornava alla scuola a guardare l’allenamento di football, e ci restava finché faceva buio, andando su e giù lungo i bordi del campo per seguire le azioni. Così da vicino si sentiva sbattere il tessuto delle divise dei giocatori della prima linea quando cozzavano l’uno contro l’altro – un suono che gli piaceva in modo particolare – e si vedevano bene le stupefacenti gambe granitiche di Tug Sigerson, che si diceva non smettessero mai di mulinare, nemmeno sul fondo di una mischia. Gli tiravano via dieci uomini da addosso, e il buon vecchio Tug era ancora lì che cercava di conquistare un centimetro, il centimetro che alla fine di una partita poteva davvero fare la differenza tra vittoria e sconfitta. Oppure a volte a Roy toccava indietreggiare in tutta fretta insieme al manipolo degli altri spettatori quando un halfback arrivava al galoppo verso di loro schizzando terra così in alto e così lontano che poi tornando a casa Roy si trovava nei capelli una piccola zolla del campo da gioco. «Cavoli, se ci dava dentro quel tizio», pensava poi, sbriciolando la terra fra le dita. Ma quello che valeva soprattutto la pena guardare da vicino era Wild Bill Elliott, un esterno sinistro grande e grosso. Erano tre anni che Wild Bill fregava gli avversari con le sue finte, ed era l’esterno che aveva fatto più punti a Liberty Center dai tempi di Bud Brunn. Nel giro di un secondo netto lui faceva una finta a destra, poi una a sinistra, poi tagliava a sinistra, arretrava, tornava all’attacco, prendeva una pallottola dritta in pancia scagliata da Bobby Rackstraw, poi faceva – solo con la spalla - un’altra finta a destra, per poi voltarsi e schizzare a centrocampo finché Gardner Dorsey, l’allenatore capo, dava un colpo di fischietto, e lui veniva indietro a larghe falcate con quella sua andatura con i piedi rivolti all’indentro, facendo un lungo lancio a spirale dal basso verso la linea di scrimmage, e gridava: «Su la testa, ragazzi». E a quel punto uno degli spettatori accanto a Roy diceva: «Questa volta il vecchio Bill avrebbe fatto meta», quando non era lo stesso Roy a dirlo. Dal campo da baseball giungeva il suono della banda che faceva le prove per la partita del sabato. «Attenzione, prego, banda. Ba–anda!», sentiva chiamare al megafono da Mr Valerio… ed è la sensazione più bella che lui ricordi di aver mai provato, sentire la banda che attaccava con l’inno della scuola… Una vittoria Per Li–ber–ty Conquisteremo Una vittoria… e vedere la prima squadra (tre anni consecutivi senza perdere una partita, ventiquattro vittorie di fila) che termina il conciliabolo e batte le mani, mentre la seconda squadra si fa avanti, e Bobby Rackstraw, il quarterback alto e magro, dà il segnale stando in punta di piedi – «Uno… due…» – e poi, appena la palla schizza via, alzare gli occhi e vedere sopra la scuola la luna pallida nel cielo che imbrunisce. Per quell’ora del giorno, per quel periodo della vita, per quell’America dove tutto accade in modo pacifico e naturale, lui prova un’emozione così lancinante e al contempo così corroborante da poter solo essere definita amore. Nell’autunno dopo il congedo di Roy dall’esercito, una delle stelle della squadra di football era Joe «il Ditone» Whetstone. Come halfback era una scheggia (aveva corso le cento iarde in 9 secondi e 9), e, a calciare, era il migliore nella storia della scuola, o addirittura, secondo alcuni, nella storia dello stato.

Dall’estate Joe usciva con la cugina di Roy, Ellie, e il sabato sera, mentre Julian e Roy si facevano una chiacchierata o una birra insieme, Joe veniva a prendere Ellie per portarla a quello che era diventato un evento a cadenza settimanale per i Liberty Center Stallions, la festa per la vittoria. Sedeva con loro due nella stanza della tv mentre la «principessa Sowerby», come la chiamava Julian, decideva che vestito mettersi. All’inizio Roy non aveva molto da dire a Joe. Alle superiori non aveva mai bazzicato con gli sportivi, né con nessun altro gruppo, se poteva evitarlo; in un gruppo si perde la propria identità, e Roy si considerava un po’ troppo individualista. Non un solitario, ma un individualista, e c’è una grossa differenza. Però Joe Whetstone si rivelò molto diverso da come Roy se l’era immaginato. Con la sua reputazione, e il suo bell’aspetto, c’era da aspettarsi che fosse uno sbruffone vanesio (come Wild Bill Elliott, un campione a sputare fra i denti nel passaggio in mezzo ai sedili del cinema di Winnisaw, a quanto aveva sentito Roy). Invece Joe era rispettoso ed educato con i Sowerby, e anche con Roy. Ci volle un po’, ma a poco a poco Roy capì che il motivo per cui Joe sedeva senza neanche togliersi il cappotto, annuendo a qualunque cosa Roy dicesse, senza praticamente spiccicare parola, non era che lo guardasse dall’alto in basso, ma piuttosto il contrario. A calciare, Joe poteva anche essere il più bravo nella storia dello stato, ma Roy era appena tornato da sedici mesi nelle isole Aleutine, separate dalla Russia solo dal Mare di Bering. E Joe lo sapeva. Un sabato sera, quando Ellie scese balzelloni le scale, Joe scattò in piedi, e Roy si rese conto che il famoso Joe il Ditone, con già in tasca sei differenti offerte di borse di studio, non era nulla più di quel che era Ellie: un adolescente di diciassette anni. Mentre Roy di anni ne aveva venti, Roy era un reduce… In breve, il sabato sera Roy si trovò a dire frasi come «Oggi ti stavano proprio addosso, Joe», oppure «Come va la caviglia di Bart?» o «Andrà per le lunghe, la costola di Guardello?» Adesso certe sere toccava a Ellie aspettare, mentre i tre uomini finivano di discutere se, tanto per cominciare, Dorsey non avrebbe dovuto levare Sigerson dalla posizione di tackle; o se Bobby (Rackstraw) fosse troppo esile per giocare al college, nonostante le pallottole che sapeva tirare; o se Wild Bill avrebbe dovuto andare all’Università del Michigan (che aveva una grande nomea) o a quella del Kansas, dove almeno sarebbe stato sicuro di avere un allenatore a cui piaceva veder volare la palla.

In quei pomeriggi in cui andava a guardare gli allenamenti di football, Roy finiva quasi sempre per indugiare sulle gradinate di legno dietro la porta, in modo da avere la prospettiva migliore quando Joe piazzava la palla attraverso i pali dalle cinquanta iarde.

- Come butta, Joe?

- Oh, ciao, Roy.

- Come va il ditone?

- Oh, si difende.

- Bravo. Quell’estremità del campo era anche la zona dove si allenavano le ragazze pompon. Dopo che Joe aveva finito – «Alla prossima, Roy»; «Ci vediamo, ragazzo»-, Roy si abbottonava il giaccone, tirava su il colletto, si appoggiava all’indietro sui gomiti, allungava le gambe su tre file di gradini e, con un accenno di sorriso stampato in faccia, restava ancora qualche minuto a guardare le ragazze pompon che ripassavano il loro imprescindibile repertorio di giochi di destrezza.

Datemi una L… «L», diceva Roy in pacato tono ironico, senza preoccuparsi se lo sentivano o meno. Datemi una I… Datemi una B… Durante i quattro anni delle superiori, Roy aveva avuto una cotta segreta per Ginger Donnelly, che in terza era diventata capo ragazza pompon. Ogni volta che la vedeva nei corridoi il labbro superiore gli si imperlava di sudore, proprio come gli succedeva in classe quando di punto in bianco un insegnante gli chiedeva di rispondere a una domanda che lui non aveva nemmeno sentito. E il fatto era che Roy e Ginger non si erano mai scambiati una parola, e probabilmente non se la sarebbero mai scambiata. Però lei era un gran pezzo di f., come si suol dire, un fatto che Roy non riusciva a ignorare, e non che ci provasse più di tanto. A letto la notte si metteva a pensare a quando si piegava all’indietro inarcando il bacino per fare la locomotiva per il Liberty Center, e gli veniva un’erezione; e pure alle partite, dopo i touchdown, quando Ginger faceva la ruota per tutta la lunghezza del campo, e tutti la acclamavano e applaudivano, a Roy veniva un’erezione. Ed era ridicolo, perché lei non era affatto quel tipo di ragazza. Nessuno, che si sapesse, l’aveva mai baciata, e poi era cattolica, e se non eri sposato, o almeno fidanzato, con loro, le ragazze cattoliche non si lasciavano neanche abbracciare al cinema. Questo stando a una certa versione dei fatti. Secondo un’altra versione invece bastava dire che le avresti sposate subito dopo il diploma, e a quel punto «te la davano», come si suol dire, già al primo appuntamento. Anche su Ginger c’erano versioni contrastanti. Quasi tutti i giocatori di Liberty Center assicuravano che non si lasciava nemmeno sfiorare con un dito, e molte ragazze sostenevano che avesse in mente di farsi suora. Ma poi un tizio di nome Mufflin, che aveva sui venticinque anni e ciondolava intorno alla scuola fumando con i ragazzini, tirò fuori che i suoi amici di Winnisaw gli avevano raccontato che una sera a una festa dall’altra parte del fiume, quando era al primo anno (e non aveva ancora la puzza sotto il naso), Ginger si era fatta praticamente tutta la squadra di Winnisaw. Il motivo per cui nessuno lo sapeva era che la verità era stata immediatamente messa a tacere dal prete, che aveva minacciato i ragazzi coinvolti di farli finire tutti in galera per stupro se mai uno di loro avesse aperto bocca. Era una delle tipiche storie di Mufflin, eppure alcuni ci credevano – ma non Roy. Di solito lui preferiva ragazze un po’ più serie e pacate. Bev Collison, ad esempio, che durante l’ultimo anno era stata più o meno sua proprietà privata, e adesso faceva il terzo anno di studi magistrali all’Università del Minnesota (che Roy teneva in serbo come scelta in extremis, se tutti gli altri progetti fossero andati a monte). Bev era una delle poche ragazze del posto che non si atteggiasse a concorrente di una perenne gara di popolarità; lasciava volentieri le smargiassate alle smargiasse, e non passava il tempo a ridacchiare, bisbigliare e stare tutta la sera al telefono. Aveva la media dell’8, dopo la scuola lavorava in biblioteca e le restava ancora il tempo per qualche attività extracurricolare (il circolo di spagnolo, il circolo di educazione civica, l’incarico di responsabile per la raccolta pubblicitaria del «Liberty Bell») e per la vita sociale. Aveva i piedi ben piantati per terra (perfino i genitori di Roy concordavano: complimenti!) e lui l’aveva sempre rispettata.

Anzi, proprio perché la rispettava non aveva mai cercato di convincerla ad andare fino in fondo. Tuttavia con lei c’era andato giù più pesante che con chiunque altra. Al principio si baciavano in piedi nell’ingresso della casa di lei (per un’ora di fila, ma sempre con la giacca addosso).

Poi, un sabato dopo un ballo scolastico, Bev lo lasciò entrare in soggiorno; si tolse la giacca e la appese, ma non permise a Roy di togliersi la sua, dicendo che entro due minuti sarebbe dovuto andar via perché la camera dei suoi genitori era proprio sopra il divano, verso il quale Roy doveva smettere di cercare di spingerla. Trascorsero diverse settimane prima che si lasciasse convincere a permettergli di togliersi la giacca, se non altro come misura igienica; e anche allora lei non acconsenti, smise solo di far resistenza quando già Roy l’aveva fatta scivolare a metà sul pavimento continuando nel frattempo a sbaciucchiarla perché non se ne accorgesse. E poi una sera, dopo una lunga e aspra lotta, Bev a un tratto si mise a singhiozzare. Il primo pensiero di Roy fu che avrebbe dovuto alzarsi e andarsene a casa prima che Mr Collison scendesse le scale; invece continuò a darle delle pacche sulla schiena e a dire che andava tutto bene, che gli spiaceva tanto, che non l’aveva fatto apposta; e così Bev domandò, con aria sollevata, se davvero non l’aveva fatto apposta. E lui, sebbene non avesse nemmeno ben capito di cosa stessero parlando, disse: – Certo che no, – e così da quel momento, con sua immensa sorpresa, lei accettò di lasciargli mettere la mano ovunque volesse al di sopra della cintola, purché restasse fuori dai vestiti. Seguì un brutto mese durante il quale Bev era così arrabbiata con lui che per poco non si lasciarono; nel frattempo Roy spingeva e tirava, implorava e si scusava, senza alcun esito – finché una sera, mentre cercava di respingerlo, Bev (inavvertitamente, sostenne in seguito fra le lacrime) non gli conficcò un’unghia nel polso così in profondità da farlo sanguinare. Dopodiché si sentì così in colpa che gli lasciò infilare una mano dentro la camicetta, ma non dentro la sottoveste. Roy ne fu così eccitato che Bev dovette sussurrargli: – Roy! Ci sono i miei… smettila di ansimare così! – Poi una sera, nel soggiorno buio, accesero la radio, molto, molto bassa, e, guarda caso, al programma Rendezvous Highlights stavano trasmettendo la colonna sonora di Festa d’amore, che di recente era stato riproiettato a Winnisaw. Era il loro film, e It Might As Well Be Spring era la loro canzone – Roy riuscì a farlo ammettere a Bev. In effetti, la madre di Roy diceva che lui somigliava un po’ a Dick Haymes, però non, osservò Bev, quando cercava di cantare come lui. Tuttavia, nel bel mezzo di It’s A Grand Night For Singing, Bev si lasciò cadere sul divano con gli occhi chiusi e le braccia dietro il collo. Lui si domandò per un istante se era davvero quello che lei voleva, decise di sì, decise che doveva essere così e, cogliendo l’occasione della sua vita, le infilò una mano fra la sottoveste e il reggiseno. Sfortunatamente, un po’ per la novità e un po’ per l’eccitazione di quel che lei gli stava lasciando fare, la fibbia del suo orologio si impigliò nel maglione di lei, il migliore che avesse. Quando vide quel che era successo, Bev ne fu affranta, poi atterrita, e così dovettero interrompere tutto mentre lei riprendeva il punto con una molletta per i capelli, prima che la madre la mattina se ne accorgesse e le chiedesse una spiegazione. Poi, il sabato prima del diploma, accadde; nel buio pesto del soggiorno, le mise due dita su un capezzolo. Nudo. E in un battibaleno lei partì per andare a Superior a trovare la sorella sposata, e lui partì soldato.

Appena era stato spedito alle Aleutine – quando ancora non aveva superato il trauma dell’impatto con quel luogo – aveva scritto a Bev per chiederle di fargli mandare dall’Università del Minnesota un modulo per la richiesta di ammissione. Quando il modulo arrivò, cominciò a dedicare un po’ di tempo ogni sera a compilarlo, ma poco dopo prese coscienza del fatto che Bev aveva smesso di scrivergli. Per fortuna a quel punto era più a suo agio con la tetraggine del paesaggio circostante di quanto lo fosse stato quella prima terribile sera, e così fu in grado di ammettere con se stesso che sarebbe stato piuttosto stupido scegliere un’università solo perché la frequentava una sua vecchia fiamma. E sarebbe stato assolutamente da idioti se, dopo il congedo, avesse finito per presentarsi a Minneapolis per poi scoprire che quella sua vecchia fiamma si era messa con un ragazzo nuovo senza neppure dirglielo. Perciò il modulo non finì di compilarlo, anche se ce l’aveva’ ancora «fra le sue carte», una pila di scartoffie che avrebbe passato in rassegna non appena avesse avuto due o tre giorni tranquilli per fare le cose perbene. La ragazza pompon che interessava adesso Roy si chiamava Mary Littlefield, anche se, come presto scoprì, tutti la chiamavano «Scimmia». Era piccola, aveva una frangetta scura e, per essere così bassa, aveva un fisico eccezionale (il che non si poteva dire di Beverly Collison, che nella sua amarezza Roy aveva cominciato a definire, non del tutto a torto, «piatta come una tavola»). Scimmia Littlefield faceva solo* la terza, il che, presumeva Roy, significava che era troppo; giovane per lui; e se fosse venuto fuori che non aveva cervello, allora per la piccola Scimmia sarebbe calato il sipario, senza bisogno di arrivare al primo appuntamento. Il tipo di ragazza che aveva di mira in quel periodo doveva essere dotata di un minimo di maturità. Però Scimmia Littlefield aveva quel fisico eccezionale, con quei muscoli delle gambe eccezionalmente sviluppati, e il fatto che fosse una ragazza pompon molto popolare non lo annichiliva come lo aveva annichilito due anni prima con Ginger Donnelly. Del resto cos’era mai: una ragazza pompon se non una ragazza come tutte le altre, solo più estroversa? Inoltre, la Scimmia abitava al Grove, perciò sapeva chi era Roy: il cugino di Ellie Sowerby e un buon amico di Joe Whetstone. Probabilmente sapeva anche che era un reduce, da come si vestiva. Quando lei e la sua coorte cominciavano a esercitarsi a fare la ruota, Roy intrecciava le dita dietro il collo, incrociava le caviglie e scuoteva la testa. «Oh, cavoli, – pensava, – se solo sapessero com’è lassù nelle Aleutine». A quel punto faceva già quasi buio. I giocatori cominciavano a lasciare il campo alla spicciolata, facendo dondolare i caschi argentei lungo i fianchi mentre si dirigevano verso lo spogliatoio. Le ragazze pompon recuperavano soprabiti e libri di scuola da dove li avevano ammucchiati sulla prima fila delle gradinate, e Roy si alzava, ergendosi in tutto il suo metro e novanta, allungava le braccia stiracchiandosi e sbadigliava, in modo da apparire pacifico e accomodante a chiunque lo stesse osservando. Poi, balzando a terra con un lungo salto, affondava le mani nelle tasche e si avviava verso casa, magari tirando un calcio nell’aria con un piede, come se si esercitasse nel punt… e pensava che, se avesse avuto un’auto sua, non ci sarebbe voluto niente a dire a Scimmia Littlefield: «Vado da mia cugina, se vuoi un passaggio». Ultimamente pensava spesso di comprarsi un’auto, e non sarebbe stato un lusso superfluo. A suo padre magari l’idea non garbava, così come non gli era garbata al tempo delle superiori, ma i soldi che Roy aveva messo da parte durante il servizio militare erano suoi, e poteva spenderli come gli pareva. Ai genitori la macchina doveva chiederla con giorni e giorni di anticipo, e riportarla in garage ogni sera a una determinata ora; solo con un’auto tutta sua sarebbe stato davvero indipendente. Con un’auto tutta sua avrebbe potuto spassarsela con quella Littlefield dopo essersi assicurato che non fosse solo un’estroversa e nulla più… E se fosse stata solo questo? La cosa l’avrebbe scoraggiato? Qualcosa nei muscoli delle gambe di quella ragazza gli diceva che Scimmia Littlefield era già arrivata fino in fondo, o comunque sarebbe stata disposta a farlo, con un ragazzo più grande che sapeva come giocare le proprie carte…. Su nelle Aleutine pareva che tutti avessero già convinto qualche ragazza ad andare fino in fondo, tutti tranne Roy. Dal momento che non faceva male a nessuno, e che non era tanto una bugia quanto un’esagerazione, Roy aveva lasciato credere di essere andato anche lui fino in fondo, piuttosto spesso, con quella ragazza dell’Università del Minnesota. Una sera, dopo che avevano spento le luci, Lingelbach, uno che ci sapeva fare con le parole, stava dicendo che negli Usa il problema era che la maggior parte delle ragazze pensava che il sesso fosse una cosa oscena, mentre con ogni probabilità si trattava dell’esperienza, fisica o spirituale, più bella che una persona potesse avere. E siccome era buio, e lui si sentiva solo – e anche arrabbiato -, Roy aveva detto che sì, era quello il motivo per cui alla fine aveva piantato quella ragazza dell’Università del Minnesota, perché lei pensava che il sesso fosse una cosa di cui vergognarsi.

- E la sapete una roba? – aveva detto una voce meridionale, dall’altro capo della baracca. – Sono proprio quelle così che invecchiando diventano le più puttane di tutte. Poi Cuzka, un tizio di Los Angeles che Roy non sopportava, aveva cominciato a spararle grosse. A sentir lui, per, Cuzka il sesso non aveva misteri. Per far aprire le gambe una ragazza, diceva, bastava dir loro che le amavi. Bastava ripeterlo e ripeterlo, e alla fine («Chiunque siano, fossero pure delle Maria Montez») non resistevano. Bastava dir loro che le amavi e dir loro che si fidassero di te. Come credete che faccia Errol Flynn?, aveva chiesto Cuzka, che il più delle volte si comportava come se con Hollywood lui avesse un filo diretto. Bastava ripetere in continuazione: «Fidati di me, piccola, fidati di me», e nel frattempo tirarsi giù la cerniera. Poi si era messo a raccontare come suo fratello, un meccanico di San Diego, una volta si era sbattuto una puttana cinquantenne sdentata, e ben presto Roy si era sentito terribilmente in colpa per aver detto quel che aveva detto Per quanto pelle e ossa e per quanto atterrita, Bev era pur sempre una brava bambina. Cosa poteva farci se i suoi genitori erano così severi? Il giorno dopo si era in parte consolato del suo tradimento ricordando che perlomeno non aveva fatto il suo nome. Lloyd Bassart era giunto alla conclusione che Roy avrebbe dovuto andare a bottega presso un tipografo di Winnisaw; Il padre amava usare l’espressione «andare a bottega» tanto quanto Roy odiava sentirgliela usare. Tuttavia la consapevolezza di tale avversione da parte del figlio non lo dissuadeva dall’usarla: Roy avrebbe dovuto andare a bottega presso un tipografo di Winnisaw; con le arti grafiche ci sapeva fare, e si trattava di un mestiere onesto con cui ci si poteva guadagnare da vivere decentemente. Era sicuro che i fratelli Bigelow gli avrebbero trovato un posto – e non perché era figlio di Lloyd Bassart, ma per le capacità che il giovanotto effettivamente possedeva. Gli artisti fanno la fame, lo sanno tutti, a meno che siano dei Rembrandt, e non gli sembrava il caso di Roy. Quanto ad andare al college, considerati i voti di Roy alle superiori, suo padre non riusciva a immaginare come di punto in bianco potesse spiccare per virtù scolastiche o intellettuali in un’istituzione accademica.

Benché Alice Bassart gli facesse notare che si erano viste cose anche più strane, suo marito non credeva che nel caso in questione sarebbe successo. Lloyd Bassart insegnava arti grafiche alla scuola superiore ed era pure il braccio destro del preside, Donald «Bud» Brunn, il miglior esterno di tutti i tempi nella squadra di football dell’Università del Wisconsin. Quando, nel 1930, a Liberty Center era stata aperta la nuova scuola superiore unificata, la gente aveva ancora in mente le sensazionali prese sopra la spalla a fondo campo di Don Brunn durante i suoi quattro anni nella Big Ten. Cosa avessero a che fare le prese sopra la spalla con l’organizzazione di un corso di studi o la valutazione di un preventivo a Alice Bassart sarebbe risultato incomprensibile fino al giorno della sua morte, eppure fu sulla base di tale capacità che a Don, che all’epoca insegnava educazione civica e allenava le squadre della scuola superiore di Fort Kean, venne offerto il posto di preside della sua città natale. Non essendo un citrullo, almeno quando si trattava di fare i propri interessi, lui accettò. E così, per diciotto anni, diciotto anni di pura e semplice mediocrità, come si esprimeva Alice quando la rabbia le faceva perdere la testa -, Don era stato il preside (o quantomeno aveva occupato la stanza della presidenza) e Lloyd era stato quello che Alice Bassart chiamava «il misconosciuto eroe dietro le quinte». Don non si azzardava nemmeno ad assumere un nuovo bidello senza che prima Lloyd gli avesse dato un’occhiata, eppure prendeva lo stipendio da preside, e per i genitori della scuola era una sorta di nume tutelare, mentre Lloyd, per quanto concerneva l’opinione pubblica, non era nessuno. Quando Alice attaccava con quella solfa, di solito Lloyd riteneva opportuno citare quelle che, diceva, erano le parole di un uomo molto più saggio di loro, il poeta Bobbie Burns.

Mio degno amico, niente lagne e rancori, Pur se la fortuna non t’ha fatto favori3. Concordava sul fatto che Don fosse un incompetente con un sorriso da babbeo, ma era un fatto della vita e lui aveva imparato da tempo ad accettarlo. Dopo tutti quegli anni non poteva certo star lì a sperare e pregare che un giorno quel tizio vedesse la luce e rassegnasse le dimissioni; anche perché, se fosse stato in grado di vedere la luce, non ci sarebbe stato motivo che rassegnasse le dimissioni. Né si poteva stare ad aspettare che scivolasse su una buccia di banana; prima di tutto, Don era sano come un pesce, e sarebbe sopravvissuto a ognuno di loro, e poi cose simili Alice non doveva nemmeno pensarle, figuriamoci dirle ad alta voce. O vivi i tuoi giorni con il gusto amaro dell’invidia sempre in bocca, oppure tieni presente che a questo mondo c’è gente che se la passa molto peggio di te, e ringrazi per quello che sei e quello che hai, e via dicendo. Cosa ne poteva Roy se preferiva trascorrere le sue serate; dallo zio Julian piuttosto che a casa? Non che considerasse Julian perfetto, ma almeno suo zio credeva nel godersi la vita, e, le sue idee non erano vecchie di due secoli. «Sveglia! – avrebbe voluto gridare Roy all’orecchio del padre. – E’ il 1948!» Invece Julian lo sapeva benissimo che anno era, lo si vedeva subito, anche solo dal modo in cui vestiva. Mentre a casa di Roy il periodico in voga era «Hygeia», Julian ogni mese prendeva «Esquire», e si abbigliava da capo a piedi seguendo i consigli di quella rivista. Forse le sue combinazioni di colori erano u po’ pacchiane, almeno per i gusti di Roy, però bisognava ammettere che era sempre alla moda, qualunque fosse la moda del momento.

Nonostante la sua opinione su Harry S. Truman, («metà pezzo di merda e metà comunista»), non faceva problemi ad avere una collezione di stravaganti camicie hawaiane alla Harry Truman… In ogni caso, comparire in pubblico senza la cravatta per Julian non era uno scandalo e, se anche Roy si presentava a casa sua con la camicia fuori dai pantaloni, non per questo si comportava come se la vita su questo pianeta fosse giunta al termine. Lo zio Julian lo capiva se Roy non si scaldava tanto per cose che erano solo «esterne». «Irene, guarda un po’ chi c’è, – diceva la sera quando apriva la porta al nipote, – il nostro sciattone». Però sorridendo; non come il padre di Roy, che durante tutto il servizio militare il figlio aveva ricordato così come lo vedeva quando usciva dall’ufficio di Mr Brunn: capelli grigi lisci e lustri, bocca chiusa, alto e dritto come un fuso, e addosso quel dannato grembiule grigio di denim, manco fosse stato il ciabattino del paese.

Tornato a casa dalla seconda guerra mondiale, Julian aveva cercato di escogitare qualcosa di cui la gente avesse bisogno, qualcosa che fosse economico e utile per loro e redditizio per lui: aveva avuto l’idea delle lavanderie a gettoni. Un’idea banalissima eppure, nel giro di un anno, dai quartini e mezzi dollari che le signore lungo il fiume ficcavano nelle lavatrici e nelle asciugatrici della Elene Laundromatic Company, Julian aveva ricavato ventimila dollari.

Ora, Roy non aveva un gran desiderio di seguire le orme di un uomo d’affari; non erano solo considerazioni personali quelle che lo spingevano a esitare di fronte all’offerta di Julian di introdurlo nel settore; c’era anche una questione di principio. Roy non era sicuro di credere ancora come un tempo alla libera impresa, quantomeno per com’era praticata in quella nazione. Durante i suoi ultimi mesi su nelle Aleutine, Roy aveva teso l’orecchio dalla sua branda quando la sera alcuni dei commilitoni laureati facevano discorsi seri su come andava il mondo. Lui sul momento non diceva un granché, però spesso il giorno dopo trovava l’occasione, mentre si trovava nell’ufficio gestione parco automezzi dove era addetto agli approvvigionamenti, di parlare con il sergente Hickey di alcune delle cose che aveva sentito. Di sicuro non si beveva tutte le critiche che aveva da fare all’America quel Lingelbach.

Il sergente Hickey aveva perfettamente ragione: chiunque era in grado di fare critiche distruttive, chiunque era in grado di passare la giornata a dir male di tutto e di tutti; a modo di vedere del sergente Hickey, se non avevi niente di costruttivo da dire, facevi meglio a startene zitto, soprattutto se si dava il caso che portassi l’uniforme e mangiassi il rancio e incassassi l’assegno del paese che trovavi tanto terribile e tremendo. Roy era assolutamente d’accordo con il sergente Hickey: al mondo c’era gente che non era mai soddisfatta, nemmeno se la imboccavi col cucchiaio d’argento, però bisognava concedere a quel tizio di Boston (non Lingelbach, che era un solitario e un eccentrico, ma Bellwood) che quel che raccontava su come andavano le cose in Svezia era davvero interessante. Roy concordava per filo e per segno con il sergente Hickey e con lo zio Julian riguardo al comunismo, però, come diceva Bellwood, il socialismo differiva dal comunismo come il giorno dalla notte. E poi la Svezia non era nemmeno così tanto socialista. Il che aveva portato Roy a domandarsi se, dopo il congedo, una persona come lui non avrebbe potuto vivere felice in un posto come la Svezia, dove (1) avevano un alto standard di vita ed erano una vera democrazia, in cui si rispettavano le Quattro Libertà rooseveltiane; e tuttavia (2) non erano attaccati ai soldi, diceva Bellwood, quanto in America (e non era una critica, ma un dato di fatto); e poi (3) non credevano nella guerra, e anche Roy non ci credeva. In effetti, non fosse stato di ritorno da sedici mesi nelle Aleutine, avrebbe potuto cercarsi un posto da mozzo su un mercantile diretto in Svezia e, una volta lì, trovare un buon; impiego, un impiego onesto, e nemmeno a Stoccolma, ma in uno di quei villaggi di pescatori di cui aveva visto le fotografie su «Holiday».

Avrebbe potuto stabilirsi lì e sposare una ragazza svedese, e avere figli svedesi, e non tornare mai più negli Stati Uniti. Non sarebbe stata una gran cosa? Pensare’ che, se era davvero ciò che voleva, bastava prendere e farlo, e senza dare spiegazioni a nessuno… Però ne aveva abbastanza del sole che si alzava alle dieci del mattino e tramontava praticamente a mezzogiorno, mentre il resto di quello che avrebbe dovuto essere il giorno in realtà era notte. Probabilmente era questo il problema degli svedesi… perché qualche problema ce l’avevano. Il sergente Hickey, che vedeva tutte le riviste prima che venissero messe nella sala di ricreazione, una mattina era arrivato in ufficio annunciando che, stando all’ultimo numero di «Look», in Svezia c’era più gente che si buttava dalla finestra che in qualunque paese capitalista. Quando in seguito Roy glielo aveva fatto presente, Bellwood non aveva avuto molto da dire in difesa della Svezia, a parte mettersi a discettare sulle percentuali. A quanto pareva lassù c’era una cupezza spaventosa, di cui Bellwood non aveva fatto cenno, e a dirla tutta, per quanto simpatizzasse per la loro forma di governo, purché restasse una democrazia con libere elezioni, alla fine di una giornata di lavoro Roy preferiva di gran lunga passare il tempo con gente che sapeva rilassarsi e prendersela comoda. Moderazione in ogni cosa, era questo il suo motto.

Per questo gli andava di passare le serate dai Sowerby piuttosto che starsene a ciondolare per casa, dove, se il padre era di sopra a scrivere una relazione per Mr Brunn, gli toccava tenere bassa la radio, oppure, se il padre era di sotto, gli toccava discutere con lui di una cosa chiamata Il Futuro di Roy, manco fosse un cadavere rinvenuto nel prato davanti a casa: dunque, senti un po’, Roy, cosa intendi farne?

Quanto alla sua disapprovazione per le visite serali di Roy dai Sowerby (e per suo cognato Julian in quanto consigliere e confidente), Lloyd Bassart mascherava le sue reali obiezioni dicendo che non gli sembrava opportuno che Roy si trasferisse in pianta stabile in casa d’altri solo perché avevano un apparecchio televisivo. Roy gli chiese cosa gliene importava, visto che ai Sowerby andava bene. Allo zio Julian interessava sapere com’era l’esercito nel dopoguerra, e cosa pensava la giovane generazione, perciò gli piaceva chiacchierare con Roy. Che male c’era?

Di fatto le «chiacchierate» fra Julian e Roy consistevano perlopiù in Julian che prendeva per i fondelli Roy. Julian si divertiva da matti a sfottere Roy, e anche Roy in fondo si divertiva a farsi sfottere, perché la loro era una relazione cameratesca. Certo, a volte Julian esagerava, come quella volta che Roy aveva proclamato che non sarebbe mai stato soddisfatto di sé come essere umano se non avesse fatto qualcosa di creativo. In realtà stava solo ripetendo una cosa che aveva sentito dire da Bellwood, però si adattava bene anche a lui, sebbene non l’avesse pensata in prima persona. Ma lo zio Julian aveva scelto deliberatamente di fraintenderlo, e aveva detto che secondo lui più che altro Roy aveva bisogno di una bella gnocca. Roy aveva riso cercando di fare buon viso a cattivo gioco, anche se la zia Irene era in sala da pranzo, da dove poteva sentire tutto quel che dicevano. A Roy il senso dell’umorismo di Julian non andava sempre a genio. Se eri nell’ufficio gestione parco automezzi, o in camerata, dire c. questo e c. quello poteva anche andare, ma se c’erano delle signore in giro era diverso. Per quanto riguardava il linguaggio dello zio Julian, Roy concordava pienamente con suo padre. E poi a volte Julian gli dava sui nervi con le sue opinioni sull’arte, che erano totalmente disinformate. Se cercava di dissuadere Roy dal frequentare un istituto d’arte da snob, non era per la sicurezza economica ma per la tutela della sua virilità. «Ch’avrai mica qualche tendenza strana, Roy? E’ questo che hai fatto lassù al Polo Nord, studiare da checca con i soldi dei contribuenti?» Ma di solito le sue prese in giro erano bonarie, e i loro diverbi non duravano mai molto a lungo. Benché fosse alto meno di un metro e sessanta, durante la guerra lo zio Julian era stato ufficiale di fanteria, e si era salvato il culo per il rotto della cuffia più volte di quante ne potesse ricordare. E benché lo raccontasse esattamente con queste parole, senza badare all’età o al sesso dei presenti, non si poteva non ammirarlo, perché era la pura verità. All’epoca a prendersi tutta la pubblicità era stato quel tale che aveva gridato «Scordatevelo!» al nemico, ma a quanto pareva Julian era conosciuto in tutta la 36a Divisione come «In Culo A Voi» Sowerby; più d’una volta era stato questo il messaggio che aveva sbraitato ai tedeschi, in circostanze in cui un altro uomo si sarebbe ritirato o addirittura arreso. Era salito fino al rango di maggiore ed era stato decorato con una Stella d’Argento; questo glielo riconosceva perfino Lloyd Bassart, che quand’era tornato dalla guerra lo aveva invitato a tenere un discorso agli studenti della scuola superiore. Roy se lo ricordava ancora: lo zio Julian aveva usato le espressioni «all’inferno» e «dannazione» dodici volte nei primi cinque minuti (secondo il conto tenuto da Lloyd Bassart), ma per fortuna dopo si era dato una calmata e, quando aveva finito, gli studenti si erano alzati in piedi e avevano cantato As The Caissons Go Rolling Along in suo onore.

Julian chiamava Roy «lungo sorso d’acqua» e «manico di scopa» e «stecca» e «sciattone», e quasi mai Roy. A volte il nipote non aveva ancora messo piede nell’atrio che già Julian aveva alzato i pugni e ballonzolava all’indietro verso il soggiorno, dicendo: «Fatti sotto, Picchiaduro… vediamo un po’ se riesci a colpirmi». Roy, che a educazione fisica aveva imparato ad assestare un uno–due (anche se nel mondo esterno non gli era ancora servito), seguiva Julian di buon grado, portando avanti il destro, mentre lo zio Julian ondeggiava e barcollava, scostando con una sberla l’uno prima che Roy riuscisse a piazzare il due. Roy girava in tondo, cercando invano di colpirlo, poi invariabilmente Julian tirava indietro il braccio destro, gridava «Ja!» e, mentre ancora Roy teneva il mento incassato fra i pugni e si riparava il ventre con i gomiti (proprio come gli avevano insegnato a scuola), faceva oscillare una gamba di lato per mollare al nipote un morbido e svelto calcio nel sedere con la punta della pantofola. «Okay, Smilzo, – diceva poi. – Siediti, togliti un peso dallo stomaco». Ma la cosa migliore di Julian non erano i suoi modi spensierati: era il fatto che la sua esperienza nell’esercito gli permetteva di capire quanto fosse duro per un reduce tornare ad adattarsi in quattro e quattr’otto alla vita civile. Il padre di Roy era stato troppo giovane per la prima guerra mondiale e troppo vecchio per la seconda, perciò l’intera questione dell’essere un veterano era un ulteriore aspetto della vita moderna che non riusciva a cacciarsi in testa. Che i valori di una persona potessero essere cambiati dopo due anni di servizio militare per lui non significava niente. Che una persona potesse trarre beneficio da un momento di respiro in cui poter parlare di quel che aveva imparato, e interiorizzarlo, per lui equivaleva a perdere tempo prezioso. A Roy faceva ribollire il sangue.

Julian invece lo ascoltava volentieri. Oh, dava anche parecchi consigli, ma c’è una piccola differenza fra uno che ti dà un consiglio e uno che ti dà un ordine. Così, per tutto quell’autunno e poi nell’inverno, julian ascoltò, finché una sera di marzo, mentre lui e Roy stavano fumando sigari e guardando il Milton Berle Show, a un tratto durante la pubblicità Roy disse di essersi quasi convinto che suo padre avesse ragione, che tutto quel tempo prezioso gli stesse scivolando come acqua fra le dita. - Che angoscia, – disse Julian, – manco fossi centenario.

- Ma non è questo il punto, zio Julian.

- Su, datti una scrollata.

- Ma la mia vita…

- Vita? Hai vent’anni. Sei un ragazzino.

Non ce li avrai per sempre, vent’anni. Per l’amor di Dio, tirati su, goditi la vita, datti una scrollata. Non li reggo certi discorsi. E così il giorno dopo finalmente Roy lo fece; andò in autostop a Winnisaw e si comprò una Hudson del 1946 bicolore di seconda mano.

CAPITOLO SECONDO

Sbirciando fra le tende della sua camera, Ellie Sowerby e la sua amica Lucy lo guardavano mentre la smontava e poi rimetteva insieme i pezzi.

Ogni tanto si interrompeva, si sedeva sul parafango con le ginocchia contro il petto e si faceva dondolare davanti agli occhi una bottiglia di Coca–Cola. «L’eroe di guerra sta pensando al suo futuro», diceva Eleanor, e alla sola idea le veniva da farsi una gran risata. Roy però non badava né all’una né all’altra, nemmeno quando Eleanor picchiettava sulla finestra e poi si metteva giù per nascondersi. Ora che le giornate erano più calde, a volte lo vedevano stravaccato sul sedile posteriore della Hudson, con le gambe poggiate sopra il sedile davanti, a leggere un libro preso in biblioteca. Ellie lo chiamava dalla finestra: «Roy, dov’è che andrai a vivere quando sarai in Svezia?» Al che la sua risposta solitamente era un tonfo della portiera posteriore dell’auto. Roy sta leggendo tutto quel che trova sulla Svezia. Metà degli agricoltori di qui sono scappati via di là. E lui invece ci vuole andare.

- Davvero? – chiese Lucy. Non si era offesa, perché suo nonno, che era un agricoltore, era arrivato dalla Norvegia. – Comunque spero che da qualche parte se ne vada, – disse Ellie. – Mio padre teme che decida di trasferirsi da noi. Già adesso praticamente vive qui -.

Poi, fuori dalla finestra: - Roy, ha chiamato tua madre per dire che vende il tuo letto. Ma a quel punto lui era già sotto l’auto, e dal piano di sopra si vedevano solo le suole delle scarpe. L’unico momento in cui dava segno di riconoscere l’esistenza delle due ragazze era quando, giù in soggiorno, non muoveva le gambe neanche di un centimetro, e loro dovevano scavalcarle per uscire dalle portefinestre che davano sul prato dietro la casa. Di solito si comportava come se le squadre fossero già state fatte: lui e lo zio Julian da un lato, le due ragazze e Mrs Sowerby dall’altro. Ma se tali schieramenti esistevano, Lucy Nelson non aveva affatto l’impressione che Irene Sowerby fosse dalla sua parte. Benché in sua presenza fosse cortese e ospitale, Lucy era quasi sicura che dietro le sue spalle quella donna disapprovasse lei e le sue origini. La prima volta che Ellie aveva portato Lucy a casa, Mrs Sowerby l’aveva subito chiamata «cara»; e una settimana dopo Ellie non era più sua amica. Era scomparsa dalla sua vita di punto in bianco, così come c’era entrata, e la colpa, Lucy ne era certa, era di Irene Sowerby.

Considerato quel che sapeva riguardo alla sua famiglia, o che aveva sentito riguardo alla stessa Lucy, Mrs Sowerby aveva deciso che quello non era il tipo di ragazza che il pomeriggio lei voleva veder arrivare a casa con Ellie. Questo accadeva nel settembre dell’ultimo anno delle superiori. A febbraio (come se nel frattempo non fossero trascorsi quattro mesi di una condotta ben poco consona a una signorina tanto fine) Ellie infilò nell’armadietto di Lucy un bigliettino dal tono intimo e gioviale, e dopo la scuola eccole a camminare una a fianco all’altra verso il Grove. Certo, Lucy avrebbe dovuto lasciare anche lei un bigliettino di risposta: «No, grazie. Sarai pure insensibile ai sentimenti altrui, ma non puoi essere insensibile ai miei e passarla liscia. Io non sono una nullità, Ellie, checché ne pensi tua madre». O forse non avrebbe dovuto fare a Ellie la cortesia di risponderle, limitandosi a lasciare che alle tre e mezza si presentasse all’asta della bandiera senza trovare una Lucy in spasmodica attesa di corrispondere alla sua idea di «amica». Provava amarezza nei confronti di Eleanor, non solo perché l’aveva avvicinata con tanto entusiasmo per poi mollarla tanto all’improvviso, ma perché la subitanea dimostrazione d’affetto di Ellie aveva spinto Lucy a prendere una decisione che altrimenti non avrebbe preso, e di cui in seguito si sarebbe pentita. Ma non era tanto colpa di Eleanor quanto sua (o così pareva disposta a credere mentre rileggeva il bigliettino scribacchiato su carta da lettere azzurra con il monogramma EES). La ragione per cui non avrebbe dovuto avere niente a che fare con Ellie Sowerby era che le era superiore da ogni punto di vista immaginabile, eccetto l’aspetto fisico, a cui lei non dava un gran peso; e i soldi, che non significavano niente; e i vestiti; e i ragazzi. Ma come, pur avendo capito che Ellie le era inferiore, l’aveva seguita quando era stata invitata a passare un altro pomeriggio con lei, così nell’ultima settimana di febbraio aveva ripreso a starle dietro. Dove altro avrebbe potuto andare? A casa?

Essendo il ventotto febbraio, aveva ancora solo duecento giorni da vivere in quella casa con quelle persone (duecento per ventiquattro fa quattromilaottocento ore, milleseicento delle quali a letto, però) e poi si sarebbe ritrovata nella nuova sede di Fort Kean del college statale femminile. Aveva fatto domanda per una delle quindici borse di studio complete disponibili per gli studenti dello stato più meritevoli e, sebbene papà Will dicesse che il fatto che qualcosa le avessero assegnato significava che un merito glielo avevano riconosciuto, aveva dovuto accontentarsi di quella che la lettera di congratulazioni chiamava «borsa di studio per l’aiuto al sostentamento», che copriva la retta annuale di centottanta dollari per lo studentato. Al diploma era risultata ventinovesima su centodiciassette, e adesso avrebbe voluto aver sgobbato tanto da prendere 9 in quei corsi come latino e fisica in cui le era parsa già una gran vittoria prendere un 8-. Non che le difficoltà finanziarie fossero tali da impedirle di andare all’università. Negli anni la madre in qualche modo era riuscita a mettere da parte duemila dollari per i suoi studi; quelli, più i millecento dollari dei suoi risparmi, più la borsa per l’aiuto al sostentamento, le sarebbero bastati per quattro anni, purché d’estate continuasse a lavorare a tempo pieno al Dairy Bar, e non esagerasse con le spese extra. La sua delusione era dovuta al fatto che avrebbe voluto essere del tutto indipendente da loro; aveva sperato di non dover mai più fare affidamento su di loro a partire dal settembre del 1949.

L’estate precedente aveva deciso per il college statale di Fort Kean perché era la buona scuola meno costosa che potesse trovare, e quella dove aveva le maggiori probabilità di ricevere un sostegno finanziario; aveva rifiutato di far domanda in qualunque altra università, anche dopo che la madre le aveva rivelato l’esistenza dei suoi «fondi segreti per il college». Se Lucy detestava l’idea di prendere quei soldi, non era solo perché così avrebbe continuato a essere legata alla famiglia, ma perché sapeva bene come aveva fatto sua madre a metterli da parte, e sapeva anche per quale motivo l’aveva fatto. Per quasi tutte le elementari, Lucy aveva pensato che essere la figlia di Mrs Nelson, l’insegnante di pianoforte, la rendesse speciale; poi di punto in bianco i ragazzini che nella bella stagione aspettavano nel portico e d’inverno sedevano in cappotto nell’ingresso erano adesso suoi compagni di classe - e questo suscitava in lei una sorta di terrore. Per quanto corresse in fretta a casa da scuola, per quanto cercasse di entrare senza far rumore, c’era sempre già al pianoforte un qualche bambino, invariabilmente maschio, che invariabilmente distoglieva lo sguardo dallo spartito in tempo per intravedere la sua compagna di classe, Lucy Nelson, che sgattaiolava su per le scale diretta in camera sua. A scuola era nota non più come la figlia della donna che dava lezioni di piano, ma come la figlia dell’uomo che bazzicava l’Earls Dugout, – ne era certa, anche se la distanza che adesso percepiva fra sé e i compagni di classe era tale da non consentirle di domandare loro cosa realmente pensassero, o di scoprire cosa dicessero di lei dietro le sue spalle.

Ovviamente faceva come se la sua fosse una casa normale, anche se ormai aveva cominciato a rendersi conto che così non era, anche se ormai gli allievi di sua madre raccontavano in giro com’era in realtà la famiglia di Lucy Nelson. Naturalmente da piccola riusciva quasi a crederci quando raccontava alle amiche che erano i suoi nonni che vivevano a casa dei suoi genitori, e non il contrario. Alle nuove amiche spiegava subito che, se non poteva portare a casa nessuno nel pomeriggio, era perché la nonna, a cui lei voleva tanto bene, a quell’ora faceva il suo pisolino.

E lei aveva spesso nuove amiche. C’era stato un periodo in cui qualunque bambina della sua età si trasferisse in paese veniva a sapere da Lucy del sonnellino di sua nonna. Ma poi una bambina nuova di nome Mary Beckley (la cui famiglia l’anno successivo si sarebbe poi trasferita da un’altra parte), sentendoselo dire si mise a ridacchiare, e Lucy capì che qualcuno l’aveva già presa da parte per raccontarle i suoi segreti.

La cosa la fece tanto arrabbiare che le vennero le lacrime agli occhi, e Mary ne fu così spaventata che giurò sulla propria testa che aveva ridacchiato solo perché anche la sua sorella piccola faceva il sonnellino… Solo che Lucy non le credette. E da allora decise di non dire mai più una bugia, su nulla e a nessuno; da allora non portò più a casa nessuno, e non diede neanche più spiegazioni. Così, a partire dall’età di dieci anni, sebbene non avesse amiche con cui confidarsi, nessuno di cui le importasse vide più sua madre che prendeva dai suoi studenti la piccola busta con i soldi (e diceva «molte grazie» in modo tanto, tanto dolce) o, peggio ancora, terrore dei terrori, suo padre che entrava ubriaco dalla porta e stramazzava nell’ingresso. Nemmeno Kitty Egan, che Lucy scoprì al secondo anno delle superiori, e che per quattro mesi fu l’amica più intima che lei avesse mai avuto. Kitty non frequentava la scuola superiore di Liberty Center, ma la scuola privata cattolica St Mary. Lucy aveva appena cominciato a lavorare quattro sere alla settimana al Dairy Bar, e aveva conosciuto Kitty a causa dello scandalo: la sua sorella maggiore, Babs, che aveva solo diciassette anni, era scappata di casa. Non aveva nemmeno aspettato il venerdì, quando le ragazze del Dairy Bar venivano pagate, ma aveva tagliato la corda dopo il lavoro in un piovoso martedì sera, probabilmente ancora col grembiule da cameriera. Il suo complice era un diciottenne che faceva le pulizie all’impresa di confezionamento e veniva da Selkirk.

Alla fine della settimana era arrivata una cartolina indirizzata alle «schiave del Dale’s Dairy Bar», spedita da Aurora, Illinois: «Diretta in West Virginia. Tenetevi stretto il vostro bel lavoro, BAMBINE», firmato «Mrs Homer “Babs” Cook». Kitty venne spedita dal padre al Dairy Bar per ritirare la paga di Babs del lunedì e del martedì. Era una ragazza alta e magra il cui tratto più notevole era l’assenza di un qualunque colorito; non era più scura dell’interno di una patata, anche se dal freddo dell’esterno era appena entrata in una stanza calda. Sulle prime a Lucy parve così diversa da Babs che più non si poteva, finché venne a sapere che Babs si era tinta i capelli di nero per somigliare a Linda Darne!! (originariamente li aveva arancioni come Kitty); quanto alla pelle, Babs si metteva così tanto fondotinta, disse Kitty, che nessuno avrebbe mai indovinato che era anemica. La famiglia aveva sempre avuto problemi con Babs. L’unica soddisfazione che dava loro era portare gli orecchini a crocifisso e una collana con la croce, e quella, diceva Kitty, era solo un modo per richiamare l’attenzione sul solco fra i seni - che comunque era l’unica cosa vera che ci fosse, il solco, perché i seni erano fatti con pallottole di carta igienica o i calzini di suo fratello Francis ficcati nel reggipetto. Appena messo piede fuori dalla St Mary – uno scuro edificio in muratura accanto al ponte di Winnisaw - Babs si infilava in un vicolo e si impiastricciava di pancake dalla radice dei capelli tinti fino all’attaccatura dei seni posticci, e nel frattempo fumava una Lucky Strike. Kitty raccontò a Lucy della cosa terribile che una volta aveva trovato nella borsetta della sorella – «Poi una volta ho trovato nella sua borsetta una cosa terribile» – e di come, quando aveva scoperto che Kitty l’aveva buttata nel gabinetto, Babs aveva urlato e strepitato e l’aveva picchiata in faccia. Kitty non l’aveva mai detto a nessuno – eccetto al prete – per paura che i genitori punissero severamente la sorella maggiore, che, diceva Kitty, aveva bisogno di compassione e perdono e amore. Babs era una peccatrice e non sapeva quel che faceva, e Kitty le voleva bene, e ogni mattina e ogni sera pregava per la sorella che viveva in West Virginia insieme a un ragazzo con cui, presumeva, non era neanche sposata. A casa c’erano altri tre figli, tutti più piccoli di Kitty, e lei pregava anche per loro, soprattutto per Francis jr, che presto avrebbe dovuto essere operato di «mastoidite». Gli Egan abitavano vicino alla Maurer Dairy Farm, dove Mr Egan lavorava, e la loro casa era una catapecchia fatiscente. C’erano chiodi che sporgevano dalle assi, e carta moschicida che penzolava dappertutto sebbene ormai fosse autunno, e da ogni singolo pezzo di legno non verniciato faceva capolino un garbuglio di fili elettrici scoperti. Quando ci entrava, Lucy aveva paura di muoversi per timore di sfregare contro qualcosa che le avrebbe fatto provare ancora più nausea e disperazione di quella che già provava al solo vedere il posto dove Kitty doveva mangiare, dormire e fare i compiti. E quando Kitty disse che nel pomeriggio sua madre faceva un sonnellino, Lucy ebbe paura di chiederle perché, sapendo che dietro una simile bugia poteva celarsi solo una qualche orribile verità che preferiva non scoprire; voleva solo uscire all’aria aperta, e così, pensando che la porta a lei più vicina desse sul cortile, la spinse. In una stanza minuscola, addormentata su un letto matrimoniale, era distesa una donna pallida in una lunga sottoveste grigia di cotone, che portava al piede sinistro – a letto! – una scarpa ortopedica. Poi le fu presentato Francis jr, che le mostrò subito il punto dietro l’orecchio dove sembrava che l’avessero picchiato con un bastone. E Joseph, di otto anni, che Kitty dovette far rientrare in casa per cambiargli la salopette, perché – «come al solito», disse Kitty – era tutta inzuppata.

E il piccolo Bing – chiamato così in onore del cantante – che si trascinava dietro per tutto il cortile la coperta con cui dormiva, chiamando fra le lacrime qualcuno di nome Fay che, disse Kitty, nemmeno esisteva. E poi comparve Mr Egan, che a Lucy sarebbe anche piaciuto per la sua andatura pesante e virile e i suoi luminosi occhi verdi, se in precedenza Kitty non le avesse indicato una cosa appesa a un chiodo sul fondo di un capannone che, le bisbigliò, era un gatto a nove code. Nel complesso, era la famiglia più disgraziata e infelice che Lucy avesse mai visto, sentito o immaginato; se possibile, era ancora peggio della sua. Lei e Kitty cominciarono a vedersi regolarmente dopo la scuola.

Mentre la aspettava nel giardino pubblico di fronte alla St Mary, Lucy guardava i ragazzini cattolici che uscivano di corsa dalle porte laterali e immaginava che tornassero tutti a case come quella di Kitty Egan, sebbene ad esempio i vecchi Snyder, che erano cattolici e abitavano a tre isolati da loro in Franklin Street, avessero una casa quasi uguale a quella di papà Will. Lucy raccontò a Kitty il suo segreto. Stavano camminando verso l’estremità meridionale di Water Street, e da una distanza di sicurezza indicò l’ingresso dell’Earl’s Dugout of Buddies. Kitty sussurrò: – Adesso è li? - No. E’ al lavoro. O almeno dovrebbe. Ci va di sera. - Proprio tutte le sere? Quasi. - Ci sono donne? - No. Whiskey. - Sicura che non ci siano donne? - Be’, no, – disse Lucy. – Oh, è tremendo. E’ orribile. Lo odio quel posto! Non ci volle molto prima che Kitty raccontasse a Lucy di santa Teresa di Lisieux, il Piccolo Fiore – santa Teresa che una volta aveva detto: «Spetta a noi consolare Nostro Signore, non a Lui consolare noi…» Kitty aveva un libricino con la copertina blu chiamato Storia di un’anima, in cui la stessa santa Teresa aveva scritto tutte le cose meravigliose che aveva pensato e detto.

Anche se cominciava a far freddo e nel tardo pomeriggio già imbruniva, le due ragazze sedevano su una panchina nel giardinetto di fronte alla St Mary, strette una contro l’altra nei loro soprabiti, mentre Kitty leggeva a Lucy dei passi che, diceva, le avrebbero cambiato la vita, garantendole il paradiso per l’eternità. Al principio Lucy aveva l’impressione di non capirci niente. Ascoltava con attenzione, a volte a occhi chiusi per concentrarsi meglio, ma presto cominciò a pensare che, non essendo cattolica, era destino che non afferrasse quello che Kitty trovava tanto interessante. Lei era luterana da un lato e presbiteriana dall’altro, ed era stata quest’ultima la sua chiesa, all’epoca in cui la madre riusciva ancora a convincerla ad andarci. A poco a poco cadde preda di una sorta di malinconia per la propria ottusità spirituale, finché un giorno, disprezzando tanto se stessa quanto il suo esile retroterra protestante, diede un’occhiata oltre la spalla di Kitty a una pagina di quel libro misterioso, e scopri che non era affatto difficile da capire. Era solo che, nel leggere ad alta voce, Kitty – che a un tratto le parve disperatamente, disgustosamente, ignorante – scambiava «un» con «il», «lui» con «lei» e «quanto» con «quando», e saltava in blocco le parole che non riusciva a pronunciare, oppure le sostituiva con altre. Però Kitty amava santa Teresa come Lucy non aveva mai amato nulla, almeno che ricordasse; e così, a poco a poco, quando cominciò a cogliere il senso di quel che diceva santa Teresa, e vide più e più volte come Kitty gioiva nel pronunciare ad alta voce quelle parole, quasi tutte scritte da santa Teresa in persona, cominciò a chiedersi se forse non avrebbe dovuto perdonare Kitty Egan per le sue difficoltà di lettura e cercare di amare anche lei santa Teresa. Fu Kitty a farle conoscere padre Damrosch. Dopodiché Lucy cominciò ad andare da lui dopo la scuola due volte alla settimana per un’ora di direzione spirituale, e a trascorrere altre ore in chiesa, accendendo infinite candele a santa Teresa, sulla cui vita lei e Kitty avrebbero modellato la propria. Al suo primo ritiro ebbe in regalo un velo nero da suor Angelica della Passione, una donnina scura con la pelle lucida, occhiali con montatura a giorno e peli sotto il naso che somigliavano così tanto a baffi maschili che Lucy non ne fece cenno per paura di offendere Kitty, che adorava suor Angelica e di quei lunghi peli neri sembrava non accorgersi nemmeno. Kitty aveva raccontato di Lucy a suor Angelica in una lettera, perciò la suora sapeva tutto del padre di Lucy, e su richiesta di Kitty aveva già pregato per lui. Suor Angelica stava pregando anche per Babs in West Virginia. Eppure era invano che tutti quanti aspettavano notizie dalla peccatrice scomparsa. Era come se, da quel ristorante ad Aurora, Illinois, fosse precipitata direttamente nell’Inferno. Kitty e Lucy si leggevano a vicenda i loro passi preferiti di santa Teresa, che aveva lasciato questo mondo caduto a ventiquattro anni: una morte raccapricciante, di stanchezza, freddo, tosse e sangue. – «…per diventare una santa bisognava soffrir molto, – leggeva Kitty, – cercar sempre il più meglio, e dimenticarsi il se stessi…» Entrambe abbracciarono quella che suor Angelica chiamava «la piccola via dell’infanzia spirituale di santa Teresa». L’unica preoccupazione di Teresa, disse suor Angelica a Lucy, era che nessuno fosse mai dispiaciuto o anche solo infastidito da quel che lei stava patendo; «ogni giorno cercava nuove occasioni per umiliarsi, – suor Angelica leggeva queste cose a Lucy da un libro, perciò non era roba che si stesse inventando, – ad esempio, lasciandosi rimproverare ingiustamente.

Si costringeva ad apparir serena, e sempre compita, a non lasciarsi mai sfuggire una lagnanza, a esercitare la carità in segreto, e a fare dell’abnegazione la propria regola di vita». Il medico che si era occupato di Teresa durante la sua malattia terminale aveva dichiarato: «Non ho mai visto nessuno soffrire così intensamente con una tale espressione di gioia sovrannaturale». E le sue ultime parole, al termine di una lenta agonia, erano state: «Mio Dio, Ti amo». Così Lucy si dedicò a una vita di sottomissione, umiltà, silenzio e sofferenza; fino alla notte in cui suo padre tirò giù l’avvolgibile e rovesciò la bacinella d’acqua in cui sua madre teneva a mollo i suoi bei piedi delicati. E lei, dopo aver chiamato in soccorso santa Teresa di Lisieux e Nostro Signore – e non aver avuto risposta -, chiamò la polizia. Padre Damrosch decise di non cercarla quando quella domenica non si presentò nemmeno a una messa (lei che di solito partecipava ad almeno due), e neanche quando la settimana dopo non si fece vedere per la sua ora di direzione spirituale. Si adoperò invece perché un giorno Kitty potesse uscire in anticipo da scuola in modo da andare a prendere Lucy, visto che alla scuola di lei il pomeriggio le lezioni finivano mezz’ora prima che alla St Mary. Kitty le disse che padre Damrosch sapeva della notte passata in prigione da suo padre. Disse che quello non era che un ulteriore motivo per accelerare la conversione. Era sicura che, se Lucy glielo avesse chiesto, padre Damrosch avrebbe accettato di incontrarla per un’ora in più alla settimana, in modo che nel giro di un mese potesse fare la prima comunione. – Gesù ti perdonerà, Lucy, – disse, al che Lucy si arrabbiò e ribatté che le sembrava di non aver niente da farsi perdonare. Kitty la supplicò e la supplicò, e alla fine, quando Lucy le disse: «Piantala di ossessionarmi! Tu non sai niente!», scoppiò a piangere e disse che avrebbe scritto a suor Angelica di pregare perché Lucy abbracciasse gli insegnamenti della Chiesa prima che fosse troppo tardi. Per un po’ Lucy temette di imbattersi in padre Damrosch giù in centro. Era un uomo tarchiato e robusto, con una zazzera di capelli neri, a cui non spiaceva tirare due calci al pallone insieme ai ragazzi cattolici all’uscita da scuola. La sua voce e il suo aspetto mandavano in visibilio ragazze che erano sempre state protestanti. Lui e Lucy avevano fatto alcune discussioni serie, nel corso delle quali lei aveva cercato con tutte le sue forze di credere alle cose che lui diceva.

«Questa vita non è la nostra vera vita», e lei aveva cercato con tutte le sue forze di credergli… Come aveva fatto padre Damrosch a scoprire così in fretta quel che era successo? Come facevano tutti a saperlo? A scuola, ragazzini che lei riconosceva a stento la salutavano come avessero detto loro che aveva una brutta malattia e che dovevano essere carini con lei nelle poche settimane che le restavano. E all’uscita dalla scuola un gruppo di giovinastri che si radunava a fumare dietro il tabellone per le affissioni le urlava dietro: «Ehi, Gang Busters4», e poi qualcuno imitava gli spari di un mitra. Dopo una settimana di quella solfa, un pomeriggio lei raccolse una pietra, si voltò all’improvviso e la scagliò così forte che lasciò una tacca scura nel punto dove aveva colpito il tabellone. Ma i ragazzi continuarono a sbeffeggiarla dal terreno in abbandono dove si erano rifugiati. A casa continuò a insistere per mangiare da sola in cucina, e non con lui, che il nonno era andato a tirar fuori dalla prigione già la mattina dopo. Se il telefono accanto al tavolo suonava mentre lei sedeva a guardare in cagnesco il suo cibo, pregava che si trattasse di padre Damrosch. Cosa avrebbe fatto la nonna quando il prete si fosse presentato? Ma non era mai lui. Pensò anche di andarlo a trovare – non per chiedergli aiuto o consiglio, ma perché aveva riconosciuto uno dei ragazzi che l’avevano chiamata «Gang Busters», dato che lo vedeva tutte le domeniche insieme ai suoi alla messa delle nove. E comunque avrebbe subito messo in chiaro con padre Damrosch che lei non aveva niente da farsi perdonare e niente da confessare. Chi era Kitty Egan, per dare anche solo a intendere una cosa simile? Una ragazza brutta e tarda, figlia di analfabeti, i cui vestiti puzzavano di patate fritte, che non sapeva leggere una frase da un libro senza ingarbugliare tutto! Chi era lei per dire a Lucy una qualunque cosa? E quanto a santa Teresa, il Piccolo Fiore, la verità era che Lucy non la poteva sopportare, lei e i suoi patimenti.

Radunò il velo nero, il rosario, il catechismo, la sua copia di Storia di un’anima e tutti gli opuscoli presi al ritiro spirituale nel vestibolo della St Mary, e li ficcò in un sacchetto di carta marrone. Se non si limitò a buttarli nel cestino fu solo perché la nonna li avrebbe visti, e avrebbe pensato che Lucy avesse smesso di andare in chiesa a causa delle obiezioni di lei a quelle «fumisterie cattoliche». E non voleva darle quella soddisfazione. Ciò che lei decideva di fare riguardo alla religione, o a qualunque altro aspetto della sua vita privata, non riguardava nessun altro, men che meno quell’impicciona. Quella sera portò con sé al lavoro il sacchetto di carta, con l’intenzione di gettarlo in un bidone della spazzatura lungo la via, o di scagliarlo in un terreno in abbandono. Ma un rosario? un velo? un crocifisso? E se il sacchetto fosse stato trovato e portato a padre Damrosch? Che cosa avrebbe pensato? Forse l’unica ragione per cui fino ad allora lui aveva evitato di chiamarla era che gli sembrava inopportuno interferire con una famiglia già così ostile alla conversione; o forse riteneva inopportuno immischiarsi in una questione privata senza che prima venisse richiesta la sua assistenza; o forse aveva sempre intuito che Lucy credeva solo a metà alle cose che lui le raccontava, e che sarebbe restata insensibile a qualunque altra cosa le avesse detto; o forse fin dal principio non aveva provato grande interesse per lei, l’aveva considerata una ragazzina fra tante, e se fosse tornata da lui avrebbe ricominciato a ficcarle in testa la solita solfa del catechismo, così da ficcare lei dentro un confessionale, dove, al pari di quella stupida di Kitty Egan, avrebbe chiesto perdono per peccati che in realtà non erano suoi e detto preghiere per persone a cui non sarebbero servite a nulla.

Lui avrebbe cercato di insegnarle ad amare la sofferenza. Ma lei odiava soffrire, così come odiava coloro che la facevano soffrire, e li avrebbe sempre odiati. Dopo il lavoro si affrettò lungo Broadway, diretta al fiume. Alla St Mary entrò senza genuflettersi, posò il sacchetto sull’ultima panca e corse via. Fuori, c’era un’unica luce accesa nella canonica… Era padre Damrosch che la guardava da dietro una delle finestre buie? Gli concesse un istante per invitarla a entrare. Per dirle cosa? Che questa vita è un preludio a quella nell’aldilà? Non ci credeva. Non esiste una vita nell’aldilà. Esiste solo questa, padre Damrosch. Questa! Adesso! E non me la rovineranno! Non glielo permetterò! Sono superiore a loro da ogni possibile punto di vista! Mi insultino pure quanto gli pare… Non m’importa! Non ho niente da confessare, perché io ho ragione e loro hanno torto e io non soccomberò!

Due settimane dopo, una sera padre Damrosch entrò al Dale’s Dairy Bar per un gelato vaniglia e cioccolato. Dale sbucò subito fuori dal retro per dargli il benvenuto, e per servirlo di persona, continuando a ripetere che era davvero un grande onore. Rifiutò di accettare i suoi soldi, ma il prete insistette, quando se ne andò, una delle cameriere disse a Lucy: – E’ davvero uno schianto -. Ma Lucy continuò a riempire con cura le zuccheriere facendo finta di niente. Il semestre successivo Lucy si iscrisse al corso di musica, dove fu persuasa dall’insegnante, Mr Valerio, a interessarsi al tamburo rullante; così per l’anno e mezzo successivo il problema di cosa fare dopo la scuola fu risolto dalla banda musicale. O facevano le prove all’auditorium, o al campo da gioco, oppure il sabato suonavano alla partita di football. C’erano sempre ragazzini che andavano e venivano dalla sala prove, o che spintonavano da dietro per salire sul pullman, o che per scaldarsi si ammassavano, spallina contro spallina, nell’area dello stadio riservata alla banda, mentre la partita che Lucy odiava si trascinava interminabilmente. Di conseguenza, di rado si trovava da sola in giro per la scuola così da essere additata come la ragazzina che aveva fatto questa o quella cosa terribile. A volte, mentre col suo tamburo si affrettava a uscire dal seminterrato della scuola, vedeva Arthur Mufflin che sgattaiolava per i campi da basket, o se ne stava appollaiato a fumare sulla sua motocicletta. Era stato buttato fuori dalla scuola superiore di Winnisaw anni prima, ed era una sorta di eroe per i ragazzi che la chiamavano «Gang Busters» e «J. Edgar Hoover». Ma se anche aveva qualche insolenza da dirle, lei non intendeva starlo a sentire. Cominciava subito a provare il ritmo di marcia e continuava fino al campo, battendo così forte che non si accorgeva nemmeno se lui le gridava dietro qualcosa oppure no. Ma poi, del tutto inaspettatamente, al principio dell’ultimo anno chiuse con la banda. Aveva saltato le prove due volte in due settimane per andare al Grove con Ellie Sowerby; a Mr Valerio aveva spiegato (la sua prima bugia da anni) che la nonna era malata e aveva bisogno di lei – e lui se l’era bevuta. Perciò non c’era alcuna tensione fra loro; lei era ancora la sua «ragazza da sogno». Né Lucy aveva smesso di emozionarsi quando marciavano su per il campo all’inizio del pomeriggio, con lei che guidava la sua fila, «Sinistra… sinistra… sinistra, destra, sinistra», battendo quel ritmo smorzato finché raggiungevano la striscia di metà campo e attaccavano con l’inno nazionale. Era il momento che aspettava per tutta la settimana, ma non per una cosa ridicola come lo spirito di corpo della scuola – o addirittura l’amor di patria, che probabilmente provava, ma non più di qualunque altra persona. Non era tanto la bandiera che schioccava al vento a farle venire la pelle d’oca, quanto lo spettacolo di quando tutti si alzavano mentre la banda marciava attraverso il campo. Vedeva con la coda dell’occhio le braccia che si sollevavano per levare i cappelli, e sentiva il tamburo che urtava piano contro la ginocchiera, e percepiva il calore del sole sui capelli che sbucavano da sotto il copricapo nero e argento con il pennacchio giallo e, oh, era veramente fantastico – fino a quel terzo sabato di settembre quando sulla striscia di metà campo si voltarono a fronteggiare le gradinate (dove tutti erano in piedi in silenzio e fronteggiavano loro) e lei strinse la presa sulle bacchette lisce, e Mr Valerio salì sulla sedia pieghevole che era stata portata in campo per lui e li guardò da lassù – «Banda, – bisbigliò con un sorriso, – buon pomeriggio» – e poi, nell’istante prima che lui alzasse la sua bacchetta, lei si rese conto (senza alcuna ragione particolare) che, nell’intera banda da parata della scuola superiore unificata di Liberty Center, c’erano solo quattro ragazze: Eva Petersen, che suonava il clarinetto ed era strabica; la suonatrice delle campane tubolari, Marilynne Elliott, il cui fratello era un grande eroe, mentre lei invece balbettava; e la nuova suonatrice di corno di cui Mr Valerio andava tanto fiero, la povera Leola Krapp, che non solo portava quel nome, ma aveva solo quattordici anni e già pesava novanta chili – «da nuda», precisavano i ragazzi. E poi Lucy. Il lunedì disse a Mr Valerio che, lavorando la sera al Dale’s Dairy Bar e avendo le prove della banda nel pomeriggio, non le restava abbastanza tempo per studiare. – Ma finiamo alle quattro e mezza. – In ogni caso, – disse lei, distogliendo lo sguardo. – Ma l’anno scorso ce la facevi, Lucy. E hai avuto un’ottima pagella. – Lo so. Mi spiace tanto, Mr Valerio. – Be’, Lucy, – disse lui, - tu e Bobby Witty siete i miei punti di forza. Non so cosa dire. Le partite importanti cominciano adesso. – Lo so, Mr Valerio, ma penso di doverlo fare. Penso che per me sia meglio. E poi si avvicina il college, lo sa. Perciò devo darci dentro sul serio, fare uno sforzo in più… per la borsa di studio. E ho bisogno dei soldi del Dairy Bar. Se potessi mollare quello, allora certo potrei continuare qui… ma non posso. Bene, – disse lui, abbassando le palpebre sugli occhioni neri, – non so cosa capiterà con il ritmo nella sezione percussioni. Non voglio pensarci. – Penso che Bobby sia in grado di guidarli, Mr Valerio, disse lei, con voce fievole. – Certo, – fece lui con un sospiro, – non sono Fritz Reiner. Immagino sia questo che si intende per banda della scuola superiore. – Mi spiace tanto, Mr Valerio. – E’ solo che non mi capita spesso una persona, ragazzo o ragazza, che prenda così sul serio il tamburo rullante. Quasi tutti, scusami il linguaggio, ci picchiano sopra come dei dannati. Tu invece ascolti. Sei stata la mia ragazza da sogno, Lucy. – Grazie, Mr Valerio. Ne sono lusingata. Significa molto per me. Dico davvero -. Poi posò sulla scrivania la scatola in cui aveva riposto la sua uniforme. Tenne ancora in mano il cappello argenteo con la visiera nera e il pennacchio dorato. – Mi spiace tanto, Mr Valerio Posò sulla scrivania anche il cappello. - I miei tamburi – disse, sentendosi sempre più fiacca, – sono in sala prove. Mr Valerio sfiorò con un dito il pennacchio del cappello. Oh, era un uomo così piacevole.

Era scapolo, zoppicava un po’, ed era venuto fin da loro da una scuola di musica di Indianapolis, Indiana, e la banda era tutta la sua vita.

Era così paziente, così dedito al suo lavoro; o era sorridente o era triste, ma non si arrabbiava mai, non era mai sgarbato, e ora lei lo stava lasciando nelle peste, e per ragioni egoistiche, stupide, meschine. – Be’, arrivederci, Mr Valerio. Passerò a salutare, e a vedere come vanno le cose, non si preoccupi. A un tratto lui fece un respiro molto profondo e si alzò in piedi. Sembrava essersi ripreso. Le strinse una mano fra le sue e la scosse, cercando di mostrarsi felice. – Bene, è stato bello averti con noi, Ragazza da Sogno. Presero a scorrerle le lacrime lungo le guance; avrebbe voluto baciarlo. Perché gli stava facendo questo? La banda era la sua seconda casa. La sua prima casa. Comunque, – stava dicendo Mr Valerio, – sopravvivremo, presumo -. Le diede una pacca sulla spalla. – Stammi bene, Lucy. - Oh, anche lei, Mr Valerio! Una bambina con le trecce era seduta sul dondolo nel portico quando Lucy salì di corsa i gradini di casa. – Ciao! – disse la piccola.

La persona già al pianoforte, chiunque fosse, si interruppe nel mezzo di un accordo quando lei sbatté la porta e prese a salire le scale due gradini alla volta. Mentre girava la chiave nella porta della sua camera, sentì di sotto il piano che ricominciava a suonare. Spostò subito la sedia dalla scrivania, ci salì sopra e si guardò le gambe nello specchio del cassettone. Erano praticamente informi; era troppo bassa e troppo magra. Ma cosa ci poteva fare? Ormai da due anni era un metro e cinquantasei e, quanto al peso, non le piaceva mangiare, perlomeno non a casa. Inoltre, se fosse ingrassata le gambe sarebbero semplicemente diventate più tonde, come salsicce; – era così che succedeva alle ragazze basse. Scese dalla sedia. Si avvicinò allo specchio e si guardò bene. La sua faccia era squadrata, noiosa. La parola «camuso» era stata inventata per definire il suo naso. Eva Petersen aveva cercato di affibbiarglielo come soprannome, ma Lucy le aveva detto di piantarla, cosa che aveva fatto all’istante, visto che lei era strabica. Un naso camuso non era male, in effetti, non fosse stato che, nel punto in cui girava all’insù, il suo era troppo largo. E anche la mascella, almeno per una ragazza. I capelli erano di un colore bianco–giallastro, e si rendeva conto che la frangia non le donava con quei suoi tratti squadrati, ma se invece si tirava su i capelli (come stava facendo adesso) la sua fronte era troppo ossuta. Be’, almeno aveva dei begli occhi – o meglio, sarebbero stati belli se fossero appartenuti a un’altra persona, ma era quello il guaio: appartenevano a un’altra persona. A volte in sala prove si guardava allo specchio e restava sgomenta da quanto, col cappello in testa, somigliava al padre soprattutto quelle due tonde pozze azzurre sotto l’alta fronte pallida.

Aveva le lentiggini, ma niente brufoli – l’unica sua fortuna, dal punto di vista fisico. Fece un passo indietro per vedersi di nuovo tutt’intera. Portava sempre quella gonna scozzese con la grossa spilla da balia sul davanti, e quel maglione grigio con le maniche rimboccate, e quei mocassini decrepiti. Aveva tre altre gonne, ma erano ancora più vecchie. E lei non dava importanza ai vestiti. Perché avrebbe dovuto?

Oh, perché aveva mollato la banda? Si strinse da dietro la camicetta in modo da tenderla sul davanti. I seni avevano cominciato a crescerle quando aveva undici anni; poi, con suo sollievo, un anno dopo avevano smesso. Ma non era ora che ricominciassero? Conosceva un esercizio che in teoria avrebbe dovuto ingrandirli. L’insegnante di educazione sanitaria, Miss Fichter, gliel’aveva fatto vedere in classe. L’aveva preso da «American Posture Monthly», una rivista con in copertina l’immagine di due sorridenti gemellini in mutande bianche che stavano dritti a testa in giù. Non c’era niente da ridere, a modo di vedere di Miss Fichter, e questo valeva anche per l’esercizio, il cui scopo era tutelare la salute e l’avvenenza. Se solo avessero preso da giovani l’abitudine di esercitare i muscoli, sarebbero sempre state fiere di loro stesse, dal punto di vista fisico. Troppe adolescenti in questa scuola ciondolano, diceva Miss Fichter, e lo diceva come se in realtà intendesse mentono o rubano. L’esercizio si faceva con le mani tese davanti al torace: prima si spingeva il pugno destro nel palmo sinistro, poi il pugno sinistro nel palmo destro. Lo si faceva venticinque volte, ogni volta, come faceva Miss Fichter, scandendo ritmicamente: «E giusto, è giusto, è giusto che io rispetti il mio busto». Di fronte allo specchio, con la porta chiusa a chiave, e senza scandire quelle parole, Lucy fece un tentativo. Quanto ci sarebbe voluto prima che se ne vedessero gli effetti? – Da dum, – disse, – da dum… a–dum, àa–dum, àa–dum. Oh, quanto le sarebbe mancata la banda! Quanto le sarebbe mancato Mr Valerio! Ma semplicemente non ce la faceva più a marciare insieme a quelle ragazze… erano dei mostri. Lei invece no! E a nessuno sarebbe passato per la mente di dire che era un mostro anche lei! D’ora in poi si sarebbe accompagnata solo con Eleanor Sowerby. Nella camera di Ellie c’erano un letto con un baldacchino d’organza bianca e una toeletta con lo specchio, su cui loro avrebbero fatto i compiti nei pomeriggi di pioggia; col bel tempo invece si sarebbero sedute in giardino dietro casa, leggendo insieme al sole, oppure avrebbero passeggiato sfaccendate per il Grove, guardando i giardinetti e chiacchierando. Se al momento di tornare a casa fosse stato già buio, molto probabilmente i Sowerby l’avrebbero invitata a restare a cena. La domenica le avrebbero chiesto di andare con loro in chiesa, e poi di fermarsi a mangiare qualcosa. Mrs Sowerby era così suadente e premurosa che aveva cominciato a chiamarla «cara» fin dalla prima volta che erano state presentate, al che Lucy aveva reagito, da idiota, praticamente con una riverenza. E alle cinque del pomeriggio, facendo un gran trambusto, era arrivato Mr Sowerby: – Pappy Yokum è a casa! – aveva sbraitato, e poi aveva dato alla moglie un bel bacio con lo schiocco dritto in bocca, anche se era una donna grassottella con i capelli grigi che, diceva Ellie, doveva portare le calze di gomma per le vene varicose. Era Ellie che per scherzo lo chiamava sempre Pappy Yokum, mentre lui la chiamava Daisy Mae e, per quanto la cosa le paresse sciocca, nondimeno Lucy si era sentita in gran soggezione al cospetto di quella che finalmente sembrava una famiglia felice. Così mollò la banda. Ed Ellie scaricò lei.

«Oh, ciao», diceva Ellie quando la incrociava nei corridoi, e tirava dritto. Per una settimana Lucy si disse che Ellie aspettava solo che lei ricambiasse l’invito. Ma come faceva a invitarla se non aveva nemmeno modo di parlarle? E anche se ci fosse riuscita, lo voleva davvero? Un giorno, dopo due intere settimane in cui era stata ignorata, vide Ellie seduta in refettorio insieme ad alcune delle ragazze più superficiali e sciocche di tutta la scuola, e così pensò, be’, se è quello il tipo di ragazze che lei preferisce, eccetera, eccetera. Poi, a fine febbraio, trovò il bigliettino infilato nell’armadietto attraverso la presa d’aria. Ciao, Sconosciuta! Sono stata accettata alla Northwestern (grande cosa) perciò ora non sono più sotto pressione, posso rilassarmi.

Vediamoci all’asta della bandiera alle tre e mezza (per favore per favore). La tua compagna di sofferenze dell’ultimo anno, Ellie SULC, diplomata del ‘49 Northwestern ‘53 (!) Ormai però Lucy era molto meno impressionabile. Ripensando a settembre, alla pura idiozia di aver mollato la banda per essere amica di Ellie Sowerby, ebbene, era come se all’epoca avesse avuto dieci anni. Era andata contro tutti i suoi princìpi. Era stato un gesto debole, stupido e infantile e, per quanto nel frattempo avesse disprezzato Ellie, e parecchio, aveva disprezzato più ancora se stessa. Innanzitutto a lei non importava un fico secco se uno abitava o meno al Grove, – questa era la verità. Niente la mandava più in bestia di quando la domenica faceva un giro in macchina con i suoi genitori (al tempo in cui era ancora piccola ed era costretta ad andare dove volevano loro) e sua madre indicava la casa su al Grove che una volta il padre era stato in procinto di comprare. Come se quel che contava fosse dove vivevi o quanti soldi avevi, e non che tipo di essere umano eri. I Sowerby avevano una domestica a tempo pieno, e una casa da 30000 dollari, e abbastanza soldi da mantenere per quattro anni la figlia in un’università come la Northwestern, ma restava il fatto che Lucy Nelson era una persona molto più degna di quanto lo sarebbe mai stata la loro figliola. Per Ellie la cosa più importante nella vita erano i vestiti. A parte al negozio di Marshall a Winnisaw, Lucy non aveva mai visto così tante gonne in un unico posto quante quelle che aveva Ellie appese nel suo armadio a tutta parete con le porte scorrevoli. Alcuni pomeriggi, quando pioveva e loro studiavano insieme in camera di Ellie (esattamente come Lucy aveva immaginato che avrebbero fatto), lei alzando gli occhi trovava la porta dell’armadio socchiusa; spesso trascorrevano interi minuti prima che tornasse ad abbassare lo sguardo sul libro per rintracciare il punto dove era arrivata. Quando il tempo divenne più mite e alle tre faceva troppo caldo per la giacca che Lucy aveva indossato la mattina a scuola, Ellie le diceva di prendersi un qualunque vecchio maglione dal cassetto del comò e mettersi quello per il resto del pomeriggio. Solo che lì dentro di maglioni vecchi non ce n’erano. Un pomeriggio il maglione che si era messa risultò essere di puro cashmere. Lei non se ne rese conto finché, fuori in giardino, non diede una rapida occhiata all’etichetta e restò senza fiato per quel che aveva fatto. A quel punto però Ellie la stava già chiamando perché la aiutasse a piazzare i wicket per il croquet, e ormai Mrs Sowerby l’aveva vista attraversare il soggiorno. E ormai lei aveva visto lo sguardo di disapprovazione sul viso di Mrs Sowerby quando aveva adocchiato la floscia gonna scozzese che scendeva le scale sormontata dalla maglia giallo limone di Ellie. – Buona partita, – aveva detto, ma, si era resa conto Lucy troppo tardi, non era affatto quel che stava pensando. Però tornare di sopra a sostituire il cashmere con del cotone, o anche della lana d’agnello, avrebbe significato ammettere di averlo fatto apposta, mentre lei l’aveva preso in tutta innocenza. Nel tirarlo su dal cassetto stracolmo non aveva pensato cashmere, aveva solo pensato com’è soffice.

Non era stato per cupidigia, e non voleva alimentare tale sospetto ripassando con la coda fra le gambe davanti a Mrs Sowerby. Non avrebbe più permesso a nessuno di farla sentire inferiore, né a Ellie, né a nessun altro membro della sua famiglia… e fu questa la ragione che si diede per tenere addosso la soffice maglia giallo limone fino all’ultimo minuto, quando si infilò di nuovo la pesante giacca invernale e tornò a casa. Poco tempo dopo, Ellie le accorciò la frangia. Lucy continuava a dire: «Non troppo. Davvero. La mia fronte, Ellie». - Che differenza! - disse Ellie quando osservarono il risultato nello specchio del bagno. - Adesso ti vedo. - Hai accorciato troppo. - No. Guarda che occhi. - Cos’hanno che non va? - Sono bellissimi. Sono di un colore bellissimo, se solo li riesci a lisciare. - Sì? - Ehi, perché non ti tiri su i capelli? Vediamo come ti stanno. - Ho la testa troppo squadrata. - Vediamo solo, Lucy. - Non tagliare più. - Ma no, scema. Voglio solo vedere.

Poi Ellie volle anche vedere come le sarebbe stata la gonna scozzese se avessero abbassato l’orlo di sette o otto centimetri, secondo la «Nuova Moda». A Lucy pareva così sciocco lasciarsi fare quelle cose, così incredibile il fatto stesso di lasciarsele fare. Non aveva alcun rispetto per Ellie, perché allora le permetteva di trattarla come il suo fantoccio? E non aveva rispetto nemmeno per i genitori di Ellie. Cos’era Mrs Sowerby, se non una snob? E quanto a Mr Sowerby… be’, non si era ancora fatta un’idea di lui. A papà Will piaceva fare qualche battuta trita e ritrita, e quando lei era piccola suo padre pensava di essere divertente quando la chiamava «ochetta», ma Mr Sowerby faceva battute quasi sempre, ed era sguaiato quasi sempre. Ogni volta che c’era lui giù in soggiorno, Lucy indugiava nel corridoio mentre andava dalla camera di Ellie al bagno. «Beccati questa, – gridava Mr Sowerby alla moglie in cucina. – Beccati questa!» E poi leggeva a squarciagola dal giornale l’ultima trovata di Harry Truman che lo aveva fatto imbestialire. Una volta la chiamò: – Irene, vieni qui, Irene, – e, quando lei entrò in soggiorno, le mise una mano sul fondoschiena e le disse (adesso con voce sommessa, ma Lucy, impietrita nel corridoio al piano di sopra, riuscì a sentirlo trattenendo il fiato): – Ti andrebbe oggi, bambolina? – Come poteva Lucy approvare il modo in cui lui parlava a Mrs Sowerby, il genere di linguaggio che usava? Di sicuro Mrs Sowerby non poteva approvarlo, lei che si dava tutte quelle arie. Aveva la netta sensazione che quei baci e abbracci fossero una cosa che semplicemente Mrs Sowerby era costretta a sopportare. Lucy quasi la compativa. D’altro canto, Mr Sowerby era il più illustre eroe di guerra di Liberty Center. Al suo ritorno in città il sindaco era addirittura andato alla stazione ad accoglierlo, alla testa di un corteo di automobili. Lucy faceva solo il primo anno quando lui aveva tenuto il suo discorso alla scuola superiore, però ricordava che le sue parole erano state una doccia fredda. per la gente del posto convinta che il peggio fosse passato. Il suo tema era stato «Come rendere il mondo un posto migliore in cui vivere» – ovvero, come lo avevano ribattezzato in seguito alcuni dei ragazzi, «Come diavolo rendere questo mondo schifoso un posto dannatamente migliore in cui vivere, maledizione!» Più che altro aveva parlato di come negli anni a venire si sarebbe dovuto vigilare contro quella che Mr Sowerby chiamava la minaccia del comunismo ateistico. Il giorno dopo sulla prima pagina del «Winnisaw Leader» era, uscito un editoriale che invitava il maggiore Sowerby a presentarsi alle elezioni del 1946 per il Congresso. Ellie diceva: che lui aveva deciso di no solo perché sua madre non riteneva giusto toglierla per l’ennesima volta dalla sua scuola, se; mai avessero dovuto trasferirsi a Washington. Infatti a causa della guerra aveva già dovuto frequentare le scuole in North Carolina e Georgia (ed era quello, disse Ellie, il motivo per cui a volte senza neanche accorgersene scivolava nell’accento del Sud). Ellie amava raccontare come il governatore avesse chiamato al telefono suo padre, e come suo padre avesse detto al governatore che non doveva pensare che lui mettesse la responsabilità verso la famiglia al di sopra della responsabilità verso la patria, e così via. La conversazione era diversa ogni volta che Ellie la riportava; una volta addirittura si svolgeva nella «magione» del governatore. Solo il tono in cui la storia veniva raccontata restava sempre uguale, e cioè sfacciatamente compiaciuto. Naturalmente Lucy apprezzava la generosità di Ellie con le proprie cose, e non si poteva certo dire che Ellie non avesse un buon carattere, però un suo tratto imperdonabile era la condiscendenza. Il giorno che si era messa ad armeggiare con la sua gonna, Lucy si era così infuriata che avrebbe voluto andarsene subito; e lo avrebbe fatto, non fosse stato che Ellie aveva già scucito l’orlo e stava già fermando con gli spilli quello nuovo, e lei era in camicetta e sottoveste, seduta alla toeletta di Ellie a guardare fra le tende il cugino di Ellie, il veterano dell’esercito, che stava trafficando con la sua Hudson. Roy. Non lo aveva mai chiamato così, né in alcun altro modo. E sembrava che lui nemmeno lo sapesse come si chiamava lei, e che non la collegasse alla ragazza che lavorava dietro il bancone al Dale’s Dairy Bar. Fra settembre, quando l’aveva intravisto la prima volta a casa di Eleanor, e febbraio, quando era tornata nelle grazie dell’amica, lo aveva osservato parecchie volte seduto al bancone del Dairy Bar; a volte lo aveva anche visto camminare per Broadway con il suo album da disegno. Durante i mesi senza banda e senza Ellie, quando ogni pomeriggio andava a rinchiudersi in biblioteca, c’era stato un periodo di qualche settimana in cui sembrava sempre che lui uscisse dalla biblioteca proprio nel momento in cui lei stava entrando. Era amichevole con Dale, e una volta lo aveva visto parlare in tono serio con Miss Bruckner, la bibliotecaria. Perciò non era la timidezza la ragione della sua solitudine; semplicemente pareva che preferisse starsene da solo – ed era una delle cose che le avevano fatto pensare che magari era una persona interessante. Sapeva anche chi era suo padre: Mr Bassart, quello che presentava gli oratori che tenevano i discorsi in aula magna, e che era noto come uno degli insegnanti più severi, ma anche più corretti, di tutta la scuola. E sapeva che era tornato di recente da due anni nell’esercito, oltremare.

Ellie lo prendeva sempre in giro. – Pensa di somigliare a Dick Haymes.

Secondo te è vero? - Non lo so. - Se non fosse mio cugino, magari lo troverei seducente. Però lo conosco, – aggiungeva in tono sinistro.

Poi, dalla finestra: – Roy, canta come Dick Haymes. Dài, Lucy non le ha mai sentite, le tue imitazioni. Facci Vaughn Monroe, Roy. In ogni caso somigli più a lui, adesso che sei così maturo. Canta Ballerina, Roy.

Canta There, the Said It Again. Oh, per favore, Roy, per favore, ti preghiamo in ginocchio. Lucy diventava tutta rossa, e Roy faceva un’espressione corrucciata, o diceva qualcosa tipo «Smettila di fare la bambina», oppure «Sul serio, Ellie, quand’è che ti decidi a crescere?» Roy stava per compiere ventun anni. Quel che stava facendo quando lo vedeva girovagare lentamente per Broadway, battendosi l’album da disegno contro la coscia, oppure la sera seduto al bancone del Dairy Bar a far girare i cubetti di ghiaccio sul fondo della sua Coca–Cola, o nei fine settimana che passava sprofondato nella poltrona a parlare con lo zio Julian, era cercare di decidere cosa fare della sua vita. Si trovava a un vero punto di svolta: era questa l’espressione che gli aveva sentito usare un sabato. E le era rimasta impressa. Che cosa sarebbe diventato?

Un artista? Un uomo d’affari? Oppure si sarebbe imbarcato, e avrebbe davvero provato con la Svezia? Oppure avrebbe fatto qualcosa di assolutamente bizzarro e imprevedibile? Una volta lo aveva sentito ricordare a suo zio che non solo aveva il solo sussidio per i reduci, ma in quanto reduce aveva anche diritto a un prestito per la casa. Se avesse voluto, avrebbe potuto davvero comprarsi un posto tutto per sé, e andarci a vivere. Lo zio Julian si fece una risata, ma Roy disse: Prendimi pure per i fondelli, ma è vero. Non ho bisogno di fare lo schiavo di nessuno, se non mi va. Dal letto dov’era seduta a fare l’orlo alla gonna di Lucy, Ellie disse: – Cosa stai guardando? Lucy lasciò ricadere la tenda.

- Non Roy, spero, – disse Ellie.

- Stavo solo guardando fuori, Ellie, – disse lei, fredda.

- Perché con quello è meglio lasciar perdere, – disse Ellie, spezzando il filo con i denti.

– Lo sai chi gli piace?

- Chi?

- Scimmia Littlefield. Con suo stupore, Lucy ebbe un tuffo al cuore.

- In questo periodo il principale interesse di Roy è il s–e–s-s–o. Be’, ha scelto la ragazza giusta, non c’è che dire. - Chi? - La Littlefield.

- … Esce con lei?

- Sta ancora decidendo se abbassarsi a tanto oppure no. O così dice. Mi ha chiesto: «E’ una bambina, o ha un po’ di cervello? Altrimenti non voglio perdere tempo». Io ho detto: «Non ti preoccupare, Roy. Non è una bambina». E allori lui: «Cosa vorresti dire?» E io: «Lo so perché ti piace, Roy». E lui è arrossito. Voglio dire, lo sanno tutti che reputazione ha. Ma Roy ha fatto finta di non saperlo. Con un’opportuna espressione del viso, Lucy fece finta di saperlo. Ellie continuò. – Io ho detto: «Non è la sua personalità a renderla tanto popolare, Roy». E lui: «Bene, è quello che volevo sapere, Ellie, se ha personalità oppure no». «Chiedilo a Bill Elliott se ha personalità, Roy, se non gliel’hai già chiesto». E lui: «Non sapevo nemmeno che uscisse con lui». «Non più, Roy. Persino lui non la rispetta più. Il resto lo lascio alla tua immaginazione», ho detto io, e lui lo sai cos’ha detto?

«Tornatene a giocare con le bambole, Ellie». Lui racconta a mio padre le sue grandi prodezze sessuali nell’esercito, e papà glielo permette, cosa che non dovrebbe fare. Hai presente quando scoppiano tutt’e due a ridere?

- No, mi pare di no.

- Be’, capita. E secondo te di cosa ridono?

- Sesso?

- Pensa solo a quello. Roy, intendo dire, - aggiunse Ellie. Entro aprile l’elastico delle calze militari di Roy aveva cominciato a sfilacciarsi. Ogni volta che le due ragazze gli scavalcavano le gambe – «Scusaci, cugino, ti spiace, permesso», diceva Eleanor. – Lucy vedeva, fra i pantaloni kaki sbiaditi e ormai troppo corti e le calze cadenti sulle caviglie, il polpaccio bianco e sottile.

All’inizio del mese, una settimana di meraviglioso caldo estivo dilagò per il Midwest, facendo fiorire da un giorno all’altro la forsizia nel giardino dei Sowerby; un pomeriggio, proprio mentre Lucy si avvicinava alla finestra della camera di Ellie per dare una rapida occhiata in giardino – ai nuovi fiori -, Roy si sfilò la maglietta dalla testa. Nel giro di qualche secondo lei si era di nuovo voltata verso Ellie, che stava frugando in un cassetto in cerca di un paio di calzoncini per Lucy, ma l’immagine di quel lungo torso levigato e cilindrico che si protendeva dal tettuccio aperto dell’automobile restò con lei per tutto il pomeriggio. Verso la fine del mese, quando comprò l’apparecchio e cominciò a procurarsi le riviste di fotografia, Roy andò da Eleanor e le disse che voleva fare alcuni studi in bianco e nero vicino al pontile.

Aveva bisogno di una ragazza che sedesse sotto l’albero che aveva scelto. Poteva andare bene anche Ellie. Ellie avvampò; aveva scintillanti capelli ramati, e occhi nocciola che a volte davano sul grigio gatto, e messa bene in posa non solo era una delle ragazze più attraenti che Lucy avesse mai visto, ma aveva anche un’aria intelligente e molto distinta. Poteva facilmente dimostrare diciannove o vent’anni, e lo sapeva. - Senti, Roy, – disse, scivolando nel suo accento meridionale, – perché non prendi Scimmia Littlefield? Mi sa che quella per te fa pure le foto sexy. Come Jane Russell, la tua attrice preferita.

- Senti, – disse lui, con la sua espressione corrucciata.

- Quella Littlefield non la conosco nemmeno. E di film! con Jane Russell in vita mia non ne ho visto nemmeno uno.

- Oh, ma certo.

Avevi solo il muro pieno delle sue foto in costume da bagno quand’eri soldato, però non hai mai visto un suo film. - Senti, Ellie, che ti credi di fare, Via col vento? Voglio solo scattare qualche foto. Perciò o accetti o rifiuti. Non ho tutto il giorno. Ellie disse che ci avrebbe pensato, poi andò su a mettersi il suo nuovo abito bianco di lino, parlando per tutto il tempo con Lucy delle lettere che la zia Alice aveva ricevuto quando Roy era militare. Roy parlava di s–e-s–s-o nelle lettere ai genitori! Andarono in macchina fino al fiume. E Lucy li accompagnò. Ecco come Roy aveva esteso l’invito anche a lei, quando Lucy aveva detto che avrebbe dovuto tornare a casa: «Puoi accompagnarci, se ti va. E gratis…», e nel mentre con un manometro che si era comprato controllava la pressione di uno pneumatico anteriore che gli pareva un po’ sgonfio. Roy mise in posa il suo soggetto (perché lei non era che questo, e lui sperava che avrebbe capito cosa ciò significava) accanto alla grande quercia vicino al vecchio molo. Ellie si ostinava a mettersi di profilo rivolta verso Winnisaw, mentre Roy voleva che guardasse in alto verso l’albero. Ogni pochi scatti andava da lei e strattonava uno dei rami in modo che le ombre cadessero nei punti giusti. Ellie disse che le sarebbe piaciuto sapere cosa intendeva per «punti giusti». – In senso tecnico, Eleanor. Te ne stai zitta? - Sai com’è, Roy, è difficile non fraintenderti quando parli di «punti giusti». Considerato quel che hai per la testa in questo periodo. - Vuoi guardare quei rami, per favore? L’idea, Ellie, è Lo Splendore della Primavera. Perciò guarda in alto, non verso di me. - La sera ti sento, Roy. - Mi senti cosa? - Ridere. E lo so di cosa ridi. - Ah, sì? E di cosa? – Indovina.

Al termine del pomeriggio, Ellie disse: – Perché non ne scatti qualcuna alla mia amica? Lui fece un sospiro profondo. – Va bene… Una -. Fece un giro su se stesso. – Dov’è scomparsa? Non ho tutto il giorno. Ellie indicò la riva del fiume, dove i pali neri si protendevano dall’acqua. Ehi, – la chiamò Roy, – la vuoi una foto? Io ora devo andare, perciò se la vuoi, sbrigati. Lucy alzò gli occhi. – No, – disse. - Dài, Lucy, – la chiamò Eleanor. – Gliene serve una con una bionda. Roy si diede una pacca sulla fronte. – E questo chi l’ha detto? – volle sapere.

- Le piaci, – bisbigliò Ellie. - E questo chi te l’ha raccontato, Eleanor? Chi ti ha raccontato una cosa simile? Lucy si mise sull’attenti sotto l’albero, guardando dritto verso l’obiettivo, e lui scattò.

Un’unica volta. Lei notò che non aveva controllato prima l’esposimetro.

Quando la foto fu sviluppata, gliela mostrò. Lucy si stava allontanando da casa Sowerby lungo il vialetto quando lui fece capolino dalla porta alle sue spalle. – Ehi. Non poté fare a meno di girarsi. Lui trotterellò lungo il vialetto con un’andatura a balzelloni e i piedi rivolti indentro. - Ecco, – disse lui. – La vuoi? Gliel’aveva appena presa di mano quando lui aggiunse: - Altrimenti la butto. Non è un granché.

Guardandolo in cagnesco, lei disse: – Con chi credi di parlare! – Gli scagliò la fotografia contro il petto e se ne andò via furiosa. Quella sera lui comparve al Dale’s Dairy Bar, dove lei lavorava il lunedì, martedì e mercoledì dalle sette alle dieci, e il venerdì e sabato dalle sette alle undici e mezza. Si sedette! dove sarebbe toccato a lei andare a prendere l’ordine: panino con formaggio, bacon e pomodoro. Quando gli mise il panino davanti, disse: – Ehi, riguardo a questo pomeriggio… diede un morso al panino, – mi spiace -. Lei tornò al suo lavoro. Quando finalmente Lucy venne a chiedergli se gradiva qualcos’altro, lui si scusò di nuovo, quanto più sinceramente poteva, e questa volta senza nel frattempo masticare. - Si paga alla cassa, – rispose lei, dandogli il conto. Ma era da mesi che lei lo osservava, ed era sempre così preso dai suoi pensieri che di solito lasciava i soldi sul bancone. – Non lo fai mai, – rispose brusca, e fece per andarsene,! rendendosi conto di aver detto la cosa sbagliata. E infatti lui la seguì lungo il bancone. Che sorriso. Da un orecchio all’altro. – Davvero? - Si paga alla cassa, per favore. - A che ora smonti? - Mai. - Senti, mi spiace tanto.

Volevo dire che la fotografia non era buona. Da un punto di vista tecnico. - Si paga alla cassa, per favore. - Senti, mi spiace tanto tanto, davvero. Senti… non dico bugie, – disse, visto che lei non rispondeva. – Non ne ho bisogno, – aggiunse, tirandosi su i pantaloni. All’ora della chiusura era parcheggiato fuori. Lei rifiutò il passaggio a casa. E non lo ringraziò per averglielo offerto., – Ehi, disse lui, guidando piano al suo fianco, – sto solo cercando di essere gentile -. Lei svoltò da Broadway per prendere una traversa, Franklin Street, e l’auto svoltò con lei. Dopo essere andati avanti a questo modo per un altro isolato, lui disse: – Senti, sul serio, cosa c’è di male a cercare di essere gentile? - Senti, tu, – disse lei, con il cuore che le batteva come se fosse appena accaduta una terribile catastrofe, senti, tu, – ripeté, – lasciami in pace! – E da quel momento, lui non riuscì a farlo. Le scattò centinaia di foto. Una volta trascorsero un intero pomeriggio a girare in macchina per la campagna in cerca del giusto fienile davanti a cui metterla in posa. Lui ne voleva uno con il tetto sfondato e l’aria tetra, mentre trovavano solo grandi fienili rossi appena ridipinti. Una volta la mise in posa davanti a un muro bianco di cemento vicino alla scuola superiore, nella luce piena di mezzogiorno, così che la sua frangia sembrava paglia bianca, e i suoi occhi azzurri gli occhi di una statua, e le ossa del viso serio e squadrato parevano pietra sotto la pelle. Intitolò la fotografia Angelo.

Cominciò un’intera serie di studi in bianco e nero della testa di Lucy, che chiamò Aspetti di un angelo. Al principio doveva dirle di smetterla di aggrottare la fronte, guardarlo male o dimenarsi, e smetterla di dire ogni due minuti «E’ ridicolo»; ma dopo un po’, quando il suo imbarazzo diminuì, non ci fu più bisogno di dirle niente. Quasi ogni giorno le assicurava che sul suo viso c’erano superfici fantastiche, e che lei era un soggetto di gran lunga migliore di una come Ellie, tutta fascino e niente sostanza. Diceva che le ragazze come Ellie erano dozzinali bastava guardare una rivista. Il suo viso, invece, aveva carattere. Ogni pomeriggio alle tre e mezza andava a prenderla a scuola, e partivano per una delle loro spedizioni fotografiche. E la sera lo trovava parcheggiato davanti al Dairy Bar, ad aspettare di accompagnarla a casa.

O almeno la accompagnò la prima settimana. Quando una sera le chiese se poteva entrare un momento, Lucy disse assolutamente di no. Con sollievo di lei, non glielo chiese più, una volta che Lucy ebbe acconsentito ad andare oltre il Grove, fino al promontorio boscoso che si affacciava sul fiume, e che veniva chiamato Paradiso dei Picnic dall’ente parchi della Winnisaw County e Paradiso della Passione dai ragazzi della scuola. Lì Roy spegneva i fari, accendeva la radio e cercava con ogni mezzo di convincerla ad andare fino in fondo. - Roy, adesso andiamo, davvero. Perché? - Voglio tornare a casa, per favore. - Io, cioè, ti amo, lo sai. - Non dirlo. Non è vero. - Angelo, – disse lui, toccandole il viso. - Smettila. Per poco non mi hai messo il dito nell’occhio. – You sigh, the song begins, – cantò lui con la radio, you speak and I hear violins, it’s maaaa–gia5. - Roy, non voglio fare niente. Perciò torniamo pure. - Non ti sto chiedendo di fare qualcosa.

Ti sto solo chiedendo di fidarti. Fidati di me, – disse, cercando un’altra volta di infilare le dita fra i bottoni del suo vestito da cameriera, - Roy, sta’ attento, che la strappi. - No, se non mi respingi. Fidati di me. - Non capisco cosa intendi. Dici così e poi, quando lo faccio, cerchi di andare oltre. Io non voglio, Roy. Ma lui le stava cantando all’orecchio. Without a golden wand, Or mystic charm, Fantastic things begin, When I am in your… arms6. - Oh, Lucy, – disse. - Lì no, – strillò lei, perché su arms le aveva ficcato un gomito fra le cosce, come per caso. - Oh, non respingermi, non respingermi, Lucy, – sussurrò lui, continuando a fare forza con il gomito, – fidati di me. - Oh, smettila! No! - Ma è sopra i vestiti… ed è solo un gomito! – Portami a casa!

Trascorsero tre settimane. Lei disse che, se ogni santa sera quella era l’unica cosa che gli interessava, era meglio che non si vedessero più. Lui disse che non era l’unica cosa che gli interessava.

Però lui era un uomo fatto, e non pensava che anche lei si sarebbe rivelata una bambina che non sapeva niente della vita. Non pensava che si sarebbe rivelata della stessa pasta di Ellie, una vergine professionista, una che se sapeva cosa significava. Non lo sapeva, e lui disse che la rispettava troppo per spiegarglielo. Il punto era che lui non ci si sarebbe neanche messo, con una ragazza che non poteva rispettare; però non l’avrebbe invitata in macchina se non l’avesse considerata abbastanza matura per un minimo di normali pomiciate prematrimoniali. Lei disse che una cosa era pomiciare e un’altra quello che voleva lui. Lui disse che si sarebbe accontentato di pomiciare se lei si fosse rilassata; lei disse che, appena lei cominciava a rilassarsi, lui smetteva di accontentarsi. Disse che lei non era Scimmia Littlefield; lui disse bene allora, è un vero peccato; e lei disse bene allora, torna da lei se è questo che vuoi; e lui disse magari lo faccio.

E così il pomeriggio dopo all’uscita della scuola lui non c’era. E non c’era ad aspettarla neanche Ellie; aveva smesso qualche settimana prima, quando Roy aveva coinvolto Lucy nella sua serie Aspetti di un angelo.

Lucy non sapeva cosa fare di se stessa. Di nuovo, non aveva dove andare.

Quella sera stava tornando a casa a piedi dal Dairy Bar quando le si accostò un’auto. – Ehi, ragazzina, vuoi un passaggio? Non si voltò. Ehi, Lucy -. Suonò il clacson e accostò. – Ehi, sono io. Salta su, disse, spalancando la portiera. – Ciao, angelo. Lei lo guardò in cagnesco. – Dov’eri oggi pomeriggio, Roy? - In giro. - Ti ho fatto una domanda, Roy. Ti aspettavo. Oh, dai, lascia perdere… sali. Non dirmi cosa devo fare, Roy, – disse lei. – Non sono Scimmia Littlefield. - Sul serio? Pensavo fossi lei. - E con questo cosa vorresti dire?

- Niente, niente. Era una battuta! - E’ questo che hai fatto oggi pomeriggio? Sei stato con lei? - Mi struggevo per te. Allora, vieni, ti accompagno a casa. - No, finché non ti scusi per oggi pomeriggio. - Ma che cosa ho fatto? Hai mancato a un impegno, ecco cosa. - Ma avevamo litigato, – disse lui. – Non te lo ricordi? - Be’, se avevamo litigato, perché adesso sei qui? Roy, non mi faccio trattare… Okay, okay, scusami.

- Sei sincero? O lo dici tanto per dire?

- Sì! No! Oh, sali in macchina, dài.

- Allora mi chiedi scusa, – disse lei.

- Sì! Sali in macchina…

– Dove hai intenzione di andare, Roy?

-A fare un giro. È presto.

- Voglio andare direttamente a casa.

- Ti ci porto, a casa. E’ mai successo che non ti abbia portato a casa?

– Gira qui, Roy. Per favore, non ricominciamo.

- Magari voglio parlarti. Magari voglio scusarmi ancora un po’.

- Roy, non sei divertente. Voglio andare a casa. Adesso smettila.

Appena oltre il Grove, lui imboccò uno sterrato e spense subito gli anabbaglianti (secondo il codice non scritto del Paradiso della Passione), finché arrivò a una radura dove non c’era nessun’altra auto parcheggiata. Ora spense anche le luci di posizione, accese la radio e la sintonizzò su Rendezvous Highlights. Doris Day stava cantando It’s Magic.

– Cavoli, o è una coincidenza oppure questa è la nostra canzone, – disse, cercando di tirarle vicino la testa - Without a golden wand, or mystic charms… – cantò. Le resistette alla sua leggera pressione sulla nuca, allora lui si protese verso la sua bocca chiusa e i suoi occhi spalancati. - Angelo, – disse.

- Sembra che sei in un film, quando dici così. Piantala. – Oh, cavoli, – disse lui, – certo che tu sei speciale per rovinare l’atmosfera. - Be’, mi spiace. Mi aspettavo di essere accompagnata casa. - Ti ci porto a casa! Però adesso potresti almeno farti un po’ più in là, – disse lui. – Allora, ti fai più in là, per favore? Così non mi si pianta il volante fra le costole, se non ti spiace? Lei cominciò a spostarsi verso destra, ma prima che se ne rendesse conto lui l’aveva immobilizzata contro la portiera e le stava baciando la faccia. Angelo, – sussurrava. – Oh, angelo. Hai l’odore del Dairy Bar. – Sai com’è, ci lavoro. Scusami tanto. - Ma a me piace, – e poi, prima che Lucy potesse aggiungere altro, premette la bocca sulla sua. Non si staccò finché non fini il disco, poi fece un sospiro. Aspettava di sentire la canzone successiva. - Non respingermi, Lucy, sussurrò, accarezzandole i capelli. – No, non ne vale la pena, – e insieme a Margaret Whiting cominciò a cantare: – There’s a tree in the meadow, with a stream drifting by..7 – e a infilarle la mano nella sottoveste. – No, – disse, quando lei fece resistenza. – Fidati di me. Voglio solo toccarti il ginocchio.

- Non ci credo, Roy. E’ ridicolo.

- Te lo giuro. Non andrò più in alto di così. Dài, Lucy. Cos’è mai un ginocchio? I will always remember The love in your eye… The day you carved upon that tree, I love you till I die8. Continuarono a baciarsi. – Lo vedi? - disse lui, dopo che furono trascorsi diversi minuti. – Ho spostato la mano? Allora, l’ho fatto?

-No. - Non ti avevo detto che potevi fidarti di me? - Sì, – disse lei, – però non mettermi la lingua sui denti, per favore. - Perché no? Ti faccio male? - Roy, mi lecchi i denti, che senso ha? - Ha molto senso! E’ la passione! – Be’, io non ne voglio.

-Okay, – disse lui, – okay. Calmati. Ti chiedo scusa. Pensavo che ti piacesse. - Non è una cosa che possa piacere, Roy… - Okay! There was a boy, A very strange, enchanted boy. They say he wandered very far, Very far, over land and sea9.

- Questa la adoro, – disse Roy. – E appena uscita. Pare! che il tizio che l’ha scritta viva proprio così. - Cos’è? - Nature Boy. E il tizio che l’ha scritta è proprio così: un ragazzo della natura. Ha un grande messaggio. Ascolta le parole; This he said to me: «The greatest thing you’ll ever leam, Is just to love, and be loved in return»10.

- Lucy, – sussurrò Roy, – spostiamoci sul sedile dietro. – No. Assolutamente no. - Oh, diamine, non hai alcun rispetto per l’atmosfera. lo sai questo?

- Però dietro non ci sediamo, Roy. Ci abbiamo già provato, ma tu in realtà dietro vuoi sdraiarti. – Perché dietro non c’è il volante, Lucy, ed è più comodo… ed è anche molto pulito, perché l’ho pulito io oggi po meriggio. - Be’, io lì dietro non ci torno… - Be’, io sì! E se tu vuoi startene qui seduta da sola, fa’ pure - Oh, Roy… Ma lui era già sceso ed era passato sul sedile posteriore, e all’istante si coricò con la testa contro una portiera e i piedi che uscivano dal finestrino aperto dall’altra parte. – Giusto mi sdraio. Perché non dovrei? E’ la mia macchina. - Voglio andare a casa. Hai detto che mi portavi a casa.

Questo è ridicolo.

- Per te lo è di sicuro. Accidenti, non c’è da stupirsi che tu ed Ellie siate amiche. Siete proprio una bella coppia -. Borbottò qualcosa che lei non riuscì a capire.

- Vorrei sapere che cosa hai appena detto, Roy. - Ho detto che siete due c.t., ecco cosa. - E cosa vuol dire? - Oh, – gemette lui, – lascia perdere. - Roy, – disse lei, voltandosi e mettendosi in ginocchio, ora davvero arrabbiata, – ci siamo già passati la settimana scorsa. - Giusto! Giusto! Ci siamo seduti dietro. Ed è forse successo qualcosa di terribile?

- Perché io non l’ho permesso, – disse lei. - Allora non permetterlo neanche stavolta, - disse lui. - Senti, Lucy, – e si tirò su a sedere e cercò di prenderle fra le mani la testa, che lei tirò indietro. – Io rispetto la tua volontà, questo lo sai. Però l’unica cosa che tu vuoi – disse, allungandosi all’indietro – è farti scattare le foto e farti accompagnare a casa la sera, mentre di quello che prova l’altra persona… perché si dà il caso che io provi qualcosa! Oh, lascia perdere, sul serio. - Oh, Roy, – e lei aprì la portiera e scese dall’auto, come aveva fatto quella tremenda sera della settimana prima.

Roy spalancò la portiera posteriore con tanta violenza che vacillò sui cardini. - Sali, – sussurrò. Lì dietro le disse quanto avrebbe potuto amarla. Stava armeggiando con i bottoni della sua uniforme. Tutti dicono queste cose quando vogliono quello che vuoi tu, Roy.

Smettila. Per favore, smettila. Non voglio farlo. Sul serio. Per favore.

- Ma è la verità, – disse lui, e la sua mano, che aveva toccato con familiarità il ginocchio, partì come una scheggia su per la gamba. No, no… - Sì! – gridò lui trionfante. – Per favore! E poi ricominciò a dirle di fidarsi di lui, e a ripeterlo e ripeterlo, e per favore, per favore, e lei non sapeva come impedirgli di fare quel che stava facendo a meno di tirarsi su e affondargli i denti nella gola, che si trovava esattamente sopra la sua faccia. Lui continuava a dire per favore e lei continuava a dire per favore, e quasi non riusciva a respirare o a muoversi, e lui le era sopra con tutto il suo peso, e diceva non respingermi adesso, potrei amarti, angelo, angelo, fidati di me, e all’improvviso a lei venne in mente Babs Egan. - Roy…! – Ma ti amo. Ora ti amo davvero. - Ma cosa stai facendo! - Non sto facendo niente, oh, angelo mio, angelo mio… - Ma lo farai. - No, no, angelo mio, non lo farò. - Ma lo stai facendo adesso. Smettila, Roy, smettila! strillò. - Oh, maledizione, – disse Roy, e si tirò su a sedere, lasciando che togliesse le gambe da sotto di lui. Lucy guardò fuori dal finestrino; il vetro si era appannato. Aveva timore di guardarlo. Non sapeva se si era abbassato i pantaloni o se li era tolti del tutto. Quasi non riusciva a parlare. – Sei pazzo? - Cosa intendi, pazzo? Sono un essere umano! Sono uomo! - Non si può fare una cosa così… con la forza! E’ questo che intendo! E io non voglio farlo in ogni caso. Roy, torno davanti. Vestiti. Portami a casa. Adesso! – Ma tu volevi. Ci stavi. - Mi tenevi le braccia bloccate. Mi avevi intrappolato’ Io non volevo niente! E tu non avevi alcuna intenzione di., di stare attento! Sei completamente matto? Io non ci stavo. Ma io userei qualcosa! Lei restò stupefatta. – Lo faresti? - Oggi ho cercato di comprarne qualcuno. -Hai cercato? Vuoi dire che era da tutto il giorno che l’avevi pianificato? - No! No! Be’, alla fine non li ho comprati… no? Allora non li ho comprati. - Però ci hai provato. Era da tutto il giorno che ci pensavi e lo pianificavi… - Ma non ha funzionato! - Per favore, non ti capisco… e non voglio capirti.

Portami a casa. Rimettiti i pantaloni, per favore. - Ce li ho. Non me li sono tolti. Per la miseria, tu non hai idea di quello che ho passato oggi. Tu sai solo quello che vuoi tu, e basta. Cavoli, sei un’altra Ellie… un’altra c.t.! - Un’altra cosa? - Io non uso quel genere di linguaggio di fronte alle ragazze, Lucy! Io ti rispetto!

Questo non significa niente per te? Lo sai dove sono stato questo pomeriggio? Te lo spiegherò, e non me ne vergogno… perché si dà il caso che ci sia di mezzo il rispetto che ho per te. Che tu lo sappia o meno. E poi, mentre lei si tirava giù la sottoveste e si risistemava la gonna, lui le raccontò la storia. Per quasi un’ora aveva aspettato fuori dal negozio dei Forester che Mrs Forester salisse di sopra e lasciasse da solo al bancone quel gonzo di suo marito. Ma Roy era appena entrato quando venne fuori che Mrs Forester era solo andata un momento in magazzino, ed eccola lì alla cassa pronta a servirlo prima che lui potesse voltarsi e uscire. - Quindi cosa potevo fare? Ho comprato un pacchetto di gomme da masticare Black Jack. E una confezione di Anacin.

Cos’altro avrei potuto fare? In tutti i negozi della città il nome di mio padre lo tengono in palmo di mano. Ovunque vada è un «Ciao, Roy, come sta il nostro soldatino?» E la gente mi vede con te, Lucy. Voglio dire, lo sanno, sai, che usciamo insieme. Perciò secondo te per chi penserebbero che fossero? Pensi che io non ci pensi? C’è da considerare la tua reputazione, non ci pensi? Io penso a un sacco di cose, Lucy, che forse a te non passano nemmeno per la testa, mentre te ne stai tutto il giorno a scuola. In qualche modo era riuscito a confonderla. Che cosa avrebbe voluto davvero da lui? Che avesse comprato una di quelle cose?

Di sicuro non gliel’avrebbe lasciato usare su di lei. Non gli avrebbe permesso di pianificare con ore di anticipo quello che le avrebbe fatto, per poi agire come se fosse stato trascinato dalla passione del momento. Non si sarebbe lasciata usare o ingannare, e nemmeno trattare come una sgualdrina. - Ma sei stato oltremare, – gli stava dicendo. Già, nelle Aleutine! Le isole Aleutine, Lucy… separate dall’Urss solo dal Mare di Bering! Lo sai qual è il motto lassù? «Una donna dietro ogni albero»… peccato che non ci siano alberi. Afferrato? Cosa credi che facessi lassù? Compilavo per tutto il giorno moduli di ordinazione. Ho giocato diciottomila partite di ping–pong. Ma cos’hai tu per la testa! disse, affondando sdegnato nel sedile. – Oltremare, – disse amaramente.

- Manco fossi stato in un harem. - … Ma ci sarà pur stata qualche altra? - Io non l’ho mai fatto con nessuna! Non l’ho mai fatto in tutta la vita, fino in fondo! - Be’, – disse lei con voce sommessa, – non lo sapevo. - Be’, è la tremenda verità. Ho vent’anni, quasi ventuno, ma ciò non significa che vada in giro a farlo con tutte le ragazze che vedo. Mi deve piacere la persona, prima di tutto.: Tu dai retta a quella stupida di Ellie, ma Ellie non sa di cosa sta parlando. Il motivo per cui non esco con Scimmia Littlefield, Lucy, è che si dà il caso che io non la rispetti. Se vuoi la verità. E poi non mi piace. E poi non la conosco nemmeno! Oh, lascia perdere.

Andiamo, facciamola finita. Se dai retta a tutte le storie che senti su di me, se non riesci a capire che, persona sono, Lucy, allora, scusa il linguaggio, ma al diavolo. Allora gli piaceva. Gli piaceva davvero.

Aveva detto che la gente sapeva che uscivano insieme. Non se n’era resa conto. Lei usciva con Roy Bassart, che aveva vent’anni ed era stato sotto le armi. E la gente lo sapeva. - … magari a Winnisaw, – stava dicendo lei. Oh, perché, continuava a tornare sull’argomento? Sicuro, immagino che a Winnisaw ne abbiano a non finire, mi sa li regalano per strada, a Winnisaw. - Avresti potuto farci un salto, dico solo questo. - Ma perché avrei dovuto? Anche entrare dai Forester in Broadway è spingersi troppo oltre, se devo dar retta a te. Perciò a che servirebbe? Chi sto prendendo in giro? Me stesso? Ho passato tutto il pomeriggio appostato là fuori ad aspettare che quella vecchia megera sparisse, e comunque non avrebbe fatto alcuna differenza.

Mi avresti solo odiato di più. Giusto? E allora a che serve? Cosa vorresti dire, Lucy? Che diresti di sì, se li avessi? -No! - Bene, ora sappiamo come siamo messi! Ottimo! – Spalancò la portiera dal suo lato. – Andiamo a casa! Non ce la faccio più, sul serio. Si dà il caso che io sia un uomo e si dà il caso che io abbia determinate necessità fisiche, e anche emotive, sai, e non mi lascio mettere i piedi in testa da una ragazzina delle superiori. Non facciamo altro che discutere ogni mossa che faccio, passo dopo passo. Per te è una cosa romantica? E’ la tua idea di una relazione uomo–donna? Be’, non è la mia. Il sesso è una delle esperienze più sublimi, fisiche o mentali, che un uomo o una donna possano avere. Ma tu sei un’altra di quelle tipiche ragazze americane che lo considerano osceno. Allora andiamo pure a casa, Tipica Ragazza Americana. Io sono un tipo accomodante, di buon carattere, Lucy, ce ne vuole per ridurmi in questo stato… eppure è successo, quindi ora andiamo! Lei non si mosse. Era arrabbiato veramente, sinceramente, non come uno che cerca di ingannarti o di dartela a bere.

- Allora, che cosa c’è adesso? – chiese. – Che cosa ho fatto adesso di male? - Voglio solo che tu sappia, Roy, – disse lei, – che non è che non mi piaci. Lui fece l’espressione corrucciata. – No? - No. - Be’, certo che lo nascondi bene. - No, – disse lei. - Sì invece! - … Ma se a te io non piacessi? In realtà? Come faccio a sapere che dici la verità? - Te l’ho già spiegato: Io non dico bugie! Quando lei non replicò, lui le si fece più vicino. - Tu lo chiami amore, – disse Lucy. – Ma non è quello che intendi. - Mi faccio trasportare, Lucy. Non è una bugia. Mi faccio trasportare, dall’atmosfera. Mi piace la musica, perciò mi influenza. Ma non è una «bugia». Che cosa aveva detto adesso?

Lucy non riusciva a capire… Lui risalì in macchina. Le mise una mano sui capelli. – E comunque cosa c’è di male nel lasciarsi trasportare dall’atmosfera? -Ma quando l’atmosfera cambia? – domandò lei. Aveva la sensazione di non essere lì, che tutte quelle cose fossero accadute molto tempo prima. – Domani, Roy? - Oh, Lucy, – disse lui, e ricominciò a baciarla. – Oh, angelo. - E che mi dici di Scimmia Littlefield?

-Te l’ho spiegato, te l’ho spiegato che non la conosco neanche… oh, angelo, per favore, – disse, facendola scivolare contro le fodere nuove dei sedili che lui stesso aveva installato. – Ci sei tu, tu, tu e solo tu… -Ma domani… - Domani ci vediamo, te lo prometto, e anche il giorno dopo, e quello dopo ancora… - Roy, non posso… oh, smettila…

- Ma non sto facendo niente. - Invece sì! - Angelo, – le gemette all’orecchio. - Roy, no, per favore. Va tutto bene, – sussurrò lui, – va tutto bene… - E invece no! Ma sì, sì, te lo giuro, – disse lui, e poi le assicurò che avrebbe usato una tecnica di cui aveva sentito parlare su nelle Aleutine, chiamata interruzione. – Fidati di me, – la supplicò, – fidati di me, fidati di me, – e, purtroppo, lei voleva così tanto fidarsi, che si fidò.

Una settimana prima del diploma di Lucy, arrivò la notizia: Roy era stato accettato alla scuola di fotografia e design Britannia, fondata, stando al catalogo e alla brochure, nel 1910. Erano lietissimi di iscriverlo alla sessione di settembre, dicevano, e insieme alla lettera di accettazione gli rispedivano la dozzina di ritratti di Lucy che aveva allegato alla domanda di ammissione. Alla festicciola improvvisata organizzata quella sera in onore di Roy – Ellie e Joe, Roy e Lucy, Mr e Mrs Bassart – lo zio Julian disse che tutti avevano un debito di gratitudine nei confronti della fotogenia di Lucy Nelson. Anche lei meritava un premio, così le diede un bacio. Lei non aveva ancora chiarito con se stessa se lo approvava o meno e, quando vide le sue labbra che le si avvicinavano, ebbe un momento di difficoltà e per poco non si tirò indietro. Non era solo il comportamento di Mr Sowerby con la moglie, o il suo linguaggio, ad aver provocato in lei quel moto di repulsione; e neppure il fatto che un uomo alto meno di un metro e sessanta e che puzzava di sigaro non fosse il suo ideale di avvenenza maschile. Il fatto era che nell’ultimo mese in diverse occasioni le era sembrato che le guardasse troppo a lungo le gambe. Forse Roy raccontava a suo zio quello che facevano? Non poteva crederci; magari sapeva che andavano a parcheggiarsi al Paradiso della Passione, ma anche Ellie e Joe Whetstone ci andavano, e non facevano che pomiciare. Almeno così Ellie diceva… e di certo così credevano i suoi genitori. No, nessuno ne sapeva niente, e probabilmente Mr Sowerby guardava solo il pavimento, o nulla di nulla, quelle volte in cui lei aveva pensato che le guardasse le gambe. Dopotutto aveva solo diciotto anni, e lui era il padre di Eleanor, e le sue gambe erano informi, o così lei credeva, ed era ridicolo immaginare, come aveva fatto quando un sabato pomeriggio si era trovata in casa sola con lui, che l’avrebbe seguita in camera di Ellie e avrebbe cercato di farle qualcosa. Anche lei pensava solo al sesso.

Bisognava davvero che con Roy la smettessero con quello che avevano cominciato a fare. A lui piaceva così tanto che ogni sera la trascinava laggiù, e forse piaceva anche a lei, ma il punto non era che le piacesse… Qual era allora? Era la domanda che le faceva Roy ogni volta che lei cominciava a dire «No, no, stasera no». Ma perché stasera no, se ieri sera sì? Comunque, quando Mr Sowerby la baciò, si trattò di un bacio schioccante, e sulla guancia, e tutti risero, e Mrs Sowerby era lì a guardare e si sforzava di ridere anche lei. Era la cose più remota da Lucy che ci potesse essere, in un certo senso era una delle cose più strane che avesse mai fatto, ma turbata com’era per essersi sentita dire in pubblico che era attraente, emozionata com’era per il fatto di rivestire un ruolo così grande in quella festa, in quella famiglia, in quella casa, scrollò le spalle, divenne paonazza e restituì il bacio allo zio Julian. Roy applaudì. – Brava! – gridò, e Mrs Sowerby smise di sforzarsi di ridere. Bene, peggio per lei. Tanto per Lucy era pressoché impossibile riscuotere l’approvazione di Mrs Sowerby, una donna sciatta, snob, che a quanto pareva se l’era presa a male perché alla fine era stata Lucy a influire più di tutti su quello che sarebbe stato il futuro di Roy. E non erano certo fatti suoi – sebbene in effetti le cose fossero andate davvero così: se Roy aveva deciso di andare alla scuola di fotografia a Fort Kean, dove aveva sede la Britannia, non era tanto per la qualità dell’insegnamento che vi avrebbe ricevuto – o per il suo presunto talento naturale di fotografo, a dirla tutta – quanto perché anche Lucy sarebbe andata all’università a Fort Kean. Che nella sua scelta Roy si fosse lasciato guidare da una; tale considerazione, di certo a Lucy non dispiaceva. D’altro canto era un’ulteriore smentita dell’idea che si era fatta di lui prima di conoscerlo: che fosse un giovanotto serio alle ’ prese con scelte di grande portata e complessità. No, non si stava affatto rivelando come lo aveva immaginato - e non che questo andasse del tutto a suo discredito. Per dirne una, non era così rude e maleducato come le era parso all’inizio,; E non era indifferente ai sentimenti delle altre persone; men che meno a quelli di lei. Ora che aveva smesso le sue arie da i gradasso, ora che non era più spaventato da lei (si era resa conto) così come lei lo era stata da lui, tutto sommato era? dolce e sollecito. Nella sua amabilità, le ricordava addirittura; un poco Mr Valerio, e questo di sicuro era un complimento.

Né lasciava trasparire alcun senso di superiorità, come invece lei presumeva che avrebbe fatto, data la sua età e la sua esperienza. Non cercava mai di fare il prepotente – eccetto riguardo al sesso; e anche lì Lucy sapeva che, quando avesse deciso che era ora di smetterla (probabilmente quella sera stessa), lui non avrebbe potuto far niente per costringerla a ricominciare. Non avrebbe potuto far niente neanche per costringerla a cominciare, perché allora all’epoca non se n’era resa conto? Il peggio che poteva accadere era che non uscisse più con lei. E sarebbe forse stata una tragedia? Per la verità, per molti importanti aspetti, si stava rendendo conto che Roy non le piaceva poi così tanto.

A volte le sembrava che fosse lei ad avere quasi tre anni più di lui, invece del contrario. Prima di tutto non sopportava quando le cantava quelle canzoni all’orecchio. A volte era così infantile, anche se ormai aveva ventun anni, abbastanza per votare, come ripeteva a tutti. A volte le cose che diceva erano vere e proprie stupidaggini. Quand’erano in macchina, ad esempio, continuava a ripeterle che la amava… Ma era una stupidaggine? E se fosse stato vero? E se invece l’avesse detto solo perché temeva che altrimenti lei non l’avrebbe più lasciato andare fino in fondo? Oh, lo sapeva, lo sapeva, lo sapeva… non avrebbero mai dovuto cominciare a farlo. Non era giusto se non eri sposata, peggio che mai se lo facevi con qualcuno che non avresti neppure mai potuto sposare. Dobbiamo smetterla! Ma in qualche modo smetterla adesso che avevano iniziato non aveva più senso di quanto ne avesse avuto cominciare. Era con tutta quell’intera stupida storia che avrebbe dovuto smetterla! Sì, era molto, molto confusa – anche in quella meravigliosa, allegra serata dai Sowerby, iniziata con lo zio Julian (come Roy l’aveva incoraggiata a chiamarlo) che la baciava come se anche lei facesse parte della famiglia, e terminata con lui che tirava fuori dal frigo una vera bottiglia di champagne francese, e la stappava facendo il botto e tutto quanto… Oh, come poteva esserle venuto il sospetto, ogni giorno più forte, che probabilmente Roy non avrebbe combinato nulla di buono, quando erano tutti in piedi intorno a lui con i bicchieri alzati, e brindavano all’unisono: – Al futuro di Roy! Dopo il diploma, Lucy cominciò l’orario estivo al Dairy Bar: dalle dieci alle sei, tutti i giorni tranne il mercoledì e la domenica. A metà luglio, un mercoledì lei e Roy andarono in macchina a Fort Kean a cercare un posto dove lui potesse abitare a partire da settembre. Ogni volta, dopo aver ispezionato la camera in affitto, Roy tornava da Lucy che lo aspettava nell’auto parcheggiata e diceva che il posto non andava bene, almeno per lui; o la stanza aveva uno strano odore, o la padrona di casa sembrava diffidente, oppure il letto era troppo corto, e di letti corti non ne poteva più dopo sedici mesi alle Aleutine. Nell’unico posto che sarebbe stato ideale, una stanza enorme con un letto che era stato del marito della padrona di casa (un uomo alto un metro e novantacinque), un bagno immacolato e la garanzia di un piano del frigo riservato a lui, mancava un ingresso privato. Be’, disse Lucy, era indispensabile. Alle quattro di quel pomeriggio fecero la peggior litigata che avessero mai fatto, e di gran lunga la peggiore che Roy avesse mai fatto con chiunque, incluso suo padre. Di fronte a quella che era pur sempre la miglior sistemazione disponibile, lei non trovava altro da fare che scuotere la testa e dire che no, era indispensabile un ingresso privato se lui si aspettava di vederla ancora. A un tratto, gridando: «Be’, non me ne frega niente… sono io che ci devo abitare!», lui fece inversione e tornò alla casa con il letto lungo. Quando risalì in macchina, tirò fuori dal vano portaoggetti una mappa stradale e ci disegnò meticolosamente sopra un rettangolo. – Questa è la mia stanza, – disse, evitando di guardare Lucy. Si trovava al pianoterra, una stanza d’angolo con due alte finestre da ogni lato; tutt’e quattro davano su un ampio portico circondato da cespugli. Erano come quattro ingressi privati. Di notte una persona poteva entrare e uscire dalle finestre, esattamente come se fossero state porte… Allora, cosa aveva da dire? Davvero pensava di non parlargli più, oppure aveva un’opinione da esprimere? - La mia opinione l’ho espressa, – disse lei. – E tu non ne hai tenuto conto. Non è vero.

- Ma sei andato lo stesso ad affittare la stanza. – Perché volevo farlo, sì! - Non mi resta altro da dire, Roy. - Lucy, è una stanza! E’ solo una stanza! Perché fai così? - Sei tu che hai fatto così, Roy. Non io. - Che ho fatto come? - Ti sei di nuovo comportato come un bambino.

Prima di tornare a Liberty Center, Roy passò dal collegio femminile di Fort Kean. Accostò davanti al marciapiede in modo che Lucy potesse dare un’altra occhiata alla sua nuova casa. Fra il college e la principale zona commerciale di For Kean c’era solo Pendleton Park. Era nato come scuola maschile preparatoria negli anni Novanta dell’Ottocento; negli anni Trenta la scuola era stata chiusa, e gli edifici erano rimasti inutilizzati fino alla guerra, quando erano stati occupati dall’unità Trasmissioni dell’esercito. Dopo la vittoria sul Giappone, il sito era stato acquistato dallo stato, caserme e tutto, in vista di uno sviluppo del sistema scolastico. Non era certo uno di quei campus ricoperti di edera che si vedevano nei film o di cui si leggeva nei libri; le caserme costruite dall’esercito, lunghi edifici di un giallo sbiadito, venivano usate come aule, mentre l’amministrazione e lo studentato erano ospitati in una vecchia struttura squadrata di pietra grigia, piazzata quasi sulla strada, una sorta di fortezza che ricordava il tribunale di contea di Winnisaw. Eppure a quella vista Lucy pensò: «Mancano solo cinquantanove giorni». - Qual è la tua stanza? – domandò Roy, guardando fuori dal finestrino. Lei non rispose. La scuola era di fronte a una fila di negozi, uno dei quali si chiamava «The Old Campus Coffee Shop». Roy disse: – Ehi, vuoi una Coca–Cola alla caffetteria del vecchio campus? Nessuna risposta. - Oh, angelo, io tengo conto di quello che pensi. Lo sai. Quello che pensi per me è importante. Però devo pur abitare da qualche parte, no? Senti, Lucy, mi sembra ragionevole, no?

Non è un comportamento da ragazzino, o da bambino o quel che hai detto.

- Sì, Roy, – disse finalmente lei, – devi abitare da qualche parte. - Non essere sarcastica, Lucy, sul serio. A volte sei troppo sarcastica, mentre io ti sto solo chiedendo una risposta. Devo avere le mie otto ore di sonno se voglio ricavare il massimo dalle lezioni. Non trovi? Perciò ne ho bisogno, del letto lungo. Allora, anche questa è una stupidaggine? Lei pensò: Tutto quello che dici è una stupidaggine!, e disse: – No, – perché lui le aveva preso la mano, e sembrava davvero dispiaciuto. - Allora com’è che sei arrabbiata? Lucy, dài, che senso ha litigare? Prendiamoci una coca, okay? Poi andiamo a casa. Dài, dimmi che abbiamo fatto pace. Perché rovinarci la giornata?

Senti, mi perdoni per il mio terribile peccato, oppure continuerai per sempre con questa sciocchezza? Sembrava davvero sull’orlo delle lacrime.

E lei capì che non aveva senso discutere ancora. Perché in quell’istante aveva preso una decisione… se solo l’avesse presa prima, avrebbe risparmiato a tutt’e due la pena di quel litigio: non avrebbe mai messo piede in quella stanza in tutta la sua vita, per quante finestre potesse avere, o anche porte. Era semplicissimo. - Va bene, – disse. Prendiamoci una coca. - Ecco la mia ragazza, – disse Roy, baciandola sul naso, - ecco il mio caro angelo.

Da quel pomeriggio in avanti Lucy seppe per certo che Roy non faceva per lei. Già quella sera non andò con lui al: Paradiso della Passione. Quando d’improvviso lui mise il broncio, e parve di nuovo sul punto di scoppiare a piangere, lei gli disse che era perché non si sentiva bene. Si dava il caso che fosse la verità, ma poi a casa cerchiò sul calendario; con un grosso pastello nero il giorno in cui avrebbe messo in chiaro che la loro relazione era finita (e nello stesso tempo cancellò un altro giorno della sua vita a Liberty Center: ne mancavano cinquantotto). : A quanto pareva, la cattiva notizia non avrebbe potuto essere comunicata a Roy prima della domenica: la sera successiva avevano già in programma di andare alla fiera di Sellar con Ellie e Joe, con cui uscivano in doppia coppia almeno una volta alla settimana, adesso che Lucy lavorava solo di giorno; e il venerdì sera Roy si aspettava che lei andasse con lui a Winnisaw a vedere Così sono le donne-, poi il sabato ci sarebbe stata la grigliata dai Sowerby. Era una grigliata per gli amici adulti dei Sowerby e, quando lo zio di Roy aveva invitato il «lungo sorso d’acqua» ad andare e a portare con sé la «biondina», Lucy ne era stata (in segreto) altrettanto lieta di Roy. Mr Sowerby le piaceva sempre di più, e cominciava ad ammirare determinate sue qualità. Come diceva Roy, a lui non fregava un fico secco di quel che pensava la gente; diceva e faceva quel che gli pareva, quando gli pareva. Lucy, trovava ancora un po’ crudo il suo linguaggio, ma non faceva più obiezioni, per quanto trovasse la cosa stucchevole quando lui la chiamava «biondina», che era diventato il su soprannome per lei, e non aveva fatto obiezioni nemmeno quando una sera lui le aveva passato un braccio intorno alla vita e le aveva detto (in modo scherzoso, ovviamente, e facendo l’occhiolino a Roy): – Senti un po’, biondina, quando sei stufa di guardare questo manico di scopa dal basso verso l’alto, e ti vien voglia di guardare un piccoletto dall’alto in basso, fammi un fischio. Avrebbe cerchiato il venerdì invece della domenica, non fosse stato per la grigliata del sabato sera dai Sowerby, dove la sua presenza era stata specificatamente richiesta dal padrone di casa. Sarebbe stato tremendamente difficile rifiutare l’invito. Tanto non sarebbe cambiato niente se anche aspettava fino a domenica – ci avrebbe anzi guadagnato tre sere fuori casa. Di sicuro qualunque diversivo, anche se c’era di mezzo Roy, era meglio che starsene nella sua camera a morire di caldo ascoltando i suoi sul dondolo nel portico; o restare sveglia nel buio senza riuscire ad addormentarsi finché non sentiva i passi del padre che salivano le scale, e scopriva (esclusivamente per la cronaca) se sarebbe o meno andato a letto sobrio. Quel che sempre rendeva l’estate particolarmente tremenda era il fatto che, con tutte le porte e le finestre aperte, Lucy percepiva in modo dolorosamente, orribilmente acuto la prossimità di quelle persone che sopportava a stento. Anche solo sentire sbadigliare qualcuno che odiava la infastidiva, se per caso era arrabbiata. Adesso invece restava fuori ogni sera fino a mezzanotte e mezza, e a quell’ora di solito tutti dormivano (non che comunque le facesse un gran piacere sentir russare delle persone che odiavi, visto che poi si metteva a pensare a quelle persone). Nelle notti più calde, piuttosto che restare chiusa in casa con i suoi, andava a sedersi con Roy su una delle panchine in riva al fiume, per godersi quel po’ di brezza che c’era e rimirare la nera immobilità dell’acqua sotto il ponte di Winnisaw.

Pensava al college e a Fort Kean: via, via – e spesso Roy si metteva a cantarle una canzone, con una voce che non era poi tanto male, o almeno così lei si sentiva disposta ad ammettere, addolcita com’era dal piacere di contemplare il proprio imminente futuro. Roy cantava come Vaughan Monroe, e come Dick Haymes; sapeva fare Nat «King» Cole che cantava Nature Boy, e Mel Blanc che cantava Woody Woodpecker, e Ray Bolger (a cui pensava di somigliare come struttura fisica) che cantava Once In Love With Amy. Dopo che ebbero visto il film su Al Jolson, le fece l’imitazione anche di lui. Ed era così che Roy annunciava le proprie esibizioni quando loro due sedevano mano nella mano in riva al fiume nelle serate afose di quella che doveva essere l’ultima estate della travagliata e infelice gioventù di Lucy: «Signore e signori, ecco a voi l’incomparabile, il solo e unico, Al Jolson». Oh, how we danced, On the night we were wed, We danced and danced11… Cinquantotto giorni. Cinquantasette. Cinquantasei. Il sabato sera, alla grigliata dei Sowerby, Lucy ebbe una lunga, seria conversazione con il padre di Roy, la loro prima vera chiacchierata – in cui lei si sentì assicurare a Mr Bassart che non doveva più nutrire alcuna ansia o dubbio: riguardo al futuro di Roy. Mr Bassart disse che ancora non riusciva a capire da dove fosse saltato fuori quell’interesse per la fotografia. La sua esperienza con i giovani lo aveva da tempo convinto a non fare affidamento sugli entusiasmi troppo repentini, dato che solitamente scomparivano alle prime avversità. Era sollevato, lo ammetteva, dal fatto che i mesi persi a sguazzare in quello che lui definiva «un pantano di idee abortite» fossero giunti al termine, ma adesso quel che lo preoccupava era se Roy avesse davvero fatto, una scelta cui sarebbe stato in grado di restare fedele anche quando le cose si fossero fatte complicate. Cosa ne pensava Lucy? Oh, disse Lucy, alla fotografia Roy ci teneva davvero, di questo ne era sicura.

- Come fai a esserne così sicura? - domandò Mr Bassart con la sua voce piatta. Lei cercò di farsi venire in fretta qualcosa in mente, e disse che la fotografia non era un interesse così improbabile per Roy, dato che di fatto era uno splendido modo per mettere insieme il suo attuale interesse per il disegno con il suo vecchio interesse per la stampa.

Mr Bassart rifletté su quelle parole. E lo stesso fece lei, arrossendo.

- Credo che sia vero, entro certi termini, Mr Bassart. - Molto ingegnoso, – disse lui senza sorridere, – ma se sia vero o no dovrò valutarlo. E tu quali progetti hai? Quali sono gli obiettivi del tuo percorso scolastico? Sudando sotto la camiciola nuova che aveva comprato per la festa, lei glielo disse… Sviluppare la logica… disciplinarsi… accrescere la cultura generale… imparare di più sul mondo in cui viviamo… imparare di più su se stessa… Era difficile stabilire quando fosse il caso di fermarsi (esattamente come lo era stato quando aveva compilato la domanda per la borsa di studio) ma quando finalmente, mentre lei faceva una pausa per prendere fiato, Mr Bassart disse: «Sono tutti propositi lodevoli», lei ritenne di essersi guadagnata a sufficienza la sua approvazione, e tacque. E poi, si rese conto in seguito, non le aveva rivolto una sola domanda riguardo alle sue origini. Non sembrava interessato all’argomento più di Julian Sowerby; uomini come quello ti giudicavano non per la tua storia familiare, ma per il tipo di persona che eri. Solo Mrs Bassart (che pareva essere caduta all’istante sotto l’influenza della sorella) e Irene Sowerby le facevano una colpa di cose di cui non era responsabile.

Gli altri, bisognava riconoscerglielo, non erano interessati ai pettegolezzi e alle vecchie storie, Roy incluso. Fin dal principio dell’estate, Roy andava a prenderla ogni sera dopo cena. Lei era sempre pronta quando lui arrivava, e cercava di non incoraggiarlo a trattenersi e fare conversazione. Nell’unica occasione in cui lui aveva insistito per farla parlare dei suoi, lei aveva risposto in modo così brusco che Roy non aveva più tirato fuori l’argomento. Era successo dopo il suo primo incontro con i familiari di lei, tutti riuniti in soggiorno dopo cena. Il giovanotto era entrato, erano state fatte rapide presentazioni, e subito Lucy l’aveva guidato alla porta. In macchina, mentre erano diretti al cinema, Roy disse: - Wow, tua madre è uno schianto, lo sai? Sì. - Lo sai chi mi ricorda? -No. - Jennifer Jones. Nessuna risposta. – Senti, l’hai visto Bernadette? Sì, l’aveva visto, con Kitty Egan, tre volte; ma anche la sua conversione era solo affar suo. Non aveva mai avuto luogo. - Certo, tua madre è più vecchia di Jennifer Jones… – disse Roy. – E tuo nonno è il Mr Carroll dell’ufficio postale. – Nemmeno questo sapevo. Ellie non ne aveva mai fatto cenno. - E’ in pensione, – disse lei. Perché mai aveva ceduto quando lui aveva detto che era ora che lo presentasse ai «suoi»? Stavano attraversando il ponte di Winnisaw. – Tuo padre sembra un tipo simpatico. - Non parlare di lui, Roy! Di lui non voglio parlare! Sì, okay, d’accordo, – disse lui, mettendosi una mano sul petto. – Era tanto per fare conversazione.

- Be’, non farlo. Va bene, okay, non lo faccio. - E’ un argomento che non mi interessa minimamente. Okay, okay, – disse lui sorridendo, – sei tu il capo, – e dopo un minuto di silenzio nel corso del quale lei prese in considerazione l’idea di chiedergli di accostare per farla scendere, lui accese la radio e si mise a cantare.

Da allora, né Bassart né Sowerby le avevano fatto domande sulla sua vita famigliare. A Ellie non avrebbe potuto importare di meno, e così era solo in compagnia di Irene Sowerby, -, o della madre di Roy, che Lucy era costretta a tener presente una cosa che, dopo tutti quegli anni di pratica, era diventata; bravissima ad allontanare dai suoi pensieri.

Ultimamente non’ aveva quasi mai motivo (fuori casa) di pensare a se stessa come alla ragazza che aveva fatto questo o quell’altro, o come alla ragazza il cui padre aveva fatto questo o quell’altro. Per le molte persone che incontrò in società per la prima volta dai Sowerby quel sabato sera, fra cui il preside Mr Brunn e sua moglie, lei era, molto semplicemente, la ragazza di Roy Bassart. – Dunque, – disse Mr Brunn, questa è la signorina che a quanto mi dicono fa rigare dritto il nostro ex alunno. - Oh, questione di punti di vista, Mr Brunn, chi fa rigare dritto chi, – disse Roy. - E a settembre vai all’università, cara?

- domandò Mrs Brunn. Cara. Proprio come Mrs Sowerby. - Sì, – disse Lucy. – Al college femminile di Fort Kean. - Non se la cavano male, laggiù, – disse Mr Brunn. – Bel posto. Bel posto. - Lucy si è diplomata ventinovesima fra gli studenti usciti quest’anno, Mr Brunn, prima che sia lei stessa a dirglielo. - Oh, l’ho riconosciuta. Lo sapevo che Lucy era ben piazzata. Buona fortuna, Lucy. Tieni alta la nostra reputazione. Abbiamo mandato delle ragazze in gamba a quel college, e sono sicuro che tu non farai eccezione. - Grazie, Mr Brunn. Farò del mio meglio. - Bene, sarà un successo, ne sono sicuro. Ci vediamo, Roy; ci vediamo, Lucy. Così, più tardi quella sera, su al Paradiso della Passione, cosa avrebbe potuto fare? Non era ancora la domenica in cui avrebbe dovuto dirgli che ne aveva abbastanza, era ancora solo sabato sera. E quando glielo avrebbe detto, cosa sarebbe successo? «Non ce la faccio più a uscire con te». «Cosa?»

«Perché non abbiamo niente in comune, Roy». «Ma… cosa vuoi dire? E questi mesi non significano nulla? Senti, per quale motivo ho deciso di andare alla scuola di Fort Kean… chi è stato a indurmi ad andarci, se non tu?»

«Be’, dovresti andarci per un motivo migliore di questo». «Quale miglior motivo dell’amore!»

«Ma non è amore… è solo sesso». «Cosa?»

«Sesso!»

«Non per me… Senti, per te si tratta di questo? Perché invece per me… Oh, no, – avrebbe detto fra le lacrime, – è terribile…» E poi ne era certa – a Fort Kean non ci sarebbe più andato. Se lei avesse rotto con lui, Roy avrebbe rinunciato alla Britannia, rinunciato a tutti i suoi progetti, probabilmente alla fine rinunciato anche alla fotografia, nonostante quel che lei aveva detto a suo padre in sua difesa. E allora sarebbe riaffondato nel suo pantano di idee… Però erano affari suoi, non di Lucy… Oppure no? Roy era così buono con lei, così gentile, più dolce di quanto lo fosse mai stato chiunque altro nella sua vita, e ogni santo giorno. Come poteva adesso lei voltargli le spalle ed essere così crudele e senza cuore? Soprattutto quando si trattava ancora solo di poche settimane. Poteva esserci in gioco la sua carriera. Perché lui dipendeva da lei… la ascoltava… la amava. Roy mi ama. O almeno così diceva. - Ti amo, angelo, – disse sulla porta. La baciò sul naso, - Stasera hai fatto colpo. - Su chi? – Su Mr Brunn, per dirne uno. Su tutti -. La baciò di nuovo. – Su di me, disse. – Senti, dormi bene -. Dal fondo dei gradini le sussurrò: – Au revoir. Lei era molto, molto confusa. Dieci mesi prima era ancora nella banda, a marciare dietro Leola Krapp, e adesso faceva coppia fissa!

Andava fino in fondo praticamente ogni sera! Cerchiò sei giorni in luglio, e dieci in agosto, e poi il primo settembre prese il pastello e cerchiò quattro volte il giorno dopo il Labor Day. Aveva intenzione di cerchiare il Labor Day, ma poi si era ricordata che quel giorno lei e Roy ed Ellie e Joe Whetstone dovevano andare a fare canoa sul fiume, un evento che Roy aveva programmato già da settimane. Se solo non fosse stato tutto programmato con tanto anticipo! Se solo lui non avesse avuto così bisogno di lei, non fosse dipeso così da lei, non l’avesse amata così! Ma la amava? Quando la mattina del Labor Day arrivarono dai Sowerby* la zia di Roy, Irene, uscì per dire che quella notte Ellie era stata male, e stava ancora dormendo. Propose che i tre andassero da soli per quel giorno. Ma, mentre ancora stava parlando,; una Ellie molto triste e dall’aspetto esangue comparve alla finestra del corridoio del piano di sopra, in accappatoio. Salutò; con la mano. – Ciao. – Ellie, disse Mrs Sowerby, – ho proposto agli altri di andare senza di te per oggi, cara.

- Oh, no. - Eleanor, se non ti senti bene, di sicuro non puoi andare in canoa. - Tua madre ha ragione, – disse Joe. – Ma io voglio andare, – protestò Ellie con voce fievole! - Sarebbe un rischio, El, – disse Joe. – Sul serio. - Joe ha ragione, Eleanor, - disse Mrs Sowerby. - Ma io avevo progettato di andare, – disse Ellie, e a tratto lasciò ricadere l’avvolgibile, come se stesse per scoppiare a piangere. Fu deciso che i tre sarebbero entrati ad aspettare che si lavasse e si vestisse e facesse un po’ di colazione con tè e pane tostato; poi, se davvero si fosse sentita meglio, magari i giovanotti avrebbero seguito il loro programma. I problemi di Ellie erano cominciati la sera prima mentre Mrs Sowerby era fuori casa, a un incontro informale del circolo di cucito. In sua assenza, Ellie e il padre avevano guardato la tv, mangiando nel frattempo un chilo e mezzo di ciliegie, cui erano seguite un’intera confezione di gelato alla vaniglia e, per finire, mezza torta al cioccolato avanzata dalla cena.

Julian Sowerby, che non era stato male, sosteneva che lo stomaco in subbuglio di Ellie non aveva nulla a che fare con il poco di gelato e la fetta di torta; semplicemente Ellie aveva la tremarella perché mancavano due settimane all’inizio del college. Roy disse che Ellie poteva anche aver ereditato l’avvenenza dal padre (tutti risero, Julian più forte degli altri) ma forse non era stata tanto fortunata da ereditare anche il suo stomaco di ferro. - Mi sa che è vero, Mr Sowerby, – fu il commento di Joe. Poi assicurò a Mrs Sowerby che, se avesse lasciato andare con loro Ellie, lui avrebbe controllato che non toccasse dolci.

Mrs Bassart aveva preparato loro un enorme cestino per il picnic, ma Roy disse che lui e Joe avrebbero consumato senza problemi anche la porzione di Ellie. Pochi minuti dopo, Ellie scese in calzoncini bianchi, polo bianca e sandali bianchi. La sua abbronzatura – nutrita ogni giorno nel giardino di casa o in riva al fiume – era sfolgorante, come pure i suoi capelli, che nel corso dell’estate avevano assunto riflessi ramati. Ma quella mattina il suo viso sembrava minuto e smunto, e il suo «Salve» quasi non si udì mentre si dirigeva in cucina per provare a mandar giù un po’ di cibo in quel suo corpo lungo e formoso… Il suo corpo. Il suo corpo lungo e formoso! Lucy comprese all’istante le condizioni di Ellie.

Mio Dio, è successo. A Ellie Sowerby. Julian Sowerby partì con le sue mazze per il campo da golf di Winnisaw, e i giovani acconsentirono a rinunciare alla canoa e a seguire il consiglio di Mrs Sowerby: passare la giornata in un bel posto ombroso nell’area picnic. Ma, pur al riparo di un albero, la temperatura continuava ad alzarsi; intorno all’una a Ellie cominciò a girare la testa, così salirono sull’auto di Roy e tornarono dai Sowerby. La casa era silenziosa. Gli avvolgibili della camera da letto dei genitori erano abbassati, a quanto pareva Mrs Sowerby stava facendo ur sonnellino; e l’auto di famiglia ancora non c’era, un fatto chi provocò in Ellie una certa costernazione. A quanto pareva, si era aspettata di trovare suo padre già a casa. - Vuoi che vada a svegliare tua madre, El? – domandò Joe. – No, no. Sto bene. Joe e Roy decisero di andare in giardino ad ascoltare la partita dei Sox sulla radiolina dei Sowerby. Ellie chiese a Lucy di salire in camera con lei.

Una volta lì, chiuse la porta a chiave, si gettò sul letto e, sotto il baldacchino d’organza bianca, scoppiò a piangere. I’ Lucy guardò la sua amica che si abbandonava alla disperazione. Sul prato di sotto vide il responsabile che prendeva una mazza da croquet e cominciava a tirare la palla fra i wicket. Nel giro di due giorni Joe avrebbe cominciato l’allenamento football per le matricole all’Università dell’Alabama. In parte erano stati i ricordi di Ellie della vita nel Sud durante i primi anni della guerra a spingere Joe ad accettare la borsa di studio in Alabama. Sarebbe partito il giorno dopo… ma sarebbe ancora partito? O forse adesso Ellie sarebbe andata con lui. Era stato Roy a organizzare la gita di quel giorno, e a f preparare a sua madre un pranzo per la festa di addio a Whetstone, che era arrivato a considerare il suo migliore amico. Lucy da parte sua aveva sempre trovato Joe noiosissimo. Certo, era un grande atleta, a quanto si diceva, e bisogna ammettere che era attraente, con quella sua aria gagliarda se ti piaceva il genere, però non aveva una sola idea propria su qualsivoglia argomento. Qualunque cosa si dicesse, Joe proclamava d’accordo. A volte le veniva voglia di recitar la Dichiarazione d’Indipendenza, giusto per vederlo annuire e sentirlo dire, dopo ognuna di quelle celebri frasi: «Puoi scommetterci, proprio così, giustissimo, anche mia mamma dice sempre…» La tentazione di smascherarlo per quell’imbecille che era la coglieva soprattutto quando Roy faceva il suo meglio per metterlo a proprio agio, raccontando aneddoti divertenti su quando stava su nelle Aleutine, o mettendosi a parlare di una certa squadra di football università che lui e Joe chiamavano «Crimson Tide» e per cui di solito Roy non nutriva il minimo interesse. Ma non aveva mai ceduto alla tentazione; non aveva nemmeno confidato a Ellie la sua vera opinione su Joe Whetstone. E adesso era troppo tardi. Adesso Joe aveva messo Ellie nei guai, i peggiori guai che potessero capitare a una ragazza. E pareva che non se ne rendesse neanche conto. Roy gridò a Joe: – Appling alla battuta. Due in base. Zero a zero. - Vai, Luke, – disse Joe, riuscendo a far passare la palla di legno in un wicket all’estremità opposta del prato. – Ehi, Joe il Braccio, – disse. - Oh, accidenti, disse Roy amareggiato, – sventolata a vuoto. Primo strike. - Dai, Lukey, ragazzo, – disse Joe, brandendo la mazza come un battitore pronto a ricevere la palla. – Ehi, – disse Joe, – Stan the Man, – e fece girare la mazza colpendo una palla immaginaria. – Corri, corri… - Foul! disse Roy. - Porca miseria, – disse Joe, – troppo forte. – Shhh, disse Roy, gettando una rapida occhiata verso la casa mentre Joe si lasciava cadere sul prato ridendo…. E il college adesso? E i Sowerby?

E il futuro di Ellie, se avesse dovuto sposare Joe Whetstone? E se lui lo sapeva già e non gliene fregava niente? Magari lui voleva sposarla, ma Ellie piangeva perché lei invece non voleva sposarlo! - Devo… devo raccontarlo a qualcuno, – disse Ellie, girandosi verso Lucy e stringendosi al petto il cuscino. - Che cosa? – disse Lucy con voce sommessa. – Raccontare che cosa, Ellie? Ellie spinse di nuovo la testa nel cuscino e ricominciò a piangere. Aveva fatto una stupidaggine. Una terribile stupidaggine. La sua vita non sarebbe mai più stata la stessa.

- … Perché? Che cosa c’è? Aveva ascoltato di nascosto la telefonata di un’ altra persona. – E non è nemmeno la prima volta, disse, singhiozzando. Allora non è incinta. Sotto, Roy disse: – In base!

- Forza, Sox, – disse Joe. – Andate a segno, ragazzi! – E’ uno in casa base! – gridò Roy. – E un altro! Due a zero. In tono petulante, Lucy disse: – Che cosa intendi? Ellie, non ti capisco. - Ho ascoltato di nascosto la telefonata di un’altra persona… ed è stato tremendo. - E chi è quest’altra persona? - Oh, Lucy, non voglio che mia madre lo sappia. Mai! - Sappia che cosa? - La porta è chiusa a chiave? – domandò Ellie. - L’hai chiusa tu, – disse Lucy spazientita. - Allora… vieni a sederti qui. Sul letto. Non voglio urlare. Oh, non so cosa fare. E’ una cosa tremenda… E’ da tanto tempo che cerco di raccontartelo. Avevo bisogno del consiglio di qualcuno con cui potessi parlarne… Ma non ci riuscivo. E dovevo. Oh, però… però, Lucy, me lo devi promettere. Non devi dirlo a nessuno. Neanche a Roy.

Soprattutto non a Roy. - Ellie, non capisco neanche che cosa stai… - Mio padre! – disse Ellie. – Lucy, non lo dire a nessuno. me lo prometti? Me lo devi promettere, Lucy. Ti prego, che posso raccontartelo. - Prometto. - Mio padre ha delle donne! proruppe Ellie. – Di nascosto! Lucy accolse quelle parole con equanimità: era come Eleanor avesse finalmente confessato una verità che in cuor suo lei aveva sempre saputo. - E non è tutto, – disse Ellie. Lucy… dà loro dei soldi. - Sei sicura? -Sì. – Come fai a saperlo? L’ho sentito nella telefonata -. Chiuse gli occhi. – Parecchi soldi, disse, e le lacrime le solcarono le guance, finendo sulla polo bianca.

In quel momento udirono la porta della camera dei Sowerby che si apriva, in fondo al corridoio. – Cara, sei qui? – chiese. - Sì. Anche Lucy.

Stiamo solo parlando, mamma. - Ti senti bene? - E’ venuto troppo caldo, mamma, – disse Ellie, asciugandosi freneticamente gli occhi. Però mi sento bene. Davvero. C’erano quasi quaranta gradi. Ed era pieno di insetti. E di gente. C’era tutta Winnisaw. Per un istante non si sentì nulla; poi Mrs Sowerby scese le scale. Nessuna delle due ragazze parlò finché sotto non si aprì la porta a zanzariera e Joe disse: – I Sox sono in vantaggio, Mrs Sowerby, quattro a zero. - Eccola, – disse Roy, – proprio la persona giusta con cui parlare di baseball. Ehi, zia Irene, di’ a Joe in che squadra gioca Luke Appling. No, no, spiegagli che cos’è una smorzata. Su, dagli la tua bella definizione di smorzata.

Si continuavano a sentire Roy e Joe che nel prato sul retro stuzzicavano Mrs Sowerby sulla sua incompetenza in fatto di sport, mentre lei cortesemente si lasciava prendere in giro… e intanto al piano di sopra Eleanor raccontava a Lucy l’intera storia.

Era cominciato tutto circa un anno prima, una sera d’estate in cui lei e il padre erano a casa da soli. Erano le undici passate e lei era già a letto quando a un tratto le era venuto in mente che si era dimenticata di dire a Judy Rollins di non parlare con nessuno di una cosa che le aveva raccontato, così aveva allungato una mano e aveva sollevato la cornetta del telefono sul comodino. Ovviamente, appena si era accorta che suo padre stava parlando dal telefono di sotto, si era resa conto che avrebbe dovuto riagganciare. Solo che era rimasta stupefatta riconoscendo la voce all’altro capo come quella di Mrs Mayerhofer, che gestiva la lavanderia a gettoni di suo papà a Selkirk, una donna di cui lui si lamentava sempre con la moglie. Mrs Mayerhofer era, diceva lui, un po’ lenta di comprendonio; in pratica non c’era una sola cosa che non le dovesse spiegare dieci volte prima che la afferrasse. La teneva quasi solo per compassione – abbandonata dal marito, aveva un figlio appena nato da mantenere – e perché, a differenza di colei che l’aveva preceduta, l’insigne Mrs Jarvis, pareva che Mrs Mayerhofer non facesse man bassa del ricavato. Al telefono, suo padre stava dicendo che non sarebbe riuscito ad andare a Selkirk fino alla fine della settimana, perché aveva troppo da fare lì a Liberty Center, e Mrs Mayerhofer stava dicendo che non pensava di poter aspettare fino alla fine della settimana, ed Ellie ricordava di aver pensato: «Cavoli, che deficiente», finché non aveva sentito il padre che rideva dicendo che nel frattempo avrebbe dovuto accontentarsi della solita borsa dell’acqua calda. Mrs Mayerhof aveva riso e, disse Ellie, lei si era sentita come se le ossa e sangue e ogni cosa dentro di lei fossero diventati di pietra. Aveva affondato la cornetta nel cuscino e ce l’aveva tenuta per quella che le era parsa un’eternità; quando alla fine era tornata a portarsela all’orecchio, la linea era libera… e così aveva chiamato Judy Rollins.

Cos’altro avrebbe potuto fare“ Questo era accaduto subito prima che lei e Lucy facessero amicizia, disse Ellie. In realtà, moriva dalla voglia di raccontare a Lucy quello che aveva origliato, però si vergognava tanto e si sentiva così in imbarazzo – e anche sempre più certa di non aver frainteso quel che aveva sentito, che aveva deciso per il momento di non vedere più Lucy, piuttosto che rischiare di rovinare la loro amicizia attirando il ridicolo su di sé e sulla propria famiglia. Sul momento le parole di Ellie confusero Lucy, e non solo a causa del modo disordinato in cui la sua amica si era spiegata. Doveva chiarire nella propria testa le ripercussioni di tutto quel che Ellie aveva detto, cioè, le ripercussioni su di lei. La notte restava sveglia, stava dicendo Ellie, sveglia per ore e ore, terrorizzata dall’idea di origliare di nuovo un’altra conversazione simile… e poi tirava su piano la cornetta. Era un incubo; non voleva coglierlo sul fatto, e non riusciva a smettere di provarci. Poi, quell’inverno, una sera il padre era tornato a casa dicendo che Mrs Mayerhofer («quel prodigio d’intelligenza» fu la sua espressione) se l’era filata; scomparsa dal suo appartamento di Selkirk con il bambino, bagagli e tutto. Il giorno dopo aveva fatto un colloquio e assunto un’altra donna. La prescelta si chiamava Edna Spatz. E questo era quanto. Non l’aveva mai più sentito al telefono con Mrs Mayerhofer, né aveva motivo di sospettare Edna Spatz.

Eppure ogni volta che suo padre andava alla lavanderia di Selkirk, lei era certa che andasse a tradire sua madre, benché sapesse anche che Edna Spatz aveva un marito e due figli piccoli a Selkirk. Era stato più o meno in quel periodo che lei e Lucy avevano ripreso a vedersi e, in innumerevoli occasioni, Ellie avrebbe voluto sfogarsi con lei raccontandole tutta quell’orribile storia di Mrs Mayerhofer. Solo che mrs Mayerhofer era terribilmente ottusa e incolta. Perciò suo padre non poteva farsela con lei, non poteva proprio. Non se lo sarebbe mai nemmeno sognato. O almeno di ciò si era convinta, fino alla sera prima.

Si trovava sulle scale quand’era squillato il telefono, così era corsa su in camera pensando fosse Joe, che aveva promesso di chiamarla intorno alle nove. Nel frattempo suo padre aveva risposto al telefono di sotto.

- Lascia stare, principessa, – le aveva gridato, – è per me -. Lei aveva gridato di rimando: – Va bene, papà, – ed era andata dritta in camera, aveva chiuso la porta e, senza rendersi nemmeno conto che stava per farlo, aveva sollevato con circospezione la cornetta. Sulle prime non riusciva nemmeno a sentire le parole che venivano dette. Era come se avesse un cuore che le batteva nella testa, e un altro in gola, e il resto di lei semplicemente non esistesse. All’altro capo c’era la voce di una donna. Se si trattasse di Edna Spatz, non lo sapeva. Era arrivata a figurarsi Mrs Spatz come non meno tarda di Mrs Mayerhofer, e il problema con la voce all’altro capo era che invece sembrava sveglia… e giovane. La donna stava dicendo che, se non fosse riuscita a coprire l’assegno, non sapeva cosa ne sarebbe stato di lei. Suo padre aveva detto che se ne sarebbe occupato lui in un altro momento – e non per telefono. Bisbigliava nella cornetta, ma era arrabbiato. La donna aveva cominciato a piangere. Aveva detto che l’agenzia aveva minacciato di trascinarla in tribunale. Lo chiamava Julian, Julian, e piangeva. Aveva detto che gli chiedeva scusa, sapeva che non avrebbe dovuto chiamarlo, aveva fatto il numero e poi riagganciato cinque o sei volte in quel fine settimana, ma a chi altri avrebbe potuto rivolgersi se non a Julian, Julian? A quel punto Ellie aveva sentito di non poter sopportare di ascoltare un’altra parola. La donna sembrava così infelice… e così giovane! Perciò aveva di nuovo affondato la cornetta nel cuscino, ed era restata lì senza sapere cosa fare. Uno o due minuti dopo, il padre l’aveva chiamata da sotto. Lei aveva rimesso a posto il telefono il più silenziosamente Possibile ed era subito scesa, chiacchierando allegramente come nulla fosse. Sapeva che lui osservava ogni sua espressione per capire se aveva origliato, ma era sicura di non essersi tradita in alcun modo. Continuava a parlare di Joe questo e Joe quello, e si era subito seduta sul divano quando lui l’aveva invitata a mettersi vicino a lui – «Vieni a farmi compagnia Daisy Mae» – e addirittura si era lasciata prendere la mano mentre guardavano insieme la tv e mangiavano le ciliegie; Era quello il motivo per cui si era ingozzata con tutte quelle schifezze; aveva paura di smettere per timore di dargli l’impressione che qualcosa la turbasse. E per tutto il tempo, si era seduta con lui sul divano, le venivano i pensieri più assurdi che aveva una sorella più grande di cui non sapeva niente, e che era stata lei a telefonare per chiedere al padre di man darle dei soldi. Ovviamente la sorella esisteva solo nella su immaginazione, ne era consapevole – e così aveva cominciato a pensare di essersi inventata l’intero episodio.

- Lucy, sono così confusa… e desolata! Perché non so. Secondo te è vero? - Cosa è vero? - Quello che ho sentito. - Be’, l’hai sentito, no? - Non lo so. Sì! Però chi è? Chi potrebbe essere?

La mia povera mamma – disse, riprendendo a piangere disperata, non lo sa nemmeno. Nessuno lo sa. Nessuno tranne te e me, e lui… e lei!

Tutti i giovani furono invitati a fermarsi dai Sowerby per una cena in giardino: panini al rosbif, pannocchie di mai torta di mele e gelato – a parte Ellie, che ebbe un consommé, metà del quale rimase nel piatto. Mr Sowerby offrì ai due ragazzi una bottiglia di birra ciascuno, nonostante il disappunto di Mrs Sowerby. – Dài, nel giro di una settima saranno al college. Grazie al qui presente Roy abbiamo vinto la guerra contro il Polo Nord. Un po’ di birra gli farà solo bene, gli verrà un po’ di pelo sullo stomaco. Joe bevve un sorso e posò il bicchiere; Roy si attaccò rettamente alla bottiglia. Poi si sbottonò la camicia e guardò dentro. Niente, – disse. Restarono nel prato fino a molto dopo il tramonto.

Ellie era allungata su una sedia a sdraio, al riparo di una coperta di lana da cui spuntava solo la testa, che sembrava molto, molto piccola.

Roy sedeva sull’erba, con la bottiglia di birra in mano, e ogni volta che beveva un sorso la sua testa piegandosi all’indietro toccava le gambe di Lucy. Joe Whetstone era sdraiato sulla pancia, con il mento poggiato sui due pugni. Stava guardando il cielo, e di tanto in tanto diceva: «Cavoli, oh, cavoli. Ma guardatele». Roy disse che sotto le armi aveva conosciuto un tizio che credeva nelle stelle. Joe disse: – Sul serio? - Dico davvero, – disse Roy, – per certa gente è come una religione. - Sul serio, – disse Joe. – Mi chiedo quante siano, in effetti. Julian Sowerby chiese come stava la sua principessa. – Meglio, - rispose lei dopo un momento. - Secondo me ti manca casa tua, disse Julian Sowerby, prima ancora di averla lasciata. - Cavoli, mi sa che può succedere, – disse Joe. - Certo, certo. Nostalgia di casa, più tutto quel gelato alla vaniglia con, a quanto mi dicono fonti affidabili, un po’ di crema e, come se non bastasse, noci… – Roy! protestò debolmente Ellie. Roy e Joe risero. - Roy, non prenderla in giro, – disse Mrs Sowerby. - Scusa, Ellie cara, – disse Roy. Julian si accese un sigaro. – Gradisci, Joe? - Oh, no, signore, – disse Joe. Devo tenermi in forma. - Non ti fa certo male al ditone, ragazzo, - disse Julian. - No, grazie lo stesso, Mr Sowerby. Mi spiace anche per la birra. - La scarico dalle tasse, – disse Julian, facendo ridere Joe. ~ E tu, generale? – chiese a Roy. - Certo, – disse Roy, – se è buono. Lancia. Julian gli tirò un sigaro.

– Quattordici dollari e mezzo a scatola, non lo definirei erbaccia, saputello. Il fumo del sigaro salì intorno alla testa di Roy. – Non male, – disse, tenendolo lontano col braccio teso e soffocando un colpo di tosse. Un vero intenditore, – disse lo zio Julian. Di solito a Lucy dava fastidio vedere Roy che fumava sigaro o beveva birra, due cose a cui lui non teneva più tanto. Ma quella sera c’erano faccende su cui rimuginare più gravi del fatto che Roy facesse lo spaccone con suo zio. C’era quello stesso zio, il cui segreto era stato finalmente rivelato, c’era Ellie, che conosceva il suo segreto; c’era Mrs Sowerby che non lo conosceva; e poi c’era lei. In tutti quei mesi aveva sempre creduto che Ellie fosse indifferente al suo passato, e a un tratto era chiaro che non era stato altro che il suo passato a spingere Ellie a fare amicizia con lei a settembre e a riallacciare quell’«amicizia» a febbraio. Era una scoperta sconcertante. Per tutto quel tempo aveva pensato, così stupidamente, così innocentemente, così ingenuamente, di non essere, per Ellie Sowerby, la ragazza il cui padre si sbronzava all’Earl’s Dugout, e nemmeno la ragazza che era finita sulla bocca di tutti chiamando la polizia per farlo portar via, mentre invece era stata esattamente quello. E null’altro. Quel pomeriggio, aveva sofferto molto quando si era resa conto che ciò che in lei aveva attratto Ellie era proprio quel passato a cui non avrebbe mai più voluto pensare per tutto il resto della sua vita. E si era anche arrabbiata. A un certo punto aveva avuto la tentazione di insorgere indignata e spiegare a Ellie che cosa esattamente pensava di lei. «Vuoi dire che io per te sono questo, Ellie?

Che è questo il motivo per cui mi volevi come amica? Hai la faccia tosta di ammettere che quando mi hai scaricata è stato perché credevi di non avere più bisogno di me? E comunque cosa avrei dovuto fare di preciso per te in cambio del favore di lasciarmi indossare il tuo prezioso maglione?» E così via, ma solo nella sua testa. Sulle prime aveva tenuto a bada la rabbia in modo da poter ascoltare fino in fondo la storia dell’inganno di Julian Sowerby ma, ancor prima che Ellie avesse finito, aveva cominciato a interpretare l’attrazione di Ellie per lei in modo del tutto diverso. In realtà Ellie la ammirava. Il suo coraggio. Il suo orgoglio. La sua forza. Non si trattava forse di un modo più profondo, più vero, di vedere la cosa? Ellie Sowerby, con tutti i suoi vestiti, e i ragazzi, e la bellezza, e i soldi, si era rivolta a lei in cerca di aiuto e consiglio… a lei. Dunque, che cosa avrebbe dovuto fare Ellie?

Che cosa? La sua mente cominciò a passare in rassegna le diverse possibilità. - Ehi, cos’ha stasera la biondina? – stava chiedendo Julian. – Il gatto le ha mangiato la lingua, a questo bocconcino? – Oh, no. - Pensi al college, vero, Lucy? – disse Mrs Sowerby. -Sì. – Sarà un’esperienza meravigliosa per tutti voi, – disse Irene Sowerby. Saranno i quattro anni più belli della vostra vita. - Lo dice anche mia mamma, Mrs Sowerby, – disse Joe. - Sì, vi farà un gran bene, a tutti voi, – disse Mrs Sowerby, – stare fuori casa. Povera Mrs Sowerby.

Povera donna. Quant’era mortificante. Quant’era sbagliato. Quant’era ingiusto… Era la prima volta che il cuore di Lucy si apriva alla madre di Ellie. Finalmente capiva che era qualcosa di più di una sua potenziale nemica. Comprendere che Mrs Sowerby soffriva significava in qualche modo comprendere che esisteva, aveva una vita, aveva moventi e ragioni che non avevano nulla a che fare con il frustrare e contrastare Lucy Nelson. Ma a dire il vero non l’aveva mai contrastata. La decisione presa da Ellie a settembre quando aveva smesso di vederla non aveva avuto, per sua stessa ammissione, nulla a che fare con le indicazioni ricevute dalla madre. Solo adesso Lucy capiva che in tutti quei mesi Mrs Sowerby non era mai stata altro che gentile nei suoi confronti. Forse i suoi modi erano un po’ all’antica e il suo atteggiamento un po’ altero, ma che cosa c’era di tanto sbagliato? Che male aveva mai fatto a Lucy? Santiddio, non era Mrs Sowerby a essere di vedute ristrette, ma Lucy!

Avrebbe dovuto vergognarsi dei suoi sospetti. Anche la volta in cui aveva messo uno dei maglioni di cashmere di Ellie, probabilmente l’esasperazione di Mrs Sowerby era dettata dalla malcelata condiscendenza di Eleanor, e non dalla disapprovazione per cupidigia di Lucy verso gli abiti di sua figlia. Era una persona paziente, garbata e comprensiva: bastava vedere come trattava non solo Lucy, ma anche Roy.

Lei sola, fra tutti i parenti, sembrava prendere sul serio i suoi problemi e i suoi dilemmi; solo lei gli portava davvero rispetto. Chi altri ave va la dignità, la padronanza di sé, di Mrs Sowerby? Non le veniva in mente nessuno. E questa era la ricompensa per la sua dignità?

Era così che Julian Sowerby aveva deciso di esprimere il suo rispetto e la sua gratitudine per una donna così fine e generosa. Se anche si dava il caso che dovesse indossare speciali calze elasticizzate; se anche invecchiando tendeva a ingrassare se anche i suoi capelli cominciavano a ingrigire, erano forse motivi sufficienti perché venisse ingannata, disonorata, respinta da quel nanerottolo, da quel maiale fanfarone e donnaiolo? Biondina! Bocconcino! Che razza di individuo! Che disgustoso impostore! Eppure in cuor suo lei l’aveva sempre saputo. Era quella cosa incredibile. Che cosa avrebbe dovuto fare Ellie? Dirlo a sua madre; Dirlo allo zio Lloyd? O avrebbe dovuto parlare direttamente col padre, in modo da evitare che sua madre lo venisse a sapere? Sì, andare da lui; e se prometteva di mettere fine a quelle sue relazioni con le donne, se prometteva di non riprenderle più… O forse prima avrebbe dovuto scoprire chi era quella donna. E andare da lei. Sì, e intimarle di interrompere all’istante ogni rapporto con suo padre, se non voleva essere denunciata… o addirittura incarcerata, se fosse scoperto (come probabile) che era una prostituta che vendeva i suoi servigi a uomini come Julian Sowerby. O forse Ellie avrebbe dovuto mantenere il segreto, attendere il momento opportuno, aspettare che il telefono squillasse di nuovo… e poi sollevare la cornetta dell’altro apparecchio invece di seppellire la verità nel suo cuscino, invece di starsene semplicemente lì come una sempliciotta a sopportare il suo tradimento, mettervi fine una volta per tutte: «Sono Eleanor Sowerby, la figlia di Julian Sowerby.

Vorrei sapere lei chi è, per favore». Tutt’a un tratto, un’aria fresca e frizzante come non sentiva da mesi calò sui Sowerby e sui loro giovani ospiti. - Wow, – disse piano Joe. Eccitato, si tirò su a sedere. E’ autunno. E’ arrivato l’autunno. - Ehi, portiamo dentro casa questa principessa, – disse Julian Sowerby. Si alzò e si stirò, così che il sigaro sopra la sua testa ondeggiò come una sorta di segnale luminoso. Buona idea, – disse Joe. Lui e Roy dissero a Mrs Sowerby che, siccome era la serata libera della domestica, avrebbero portato loro dentro i piatti sporchi. Le impedirono con grandi proteste di toccare alcunché, e la fecero entrare subito in casa. Mr Sowerby si mise a piegare le sedie, e Roy si mise a fischiettare Autumn Leaves e a raccogliere l’argenteria.

Mentre impilava i piatti, Joe gli disse: – Ti rendi conto, ragazzone, che domani a quest’ora… A un tratto Ellie si trovò accanto a Lucy, e le bisbigliò qualcosa all’orecchio.

- Come? – disse Lucy. - … dimentica tutto. - Cosa intendi? - Intendo: lascia perdere! – Ma… allora che cosa è successo? - Ehi, le mie due giovanette, – disse Julian, facendo l’accento irlandese. – Basta risatine, adesso filate dentro. Si avviarono svelte attraverso il prato. Ellie ebbe un fremito, si tirò la coperta sopra i capelli e si mise a correre verso la porta aperta. Lucy sibilò: – Ma, Ellie, che cosa hai intenzione di fare? Ellie si fermò. – Io… io… - Cosa? - Oh, tanto vado alla Northwestern. - Ma, – sussurrò Lucy, prendendola per un braccio, – e tua madre? Ma alle loro spalle arrivarono di gran carriera Roy e Joe. «Permesso! Roba che scotta! Attente, signore!» – e le avrebbero sentite se avessero detto altro. E poi subito Julian Sowerby le prese entrambe a braccetto e, ridendo, le fece correre fin dentro casa. Il giorno dopo, Joe partì per l’Alabama, e poi Ellie fu impegnatissima a far compere e bagagli, ed era quasi sempre in compagnia della madre, che pareva ancora ignara di quanto accaduto alle sue spalle. Le poche volte che erano insieme, Lucy non riusciva nemmeno ad aprire bocca che già Ellie aveva detto «Shhh, dopo», oppure «Lucy, non importa, davvero», e infine: Senti, mi ero sbagliata. - Come? - Avevo capito male, sì, ne sono sicura. -Ma… - Per favore, devo andare al college! Quando si congedarono, era come se non fossero più amiche, se mai lo erano state.

Ellie e i suoi partirono per Evanston il secondo fine settimana di settembre e, il lunedì dopo, in un giorno che Lucy aveva segnato sul calendario con cinque cerchi neri, partirono lei e Roy, con l’auto piena di bagagli, per cominciare la loro vita di studenti a Fort Kean.

CAPITOLO TERZO

Nella seconda settimana di novembre svenne due volte, la prima in un séparé dell’Old Campus Coffee Shop e, il pomeriggio dopo, al momento di alzarsi alla fine della lezione di inglese. All’ambulatorio per gli studenti, un edificio militare trasformato in infermeria, disse al medico che secondo lei soffriva di anemia. Era sempre stata piuttosto pallida, e d’inverno la punta delle dita dei piedi e delle mani le diventava bianca e gelata quando faceva molto freddo. Dopo la visita si rivestì e sedette nello studio su una sedia che il medico aveva tirato indietro per lei. Il medico le disse che a suo parere il problema non era dovuto alla circolazione del sangue nelle estremità. Guardando fuori dalla finestra, le chiese se ultimamente aveva avuto problemi con il ciclo. Lei disse di no, poi disse di sì, e poi, abbrancando giacca e libri, corse fuori dalla porta. Nell’angusto corridoio le vennero le vertigini, ma questa volta la sensazione durò solo un secondo. Appena chiusa la porta della cabina telefonica nella caffetteria, si rese conto che Roy sarebbe stato a lezione. Rispose la padrona di casa, Mrs Blodgett, e Lucy riattaccò senza parlare. Pensò di fare il numero della scuola e chiedere che lo andassero a chiamare; ma poi cosa gli avrebbe detto? La strana sensazione che cominciava a provare – mentre la prima ondata di confusione lasciava il posto alla seconda, ancora più travolgente – era che in ogni caso lui non c’entrava niente. Si sorprese a ragionare come una bambina che non conosce i fatti della vita, che considera la gravidanza una cosa che una donna fa a se stessa, o che semplicemente le capita se la desidera davvero tanto. Nella sua stanza, guardò tutti quei ridicoli segni che aveva tracciato sul calendario.

Solo il sabato precedente, dopo che Roy dal cinema l’aveva riaccompagnata in macchina allo studentato, aveva tracciato un grosso cerchio nero intorno al giorno del Ringraziamento. A un tratto fu presa dal terrore, andò in bagno e si chinò con la bocca aperta sopra la tazza? ma non riuscì a rigettare che qualche filamento di liquido marroncino. Il terrore rimase. Quella sera non rispose quando la ragazza di turno bussò alla porta della sua stanza e disse che c’era Roy al telefono. Alle otto del mattino, mentre le altre ragazze scendevano in massa verso il refettorio o correvano a lezione, Lucy si precipitò di nuovo in infermeria. Dovette aspettare su una panca in corridoio fino alle dieci, quando finalmente il medico arrivò. – Sono stata qui ieri, disse. – Lucy Nelson.

- Entra. Accomodati. Prima che cominciasse a parlare, il medico andò alla porta e la chiuse bene. Quando tornò alla scrivania, lei gli spiegò che non voleva un bambino. Lui spinse un po’ indietro la sedia e accavallò le gambe. Non fece altro. - Dottore, sono una matricola. Una matricola al primo semestre. Lui non disse niente. - Lavoro da anni per andare al college. La sera. A un baraccone di bibite alla spina. Su a Liberty Center. E’ da lì che vengo… Lavoro anche d’estate, sono tre anni che passo l’estate a lavorare. E ho una borsa di studio per l’aiuto al sostentamento. Se non me l’avessero data, probabilmente non avrei potuto fare l’università… per via dei soldi -. Ma non voleva appellarsi alla povertà, o alla mancanza di risorse. Quel che doveva fargli capire era che lei non era debole, era forte e aveva affrontato molte avversità, e aveva sofferto tanto, non era una diciottenne qualunque. Non era semplicemente che avesse bisogno di aiuto; se lo meritava. – Questa è la mia prima vera esperienza fuori casa, dottore. La aspetto tutta la vita. Risparmio per potermela permettere. Da allora vivo in funzione di questo. Lui continuava ad ascoltare.

- Dottore, non sono una ragazza facile, lo giuro. Ho solo diciott’anni! Mi deve credere! Fino a quel momento il medico aveva tenuto gli occhiali alzati sulla fronte. Adesso se li abbassò sul ponte del naso. - Non so cosa fare, – disse lei, cercando di recuperare il suo autocontrollo. Lui continuava a mostrarsi impassibile. Aveva soffici capelli grigi e occhi gentili, ma si limitava a grattarsi il fianco del naso. - Non so cosa fare, – ripeté lei.

- Davvero non lo so. Il medico incrociò le braccia. Si dondolò un poco con la sedia.

- Dottore, non avevo mai avuto un ragazzo. Lui è stato il primo. E’ la verità… lo giuro. Il medico si voltò con la sedia e si mise a guardare fuori dalla finestra, verso la «Bastiglia», come le ragazze chiamavano l’edificio principale. Si era di nuovo alzato gli occhiali, e adesso si stava strofinando gli occhi. Forse era stato in piedi tutta la notte per un’emergenza, ed era stanco. Forse stava pensando a cosa dire. Forse non stava nemmeno ascoltando. Lavorava lì all’ambulatorio quattro mattine alla settimana per due ore, perciò cosa gliene importava? Aveva uno studio suo di cui preoccuparsi; quello era per arrotondare. Forse stava solo facendo passare il tempo prima di mandarla via lasciandola marcire nel suo brodo. Tornò a volgersi verso di lei. – E il giovanotto dov’è? – chiese. - … Qui. - Parla forte, Lucy. Dove? Si sentì improvvisamente mansueta. O forse protettiva? - A Fort Kean. - E adesso che se l’è spassata, tanti saluti, immagino. - Come? – sussurrò lei. Si stava strofinando le tempie con la punta delle dita. Stava pensando. L’avrebbe aiutata! – Ma voi ragazze non lo sapete a cosa mirano? – domandò con voce suadente e infelice. – Non ve l’immaginate come reagiranno quando succede una cosa così? Una ragazza intelligente e carina come te, Lucy. A cosa pensavi?

Le si riempirono gli occhi di lacrime sentendolo pronunciare il suo nome. Era come se fosse la prima volta in cui lo sentiva. Sono Lucy. Sono intelligente. Sono carina. Oh, la sua vita era appena all’inizio! Le era accaduto così tanto* nell’ultimo anno… nell’ultimo mese. C’era già una ragazza, al suo piano che conosceva un ragazzo con cui voleva sistemarla. Solo che non c’era mai occasione di presentarglielo, con Roy che passava ogni singola sera, anche solo per fare un salto a salutare. Finalmente, finalmente era fuori casa… e cominciava a essere carina! Perché mai, perché mai si era messa con lui?

Perché la chiamava angelo? Perché le scattava quelle foto? Perché le cantava all’orecchio quelle stupide canzoni? Quel citrullo non aveva la minima idea di com’era lei veramente. Per tutta l’estate si era comportato come se fosse stata una ragazza che non era – come se fosse stata una specie di Scimmia Littlefield. E lei glielo aveva permesso.

Lei gli aveva permesso di comportarsi da stupido! E ora questo! Solo che questo era quel che accadeva alle ragazze d campagna, alle ragazze che non studiavano, che mollavano la scuola, che scappavano di casa. A Babs Egan, non a lei. Lei non ne aveva già passate abbastanza? – Dottore, non lo so a cosa pensavo -. Scoppiò a piangere, suo malgrado. – Voglio dire che ultimamente a volte non so quello che faccio-. Si coprì il viso con le dita. - E il ragazzo? - Il ragazzo? – disse lei inerme, sfregandosi via le lacrime. – Cos’ha in mente di fare? Scappare nei Mari del Sud? - Oh, no, – gemette lei, più triste che mai, – no, lui mi sposerebbe domani, – e un istante troppo tardi si rese conto di aver detto la cosa sbagliata. Era la verità, ma era la cosa sbagliata da dire. - Ma tu invece non vuoi -. Il medico le stava parlando. Sollevò un poco gli occhi dal grembo. – Non ho detto questo.

- Devo sapere come stanno le cose, Lucy. Lui vuole, tu no. Si alzò. – Ma sono qui da neanche tre mesi! Sono una matricola al primo semestre! Lui stava di nuovo alzandosi gli occhiali. Il suo viso era così vissuto e amichevole… si capiva subito che aveva una famiglia che amava, e una bella casa, e una vita tranquilla e piacevole. – Se il giovanotto vuole sposarti… - Che cosa? Che cosa, se anche vuole sposarmi? – Be’, credo sia una cosa che deve quantomeno essere presa in considerazione.

Non trovi? In tono inespressivo, lei disse: – Non capisco. E non capiva.

- Devi prendere in considerazione i suoi sentimenti. Il suo amore per te. Ammutolita, lei scosse la testa. Lui non la amava. Le cantava solo all’orecchio quelle stupide canzoni. - … quello che lui vuole, – stava dicendo il medico, – e anche quello che si aspetta. – Ma lui non lo sa quello che vuole. - Dici che vuole sposarti. – Oh, non è questo che intendo. Lui dice delle cose, ma non sa neanche lui cosa! Dottore… la prego, lei ha ragione, non lo voglio sposare. Non voglio dirle una bugia. Odio i bugiardi e non dico bugie, e questa è la verità! La prego, centinaia e centinaia di ragazze fanno quello che ho fatto io. E lo fanno con ogni sorta di persone diverse! - Forse non dovrebbero. - Ma io non sono cattiva! – Non riuscì a trattenersi, era la verità: – Sono buona! - Per favore, devi calmarti. Non ho detto che sei cattiva. Sono sicuro che non lo sei. Non devi prendertela per ogni minima cosa prima ancora che abbia finito di dirla. - Mi scusi. E’ un’abitudine. Mi spiace tantissimo. – Non dovrebbero, – ricominciò lui, – perché di solito non hanno l’età per pagare il prezzo se perdono la scommessa. Se si mettono nei guai. Però… - Però, – lui alzò la voce su quella di lei, – hanno l’età per volere l’amore. Lo so. Le vennero di nuovo le lacrime agli occhi. Lei capisce. Perché è quello che è successo a me, proprio come ha detto lei. Esattamente così. - Lucy, ascoltami… - Sì, sto ascoltando? dottore. Perché è proprio questo che è successo. – Lucy, non sei sola in questa storia. Sulle prime lei pensò intendesse dire che c’erano altre ragazze del college nella sua stessa situazione… forse addirittura nelle stanze dell’infermeria più in là lungo il corridoio.

- C’è anche un giovanotto, – disse il medico. -Però… Ascoltami, Lucy. C’è un giovanotto, e ci sono i tuoi genitori. Con i tuoi ne hai già parlato? Lei guardò la gonna scozzese, le sue dita che stringevano la grossa spilla da balia. - Ce li hai dei genitori?

- Sì. Direi di sì. - Secondo me devi superare l’imbarazzo e affrontare il problema insieme ai tuoi genitori. - Non posso. Perché no? - I miei genitori sono terribili. - Lucy, non sei la prima diciottenne che pensa di avere dei genitori terribili. Di sicuro te ne sei accorta, da quando sei qui. - Ma i miei genitori sono terribili. Non sono io che lo penso… è la verità! Lui non replicò. Li ignoro. Non ho niente a che fare con loro. Sono inferiori, dottore, aggiunse, dato che sembrava ancora non crederle. - In che senso? Mio padre beve -. Lo guardò dritto negli occhi. – E’ ubriacone. Capisco, – disse lui. – E tua madre? Di nuovo non riuscì a trattenere le lacrime. – E’ troppo buona per lui.

- Allora non è inferiore, – disse il medico con voce sommessa. - Sì, però avrebbe dovuto lasciarlo già da anni, se avesse un minimo di buonsenso. Un minimo di rispetto per se stessa. Avrebbe dovuto trovare un uomo che fosse buono con lei e la rispettasse -. Come lei, dottore, pensò. Se avesse conosciuto mia madre, e vi foste sposati… Si sentì dire: – Alcuni pensano, qualcuno una volta ha detto, che somiglia a Jennifer Jones. L’attrice. Lui le passò un fazzolettino di carta e lei si soffiò il naso. Non doveva farsi compatire, non doveva piagnucolare, non doveva crollare. Così si sarebbe comportata sua madre. - Lucy, secondo me dovresti andare a casa. Oggi.

Forse tua madre capisce più di quanto immagini. Forse non si arrabbierà.

Da quanto mi dici, secondo me non si arrabbierà. Non rispose. Il medico stava cercando di liquidarla. Esattamente questo stava cominciando a fare. - A quanto pare le vuoi bene. Probabilmente anche lei vuole bene a te. -Ma mia madre non mi può aiutare, dottore. L’amore non c’entra.

E’ proprio l’amore a essere sbagliato in lei. E’ così debole. Così insipida! - Mia cara, dici così perché adesso sei sconvolta… – Ma dottore, loro non mi possono aiutare. Solo lei mi può aiutare, – disse Lucy, alzandosi. – Lei mi deve aiutare! Lui scrollò il capo. – Ma non posso, temo. - Ma lei deve farlo! - Mi rincresce moltissimo.

Possibile che dicesse sul serio? Possibile che comprendesse così bene la situazione eppure non intendesse aiutarla? – Ma non è giusto! protestò. Il medico annuì. – No, non lo è. - E allora cosa intende fare? Starsene lì seduto a tirare su e giù gli occhiali? A pontificare?

A chiamarmi «mia cara»! – Si risedette di scatto. – Oh, mi scusi. Non volevo. Ma perché lei…? Voglio dire, lei lo vede cosa è successo. Lei capisce -. Adesso sentiva di doverlo supplicare, di doverlo convincere di essere nel giusto. – Lei capisce, dottore. La prego, lei è una persona intelligente! - Però ci sono dei limiti. Per tutti noi. La gente può anche volere delle cose, ma ciò non significa che noi possiamo concedergliele. - Per favore, – disse lei arrabbiata, – non mi dica con quel tono cose che già so. Non sono una bambina. Trascorse un momento. Lui si alzò in piedi. - Ma cosa ne sarà di me? Se lei non mi aiuta… Il medico girò intorno alla scrivania. - Non gliene importa niente? – domandò lei. – Cosa ne sarà di tutta la mia vita! Per la prima volta percepì la sua impazienza. Poi lui disse: Signorina, non puoi pretendere da me che io ti salvi la vita. Si alzò anche lei, e andò a piazzarsi di fronte a lui, in piedi accanto alla porta. – Per favore non mi faccia la predica con quel tono di superiorità! Non intendo farmi fare la predica da un perfetto sconosciuto che non sa niente di tutto quello che ho passato nella mia vita. Non sono una diciottenne come tante altre, e non mi faccio fare la predica da lei! - E cosa ti fai fare, invece? – disse lui acido. Come?

- Ti sto chiedendo cosa ti aspetti, Lucy. E’ interessante, disse, – quello che ti aspetti. Hai perfettamente ragione, non sei una diciottenne come tante altre. Aprì la porta. - Ma cosa ne sarà della mia vita? Come può lei essere così crudele con me! - Spero che troverai qualcuno a cui saprai dar retta, – fu, la sua risposta. – Be’, non sarà così, – disse lei in tono basso e agguerrito. - Sarebbe un vero peccato. - Oh, – disse lei, abbottonandosi la giacca, – oh, io spero… spero che lei sia felice, dottore, quando tornerà nella sua bella casa. Spero che sia felice con tutta la sua saggezza, i suoi occhiali e la sua laurea in medicina… e la sua vigliaccheria! - Arrivederci, – disse lui, battendo le palpebre un’unica volta. – Buona fortuna. Oh, non farò affidamento sulla fortuna, dottore. E nemmeno sulla gente.

- Su cosa, allora? - Su me stessa! – disse lei, uscendo a passo di marcia, - Buona fortuna, disse lui piano mentre lei gli passava davanti sfiorandolo, poi le chiuse la porta alle spalle. - Vigliacco, – gemette Lucy mentre si precipitava verso la caffetteria. – Smidollato, – disse fra le lacrime mentre portava la guida telefonica nella cabina in fondo al locale, egoista crudele, senza cuore… – mentre faceva scorrere il dito lungo l’elenco dei medici sulle pagine gialle, immaginando che uno dopo l’altro le avrebbero detto: «Signorina, non puoi pretendere da me che io ti salvi la vita», e che lei si sarebbe trascinata da uno studio all’altro, umiliata, ignorata e maltrattata. Il giorno del Ringraziamento erano tutti seduti intorno al tacchino e Lucy comunicò ai suoi che lei e Roy Bassart avevano deciso di sposarsi. – Cosa? – disse suo padre. Lei lo ripeté. – Perché? – volle sapere lui, sbattendo giù forchettone e trinciante. - Perché lo vogliamo. Nel giro di cinque minuti l’unica persona ancora a tavola era la nonna. Lei sola mangiò tutto fino alla torta di mele e frutta secca mentre al piano di sopra diversi membri della famiglia cercavano, in vari modi, di convincere Lucy ad aprire la porta. Berta però diceva che era stanca e stufa di disordine e tragedia, e non aveva più intenzione di lasciarsi rovinare dall’uno o dall’altro qualunque momento piacevole, anno dopo anno. Roy chiamò alle quattro del pomeriggio. Lucy uscì dalla sua camera per andare al telefono, ma prima di parlare attese che in cucina non ci fosse nessuno. Roy disse che fino alle nove non poteva raggiungerla. Ma come avevano reagito quando glielo aveva detto? In nessun modo. Non glielo aveva ancora detto. Alle nove e mezza telefonò da casa dei Sowerby dicendo che aveva deciso di aspettare di essere nuovamente a casa, da solo con i genitori, prima di dare la notizia. – Però a che ora, Roy? – Non lo so esattamente. Come faccio a saperlo? Più tardi -.

Ma era lui a volerli chiamare da Fort Kean, la settimana prima; era lui, disse lei, a pensare che non c’era niente di male nel fatto che si sposassero, dato che erano una coppia che in ogni caso, probabilmente, presto o tardi si sarebbe sposata. Era lui a… - Senti, – disse Roy, – Ellie vuole parlarti. - Roy! - Ciao, – disse Ellie. – Ciao, Lucy. Scusami se non ti ho scritto. - Ciao, Eleanor. – Ho tanto tanto da studiare. Puoi immaginartelo. Il corso di scienze mi fa dannare. Ehi, c’è da rotolarsi per terra dalle risate a sentire le avventure di Roy in quella scuola, la Britannia. Che razza di posto! E mi sto facendo una bevuta. Ehi, vieni qui da noi. - Devo restare a casa. – Mica ce l’hai con me… perché non ti ho scritto? -No. - Va be’, ci vediamo domani. Ne ho di cose da raccontarti.! Ho conosciuto un ragazzo meraviglioso, – sussurrò. – Volevo quasi mandarti la foto. E’ semplicemente perfetto. A mezzanotte Lucy uscì dalla sua camera per chiamare Roy a casa. – Glielo hai detto? - Ma cosa ti prende?

Dormono tutti. - Non glielo hai detto? - Era troppo tardi. – Ma io ai miei l’ho detto! - Senti, mio padre urla da sopra chiedendo chi è. - Be’, diglielo! - Per favore la pianti di spiegarmi in continuazione quello che devo fare? – replicò lui. – Glielo dirò quando mi… All’improvviso riagganciò. Lei rifece il numero.

Rispose Mr Bassart. – Insomma,, chi è? – chiese. Trattenne il respiro. Senti, niente scherzi a quest’ora, chiunque tu sia. Se sei uno dei miei allievi del pomeriggio, bada che non la passi liscia.

La mattina, telefonò di nuovo. - Ti stavo per chiamare io, disse Roy. - Roy, quando pensi di dirglielo? - Sono solo le otto, non abbiamo ancora fatto colazione. Sta arrivando la zia Irene. Allora glielo hai detto. - Che ne sai? - E’ per questo che tua zia viene da voi! - Che ne sai? E come fai a esserne convinta? Roy, mi stai nascondendo qualcosa? - No. Non puoi aspettare qualche ora che le cose si sistemino? Santiddio. - Perché tua zia viene da voi alle otto del mattino? Chi l’ha chiamata? - Oh, senti, va bene, disse lui a un tratto, – se vuoi proprio saperlo… - Certo! Sapere cosa! - Allora, mio padre vuole che aspetti fino a giugno. – Allora glielo hai detto! - … Quando siamo venuti a casa. - Allora perché ieri sera hai negato? - Perché si dà il caso che volessi darti una buona notizia, Lucy, non una cattiva. Volevo risparmiarti, Lucy, ma tu continui a farmi pressione invece di rispettare i miei tempi. – I tuoi tempi? Roy, di cosa stai parlando? Come facciamo ad aspettare fino a giugno! - Ma lui non sa di quello! - E tu non dirglielo, Roy!

- Devo riagganciare. E’ arrivata. A mezzogiorno chiamò per dire che lui non sarebbe tornato a Fort Kean fino a lunedì, perciò forse era meglio che lei prendesse la corriera domenica sera. - Ti chiamo da una cabina, Lucy. Sto andando da Mr Brunn a recuperare una cosa per mio padre. Devo sbrigarmi… - Roy, per favore, spiegami immediatamente cosa significa questo. - Sto cercando di occuparmi di alcune cose e di appianarle, va bene? Ti spiace? - Roy! Non puoi fare così! Devo vederti, subito!

- Riaggancio, Lucy. -No! - Invece sì. Mi spiace. Quindi preparati. - Se riagganci, vengo all’istante a casa tua. Pronto? Mi senti? Ma la linea era caduta. Chiamò casa di Eleanor. Ellie, sono Lucy. Ho bisogno di parlarti. - Perché? - Oh, non è che anche tu? - … Anche io cosa? - Ellie, una volta sei stata tu ad aver bisogno di parlarmi… adesso sono io ad aver bisogno di parlare con te. Devo sapere cosa sta succedendo, Ellie, vengo subito lì. - Adesso? Lucy, meglio di no… non ora, intendo. - C’è qualcuno a casa? - No. Ma sono tutti… impazziti. - Perché?

- Be’, Roy dice che tu vuoi sposarlo. - E’ lui che vuole sposare me! Ha detto così? - Be’, sì… Cioè, più o meno. Dice che ci sta pensando… Però, Lucy, loro pensano che lo stai costringendo… Uh–uh, sta arrivando qualcuno in macchina. E’ da tutta la mattina che c’è un viavai… Lucy? - Sì? - … E’ vero? - Cosa? - Che lo stai costringendo. -No! - Allora… perché? - Perché vogliamo farlo! Davvero? -Sì! -Ma… - Ma cosa, Eleanor! - Be’… siete così giovani. Siamo tutti giovani. Voglio dire, ’ è una sorpresa. In realtà non lo so neanch’io cosa voglio dire. - Perché sei una cretina, Ellie!

Perché sei una cretina stupida, insipida, egocentrica ed egoista!

Nel tardo pomeriggio prese una corriera per tornare a Fort Kean. Le porte della Bastiglia erano chiuse con una catena, e dovette fare tutto il giro del campus freddo prima di trovare il guardiano. Lui la portò all’ufficio immobili e terre nell’edificio numero tre, la fece accomodare e tirò fuori gli occhiali per cercare il suo nome nell’elenco delle studentesse E tutti quei nomi scritti nel registro le fecero pensare: Scappa. Chi mai l’avrebbe trovata? Nella sua stanza prese a pugni il cuscino, la testata del letto, il muro. Era tremendo. Era orribile. Tutte le altre studentesse d’America in quel momento erano a casa, a divertirsi con gli amici e i parenti. Eppure sua madre l’aveva supplicata, suo nonno l’aveva supplicata, addirittura suo padre le aveva chiesto di restare. Avevano detto che erano soltanto rimasti sconcertati dalla notizia. Non era d’accordo anche lei, ragionavano dall’altra parte della porta, che era una notizia alquanto inattesa? Avrebbero cercato di abituarsi all’idea, se solo non fosse scappata via così in un fine settimana di vacanza. Di primo acchito erano rimasti scioccati, e forse avevano perso la testa. Dopotutto era appena al primo semestre di quella vita universitaria che aveva sognato così a lungo. Ma probabilmente sapeva quel che faceva, se era così convinta come sembrava. Perché non restava fino a lunedì? Quando aveva quindici anni e per conto suo aveva deciso che le sue simpatie in fatto di religione andavano al cattolicesimo, loro si erano forse messi in mezzo? No, lei aveva insistito che era quello che voleva, e loro l’avevano lasciata fare a modo suo. E in seguito, quando aveva cambiato idea ed era tornata presbiteriana, ebbene, anche quella era stata una sua decisione, presa in totale autonomia, senza intromissioni da parte di nessuno in famiglia. E lo stesso valeva per il tamburo rullante. Un’altra decisione presa da lei, che loro avevano onorato e rispettato, finché alla fine aveva deciso di lasciar perdere anche quello. Ovviamente non volevano paragonare la scelta di darsi al tamburo rullante con quella di darsi in moglie a un uomo; ma il loro atteggiamento era stato quello: se preferiva battere sui tamburi invece che riprendere pianoforte (che, le ricordarono, aveva mollato a dieci anni, di nuovo per sua decisione), o iniziare qualcosa tipo la fisarmonica, che era stato il compromesso proposto da papà Will, loro non avevano altra scelta che lasciarla fare a modo suo. La loro famiglia non era una dittatura; era una democrazia, nella quale ogni persona aveva le proprie idee, e per esse veniva rispettata. – Posso non condividere quel che dici, – aveva spiegato papà Will attraverso la porta, – ma lotterò per il tuo diritto di dirlo -.

Perché allora non ci ripensava, invece di tornare di corsa in un college vuoto e desolato? Perché non restava, così che potessero parlarne? In fondo, la nonna preparava dolci da tutta la settimana, e per lei. – Per il giorno del Ringraziamento, – aveva detto Lucy. – Ebbene, tesoro, non è molto diverso, se ci pensi. E il tuo primo fine settimana lungo a casa dal college, ed è chiaro a tutti che… Lucy? Mi stai ascoltando? E suo padre, perché mai si era comportato come se si trattasse di un’immane tragedia? Da quando una qualunque cosa relativa ai sacrifici di lei, alle sofferenze di lei, gli faceva venire le lacrime agli occhi? Lucy non sopportava quella messinscena. E chi lo diceva che avrebbe mollato il college? Suo padre continuava ad andare avanti e indietro lagnandosi: «Io volevo che andasse al college», ma chi lo diceva che non ci sarebbe più andata? Lei aveva solo detto che avrebbe sposato Roy… Oppure loro avevano capito il motivo senza bisogno di ulteriori spiegazioni? Si accontentavano di limitarsi a quel che lei aveva detto, soltanto per evitare l’umiliazione di affrontare la verità? Raccolse la grammatica francese e la scagliò attraverso la stanza. – Non lo sanno nemmeno, inveì, – eppure mi permettono di farlo! Se solo avessero detto di no.

NO, LUCY, NON PUOI. NO, LUCY, TE LO PROIBIAMO. Ma a quanto pareva nessuno di loro aveva più la convinzione, o la pazienza, necessaria per opporsi alle sue scelte. Per sopravvivere, lei da molto tempo contrapponeva la propria volontà alla loro, era stata la battaglia della sua adolescenza, ma adesso era finita, E aveva vinto lei. Poteva fare tutto quel che le pareva: anche sposare un uomo che in segreto disprezzava. Quando il lunedì sera Roy tornò a Fort Kean, e accese la luce nella sua camera, trovò Lucy seduta su una poltrona accanto alla finestra. - Cosa ci fai qui? – sbraitò, lasciando cadere la valigia.

- Ci sono gli avvolgibili tirati su! - Allora tirali giù, Roy.

Lo fece all’istante. – Come sei entrata? - Come entro di solito, Roy? A quattro zampe. - Lei c’è? – Chi? - La padrona! – sussurrò lui, e, senza un’altra parola, scivolò fuori dalla porta e nell’ingresso. Lo sentì che saliva le scale ed entrava in bagno canticchiando. You sigh, the song begin you speak and I bear…

Lo sentì addirittura tirare l’acqua al piano di sopra. Poi scivolò di nuovo nella stanza. – Non c’è,. -disse, chiudendo la porta. – Meglio spegnere la luce. - Così puoi evitare di guardarmi? - Così non scopre che sei qui, se arriva a casa. Sai com’è, potrebbe sempre arrivare. Ma che ti prende? Lei si alzò e si strinse la pancia. Indovina! - Shhhh. - Ma non c’è. - Ma tornerà! Teniamo sempre la luce spenta, Lucy. - Ma io voglio parlarti, e faccia a faccia, non per telefono, Roy, così almeno non puoi… - Be’, mi spiace, ma le luci ora si spegneranno. Quindi preparati. - Ma ci sposiamo o no? Dimmelo, così almeno so cosa fare, o dove andare, o Dio solo sa cosa. - Lascia almeno che mi tolga la giacca, ti spiace? – Roy, sì o no. - Come faccio a risponderti con un sì o un no quando non è una domanda da sì o no? - Invece lo è. - Ti dai una calmata? Sono due ore che guido. Mentre appendeva la giacca nell’armadio, lei gli andò dietro e si alzò in punta di piedi. – Sì o no, Roy! – disse rivolta al suo orecchio, che era ancora trenta centimetri più in alto. Lui si scansò. – Ora prima di tutto spengo la luce. Tanto per sicurezza. Sai, Lucy, quando ho preso la stanza ho accettato di non far venire ragazze in camera. - Ma Roy, mi hai fatto venire qui un sacco di volte. – Ma lei non lo sa! Oh, dannazione. Via le luci, – e, senza darle tempo di obiettare, le spense. - Okay, ora puoi evitare di guardarmi, Roy.

Raccontami cosa è successo durante la tua lunga vacanza del Ringraziamento. Mentre io me ne stavo tutta sola per due interi giorni in uno studentato deserto. - Prima di tutto, non sono stato io a dirti di tornare in uno studentato deserto. Secondo, mi siedo, se non ti spiace. Perché non ti siedi anche tu? - Sto in piedi, grazie. - Al buio?

- Sì! - Shhhh! - Comincia, – disse lei. - Va bene, lascia che mi sistemi… Okay. - Allora? - Li ho convinti a venirmi un po’ incontro. - Continua. - Oh, ti vuoi sedere? Che differenza fa? Tanto non mi vedi. - Sì che ti vedo! Sei lì che incombi su di me. Siediti, per favore.

Aspettava da più di un’ora. Non voleva sedersi, voleva dormire. Si adagiò con cautela sul bordo del letto e chiuse gli occhi. Va’ da Mr Valerio. Scappa. Ma nessuna delle due idee aveva senso. Se doveva vedere qualcuno, quello era padre Damrosch. Ma cosa poteva fare lui? Il suo problema era esattamente quello: non poteva fare niente. La poteva aiutare né più né meno di santa Teresa, o Gesù Cristo. Sembrava così forte, e ascoltava tutto quello che lei diceva, e da parte sua diceva tante cose belle… ma lei non aveva bisogno di sentir dire cose belle.

Aveva bisogno che qualcosa venisse fatto. - Prima di tutto, – stava dicendo lui, – non credere che per me sia stato facile. Anzi, è stato un inferno. - Che cosa? - Far finta che tu non fossi incinta, Lucy, quando tutti continuavano a chiedere ossessivamente perché? – E gliel’hai detto? -No. - Sicuro? - Sì! Shhhhh! - Sei tu che urli.

- Be’, sei tu che mi fai urlare. - Forse urli perché stai mentendo, Roy. - Non gliel’ho detto, Lucy! La smetti di accusarmi? In realtà continuo a chiedermi perché non gliel’ho detto. Non potevo dire la pura e semplice verità? Se in ogni caso ci sposiamo ' Ah, sì? - Be’, dovremmo… se glielo dicessi, intendo. – Intendi che, se non glielo dici, non ci sposiamo? - E’ questo il punto. E questo che mi confonde. Cioè, loro hanno addotto così tante ragioni per cui ci converrebbe aspettare fino a giugno. - E? - E sono tutte buone ragioni. Voglio dire, è difficile dar torto a una buona ragione, tutto qui. - Perciò hai detto che avresti aspettato. - Ho detto che ci avrei pensato. - Ma come possiamo? - Senti, dovevo pur andarmene da quella casa, no? Ho già perso un intero giorno di scuola. Hai una macchina, puoi prenderla… - Ma per come stavano le cose non potevo andarmene! Non capisci niente! - Perché non potevi? Perché no? Dovevo per forza far imbestialire tutti, Lucy, e creare questa confusione? Non sto facendo niente di male. Anzi, il contrario, l’esatto contrario! Perché non diciamo la verità? Non ho bisogno di dire bugie ai miei genitori, lo sai. - Anch’io non ho bisogno di dire bugie ai miei, Roy, se è questo che intendi. - Però le dici. - Perché le voglio dire! - Perché? - Oh, perché non ti comporti da uomo? Perché fai così? - Ma sei tu che nascondi la semplice verità che farebbe capire a tutti come stanno le cose. - Roy, tu sinceramente credi che tutti mi ameranno e mi adoreranno quando sentiranno che sto per avere un bambino?

- Dico solo che capirebbero. - Ma le persone che devono capire sono solo due: io e te. - Va be’, se la pensi così… certo, con la famiglia che hai. - E cosa c’è che non va nella mia famiglia a differenza della tua, Roy? Senti, tu, se non vuoi sposarmi, – disse, perché qualcuno ha cominciato a dirti che non sono alla tua altezza, ebbene, credimi, non sei obbligato a farlo. Trascorse un momento. Poi un altro. - Ma io voglio sposarti, – disse infine lui. - Roy, secondo me in realtà non vuoi -. Si nascose la testa fra le mani. – E’ la verità, no? «Fidati di me, fidati di me»… ed ecco la vera verità. Be’… no… Be’, certo in questi ultimi giorni non ti stai! comportando come la persona ideale con cui uno vorrebbe vivere, questo è sicuro… Tutt’a un tratto sei così… - Così come? Plebea? - No, – disse lui.

- No. Fredda. - Ah, sì? - Sì, un po’, negli ultimi tempi, sì, decisamente. - E come altro sono? - Be’, parlando seriamente, Lucy, sei sempre arrabbiata. - Anche tu magari saresti un po’ arrabbiato, se ti fossi messo d’accordo su una cosa con qualcuno e poi… - Ma io non intendo arrabbiata in modo normale! - E come?

- Be’… come se fossi diventata pazza! - Pensi sul serio che io sia malata di mente perché sono arrabbiata? - Non ho detto che io lo penso. E non ho detto malata di mente. - E chi è stato a dirlo? Nessuno. -Chi? - Nessuno! - Forse, – disse lei dopo un momento, – se sono malata di mente è per colpa tua, Roy Bassart. Perché allora vuoi tanto sposarmi? - Io non voglio sposarti! – Allora non farmi questo favore, sai. - Non credo che te lo farò, – disse lei. Perché sarebbe davvero un favore. - Oh, sicuro. E cosa farai invece?

Sposerai qualcun altro - La sai una cosa, Roy? Ho deciso di sbarazzarmi di te fino da luglio. Dal giorno in cui hai preso questa stanza perché aveva il letto lungo, tu… bambino viziato! - Certo che te la sei presa comoda, bisogna proprio dirtelo. – Non me la sono presa comoda! Ho avuto comprensione per te! Ho avuto compassione per te.

- Oh, sicuro. - Temevo che avresti abbandonato la fotografia se ferivo i tuoi presunti sentimenti. Ma lo stavo per fare, Roy… proprio il giorno del Ringraziamento, e lo avrei fatto, se non dovessi invece sposarti. - Oh, non devi sentirti in obbligo, sai. - Pensavo che, quando fossi crollato, almeno saresti stato a Liberty Center, dove avresti potuto mangiare i tuoi biscotti Hydrox. - Be’, non aver timore di farmi piangere, se posso permettermi. Io non piango tanto facilmente. E quanto ai biscotti Hydrox, non c’entrano un bel niente.

Non capisco neanche perché li hai tirati in ballo. Inoltre, – disse, se davvero volevi mollarmi, non ti preoccupare che mi avresti mollato. E non ti saresti data tanta pena per i miei pianti. -No? - … Perché tu non provi emozioni come le altre persone. - Davvero? E questo chi l’ha detto? - Lucy? Stai piangendo? - Oh, no. Io non provo emozioni come le altre persone. Sono di pietra, io. - Tu stai piangendo. Si avvicinò al letto, dove lei era distesa con la faccia ancora fra le mani. – Non piangere, per favore, non dicevo sul serio.

Davvero. - Roy, – disse lei, – chi è stato a dirti che sono malata di mente? Chi è stato a dire che non provo emozioni? - Emozioni normali. Nessuno. - Chi è stato, Roy? Tuo zio Julian? - No.

Nessuno. - E tu gli hai creduto. - No, non gli ho creduto. E non è stato lui! - Ne avrei anch’io di cose da dirti su di lui! Ne avrei a bizzeffe. Il modo in cui mi guarda! Come mi ha baciato alla tua festa! Quest’estate, intendi? Ma era uno scherzo. Tu hai restituito il bacio.

Lucy, cosa dici mai? - Dico che sei cieco! Non vedi quanto è tremenda la gente! Quanto è marcia e odiosa! Ti dicono che sono plebea e che non provo emozioni normali, e tu gli credi! - No, non gli credo! – E il tutto su quali basi? Perché, Roy? Dimmelo!

- Dirti cosa? - Mio padre! Ma non sono stata io a mandarlo in galera, Roy! - Non ho detto che sei stata tu. - E’ stato lui, con le sue mani! E successo anni fa, è storia passata, e io non valgo meno di te o di loro, o di chiunque altro. La porta si aprì; la luce sopra le loro teste si accese. Sulla soglia c’era la vedova da cui Roy aveva affittato la stanza: Mrs Blodgett, una donna magra, nervosa e vigile con la bocca dritta e sottile come una fessura per le monete, e una grande abilità nel mostrare disapprovazione semplicemente assottigliandola ancora di più. Non fiatò; non aveva bisogno. - Come ha fatto a entrare? chiese Roy, come se fosse lui quello a cui era stato fatto un torto. Si era immediatamente posizionato tra Lucy e la padrona di casa. – Allora, come ha fatto, Mrs Blodgett? - Con la chiave, Mr Bassart. Una domanda migliore sarebbe come ha fatto lei a entrare. Tirati su, svergognata. Roy, – sussurrò Lucy. Ma lui continuò a tenerla nascosta dietro di sé.

Ti ho detto di alzarti da quel letto, – disse Mrs Blodget. – E poi vattene. Ma Roy era deciso a far valere le sue ragioni. – Tanto per cominciare, non è corretto, lo sa, usare una chiave per aprire la porta di un’altra persona. - Non venga a dare a me lezioni di correttezza, Mr Bassart. Pensavo che lei fosse un veterano dell’esercito, o come mi aveva detto. -Ma… - Ma cosa, signore? Ma lei non conosce le regole di questa casa, è questo che avrebbe la sfrontatezza di dirmi? – Lei non capisce, – disse Roy. - Capire cosa? - Se si calma, glielo spiego. Lei me lo spiega in ogni caso, che io mi calmi o no, e comunque si dà il caso che io sia calmissima. Ne ho avuti altri come lei, Mr Bassart. Uno nel 1937, e un altro subito dopo, nel 1938. Vi presentati bene, ma è solo una maschera. Sotto sotto, siete tutti uguali -. La sua bocca divenne invisibile. – Dissoluti, – concluse. - Ma in questo caso è diverso, – disse Roy. – Lei è la mia promessa sposa. - Chi è? La lasci venire fuori, così la posso vedere. - Roy, – supplicò Lucy. Spostati. Finalmente si spostò, senza smettere di sorridere. – Ti presento Mrs Blodgett, la mia padrona di casa, di cui ti ho parlato. Mrs Blodgett, – disse, sfregandosi le mani come assaporando un piacere a lungo atteso, – le presento la mia promessa sposa, Lucy. - Lucy come? Lucy si alzò, coprendosi finalmente le ginocchia con la gonna. Perché le luci erano spente, e cos’erano tutte quelle urla? – chiese Mrs Blodgett. - Urla? – disse Roy, guardandosi intorno. – Stavamo ascoltando della musica. Lo sa che adoro la musica, Mrs Blodgett. Mrs Blodgett lo fissò in modo tale da non lasciar dubbi sul proprio scetticismo. - La radio, – disse lui, – l’abbiamo appena spenta. Mi sa che il rumore veniva da lì. Siamo arrivati or ora da casa, in macchina.

Ci stavamo riposando. Gli occhi. Per questo le luci erano basse. Spente, – disse la minuscola bocca, scomparendo. - Comunque sia, disse Roy, – ecco la mia valigia. Siamo appena tornati. - Chi le ha dato il permesso, giovanotto, di violare le regole portando delle ragazze in casa mia? E’ un’abitazione privata. Gliel’ho spiegato o no la prima volta che è venuto? - Sì, ma come le dicevo siamo arrivati or ora, in macchina. E ho pensato, essendo Lucy la mia promessa sposa, che lei non avrebbe avuto nulla in contrario se ci riposavamo un Po’ -.

Sorrise. – Violando le regole -. Nessuna risposta. – Dal momento che siamo prossimi al matrimonio. - Quando? - A Natale, – annunciò lui. - E’ così? La domanda era rivolta a Lucy. - E’ la verità, Mrs Blodgett, – disse Roy. – Per questo ci siamo trattenuti più a lungo a casa. Per i preparativi, – disse con un altro grosso sorriso; poi tornò serio e contrito. – Può darsi che in effetti io abbia violato una regola portando qui Lucy e, se l’ho fatto, le chiedo scusa. - Non c’è nessun se, – disse Mrs Blodgett. – Mi pare. - Bene, allora le chiedo scusa. - Lucy come? – domandò la padrona di casa. – Come fa lei di cognome? - Nelson. - E da dove arriva? - Dal college femminile. - Ed è vero? Sta per sposarlo, oppure lei è una di quelle?

- Sto per sposarlo. Roy alzò le mani. – Visto? - Sa com’è, disse Mrs Blodgett, – potrebbe mentire. Non sarebbe la prima volta. – Le sembra una bugiarda? – domandò Roy, ficcandosi le mani in tasca e avvicinandosi a Lucy. – Con questa faccia. Andiamo, Mrs Blodgett, disse con fare accattivante. – E la classica brava ragazza. Si vede lontano un miglio. La padrona di casa non ricambiò il sorriso. – Nel 1945 ha abitato qui un ragazzo che aveva una promessa sposa. Pure lui è venuto da me, Mr Bassart… - Sì? - … e mi ha messo al corrente dei suoi progetti. E una domenica mi ha portato la signorina per presentarmela come si deve. - Una domenica. Sì, una buona idea, certo.

- Mi lasci finire, per favore. Ci siamo messi d’accordo con lei poteva venirlo a trovare fino alle dieci di sera. Non ho nemmeno dovuto specificare che la porta della stanza doveva restare aperta. Ci è arrivato da solo. - Capisco, – disse Roy tutto interessato. – Miss Nelson, io non sono una persona di vedute ristrette, ma quando si tratta delle mie regole non transigo. Si dà caso che questa sia la mia abitazione privata, non un albergo equivoco. Senza regole finirei in malora nel giro di un mese. Forse il motivo lei lo capirà fra qualche anno. Almeno lo spero per lei. - Oh, capiamo già adesso, – disse Roy. - Che sia l’ultima volta che cerca di ingannarmi, Mr Bassart. Oh, adesso che conosco la faccenda delle dieci di sera… - E io conosco il suo nome, signorina. Lucy Nelson. S–o-n oppure s–e-n? S–o-n. - E conosco anche la decana del college. Miss Pardee, giusto? Decana delle studentesse. - Sì. - Allora anche lei non cerchi di ingannarmi. Si avviò alla porta. - Così almeno, – disse Roy, seguendola, – adesso le cose sono sistemate. Quando Mrs Blodgett si voltò per mostrargli cosa pensava di quest’ultima osservazione, Roy sorrise. – Intendo dire che è tutto perdonato, giusto? Lo so che l’innocenza delle intenzioni non…

- Lei non è innocente, Mr Bassart. Ha agito dietro le mie spalle. Lei è più che colpevole. - Be’, si fa per dire… – E fece spallucce. – Ora le regole, Mrs Blodgett… giusto per assicurarmi di aver capito. - Purché la porta, signore, rimanga aperta… - Oh, assolutamente, spalancata. – Purché la ragazza esca di qui alle dieci… - Oh, sì, uscirà, – disse Roy, con una risata. - Purché non si sentano urla… - Era musica, Mrs Blodgett, davvero… - E purché, Mr Bassart, il matrimonio si celebri, il giorno di Natale. Per un momento lui parve sbalordito. Matrimonio? Oh, certo. Un giorno azzeccato, non trova? Natale? Mrs Blodgett uscì, lasciando la porta socchiusa. - Arrivederci, – disse Roy, e attese finché non udì la porta del salotto che si chiudeva, poi si lasciò cadere su una sedia. – Wow. - Dunque ci sposiamo, – disse Lucy. Shhhhh! – disse lui, alzandosi dalla sedia. – Vuoi stare… sì, – disse a un tratto, perché la porta del salotto si era aperta, e Mrs Blodgett si stava dirigendo verso le scale. – Mamma e papà pensano… oh, buonanotte, Mrs Blodgett -. Fece il gesto di levarsi il cappello. Dorma bene. - Sono le nove e quarantotto, Mr Bassart. Roy guardò l’orologio. – Ha ragione, Mrs Blodgett. Grazie per avermelo ricordato.

Finiamo solo di parlare dei nostri preparativi. Buonanotte. La padrona di casa si avviò su per le scale, e pareva che la rabbia non le fosse affatto sbollita. - Roy… – fece per dire Lucy, ma con due passi lui fu al suo fianco, e le premette una mano sulla nuca e l’altra sulla bocca. - Quindi, – disse parlando forte, – mamma e papà pensano che perlopiù le tue proposte… Lei lo fissò furiosa finché non si udì la porta della camera da letto al piano di sopra che si chiudeva. Allora lui le tolse la mano bagnata dalle labbra. - Non permetterti mai più… mai più… – disse lei, così imbestialita che quasi non riusciva a parlare, – di fare una cosa simile! - Oh, perdio, – disse lui, buttandosi di schiena sul letto. - Tu mi farai uscire di senno.

Cosa ti aspetti, con lei sulle scale, Lucy? - Mi aspetto… – Shhhhh!

- Balzò in piedi. – Ci sposiamo! – sussurrò con voce roca. – Perciò chiudi il becco! Lei rimase assolutamente di stucco. Si sarebbe sposata.

- Quando? - A Natale! Va bene? Adesso la pianti? - E i tuoi? - I miei cosa? - Glielo devi dire. - Glielo dirò, glielo dirò. Però adesso lasciami respirare un attimo.

- Roy… devi dirglielo subito. - Subito? – disse lui. Ma mia madre è già a letto, e abbassa la voce! – Dopo un momento, disse: – E’ a letto. Non sto mentendo. Va a letto alle nove e si alza alle cinque e mezza. Non chiedermi perché. Fa così, Lucy, e lo ha sempre fatto, e a questo punto io non posso certo farle cambiare abitudine. Dunque, è la verità. E poi, Lucy, per stasera ne ho avuto più che abbastanza. - Ma devi renderlo ufficiale. Non puoi continuare a farmi vivere così. E’ un incubo! – Lo renderò ufficiale quando lo riterrò opportuno! - Roy, poniamo che lei chiami la decana Pardee! Non voglio che mi buttino fuori dall’università! Ci mancherebbe solo questo. - Neanch’io voglio che mi buttino fuori, sai, – disse lui, dandosi dei colpetti sulle tempie. Altrimenti perché credi che le abbia detto quel che le ho detto? Allora è una bugia, e di nuovo non dicevi sul serio! - No! Dicevo sul serio! Ho sempre detto sul serio! - Roy Bassart, chiama i tuoi genitori, se no faccio qualcosa io! Lui saltò giù dal letto. – No! Tieni lontane le mani dalla mia bocca, Roy! - Non gridare, per l’amor di Dio! E’ stupido! - Ma sono incinta di un piccolo essere umano! protestò lei. – Avrò un figlio da te, Roy! E tu non sei nemmeno disposto a fare il tuo dovere!

- Lo sarò! Lo sono! - Quando? - Adesso! Va bene? Adesso! Però non gridare, Lucy, non farti venire una stupida crisi isterica! - Allora chiama! - Però, – disse lui, quello che ho detto a Mrs Blodgett… ho dovuto dirlo. - Roy! Va bene, – e uscì di corsa dalla stanza. Pochi minuti dopo era di ritorno, più pallido di quanto lei lo avesse mai visto. Dove i capelli erano tagliati corti sul collo, si vedeva il biancore della pelle. Fatto, – disse. E lei gli credette. Anche i polsi e le mani erano bianchi.

- Fatto, – borbottò lui. – E te l’avevo detto, no? Te l’avevo detto che lei dormiva. Te l’avevo detto che lui l’avrebbe svegliata e fatta alzare. Allora, non te l’avevo detto? Non stavo mentendo! Tanto non mi avrebbero buttato fuori dalla scuola. Perché ho detto così. Mi avrebbero solo buttato fuori da questa stanza… e in ogni caso che differenza avrebbe fatto? In ogni caso non importa niente a nessuno del mio rispetto per me stesso, quindi perché io dovrei preoccuparmene! Lui non se ne preoccupa. Lei non se ne preoccupa. E tu… tu avresti sbraitato! Il rispetto di me, oh, al diavolo, tu sai solo sbraitare e confondere la gente. E’ il tuo metodo, Lucy… confondere la gente. Il metodo di tutti. Confondere Roy… perché no? Tanto chi sarà mai, questo Roy? Ma ora basta! Perché io non sono confuso, Lucy, e d’ora innanzi le cose andranno così. Ci sposeremo, ascoltami bene, il giorno di Natale. E se alla gente non va, allora il giorno dopo… ma sarà così!

La porta al piano di sopra si aprì. – Mr Bassart, si sentono di nuovo delle urla! Questa non è musica, sono urla bell’e buone, e non saranno tollerate! Roy sporse la testa nell’ingresso. – No, no, stavo solo dando la buonanotte a Lucy, Mrs Blodgett… finivamo con i preparativi per il matrimonio. - Allora parlate, invece di urlare! Questa è un’abitazione privata! – Chiuse la porta sbattendola. Lucy stava piangendo. - E ora perché piangi? – chiese lui. – Eh? Ora quali altre centomila cose ho fatto di male? Sul serio, sai, mi sa che ne ho abbastanza di critiche e lamentele, sai… anche da parte tua. Perciò mi sa che dovresti smetterla, sai. Mi sa che dovresti avere un minimo di considerazione per tutto quello che ho passato, e piantarla, per la miseria! - Sì, la smetto, – disse lei, – finché non cambierai di nuovo idea…! – Oh, ragazzi, farò proprio un affare. Che bello! E a quel punto, con sua sorpresa, lei spalancò la finestra e, per rabbia, disprezzo o abitudine, uscì dalla stanza per la stessa via da cui era entrata. Roy si precipitò nell’ingresso e andò alla porta. L’aprì rumorosamente, diede la buonanotte a Lucy con voce stentorea e la richiuse altrettanto rumorosamente, così che al piano di sopra Mrs Blodgett continuasse a credere che, a parte gli schiamazzi, tutto andasse a gonfie vele.

Martedì, la zia Irene a pranzo all’hotel Thomas Kean. Mercoledì, sua madre e suo padre a cena al Song of Norway. Giovedì, lo zio Julian, una bevuta nel bar del Kean, durata dalle cinque del pomeriggio alle nove di sera. Alle nove e mezza Roy si accasciò su un divano nel soggiorno al pianoterra della Bastiglia. L’angolo in cui Lucy aveva scelto di aspettarlo era il più buio della stanza. - E non ho mangiato, disse lui. – Non ho nemmeno mangiato! - Ho dei cracker in camera, bisbigliò lei. - Non possono trattarmi così, – disse lui, fissando torvo la punta delle scarpe militari al fondo delle sue gambe.

- Non me ne starò zitto e buono ad ascoltare le loro minacce, te lo assicuro. - … Vuoi che vada a prendere i cracker? - Non è questo il punto, Lucy! Il punto è la loro prepotenza! Pensano di potermi costringere a starmene zitto e buono! Costringermi, capisci? Ebbene, non ho bisogno di loro fino a questo punto, te lo assicuro. E non ho nemmeno voglia di vederli, se intendono continuare con quest’atteggiamento. Che razza di atteggiamento… con me! Con una persona che in teoria dovrebbe star loro a cuore! Si alzò e andò alla finestra. Guardando fuori la strada silenziosa, si diede un pugno nel palmo della mano.

– Accidenti! - lo sentì dire Lucy. Lei restò rannicchiata sul divano, con le gambe sotto la gonna. Era la posizione che aveva visto assumere alle altre ragazze mentre parlavano con i loro fidanzati nel soggiorno dello studentato. Se arrivava la sorvegliante, in quel modo si faceva vedere che non stava succedendo nulla di compromettente. Per il momento nello studentato nessuno sapeva nulla, e non avrebbero saputo nulla. In quei due mesi e mezzo di college, Roy non l’aveva lasciata sola abbastanza da permetterle di stringere qualche amicizia vera, e adesso lei manteneva le distanze anche con le poche ragazze del suo piano che avevano cominciato a trattarla amichevolmente.

- Senti, – disse Roy, tornando al divano. – Ho il sussidio per i reduci, giusto? - Sì. – E ho ancora un po’ di risparmi. Altri ragazzi giocavano a carte, o a dadi, ma io no. Io aspettavo il congedo. Perciò ho risparmiato! Appositamente. E loro dovrebbero saperlo! In effetti gliel’ho pure detto… ma loro nemmeno mi ascoltano. E peggio che vada venderò anche la Hudson, e pazienza per tutti i lavori che ci ho fatto. Mi credi, Lucy? Perché è vero!

- Sì.

Era Roy? Era Lucy? Erano loro due, lì insieme?

- Ma per loro i soldi sono tutto. Lo sai cos’è, lo zio Julian? Forse me ne rendo conto solo ora… ma è un materialista. E che linguaggio! Non lo puoi nemmeno immaginare. E il rispetto per le altre persone? - Che cosa ha detto, Roy? Che genere di minacce? - Oh, chi se ne frega. Minacce riguardo ai soldi. E anche mio padre. Sai, in fondo, che lui se ne rendesse conto o meno, l’avevo sempre rispettato. Ma tu credi che lui abbia un minimo di rispetto emotivo per me? Pretende di trattarmi come se fossi ancora un suo allievo. Ma io ho appena finito il servizio militare. Sedici mesi nelle isole Aleutine… il buco del culo del mondo. Ma mio zio dice… lo sai cosa dice? «Si dà il caso che la guerra sia finita nel 1945, giovanotto. Non sei mica stato al fronte». Lui, invece, c’è stato. Ha avuto pure una medaglia. E comunque questo cosa c’entra? Niente! Oh… che si fotta. - Roy, – lo ammonì Lucy, mentre alcune ragazze dell’ultimo anno entravano nel soggiorno. - Bene, disse lui, lasciandosi cadere al suo fianco, – sono sempre lì a insistere che devo farmi valere, giusto? «Prendi una decisione e seguila, Roy». Da quando sono tornato a casa non sento dire altro. Lo zio Julian è sempre lì a pontificare su come in questo mondo bisogna essere intraprendenti. E’ questa la sua grande difesa del capitalismo. Ti rende uomo invece di lasciarti lì ad aspettare la manna dal cielo. Ma che ne sa lui del socialismo? Credi che in tutta la sua vita abbia mai letto un libro che ne parla? Per lui il socialismo è la stessa cosa del comunismo, e non c’è modo di fargli cambiare idea. Non c’è modo! Bene, io sono giovane. E sano. E non ho la benché minima intenzione di ficcarmi nel settore delle lavatrici Elene. Te lo assicuro. Sai che minacce. Io alla scuola di fotografia ci vado lo stesso. E la sai un’altra cosa? Lui non sa distinguere il giusto dallo sbagliato. E’ questo il punto. Che in questo paese, dove la gente tribola, o è disoccupata, o non ha i servizi essenziali che sono garantiti in un qualunque paese scandinavo… che un uomo come lui, senza il minimo principio morale, possa andar dritto per la sua strada fregandosene del giusto e dello sbagliato e calpestando i sentimenti altrui… Ebbene, io ci rinuncio volentieri ai suoi favori. Che se li tenga i suoi sigari da quattordici dollari. Che si fotta, Lucy… sul serio.

La mattina dopo, quando alle sei e mezza suonò la sveglia, Lucy andò in bagno a ficcarsi un dito in gola prima che arrivassero le altre ragazze a lavarsi i denti. A quel modo si sentiva di nuovo se stessa, purché saltasse la colazione, evitasse il corridoio dietro il refettorio, e nel corso della mattinata si sforzasse di tanto in tanto di mandar giù qualche cracker. Poi riusciva a seguire le lezioni della giornata fingendo di essere la stessa ragazza nello stesso corpo, e nella stessa condizione… da sola. Ma che dire della sera prima? E della sera prima ancora? Da due settimane non le veniva più da svenire, e ogni mattina riusciva a farsi passare la nausea digiunando, però, adesso che il corpo di Roy pareva abitato da una nuova persona, la verità le si palesò come mai in precedenza: anche dentro di lei abitava una nuova persona. Ne restò sconcertata. La sua situazione era reale. Non era un intrigo che lei avesse architettato per riportarli tutti alla ragione. Non era una macchinazione per costringerli a trattarla come carne e sangue, come un essere umano, come una ragazza. E non sarebbe cambiata solo perché la persona accanto a lei aveva finalmente cominciato a prendere la cosa sul serio. Era reale! Stava accadendo qualcosa che lei non aveva modo di impedire! Dentro il suo corpo stava crescendo qualcosa, e senza il suo permesso! E io non voglio sposarlo. Il sole non si era ancora alzato sopra gli alberi quando Lucy attraversò di corsa Pendleton Park diretta in centro. Dovette aspettare un’ora alla stazione degli autobus la prima corsa per il Nord. Si era portata dietro i libri; aveva una mezza idea di studiare durante il viaggio ed essere di ritorno per la lezione delle due e mezza, ma di fatto non aveva ben chiaro il motivo per cui si stava precipitando a Liberty Center, o cosa sarebbe accaduto una volta arrivata là. Sulla panchina della stazione deserta cercò di calmarsi leggendo il compito di inglese cui aveva pensato di dedicare l’ora libera prima di pranzo, e il pranzo, che in ogni caso lei saltava.

«Avrete qui modo di prendere in esame, e poi mettere in pratica, diverse tecniche utili per scrivere frasi efficaci. Le tecniche presentate sono quelle…» Non lo voleva sposare! Era l’ultima persona al mondo che avrebbe voluto sposare! I conati di vomito cominciarono poco oltre Fort Kean. Sentendo che stava male, l’autista accostò. Lucy saltò giù dalla portiera posteriore e gettò in una pozzanghera il fazzoletto sporco.

Risalita a bordo, si sedette in fondo pregando di non ammalarsi, non svenire e non mettersi a singhiozzare. Non doveva pensare al cibo; non doveva neanche pensare ai cracker che aveva dimenticato nella sua fuga dallo studentato; non doveva pensare a che cosa avrebbe detto, o a chi.

Che cosa avrebbe detto? «Avrete qui modo di prendere in esame, e poi mettere in pratica, diverse tecniche utili per scrivere frasi efficaci.

Le tecniche presentate sono quelle usate dagli scrittori dell’antologia nella parte dedicata alle descrizioni…» Anni prima alla scuola di Liberty Center una ragazza di campagna aveva ingerito una dose di olio di ricino così massiccia che le era venuto un buco nello stomaco. Aveva contratto una gravissima peritonite, e aveva perso il bambino, ma in seguito, dato che era stata in punto di morte, tutti l’avevano perdonata, e ragazzi che prima non la degnavano di uno sguardo… «Avrete qui modo di prendere in esame, e poi mettere in pratica, diverse tecniche utili per…» Curt Bonham, l’asso del basket. Aveva un anno più di lei. Nel marzo del suo ultimo anno, una notte lui e un amico avevano cercato di tornare a casa attraversando il fiume mentre il ghiaccio si stava sciogliendo, e Curt era annegato. Gli studenti del suo anno avevano deciso all’unanimità di dedicare a lui l’annuario, e la sua foto campeggiava solitaria sulla prima pagina del «Liberty Bell», E sotto la fotografia listata a lutto c’era scritto: Ragazzo in gamba, scivolato via presto Da campi dove la gloria non permane12… ELLIOT CURTIS BONHAM 1930-1948.

- Che c’è? – domandò la madre quando la vide entrare dalla porta.

- Lucy, che ci fai qui? Che succede? - Sono venuta in corriera, mamma.

E’ così che la gente va da Fort Kean a Liberty Center. In corriera. – Ma che c’è? Lucy, sei così pallida. - C’è qualcun altro a casa? domandò lei. La madre fece cenno di no con la testa. Era accorsa dalla cucina con una ciotola in mano; adesso se la portò al petto. – Cara, il tuo colorito… - Dove sono gli altri? - Papà Will ha portato la nonna al mercato a Winnisaw. - E lui è al lavoro? Tuo marito? – Lucy, che c’è? Perché non sei al college?

- A Natale mi sposo, – disse, spostandosi nel salotto. In tono triste la madre ribatté:

– L’abbiamo sentito. Lo sappiamo. - Come lo avete saputo? - Lucy, non volevi dircelo?

- L’abbiamo deciso solo lunedì sera. - Ma, cara, disse la madre, – oggi è venerdì. - Come lo avete saputo, mamma? … Lloyd Bassart ha parlato con papà. - Papà Will? - Tuo padre.

- Oh? E poi cosa è successo, se posso chiederlo? – Lui ha preso le tue parti. Ecco cosa è successo. Lucy, sto rispondendo alla tua domanda. Ha preso le tue parti senza un istante di esitazione. Nonostante non fosse stata nostra figlia a comunicarcelo, il giorno del suo matrimonio… - Che cosa ha detto, mamma? Esattamente. – Ha detto a Mr Bassart che per quanto riguardava Roy lui non poteva parlare, com’è ovvio…Ha detto a Mr Bassart che secondo noi tu sei abbastanza matura da sapere quello che fai. - Be’… magari non lo sono!

- Lucy, non puoi pensare che tutto quello che fa sia sbagliato solo perché è lui a farlo. Lui crede in te. - Allora digli di non crederci! - Cara… – Avrò un bambino, mamma! Perciò, per favore, digli di non credere in me!

- Lucy… davvero? - Certo! Avrò un bambino e odio Roy e non lo voglio assolutamente sposare e non lo voglio più vedere! Corse in cucina appena in tempo per vomitare nel lavandino. Fu messa a letto in camera sua. – Qui avrai modo di…

Il libro scivolò dal letto sul pavimento.

Cos’altro c’era da fare adesso se non aspettare? La posta infilzata nella buca delle lettere nell’ingresso atterrò sullo zerbino.

L’aspirapolvere si accese. L’auto imboccò il vialetto. Udì la voce della nonna nel portico. Dormì. La madre le portò tè e pane tostato. – Alla nonna ho detto che hai l’influenza, – bisbigliò alla figlia. – Va bene? La nonna ci avrebbe creduto, che era venuta a casa perché aveva l’influenza? Dov’era papà Will? A lui cosa aveva detto?

- Non è neanche entrato in casa, Lucy. Tornerà questo pomeriggio. - Lo sa che io sono a casa? - Non ancora. A casa. Ma perché no? Per anni si erano lamentati che lei reagiva in modo sprezzante a qualunque cosa loro dicessero o facessero; per anni si erano lamentati che da loro non accettava consigli; che viveva fra loro come un’estranea, per non dire una nemica, ostile, laconica, pressoché inavvicinabile. Ebbene, adesso potevano ancora dire che si comportava come la loro nemica? Era tornata a casa. Dunque cosa intendevano fare? Sola, bevve un po’ di tè. Tornò ad affondare nel cuscino che la madre le aveva sprimacciato e si passò lievemente un dito tutt’attorno alle labbra. Limone. Un odore così gradevole. Dimentica tutto il resto. Limitati ad aspettare. Il tempo passerà. Alla fine qualcosa andrà fatto. Si addormentò con la faccia sulle dita. La nonna salì portandole un senapismo. La paziente si lasciò sbottonare la camicia da notte. – Te lo scioglierà, – disse la nonna, premendole il cataplasma sul petto. – Due cose fondamentali: riposo e caldo. Molto caldo. Tutto il caldo che riesci a sopportare, – e ammucchiò altre due coperte sopra la paziente. Lucy chiuse gli occhi.

Perché non l’aveva fatto subito? Ficcarsi a letto e lasciare tutto a loro. Non avevano sempre voluto essere la sua famiglia? Fu svegliata dal pianoforte. Gli allievi avevano cominciato ad arrivare per le lezioni.

Pensò: «Però non ho l’influenza.» Ma poi allontanò dalla mente il pensiero, e il panico che lo accompagnava. Mentre dormiva doveva essersi messo a nevicare. Tirò via una coperta dal letto, se la avvolse intorno e, alla finestra, posò la bocca contro il vetro freddo e osservò le auto che passavano silenziose in strada. La finestra cominciò a scaldarsi nel punto su cui teneva la bocca. Espirando e inspirando poteva espandere o contrarre il circolo di vapore sul vetro. Guardò la neve che cadeva.

Cosa sarebbe successo quando la nonna avesse scoperto qual era in realtà il suo problema? E il nonno, quando fosse arrivato a casa? E il padre!

Si era dimenticata di dire alla madre di non dirglielo. Magari non gliel’avrebbe detto. Ma poi sarebbe successo qualcosa? Attraversò ciabattando il vecchio tappeto consunto e si mise di nuovo a letto.

Pensò di raccogliere da terra il libro di inglese per lavorare un po’ su quelle frasi; invece si infilò perbene sotto le coperte, si piazzò sotto il naso le dita vagamente olezzanti di limone e si addormentò per la sesta o settima volta. Fuori dalla finestra era buio, ma da dove lei sedeva appoggiata alla testata del letto si vedeva la neve che scendeva lieve nella luce del lampione. Suo padre bussò alla porta. Chiese se poteva entrare. - … Non è chiuso a chiave, – fu la risposta di lei. - Bene, – disse lui varcando la soglia, – allora è così che i ricchi passano le loro giornate. Mica male. Lei capì che quelle parole se le era preparate. Non alzò gli occhi, ma si mise a lisciare la coperta con una mano. – Ho l’influenza. - A giudicare dall’odore, pare che ti sia fatta una scorpacciata di hot dog. Non sorrise e non rispose. - Sai cosa mi ricorda quest’odore? Mi ricorda lo stadio di Comiskey Park, a Chicago. - E’ un senapismo, – disse infine lei. Bene, – disse lui, chiudendo la porta con una spinta, – è uno dei grandi piaceri nella vita di tua nonna. Quello è uno, - disse, abbassando la voce, – e l’altro è… No, mi sa che altri non ne ha. Lucy si limitò a stringersi nelle spalle, come se non avesse alcuna opinione, né in un senso né nell’altro, sulle abitudini della gente. Faceva lo spiritoso perché sapeva o perché non sapeva? Vide con la coda dell’occhio che i pallidi peli sul dorso delle sue mani erano bagnati.

Si era lavato prima di entrare in camera sua. L’odore della cena cucinata al piano di sotto le fece venire un principio di nausea. – Ti spiace se mi siedo qui in fondo? – disse lui. - Se vuoi. Non doveva più vomitare. Non doveva fargli venire dei sospetti. No, non voleva che lui lo sapesse, mai e poi mai! - Vediamo, – stava dicendo. – Voglio o non voglio? Voglio. Lei sbadigliò mentre lui si sedeva. - Allora, – disse lui, – bello accogliente qui. Lei teneva lo sguardo fisso davanti a sé contemplando la neve all’esterno. - Quest’anno l’inverno arriva in fretta, – disse lui. Lei gli lanciò un’occhiata. – Così pare. Tornando subito a guardare fuori dalla finestra, mantenne il controllo; non ricordava l’ultima volta in cui l’aveva guardato dritto negli occhi. Ti ho mai raccontato – disse lui – di quando mi sono slogato la caviglia mentre lavoravo da McConnell? Si è gonfiata e sono venuto a casa, e tua nonna si è subito illuminata. Impacchi caldi, ha detto. Così mi sono seduto in cucina e mi sono tirato su la gamba dei pantaloni. Avresti dovuto vederla mentre faceva bollire l’acqua sulla stufa. Veniva da pensare ai cannibali in Africa. Per lei una cosa che non puzza e non brucia non può far bene. E se gli avesse sbattuto in faccia la verità? C’è un sacco di gente così, – disse… – Allora, – e diede una strizzata al piede di lei che faceva capolino in fondo al letto, – come va al college, ochetta? - Tutto bene. - Ho saputo che stai imparando il francese. Parlez–vous? - Francese è uno dei miei corsi, sì. – E, vediamo… che altro? E’ un bel po’ che io e te non ci facciamo una bella chiacchierata, vero? Non rispose. - Oh, e Roy come sta?

All’istante lei disse: – Bene. Finalmente il padre le tolse la mano dal piede. – Dunque, - disse. – Abbiamo sentito, sai, del matrimonio. Dov’è papà Will? – domandò lei. - Adesso ti sto parlando, Lucy.

Perché vuoi lui, se ti sto parlando? - Non ho detto che lo volevo. Ho solo chiesto dov’è.

- Fuori, – disse il padre. - Non viene neanche a cena? - E’ uscito! – Si alzò dal letto. – Non gli chiedo mica dove va, o a che ora mangia. Come faccio a sapere dov’è? E’ fuori!

E se ne andò.

Pochi secondi dopo, comparve la madre. - Cos’è successo ora? - Gli ho chiesto dov’era papà Will, tutto qui, – rispose Lucy. – Cosa c’è di male? -Ma chi è tuo padre? Papà Will o tuo padre? - Ma tu gliel’hai detto! – sbottò lei. - Lucy, abbassa la voce, – disse lei, chiudendo la porta. - Ma gliel’hai detto! E io non ti avevo detto di dirglielo! - Lucy, sei venuta a casa, cara; hai detto… - Non voglio che lo sappia! Non sono affari suoi! – Ora smettila, Lucy… se non vuoi che lo vengano a sapere anche gli altri.

- Non m’importa chi lo viene a sapere! Non me ne vergogno! E non metterti a piangere, mamma!

- Allora lascialo parlare con te, per favore. Ci tiene. - Oh, davvero? - Lucy, lo devi ascoltare. Gli devi dare una possibilità. Si voltò e nascose la faccia nel cuscino. – Non volevo che lo sapesse, mamma. La madre si sedette sul letto, e le mise una mano sui capelli. - E poi, – disse Lucy, tornando a girarsi verso di lei, che cos’ha da dire? Perché non l’ha detto e basta, se aveva qualcosa da dire? - Perché, – disse la madre in tono supplichevole, – tu non gli hai dato modo di dirlo. - Allora do modo di dirlo a te, mamma -. Ci fu un silenzio. – Parla! - Lucy… cara… che cosa ne penseresti… Che cosa ne diresti, cioè, che cosa ne penseresti, di andare… - Oh, no.

- Per favore, lasciami finire. Di andare a stare dalla cugina di tuo padre, Vera. In Florida.

- Sarebbe questa la sua idea di cosa fare di me? - Lucy, solo finché non è finita. Per il poco che ci vorrà. – Nove mesi non sono poco, mamma - Ma là fa caldo, staresti bene… - Oh, – disse lei, scoppiando a piangere nel cuscino, benissimo. Perché non mi spedisce in un istituto per ragazze traviate? Sarebbe ancora più semplice. - Non dire così. Non vuole mandarti da nessuna parte, lo sai. - Vorrebbe che non fossi mai nata, mamma. Pensa sia colpa mia se a lui va tutto storto. - Non è vero. - Così poi, – disse lei, singhiozzando, – avrebbe una cosa in meno di cui sentirsi in colpa. Se mai si è sentito in colpa di qualcosa. – Certo che si sente in colpa. Terribilmente in colpa. - Giustamente, – disse lei. – Ne ha tutti i motivi!

Circa venti minuti dopo che la madre era scappata via dalla stanza, bussò papà Will. Indossava il giaccone e teneva il berretto fra le mani. La tesa era scura dove la neve l’aveva inumidita.

- Ehi, ho sentito che qualcuno ha chiesto di me. - Ciao. - Sei ridotta uno straccio, amica mia. Dovresti sentire che vento c’è là fuori. Allora sì che apprezzeresti la fortuna di startene a letto malata. Lei non replicò. - Lo stomaco si è sistemato? – domandò lui. -Sì. Avvicinò una sedia al bordo del letto. – Che ne dici di un altro senapismo? Berta mi ha chiamato dagli Erwin e mentre tornavo a casa mi sono fermato a comprarne una confezione. Perciò basta che lo dici. Lei si voltò verso il muro. - Che c’è, Lucy? Forse vuoi il dottor Eglund. Io gliel’ho detto a Myra… – Avvicinò ancora la sedia. – Lucy, non l’ho mai visto così cambiato, – disse suadente. – Neanche un goccio… non un singolo goccio, tesoro. Ha accettato questa tua decisione senza battere ciglio. Tu hai fissato una data e lui ha subito acconsentito. Tutti abbiamo acconsentito… qualunque cosa tu ritenga possa rendere felice te e Roy.

- Voglio mia madre. - Di nuovo non ti senti bene? Forse il dottore… - Voglio mia madre! Mia madre… e non lui! Era ancora voltata verso il muro quando la porta si aprì. - Myra, – disse suo padre, – va’ a sederti là. Siediti, ho detto. - Sì. – Bene, Lucy. Girati -. Ora lui era in piedi accanto al letto. – Voltati di qua, ho detto. - Lucy, – la supplicò la madre, – guardaci, per favore. Non ho bisogno di vedere che ha le scarpe lucide e la mascella ferma e che uomo nuovo è diventato. Non ho bisogno di vedere la sua cravatta, o la sua faccia!

- Lucy… - Myra, sta’ zitta. Se in un momento come questo vuole comportarsi come una bambina di due anni, lasciala fare. Lei sussurrò: – Senti chi parla di bambini di due anni. Ascolta, signorina. Le tue risposte impertinenti non mi fanno né caldo né freddo. Ci sono sempre state adolescenti sputasentenze, e ci saranno sempre, soprattutto in questa generazione. Mi basta che mi ascolti, e se ti vergogni troppo per guardarmi negli occhi…

- Vergognarmi! gridò lei, ma non si mosse. - Hai intenzione o meno di andare dalla cugina Vera? - Io la cugina Vera nemmeno la conosco. - Non è questo che ti sto chiedendo. - Non posso andarmene da sola da una persona che nemmeno conosco… e poi? Devo pure inventarmi qualche sporca bugia per i vicini…?

- Ma non sarebbe una bugia, – disse la madre. - Cosa sarebbe, mamma? La verità? - Sarebbe una storia, – disse il padre. Ad esempio che hai un marito oltremare, nell’esercito. - Oh, tu te ne intendi di storie, non c’è dubbio. Io però dico la verità! Allora, – ribatté lui, – dimmelo tu cosa intendi fare ora che ti sei inguaiata con uno che dici di non sopportare neanche. Si girò con violenza, come se volesse scagliarsi contro di lui. – Non assumere quel tono con me! Non permetterti! - Io non sto assumendo nessun tono! Perché io non mi vergogno… di certo non mi vergogno di fronte a te. Sta’ attenta, sta’ solo attenta. Te la posso dare ancora una lezione, anche se ti credi tanto furba. - Oh, – disse lei amara, davvero? - Sì! - Avanti, allora. - Oh, splendido, – disse lui, e andò alla finestra, dove rimase come a guardare fuori. – Proprio splendido. - Lucy, – disse la madre, – se non vuoi andare dalla cugina Vera, allora che cosa vuoi fare? Spiegacelo. - Siete voi i genitori. Avevate sempre tanta voglia di fare i genitori…

- Ora senti, – disse il padre, voltandosi di nuovo verso di lei. – Primo, Myra, tu siediti. E stattene seduta. E tu, – disse, brandendo un dito verso sua figlia, – tu ascoltami bene, capito? E’ una situazione critica, lo capisci questo? Una situazione critica che riguarda mia figlia, e io intendo affrontarla, e la affronterò. - Bene, – disse Lucy. – Affrontala. - Allora sta’ zitta, – la implorò la madre, – e lascialo parlare, Lucy -. Ma quando fece per spostarsi a sedere sul letto, il marito la fulminò con lo sguardo, e lei ci rinunciò. – Allora, o lo faccio io, – disse alla moglie, parlando fra i denti, – o non lo faccio io. Quale delle due? Lei abbassò gli occhi.

- Ma naturalmente forse preferisci chiamare il tuo paparino, – disse lui. - Scusa.

Ora, – disse il padre, – se tu volessi sposare Roy Bassart, come avevamo capito noi, Lucy, fino a oggi, dandoti tutto il nostro appoggio, sarebbe un conto. Ma così è tutta un’altra cosa. Che razza di persona sia, adesso mi è chiaro, e meno parliamo di lui meglio è. Comprendo tutto il quadro, perciò non c’è bisogno di alzare la voce. Un ragazzo più grande, appena tornato dal servizio militare, che ha pensato bene di approfittarsi di una studentessa di diciassette anni. E l’ha fatto. Ma questi sono problemi di suo padre, Lucy, e ci toccherà confidare nel suo nobile e potente padre, il professorone, perché insegni qualcosa al suo ragazzo a suon di ceffoni. Oh, suo padre lo crede tanto superiore, tanto perbenino, però mi sa che adesso avrà modo di cambiare idea. Io invece mi preoccupo per te, Lucy, di cosa è meglio per te. Lo capisci questo?

Io mi preoccupo per l’università, che è sempre stata il tuo sogno, giusto? Ora, la domanda è questa, il tuo sogno lo vuoi ancora, oppure no? Lei non gli fece la cortesia di rispondere.

- Okay, – disse lui, – darò per scontato che lo vuoi, come lo hai sempre voluto. Ora, perché tu possa avere il tuo sogno io sono disposto a fare qualunque cosa… Mi stai ascoltando? Qualunque cosa che ti permetta di averlo, mi segui? Perché quello che ti ha fatto quel cosiddetto reduce, la cosa per cui mi piacerebbe strozzarlo, be’, non ti porterà via per sempre il tuo sogno… Ora, qualunque cosa, – continuò. – Anche qualcosa di insolito e bizzarro, qualcosa che per certa gente sarebbe assolutamente fuori questione -. Si avvicinò al letto in modo da poter parlare senza essere udito all’esterno della stanza. – Ora, lo sai cosa significa qualunque cosa, prima che io passi al punto successivo? - Rinunciare al whiskey? Significa che voglio che tu vada all’università! E al whiskey ci ho già rinunciato, tanto per la cronaca! - Ah, sì? – chiese lei. – Di nuovo? - Lucy, dal giorno del Ringraziamento, – prese a dire sua madre. - Myra, tu sta’ zitta. - Le stavo solo spiegando… Glielo spiego io, – disse lui. – Sono io ora quello che spiega le cose.

- Sì, – disse la moglie con voce sommessa. - Ora, – disse lui, rivolgendosi di nuovo a Lucy. – Il bere non c’entra niente. La questione non è il bere. - Ah, no? - No! La questione è il bambino! E questo le fece distogliere lo sguardo. - La questione è un figlio illegittimo, – ripeté lui. – E se tu questo figlio illegittimo non lo vuoi, – la sua voce si abbassò fin quasi a un sussurro, – allora forse dovremo fare in modo che tu non lo abbia. Se ti ostini a non voler prendere in considerazione la cugina Vera… - Assolutamente. Non passerò nove mesi a mentire. Non diventerò grossa e incinta e non mentirò! - Shhh! - Be’, non lo farò, – borbottò lei. - Okay -.

Lui si asciugò la bocca con una mano. – Okay Lucy gli vedeva il sudore sopra il labbro e sulla fronte. – Allora affrontiamo le cose per ordine.

E senza alzare la voce, dato che c’è altra gente che abita in questa casa. - Siamo noi l’altra gente che abita qui. - Sta’ zitta! disse lui. – Questo lo sanno tutti, anche senza le tue risposte impertinenti! - Allora cos’è che mi stai proponendo? Dillo! Finalmente la madre si avvicinò svelta al letto. – Lucy, - disse, prendendole una mano, – è solo per aiutare te… E poi il padre le prese l’altra mano, e fu come se una scarica elettrica dovesse passare fra loro. Lei chiuse gli occhi, in attesa, e il padre parlò. E lei lo lasciò parlare. E vide il futuro. Si vide seduta fra i due genitori mentre il padre li portava in macchina oltre il ponte di Winnisaw. Sarebbe stata mattina presto. Il medico avrebbe appena finito la colazione. Sarebbe venuto alla porta ad accoglierli; il padre gli avrebbe stretto la mano. Nel suo studio il medico si sarebbe seduto dietro una grossa scrivania scura, e lei si sarebbe seduta su una sedia, e i genitori si sarebbero accomodati insieme su un divano, mentre il medico spiegava nei dettagli quel che stava per fare. Ci sarebbero stati tutti i suoi attestati appesi alla parete, incorniciati. Quando lei fosse andata con lui nella piccola sala operatoria bianca, la madre e il padre le avrebbero sorriso dal divano.

E avrebbero aspettato lì finché non fosse stata l’ora di infagottarla e riportarla a casa. Quando il padre ebbe terminato, lei disse: – Deve costare una fortuna. - I soldi non contano, tesoro, – disse lui. Conti solo tu, – disse la madre. Che belle parole. Sembrava una poesia.

Stava giusto cominciando a studiare anche poesia. Il suo ultimo compito di inglese era stato un’interpretazione di Ozymandias. Aveva riavuto indietro il compito quel lunedì mattina: un 8+ per la prima interpretazione di una poesia che avesse mai scritto. Solo che quel lunedì aveva pensato che sarebbe stata anche l’ultima. Prima che quella sera Roy tornasse finalmente a Fort Kean, il suo pensiero ricorrente era stato quello di scappare. E adesso non avrebbe più dovuto farlo, e non avrebbe neanche dovuto sposarlo. Ora avrebbe potuto concentrarsi su una cosa e una cosa soltanto: l’università, il francese, la storia, la poesia… I soldi non contano, Conti solo tu. - Ma dove li prenderete, disse con voce sommessa, – tutti quei soldi? - Lascia che di questo mi preoccupi io, – disse il padre. - Okay?

- Lavorerai? - Wow, disse lui a Myra. – Certo che non ha peli sulla lingua, tua figlia.

Il rosso che aveva colorito le sue guance non se ne andò, sebbene lui cercasse di mantenere un tono pacato e scherzoso. – Senti, ochetta, che dici? Mi dai tregua, okay? E comunque dove credi che sia stato tutto il giorno, eh? A fare una passeggiata lungo il viale? A giocare a tennis?

Cosa credi che faccia da tutta la vita, da quando avevo diciotto anni, e a metà tempo anche prima? Lavoro, Lucy, il solito lavoro, ogni santo giorno. - Non in un posto fisso, – disse lei. - Va bene… ho girato un po’… questo è vero… Le veniva da piangere: stavano parlando!

- Senti, – disse lui, – sforzati di vederla così: hai un padre tuttofare. Dovresti andarne fiera. Su, ochetta bella, che ne dici di farmi un sorriso come quelli che mi facevi in tempi ormai preistorici? Al tempo in cui «zompavi». Eh, ochettina? Lei sentì che la madre le stringeva forte la mano. - Di’ un po’, – disse lui, secondo te perché la gente assume sempre volentieri Duane Nelson? Perché passa il tempo a girarsi i pollici, o perché conosce alla perfezione ogni macchinario esistente? Quale delle due? Non è una domanda difficile, vero, per una furba ragazza del college?… Dopo avrebbe potuto leggere a letto. Si sarebbe fatta mandare i compiti per posta durante la convalescenza. Sì, una ragazza del college. E senza Roy. Non che lui fosse tanto male; è che non faceva per lei, ecco tutto. Sarebbe sparito, e lei avrebbe potuto cominciare a farsi delle amiche all’università, amiche da portare a casa quando fosse venuta a trovare i suoi nel fine settimana. Perché le cose sarebbero cambiate. Poteva essere? Sarebbero finalmente terminati quei terribili giorni di odio e solitudine? A pensarci, avrebbe potuto ricominciare a parlare con i suoi, a mostrare loro i libri che usava nei suoi corsi, i suoi compiti scritti. Infilzato nel libro di inglese, proprio lì sul pavimento, c’era il tema su Ozymandias. 8+, e sulla prima pagina il professore aveva scritto: «Sviluppo eccellente; buona comprensione del significato; buon uso delle citazioni; però, per favore, frasi un po’ meno ampollose». E in effetti forse aveva un po’ esagerato con la frase d’attacco, ma la sua intenzione era stata quella di esporre subito tutte le idee che avrebbe poi illustrato nel corso del tema. «Anche un grande re, – così cominciava il compito, – come a quanto pare era stato Ozymandias, non poteva prevedere o controllare quel che il futuro, o il Fato, avevano in serbo per lui e il suo regno; questo, credo, è il messaggio che Percy Bysshe Shelley, il poeta, intende far giungere fino a noi attraverso la sua poesia romantica “Ozymandias“,” che non solo affronta il tema della vanità dei desideri umani, fossero pure di un re, ma tratta anche il concetto dell’immensità della vita “nuda e sconfinata” e l’inevitabilità del “colossale naufragio“ di ogni cosa, a confronto con il ”ghigno del freddo dominio“, che è l’unica cosa di cui molti semplici mortali abbiano il dominio, purtroppo». - Ma è pulito? – chiese. – Al cento per cento, – disse il padre. – Immacolato, Lucy. Come un ospedale.

- E l’età? – disse lei. – Quanti anni ha? - Oh, – disse il padre, – è un uomo di mezza età, direi. Trascorse un istante. Poi: – E’ questo l’inghippo, vero? - Che inghippo? - E’ troppo vecchio. Andiamo, cosa intendi con «troppo vecchio»? Se non altro, avrà un bel po’ d’esperienza. - Ma fa solo questo? - Lucy, è un medico in regola… che fa questo come favore speciale, tutto qui. – Però si fa pagare, hai detto. - Be’, certo che si fa pagare.

- Allora non è un favore speciale. Lo fa per soldi. - Sai com’è, tutti hanno le bollette da pagare. Tutti devono guadagnare con quello che fanno. Ma lei si vide morta. Il medico non sarebbe stato bravo, e lei sarebbe morta. Come hai saputo di lui? - Perché… – e a quel punto si alzò in piedi, e si tirò su i pantaloni. – Da un amico, – disse infine. – Chi? Lucy, temo di dover mantenere il segreto. - Ma dov’è che hai sentito parlare di lui? – Dove mai aveva sentito parlare di un simile medico? Presso il rinomato Earl’s Dugout of Buddies? - Lucy, non è necessario, - disse la madre. Il padre andò di nuovo alla finestra. Pulì un vetro con il palmo della mano. – Bene, – disse, – ha smesso di nevicare. Ha smesso di nevicare, se a qualcuno importa. - Volevo solo… cominciò Lucy. - Cosa? – Si era di nuovo voltato verso di lei. … sapere se… conosci una persona a cui l’ha fatto, tutto qui. – Sì, per tua informazione, si dà il caso che ne conosca. - E questa persona è ancora viva? - Per tua informazione, sì! - Bene, si tratta della mia vita. Ho il diritto di saperlo. - Perché non ti fidi di me? Non ho mica intenzione di farti ammazzare!

- Oh, Duane, disse la madre, – certo che si fida. - Non parlare a mio nome, mamma! La senti? – gridò lui alla moglie. - Sai com’è, potrebbe anche essere un suo compare di bevute, un ciarlatano che si spaccia per dottore. Come faccio a saperlo, mamma? Magari è addirittura Earl, con le sue bretelle rosse! - Già, ecco chi è, – urlò il padre. – Earl DuVal! Certo!

Ma che cos’hai nella testa? Pensi che io non parli sul serio quando dico che voglio vederti finire l’università? - Cara, certo che dice sul serio. Sei sua figlia. - Il che non significa che lui sappia se un dottore è bravo o no, mamma. E se muoio? - Ma te l’ho detto, gridò lui, mostrandole il pugno, – non morirai! - Ma tu come fai a saperlo? - Perché lei non è mica morta! - Lei chi? Non ci fu bisogno di aggiungere altro perché lei capisse. - Oh, no -. Si lasciò lentamente ricadere contro la testata del letto. La madre, al suo fianco, si nascose la faccia tra le mani, - Quando? – disse Lucy. Ma è viva, no? – Il padre si stava strattonando la camicia con tutt’e due le mani. – Rispondi a quello che dico! Ti sto parlando! Lei non è morta! Non le è capitato niente di male! - Mamma, – disse lei, voltandosi verso Myra, – quando? Ma lei si limitò a scrollare il capo.

Lucy scese dal letto. - Mamma, quand’è che ti ha costretto a farlo? Non mi ha costretto.

- Oh, mamma, – disse Lucy, in piedi di fronte a lei. – Tu sei la mia mamma. - Lucy, erano gli anni della Depressione. Tu eri piccola. E’ passato tanto tempo. Oh, Lucy, è tutto dimenticato.

Papà Will, la nonna, loro non lo sanno, – sussurrò, – e non devono saperlo… - Ma la Depressione era finita quando avevo tre anni, quando ne avevo quattro. - Cosa? – gridò il padre. – Stai scherzando? – Alla moglie disse: – Sta scherzando? - Lucy, – disse la madre, – l’abbiamo fatto per te. - Oh, già, – disse lei, rimettendosi a letto, – per me, tutto è stato fatto per me. – Lucy, non potevamo permetterci un altro bambino, – disse la madre. – Eravamo a terra, stavamo cercando di ritirarci su… - Ma se solo lui avesse fatto il suo dovere! Se solo avesse smesso di comportarsi da vigliacco!

- Senti, – disse lui, avvicinandosi rabbioso, – tu non sai neanche quando è stata la Depressione, e nemmeno che cos’è stata… quindi bada a quel che dici! - E invece lo so!

- L’intero paese era in ginocchio. Non solo io! Se vuoi insultare qualcuno, insulta gli interi Stati Uniti d’America! - Come no, l’intero mondo. - Non la sai la storia? – gridò lui. – Non sai niente di niente? - Io so quello che tu l’hai costretta a fare! - Ma, – protestò la madre, – io volevo farlo. - Hai sentito? – urlò lui. – L’hai sentito cosa ti ha appena detto tua madre?

- Ma sei tu l’uomo! - Sono anche un essere umano! - Questa non è una scusa valida! - Oh, cosa discuto a fare con te? Tu non capisci un fico secco della vita, e non lo capirai mai! Tu non lo sapresti riconoscere, un comportamento da uomo, se anche io mi comportassi come tale! Silenzio. - Lo senti, mamma? Lo senti tuo marito? – disse Lucy. - Lo senti cosa ha appena detto, così esplicitamente? - Oh, cerca di capire cosa intendo, – protestò lui. - Ma quello che hai detto… - Non me ne frega niente! Smettila di tendermi tranelli! Sono venuto qui per risolvere una crisi, ma come faccio, se non mi lasciate nemmeno cominciare? O finire! Preferisci tendermi tranelli… farmi sbattere in galera! E’ questo che preferisci fare. Umiliarmi di fronte a tutti, rendermi lo zimbello della città. L’ubriacone della città! - L’ubriacone della città? – disse lui. L’ubriacone della città? Dovresti vederlo l’ubriacone della città. Tu credi che l’ubriacone della città sia io! Be’, dovresti vederlo un ubriacone della città, e poi ci penseresti due volte prima di dire una bestialità simile. Tu non lo sai com’è l’ubriacone della città. Non sai niente di niente! Tu… tu vuoi solo vedermi dietro le sbarre… è questo il tuo grande desiderio nella vita, e lo è sempre stato! – Non è vero. - Sì, è vero! - Ma adesso è finita, – protestò Myra. - Oh, certo che è finita, – disse Whitey. – Certo, la gente se lo dimentica che una figlia ha spedito il padre in galera. Certo, la gente non parla dietro le spalle. Alla gente non piace spettegolare, no. La gente è sempre pronta a darti un’altra occasione per cambiare e risalire a galla. Certo, è proprio questo il punto, in questa scenata. Puoi scommetterci. Oh, ormai per lei sono segnato, porca miseria… ci ha messo una croce sopra. Ecco quant’è brava, la tua cosiddetta figlia da borsa di studio per il college. Allora, avanti, cosiddetta figlia che ha tutte le risposte… trovatela da te la soluzione per la tua vita. Visto che io non sono abbastanza in gamba per te, e non lo sono mai stato. Del resto che cosa sono io? Per lei sono l’ubriacone della città. Aprì la porta e scese rumorosamente le scale. Lo sentirono strepitare nel salotto. – Avanti, Carroll. Tu qui sei l’unico in grado di sistemare le cose. Avanti, tanto qui tutti vogliono papà Will. Io sono solo un accessorio. Che ci sia o meno è la stessa cosa, lo sappiamo tutti. Urlare non serve a niente, Duane… - Giusto, hai ragione, Berta. Niente serve a niente qui. - Willard, – disse Berta, – spiega a quest’uomo…

- Qual è il problema, Duane? Cos’è quest’agitazione? – Oh, niente che tu non possa risolvere, Willard. Perché tu sei il paparino, e io, io che ci sia o meno è la stessa cosa.

- Willard, dove sta andando? La cena è pronta. - Duane, dove stai andando? - Non lo so. Magari faccio un salto a salutare il vecchio Tom Whipper. E chi è? L’ubriacone della città, Willard! Ecco chi è l’ubriacone della città, dannazione… Tom Whipper! La porta sbatté, e poi in casa tutto tacque, tranne i bisbigli al pianoterra. Lucy era distesa immobile sul letto. La madre stava piangendo. - Mamma, perché, perché hai lasciato che ti costringesse a farlo? - Ho fatto quel che dovevo, – disse la madre in tono luttuoso. - No! Tu hai lasciato che calpestasse la tua dignità, mamma! Sei stata il suo zerbino! La sua schiava! – Lucy, ho fatto quel che era necessario, – disse lei, singhiozzando. - Il che non è sempre giusto, però. Tu dovevi fare quel che era giusto! – Lo era -. Parlava come in trance. – Lo era, lo era… - Non era giusto!

Non per te! Lui ti degrada, mamma, e tu glielo permetti! Sempre! Da tutta la vita! - Oh, Lucy, qualunque cosa diciamo, qualunque nostro consiglio, tu rifiuti. - Sì, rifiuto… rifiuto di rivivere la tua stessa vita, mamma, ecco cosa rifiuto!

Il testimone di nozze di Roy fu Joe Whetstone, di ritorno a casa dall’Università dell’Alabama, dove aveva piazzato nove calci di trasformazione consecutivi facendo guadagnare ventitre punti alla squadra di football delle matricole. La damigella d’onore era Eleanor Sowerby. All’insaputa di Joe, alla Northwestern Ellie si era innamorata.

Non riuscì a non dirlo a Lucy, anche se le fece promettere di non parlarne con nessuno, nemmeno con Roy. Avrebbe dovuto scrivere presto una lettera a Joe, e non voleva doverci pensare durante le vacanze; sarebbe già stato abbastanza penoso quando fosse giunto il momento. O Ellie aveva perdonato Lucy per averle dato della cretina il giorno del Ringraziamento, oppure era disposta a dimenticarsene per la durata del matrimonio. Per tutta la cerimonia il suo adorabile viso fu rigato dalle lacrime, e anche lei mosse le labbra quando Lucy disse: «Si». Dopo la cerimonia, papà Will disse a Lucy che era la più bella sposa che avesse mai visto, esclusa sua madre. «Una vera sposa, – continuava a dire, non è vero, Berta?» – Congratulazioni, – disse la nonna. – Sei stata una vera sposa. Quello era il massimo a cui potesse arrivare; adesso sapeva che non era stata l’influenza a far vomitare Lucy nel lavandino della cucina. Julian Sowerby la baciò di nuovo. – Bene, – disse, – mi sa che adesso potrà farlo sempre. – Adesso io potrò farlo sempre, - disse Roy.

E Julian: – Fortunato te, ragazzo, è proprio un bocconcino, – senza in alcun modo lasciar trasparire che una volta al bar dell’hotel Kean gli aveva fatto un predicozzo di quattro ore sulle nefaste conseguenze del diventare suo marito. E Irene Sowerby non lasciò trasparire la sua segreta convinzione che Lucy non provasse emozioni normali. – Buona fortuna, – disse alla sposa, toccandole una guancia con le labbra. Prese una mano a Roy e la tenne molto a lungo prima di sentirsi pronta a parlare. E poi non ci riuscì. Poi i suoi genitori. – Figlia, – fu l’unica parola che sentì all’orecchio; ed era stata talmente rigida nel suo abbraccio che forse lui non aveva detto altro. – Oh, Lucy, – disse la madre, con le ciglia bagnate contro la faccia di Lucy, – sii felice.

Lo puoi essere se solo ci provi. Eri la bambina più felice… Poi si fecero avanti entrambi i genitori di Roy, e dopo un momento in cui pareva che ciascuno dei due volesse lasciare la precedenza all’altro, i due Bassart si avventarono simultaneamente sulla sposa. Il groviglio di braccia e facce che ne seguì diede a tutti i presenti il pretesto per una bella risata. Lloyd Bassart era l’adulto che alla fine aveva preso le parti della giovane coppia, e l’aveva sostenuta nel suo desiderio di sposarsi a Natale – o anche prima, se fosse stato possibile. Quella svolta improvvisa si era verificata una sera ai primi di dicembre, quando Roy al telefono era crollato e aveva detto ai suoi genitori – che ancora una volta stavano cercando di dissuaderlo – di smetterla. – Non ce la faccio più! – aveva gridato. – Basta! Basta! Lucy è incinta! Bene.

Bene. Erano bastati solo i due «bene». Se le cose stavano così come Roy aveva appena confessato, allora suo padre non riteneva che Roy avesse altra scelta che assumersi la responsabilità di quel che aveva fatto.

Tra il fare la cosa giusta e il fare la cosa sbagliata, non c’era da esitare, a modo di vedere di Mr Bassart. In lacrime, Roy aveva detto che era più o meno quel che aveva sempre pensato lui. – Lo spero proprio, aveva detto il padre, e così, finalmente, il dado fu tratto.

PARTE TERZA 

CAPITOLO PRIMO

Si trasferì da lui presso Mrs Blodgett. Mrs Blodgett che le aveva dato della svergognata. Mrs Blodgett che aveva dato a Roy del dissoluto. Mrs Blodgett con le sue mille regole e cavilli. Ma Lucy non diceva nulla.

Nelle settimane e nei mesi successivi al matrimonio, si trovò a cercare con tutte le sue forze di fare come le veniva detto. Non puoi mettere in discussione qualunque parola e azione di una persona e aspettarti di essere felice con quella persona, o aspettarti che quella persona sia felice. Erano sposati. Doveva fidarsi di lui; altrimenti che razza di vita sarebbe stata? Mrs Blodgett e Roy si erano messi d’accordo preventivamente: solo cinque dollari di affitto in più al mese. Lucy avrebbe dovuto ammettere che si trattava di un vero affare, soprattutto perché Roy aveva ottenuto di poter usare la cucina nell’ora compresa fra le sette e le otto di sera. Ovviamente dovevano lasciare la cucina esattamente come l’avevano trovata. Dopotutto non era la cucina di un albergo, era la cucina di un’abitazione privata; ma a quanto pareva Roy aveva assicurato a Mrs Blodgett che Lucy teneva la casa come uno specchio e, avendo lavorato per tre anni al Dairy Bar su a Liberty Center dopo la scuola e durante l’estate, sapeva bene come muoversi in cucina. – Ma è questo il problema, Mr Bassart, questo non è un bar, non è un… – Roy allora le aveva assicurato che anche lui avrebbe affiancato Lucy in cucina. Cioè? In pratica, se Mrs Blodgett avesse lasciato delle stoviglie della sua cena, loro avrebbero lavato volentieri anche quelle, già che lavavano le loro. Una volta nell’esercito l’avevano assegnato a lavare pentole e padelle per diciassette ore consecutive; quindi non si lasciava certo spaventare da un piatto in più o in meno, glielo assicurava. Mrs Blodgett aveva detto che avrebbe concesso loro l’uso della cucina, in prova, e solo finché non ne avessero abusato. Nei mesi successivi, diverse volte Roy andò dopo cena a bussare alla porta del salotto per chiedere alla padrona di casa se le andava di far loro compagnia per il dessert. In privato disse a Lucy che i budini al cioccolato o la macedonia in più non costavano che qualche centesimo, e una lunatica come Mrs Blodgett era meglio tenersela buona. Ora che si erano sposati la padrona di casa aveva più o meno recuperato la fiducia in lui, ma in ogni caso, visto che loro tre vivevano sotto lo stesso tetto, non aveva senso cercare guai, soprattutto se era così facile premunirsi usando la testa per tempo. Lei non diceva nulla. Non dovevano bisticciare per cose senza importanza.

Non doveva criticarlo per quello che – diceva a se stessa -, non era che desiderio di compiacere. Alcuni facevano le cose in un certo modo, e Roy le faceva in un altro. Non si erano forse sposati? Non si era forse comportato come aveva voluto lei? FIDATI DI LUI. Con sua sorpresa, quasi non passava domenica senza che andassero fino a Liberty Center a trovare i genitori di lui. Roy diceva che in circostanze normali non sarebbe stato necessario ma, con tutta la tensione dei mesi precedenti, e l’ostilità che si era sviluppata, gli sembrava una buona idea cercare di appianare la cosa prima che il bambino nascesse e la vita diventasse davvero frenetica. Il fatto era che, per la sua famiglia, lei era una sconosciuta, così come lui era uno sconosciuto per quella di lei. Ora che erano sposati, che senso aveva? Si sarebbero visti un sacco negli anni a venire, e gli sembrava ridicolo partire con il piede sbagliato.

Era un viaggio di appena due ore e, a parte la benzina, cosa gli costava? Così lei ci andava: la sera cenavano dai Bassart e poi, mentre uscivano dalla città, passavano a salutare la famiglia di lei.

Silenziosa, lei sedeva in quel salotto in cui aveva sperato di non mettere più piede, mentre Roy intratteneva i suoi per un quarto d’ora parlando del più e del meno, perlopiù a; beneficio di papà Will e del padre di lei. Parlavano molto di case prefabbricate. In teoria il padre di lei stava pensando di costruirsi una casa prefabbricata, e in teoria papà Will la considerava una cosa che il padre di lei era in grado di fare. Roy disse che alla Britannia aveva dei compagni che magari avrebbero potuto dare una mano a disegnare il progetto, quando fosse stato il momento. Gli appaltatori costruivano da un giorno all’altro interi quartieri di prefabbricati, disse Roy. Oh, è una vera rivoluzione edile, disse il padre di lei. Proprio così, Mr Nelson. Già, è l’ultimo grido, disse papà Will. Proprio così, Mr Carroll, tirano su da un giorno all’altro interi quartieri.

Una domenica sera, mentre in macchina stavano tornando a Fort Kean, Roy disse: – Be’, a quanto pare stavolta il tuo vecchio ha smesso davvero. Lo odio, Roy. E lo odierò sempre. Te l’ho ho già detto molto tempo fa, e dicevo sul serio: Di lui non voglio parlare mai! - Va bene, – disse Roy con leggerezza, – va bene, – e così non ci fu bisogno di litigare.

Sembrava disposto a dimenticare di aver mai tirato fuori l’argomento, nonché a dimenticare quell’odio che Lucy aveva cercato di ricordargli.

Così, domenica dopo domenica, partivano, come una qualunque giovane coppia, per andare a trovare i suoceri. Ma perché? Perché? Perché erano esattamente questo: lei era sua moglie. E la madre di lei era la suocera di lui. E il padre di lei, con i nuovi baffi folti e i nuovi progetti brillanti, era il suocero di Roy. - Però preferirei di no, Roy, almeno oggi. – Ma dài, ormai siamo qui, no? Che figura ci facciamo se ce ne andiamo senza neanche fargli un saluto? Cosa sarà mai? Su, tesoro, non fare la bambina, sali in macchina… attenta, sta’ attenta al pancione. E lei non discuteva. Forse non era più in grado di discutere?

Si era battuta e battuta per spingerlo a fare il suo dovere, però alla fine l’aveva fatto. Cos’altro c’era per cui valesse la pena litigare?

Semplicemente non trovava la forza per alzare la voce. E comunque doveva rispettarlo. Non doveva prendersela per quello che diceva, o contestare le sue opinioni, o controbattere, specialmente su argomenti che lui conosceva meglio di lei. Almeno in teoria. Era sua moglie; doveva solidarizzare con il suo punto di vista, anche se non sempre lo condivideva, soprattutto quando lui cominciava a spiegarle quanto la sapesse più lunga dei suoi insegnanti alla Britannia. Purtroppo la Britannia si era rivelata ben diversa da quanto promettevano tutte quelle sciccose brochure. Tanto per cominciare, non era stata fondata nel 1910, almeno non come scuola di fotografia. Avevano deciso di aprirsi alla fotografia solo dopo la guerra, in modo da assicurarsi una fetta più grande del business dei sussidi per i veterani. Per i primi trentacinque anni della sua esistenza, era stata una scuola per geometri chiamata Istituto tecnico Britannia, e i due terzi degli studenti erano ancora adesso ragazzi interessati a entrare nel settore edile, ragion per cui Roy sapeva tutte quelle cose sul boom dei prefabbricati. Gli aspiranti geometri in fondo non erano male, lo scandalo erano gli aspiranti fotografi. Sebbene per fare domanda si dovesse compilare un lungo modulo, e allegare degli esempi del proprio lavoro, si scoprì che per l’ammissione non era necessario alcun vero requisito. La procedura per la domanda era solo uno specchietto per le allodole, un modo per lasciar credere che il nuovo dipartimento di fotografia avesse chissà che standard. E la qualità del corpo docente era ancora più spaventosa della qualità degli studenti, – in particolare un certo H. Harold LaVoy, che per qualche strano motivo si era convinto di essere un esperto di tecnica fotografica. Un grande esperto. In fatto di composizione, c’era più da imparare sfogliando un singolo numero di «Look» che passando una vita intera ad ascoltare un idiota: pomposo come LaVoy (che fra l’altro secondo alcuni era un invertito. Un vero ricchione. Per l’edificazione di Lucy, imitò la camminata di LaVoy lungo i corridoi. Un po’ effeminata, no? Ma anche un omosessuale avrebbe potuto insegnarti qualcosa se avesse saputo qualcosa. Ma un omosessuale ottuso… be’, era proprio una causa persa). La lezione di LaVoy era alle otto del mattino, la prima della giornata per Roy. E lui puntualmente ogni mattina del primo mese del secondo semestre si alzava e ci andava, ogni mattina andava ad ascoltare quel pallone gonfiato con la voce nasale che farneticava su banalità a cui un qualunque bambino di dieci anni dotato di un paio d’occhi da dieci decimi avrebbe potuto arrivare da solo. «Le ombre vengono prodotte, signori, piazzando un oggetto A fra il sole e un oggetto B». Perdindirindina! Una mattina temporalesca arrivarono fino al portico, poi Roy fece marcia indietro, tornò nella stanza e, scarponi, giacca militare e tutto, si gettò sul letto, gemendo: – Oh, pazienza che sia omosessuale, ma un omosessuale ottuso! – Disse che avrebbe potuto mettere maggiormente a frutto quell’ora standosene lì a casa, ne era certo. E dal momento che la lezione successiva sarebbe cominciata alle undici, restando lì avrebbe guadagnato non solo l’ora che gli faceva perdere LaVoy, ma anche le due seguenti, che di norma trascorreva nella sala comune ad assistere a una delle solite interminabili partite di blackjack. Laggiù era talmente fumoso e rumoroso che non si poteva fare altro. Parlare di fotografia era praticamente impossibile – non che in ogni caso qualcuno dei suoi compagni si mostrasse disponibile in tal senso. A volte con quei tizi gli pareva di stare di nuovo nella sala di ricreazione su nelle Aleutine. E Lucy cosa fece? Andò all’angolo a prendere l’autobus che attraversava la città scaricandola all’università per le otto. Roy disse che poteva accompagnarla lui in macchina, se voleva; adesso che la pancia cresceva, non gli piaceva l’idea che lei prendesse i mezzi pubblici, o camminasse lungo strade scivolose. Ma lei declinò quella prima volta, e anche nelle successive mattine innevate.

Era tutto a posto, disse, non c’era niente di cui preoccuparsi, preferiva non dargli disturbo distraendolo dallo studio se studiare per lui significava starsene seduto sul letto con un paio di forbici e le riviste che sua madre gli teneva da parte ogni settimana, mangiando manciate di biscotti Hydrox! Ma forse sapeva quel che faceva. Forse la sua scuola era davvero una fregatura. Forse i suoi compagni erano davvero dei cretini. Forse LaVoy era davvero pomposo e idiota, e per giunta omosessuale. Forse tutto quel che Roy diceva era vero e tutto quel che Roy faceva era giusto. Così raccontava a se stessa, mentre camminava nella neve per andare a prendere l’autobus, e poi a lezione, in biblioteca, e nella caffetteria dove pranzava da sola dopo la lezione dell’una e mezza. La maggior parte delle ragazze mangiava in refettorio a mezzogiorno, come aveva fatto anche lei finché abitava allo studentato, e adesso preferiva evitarle il più possibile. Alla fine una di loro le avrebbe lanciato un’occhiata di straforo alla pancia, e perché mai avrebbe dovuto affrontare una cosa simile? Quelle fessacchiotte di matricole non avevano motivo di guardarla dall’alto in basso. Per loro, Lucy poteva anche essere la ragazza che aveva dovuto sposarsi per Natale, la ragazza su cui spettegolare e di cui farsi beffe, ma per se stessa lei era Mrs Bassart, e non intendeva andarsene in giro vergognandosi per tutta la giornata. Non aveva niente di cui vergognarsi o pentirsi. Perciò pranzava da sola, alle due e mezza, nel séparé più appartato dell’Old Campus Coffee Shop. La prima domenica di giugno, mentre stavano andando in macchina a Liberty Center, Roy decise che la settimana dopo non avrebbe dato gli esami di fine anno.

Francamente, prove come la riparazione dell’apparecchio fotografico o il ritocco dei negativi avrebbe potuto passarle senza sudare troppo, come dicevano nell’esercito. Perciò non era questione di tirarsi indietro per paura, o di essere troppo pigro per studiare. Non ci sarebbe stato un granché da studiare, a suo modo di vedere. Il motivo per cui trovava assurdo andare a sostenere gli esami di fine anno – a cui, fra parentesi, nella storia del dipartimento di fotografia nessuno era mai stato bocciato, a parte con LaVoy, dove non si trattava di conoscere la materia ma di dare o meno ragione al Sublime LaVoy e alle sue grandi idee -, il motivo per cui lo trovava assurdo era che in ogni caso aveva deciso di non tornare alla Britannia in autunno. O almeno questo era ciò di cui voleva discutere con lei. Ma ne avevano già discusso. Per mantenere lei e il bambino, avrebbe dovuto rinunciare alla scuola durante il giorno; però aveva programmato di iscriversi ai corsi serali.

A quel modo ci sarebbero voluti altri due anni invece di uno, ma era quella la soluzione che avevano concordato nei mesi precedenti. Appunto, ecco perché tirava di nuovo fuori l’argomento. Non aveva senso bazzicare quel posto, né di giorno né di sera. E comunque a cosa gli sarebbe servito, secondo lei, il diploma in Arti fotografiche? Chiunque se ne intendesse un minimo di fotografia sapeva che un diploma della Britannia non valeva la carta su cui era scritto. – E poi, considerati gli insegnanti dei corsi diurni, ti puoi immaginare che geni insegneranno al serale. Lo sai chi è il capo dell’intero programma serale, vero? -Chi? H. Finocchio LaVoy. Perciò ti lascio immaginare. Poi le comunicò la sorpresa che aveva in serbo. Il mattino precedente lui e Mrs Blodgett avevano chiacchierato un po’, e il risultato era che adesso stava per avere la sua prima commissione. Perciò che bisogno aveva di Culattone LaVoy? Il lunedì mattina avrebbe fatto una seduta di ritratti fotografici a Mrs Blodgett in cambio dell’affitto di una settimana, a condizione che il risultato finale le piacesse. Su a Liberty Center, nel pomeriggio Alice Bassart prese da parte Roy e gli raccontò che il padre di Lucy aveva fatto un occhio nero alla madre. Dopo cena Roy portò di sopra Lucy da sola e, con la massima delicatezza possibile, le comunicò la notizia. Lei indossò immediatamente giacca, sciarpa e stivali e, contro il volere di Roy, andò a casa dei suoi a vedere di persona l’occhio nero. E non si trattava di una maldicenza; era la realtà. Da tre giorni Whitey faceva penitenza per il suo misfatto, il pomeriggio in cui scelse di ritornare fu il pomeriggio della visita di sua figlia. Non riuscì a varcare la soglia. Il bambino nacque quattro giorni dopo. Il travaglio ebbe inizio nel bel mezzo dell’esame di inglese di Lucy, e continuò per dodici lunghe, tormentose ore. Lei restò sveglia per tutto il tempo, giurando ogni minuto a se stessa che, se fosse sopravvissuta, suo figlio non avrebbe mai saputo com’era vivere in una casa senza padre. Lei non avrebbe rivissuto la vita di sua madre, e il suo piccolo non avrebbe rivissuto quella di lei. E così per Roy (e, in un certo senso, anche per Whitey Nelson, che dopo quella domenica era completamente scomparso) la luna di miele ebbe fine. La prima proposta di Roy a incontrare un’opposizione fu quella che fece mentre Lucy era ancora in ospedale. Perché non trasferirsi a Liberty Center per l’estate? I suoi genitori avrebbero potuto dormire nella veranda sul retro, cosa che in ogni caso facevano volentieri quando c’era caldo, e loro due e il piccolo Edward avrebbero avuto il piano di sopra tutto per sé. Sarebbe stato un cambiamento meraviglioso per Lucy. Quanto a lui, poteva sopportare di abitare per qualche mese con i suoi, considerando quel che avrebbe significato per Lucy potersi rilassare e riposare. E quel che avrebbe significato per il bambino, che di sicuro su a Liberty Center avrebbe patito meno il caldo. Tutto sommato, sembrava un’idea così buona che la sera prima, quando i suoi genitori erano andati a trovarli all’ospedale, lui li aveva presi da parte e glielo aveva proposto. Aveva preferito non parlarne prima con Lucy per paura che sarebbe rimasta delusa se i suoi avessero sollevato delle obiezioni. Ma in realtà a loro andava benissimo; sua madre era assolutamente estasiata all’idea. Era da un bel po’ che non poteva dedicarsi anima e corpo alla sua specialità: Viziare, con la V maiuscola. Inoltre, molto probabilmente la presenza di Edward avrebbe messo fine a quel briciolo di tensione che ancora esisteva fra loro due e i suoi genitori sfortunato esito delle particolari circostanze delle nozze. Tanto più che adesso avevano alle spalle sei mesi di matrimonio, e un matrimonio davvero armonioso. Roy disse che non si capacitava di quanto, non appena terminata l’incertezza prematrimoniale, loro due si fossero rivelati ben assortiti; se avesse saputo che sarebbe stato così, disse, prendendole una mano, l’avrebbe chiesta in sposa quella prima sera in cui l’aveva seguita in macchina lungo Broadway. Doveva ammettere che gli avrebbe procurato un certo piacere segreto tornare per un po’ a Liberty Center a mostrare a quell’inguaribile san Tommaso di suo padre quanto si era rivelato splendidamente ben assortito il matrimonio di suo figlio. E, domandò Lucy, Roy come li avrebbe mantenuti quando avessero abitato a casa di suo padre? Lui le assicurò che, se c’era un posto dove avrebbe potuto trovare commissioni come fotografo free–lance, quello era la sua città natale. No? Cosa intendeva con no? No. Non credeva alle sue orecchie. Perché no? No!

Come poteva discutere con una persona in un letto d’ospedale? Fece ancora qualche tentativo, ma ottenne solo altri no.

Per fortuna, nei mesi successivi alla nascita di Edward, Mrs Blodgett lasciò che portassero nella stanza il lettino che gli avevano dato i Sowerby, ed estese l’orario di uso della cucina, per un solo dollaro in più alla settimana. Inoltre, accettò il ritratto fotografico che le aveva fatto Roy in cambio dell’affitto di una settimana. Riteneva che i suoi lineamenti risultassero rimpiccioliti, soprattutto gli occhi e la bocca, ma disse a se stessa che, se avesse voluto un lavoro da professionista, si sarebbe rivolta a un professionista; era una persona onesta e non si sarebbe sottratta ai termini dell’accordo. Lucy doveva ammettere, disse Roy, che la padrona di casa li stava trattando con ogni premura. L’accordo dell’anno prima non prevedeva di certo un uomo, sua moglie e un neonato, perciò si augurava che Lucy fosse un po’ più cordiale – oppure accettasse, anche se ormai metà dell’estate se n’era andata, di trascorrere un mesetto dai genitori di lui, così da abitare per qualche tempo in un ambiente più consono alle loro attuali esigenze… Allora, lo avrebbe fatto? Fatto cosa? A quale domanda voleva che rispondesse? Sarebbe andata a Liberty Center? No. Solo per il mese di agosto? No. Bene, allora sarebbe perlomeno stata più affabile con Mrs Blodgett quando la incontrava nel corridoio? Cosa le costava farle un sorriso? Lei era affabile quanto bastava. Ma quella donna stava facendo più del dovuto… Quella donna si prendeva i soldi che aveva chiesto per la camera e la cucina. Se la sistemazione non le aggradava, o non le aggradavano loro, poteva sempre chiedergli di andarsene. Andarsene?

Dove? In un appartamento tutto loro. Ma come potevano permettersi un appartamento tutto loro? Secondo lui? - Guarda che io un impiego lo sto cercando. Ogni santo giorno! E’ estate, Lucy! La verità è questa! I titolari sono tutti in vacanza. Ovunque io vada… scusi tanto, ma il titolare è in vacanza! E i nostri risparmi si stanno assottigliando alla velocità della luce. Se fossimo stati su a Liberty Center, per tutta l’estate non avremmo speso un centesimo. Invece siamo quaggiù, a non combinare niente, con il bambino che patisce il caldo, i soldi che se ne vanno, e io non faccio altro che fare anticamera aspettando persone che non ci sono neppure. Avremmo potuto prenderci una piccola vacanza… una vacanza di cui abbiamo tutti bisogno, che tu te ne renda conto o meno.

Perché adesso lo vedi cosa sta succedendo? Discussioni a non finire.

Anche adesso stiamo discutendo. E perché? Siamo altrettanto ben assortiti adesso di quanto lo eravamo sei mesi fa, Lucy, però discutiamo perché abitiamo in quest’unica stanza, con questo caldo, mentre su a Liberty Center c’è un intero piano inutilizzato. No. Subito prima del Labor Day, Lucy disse che, dato che non sembravano esserci impieghi per un fotografo, forse Roy avrebbe dovuto mettersi a cercare qualche altro tipo di lavoro, ma lui disse che non intendeva restare intrappolato in un impiego che odiava solo perché l’impiego che gli piaceva e per cui era attrezzato non si era ancora concretizzato. Però i loro risparmi si stavano davvero assottigliando, e quei soldi, gli ricordò lei, consistevano non solo in quel che aveva messo da parte lui durante il servizio militare, ma anche in quel che aveva messo da parte lei durante tutti quegli anni al Dairy Bar. Be’, si dava il caso che lo sapesse. Era quel che le stava dicendo da tutta l’estate. Era esattamente quel che avrebbero dovuto evitare… e poi sbatté la porta e uscì di casa prima che Lucy gli facesse il discorso di cui lui aveva percepito l’imminenza, o prima che Mrs Blodgett, che già aveva picchiato sul pavimento di sopra con una scarpa, scendesse le scale e facesse il suo. Appena un’ora dopo arrivò una telefonata per Roy da Mr H. Harold LaVoy dell’istituto Britannia. Disse di essere venuto a sapere che Mr Bassart stava cercando un impiego. Desiderava informarlo che Wendell Hopkins aveva bisogno di un assistente, essendosi il suo ultimo assistente iscritto come studente a tempo pieno al dipartimento di televisione dell’istituto, che sarebbe stato inaugurato quell’autunno. Quando tornò a casa per pranzo, Roy restò sbalordito da quel messaggio. Da parte di LaVoy? Hopkins, il fotografo mondano? Nel giro di pochi minuti si era rasato e vestito ed era uscito di casa; entro un’ora aveva chiamato Lucy e le aveva chiesto di passargli Edward. Passargli Edward? Edward stava dormendo. Cosa mai andava dicendo? Va be’, allora che glielo riferisse lei: suo padre era l’assistente di Wendell Hopkins nel suo studio al Platt Building nel centro di Fort Kean. Allora, era valsa la pena o no aspettare? Ciò di cui non riusciva a capacitarsi quella sera a cena era che LaVoy avesse pensato di chiamare lui… dopo tutti i disaccordi che avevano avuto quasi ogni giorno a lezione, in quel mese in cui Roy si era preso la briga di andarci. Evidentemente LaVoy non era così permaloso come gli era parso in classe. Certo, il vecchio pederasta non accettava critiche in pubblico, ma a quanto pareva in privato nutriva, volente o nolente, un certo rispetto per la competenza di Roy in fatto di composizione, luce e ombra. Bene, bisognava dargliene atto, era un uomo più nobile di quanto Roy avesse pensato. Chissà, magari non era nemmeno finocchio; magari aveva solo la sfortuna di camminare e parlare a quel modo. Chissà mai, se avessero superato quella fase polemica LaVoy avrebbe addirittura potuto rivelarsi un tipo acuto. Avrebbero addirittura potuto fare amicizia. Comunque, adesso che differenza faceva? A ventidue anni, Roy era l’unico assistente di Wendell Hopkins, che, si era scoperto, solo qualche anno prima aveva ritratto l’intera famiglia di Donald Brunn di Liberty Center. Oh, che piacere sarebbe stato telefonare a suo padre subito dopo cena e raccontargli del suo nuovo impiego… per non parlare del fatto che Mr Hopkins era il fotografo di famiglia dell’illustre capo di suo padre. Prima della fine del mese avevano trovato il loro primo appartamento; era situato all’ultimo piano di un vecchio stabile a nord di Pendleton Park, praticamente all’estrema periferia di Fort Kean.

L’affitto era ragionevole, il mobilio non era male e i grandi alberi e le strade silenziose a Roy ricordavano Liberty Center. C’erano una camera per il bambino e un grande soggiorno in cui si poteva anche dormire, e una cucina e un bagno tutti per loro. C’era anche, dietro la caldaia, uno scantinato umido e muffito, che secondo l’agente immobiliare Roy avrebbe potuto senza problemi trasformare in una camera oscura, purché tenesse presente che tutte le migliorie apportate all’edificio sarebbero rimaste lì quando lui se ne fosse andato.

L’appartamento era a venti minuti di macchina dal centro, ma la prospettiva di una camera oscura chiuse l’affare. Il trenta settembre era un sabato, c’era l’aria frizzante e il cielo coperto. Trascorsero la mattinata portando in macchina i loro beni nella nuova casa. Più tardi, finito il trasloco e lavate le ultime stoviglie usate per il loro ultimo pasto, Roy aspettò in auto dando a intermittenza leggeri colpi di clacson mentre Lucy, in piedi nel portico con il bambino in braccio, diceva a Mrs Blodgett quel che pensava di lei. Nell’anno successivo Roy percorse in macchina tutta la Kean County, fotografando eventi mondani organizzati dalla chiesa, cene del Rotary, riunioni di circoli femminili, partite di campionati minori, e soprattutto consegne dei diplomi delle scuole medie e superiori; la gran parte dei proventi di Hopkins, si scoprì, non proveniva dalla vita sociale di Fort Kean, ma dal consiglio scolastico, di cui suo fratello faceva parte. Hopkins dal canto suo restava tutto il giorno nello studio per le sedute serie: spose, neonati e uomini d’affari. Durante la prima settimana Roy si era portato dietro un piccolo taccuino con la spirale su cui aveva in mente di annotare consigli e suggerimenti che nel corso della giornata lavorativa sarebbero usciti dalle labbra di quello stagionato professionista. In breve si ritrovò a usarlo per segnarsi quanto spendeva di benzina per far rifornimento ogni giorno. Edward. Un bimbo pallido con occhi azzurri e capelli bianchi, che aveva il più dolce, mite e sereno dei caratteri. Sorrideva con benevolenza a chiunque guardasse ammirato dentro la sua carrozzina quando Lucy lo portava a spasso al parco; dormiva e mangiava quando doveva, e fra l’una e l’altra cosa non faceva altro che sorridere. La coppia anziana che viveva nell’appartamento di sotto disse di non aver mai visto un bebé così placido e beneducato; si erano preparati al peggio quando avevano saputo che sopra le loro teste sarebbe andato ad abitare un bambino piccolo, ma dovevano assicurare ai giovani Mr e Mrs Bassart che per il momento non avevano alcun motivo di lamentarsi. Alla vigilia del primo compleanno di Edward, lo zio Julian assoldò Roy perché andasse da loro a fotografare la festa per il fidanzamento di Ellie. Il giorno dopo Roy cominciò a parlare di lasciare il lavoro e aprire uno studio per conto suo. Quanto poteva andare avanti a fotografare le Figlie della Rivoluzione Americana di giorno e i balli studenteschi la sera? Quanto poteva andare avanti a essere pagato una miseria per fare il lavoro sporco, il lavoro del fine settimana, il lavoro notturno, mentre Hopkins rastrellava soldi a palate tenendosi per sé tutta la parte creativa (sempre che si potesse definire «creativa» una cosa fatta da Hopkins)? Per quanto tempo esattamente doveva accettare che Hopkins gli pagasse a malapena la benzina, lasciando interamente a carico suo il deprezzamento dell’automobile? LaVoy! – disse Roy una sera, dopo un agghiacciante pomeriggio passato a fotografare i ragazzi e le ragazze del 4H Club. – Bisognerebbe proprio che andassi alla Britannia a mollare un cazzotto sul muso a quel finocchio. Perché, la sai una cosa? Lui lo sapeva benissimo come sarebbe stato questo lavoro. Praticamente un fattorino con i galloni. La tecnica fotografica necessaria… be’, quella la conosce persino Eddie, per l’amor di Dio. E ti dico una cosa, LaVoy lo sapeva. Pensaci un istante.

Ti ricordi com’ero sorpreso? Da parte sua è stato un modo di vendicarsi, capisci? E io sono così ottuso che non mi era mai passato per la mente prima d’oggi, mentre ero lì che fotografavo quei marmocchi e ripetevo alla nausea «un sorriso, un sorriso». Ma ora gliela faccio vedere io, e anche a Hopkins. Se partissi con un mio studio, in un anno avrei metà del giro di Hopkins. Senza ombra di dubbio. Senza ombra di dubbio. Gli ci vuole solo un minimo di concorrenza, e vedrai come griderà mamma. Ma dove lo gestiresti questo studio, Roy? - Dove lo gestirei? Per cominciare? Dove lo avrei? E’ questo che intendi? - Dove lo gestirai? Quanto costerà? Che cosa farai per mantenerci nell’attesa che i clienti comincino a lasciare Hopkins per correre da te? - Oh, quel maledetto, – disse lui, battendo un pugno sul tavolo, – maledetto LaVoy.

Era vero che non sopportava critiche, nemmeno la minima critica. E il fatto è che l’ho sempre saputo. Però che si abbassasse a tanto… – Roy, dov’è che intendi avviare lo studio? - Allora… se vuoi parlarne seriamente… - Dove, Roy? - Allora… per avviarlo, ci toccherebbe pagare un altro affitto. - Un altro affitto? - Ma questo possiamo escluderlo. Per forza. Non potremmo permettercelo. Quindi, per avviarlo, be’… Pensavo, qui. - Qui?

- Ovviamente la camera oscura ce l’avrei nel seminterrato. - E lo studio sarebbe qui in salotto? - Solo durante il giorno, ovviamente. - E Edward e io durante il giorno?

- Come dico, Lucy, è una questione aperta, inutile dirlo. Sono dispostissimo a esaminare i pro e i contro, e senza bisogno di spazientirsi… - E i clienti? - Te l’ho detto. Ci vorrebbe del tempo. - E di quale camera oscura parli? Non l’hai nemmeno cominciata, una camera oscura. Ne hai parlato, di cominciare una camera oscura: oh, sì, ne hai parlato… - Senti, si dà il caso che io lavori tutto il giorno, sai. Francamente la sera arrivo a casa distrutto. E metà delle volte nel fine settimana lui mi spedisce a qualche festa di nozze in capo al mondo… oh, lascia perdere. Tu non ne capisci niente della mia carriera. O delle mie ambizioni! Ho un figlio che sta crescendo, Lucy. E si dà il caso che io abbia delle ambizioni a cui non ho rinunciato solo perché mi sono sposato, sai. Di certo non intendo restare vittima della vendetta di LaVoy per tutto il resto della mia vita, te lo garantisco. Mi ha fregato convincendomi a prendere questo lavoro, che è una vera rottura di scatole… e Hopkins mi paga una miseria, in confronto a quello che un fotografo può guadagnare e, adesso che ti dico che voglio uno studio per conto mio, a te, a mia moglie… oh, tanto tu non capisci! Non ci provi neanche! – E scappò via. Quando tornò a casa era quasi mezzanotte. - Dove sei stato, Roy? Sono rimasta alzata ad aspettarti, non sapevo dov’eri. Dove sei stato? In un bar? - In un cosa? – disse lui in tono amareggiato. Sono andato al cinema, Lucy, se proprio vuoi saperlo. Sono andato in centro e ho visto un film. Poi andò in bagno a lavarsi i denti. Quando spensero la luce, disse: – Ascolta, ti dico una cosa. Non so come si siano regolati i poveracci prima di me, ma per quanto mi riguarda quel vecchio taccagno mi deve pagare almeno metà dell’assicurazione della macchina, a partire da quando la dovrò rinnovare. Io non mi faccio il tu–sai-cosa perché lui diventi l’uomo più ricco della città.

I mesi trascorsero. Allo studio non fecero più accenno, anche se di tanto in tanto Roy mugugnava contro LaVoy. – Mi chiedo se l’amministrazione di quella cosiddetta scuola sappia di quel tizio. Un vero e proprio invertito. LaVoy il Vecchio Pederasta. H. Harold. Cavoli, mi piacerebbe tanto incontrar lo in giro per la città un giorno o l’altro, mi piacerebbe tanto affrontarlo faccia a faccia.

Una domenica di primavera, mentre erano in visita a Liberty Center, Lucy sentì di straforo la madre di Roy che diceva che c’era un pacco arrivato per lui sul cassettone della sua camera. Quella sera mentre tornavano a casa gli chiese che cosa c’era nel pacco. - Quale pacco? – disse Roy. Il giorno successivo, dopo aver sparecchiato la colazione e rifatto il letto di Edward, setacciò l’appartamento. Solo dopo pranzo, mentre Edward faceva il suo sonnellino, trovò una piccola scatola infilzata dentro uno dei vecchi scarponi militari di Roy, ben nascosta in fondo allo sgabuzzino. La scatola era di una tipografia di Cleveland, Ohio; dentro c’erano centinaia e centinaia di biglietti da visita con scritto STUDIO FOTOGRAFICO BASSART. I migliori ritratti fotografici di tutta Fort Kean.

Quando tornava a casa la sera, di solito Roy (per quanto sostenesse di essere distrutto) faceva un gioco con il suo figliolo. «Ed? – diceva mentre varcava la soglia. – Ehi, qualcuno qui ha visto Edward Bassart?» E a quel punto Edward spuntava fuori da dietro il divano e, correndo a tutta birra verso la porta, finiva dritto fra le braccia del padre. Roy lo sollevava da terra e lo faceva roteare per aria, esclamando con finto stupore: «Accipicchia, non ci posso credere. Ma questo è proprio Edward Q. Bassart in persona». La sera del giorno in cui Lucy aveva scoperto il suo segreto, Roy varcò la soglia di casa, Edward gli corse incontro a perdifiato, Roy lo fece girare per aria, e Lucy pensò: «No! No!»… e se quel piccolo, innocente, ridanciano bambino avesse scambiato suo padre per un uomo, e fosse cresciuto prendendolo a modello? Si controllò durante tutta la cena e quando Roy lesse la storia a Edward. ma, dopo che lui ebbe messo a letto il figlio, si fece trovare in soggiorno con il pacco da Cleveland, Ohio, posato sul tavolino da caffè. – Quand’è che crescerai? Quand’è che farai il lavoro che hai da fare senza cercare ogni sorta di scappatoia? Quando? A Roy vennero le lacrime agli occhi, e si precipitò fuori dall’appartamento. Era di nuovo mezzanotte quando tornò. Aveva mangiato un hamburger, ed era andato a vedere un altro film. Si tolse la giacca e la appese nello sgabuzzino. Andò in camera di Edward; quando uscì, sempre rifiutandosi di incrociare lo sguardo di lei, disse: – Si è svegliato? - Quando? Prese una rivista e parlò mentre la sfogliava. – Mentre non c’ero.

- Per fortuna no. - Senti, disse. - Senti cosa? - Oh, – disse, lasciandosi cadere in una poltrona. – Ti chiedo scusa. Sì, scusa, – disse, alzando le braccia di scatto. - Allora, sono perdonato? Spiegò che da Hopkins aveva visto la pubblicità dei biglietti da visita sul retro di una rivista specializzata. Mille biglietti… - Perché non diecimila, Roy?

Perché non centomila? - Mi lasci finire? – gridò. Mille biglietti erano la quantità minima che si poteva ordinare. L’offerta era così, mille per cinque dollari e novantotto. Va bene, le chiedeva scusa per averlo fatto senza prima parlarne con lei; altrimenti avrebbero potuto valutare insieme l’opportunità di ordinare i biglietti prima di aver progettato tutto il resto. Sapeva che per lei non era una questione di soldi ma di principio. - Entrambe le cose, Roy. Va bene, entrambe le cose, però lui davvero non sapeva quanto ancora avrebbe retto a farsi sfruttare da Hopkins per sessantacinque miseri dollari alla settimana. A quel punto il valore commerciale della Hudson era praticamente pari a zero. Se lei si preoccupava tanto per i cinque dollari e novantotto dei biglietti da visita, che ne diceva allora del deprezzamento dell’auto? E di quella bazzecola che era la sua carriera? La settimana prima, due intere serate a fotografare praticamente ogni singola coccinella e ogni singolo lupetto del paese! A quel punto avrebbe avuto in tasca il diploma della Britannia, se non avesse dovuto mollare la scuola per accettare uno stupido impiego come quello in modo da mantenere la famiglia. - Ma tu non hai voluto diplomarti alla Britannia. - Mi riferisco al tempo che è passato, Lucy, mentre io facevo il lavoro sporco per Hopkins! Be’, se proprio voleva parlare di tempo, lei sarebbe già stata al terzo anno, e in autunno al quarto; nel giro di un anno si sarebbe laureata. Be’, disse Roy, non dare la colpa a me. Ma è colpa tua, disse lei; di chi era stata quell’idea dell’«interruzione», se non sua? Senti, disse lui, ne abbiamo già parlato centinaia di volte. Di cosa, Roy? Del fatto che l’interruzione aveva funzionato per tutta l’estate, tanto per dirne una… e che, per dirne un’altra, lei gliel’aveva lasciato fare. Lei gliel’aveva lasciato fare perché lui gliel’aveva imposto, perché lui aveva insistito e insistito… Va bene!, gridò lui. Perciò devi assumerti le conseguenze, disse lei, devi pagare il prezzo di quello che fai! Per tutta la vita?, domandò lui. Un’intera vita in cui pagare il prezzo di quello? Maledizione, il fatto che avesse dovuto sposarla non significava che dovesse fare da schiavo a Hopkins per il resto dei suoi giorni, o da zimbello a uno schifoso pervertito buono a nulla! – LaVoy non c’entra niente! – protestò lei. - Oh, e neanche Hopkins, immagino, secondo te? - Neanche lui! - Ah, no? Oh, si dà il caso che la pensi così, vero? E chi è che c’entra, Lucy, solo io? Solo io e nessun altro?

Gli vennero le lacrime agli occhi, e di nuovo corse alla porta. Andò dritto a Liberty Center e non tornò fino al pomeriggio seguente. Con un’aria molto determinata. Voleva che parlassero seriamente, disse, da adulti. Di cosa?, domandò lei. Si dava il caso che avesse un bambino di due anni a cui badare mentre lui se ne andava al cinema in centro o correva a casa dalla mammina. Si dava il caso che avesse un figlio intelligente e vigile, che la mattina alzandosi aveva visto che suo padre non c’era e non riusciva a farsene una ragione. Roy la seguì in giro per il soggiorno, cercando di farsi sentire sopra il rumore dell’aspirapolvere. Alla fine staccò la presa e si rifiutò di mollarla finché lei non lo avesse ascoltato. L’argomento di cui voleva parlare era una separazione. Una cosa? Per favore, gli disse, Edward era in camera sua a fare il sonnellino. – Cosa stai dicendo, Roy? - Sai com’è, una separazione temporanea. In modo da calmarci tutt’e due. In modo da riflettere, e probabilmente dopo le cose andranno meglio… Un armistizio, per così dire. - Con chi è che parli della nostra vita privata, Roy? - Con nessuno, – disse lui. – Ci ho solo riflettuto un po’. E’ una cosa inaudita, che una persona rifletta sulla propria vita privata? - Stai ripetendo un’idea di qualcun altro. E’ vero o no?

Buttò a terra la presa e di nuovo uscì di casa, Edward, si scoprì, non stava facendo il sonnellino; all’inizio della discussione era corso in bagno dalla sua camera e aveva tirato giù il gancetto che teneva chiusa la porta. Lucy bussò e bussò. Gli promise ogni sorta di regalini se solo avesse sollevato quel gancetto dall’occhiello. Disse che il papà era sconvolto per una cosa capitata al lavoro, ma nessuno era arrabbiato con nessuno. Il papà era andato a lavorare, e sarebbe stato a casa per cena, come tutte le altre sere. Non voleva fare il suo gioco col papà? Lo supplicò di aprire. Nel frattempo spingeva e spingeva contro la porta, pensando che la vite sarebbe venuta via facilmente dalle vecchie assi della casa. Alla fine dovette dare una spallata alla porta perché l’occhiello si staccasse dal muro. Edward era seduto sotto il lavandino, con un asciugamano sulla faccia. Singhiozzò isterico quando la udì avvicinarsi, e solo dopo mezz’ora che lo teneva abbracciato e lo cullava riuscì a convincerlo che tutto andava bene. Era a letto quando quella notte Roy tornò a casa e cominciò a spogliarsi al buio. Lei accese la luce e, con la voce più bassa che poteva per timore di svegliare Edward, gli chiese di sedersi e ascoltarla. Dovevano parlare. Bisognava che lui si rendesse conto dell’effetto che aveva il suo comportamento sulla tranquillità d’animo di Edward. Gli spiegò che si era chiuso in bagno, un bambino di due anni, Roy. Gli spiegò che effetto le aveva fatto vederlo lì seduto sotto il lavandino, nascosto dietro un asciugamano.

Gli spiegò che non poteva continuare a scappare aspettandosi che il loro bambino, per quanto piccolo, non capisse che qualcosa non andava fra sua madre e suo padre. Gli spiegò che non poteva tornare dal lavoro e fare tutte quelle smancerie a un bambino di due anni, e giocare con lui, e leggergli le storie, e dargli il bacio della buonanotte, e poi la mattina non farsi trovare a casa. Perché il bambino sapeva fare due più due, che Roy se ne rendesse conto o meno. Diverse volte Roy cercò di parlare in propria difesa, ma lei continuò imperturbabile, rifiutando di lasciarsi interrompere finché lui non avesse udito la verità, e dopo un po’ Roy si rassegnò a starsene seduto sul bordo del divano letto, con la testa fra le mani, chiedendo scusa. Veramente Eddie si era chiuso in bagno? Gli spiegò che era dovuta entrare con la forza. Oddio. Si sentiva malissimo. Non capiva cosa gli stava succedendo. Era così teso, così nervoso. Non gli era mai successa una cosa simile in tutta la sua vita.

Come poteva Lucy pensare che lui intendesse fare del male a Edward? Gli voleva bene. Lo adorava. Per tutto il pomeriggio non vedeva l’ora di tornare a casa, aprire la porta e trovare Edward che gli correva incontro. Lo amava tanto. E amava anche lei, davvero, anche se da come si comportava non lo si sarebbe detto. Era questo che rendeva tutto così sconcertante. Lei era la persona più importante della sua vita, ora e sempre. Era così forte, così buona. Era probabilmente una delle più incredibili ragazze della sua età che ci fossero mai state. Bastava vedere Ellie… a vent’anni aveva già mollato Joe Whetstone per mettersi con quel Clark, e nel giro di sei mesi già si era separata da Clark e usciva con quel Roger. Bastava vedere una ventenne media, e poi vedere Lucy, con tutto quel che aveva sofferto. Sapeva bene quel che suo padre aveva fatto passare alla sua famiglia. Sapeva quel che lei aveva dovuto fare per proteggere da lui la sua famiglia, visto che loro non si proteggevano da soli. Sapeva cosa doveva provare ricordando che alla fine era stata lei a chiudergli la porta in faccia, a cacciarlo via perché non tornasse più a rovinare la vita a sua madre. Lucy disse che non ci pensava mai. Ovunque lui fosse, la cosa non la riguardava. Be’, lui invece ci pensava. Sapeva che non le: piaceva parlare di suo padre, però voleva farle capire che era il suo coraggio di fronte al comportamento del padre che lui aveva sempre ammirato, e sempre avrebbe ammirato. Lei aveva coraggio. Aveva forza. Sapeva distinguere il giusto dallo sbagliato. Al mondo non c’era nessun altro come lei. Si sentiva onorato e privilegiato a essere suo marito, lo sapeva questo? Oh, perché gli veniva da piangere? Ecco, non riusciva a trattenere le lacrime. Oh, non intendeva far del male al piccolo Eddie, questo lei doveva saperlo.

E non intendeva far del male a lei, né causare a nessuno al mondo il minimo problema o dolore. Questo lei lo sapeva? Perché era la verità.

Voleva essere buono, lo voleva davvero. Oh, per favore, oh, per favore, doveva capire. Era inginocchiato sul pavimento, con la testa sul grembo di lei, e piangeva a dirotto. Oh, Dio, mio Dio, gemeva. Oh, doveva dirle una cosa. E lei doveva ascoltarlo, doveva capire e perdonare. Doveva accettare che la cosa finisse lì, una volta che gliel’avesse detta, e non doveva tirarla mai più fuori, però doveva sapere la verità. Quale verità? Si era sentito così frastornato. Non sapeva nemmeno più quel che pensava o faceva. Questo lei doveva capirlo. Capire cosa? Be’, a Liberty Center non era andato dai suoi; era andato dai Sowerby. Lo ammetteva, l’idea della separazione non era stata sua ma di suo zio. Non trascorse neppure una settimana. Una sera a cena lui ricominciò a lagnarsi del fatto che Hopkins lo tiranneggiava. Prima ancora che lei avesse avuto modo di replicare, Edward si era alzato dal pavimento della cucina, dove stava giocando, ed era scappato via. Lei scagliò giù il tovagliolo. Devi proprio piagnucolare! Devi proprio lamentarti! Devi proprio comportarti da bambino di fronte a tuo figlio! - Ma cosa ho detto? Questa volta restò fuori casa per due interi giorni. La seconda mattina Hopkins telefonò per comunicarle che non sapeva quanto ancora avrebbe potuto far fronte a questa mania di scomparire del giovane Roy.

Lei disse che a Liberty Center c’era di nuovo qualcuno malato. Hopkins disse che comprendeva, se quella era la verità, però lui aveva una ditta da mandare avanti. Lucy disse che questo lo capiva, e anche Roy lo capiva; lo aspettava da un momento all’altro. Hopkins disse che anche lui lo aspettava. E sperava che, una volta tornato, sarebbe stato maggiormente in grado di pensare a quello che faceva, sul lavoro. A quanto pareva, due settimane prima aveva fotografato il banchetto del Kiwanis giù a Butler senza mettere la pellicola nell’apparecchio. Quel pomeriggio telefonò da Winnisaw l’avvocato di Julian Sowerby. Disse che rappresentava Roy. Le consigliò di chiedere al proprio avvocato di mettersi in contatto con lui. – Per favore, – rispose lei, – non ho tempo da perdere con queste assurdità. Lui disse che, o si trovava qualcuno che la rappresentasse, oppure avrebbero fatto avere le carte del divorzio direttamente a lei. - Oh, davvero? E su quali basi, se posso chiederlo? Sono io quella che scappa via? Sono io quella che non si presenta sul posto di lavoro, e anche quando si presenta non è in grado di concentrarsi su ciò che fa? Sono io quella che scoppia a piangere e fa delle scenate isteriche di fronte a un bambino piccolo?

Sono io quella che si inventa dei biglietti da visita per una ditta che non potrei nemmeno aprire? Non mi dica di prendermi un avvocato, signore. Dica al suo cliente Mr Sowerby di dire a suo nipote di crescere. Io ho un appartamento a cui badare, e un bambino confuso il cui padre continua a correre via di casa per dar retta ai consigli di una persona irresponsabile e di dubbia reputazione. Arrivederci! Quando tornò, Roy era un uomo nuovo. Aveva chiuso con tutti quei piagnistei, se li era lasciati alle spalle, non li riusciva nemmeno più a capire.

Sinceramente, doveva essere andato fuori di testa. Si era messo lì con suo padre e aveva sviscerato tutta la faccenda. Fino ad allora suo padre non aveva saputo niente delle sue visite segrete a Liberty Center. Roy aveva chiesto ai Sowerby di non parlarne e, sebbene la prima volta avessero acconsentito, quando era successo di nuovo Irene Sowerby aveva detto che sentiva di non avere altra scelta che raccontare alla sorella quel che stava succedendo. L’esperienza con suo padre non era stata certo una passeggiata. Erano rimasti in cucina una notte intera, fino all’alba, ad appianare le loro divergenze di opinioni. Ovviamente avevano alzato la voce e perso la pazienza. Ma avevano tenuto duro, finché la luce del giorno aveva cominciato a filtrare dalle finestre sul retro della casa. Non che lui fosse d’accordo, anche adesso, con tutto quel che suo padre aveva detto; e faticava ad accettare il modo in cui lo aveva detto. Almeno metà delle sue parole erano citazioni uscite dritte dritte dal Bartlett13, tanto per cominciare. Eppure, il fatto di aver discusso di tutte quelle cose che rimuginava da un sacco di tempo fra cui alcune cose che nemmeno lei sapeva -, be’, gli aveva permesso di togliersi un peso dallo stomaco. Non era stato facile, inutile dirlo, però aveva convinto il padre ad ammettere che in effetti Hopkins lo stava sfruttando, e stava sfruttando anche la Hudson. In secondo luogo, l’aveva convinto a concordare sul fatto che, se avesse avuto le spalle coperte dal punto di vista finanziario (così che non si trattasse di un’operazione avventata), avere uno studio non gli sarebbe certo stato impossibile. Se non lo era stato per Hopkins in tutti quegli anni, di sicuro non lo sarebbe stato per lui, questo glielo garantiva. Alla fine aveva chiarito al padre che si trattava di un sacrificio, di un grosso sacrificio, però era disposto ad accantonare temporaneamente le proprie ambizioni professionali per il bene della moglie e del figlio. Aveva solo voluto far ammettere al padre che sacrificio era la parola giusta per definire la cosa. E una volta che il padre l’aveva ammesso – intorno alle cinque del mattino – tutto il resto era andato più o meno a posto.

Comunque la decisione di tornare da Lucy era stata solo di Roy, e questo voleva che lei lo sapesse. Tutti quei merdosi piagnistei delle settimane precedenti (se gli consentiva di ricorrere a quell’espressione cruda ma accurata che usavano sotto le armi), bene, erano un mistero per lui quanto dovevano esserlo per lei. Ma erano finiti, questo era assolutamente certo. Maledettamente certo. C’era una decisione da prendere e lui l’aveva presa. Era tornato. E perché? Perché era quello che voleva. E se aveva qualcosa da farsi perdonare, allora voleva chiedere perdono. Non in ginocchio, ma in piedi, guardandola dritta negli occhi. Voleva farle capire che lui aveva la magnanimità di ammettere i propri errori, se ne aveva commessi. E in un certo senso presumeva di sì… anche se di fatto la faccenda era più complicata. Ma basta spiegazioni. Perché spiegare era un modo di implorare, e lui non aveva nulla da implorare. Né compassione, né comprensione, niente di niente.

Era disposto a metterci una pietra sopra, a ricominciare da zero avendo imparato un bel po’ da quell’esperienza… se anche lei era disposta a farlo. Lei disse che lo avrebbe perdonato solo se prometteva di non parlare mai più con Julian Sowerby per il resto della sua vita. Per il resto della sua vita? Sì, per il resto della vita di tutti loro. Ma a dire il vero era stata colpa sua se Julian aveva frainteso le sue intenzioni. Non le importava. - Ma per il resto della mia vita… be’, lo trovo un po’ ridicolo, Lucy. Voglio dire, potrebbe essere un tempo lunghissimo. - Oh, Roy…! - E’ solo che non voglio cominciare con una promessa che non manterrò, ecco tutto. Cioè, fra un anno, chissà!

Senti, o ci mettiamo una pietra sopra, oppure no. Fra un anno… anche solo fra un mese, accipicchia, ne sarà passata di acqua sotto i ponti.

Almeno lo spero. Per me lo sarà, questo lo so. Voglio dire, per me è già acqua passata. A Lucy non restò altra scelta. Altrimenti come avrebbe potuto impedirgli di farsi ancora consigliare da quell’uomo? Era sbagliato rivelare una confidenza, ma se adesso non diceva la verità, cosa gli avrebbe impedito di precipitarsi di nuovo da Julian Sowerby la prossima volta che avesse voluto trovare una comoda scappatoia dalle sue responsabilità e dai suoi doveri? Come avrebbe potuto fargli capire che lo zio che si fingeva così gradevole e gentile e accomodante, tutto scherzi e risate e sigari gratis, era in realtà un essere umano crudele, corrotto e disonesto? E così raccontò a Roy quel che Ellie aveva origliato al telefono. Sulle prime lui faticò a crederci, e poi restò sbigottito, disse.

Arrivato alla quarta estate del loro matrimonio, Roy si rese conto che doveva mettere a punto il motore dell’auto praticamente ogni mese. Ormai aveva sette anni e non ci si poteva aspettare che durasse per sempre senza una tremenda quantità di manutenzione. Non che si lamentasse, era una cosa oggettiva. Più di una domenica mattina al mese, Lucy guardando nel vialetto vedeva i piedi di Roy che sbucavano da sotto l’auto, così come un tempo li vedeva dalla finestra della camera di Ellie. E una volta lo vide che teneva sollevato Edward sopra il cofano, e gli spiegava come funzionava il motore. Se la domenica Roy non aveva da fotografare un matrimonio, loro tre andavano a fare un giro in macchina, o su a Liberty Center a trovare i genitori di Roy. Per far passare più in fretta il tempo del tragitto, spesso Roy intratteneva Edward raccontandogli del suo periodo nell’esercito vicino al Polo Nord. Erano semplici storielle su come papà aveva fatto questo e papà aveva fatto quello, storie in cui comparivano pinguini e iglou e cani che tiravano slitte sulla neve – e se a volte lei s’arrabbiava non era perché il bambino le prendeva ingenuamente per vere, ma perché sembrava che a Roy la cosa facesse piacere. Non avrebbe nemmeno più acconsentito a quelle gite domenicali se non fosse stato per Edward, che adorava l’idea di avere i nonni da andare a trovare. Lo baciavano, lo abbracciavano, gli davano dei regali, lo facevano ridere, gli dicevano quant’era bello e bravo… Perché non avrebbe dovuto godersela? Perché avrebbe dovuto essergli negato ciò che era scontato per altri bambini in altre famiglie? Andare a trovare i nonni era parte dell’infanzia, e qualunque cosa fosse parte dell’infanzia lui l’avrebbe avuta. Le faceva meno piacere vedere quanto volentieri ci andava suo marito. Ovviamente fingeva che per lui fosse una noia, che lo facesse solo per obbligo filiale, per senso del dovere e delle convenzioni, ma del resto fin dal principio aveva finto che fosse così. Adesso, lo vedeva, fingeva quasi di continuo, in modo da evitare quegli scontri che dopo i primi sei mesi di matrimonio si verificavano quasi tutte le settimane. Ogni volta che apriva bocca, non diceva una sola cosa che fosse sincera, ma cercava solo di disarmarla dicendo quello che pensava lei volesse sentirsi dire.

Adesso avrebbe fatto qualunque cosa per evitare un conflitto, qualunque cosa tranne cambiare davvero. Ad esempio fingeva di essere più o meno felice lavorando per Hopkins. Wendell aveva i suoi limiti, ma chi non li aveva?, si affrettava ad aggiungere. Sì, il buon vecchio Wendell, quando lei sapeva benissimo che in segreto lo odiava a morte. E fingeva di credere che lei avesse avuto ragione a dissuaderlo dall’aprire uno studio suo. Aveva ancora un sacco di cose da imparare, e aveva solo ventiquattro anni, perciò che fretta c’era? Nel frattempo, almeno una volta al mese lei trovava scritte in margine a un giornale, o scarabocchiate sul taccuino accanto al telefono, le parole «Studio di ritratti Bassart», o «Ritratti di Bassart». Peggio di tutto, fingeva di continuare a essere indignato con Julian Sowerby. Dopo che lei gli aveva svelato il segreto di Julian, Roy aveva concordato con lei sul fatto che da quel momento non avrebbero più dovuto avere a che fare con una persona simile. Tuttavia, col passare dei mesi, cominciò a domandarsi se il loro atteggiamento non fosse un po’ scorretto verso sua zia. A lei avrebbe fatto piacere vedere Edward di tanto in tanto… Lucy disse che, se Irene Sowerby ci teneva davvero a vedere Edward, bastava che andasse a trovare i Bassart una qualunque domenica pomeriggio. Roy disse che, certo, questo era giusto, solo che, a suo parere, la zia Irene credeva che loro fossero arrabbiati non solo con lo zio Julian ma anche con lei per come aveva ostacolato il loro matrimonio. La causa più profonda della rottura con Julian era una cosa che lei non sapeva, e che non potevano rivelare né a lei né ai genitori di Roy. Era orribile pensare che la zia Irene vivesse nell’ignoranza della vera natura di suo marito, ma loro avevano già abbastanza problemi, aveva deciso Roy, senza che cercassero di risolvere anche quelli della zia Irene. Inoltre, per lei non era forse meglio non sapere? E comunque non era quello il punto. Il punto era questo: Irene credeva che Lucy e Roy fossero arrabbiati con lei… Lucy fece presente a Roy che Irene Sowerby non aveva del tutto torto. Cosa? Erano arrabbiati con lei? Davvero? Ancora a un anno di distanza? Lucy continuò. Lei lo sapeva cosa gli bisbigliava la madre la domenica. Forse la prossima volta Roy avrebbe dovuto cogliere l’occasione per bisbigliare in risposta a sua madre che, al bene del suo nipotino che tanto gli mancava, sua sorella Irene avrebbe dovuto pensarci quando Julian Sowerby aveva intrapreso i preparativi per il divorzio di Roy! Come? A meno che, naturalmente, nelle macchinazioni di Julian Roy non vedesse nulla che avrebbe impedito a Edward di crescere sano e felice. Forse Roy concordava addirittura con suo zio sul fatto che il bene della propria famiglia non conta tanto quanto la soddisfazione dei propri egoistici desideri. Ma no. Certo che no. Stava scherzando? Non era forse rimasto sbigottito, per non dire nauseato, quando aveva saputo dello zio Julian e delle sue donne? E non lo era ancora? A volte, quando si metteva a pensare a come Julian per tutti quegli anni aveva corso la cavallina, si sentiva così disgustato e arrabbiato che non sapeva nemmeno lui cosa fare. Stava scherzando, metterlo nella stessa categoria di Julian Sowerby? Non aveva forse rifiutato in toto l’idea del divorzio, dopo averci riflettuto giusto cinque minuti? Il matrimonio non è mica una cosa che si butta dalla finestra come una scarpa vecchia. Il matrimonio non è una cosa in cui si entra come nulla fosse, o che si dissolve come nulla fosse. Più ci pensava, più si rendeva conto che probabilmente il matrimonio era la cosa più seria dell’intera vita. Dopotutto la famiglia era la spina dorsale della società. Togli la famiglia, e cosa resta? Gente che corre avanti e indietro. Una totale anarchia. Prova solo a immaginare il mondo senza famiglie. Impossibile. Oh, certo, ce n’è di gente che si precipita dall’avvocato divorzista per la minima cosa. Al primo segno di qualcosa che non gli aggrada, via, in tribunale – e chi se ne frega dei figli, e chi se ne frega dell’altra persona. Però, se una coppia ha un briciolo di maturità, i due si mettono lì e cercano di risolvere le divergenze, di dar voce alle rimostranze, e poi, quando entrambi hanno avuto modo di formulare le proprie accuse – e anche di ammettere in cosa potrebbero essere nel torto (perché non è mai così semplice, la ragione non sta mai da una parte sola) -, allora, invece di correre a Reno, Nevada, due persone che hanno la maturità di non comportarsi da bambini si mettono di buzzo buono e decidono di lavorare al matrimonio. Perché è questa la parola chiave, lavoro, cosa che ovviamente non sai quando stringi alla leggera il sacro vincolo del matrimonio pensando che si tratterà né più né meno che del prosieguo dei bei tempi spensierati del fidanzamento.

No, matrimonio significa lavoro, lavoro duro, e un lavoro dannatamente importante quando c’è di mezzo un bambino piccolo, che ha bisogno di te come mai nessun altro ha avuto bisogno di te in vita tua. Lei non sopportava la finzione; così cercò con tutte le sue forze di credere che non fosse una finzione, che Roy credesse davvero in quel che stava dicendo, e scoprì che non sopportava nemmeno questo. Dopo la visita e la cena dai Bassart, andavano con Edward a casa di papà Will. Prima la bisnonna offriva i biscotti che aveva preparato appositamente per lui; poi il bisnonno faceva dei giochetti che, diceva, faceva sempre per la mamma di Edward quando era piccola. Diceva a Edward di chiudere gli occhi mentre lui si avvolgeva un fazzoletto bianco intorno al pugno con due dita protese. Poi, bene, bene, diceva, apri gli occhi, Edward Bassart, qui c’è un coniglietto che vorrebbe fare la tua conoscenza. Ed ecco il coniglio, con due lunghe orecchie e una boccuccia, e innumerevoli domande su Edward e la sua mamma e il suo papà. Alla fine della conversazione, Edward aveva il permesso di sussurrare un desiderio all’orecchio del coniglio. Una volta, per la delizia dei presenti – a parte papà Will, che credeva di avere un certo talento come ventriloquo -, Edward annunciò che più di tutto avrebbe desiderato che il coniglio fosse vero. - Che cosa intendi con vero? – domandò il bisnonno. Vero, non un fazzoletto. La cosa che a Edward piaceva di più era salire sullo sgabello del pianoforte, accanto a nonna Myra che suonava, oppure in braccio a lei, in modo da poter «suonare» anche lui. La nonna gli prendeva le dita fra le sue, e dal piano uscivano esitanti Fra Martino e Mary aveva un agnellino, e una canzone chiamata Michael Finnegan, di cui papà Will gli aveva insegnato le parole. Ogni volta Edward, nonna Myra e papà Will la cantavano insieme, mentre la bisnonna sedeva con il vassoio dei biscotti in grembo, e il padre, con il lungo corpo allungato su una poltrona, teneva il tempo battendo la punta di una scarpa contro la punta dell’altra.

Un uomo si chiamava Michael Finnegan, Si faceva crescere i baffi sul mento–negan, Ma glieli scompigliava il vento–negan, Ed era da capo il povero Michael Finnegan.

E riattaccavano da capo, mentre Lucy li osservava in silenzio. Quelle erano le canzoncine, diceva nonna Myra, che alla madre di Edward piaceva cantare quand’era una bambina non più grande di lui. Lucy vedeva che per suo figlio quelle parole non avevano alcun senso. Sua madre era stata bambina? Non riusciva a crederci, non più di quanto ci riuscisse lei.

Poi c’era la famosa storia del suo «zompare» dal sedile sotto la finestra in sala da pranzo, di cui lei non serbava alcun ricordo. La prima volta che papà Will iniziò Edward a quel divertimento, nonna Myra scomparve in bagno e non ne riemerse finché i visitatori non furono usciti. Negli anni trascorsi dalla scomparsa del marito, Myra aveva cominciato a dimostrare la sua età, se non di più; c’erano delle domeniche in cui sembrava avesse sessant’anni suonati, invece che poco più di quaranta. Rughe profonde le segnavano gli angoli della bocca, le borse sotto gli occhi avevano assunto una tinta violetta, e la sua adorabile gola aveva perso levigatezza e luminosità. Eppure, per quanto fosse più rugosa, più scura e più stanca, il suo aspetto era ancora aggraziato. Certo adesso era più facile, anche per chi aveva creduto di conoscerla intimamente, capire quanto radicata in profondità nella sua natura fosse quella peculiare morbidezza di tratti. Gli anni passavano, lei invecchiava, e presto divenne sempre più difficile, anche per sua figlia, ricordare che la ragione per cui Myra Nelson era stata così tanto maltrattata dal marito era che in fondo restava sempre la figlioletta di suo papà. Il tempo passava, molto lentamente, e Lucy, seduta in silenzio in quel soggiorno, intenta a osservare come non era mai riuscita a osservare quando la battaglia imperversava, quando lei stessa imperversava… molto lentamente, Lucy cominciò a contemplare l’idea che la sua ormai vecchia madre in realtà avesse carattere.

«Debole» e «insipida» non sembravano più i termini adeguati per comprendere tutta la sua personalità. Cominciò a pensare che il motivo per cui la sua bocca era sempre parsa così garbata, gli occhi così misericordiosi e il corpo così arrendevole non era semplicemente che sua madre fosse nata bella e ottusa. Il tempo passava, e la domenica nel salotto cominciarono a comparire degli uomini. Venivano invitati per cena, o per il pomeriggio. Al principio ci fu il giovane Hank Wirges, che in realtà non era propriamente quel che si direbbe un uomo. Era un ragazzo attraente e scuro di capelli che aveva studiato giornalismo alla Northwestern, dove all’epoca usciva con una ragazza appartenente alla stessa confraternita di Ellie Sowerby. Hank si era trasferito a Winnisaw per lavorare come apprendista reporter al «Leader», ed era andato a cercare i Carroll perché anni e anni prima sua nonna e Berta erano state amiche d’infanzia. Una volta alla settimana Hank portava Myra al cinema, senza offrirsi di pagarle il biglietto, e ogni domenica era invitato da loro per cena. Faceva piacere a tutti essere gentili con lui e fargli sentire che aveva una casa lontano da casa, ma ovviamente nessuno restò stupito quando dopo un anno le serate al cinema si diradarono. Alla fine chiese se poteva portare alla cena della domenica una ragazza di nome Carol–Jean, con cui a loro insaputa, si scoprì, usciva da tempo. In fondo era un bene che Hank si fosse messo con questa Carol–Jean, aveva detto Willard, perché si vedeva che si stava prendendo una cotta in piena regola per Myra; sebbene non la chiamasse mai altrimenti che Mrs Nelson, la guardava come fosse stata una dea. Si era presentato due volte a cena con la sua giovane amica, poi Myra aveva attraversato un periodo di forti emicranie e in qualche modo Hank era uscito dalla loro vita. Ma quantomeno era stato per lei un graduale ritorno al mondo, come lo definiva papà Will, in quell’anno dopo che «Whitey aveva preso e se n’era andato mostrando una volta per tutte la sua vera natura». C’era stato un periodo in cui Myra non riusciva neanche ad andare per strada; se non avesse avuto la nostalgia di casa del giovane Hank a cui badare, magari non avrebbe fatto altro che dare lezioni di piano al pomeriggio, per poi mettersi a letto a piangere su quegli anni buttati via per uno che «si era rivelato una persona molto diversa da quello che tutti noi inizialmente ci eravamo aspettati». Lucy dal canto suo non degnava suo padre di un pensiero, se poteva evitarlo; quando veniva fatto il suo nome, lei semplicemente smetteva di ascoltare. Il suo benessere non le importava più di quanto fosse importato a lui quello di lei; dove fosse adesso, cosa facesse, erano affari suoi – e anche opera sua. Poteva anche essere stata lei a chiudergli la porta in faccia, ma a farlo fuggire erano state la sua vergogna e la sua vigliaccheria. Quando Edward era ancora un neonato e loro si erano appena trasferiti nel nuovo appartamento, una sera era squillato il telefono mentre lei era a casa da sola, e al suo «Pronto» all’altro capo non c’era stata risposta. Pronto? – aveva ripetuto, e allora aveva capito che si trattava di suo padre, che era a Fort Kean, che aveva deciso di vendicarsi di lei per mezzo di Edward. – Ascoltami, se sei tu, sta’ attento, e dico sul serio… – e aveva riagganciato. Cosa avrebbe potuto farle? Non aveva nulla da temere, e neanche nulla di cui pentirsi. L’aveva chiuso fuori, e allora? Non era certo stata lei a defraudare lui di una casa e una famiglia perbene; nemmeno per sogno. C’era un debito che non avrebbe mai potuto venire interamente saldato, ma non l’aveva certo contratto lei verso di lui; nemmeno per sogno… Poi un pomeriggio, a Pendleton Park, stava spingendo Edward sul passeggino quando un barbone si era alzato da una panchina e si era diretto barcollante verso di loro. Lei aveva subito fatto dietrofront con il passeggino e si era allontanata, per poi rendersi conto nel giro di qualche minuto che, se anche quello fosse stato suo padre che la aspettava al varco, lei non aveva nulla da temere, nulla di cui pentirsi. Se era diventato un barbone che chiedeva l’elemosina e dormiva per strada, non era stata lei a ridurlo così. Non meritava un minuto dei suoi pensieri, o della sua compassione.

Nell’estate dopo il terzo compleanno di Edward, Blanshard Müller cominciò a frequentare la casa con assiduità. I Müller abitavano in Hardy Terrace, proprio dietro i Bassart, fin da quando Willard aveva memoria. Blanshard adesso ci viveva da solo, perché la moglie era morta tre anni prima in circostanze tragiche – morbo di Parkinson – e i figli erano ormai grandi e se n’erano andati. Il maggiore, Blanshard jr, era sposato e aveva una famiglia sua a Des Moines, Iowa, dove era già dirigente di secondo livello all’ufficio acquisti della Rock Island Railroad; mentre Connie Müller, che Lucy ricordava dalla scuola come un ragazzone nerboruto di due anni meno di lei, stava finendo veterinaria all’università statale del Michigan. Trent’anni prima, Blanshard Müller si era messo in affari con una cassetta degli attrezzi e due gambe robuste, – parole di papà Will -, e aveva cominciato a girare per uffici in tutta la contea, riparando macchine per scrivere. Adesso dava in affitto, vendeva e riparava qualunque apparecchio da ufficio esistente, ed era il titolare della Alpha Business Machine Company, con la sede giusto alle spalle del tribunale di Winnisaw. A poco più di cinquant’anni, era un uomo alto con capelli grigio ferro ben tirati sul cuoio capelluto, naso piccolo e appuntito e mascella virile. Quando si toglieva gli occhiali squadrati con montatura a giorno, cosa che faceva ogni volta che sedeva a tavola, sembrava il sosia di Bob Hope. Ironia della sorte, diceva papà Will, visto che Mr Müller non aveva un gran senso dell’umorismo. Ma non c’era dubbio che fosse una persona rispettabile, affidabile e laboriosa; i suoi risultati testimoniavano per lui. A Berta era piaciuto subito e, col passare dei mesi, anche Willard ebbe a dire che di sicuro c’era molto da ammirare in un tizio che non parlava a vanvera e non ti frastornava con le sue chiacchiere, ma diceva quel che aveva da dire e la chiudeva lì. Di sicuro quando si pronunciava riguardo a qualcosa – ad esempio l’automatizzazione dello smistamento della posta, argomento tirato fuori da Willard una domenica dopo cena – il suo pensiero era chiaro e andava dritto al sodo. La vigilia di Natale, trascorsi più di tre anni dalla scomparsa di Whitey, Blanshard Müller chiese a Myra di divorziare dal marito per abbandono del tetto coniugale, e diventare sua moglie. Lucy venne a sapere della proposta di matrimonio la mattina dopo, quando Roy chiamò i propri genitori, e poi quelli di lei, per dire che non sarebbero riusciti a salire a Liberty Center per Natale. Quella mattina Edward si era svegliato con la febbre alta e una brutta tosse; il fatto di essere troppo malato per andare a festeggiare con i suoi nonni adoranti lo aveva fatto piangere e piangere di delusione – e questo l’aveva rattristata. Ma era l’unica cosa che l’avesse rattristata. Aveva buoni motivi per sospettare che quel giorno dopo cena qualcuno avrebbe proposto di andare tutti dai Sowerby, o che i Sowerby andassero dai Bassart; e, dato lo spirito di quella giornata festiva, cosa avrebbe potuto dire o fare per evitare quella rimpatriata? Ovviamente sapeva di non poter tenere per sempre Roy lontano da sua zia e suo zio, ma sapeva anche che, quando infine tale incontro avesse avuto luogo, lui sarebbe stato di nuovo vulnerabile a consigli estremamente perniciosi, e lei e Edward avrebbero di nuovo corso il rischio di essere maltrattati, o addirittura abbandonati. Se solo avesse potuto metterlo per sempre al riparo dall’influenza dello zio! Ma come? Quando a fine gennaio finalmente salirono a Liberty Center – la bronchite di Edward si era trascinata per quasi tre settimane – scoprirono che la madre di Lucy non aveva ancora dato a Mr Müller una risposta definitiva. Con l’inizio dell’anno nuovo, la pazienza di Berta con la figlia era ormai ridotta al lumicino, ma papà Will aveva messo in chiaro che Myra aveva quarantatre anni e non si sarebbe fatta mettere sotto pressione riguardo a una scelta così importante come un secondo matrimonio. Avrebbe comunicato la sua decisione quando fosse stata pronta. Bastava guardarla per capire che, ogni giorno che passava, propendeva sempre più per il sì. Adesso due volte alla settimana andava in macchina a Winnisaw per pranzare con Blanshard alla locanda; e anche nelle sere infrasettimanali usciva con lui, per andare al cinema oppure a un ritrovo con i suoi amici. A metà mese lo aveva addirittura aiutato a scegliere un nuovo linoleum per il pavimento della cucina. La modernizzazione della sua cucina e del suo bagno aveva avuto inizio diversi anni prima, ma non era mai stata portata a termine a causa della malattia e morte di Mrs Müller. Myra disse ai suoi che aiutare a scegliere un linoleum era un favore che avrebbe fatto a chiunque glielo avesse chiesto; non dovevano interpretarlo come una dimostrazione del fatto che avesse deciso di diventare sua moglie. Tuttavia, la sera dopo, quando Blanshard era dovuto restare a casa per un colloquio con un nuovo commesso viaggiatore, lei per mezz’ora aveva camminato avanti e indietro per il soggiorno in preda all’angoscia, per poi andare in cucina a telefonargli. Non erano affari suoi, non voleva dargli a intendere che volesse in alcun modo criticare la donna che era stata sua moglie, però non riusciva più a tenerselo dentro. Doveva dirgli quanto disapprovava l’abbinamento di colori che era stato scelto per il bagno del piano di sopra; se non era troppo tardi per annullare l’ordinazione degli arredi e degli impianti, lei sperava tanto che l’avrebbe fatto. Avrebbe capito, ovviamente, se lui avesse preferito di no per ragioni sentimentali, ma ovviamente lui si guardò bene dal dire una cosa simile. Perciò la riserva pareva sciolta, per così dire. Eccetto che, se avesse continuato a cantare a ogni piè sospinto le lodi di Blanshard, Berta avrebbe finito per ottenere l’effetto esattamente opposto a quello che desiderava.

Forse la cosa migliore sarebbe stata lasciare che fosse Blanshard Müller ad argomentare a proprio favore, e lasciare che Myra decidesse per conto proprio se voleva cominciare una nuova vita con un uomo come lui. Di certo non era una buona idea tenere puntato un fucile alla testa di una persona finché questa non diceva sì; non si può costringere una persona a essere ciò che semplicemente non ha facoltà di essere, né a provare sentimenti che non sono nelle sue corde. – Non è così, Lucy? – le domandò papà Will, probabilmente presumendo che si sarebbe alleata con lui contro Berta, ma lei finse di non stare seguendo la discussione. Fu un pomeriggio molto deprimente. Non solo perché le toccò ascoltare il nonno che propinava loro quella filosofia da smidollato che li aveva portati praticamente alla rovina, quella filosofia che spingeva le persone a credere di non poter essere più di quel che erano, indipendentemente da quanto inferiori e inadeguate fossero; fu deprimente non solo perché il nonno sembrava volersi tenere in casa la figlia più a lungo possibile, mentre la nonna sembrava volerla buttare in mezzo a una strada, con un uomo o senza, in quattro e quattr’otto; fu deprimente perché si rese conto che a lei in fondo non importava che sua madre sposasse o meno Blanshard Müller. Eppure era ciò per cui pregava da tutta la vita: che un uomo severo, serio, forte e avveduto facesse da marito a sua madre, e da padre a lei. Quella sera tornarono a Fort Kean in mezzo a una bufera di neve. Roy era silenzioso mentre avanzava piano lungo l’autostrada, e Edward si addormentò appoggiato a Lucy.

Infagottata nella giacca, lei osservava la neve che soffiava sul cofano e pensava che sì, sua madre stava per sposare il brav’uomo che sua figlia aveva sempre sognato, mentre suo marito aveva smesso di cercare di eludere ogni proprio obbligo e dovere. Finalmente si era rassegnato all’impegno quotidiano, che gli aggradasse o meno, di essere padre, marito e uomo: suo figlio aveva due genitori a proteggerlo, due genitori che svolgevano ciascuno il proprio compito, ed era stata lei sola a ottenere tutto questo. Anche quella battaglia aveva combattuto e anche quella battaglia aveva vinto, eppure le sembrava di non essere mai stata in vita sua tanto desolata quanto si sentiva desolata adesso. Sì, aveva ottenuto tutto quel che aveva voluto, ma aveva l’impressione, mentre tornavano a casa attraverso la tempesta, che non sarebbe mai morta, che sarebbe vissuta per sempre in quel nuovo mondo che si era costruita, e non sarebbe mai morta, e non avrebbe mai avuto la possibilità di essere non solo giusta, ma felice. Nevicò e nevicò quell’inverno, ma quasi sempre dopo il tramonto. Di giorno c’era un freddo pungente e la luce era forte e bianca. Edward aveva una tuta da sci blu con il cappuccio, e piccole muffole rosse e nuove galosce rosse e, quando aveva finito di riordinare l’appartamento, lei gli metteva quegli abiti invernali a colori vivaci e lo portava con sé tirandosi dietro il carrellino per la spesa. Lui le camminava accanto conficcando una dopo l’altra le galosce rosse nella neve fresca, per poi tirarle fuori con grande cura e concentrazione. Dopo il pranzo e il sonnellino, facevano un giro a Pendleton Park con lo slittino. Lei lo faceva andare lungo i viottoli e poi giù da un lieve pendio nel campo da golf vuoto. Per tornare a casa prendevano strade sempre più lunghe, costeggiando il laghetto dove gli scolari sfrecciavano avanti e indietro sui pattini, e uscendo dal parco all’altezza del college femminile. Le ragazze del suo anno si erano laureate il giugno precedente. Per questo probabilmente ora Lucy passava senza sentirsi a disagio per il campus che in tutti quegli anni aveva accuratamente evitato. Quanto agli insegnanti, dubitava che qualcuno di loro si ricordasse di lei; la sua era stata una toccata e fuga. Oh, ma era strano, molto strano, tirare Edward sulla sua slitta davanti alla Bastiglia. Avrebbe voluto raccontargli dei mesi in cui aveva vissuto lì.

Avrebbe voluto raccontargli che anche lui ci aveva vissuto. «Noi due… in quell’edificio. E nessuno disposto ad aiutarci, nessuno». Dal tempo in cui ci studiava lei, le caserme erano state abbattute e rimpiazzate da lunghi edifici modernisti in muratura che ospitavano le aule, e adesso era in costruzione una nuova biblioteca alle spalle della Bastiglia. Si domandò dove si trovasse ora l’ambulatorio per gli studenti; si domandò se quel medico vigliacco lavorasse ancora per il college. Non le sarebbe importato se un pomeriggio lo avessero incontrato e lui l’avesse riconosciuta con suo figlio. Pensava anzi che le avrebbe dato una certa soddisfazione. Taluni pomeriggi lei e Edward si scaldavano con una cioccolata calda in quello stesso séparé in fondo all’Old Campus Coffee Shop dove lei aveva pranzato durante gli ultimi mesi di gravidanza. Nello specchio accanto al séparé vedeva i loro riflessi, i nasi rossi, i chiari capelli paglierini che scendevano sugli occhi, e gli occhi, esattamente identici. Quanta strada avevano fatto loro due da quegli orribili giorni alla Bastiglia! Lì accanto a lei c’era il bimbo che aveva rifiutato di eliminare, il bimbo che adesso rifiutava di veder deprivato! «Grazie, mamma», diceva lui, mentre con aria solenne la osservava trasferire col cucchiaio il marshmallow dalla propria cioccolata a quella di lui, e lei pensava: «Eccolo qui. Gli ho salvato la vita. Io… io da sola. Oh, perché devo provare una tale pena? Perché la mia vita è così?» Con l’avvicinarsi del crepuscolo i candelotti di ghiaccio davanti a cui erano passati uscendo nel sole del primo pomeriggio si erano allungati. Ogni giorno Edward spezzava il candelotto più lungo che riusciva a trovare e lo conservava con cura nelle muffole fino a casa, dove lo metteva in frigo per farlo vedere al suo papà quando fosse tornato dal lavoro. Era veramente un bambino adorabile, ed era suo, indiscutibilmente suo, messo al mondo da lei e protetto da lei: eppure Lucy si sentiva condannata per sempre a una vita crudele e miserabile. Per San Valentino, Roy portò a casa due scatole di caramelle a forma di cuore, una grossa da parte sua, e una più piccola «da parte di Edward». Dopo il bagnetto, Roy fotografò il bambino con i capelli ben pettinati, in accappatoio e pantofole, mentre offriva per la seconda volta il proprio dono a Lucy. - Sorridete, ragazzi. – Scatta questa foto, Roy, per favore. - Ma se non sorridi…

- Roy, sono stanca. Per favore, scatta. Dopo aver messo a letto Edward, Roy sedette al tavolo di cucina con un bicchiere di latte, qualche biscotto Hydrox e una delle sue buste marroni. Passò in rassegna tutte le fotografie che aveva fatto a Edward da quando era nato. – Vuoi sentire l’idea che mi è venuta oggi? – Entrò in soggiorno, asciugandosi la bocca. – E’ solo un’idea, sai. Cioè, non dico proprio sul serio. - Cosa? – Dunque, pensavo di prendere tutte le foto di Eddie, metterle in ordine cronologico per età e dargli un titolo. Forse è un’idea sciocca, però in fondo le foto le ho fatte in vista di questo. - In vista di cosa, Roy? Sai com’è, un libro. Una sorta di racconto per immagini. Non credi che sarebbe una bella idea, se qualcuno lo facesse? Si potrebbe chiamarlo «La crescita di un bambino». O «Il miracolo di un bambino». Mi sono appuntato tutta una lista di possibili titoli. - Davvero? – Già, in pausa pranzo. Mi continuavano a venire in mente… così me li sono appuntati. Vuoi sentirli? Lei si alzò e andò in bagno. Disse allo specchio: – Ventidue anni. Ho solo ventidue anni. Quando tornò in soggiorno, la radio era accesa. - Come ti senti? – domandò lui. Bene. - C’è qualcosa che non va, Lucy? - Mi sento bene. – Senti, non è che ho intenzione di pubblicare un libro, anche se potessi. – Se vuoi pubblicare un libro, Roy, pubblica un libro! - No, non voglio pubblicare! Voglio solo divertirmi un po’. Gesù! – Prese uno dei vecchi numeri di «Life» che gli passavano i suoi e si mise a sfogliarlo.

Sprofondò nella sua poltrona, tirò indietro la testa e disse: – Wow. Che c’è? - La radio. La senti? It Might As Well Be Spring. Era la nostra canzone quando stavo sai con chi? Bev Collison. Accidenti. Bev Pelle e Ossa. Chissà che fine ha fatto. - E io come faccio a saperlo? - Chi ha detto che dovevi saperlo? Mi è solo tornata in mente sentendo la canzone. Che c’è di male? – chiese. – Cavoli, proprio un bel San Valentino! Poco più tardi lui aprì il divano, e sistemarono coperte e cuscini. Quando ebbero spento le luci e si furono messi a letto, Roy le disse che aveva l’aria stanca, e che probabilmente si sarebbe sentita meglio al mattino. Disse che capiva. Capiva cosa? E perché mai si sarebbe sentita meglio? Dal letto vedevano la neve che cadeva davanti al lampione fuori. Roy si mise con le mani dietro la nuca. Dopo un po’ chiese se era sveglia anche lei. Fuori era così calmo e così bello che lui non riusciva a dormire. Andava tutto bene? Sì.

Si sentiva meglio? Sì. C’era qualche problema? No. Si alzò e andò a guardare fuori. Disegnò con cura una grossa lettera B nella brina sulla finestra. Poi tornò ad avvicinarsi al letto. - Senti qua, – disse, accostandole alla fronte la punta delle dita. – Che inverno! Te lo dico io, proprio come lassù. - Lassù dove? - Nelle Aleutine. Ma alle quattro del pomeriggio. Te l’immagini? Le sedette accanto e le mise una mano sui capelli. – Non sei arrabbiata con me per il libro, vero? – No.

- Perché ovviamente non mi ci metto neanche, Lucy. Voglio dire, come farei? Si infilò di nuovo sotto le coperte. Doveva essere passata mezz’ora. – Non riesco a dormire. E tu? - Cosa? - Riesci a dormire? - A quanto pare no. - Allora, c’è qualche problema?

Non rispose. - Vuoi qualcosa? Vuoi un bicchiere di latte? - No.

Attraversò il soggiorno buio ed entrò in cucina. Quando tornò, sedette sulla poltrona vicino al letto. – Vuoi un Hydrox? Chiese. - No.

Un’auto passò lentamente lungo la strada innevata. - Wow, – disse lui. Lei non disse niente. Lui le chiese se era ancora sveglia. Non rispose. «Ventidue anni, – stava pensando, – e la mia vita sarà tutta così. Così. Così. Così. Così». Lui andò in camera di Edward. Quando tornò, disse che Edward dormiva della grossa. Era il bello dei bambini.

Spegni la luce, e precipitano nel mondo dei sogni prima che tu possa contare fino a tre. Silenzio. Cavoli, che bello sarebbe stato se un giorno avessero avuto anche una femminuccia. Una che? - Una femminuccia, - disse lui. Si alzò, andò in cucina e tornò con la confezione del latte. Si versò nel bicchiere tutto il latte che restava e lo bevve. Da sempre, disse, sognava di avere una femminuccia. Lo sapeva lei questo? E aveva anche sempre saputo come l’avrebbe chiamata. Linda. Assicurò a Lucy che quel nome gli era venuto in mente molto prima che diventasse popolare la canzone Linda. Però, su nelle Aleutine, tutte le volte che allo spaccio sentiva Buddy Clark che la cantava al jukebox, pensava a quando si sarebbe sposato e avrebbe avuto una famiglia, e alla figlioletta che avrebbe avuto un giorno e che si sarebbe chiamata Linda Bassart. Linda Sue. – Non è carino? Cioè, lascia perdere la canzone. Non è carino di per sé? E sta bene con Bassart. Prova… Sei sveglia? -Sì. Linda… Sue… Bassart, – disse. – Cioè, da una parte non è troppo ricercato, e dall’altra non è neanche troppo banale. Come Edward, è il giusto mezzo, come piace a me. Un’altra auto. Silenzio. Si alzò e andò a guardare dalla finestra. – Miss Linda… Sue… Bassart. Mica male, eh?

… Fino a quel momento, renderlo un padre adeguato per il suo bambino era stata una fatica così improba che nemmeno una volta lei aveva pensato a un secondo figlio. Ma in quel profondo silenzio invernale, mentre ascoltava quel che lui diceva, e il tono in cui lo diceva, pensò che forse finalmente non si riempiva la bocca di parole al solo scopo di compiacerla. Sembrava che non fingesse; glielo sentiva nella voce, che stava esprimendo un sentimento reale, un desiderio reale. Magari la voleva davvero, una figlia. Magari l’aveva sempre voluta. Per tutto il giorno dopo non riuscì a togliersi dalla testa quel che le aveva detto Roy la notte prima. Era l’unica cosa a cui riuscisse a pensare. Quando la sera lui tornò a casa, quando, come al solito, fece roteare Edward per aria, lei pensò: «Vuole una figlia. Vuole un altro bambino. Può essere? E’ davvero cambiato? E’ finalmente diventato uomo?» E fu così che, nelle prime ore del mattino seguente, quando Roy rigirandosi le si mise sopra, Lucy decise che non era più necessario usare una protezione.

Dopo la nascita di Edward, l’ostetrica le aveva consigliato di farsi mettere un diaframma, se non ne aveva già uno. Lei disse subito di sì, quando si rese conto che a quel modo il suo destino non sarebbe più stato nelle mani di Roy; che non sarebbe mai più stata vittima della sua incompetenza e stupidità. Ma ora lui le aveva detto che avere una figlia era uno dei suoi più vecchi desideri. Lucy non aveva avuto l’impressione che cercasse solo di compiacerla, ma come faceva a esserne sicura se non gli dava modo di dimostrare la sua sincerità e la sua buonafede? Nelle settimane successive Roy non fece più cenno a Linda Sue, e lei nemmeno.

Nel cuore della notte, però, veniva svegliata da una mano o una gamba che le calavano addosso; e poi dal lungo corpo di lui che si strusciava contro le sue forme minute – oppure, se Roy non era del tutto sveglio, contro la sua camicia da notte. Era così che facevano l’amore in quel febbraio, e non c’era niente di straordinario; era da anni che lo facevano così. Solo che adesso, mentre lui si protendeva e spingeva contro di lei nel buio, Lucy guardava oltre la sua spalla la neve che scendeva incessante, sapendo che entro breve si sarebbe trovata incinta per la seconda volta nella sua vita. E questa volta sarebbe stato diverso; non ci sarebbe stato bisogno di supplicare nessuno, di discutere con nessuno, e nemmeno di discutere fra loro. Adesso erano sposati, e non dipendevano in alcun modo né dai genitori di lei né da quelli di lui. Questa volta sarebbe stata una cosa che Roy stesso aveva detto di volere. E questa volta, ne era certa, sarebbe nata una femmina.

Di colpo la sua convinzione di una vita interminabilmente infelice svanì. E fu come se da un giorno all’altro le fosse stata levata di dosso ogni pesantezza, tristezza e malinconia. Poteva essere vero? Una nuova Lucy? Un nuovo Roy? Una nuova vita? Un pomeriggio, mentre tornava a casa stringendo la mano di Edward nella muffola, con la slitta che raschiava alle loro spalle sui viottoli sgombri, si mise a cantare la sciocca canzoncina che papà Will aveva insegnato al suo piccolo. «Povero Michael Finnegan», – disse lui cauto, come stupito dal fatto che lei la conoscesse… - Ma papà Will te l’ha detto, che la cantavo anch’io da bambina. Anch’io una volta sono stata bambina. Lo sai. Davvero? - Certo. Tutti una volta sono stati bambini. Perfino papà Will! Lui fece spallucce.

Si faceva crescere i baffi sul mento–negan…

Lui la guardò con la coda dell’occhio, poi fece un sorriso compiaciuto e, quando arrivarono a casa, cantava insieme alla mamma:

Ma glieli scompigliava il vento–negan, Ed era da capo il povero Michael Finnegan.

Sul serio, non ricordava di essere mai stata così felice in tutta la sua vita. Cominciava ad avere la sensazione di essersi finalmente lasciata alle spalle il tremendo passato, e di vivere all’improvviso nel proprio futuro. Le sembrò che stessero passando enormi archi di tempo mentre il mese avanzava e si avvicinava la ricorrenza del Compleanno di Washington, e poi quella decisiva domenica in cui portarono Edward a trovare i nonni e i bisnonni a Liberty Center. Dopo cena Roy uscì a fotografare Edward che aiutava il nonno a rompere una scivolosa lastra di ghiaccio davanti alle porte del garage. Lucy vedeva i tre nel vialetto, Roy che spiegava a Lloyd dove mettersi in modo che le luci e le ombre cadessero bene, e Lloyd che spiegava a Roy che se si era messo dove si era messo era per poter fare il lavoro, e Edward che affondava le galosce rosse nei cumuli di neve a fianco del vialetto. Lei era al lavandino a guardare la scena fuori mentre ascoltava a intermittenza il fiume di chiacchiere di Alice Bassart; stavano finendo di fare i piatti, Alice lavava e Lucy asciugava. Ellie Sowerby era a casa per il fine settimana, ed Alice non parlava d’altro che dei problemi che aveva Irene con la figlia. Lucy si chiese se quei discorsi non avessero come scopo principale quello di provocarla. Lei e la suocera non avevano certo una relazione che si potesse dire calorosa e amorevole; in primo luogo, nessuna ragazza che le avesse portato via di casa il suo ragazzone avrebbe potuto guadagnarsi l’amicizia di Alice Bassart, ma di recente la suocera aveva anche altro di cui lagnarsi. Se già provava del risentimento verso Lucy a causa del matrimonio in sé, il suo rifiuto di aver a che fare con sua sorella e suo cognato non poteva che peggiorare le cose. Non che Alice l’avesse mai tirato fuori esplicitamente; non ricorreva a quei mezzucci. Ma che le importava adesso di Alice Bassart?

O anche dei Sowerby? Erano tutti parte di quel passato che pareva essersi dissolto nel nulla. Quel passato e quelle persone non avevano più alcun potere su di lei. Era trascorso un mese e non le erano venute le mestruazioni. Ora c’era solo il futuro a cui pensare. Così, senza grande disagio e addirittura con una qualche remota curiosità, ascoltò la storia di Eleanor Sowerby, che sentiva raccontare a spizzichi e bocconi da quando a giugno Ellie si era laureata alla Northwestern.

Insieme a tre amiche, Ellie aveva passato l’estate in un ranch aperto ai turisti nel Wyoming, dove abitavano i genitori di una delle tre. Adesso si trovava a Chicago, con quelle stesse tre ragazze, tutte ammassate in quello che, secondo Ellie, era un appartamento «pazzo» nel Near North Side – in una traversa di Rush Street, o «Lush» Street, cioè Via Sciccosa, come la chiamava Skippy Skelton, una delle coinquiline di Ellie. Naturalmente Lucy sapeva già che «quel Roger» (il secondo giovanotto della Northwestern ad aver consegnato a Ellie la spilla di una confraternita), «quel Roger» con cui avrebbe dovuto fidanzarsi dopo la laurea, nell’ultimo semestre dell’ultimo anno aveva improvvisamente deciso che Ellie non gli piaceva tanto quanto aveva pensato. Un giorno, di punto in bianco, l’aveva mollata; e così inaspettatamente, così crudelmente, che Irene aveva dovuto precipitarsi fino a Evanston e starci un’intera settimana mentre Ellie si riprendeva dallo shock. I genitori le avevano concesso quella vacanza in un ranch nel remoto Wyoming solo perché speravano che l’avrebbe aiutata a dimenticare l’accaduto. Quanto a quel Roger, disse Alice Bassart, dev’essere un tipo ben singolare. Lo sai quando le ha chiesto indietro la sua preziosa spilla? Una settimana esatta dopo aver trascorso una splendida Pasqua a Liberty Center, ospite a casa di Ellie! Ma, nonostante la crudeltà di quel ragazzo, Ellie stava finalmente cominciando a rimettersi in forze; stava cominciando a capire quanto fosse meglio per lei che una persona come quel Roger fosse uscita dalla sua vita. E non aveva più crisi di pianto, con gran sollievo di tutti. Erano state le crisi di pianto che per poco non avevano costretto Irene a prendere un aereo e volare in Wyoming. Ma a quanto pareva Skippy Skelton si era rivelata una signorina molto in gamba, e aveva fatto a Ellie un discorso che l’aveva convinta a smettere di compiangersi; e adesso a Chicago Ellie era impegnatissima, e non aveva certo il tempo di passare la giornata a letto a inondare il cuscino di lacrime. Lavorava come receptionist in una sorta di agenzia pubblicitaria; e la gente lì era «favolosa» – non aveva mai conosciuto prima così tanti «cervelloni». Non sapeva nemmeno che esistessero. Cosa intendesse dire con questo, non l’avevano ancora capito. Irene, francamente, era nervosa, sapendo quanto fosse importante che Ellie passasse l’anno a venire senza traumi che le potessero causare un’altra battuta d’arresto emotiva. E a Julian non piaceva affatto il tipo di persone che probabilmente bazzicava Ellie laggiù. A quanto aveva capito, lì c’era un’università piena zeppa di cosiddetti cervelloni, metà dei quali comunisti. E, a peggiorare ulteriormente le cose, Ellie continuava a sbocciare e fiorire: ogni volta che la vedevi era più bella della volta prima. Si era arrotondata in modo molto grazioso e, benché le fosse preso il ghiribizzo di farsi scendere i capelli sulla faccia così che quasi non si vedevano più le sue meravigliose fossette, era ancora il tipo di fanciulla che purtroppo attraeva i ragazzi anche quando camminava per strada badando ai fatti propri. Ma i ragazzi non sarebbero stati un gran pericolo; il vero pericolo erano i cervelloni. Ellie pensava solo ai vestiti, ancor più che da bambina – a quanto pareva a Chicago per camminare c’era bisogno di ventiquattro paia di scarpe, disse Alice -, e i Sowerby temevano che un uomo privo di scrupoli la vedesse, la circuisse e si approfittasse di lei, senza alcun riguardo per i suoi sentimenti. Ellie si stava ancora riprendendo da quel Roger e, con la sua natura dolce, generosa, fiduciosa, avrebbe potuto innamorarsi perdutamente di qualcuno che le avrebbe spezzato il cuore per la seconda volta di fila. I Sowerby erano particolarmente turbati perché si era scoperto che Skippy, che era parsa loro una così buona influenza per Ellie, usciva con un uomo di trentasette anni separato dalla moglie, che aveva in mente di prendere Skippy (ventidue anni) e scappare con lei a nascondersi in Spagna per un decennio almeno, se non per sempre. Il motivo per cui Ellie era a casa per il fine settimana era proprio discutere con i suoi genitori del genere di ragazza che si era rivelata essere questa Skippy. Qualche minuto dopo erano tutti in soggiorno quando arrivò Ellie al volante dell’auto di sua madre. Lucy non ebbe neanche il tempo di andare a chiedere a Roy se quella visita era stata programmata: la sua vecchia amica era lungo il viottolo, su per i gradini, e dentro casa. Sulle prime Ellie le parve più alta di quanto ricordasse. Ma era un’illusione, creata in parte dai capelli,- se li era lasciati crescere lunghi e folti, come una sorta di criniera – e in parte dal cappotto, che era una pelliccia color miele stretta in vita da una cintura. Molto teatrale. Era entrata in soggiorno come se salisse su un palcoscenico. A quanto Lucy poteva vedere, Eleanor non aveva certo l’aria di una persona che si sta riprendendo da una catastrofe; aveva anzi l’aria di vivere in un mondo in cui le catastrofi non erano nemmeno contemplate. Era stato Lloyd Bassart ad aprire la porta, e così fu lui il primo a essere abbracciato. – Zio Lloyd! Ciao! – ed Ellie lo baciò dritto sulle labbra. Lucy non ricordava di aver mai visto nessuno baciare Lloyd Bassart sulle labbra. Poi i capelli di Ellie, freddi e fruscianti, furono contro la guancia di Lucy. – Ciao! – e poi Ellie stava guardando Edward: – Ehi! Ciao! Ti ricordi di me? No? Sono tua cugina, lo sai? Non sono forse sua cugina? Sono la tua cugina di secondo grado Eleanor, e tu sei il mio cugino di secondo grado Edward. Ciao, cugino di secondo grado! Il bambino era in piedi accanto alla poltrona di Roy, con la testa premuta contro il ginocchio del padre. Nel giro di qualche minuto, però, lei lo aveva convinto a salirle in braccio, dove gli concesse di strusciarsi sulla pelliccia – che, disse Ellie, era solo lontra, anche se il colletto era di visone. Edward infilò le mani nei guanti di cuoio foderati di pelliccia e tutti risero; gli arrivavano fin oltre il gomito. Quando Lucy ricordò a Roy che era ora di andare a trovare la famiglia di lei, lui disse che Ellie voleva sapere se sarebbero passati prima da casa sua. Aveva seguito Lucy in cucina, dove lei si era rifugiata con la scusa di prendere un bicchiere d’acqua. Se avesse sentito ancora una volta il nome di Skippy Skelton, avrebbe dato in escandescenze. Skippy era una di cui non era il caso di preoccuparsi.

Skippy era comparsa sulla lista degli studenti più meritevoli della Northwestern in tutti i semestri tranne l’ultimo, e poi aveva smesso di darsi pensiero dei voti. Skippy non aveva alcuna intenzione di fuggire in Spagna con quell’impostore che Greg si era rivelato essere. La Spagna, in realtà, era stata una piccola esagerazione di Eleanor. Non sapeva perché lo aveva detto, se non che, quando parli ogni settimana con tua madre per interurbana, a un certo punto non sai più cosa raccontare. Greg adesso era tornato dalla moglie e dai figli, perciò non c’era motivo di andare in fibrillazione, almeno per quanto concerneva Skippy. Non era il caso di preoccuparsi di Skippy, Skippy sapeva tirarsi fuori come niente fosse dalle situazioni più incresciose, Skippy era quel tipo di persona. Era stata proprio Skippy a dire a Greg di tornare di corsa dalla sua famiglia, appena aveva scoperto che c’erano di mezzo tre bambini piccoli. Ora Skippy usciva con un tizio veramente «anticonformista» secondo cui Ellie era una scema a sprecare i suoi talenti dietro il bancone di una reception per cinquanta dollari alla settimana… E questo era il motivo per cui Ellie era a casa per il weekend. Forse i suoi genitori pensavano che fosse venuta fin lassù per giustificare Skippy, ma in realtà il motivo per cui era lì era raccontargli che, grazie all’amico di Skippy, era stata presentata a Martita. Non sapevano chi era Martita? Be’, si dava il caso che fosse stata, prima della guerra, la più importante indossatrice d’America.

Adesso si era ritirata e gestiva l’unica vera agenzia di Chicago. La notizia era che Ellie nel giro di qualche settimana avrebbe lasciato l’impiego da receptionist per buttarsi a testa bassa in una nuova carriera. – Indossatrice! – disse. – Io! - Ah, – disse Lloyd. E: Fenomenale! – disse Roy. – Non dimenticarti chi è stato il primo a fotografarti, Ellie mia -. Ed Alice disse: – I tuoi l’hanno saputo solo oggi? – E a quel punto Lucy era andata a prendersi il bicchiere d’acqua.

Si era chiusa alle spalle la porta della cucina. Quando si aprì, era Roy, per dirle che i genitori di Ellie speravano che sarebbero passati per il caffè. - Roy, era tutto programmato… da quando? - Cosa intendi, «programmato»? - Lo sapevi che veniva Ellie? - Be’, no, non proprio. Sapevo che era in città. Senti, vogliono solo vedere Eddie, tutto qui. E vogliono vedere anche noi, penso. - Oh, davvero? Così dice Ellie. Ed è ovvio che non è una bugia. Lucy, senti, siamo stati noi a boicottare loro… e con buoni motivi, lo so, non preoccuparti. Ma non è che loro non volessero vedere noi, almeno che io sappia. E comunque, adesso è finita. Sì, è finita. L’errore che hanno fatto è stato grave, e anche Terrore che ho fatto io è stato grave, ma è finita. Non è vero? - E’ vero? - Sì… certo. Sai, bisogna anche tener conto del fatto che magari stiamo facendo un torto a Edward… se vogliamo parlare del suo bene in questa faccenda. - E’ stato proprio il suo bene in questa faccenda, Roy, che ho dovuto farti presente… Okay, okay… me lo hai fatto presente! E così adesso sono io che lo faccio presente a te, ecco tutto. Checché tu ne pensi dello zio Julian, o anche della zia Irene, checché noi due ne possiamo pensare, be’, loro sono pur sempre la zia e lo zio anche di Edward, e lui di questa faccenda non sa niente, inutile dirlo… Oh, dài, Lucy, Ellie sta aspettando. - Che aspetti pure. - Lucy, in tutta franchezza… cominciò lui.

- Cosa? - Vuoi che ti parli in tutta franchezza? – Te ne prego, Roy. - Perché all’improvviso sei così sarcastica? - Io non sono «sarcastica». E se lo sono non posso farci niente. Parlami con franchezza. Dài. - Allora, con franchezza, penso davvero che a questo punto, dato tutto quel che è successo, e anche quel che non è successo, e questa non è una critica, te lo garantisco, ma credo che a questo punto forse il tuo atteggiamento riguardo a questa cosa sia un po’ sciocco. Cioè, senza che tu te ne renda conto. Ecco, così la penso, e l’ho detto. E, a essere franco, mi sa che la pensano così anche i miei genitori. Ormai è passato più di un anno da quando tutto è successo, il modo in cui mi sono comportato e così via, e adesso è finita, e forse per quanto concerne i Sowerby abbiamo passato il segno, e dovremmo metterci una pietra sopra, e fare un passo avanti… Allora, tu cosa pensi?

- L’opinione dei tuoi genitori è importante per te? Mi sorprende. - Non sto parlando di opinioni. Non sto parlando di importanza! Smettila di essere così sarcastica! Sto solo parlando di come appare la cosa a dei testimoni neutrali. Non confondermi, per favore, d’accordo? Questo è l’importante. Non ha più alcun senso, Lucy.

Senti, mi spiace se suona come una critica verso mia moglie, ma non lo è. - Cosa non lo è? - Continuare a combattere una guerra, quando la guerra è finita, quando nessuno sta più combattendo, almeno che io sappia. Ellie chiamò dal soggiorno: – Venite? Roy? - Roy, disse Lucy, – se vuoi andare e portare Edward, va’ pure. - … Dici sul serio? -Sì. Il suo sorriso si spense. – E tu? - Resto qui. Vado a piedi da papà Will. - Ma non voglio che vai in giro a piedi, Lucy -.

Allungò una mano e le passò le dita nella frangia. – Ehi, Lucy -. Parlò con voce suadente. – Dài. Perché no? E’ finita. Facciamola finita una volta per tutte. Lucy, dài, ultimamente sei così carina. Lo sapevi? Cioè, io ti ho sempre vista carina, ma ultimamente ancora di più. Dài, vieni, eh, che dici? Lucy sentì che stava per cedere. Facciamola finita una volta per tutte. – Forse dovrei andare a Chicago e farmi presentare a Martita, l’indossatrice più famosa della storia d’America. Martita e Skippy Skelton… - Oh, dai, Lucy, tu sei carina. Per me lo sei, e anche molto più carina di Ellie. Perché hai carattere, e sei tu. Non hai bisogno di vestirti all’ultima moda, non hai bisogno di metterti le pellicce di visone, credimi, per essere carina. E’ solo una cosa materiale, lo sai. Tu sei la persona migliore del mondo, Lucy. Lo sei. Per favore, vieni anche tu. Perché no? - Roy, se vuoi andare, puoi farlo. - Be’, lo so che posso, – disse lui amareggiato. – Vieni a prendermi alle quattro da papà Will.

- Oh, dannazione, – disse lui, spingendo una delle sedie della cucina contro il tavolo. – Dopo però sarai arrabbiata. Lo so. - Cosa intendi? - … Se vado. – Perché dovrei? Hai in mente di fare qualcosa là che potrei disapprovare? – Io non ho in mente nulla] Sto solo andando a trovare qualcuno! A prendere un caffè! - Allora tutto bene. - Però non farti trovare arrabbiata quando arriviamo a casa… solo questo. - Roy, un minuto fa mi hai assicurato che il passato è finito, che posso fare affidamento su di te. Devi ammettere che non è sempre stato così. - Va bene. – Da sei mesi ormai continui ad assicurarmi che non hai più certe idee infantili… - Non le ho. - Che hai deciso di assumerti le tue responsabilità verso di me e verso Edward. - Sì! - Allora, se è davvero così, se è vero che non ho nulla di cui preoccuparmi quando sei in compagnia di quell’uomo… se non mi stai prendendo in giro, Roy, se non stai solo fingendo… - Io non prendo in giro nessuno! – Ehi! Ellie li stava di nuovo chiamando. – Piccioncini! Venite fuori dal vostro nascondiglio, che sta succedendo lì? In soggiorno, Alice era seduta su una poltrona, già in cappotto e galosce. Ogni volta che Roy e Lucy bisticciavano, Alice dava per scontato che la colpa fosse solo della nuora; era una cosa a cui Lucy aveva dovuto fare l’abitudine già da molto tempo. Ignorò la faccia che le rivolse Alice, le labbra strette e le mascelle serrate. Ellie era inginocchiata davanti a Edward, e gli stava tirando su la cerniera della tuta da sci; la gonna e la pelliccia le erano risalite sopra il ginocchio. - Ehi, andiamo, – disse Ellie, prima di prenderci tutti la polmonite. - Lucy non può venire, disse Roy…. mentre Lucy stava pensando: «Non azzardarti a prepararlo per uscire senza il mio permesso. Spetta a me, non certo a te, decidere se può mettere piede in casa tua, e vedere i tuoi genitori. Sono io sua madre». Non avrebbe mai dovuto cedere, di là in cucina, e dire di sì a Roy. La guerra era finita? La guerra non era mai finita con le persone di cui non potevi fidarti o su cui non potevi contare. Perché, perché aveva abbassato la guardia? Perché quella ragazza fatua era venuta da Chicago per il fine settimana? Perché quell’indossatrice era inginocchiata accanto a suo figlio, a giocare alla mammina mostrando le gambe a tutti?

- Tu non puoi? – disse Ellie in tono triste. Neanche per un’ora? Non ti vedo da decenni. E finora non ho fatto altro che parlare di me. Oh, Lucy, vieni con noi. Ti invidio così tanto, sei sposata e ti sei emancipata dalla corsa per il successo. E’ quello che dovrei fare io -. Subito i suoi occhi si riempirono di malinconia. – Per favore, Lucy, mi piacerebbe tanto parlare con te. Ho tanta voglia di sentire com’è la tua vita da sposata con questo bellimbusto.

- Ah, sì? - disse Roy, infilandosi la giacca. Le rivolse un sorriso d’intesa. Ch’avrei scommesso. - Wow, – disse Ellie, – che chiacchierate ci facevamo in camera mia. - Scusami, – disse Lucy. Chiamò a sé Edward e gli sistemò la tuta da sci. – Tu vai con papà. Io vado a trovare nonna Myra -. Gli diede un bacio. Lui corse dal padre, gli prese la mano e si mise a fissare Ellie che si infilava i guanti. Roy rise. Pensa che siano suoi, – spiegò a Lucy. – I guanti. - Grrr, – disse Ellie, simulando degli artigli con uno dei guanti. – Grrr, Edward, sto arrivando -. Il ragazzo si mise a ridacchiare e, quando Ellie fece un passo verso di lui, affondò la testa contro il fianco del padre. Roy guardò Lucy, poi Ellie. – Ehi, El, la mamma di Lucy si sposa. Lo sapevi?

- Ehi, è stupendo, – disse Ellie. – Favoloso, Lucy. Lucy accolse con freddezza quell’entusiasmo. – Non è ancora deciso. - Be’, spero che sia così. Sarebbe bellissimo. Lucy non le diede né ragione né torto. - Ehi, – disse Ellie. – Come sta papà Will? - Bene. Io quell’uomo lo adoro. Me lo ricordo al tuo matrimonio. Raccontava tutte quelle storie sui boschi del Nord. Storie bellissime. Nessuna reazione. A Edward, che la stava ancora fissando, Ellie disse: – E tu, piccolo Edward? Non lo adori papà Will? Lui fece di sì con la testa a qualsivoglia cosa pensasse che Eleanor gli stesse chiedendo. - Mi sa che qui è Edward a essersi i–n-n–a-m–o-r–a-t–o di qualcuno, – disse Alice Bassart. Ellie disse a Lucy: – Abbraccialo da parte mia, d’accordo? Viene proprio voglia di abbracciarlo, vero, quando si mette a raccontare quelle storie? E’ così vecchio stampo. Proprio perfetto. Ed è questo che manca a Chicago, per quanto ci si diverta… queste persone genuine, che hanno davvero a cuore gli altri, e non sono false e costruite. Quando eravamo in quel ranch a Horse Creek, c’era un uomo là, il caposquadra, che era tanto cortese e vecchio stampo e cordiale, e ti veniva da pensare che probabilmente una volta l’America era così. Ma Skippy dice che ormai sta scomparendo tutto, anche laggiù, che quello è una sorta di ultimo avamposto. Non è un peccato? Se ci pensi, è davvero tremendo. A Chicago di sicuro è già scomparso tutto, te lo garantisco. A volte la mattina mi sveglio, e sento giù in strada tutte quelle automobili che partono, e vorrei essere di nuovo qui a Liberty Center, dove almeno non c’è quell’odio e quella violenza. Qui lasciate la porta di casa aperta, la macchina aperta, e potete andare via per una settimana, anche un mese, senza alcuna preoccupazione. Invece dovreste vedere le serrature che ci sono nella nostra porta. Tre, – disse, rivolta a Alice. - Dio mio, – disse Alice. – Lloyd, hai sentito? Ellie deve avere tre serrature, a causa della violenza. - E anche il catenaccio, – disse Ellie.

- Eleanor, non capisco perché vuoi vivere in un posto simile, – disse Alice. – E i borseggiatori? Spero proprio che tu non ti metta a camminare per strada. - Ma figurati, mammina, disse Roy, – lei cammina per aria. Dove credi che cammini, mamma? – Di certo non mi sembra il caso – rispose la madre – di uscire dopo il tramonto in un posto dove hai bisogno di tre serrature e un catenaccio, Roy. - Be’, – disse Lloyd, – laggiù hanno un grosso problema, con tutta quella gente di colore, non li invidio. - Il problema non sono i neri, zio Lloyd. Voi pensate che dipenda tutto dai neri… e quanti neri conoscete? Conoscete davvero, da parlarci? - Aspetta un istante, disse Roy. – Io ne conoscevo uno con cui parlavo un sacco, Ellie, alla Britannia. Un tizio dannatamente in gamba. Avevo un gran rispetto per lui. - Bene, – disse Ellie. – Io conosco una ragazza che esce con un nero. - Sul serio? – disse Alice. - Sì, sul serio, zia Alice. Ma lo sapete cosa dice mio padre? Che probabilmente è una rossa. Be’, ha preso una bella cantonata. Perché si dà il caso, e lo so per certo, che abbia votato per il presidente Eisenhower. Una scelta non proprio da comunista, non credete? - Esce davvero con lui, Eleanor? In pubblico? – disse Alice. - Be’, l’ha conosciuto a una festa… e lui l’ha portata a casa sua. Ma per strada, ed è stata una cosa normalissima, il colore non fa una gran differenza… Così ha detto. E io le credo. - Ma lo ha baciato? – chiese Roy. - Roy! – disse la madre. - Cosa c’è da agitarsi tanto? Le ho solo fatto una domanda. Ho chiesto una precisazione. - Be’, bella precisazione, – disse la madre. Roy continuò imperterrito. – Dico solo che una cosa è essere amici e così via, e su questo assolutamente concordo e l’ho fatto anch’io, come ho appena accennato. Ma a essere del tutto sincero, Ellie, riguardo a questa ragazza, ebbene, penso molto sinceramente che il sesso interrazziale e così via sia tutta un’altra questione. Ellie rispose sprezzante: – Be’, sul sesso non ho indagato, Roy. Sono affari suoi, direi. - Mi sembra – disse severa Alice Bassart – che qui ci sia un bambino con due o–r-e–c-c–h-i–e belle tese. - Bene, io dico solo che ogni volta che succede qualcosa di terribile tutti danno la colpa ai neri, – disse Ellie, – e io mi rifiuto di stare ancora ad ascoltare questi pregiudizi. Punto e basta. Da chiunque provengano. – E tutta quella violenza, Eleanor? – domandò Lloyd Bassart. – Laggiù c’è una violenza tremenda, l’hai detto anche tu. - Ma non è colpa dei neri!

- E di chi allora? – domandò Alice. – Sono loro i principali responsabili, no? - In realtà, – disse Ellie, – più di tutti sono i tossicomani… persone molto malate che hanno bisogno di aiuto. La prigione non è la risposta, ve lo assicuro. - Tossicomani? – disse Lloyd. – Vuoi dire i drogati, Eleanor, e i gigolò? - … sono per le strade? – domandò Alice. - Non Gigolò, Gongolò! – disse Edward con un sorrisone. – Gongolò, mammina! – disse a Lucy. Ellie gettò indietro la testa, e la criniera dei suoi capelli mandò scintille. – Gigolò! Non vedo l’ora di raccontarlo a Skip. Oh, delizioso. Gigolò! – disse, precipitandosi da Edward per prenderlo in braccio. – E c’è anche Brontolo. Giusto? - Eh, sì, – disse lui. E allungò una mano per toccarle il collo della pelliccia. - E chi altro? – chiese Ellie, facendoselo ballonzolare fra le braccia. – Eolo? - Eolo! – gridò lui. - Lucy. – disse Ellie, – è un bambino meraviglioso. Una favola, davvero. Ehi, andiamo! – Posò Edward a terra, ma continuò a tenerlo per una mano. - Andiamo, – disse il bambino. Roy disse: – Vuoi raggiungerci dopo, Lucy? Dopo che hai visto i tuoi? Potrei passare a prenderti. Lei disse: – Resterò dai nonni. Alice disse: – Tu vieni dopo, Lloyd? - Sì, sì. Uscirono dalla porta, con Edward che strattonava la pelliccia della nuova parente appena scoperta. – E Mammolo. Mammolo! Il piccolo Mammolo! Come ho fatto a dimenticarlo? E’ proprio come te. - E anche Dotto. - Anche Dotto! – disse Ellie. Oh, Edward, che tipetto che sei. Non mi sembra nemmeno vero che esisti, ed eccoti qui! - E la matrigna cattiva. - Oh, sì, lei.

«Specchio, specchio delle mie brame»… – e la porta si chiuse. Lucy osservò dalla finestra mentre suo marito e la cugina decidevano che auto usare, se la Hudson oppure la nuova Plymouth decappottabile della madre di Ellie. Mentre la discussione continuava, Alice Bassart stava sul marciapiede davanti a casa, tenendo per mano Edward e accennando un passo prima in una direzione, poi nell’altra. Roy disse: - Vuoi arrivarci viva oppure no, mamma? – Ellie indicò la Hudson e disse qualcosa che Lucy non riuscì a sentire, ma che fece ridere Roy. – Ah, sì? E’ così che la pensi? – ribatté lui. – Dài, Roy, – disse Ellie, socchiudendo la portiera della Plymouth, – goditi la vita. – Godermi la vita? In un prodotto della Chrysler Motors? – protestò Roy. – Stai scherzando? - Monta su, zia Alice, monta su, Ed, – chiamò Ellie, e Roy disse: – Ehi, non si tratta solo della tua vita, mamma… qui c’è il mio unico erede, – ed Alice disse: – Roy, smettila immediatamente di fare lo sciocco! – Va bene, d’accordo, – disse lui, – contente voi, – e finalmente tutti salirono sull’auto dei Sowerby. Edward si mise dietro con la nonna, e Roy scivolò accanto a Ellie. Lucy stava per allontanarsi dalla finestra quando la portiera dal lato del passeggero si aprì e Roy fece di corsa il giro dell’auto per passare da quello del guidatore.

Mentre passava dietro la macchina scivolò e cadde. – Ahi! – Si tirò su, e stava spazzolandosi via la neve dal risvolto dei pantaloni quando alzò gli occhi e vide Lucy alla finestra. Le fece un cenno di saluto con la mano; lei non ricambiò. Lui mise le mani a coppa davanti alla bocca: Vuoi venire… fra mezz’ora? Dentro l’auto Ellie stava sgusciando via da dietro il volante. - Lucy, vuoi che…? Lei scrollò il capo. A quel punto lui parve non sapere che fare. Lei non si mosse. Avrebbe deciso di non andare, alla fin fine? Si sarebbe ricordato com’era suo zio? Avrebbe preso Edward e sarebbe tornato in casa con lui… di sua spontanea volontà? Il finestrino di Ellie si abbassò. – Roy! Stiamo morendo di freddo qui dentro. Roy fece spallucce… poi a un tratto lanciò un bacio a Lucy e salì mettendosi al volante. Subito diede un colpo di clacson.

Ellie si tappò le orecchie. Dopo due tentativi il motore si accese; sbuffi su sbuffi di gas di scarico annerirono la neve dietro l’auto.

Alice Bassart tirò su il finestrino dal suo lato, poi lo tirò giù in modo che Edward potesse sporgere fuori la sua piccola muffola rossa. Un altro colpo di clacson, e l’auto si staccò dal cordolo e partì in direzione del Grove. L’ultima cosa che lei vide fu la luce rossa dei fanalini posteriori quando Roy, per una qualche sua ragione, fece una brusca frenata. A quanto pareva, Ellie stava cercando di convincere suo padre a lasciarle la macchina da portare a Chicago; in teoria era di sua madre, solo che in quattro mesi Irene ci aveva fatto poco più di trecento chilometri, il che a dire di Ellie era ridicolo. – E probabilmente finirà per lasciargliela, – disse Lloyd, mentre Lucy si scostava dalla finestra. – Non è che lo invidio perché può permettersela. Se ho fatto l’insegnante non è per arrivare alla mia età con una flotta di automobili. L’ho fatto per la soddisfazione di preparare i giovani ad affrontare le sfide della vita, e penso che tu capisca, Lucy, che le auto con questo non c’entrano un bel niente. Però, in tutta sincerità, penso che Julian non dovrebbe assecondare quella ragazza più di quanto già abbia fatto. Io non ho niente contro nessuna razza, credo o colore, però, e resti fra noi, ti dirò chi è secondo me la ragazza che esce con un nero. Secondo me è Eleanor. - Pensavo fosse la sua amica, – disse lei, infilandosi le galosce; Ellie si era presentata in tacchi alti, manco fosse stato luglio. - Potrebbe anche essere, Lucy. Da quel che sento quella persona non mi convince, tenuto conto che è così giovane. Non mi convince per nulla. Ma quel ragazzo di colore è tornato a casa o con l’una o con l’altra, puoi starne certa. Io li capisco i giovani quando parlano. E’ da tutta la vita che li frequento. Tirano sempre in ballo qualche amico quando quelli di cui parlano sono loro stessi. Eleanor è sempre stata straviziata per la sua bellezza, e adesso a Julian tocca raccogliere i frutti di quella bella figlia di cui si è sempre tanto vantato. Lasciare che una ragazza di ventidue anni vada a vivere nel bel mezzo di una metropoli come Chicago, senza un’adeguata supervisione, circondata da influenze perniciose, è una cosa che mi lascia profondamente scettico, per non dire altro.

Soprattutto una che corre dietro ai ragazzi come ha sempre fatto Eleanor. Ti dirò la mia opinione personale, Lucy, per quel che vale.

Eleanor sta andando in cerca di guai, e guai seri, considerato il tipo di cose che le ho sentito dire qui questo pomeriggio. Ma, – disse, mostrandole il palmo delle mani, – io non intendo ficcarci il naso, e ho consigliato a Alice… Lucy non stava più ascoltando. Aveva fatto una cosa stupida; adesso se ne rendeva conto. Lasciare che Roy andasse da solo, lasciare che affrontasse per la prima volta lo zio senza lei al suo fianco… che assurdità, che rischio! Le venne in mente di dire al suocero, lì su due piedi, che era incinta. Anzi, di dirlo a tutti. Sì, ecco la soluzione, ed era perfetta: l’avrebbe detto a tutti. Li avrebbe raggiunti dai Sowerby, e avrebbe fatto il suo annuncio a Julian, Irene, Ellie, Alice, Lloyd, Roy e Edward. Alla notizia di un altro figlio in arrivo, la famiglia, tutta lì riunita, non avrebbe avuto altra scelta che reagire con entusiasmo… Sì, sì. Già vedeva Eleanor che batteva le mani, che mandava a prendere lo champagne. E tutti che alzavano il bicchiere per il brindisi, come avevano fatto quattro anni prima alla festa per il futuro di Roy: «A Linda Sue!» E così, qualunque incertezza Roy avrebbe potuto provare se lei avesse fatto l’annuncio a lui solo, qualunque moto di ribellione avrebbe potuto avere se avesse avuto il sentore che lei e suo padre fossero in combutta… be’, qualunque di quelle reazioni sarebbe stata spazzata via dalla generale atmosfera festiva. Sì, sì, ecco cosa avrebbe dovuto fare: Prima sarebbe andata da papà Will. Dopo un quarto d’ora avrebbe chiamato i Sowerby… e, sì, avrebbe chiesto a Ellie di andarla a prendere. In macchina, ovviamente, si sarebbe prima confidata con lei. «Ellie?»

«Cosa?»

«Roy e io avremo un altro figlio. Tu sei la prima a saperlo». «Oh, Lucy, favoloso!» Poi l’avrebbe detto a tutti gli altri… con Ellie al suo fianco che per tutto il tempo avrebbe commentato: «Non è meraviglioso? Non è semplicemente splendido?» Data l’occasione, senza dubbio Irene avrebbe chiesto loro di restare per cena. Poi avrebbe telefonato a papà Will.

Avrebbe chiesto a sua madre e a Mr Müller, e anche ai nonni, di passare dai Sowerby dopo cena; aveva una notizia meravigliosa da comunicargli. E allora tutti avrebbero saputo. Ci sarebbero state chiacchiere ed euforia, divertimento e chiasso, e l’ansia di Roy nell’apprendere che stava per diventare di nuovo padre sarebbe passata in secondo piano di fronte al suo orgoglio, alle sue speranze, alla sua trepidazione. E avrebbe anche detto loro che speravano in una femmina… che era Roy a preferire una femmina… che lui aveva già deciso un nome… il nome che aveva sempre voluto, per la figlia che aveva sempre voluto. Se avessero brindato tutti insieme a Linda Sue, in seguito non ci sarebbe stata alcuna confusione riguardo a chi aveva avuto l’idea di avere la bambina.

Non ci sarebbero state accuse, né recriminazioni… I Sowerby avevano un registratore nel loro nuovo impianto stereo; se solo fosse riuscita a convincerli ad accenderlo, per registrare i festeggiamenti… Allora sarebbe rimasto registrato per sempre, il modo in cui tutti erano stati assolutamente elettrizzati alla prospettiva di Linda Sue. «A nostra figlia, spero», avrebbe detto Roy, e sarebbe rimasto registrato. Ma forse stava esagerando… o forse no. Non aveva già visto fino a che punto poteva spingersi la gente pur di negare la verità? Non aveva già visto come la gente diceva bugie, lanciava accuse, faceva di tutto pur di eludere i propri obblighi e doveri? Se solo avesse avuto un registratore con sé la notte in cui Roy aveva parlato del suo desiderio di avere una figlia… Ma di certo quello non l’avrebbe negato. Come avrebbe potuto? Perché avrebbe dovuto? Magari era stato più lento di lei nel giungere alla maturità, ma davvero non era un bugiardo di natura. Né un imbroglione o un farabutto, e non aveva il vizio del gioco, né delle donne, né dell’alcol. In fondo era un’anima dolce e gentile… e lei lo amava. Amava Roy? Non poteva ingannarsi al punto da pensare di averlo sempre amato, o meglio, di averlo mai amato. Ma quella domenica pomeriggio, con quattro atroci anni di matrimonio alle spalle, credeva davvero di poterlo amare. Non il Roy che era stato, ovviamente, ma il nuovo Roy che era diventato. Perché era quello l’uomo che aveva parlato con lei lì in cucina: un Roy che non era più infantile e irresponsabile, un Roy che non fingeva più. Poteva essere vero? Era cambiato? Era diventato un brav’uomo? Suo marito era un brav’uomo? Aveva sposato un brav’uomo? Il padre di Edward, il futuro padre di Linda Sue, era un brav’uomo? Oh, finalmente poteva amarlo: ne aveva fatto un brav’uomo. Era finita! Roy non faceva più resistenza al matrimonio, né lui né nessun altro. Era quello il senso della visita di Ellie: i Sowerby avevano capitolato! Spedire Ellie a invitarli tutti a casa loro equivaleva ad ammettere che Lucy aveva avuto ragione, e loro torto.

Julian Sowerby stava ammettendo la propria sconfitta. Con tutti i suoi soldi e avvocati e le sue maniere infide e subdole, Julian stava sventolando bandiera bianca! Le pene che aveva patito la primavera precedente, le pene che aveva patito quando era stata incinta di Edward, tutte quelle afflizioni e umiliazioni… erano finite. Questa volta sarebbe stata incinta come lo dovrebbe essere una donna. Il ventre sarebbe cresciuto, i seni si sarebbero riempiti, e la pelle sarebbe divenuta liscia e lustra, e nessuna di quelle cose le avrebbe fatto provare paura o disgusto o sconforto. Questa volta sarebbe stata deliziata da quel che le stava succedendo. Sarebbe venuta la primavera, poi l’estate… e quel che vedeva era una donna in camicia da notte bianca di pizzo, con i capelli lunghi, – si trattava di lei -, a letto, con la figlioletta vicina nel letto, e un uomo seduto su una sedia, che sorride a entrambe. Regge in una mano i fiori che ha portato per la neonata, e nell’altra i fiori che ha portato per lei. L’uomo è Roy.

Guarda la bambina attaccata al seno, e si gonfia di tenerezza e orgoglio. E’ un brav’uomo. Tali erano i suoi pensieri mentre usciva dalla casa dei Bassart e si avviava verso quella di papà Will. Suo marito era un brav’uomo… e Julian Sowerby era stato sconfitto… e una volta in ospedale le avrebbero portato i fiori… e si sarebbe lasciata crescere i capelli fino alla vita… e se finora era stata di pietra, se finora era stata di ferro, ebbene, adesso era finita. Adesso sarebbe diventata… se stessa!

Ma glieli scompigliava il vento–negan, Ed era da capo il povero Michael Finnegan…

Se stessa! Ma come sarebbe stato? Com’era lei?… Questa vera Lucy, che non aveva mai avuto l’opportunità di essere… Cantando, sorridendo, facendosi domande – chi sarebbe stata? come sarebbe stata? – salì i gradini della casa di suo nonno e, senza neppure suonare il campanello, aprì la porta sulla catastrofe. - Rimettiti seduto, Blanshard, stava dicendo papà Will. - Per favore, Blanshard. Mr Müller scosse la testa. Finì di abbottonarsi il cappotto e allungò un braccio verso il cappello che Willard teneva in mano. Con la schiena dritta e le braccia conserte, nonna Berta sedeva sulla poltrona accanto al caminetto. Lucy guardò la sua faccia arrabbiata, poi di nuovo i due uomini. Papà Will disse: – Blanshard, domani è un altro giorno, - ma restituì il cappello al visitatore. Mr Müller toccò la spalla dell’uomo più anziano, poi uscì dalla casa. Lucy disse: – Che c’è? Papà Will scrollò ii capo. – Papà Will, che cosa è successo? - Probabilmente nulla, tesoro -. Fece un sorriso. – Come stai? Dove sono Roy e Eddie? Nonna Berta cominciò a far scorrere lentamente le dita lungo la pelle floscia dell’avambraccio. Probabilmente nulla, – disse. - Va bene così, Berta, – disse Willard. Probabilmente nulla. Solo che lei ha deciso che non ha più voglia di vederlo. Infuriata, si alzò e andò alla finestra. - E questo sarebbe nulla! - Perché non lo vuole più vedere? – domandò Lucy. La nonna adesso tacque. Stava osservando la sagoma di Blanshard Müller che si allontanava dalla casa. - Papà Will, perché è andato via così? Cosa sta succedendo? - Avanti, spiegaglielo, – disse nonna Berta. – Non c’è niente da spiegare, – disse papà Will. Berta sbuffò e andò in cucina. -Papà Will… - Non c’è niente da spiegare! – disse lui. Lei gli andò dietro mentre si allontanava. – Senti, – ma lui era su per le scale e nella camera della madre di lei; la porta gli si richiuse alle spalle.

Lucy andò in cucina. Ora la nonna stava guardando fuori dalla finestra sul retro.

- Non capisco, – disse Lucy. Nonna Berta non parlò. – Ho detto che non capisco che cosa è successo. Che cosa sta capitando qui? Lui è di nuovo in prigione, – disse la nonna in tono aspro. Lucy restò da sola in salotto finché papà Will non scese le scale. Disse che voleva sapere tutta la storia. Lui disse: – Quale storia? Lei ripeté che voleva sapere tutta la storia. E da lui, e subito, non più tardi da qualche estraneo. Aveva la sua vita di cui preoccuparsi, disse papà Will. – Non c’è nessuna storia. Mentre lui andava avanti e indietro per la stanza, lei gli spiegò una cosa che forse, pensava, ormai avrebbe dovuto aver capito da solo: non poteva tenere le persone al riparo dalla verità; non poteva proteggere le persone dalle brutture della vita semplicemente facendo finta di niente… Si interruppe. Voleva sentire quel che c’era da sentire, qualunque cosa fosse. Se suo padre era in prigione… – E questo chi te l’ha detto? - Se è così, voglio sentirlo da te, papà Will. Non voglio dover ricostruire la verità mettendo insieme chiacchiere e bisbigli… Non ci sarebbe stata nessuna chiacchiera, non questa volta, disse. Non l’avevano detto a nessuno, neanche a Blanshard, ed era questo ad aver reso la faccenda tanto dolorosa. La sera prima Willard e Berta avevano deciso che non c’era niente da guadagnarci nel far pubblicità all’accaduto, dato che, in effetti, qualcosa era accaduto. Durante la cena del giorno prima Myra aveva chinato il capo e aveva spifferato quel che si portava dentro da quasi un mese. Ma perché Lucy adesso dovesse venire coinvolta, lui non lo capiva. Aveva una vita sua a cui pensare. Di cosa si trattava? - Lucy, che senso ha? Papà Will, per quanto concerne lui io non mi faccio illusioni. Da molto tempo ho deciso di vedere le cose in modo realistico, se ricordi. Ancor prima degli altri, papà Will… sempre che gli altri l’abbiano mai deciso. - Be’, certo che sì… - Raccontami la storia. - E’ una storia lunga, Lucy. E non capisco perché tu la voglia sentire. – Lui è mio padre. L’osservazione parve confonderlo. - Lui è mio padre: Raccontami la storia. - Adesso ti metterai a piangere, Lucy. - Non ti preoccupare di me, per favore. Lui andò fino ai piedi delle scale, poi tornò indietro. Avrebbe dovuto cominciare dal principio, disse. – Bene, - disse lei, dopo aver ripreso il controllo di se stessa. – Comincia.

Dunque, prima di tutto, a quanto pareva Myra era sempre rimasta più o meno in contatto con lui. Pressoché dal giorno in cui se n’era andato, quasi quattro anni prima, aveva portato avanti una sorta di corrispondenza con lui attraverso una casella postale. Purtroppo, nessuno dei vecchi amici di Willard all’ufficio aveva mai pensato di riferirgli che ogni tanto Myra andava a ritirare la corrispondenza.

D’altro canto, lui stesso in un caso simile non sapeva come si sarebbe regolato, date le norme sulla segretezza cui si deve attenere chi lavora in un ufficio postale. E poi magari non se n’erano nemmeno accorti.

Forse non era cosa di ogni giorno, o di ogni settimana, magari nemmeno di ogni mese… o così aveva detto Myra, confessando il tutto fra le lacrime. Lui si limitava a tenerla al corrente di dov’era e cosa gli capitava, soprattutto in occasione di qualche evento importante. E di tanto in tanto, a seconda dell’umore, se si sentiva giù, se aveva nostalgia dei tempi andati, lei rispondeva…. Dunque, per continuare, se proprio Lucy ci teneva: nei primi mesi dopo la sua scomparsa, aveva vissuto un po’ più a sud, a Butler, lavorando per un suo vecchio amico che aveva una stazione di servizio. Ma più o meno all’epoca in cui era nato Edward… - Allora lui lo sa che ho Edward. - Sì, Lucy. Le cose più grosse, come Edward, più o meno le sa. - Perché?

- Perché? Non lo so perché, Lucy. Lei pensava che certe cose, presumo, nonostante tutto quel che era successo, dato che in fondo era pur sempre un essere umano che noi una volta frequentavamo, sai com’è… be’, pensava che certe cose era giusto che le sapesse.

- Ma certo. Comunque, qualche tempo dopo la nascita di Edward, era andato in Florida. E a quanto pareva laggiù aveva cercato nuovamente di arruolarsi in marina. Per un po’ aveva anche lavorato davvero per la marina, a Pensacola, cercando di farsi assegnare il grado di sottufficiale elettricista. - Ufficiale? - Lucy, ti sto solo riferendo quel che hanno riferito a me. Se vuoi che la smetta, lo faccio ben volentieri. E dopo Pensacola? Dopo che non è riuscito a diventare ufficiale? Dopo Pensacola, era andato a Orlando. - E lì cosa sognava di fare? Era stato per un po’ con la cugina Vera e la sua famiglia. A quanto pareva era diventato molto intimo di una signora di Winter Park. Si era addirittura fidanzato. O almeno lei credeva che fossero fidanzati, finché lui finalmente non le aveva detto la verità su se stesso. – Oh, l’ha detta? - Sì, le ha detto che era ancora sposato, – disse papà Will. - Ah, quella verità. - Lucy, non sto prendendo le sue difese.

Ti sto solo raccontando una storia che tu hai preteso di sentire. Ti sto raccontando una storia che preferirei di gran lunga non raccontarti. E penso anzi che la smetterò. Tanto a che ti giova conoscere ogni minimo dettaglio? E’ passata. E finita. Perciò lasciamo perdere. – Continua, per favore. - Tesoro, sei sicura di voler sentire tutto questo?

Perché, sai, forse riguardo a questo argomento non sei così forte… Per favore! Riguardo a questo argomento sono del tutto indifferente.

Questo argomento non ha niente a che fare con me, a parte il fatto che per un capriccio della natura quell’uomo ha messo incinta mia madre e io sono stata il risultato! Io a lui non rivolgo nemmeno un pensiero, se posso evitarlo. E lo posso. E lo faccio! So benissimo che questa storia non mi tocca, e che quel che gli è successo non mi tocca. Di conseguenza, tu non hai assolutamente nulla da temere nel raccontarmi questa storia, anche in tutti gli stupidi dettagli. Voglio i fatti, né più né meno. - Ma perché? - Perciò ha detto alla sua promessa sposa «la verità su se stesso». E poi, cosa è seguito a un tale miracolo, se posso chiederlo? Per favore, continua, papà Will. Di sicuro ti sarà chiaro che non mi ritengo minimamente responsabile di qualunque idiozia lui abbia fatto da quando ha deciso di andarsene da Liberty Center. Non sono io la persona della marina, chiunque essa sia, che gli ha detto che non aveva esattamente la stoffa dell’ufficiale… - Sottufficiale, tesoro. - Sottufficiale. Bene. Né sono stata io a dirgli di fidanzarsi per poi rompere il fidanzamento. - Nessuno dice che sia stata tu, Lucy. - Bene. Allora poi dov’è andato? - Dunque, è finito a Clearwater. Ed è lì che è rimasto più a lungo. Ha trovato lavoro nel reparto manutenzione del Clearwater Beach Arms, che a quanto pare è uno degli alberghi più grandi e lussuosi che ci siano da quelle parti. E circa quattro mesi fa è stato nominato caposervizio dell’intero stabilimento. - Sul serio?

- Per il turno di notte. - E poi cosa è successo? Dunque, a quanto pareva, il suo problema con l’alcol era superato. Quel che era successo non aveva nulla a che fare con il bere. Non toccava più una goccia d’alcol e, dato che quando non si lasciava andare era sempre stato un gran lavoratore, con ogni probabilità aveva fatto colpo sulla direzione per le sue competenze. Di certo non si erano sbagliati nel valutare la sua capacità di far funzionare uno stabilimento a pieno regime, di giorno o di notte che fosse. Il loro errore era stato sopravvalutare la sua forza di carattere, considerato il fatto che per lui quel mestiere era nuovo. Il loro errore era stato dargli la chiave di quasi tutte le porte dell’albergo. Ma stava anche gestendo le chiavi perbene, o almeno così sembrava; stava andando a gonfie vele, con quell’incarico di responsabilità, o almeno così sembrava, fino a subito dopo Natale. Era stato allora che Myra gli aveva scritto per comunicargli che, dopo attente considerazioni, aveva deciso di divorziare da lui e sposare Blanshard Müller. Willard si lasciò cadere sulla poltrona e, con gli occhi chiusi, si prese la testa fra le mani. – E non ci ha detto niente.

Di sua spontanea iniziativa già fin da allora aveva deciso di sposarlo… Presumo che considerasse proprio dovere dirlo prima a Whitey… Non voleva che la notizia gli arrivasse da uno dei suoi vecchi compagni di bevute dell’Earl’s Dugout… Oh, non so cosa pensava, ma quel che è fatto è fatto… E lei ha deciso di fare così. - Si è comportata da buona moglie, papà Will. Ha avuto considerazione dei sentimenti di Whitey. Si è comportata da persona perbene, rispettabile. Da buona moglie sottomessa. Ancora! - Lucy, si è comportata da quello che è. Lei è così.

- E anche lui è quello che è, giusto? E lui cosa ha fatto? Cosa? Credimi, lo posso sopportare. Dunque, quando aveva ricevuto la notizia, ne era rimasto parecchio scosso. Verrebbe da pensare che, essendo tornato in piena forma, avendo un impiego decente e vivendo dove aveva sempre voluto vivere… verrebbe da pensare che, essendo più o meno fidanzato con un’altra persona da quasi un anno, essendo lontano da quasi quattro anni… verrebbe da pensare che fosse in qualche modo preparato a un simile shock, e che dopo un giorno o due si sarebbe abituato all’idea, avrebbe continuato con la sua nuova vita, il nuovo lavoro e i nuovi amici, più o meno rassegnandosi a una cosa che stava succedendo a tremila chilometri di distanza a una persona che non vedeva da anni e anni. Invece aveva fatto una cosa assolutamente stupida. Chissà, magari un giorno o l’altro l’avrebbe fatto comunque, indipendentemente dalla lettera di Myra. Magari Myra non c’entrava niente, ed era una cosa che progettava da un sacco di tempo. Comunque, la vigilia di Capodanno si trovava in uno degli uffici della direzione per risolvere un problema a una ventola sulla finestra. Sfortunatamente, in quel particolare ufficio, una qualche segretaria, per negligenza o per fretta, era andata a casa lasciando una borsa piena di oggetti di valore in cima a uno schedario di fianco alla cassaforte. – Sai, – disse Willard, – quelle cose che i clienti degli alberghi mettono al sicuro.

Perlopiù gioielli. Orologi da polso. E anche un po’ di contanti. – Così lui si è comportato da quello che è, e le ha prese. - Sì, in parte. In parte, – ripeté lei, abbassando gli occhi.

- Una manciata, – disse Willard in tono triste. – E poi quando si è reso conto di quel che aveva fatto… - Era troppo tardi. - Era troppo tardi, – disse papà Will. – Giusto. - E se li è bevuti. - No, oh no, – disse lui.

- Quanto al bere, neanche una goccia. No, giù a Orlando si era iscritto agli alcolisti anonimi, come a Winnisaw. Ma questa volta ha tenuto duro.

E’ stato li che ha incontrato la signora di Winter Park. No, quel che ha fatto è stato portarseli dove abitava, e poi, be’, come sarebbe capitato a qualunque poveraccio, non riusciva neanche a dormire, vedi, rendendosi conto di quel che aveva fatto. Ma ormai era l’indomani, e la mattina era già sceso qualcuno a reclamare l’orologio di una certa signora, ed ecco che non c’era. E così si sono messi a controllare e, prima ancora che lui fosse tornato all’albergo, lo scandalo era a conoscenza di tutti. E a quel punto lui non sapeva che cosa fare. Sapeva che ormai non poteva restituirli, non con il suo capo fuori di sé e i poliziotti in giro.

Così ha immaginato che per il momento fosse più furbo non dire niente e andarsene a casa. Ha immaginato di poter in qualche modo rimettere quelle cose a posto, magari quella notte. Ma nel giro di qualche ora i sospetti si sono appuntati su di lui, e la polizia si è presentata a casa sua, e lui ha pensato di non avere altra scelta e, dato che in ogni caso gli sembrava la cosa giusta, la cosa che aveva pensato fin da praticamente un’ora dopo il fatto, ha confessato tutto; ha tirato fuori ogni singolo oggetto; ha detto che si sarebbe fatto detrarre i danni dalla paga. Ma a quel punto il capo aveva già licenziato la segretaria che aveva lasciato la roba in giro e, dal momento che doveva rassicurare i clienti, qualcuno doveva avere una punizione esemplare. Ogni singola cosa era assicurata, e comunque era stata restituita, ma il capo non ha avuto alcuna pietà. Aveva i propri interessi a cui pensare, presumo.

Così, invece di limitarsi a licenziare Whitey, come aveva fatto con la ragazza, con lui ha usato le maniere forti. E lo stesso ha fatto il giudice. Laggiù ci sono un sacco di alberghi, e lì tutti sanno il fatto loro, e così ci sono andati giù duri. Per dare un esempio agli altri. O almeno così pare. Diciotto mesi. Nella prigione di stato della Florida.

Aveva finito. Lei disse: – E tu credi a questa storia. Ci credi davvero.

Fece spallucce. – Lucy, è nella prigione di stato di Raiford, Florida.

Lucy si era alzata. – Però non è sua responsabilità, giusto? - No, io non ho detto… - Tu non dici mai! Mai! - Tesoro, non dico mai che cosa? - E’ stato costretto a rubare perché era tanto triste, giusto? Non sapeva nemmeno quel che stava facendo! Non intendeva fare quel che stava facendo! Voleva subito riportare tutto indietro! Però è stato incastrato!

- Lucy… - Ma è questo che tu credi! La segretaria negligente! Il capo cattivo! Nessuno ci può fare nulla! Ognuno ha le sue pecche e debolezze fin dalla nascita… Oh, senti! – Fu sulle scale prima che lui potesse fermarla. La madre era sdraiata con la faccia nel cuscino.

- Mamma, – cominciò lei, – Mr Müller è appena andato via. Lo sai questo, mamma? Mi senti, mamma? Hai appena mandato via la tua unica possibilità di avere una vita umana decente. E perché? Mamma, ti sto chiedendo perché. - Lasciami… – La voce si udiva a malapena. Perché? Per buttare via altri vent’anni? Per essere di nuovo umiliata? Di nuovo maltrattata? Per essere deprivata? Mamma, che cosa credi di fare? Che cosa credi di salvare? Mamma, che senso ha dire a Mr Müller di andarsene, quando quell’idiota, quel deficiente, quell’incorreggibile buono a nulla…

- Ma tu dovresti essere felice! - Come? – A un tratto si sentì senza forze. La madre si era tirata su a sedere. Aveva la faccia gonfia, gli occhi infossati, lividi. Strillò: – Perché è finito dove hai sempre voluto che finisse! - Io… No! - Sì! Dove lui non sarebbe mai, mai… – Il resto andò perduto fra i singhiozzi, mentre la madre si accasciava di nuovo sul letto. Un’ora dopo, Lucy si precipitò giù per le scale e fuori dalla porta prima che Roy facesse in tempo a scendere dalla macchina. La madre aveva un’emicrania e non avrebbe retto una visita di Edward, o di chiunque altro di loro; anche Mr Müller aveva dovuto andare a casa presto. E poi la radio aveva previsto una forte nevicata entro la sera. Dovevano andare. Papà Will l’aveva seguita nel portico. Prima aveva bussato piano alla porta di quella che una volta era la camera di Lucy, ma lei non l’aveva lasciato entrare.

– Ce la faccio da sola, grazie, – aveva detto.

- Lucy, ti stai comportando come se io vedessi tutto questo con favore. Ti comporti come se io lo volessi.

- Che cosa hai fatto per evitarlo? Che cosa hai mai fatto?

- Lucy, non sono Dio…

- Lasciami sola, per favore! Non sono io quella che ha bisogno di te. Va’ dalla tua adorata figliola! Ora papà Will la seguì nel vialetto. Era già seduta in macchina, con Edward accanto, quando il nonno appoggiò i gomiti sulla portiera.

- Come sta il principe Edward? – Allungò una mano dentro l’auto per calargli il cappuccio sugli occhi. - No, – disse Edward, ridacchiando.

- Come va, Roy? – chiese papà Will.

- Oh, si tira avanti, – disse Roy. – Di’ a ma’ che spero le passi. Ma’. Così lui chiamava la madre di Lucy. Ma’! Quella debole, stupida, cieca… Era stata la polizia a sbatterlo dentro. Era stato lui a farsi sbattere dentro!

- Mi raccomando, Lucy, – disse papà Will. Le diede un buffetto sul braccio.

- Sì, – disse lei, impegnata a risistemare il cappuccio di Edward.

- Allora, – disse papà Will, mentre Roy metteva in moto, - ci vediamo il mese prossimo…

- Sì, ci vediamo, Willard, - disse Roy. - Ciao, – salutò Edward, – Ciao, papà–nonno. Oh no, pensò lei, oh no, tu non… Non verrò accusata, non verrò ritenuta responsabile… Tramonto. Neve. Notte. Mentre viaggiavano, Edward faceva schioccare la saliva in bocca, e Roy cianciava. Chi aveva visto Ellie a Chicago nei giorni di Natale? Joe il Ditone. L’aveva incontrato per caso in centro. Aveva scoperto che adesso studiava medicina, sempre giù in Alabama. Ma era sempre il solito Joe il Ditone, diceva Ellie. E cosa aveva detto Eddie? Di punto in bianco aveva chiesto a Ellie se Skippy era il nome del suo cane. Oh, i Sowerby l’avevano tempestata di domande su di lei, ovviamente. Julian aveva qualche affare in corso al campo da golf, perciò aveva fatto giusto un saluto. Praticamente non aveva spiccicato parola. Oh, e la grande notizia… Ellie li aveva invitati a passare un fine settimana da lei quella primavera. Avrebbero potuto lasciare Eddie con i nonni… Lucy chiuse gli occhi e finse di dormire… Forse dormiva davvero, perché per un po’ riuscì a scacciarsi dalla mente ogni ricordo di ciò che le era stato detto quel pomeriggio.

Erano quasi a Fort Kean. A Edward, che era rimasto sveglio tutto il tempo a guardare i tergicristalli che scostavano dal parabrezza una gran quantità di neve, Roy stava dicendo: -… così il capitano arriva e chiede: «Chi si offre per andare ad aiutare questo eschimese a ritrovare il suo cane?» E io penso: «Mi sa che c’è da divertirsi…» – e fu a quel punto che Lucy urlò. Roy accostò al bordo della strada. Quando si sporse oltre Edward per toccarla, lei scostò la spalla, rannicchiandosi contro la portiera. - Lucy! Premette la bocca contro il finestrino freddo.

L’intera faccenda non merita alcuna considerazione. - Lucy…

E lei urlò di nuovo. Sconcertato, Roy disse: – Lucy, hai male? Dove? Lucy, ho detto qualcosa…? Restò ancora un momento fermo, in attesa di sapere se era qualcosa che lui aveva detto o fatto. Poi riportò l’auto in carreggiata ed entrò in città. – Lucy, stai bene ora? Stai meglio?… Tesoro, faccio più veloce che posso. E’ scivoloso, devi resistere ancora un po’… Edward sedeva impietrito fra loro due. Di tanto in tanto Roy allungava una mano e gli dava un buffetto sulla gamba. – E’ tutto a posto, Eddie. Mammina ha solo un po’ male. A casa il bambino li seguì aggrappandosi ai pantaloni del padre, mentre Roy aiutava Lucy a salire le tre rampe di scale e a entrare nell’appartamento. In soggiorno, Roy accese una lampada. Lei si lasciò cadere sul divano. Edward era fermo sulla soglia in tuta da sci e galosce rosse. Aveva il naso che gli colava. Quando Lucy tese una mano verso di lui, Edward corse in camera sua passandole davanti. Roy teneva le mani penzoloni lungo i fianchi.

Aveva i capelli bagnati che gli scendevano sulla fronte. – Chiamo il dottore? – le chiese in tono sommesso. – O adesso stai bene? Lucy, mi senti? Stai meglio?

- Oh, tu, – disse lei. – L’eroe. - Vuoi che lo apra? – domandò lui, indicando il divano. -Vuoi stenderti? Basta che lo dici. Lei prese il cuscino che aveva dietro la schiena e glielo scagliò addosso con violenza. – Il grande eroe di guerra! Il cuscino gli colpì la gamba. Lo raccolse. – Lo stavo solo intrattenendo. Senti, gli racconto sempre… - Lo so che gli racconti sempre! Oh, lo so, Roy… ogni domenica, ogni santa domenica gli racconti! Perché è l’unica cosa che sai fare! Lo sa Dio che non hai niente da mostrargli!

- Lucy, cosa ho fatto di male adesso? - Idiota! Demente! L’unica cosa che sai mostrargli è il carburatore della macchina… e probabilmente anche questo lo fai nel modo sbagliato! Ti ho visto, Roy, su quella Plymouth nuova di zecca. Guidare una Plymouth nuova… ecco la più grande emozione dell’anno! - Ma no! - Stare al volante di una nuova auto dei Sowerby! - Gesù, Lucy, Ellie mi ha chiesto se volevo guidare, e io ho detto di sì. Non c’è motivo di… Senti, se sei arrabbiata perché sono andato da loro… Senti, ne avevamo parlato, Lucy…

- Verme! Non hai un minimo di fegato? Sarai mai in grado di reggerti sulle tue gambe? Spugna! Sanguisuga! Debole, incorreggibile, smidollato, vigliacco! Non cambierai mai… nemmeno vuoi cambiare! Non sai nemmeno cosa intendo quando parlo di cambiare! Te ne stai lì a bocca aperta come uno scemo! Perché non hai spina dorsale! Non ce l’hai! Prese l’altro cuscino da dietro la schiena e glielo tirò verso la testa.

- Fin dal giorno in cui ti ho incontrato! Lui parò il cuscino con le mani. – Senti, adesso senti… Di là c’è Eddie… Lucy si alzò di scatto dal divano. – E non hai coraggio! – gridò. – Non hai determinazione! Non hai una volontà tua! Se non ci fossi io a dirti che cosa fare, se ti volgessi le spalle… se ogni schifoso giorno di questa vita schifosa… Oh, non sei un uomo, e non lo sarai mai, e non te ne frega nemmeno! – Stava cercando di prenderlo a pugni sul petto; prima lui le sbatté giù le mani, poi si riparò con gli avambracci e i gomiti; poi si limitò a indietreggiare, un passo alla volta. - Lucy, dài, per favore. Non siamo soli… Ma lei continuò a incalzarlo. – Non sei niente! Meno di niente! Peggio di niente! Roy le afferrò i due polsi. Lucy. Controllati. Smettila, per favore. - Toglimi le mani di dosso, Roy! Lasciami, Roy! Non azzardarti a usare la forza contro di me!

Non azzardarti a ricorrere alla violenza! - Io non sto ricorrendo a niente. Sono una donna! Lasciami le mani! Lui le lasciò. Stava piangendo. - Oh, – disse lei, respirando affannosamente, – quanto ti disprezzo, Roy. Ogni parola che dici, ogni cosa che fai, o cerchi di fare, è tremenda. Non sei niente, e non ti perdonerò mai… Roy si mise le mani sugli occhi pieni di lacrime. - Mai, mai, – disse lei, – perché tu sei oltre ogni speranza. Oltre ogni sopportazione. Sei oltre qualunque cosa. Non puoi essere salvato. Non lo vuoi nemmeno. – Lucy, Lucy, no, questo non è vero. - LaVoy, – disse lei in tono disgustato. … Cosa? - Il finocchio non è LaVoy. Sei tu. - No, oh no. – Sì! Tu! Oh, vattene! – Si accasciò di nuovo sul divano. - Scompari.

Lasciami, lasciami, non farti più vedere! Adesso era lei a piangere, con una tale intensità che le sembrava che le si lacerassero gli organi interni. Dalle narici e dalla bocca uscivano dei suoni che parevano provenire non dal suo corpo ma da angoli riposti del suo cranio. Serrò gli occhi così forte che tra la fronte e gli zigomi restò solo una sottile fessura da cui scendevano lacrime incandescenti. Le sembrava che non avrebbe mai smesso di piangere. E non gliene importava. Che cos’altro restava da fare?

Quando si svegliò, nell’appartamento non c’era luce. Accese una lampada.

Chi l’aveva spenta? - Roy? Era uscito. Si precipitò in camera di Edward. Nell’istante successivo perse ogni cognizione di dove si trovava. Non riusciva a ricavare alcuna informazione dalla propria mente. Sono una matricola. No! - Edward! Corse in cucina e accese la luce; poi era di nuovo nella sua camera. Aprì l’armadio, ma non era nascosto lì. Aprì il cassettone per vedere… per vedere cosa? L’ha portato al cinema. Ma erano le nove di sera. L’ha portato a mangiare qualcosa. Tornata in soggiorno, passò una mano su tutte le superfici: nessun bigliettino, niente di niente. In camera di Edward si lasciò cadere sulle ginocchia. – Buu! – Ma non era sotto il letto. Ma certo!

Dalla cucina telefonò allo studio di Hopkins. Gli sta mostrando dove lavora, gli sta mostrando che grande uomo è. Gli sta mostrando il tipo di studio che potrebbe avere a casa sua se solo sua madre non fosse una persona così terribile. Bene, sperava – mentre il telefono squillava e squillava -, sperava che gli mostrasse anche dove tutti loro avrebbero dovuto stare mentre la stanza che faceva da soggiorno e camera da letto diventava un ufficio, che gli mostrasse con che cosa avrebbero vissuto, mentre lui aspettava che i clienti… Allo studio non c’era nessuno. Perlustrò di nuovo l’appartamento. Che cosa sto cercando? Poi telefonò a Liberty Center. Ma i Bassart erano ancora dai Sowerby. L’operatore chiese se voleva prenotare la chiamata, ma lei riagganciò senza dare il numero dei Sowerby. E se fosse stato un falso allarme? E se avesse solo portato Edward a prendere un hamburger, e loro due fossero tornati proprio mentre Julian Sowerby rispondeva al telefono? Si sarebbe limitata ad aspettare che lui tornasse e desse spiegazioni. Scomparire senza lasciare un bigliettino! Portare fuori un bambino esausto durante una bufera di neve alle nove di sera! Nel frigo c’erano delle cose da mangiare fredde; in dispensa c’erano delle zuppe. Non dirmi che è stato per fargli mangiare qualcosa, Roy. E’ stato per spaventarmi. E’ stato per… Alle dieci e mezza Roy chiamò per dire che era appena arrivato di nuovo a Liberty Center. Lei non lo lasciò finire. Gli spiegò cosa doveva fare. Lui disse che Edward stava bene… adesso bene, ma comunque per il bambino era stata un’esperienza terrificante, orribile, ed era giusto che lei lo sapesse. Lucy dovette alzare la voce per interromperlo; ancora una volta, gli chiarì ciò che doveva fare, e subito. Ma lui si limitò a dirle che non doveva preoccuparsi. Avrebbe badato lui a tutto; lei avrebbe dovuto solo preoccuparsi di riprendere il controllo di se stessa. Adesso fu necessario urlare per farglielo capire. Doveva fare quello che diceva lei. Lui disse che sapeva già tutto, ma il punto era quello che aveva fatto lei in macchina, e quello che aveva fatto in seguito, quello che gli aveva gridato, a portata di orecchie di un piccolo bambino indifeso. Quando lei riprese a urlare, lui disse che ci sarebbe voluto il corpo dei marines per costringerlo a riportare un qualunque bambino in un posto dove, a essere onesti, non poteva resistere un giorno di più, finché lei avesse continuato a essere così.

Ribadì che non avrebbe riportato un bambino di tre anni e mezzo a vivere un giorno di più con una persona che… gli spiaceva, ma bisognava che lo dicesse… - Dire cosa! - Che odia a morte, ecco cosa! - Chi odia a morte chi, Roy? Nessuna risposta. - Chi odia a morte chi, Roy? Non la passerai liscia dopo questa insinuazione, non importa dove ti nascondi! Pretendo che tu chiarisca quello che hai appena avuto la sfrontatezza di dirmi… una cosa che non avresti mai osato dirmi in faccia, piagnone! Vigliacco! Chi odia… - Odia te. Cosa? Lui mi vuol bene, bugiardo! Stai mentendo! Lui mi vuol bene e tu me lo devi riportare! Roy, mi senti? Riportami il mio bambino! - Te l’ho detto, Lucy, che cosa mi ha detto… e non te lo riporto! - Non ti credo! Non ti credo neanche per un istante…

- Faresti meglio a crederci, invece! Per tutta la strada fin qui ha pianto tutte le sue lacrime… - Non ti credo! - «La odio la mamma, aveva la faccia tutta nera». Ecco cosa mi diceva mentre piangeva, Lucy! - Stai mentendo, Roy! - Allora perché si chiude in bagno? Perché scappa da tavola una sera su due… - Non lo fa! - Lo fa! - Per colpa tua! urlò lei. – Perché non fai la tua parte!

- No, Lucy, per colpa tua! Per le tue urla, perché sei odiosa e prepotente, odiosa e spietata! Perché non vuole mai più vedere la tua brutta faccia spietata, e neppure io! Mai più! - Roy, sei mio marito! Hai delle responsabilità! Adesso sali subito in macchina e vieni immediatamente qui, a costo di guidare tutta la notte… Ma all’altro capo ci fu un clic; era caduta la linea.

O Roy aveva riagganciato, oppure qualcuno gli aveva tolto il telefono di mano e aveva riagganciato per lui. L’ultima corriera in partenza da Fort Kean la scaricò a Liberty Center poco prima dell’una del mattino. Ormai non nevicava quasi più, e in giro per Broadway non c’era nessuno.

Dovette aspettare sul retro dell’emporio di Van Harn un taxi che la portasse al Grove. Impiegò quel tempo nello stesso modo in cui aveva impiegato l’ora del buio viaggio verso nord: ripassando ancora una volta ciò che avrebbe detto. Ciò che si esigeva da lei adesso le era piuttosto chiaro; la scena che si sarebbe svolta diventava vaga solo quando doveva immaginare il da farsi nel caso Roy avesse rifiutato di riportare a Fort Kean lei e Edward. Restare da papà Will fino alla mattina era fuori questione. Del suo aiuto poteva fare a meno. Come sempre del resto. Né intendeva passare la notte dai Bassart, sebbene l’eventualità che la invitassero a restare fosse in effetti molto remota. Se i suoceri avessero nutrito un minimo di lealtà nei suoi confronti, nell’istante in cui Roy era arrivato avrebbero preteso da lui una qualche spiegazione; erano dai Sowerby, avrebbero potuto telefonarle loro stessi, avrebbero potuto intervenire in sostegno di una madre e un bambino, anche se si dava il caso che il marito fosse loro figlio. C’erano princìpi da onorare, valori da rispettare, che andavano al di là dei vincoli di sangue; ma evidentemente loro non si rendevano conto di cosa significasse essere umani più di quanto se ne rendessero conto i genitori di lei. Nessuno di loro aveva alzato un dito per distogliere Roy da quell’irresponsabile, ridicola avventura, nemmeno il professore delle superiori con i suoi nobili ideali. No, non c’era da farsi illusioni, quando si aveva a che fare con gente come quella: sapeva benissimo che, se Roy avesse annunciato che non era in grado di affrontare un secondo viaggio per Fort Kean all’una del mattino, i suoi genitori avrebbero dato manforte ai Sowerby nell’appoggiarlo. E sapeva anche che, se gli avesse concesso di rimanere lì mentre lei e Edward tornavano da soli a Fort Kean, Roy non sarebbe mai più tornato a vivere con loro. E quanto avrebbe desiderato poterselo permettere. Non le aveva forse dimostrato a sufficienza come la sua anima fosse un abisso non solo di egoismo e sconsideratezza ma anche di spietata crudeltà? Per quanto si fosse sforzata di crederlo capace di una dedizione più profonda, per quanto si fosse ingannata costringendosi a crederlo «dolce» e «gentile», un uomo buono e garbato, ormai la verità sul suo carattere era emersa alla luce del sole. C’era un punto oltre il quale non si poteva continuare a credere nelle potenzialità di un altro essere umano e, dopo quattro anni da incubo, lei era infine arrivata a quel punto. Con tutto il cuore avrebbe desiderato che lei e Edward potessero tornare a Fort Kean lasciando lì Roy. Lasciando che se ne tornasse dalla mammina e dal papino, dalla zietta e dallo zietto, al suo latte e ai suoi biscotti, e ai suoi eterni, vani sogni infantili. Se fosse stato ancora il mese precedente, se si fosse trattato soltanto di lei e Edward, allora, per quel che gliene importava, Roy avrebbe potuto sparire per sempre. Lei era giovane e forte; sapeva cosa significava lavorare, conosceva il sacrificio e la lotta, e non li temeva. Nel giro di qualche mese, Edward avrebbe potuto andare all’asilo; e allora lei avrebbe potuto lavorare, in un negozio, in un ristorante, in una fabbrica… ovunque la paga fosse stata la più alta, per quanto ci fosse stato da sgobbare. Avrebbe mantenuto se stessa e Edward, e che Roy se ne andasse ad abitare a casa dei suoi, che dormisse fino a mezzogiorno, che aprisse uno «studio» nel garage, che ritagliasse foto dalle riviste per poi incollarle sugli album da disegno… che finisse pure in cattive acque, che fallisse, ma senza che lei e Edward dovessero patirne le conseguenze. Sì, avrebbe trovato lavoro, avrebbe guadagnato quanto bastava, e avrebbe tagliato fuori quel mostro – perché chi se non un mostro avrebbe potuto dirle al telefono quelle cose terribili che le aveva detto lui? L’avrebbe tagliato fuori dalla loro vita, per sempre.

CAPITOLO SECONDO

Tutto questo avrebbe fatto, e molto volentieri, se lui avesse rivelato le profondità della sua perfidia anche solo un mese prima. Ma adesso un taglio netto era fuori questione – perché molto presto il suo compito non sarebbe stato guadagnare di che vivere per la famiglia, ma far da madre a un secondo figlio. Non aveva da proteggere solo se stessa e Edward: c’era da considerare anche una terza vita. Quali che fossero i suoi sentimenti e desideri, non ci sarebbe stato nulla da guadagnarci, se non un’interminabile vita di stenti, se avesse permesso a quell’uomo di mollare un figlio appena nato… Perciò, anche se adesso aveva tutti i motivi per detestarlo; anche se adesso comprendeva a quali orridi estremi lui era disposto a giungere pur di difendere se stesso e umiliare lei; anche se avrebbe preferito che, giunta alla casa dei Sowerby, le dicessero che era morto, l’eventualità che lui abbandonasse la sua famiglia era fuori questione. Aveva obblighi e doveri, e li avrebbe onorati, che gli piacesse o meno. Non sarebbe rimasto in quella casa, o in qualunque altro luogo della città, sgravandosi così del dolore di cui si dava il caso che la vita fosse piena. Chi era Roy Bassart per non dover provare dolore? Chi era Roy Bassart per aver diritto a un’esistenza privilegiata? Chi era Roy Bassart per non avere responsabilità? Questo non è il paradiso. E’ il mondo! Al Grove non c’era nemmeno una casa illuminata. Lo spazzaneve era già passato, e il taxi poté avanzare agevolmente. Quando si fermarono davanti a casa dei Sowerby, pensò di dire al tassista di aspettarla; in un momento sarebbe tornata fuori con il figlio… Ma no, non poteva. Per quanto le risultasse odioso, c’erano fatti e circostanze a cui non doveva essere cieca: non si sarebbe mai, mai salvata a spese di un nascituro. Ma non c’era traccia della Hudson. O l’aveva messa nel garage dei Sowerby, oppure Roy non era più lì. Era scappato ancora più a nord! In Canada!

Dove la legge non avrebbe potuto raggiungerlo! Le aveva sottratto Edward! L’aveva abbandonata! No! Chiuse gli occhi per escludere il peggio finché non avesse saputo il peggio; suonò il campanello, udì lo squillo e vide suo padre in una cella della prigione di stato della Florida. Seduto su uno sgabello a tre gambe, con addosso la divisa a strisce. Ha un numero sul petto. Ha la bocca aperta, e sui denti, col rossetto, c’è scritto INNOCENTE. Fu Julian Sowerby ad aprire la porta.

Subito lei ricordò dov’era e cosa esattamente doveva essere fatto. Julian, sono qui per Roy e Edward. Dove sono? Lui indossava sopra il pigiama una lucida vestaglia blu. -Bene. Lucy. E’ un bel po’ che non ci si vede. - Sono qui per un motivo ben preciso, Julian. Roy si nasconde qui da voi o no? Se è dai suoi genitori, dimmelo per favore, e… Lui si mise un dito sulle labbra. – Shhh, – sussurrò. – C’è gente che dorme. - Voglio saperlo, Julian… -Shhh, shhh; è l’una passata. Vieni dentro, no? – Le fece cenno di sbrigarsi a varcare la soglia. – Brrrr. Ci saranno dieci gradi sotto zero. L’avrebbe lasciata entrare senza opporre resistenza? Sulla corriera diretta verso nord si era preparata all’eventualità di una scenata lì sui gradini di casa.

Invece stava seguendo tranquillamente Julian attraverso l’ingresso e in soggiorno. E perché? Evidentemente perché quel che aveva fatto Roy era così palesemente oltraggioso che persino i Sowerby non potevano più prendere le sue difese. Nel suo isolamento lei aveva esagerato, non la gravità dell’atto di Roy, ma la gravità del modo con cui i suoi nemici avrebbero accolto la storia di Roy. La persona che prima le aveva sbattuto giù il telefono era Roy; probabilmente non aveva neppure avuto il coraggio di chiamarla al cospetto di un essere umano razionale.

Capire questo fu per lei un enorme sollievo. In tutta la sua vita non si era mai tirata indietro quando si trattava di lottare, e non si sarebbe tirata indietro neanche adesso; se necessario, si sarebbe avventata su Julian Sowerby pur di riuscire a entrare nella sua casa per riprendersi il marito e il figlio. Ma quant’era grata di poterlo seguire con calma e tranquillità! Era stata la scenata di quel pomeriggio con i propri genitori a spingere la sua immaginazione così all’estremo, a farle mettere in conto la lotta più violenta della sua vita. Invece, si scopriva, Roy ormai era stato smascherato, al punto che anche i più insensibili e sconsiderati dei suoi sostenitori avevano perso ogni comprensione per lui. E come avrebbe potuto non essere così? Alla fine, la verità doveva pur trionfare! Oh, dunque non si era sacrificata invano, non aveva lottato invano! Oh, ma certo! Se sai di essere nel giusto, se non cedi e non esiti, se nonostante tutte le opposizioni, nonostante le difficoltà e le sofferenze, ti opponi a ciò che in cuor tuo sai essere sbagliato; se ti mantieni indifferente alle opinioni degli altri, se sei disposta a sopportare la solitudine che comporta il cercare il bene in un mondo indifferente al bene; se lotti con ogni fibra del tuo corpo, anche quando gli altri ti disprezzano, ti odiano e ti temono; se insisti e insisti e insisti, per quanto i patimenti siano grandi, per quanto lo sforzo sia terribile… allora prima o poi la verità viene finalmente compresa… - Siediti, – disse Julian. Julian, – disse lei flemmatica, – no, non mi siedo. Credo di dovere, senza indugio… - Siediti, Lucy -. Stava sorridendo, e indicava una sedia.

-Preferisco di no -. Parlò con fermezza. - Ma a me non interessa quello che preferisci. Ti sto dicendo quello che devi fare. La prima cosa è sederti. - Non ho bisogno di riposarmi, grazie. - Invece sì, bocconcino. Hai bisogno di un lungo, lungo riposo. Lei fu improvvisamente presa dalla rabbia. – Non so cosa intendi dire, Julian, e non mi interessa. Non sono venuta qui a quest’ora, al termine di una giornata estenuante, per sedermi…

- Ah, no? -… e per parlare con te. S’interruppe. A cosa serviva parlare? Quanto si era illusa solo un istante prima! Quant’era stato patetico, sventato, ingenuo da parte sua, avere un pensiero generoso per una persona come quella! Non erano meglio di quanto lei avesse pensato; erano peggio. Sono rimasto alzato per te, Lucy, – disse Julian. – Che ne pensi? Era da un bel po’ che aspettavo questo momento. Me l’immaginavo che saresti stata su quella corriera. - Non c’era ragione per pensare il contrario, – disse lei. - Qualunque madre lo avrebbe fatto. Sissignore, proprio così. Allora, siediti, Qualunque Madre. Lei non si mosse. - Allora, – disse lui, – mi siedo io -. Si accomodò su una poltrona, senza staccarle gli occhi di dosso. A un tratto lei si sentì confusa. C’erano le scale… avrebbe potuto salirle e andare a svegliare Roy. – Julian, – disse, - apprezzerei molto se tu andassi di sopra a dire a mio marito che sono qui e lo voglio vedere. Sono venuta da Fort Kean, Julian, nel cuore della notte, in conseguenza di quello che ha fatto. Ma sono disposta a essere ragionevole, se lo sei anche tu. Julian tirò fuori una sigaretta dalla tasca della vestaglia e la raddrizzò fra due dita. – Davvero? – disse, e la accese. Che ometto disgustoso! Perché gli aveva detto «se lo sei anche tu»… cosa c’entrava lui? E perché l’aveva aspettata alzato in pigiama e vestaglia? Stava per farle una proposta indecente? Avrebbe cercato di sedurla mentre sua moglie, sua figlia…? Ma in cima alle scale comparve Irene – e fu allora che Lucy comprese in pieno la mostruosità di ciò che quelle persone stavano architettando.

- Irene… – Ebbe la sensazione di cadere all’indietro. – Irene, - disse, e prima di continuare dovette fare un respiro profondo, – potresti per favore, visto che sei lì, svegliare Roy? Per favore spiegagli che sono venuta da Fort Kean. Che sono qui per lui e per Edward, per favore. Non aveva bisogno di guardare Julian per sapere che continuava a fissarla. – Ha smesso di nevicare, disse, ancora rivolta alla donna in cima alle scale, che sopra la camicia da notte indossava una vestaglia imbottita. – Perciò ora saliamo in macchina e torniamo a casa. Se Roy è troppo stanco, prendiamo una stanza da qualche parte per la notte. Ma lui qui non ci rimane. E neanche Edward. Invece di ripercorrere il corridoio per andare a svegliare Roy, Irene cominciò a scendere le scale. Ormai aveva i capelli quasi bianchi, e sembrava ingrassata; o forse senza busto la pinguedine del suo corpo era più evidente. Nel complesso aveva l’aria di un’anziana matrona, assolutamente compassata e, incredibile a dirsi, comprensiva. Irene, voglio dirti che il fatto che abbiate convinto Roy che poteva passarla liscia dopo questa… - Sì? – disse Julian, da dov’era seduto, fumando. - … ci renderà assolutamente impossibile vedervi ancora. E intendo tutti noi, incluso Edward. E spero vi rendiate conto che, ancora una volta, la colpa è interamente vostra. - Noi ci rendiamo conto di tutto, ragazzina, – disse Julian. Irene le si avvicinò, con una mano tesa. – Lucy, perché non ti siedi? Perché non cerchiamo di parlare e di capire che cosa è successo? - Senti, – disse lei, indietreggiando, – non ho alcuna intenzione di trattenermi in questa casa, o in questa città, un secondo in più dello stretto necessario. Tu non mi sei amica, Irene, ed è inutile che a un tratto tu faccia finta di esserlo. Non sono così stupida, dovresti saperlo. Fin dalla prima volta che Roy mi ha portato fuori, tu mi hai trattata come un essere inferiore. Come se io non fossi stata degna di lui. Lo so come la pensi, perciò non credere di ingannarmi con una stretta di mano. Puoi anche illuderti del contrario, ma le tue azioni parlano più forte delle tue parole. Da parte di Roy si tratta di pura e semplice idiozia, e lui e Edward devono andarsene da qui in questo istante, e tornare con me… Io penso – disse Julian, adesso da in piedi – che, per prima cosa, faresti meglio a calmarti.

- Non dire a me quello che devo fare, Julian! – Si girò ad affrontarlo, a guardare dritto in quegli occhi disonesti. Oh, gli avrebbe cancellato quel sorrisetto compiaciuto dalla faccia. Quanto si credevano superiori, quelle persone con una morale da animali! – Tu non hai alcuna autorità su di me. Meglio che te lo ricordi, Julian. Si dà il caso che io non sia una di quelle persone che dipendono dai tuoi milioni. - Miliardi, – disse lui, con un sogghigno.

Irene disse: – Lucy, magari faccio un caffè… - Non voglio il caffè! Voglio mio figlio! E mio marito… così com’è! Devono essermi immediatamente restituiti. In questo istante. - Ma, Lucy cara… cominciò Irene. - Non chiamarmi «cara»! Io non mi fido di te, Mrs Sowerby… non più di quanto mi fidi di lui! Julian all’improvviso si era piazzato fra Lucy e la moglie.

- Ora, – disse, – regola numero uno: o abbassi quella vocetta prepotente, signorina, oppure te ne vai. E se non me ne vado? - Allora è violazione di domicilio, e ti butto fuori… a calci in culo. - Non ti azzardare a parlarmi… – E si lanciò verso le scale. Ma subito un braccio le si abbatté sulla schiena; fece per districarsi, ma il braccio le aveva afferrato la giacca. – No!

Lasciami… Ma l’altra mano le si abbatté sulla spalla, e si sentì tirare indietro con tale forza che le venne la nausea. L’aveva fatta sedere; e incombeva su di lei, paonazzo per l’ira. La vestaglia si era aperta, e fra i bottoni del pigiama si intravedeva la pancia. Lucy non si mosse e non parlò. Lui si tirò su e si richiuse la vestaglia, ma restò lì davanti a lei. Scandendo e pronunciando bene le parole, Lucy cominciò: – Non hai diritto…

- Non spiegare a me i miei diritti, fessacchiotta di una ventenne. Sei tu quella che deve ascoltare i suoi diritti. - Bene, – disse Lucy, con la mente in fibrillazione, – bene, Irene, – cercando di guardare la moglie oltre il corpo di lui, – sarai molto orgogliosa di avere per marito un bruto che picchia una persona grossa la metà di lui… - E’ con me che hai a che fare, Lucy. Perciò rivolgiti a me. Non a Irene. Ora sul pianerottolo era comparsa Ellie. Restò lì in négligé bianco, con entrambe le mani sulla ringhiera, a guardare giù. Lucy alzò la faccia verso Julian, e parlò in modo che solo lui potesse udirla. – Io so di te, Julian. Perciò sta’ attento. - Oh, davvero? – disse lui, premendo contro le sue ginocchia, mentre lei tirava indietro la testa su cui incombeva la sua pancia. – E cos’è che sai? – continuò, con voce roca e bassa. – Stai cercando di minacciarmi? Parla forte! Lucy non riusciva a vedere oltre la sua mole. Non riusciva neanche a pensare, e doveva pensare. – Dal momento che non sono venuta qui per parlare del tuo carattere, cominciò, rivolta alla cintura della vestaglia, – non ne parlerò, Julian. - Buona idea, – disse lui, e fece un passo indietro.

Eleanor era scomparsa. Lucy raccolse le mani in grembo; dovette aspettare finché non fu certa che la voce non le si sarebbe incrinata. A condizione che io possa fare quello che sono venuta a fare, e poi andarmene, non c’è alcun bisogno di discutere di alcunché… A me sta bene così -. Poi alzò lo sguardo su Irene. – Adesso per favore andresti a svegliare mio marito… per favore? - Magari dorme, – disse Julian. Ci hai pensato? Magari per colpa tua ha avuto una giornata d’inferno, sorellina. Restò lì in piedi così che lei non potesse alzarsi dalla poltrona; Lucy gli tempestò di pugni i braccioli. – Abbiamo tutti avuto una giornata d’inferno, Julian! Io ho avuto una giornata orribile. Ora, pretendo che gli venga detto… - Tu hai finito di pretendere. E’ questo il punto, fessacchiotta. - Per favore… – disse lei, respirando profondamente, – preferirei di gran lunga parlare con tua moglie, che perlomeno usa un linguaggio civile, se non ti spiace. – Però la mia civile moglie con te non ci parla. - Scusami, – disse Lucy, magari lei ha una sua opinione in proposito…

- Mia moglie ci ha parlato con te, ragazzina. Al tempo in cui mi assicurava che in te c’era ancora la parvenza di un essere umano. Ma ora si scopre che quattro anni fa non avrei dovuto darle retta, al tempo in cui cominciavi ad affondare gli artigli in quel ragazzo.

- Quel ragazzo mi ha sedotta, Julian! Da quel momento era suo dovere nei miei riguardi… Julian si voltò a guardare la moglie. – Dovere, – disse con un grugnito. Lei saltò su dalla poltrona. – Questa parola può anche non piacerti, Julian, ma la ripeto: era suo dovere nei miei riguardi… - Oh, – disse lui, scuotendo il capo, – qui hanno tutti un dovere nei tuoi riguardi. Ma tu nei riguardi di chi hai un sacro dovere, Lucy? Ho l’impressione di essermelo scordato. - Nei riguardi del mio bambino! – rispose lei. Nei riguardi del figlio mio e di mio marito! Nei riguardi di una persona che si sta affacciando alla vita, ecco nei riguardi di chi! Il dovere di assicurarmi che abbia una casa e una famiglia e un’educazione adeguata!

Di assicurarmi che non venga maltrattato da tutte le bestie che ci sono in questo sporco mondo! - Oh, – disse Julian, – sei veramente una santa. - In confronto a te, di sicuro. Eccome! - Allora, santa Lucia, – disse lui, passandosi una mano sulla peluria del volto, – non c’è più bisogno che ti preoccupi tanto del tuo figlioletto. Perché lui ti odia a morte. Lei si coprì la faccia con le mani. – Non è vero.

Questa è una terribile, terribile menzogna di Roy. Non è… no. No, non è vero. Sentì sul braccio la mano di Irene. - No, no, – disse fra le lacrime, ricadendo indietro sulla poltrona. – Cosa… cosa state architettando? Non potete sottrarmi mio figlio. E’ rapimento, Irene, Irene. E’ contro tutte le leggi. Julian parlò. – Lasciala stare. Irene disse qualcosa che Lucy non riuscì ad afferrare. -Stiamo sistemando una faccenda qui, Irene. Allontanati da lei. Lasciala stare.

E’ la sua ultima…

All’improvviso Lucy gli si scagliò contro, scuotendo i pugni. – Non la passerai liscia! Qualunque cosa tu abbia in mente di farmi! Julian si limitò a ficcarsi le mani nelle tasche della vestaglia. - Questo è rapimento, Julian, se è quello che hai in mente! Rapimento… e abbandono del tetto coniugale! Non può scappare via prendendosi mio figlio! Ci sono delle leggi, Julian, leggi contro le persone come te! Bene. Va’ a prenderti un avvocato. Niente mi renderebbe più felice. – Ma io non ho bisogno di un avvocato! Perché intendo risolvere la cosa qui e ora! - Oh, invece ne hai bisogno, Lucy. Lascia che ti dica una cosa.

Avrai bisogno del migliore avvocato che i soldi possano comprare, te lo garantisco. Irene disse: – Julian, la bambina non è in condizione… Lui scosse via la mano della moglie. – Neanche Roy, Irene! Neanche Eddie!

Neanche tutti noi! Ne abbiamo fin sopra i capelli degli ordini e degli insulti di questa stronzetta… - Julian… Ma a quel punto lui tornò a rivolgersi rabbioso a Lucy. - Perché è quello che sei. Una stronzetta rompipalle. Ecco che santa sei, ragazzina: santa Rompipalle.

E il mondo lo saprà, prima che io abbia finito con te. - No, disse Irene. - Irene, basta con i no! Ne ho già sentiti troppi di no da parte tua. Lucy stava scuotendo il capo. – Lascialo continuare, Irene.

Non m’importa. Si sta solo mostrando per quello che è.

- Hai proprio ragione, santerellina. E’ quello che sono. Ed è per questo che ora la smetterai di rompere le palle. Ma sì, sorridi fra le lacrime, sorridi per quanto sei furba, e quanto è sboccato il vecchio Julian. Oh, sono proprio sboccato. E sono pure una vecchia bestia buona a nulla.

Però una cosa te la dico, Lucy: hai rotto le palle a lui, e stavi cominciando a romperle al piccolo Eddie, ma è finita. E se adesso ti sembra strano, vediamo quanto ti sembrerà strano in tribunale, perché è lì che trascinerò il tuo culo, piccola. Piccola fessacchiotta. Piccola nullità. Sarai ridotta un piccolo grumo sanguinolento quando avrò finito con te, santa Lucia. -Tu porterai me in tribunale? - Sì, io con tutte le mie parolacce. - Tu? – domandò lei, con un bizzarro sorriso. Esatto. Io. - Bene, splendido -. Trovò un fazzoletto nella borsa. Si soffiò il naso. – E’ meraviglioso, davvero. Perché tu, Julian, sei un uomo malvagio, e a portare te in tribunale… – In cima alle scale, finalmente, comparve Roy, seguito da Eleanor. Dunque eccoli tutti lì, coloro che appena qualche ora prima avevano cospirato contro di lei… Ebbene, non avrebbe pianto, non avrebbe supplicato; non ce n’era bisogno. Avrebbe detto la verità. Fece scorrere lo sguardo dall’uno all’altro e, insieme all’incrollabile convinzione di essere nella ragione e che loro fossero nel torto, una grande calma discese su di lei. Non era necessario alzare la voce, o mostrare il pugno; bastava dire la verità.

- Tu sei un uomo malvagio, Julian. E lo sai. – Che cosa so? – Le sue spalle sembrarono dilatarsi mentre si sporgeva in avanti per udire le sue parole. – Che cosa so, hai detto?

- Non ci sarà bisogno di avvocati, Julian. Non ci sarà bisogno di uscire da questa stanza. Perché tu non sei nelle condizioni di spiegare a me, o a chiunque altro qui, che cosa è giusto e che cosa sbagliato. E questo lo sai, ne sono certa. Devo continuare, Julian? O vuoi chiedere scusa adesso davanti alla tua famiglia? - Ascolta, piccola sbruffona, disse lui, facendo per aggredirla. - Tu sei un puttaniere, – disse lei, e questo lo fermò. – Paghi le donne perché vengano a letto con te.

Hai avuto una sfilza di amanti. Tradisci tua moglie. - Lucy! – gridò Ellie. - Ma non è la verità, Eleanor? – No! Si rivolse a Irene Sowerby. – Avrei preferito non dover dire quello che ho detto… Irene si lasciò cadere sul sofà. – Non ce n’era bisogno. - Ma l’ho detto, replicò Lucy. – Hai visto come mi stava trattando. Hai sentito che intenzioni aveva. Ho altra scelta, Irene, se non dire la verità? Irene stava scuotendo il capo. - Ha avuto una relazione sessuale con la donna che gestiva la lavanderia di Selkirk. Non ricordo come si chiama.

Ma lui di sicuro te lo sa dire. Julian l’aveva fulminata con uno sguardo omicida. Be’, che ci provasse. Che ci provasse a toccarla con un dito, che ci provasse, e poi si sarebbe visto a chi sarebbe toccato comparire davanti a un giudice. Allora il suo splendido sogno si sarebbe realizzato, solo che sul banco degli imputati non ci sarebbe stata lei, ma lui. - E poi, – disse, restituendo lo sguardo, – c’è stata un’altra donna, che lui sostentava, o manteneva, o pagava per i suoi servigi. Presumo che adesso ce ne sia un’altra, da qualche parte. Mi sbaglio, «zio» Julian? Fu Irene a parlare. – Sta’ zitta. - Vi sto solo comunicando la verità. La donna si alzò in piedi. – Hai parlato abbastanza. - Ma è la verità! – disse Lucy. – E non sparirà, Irene, solo perché tu rifiuti di crederci. E’ un puttaniere! Un donnaiolo! Un adultero! Trama alle tue spalle! Ti umilia! Ti disprezza, Irene! Non te ne rendi conto? E’ questo che succede quando un uomo fa quello che ti sta facendo lui! Ellie si reggeva alla ringhiera con entrambe le mani, con i capelli che le nascondevano metà faccia. Quel che stava dicendo fra i singhiozzi, Lucy non lo afferrava.

- Scusami, Eleanor. Neanch’io lo considero un buon modo di comportarsi. Ma c’è un limite alle angherie, alle sozzure, al tradimento e all’odio che sono disposta a sopportare. Non sono venuta qui con il proposito di attaccare tuo padre, te lo garantisco. Quel che ho detto l’ho detto per legittima difesa. E’ un uomo senza cuore… - Ma lei lo sa, – disse Ellie fra le lacrime. – Lo sapeva, l’ha sempre saputo.

- Eleanor! – disse Irene Sowerby. - Lo sai? – gridò Lucy. – Davvero, – disse a Irene, – tu sai quel che lui è… – Era incredula. – Tutti voi in questa stanza sapete quel che lui è e quel che ha fatto eppure siete disposti a permettere… – Per un momento non riuscì neanche a parlare. – Non ci credo, – disse infine. – Che possiate essere così subdoli e privi di scrupoli fino a questo punto, corrotti fino a questo punto… – Oh, Roy, - disse Ellie, voltandosi verso il cugino. – E’ pazza -. E appoggiò il viso contro il suo torace e pianse. Roy indossava una vestaglia a scacchi di Julian di gran lunga troppo corta per lui. Con un braccio prese a dare dei buffetti sulla schiena di Ellie. - Oh, – disse Lucy, alzando gli occhi su loro due, – è così la storia, Roy? Non è tuo zio a essere pazzo, non è tua zia a essere pazza… ma io? E cos’altro, Roy? Sono pazza, e cos’altro? Oh, sì, Edward mi odia. E cos’altro? Di sicuro ci sarà ancora altro. Che altre bugie ti sei inventato per giustificare quel che mi hai fatto?

- Ma cosa ti ha fatto! – strillò Ellie. – Tu sei pazza, lo sei! Sei malata di mente! Lucy aspettò che Ellie fosse di nuovo in grado di ascoltare. Adesso Irene Sowerby era in piedi accanto al marito, per impedirgli di fare qualunque mossa verso di lei; aveva la faccia mezza nascosta nel suo petto, nel petto di quell’uomo a cui nulla importava dell’onore della moglie. A Eleanor, Lucy disse: – Io non sono Skippy Skelton, Ellie, se è questo che intendi. E non sono neanche te. E non sono tua madre, come probabilmente ormai ti è chiaro.

- Non c’è niente di chiaro! Niente di quello che dici è chiaro! – gridò Ellie, mentre la madre alzava una mano per farle segno di stare zitta. Ma Ellie gridò: – Voglio capire che cosa intende!

Lucy disse: – Intendo, Eleanor, che io non sono promiscua, non corro la cavallina con gli uomini sposati. Intendo che non sono una bambina vanesia e idiota. Non passo metà della mia giornata, se non di più, a pensare ai capelli, ai vestiti e alle scarpe… - E che cosa sei tu? – gemette Ellie. – La Vergine Maria? Julian fece un passo avanti, liberandosi dalla moglie, che adesso aveva anche lei cominciato a piangere. – Basta, Eleanor. - Papino, – disse Ellie fra le lacrime. Papino, – ripeté Lucy. – Meraviglioso papino. - Va’ al telefono, Lucy, disse Julian, respirando affannosamente. – Chiama tuo nonno. Digli di venire a prenderti e portarti a casa… O lo fai tu, o lo faccio io. Si dà il caso che io non abiti qui, Julian. Casa mia è a Fort Kean, con mio marito e mio figlio -. Alzò gli occhi verso suo marito. – Roy, adesso andiamo a casa. Voglio che ti prepari. L’unica cosa che si mosse furono i suoi occhi; dardeggiarono dall’una all’altra delle persone nel soggiorno. - Roy, mi hai sentito? Adesso torniamo a casa nostra.

Restò immobile e muto. - Ovviamente, – disse lei, – la scelta è tua, Roy. Puoi comportarti da uomo, e tornare con me e Edward, oppure puoi seguire il consiglio di questo degnissimo… - Lucy! – Roy alzò di scatto le mani sopra la testa. – Per l’amor di Dio, dacci un taglio!

- Ma non posso, Roy! – Sì, darci un taglio! – E non puoi neanche tu! Potete darci un taglio voi, con questo zio, questo caro papino, questo marito, che si dà il caso sia una lurida bestia. Potete prendervi in giro riguardo a questo fedifrago, e raccontarvi che io sono malata di mente… oh, vivete pure con lui, andate a letto con lui, chi se ne frega! Ma darci un taglio? Oh, no, Roy… perché si dà il caso che ci sia un altro fatto importante da considerare. Ti spiego subito perché si dà il caso che tu non possa seguire il consiglio di tuo zio, Roy… e lo spiego anche a tuo zio. Si dà il caso, Roy, e Julian, ed Eleanor, e Irene, si dà il caso che io sia incinta. - Che cosa? – sussurrò Julian. Roy disse: – Lucy… cosa intendi? Adesso non c’era bisogno che alzasse la voce per farsi sentire. – Intendo che avrò un bambino. Roy disse: – Non ti capisco. - La figlia che volevi, Roy, è viva dentro di me. E’ viva e sta crescendo. Julian stava dicendo: – Quale figlia?

Adesso che diavolo stai…? - Roy diventerà padre di un secondo figlio. E noi speriamo che sia una femmina. Julian alzò gli occhi verso Roy. - Roy, – disse lei, – avanti. Raccontaglielo. - Raccontare che cosa? - Quello che mi hai detto. Roy, raccontagli quello che mi hai detto di volere. - Lucy, – rispose lui, – io non ti capisco. – Roy, sul serio intendi negare…

- Incinta? – disse Julian. – Oh, non di nuovo la solita solfa… - Ahh, però lo sono, Julian! Lo so, si dà il caso che a te non piacciano, ma i fatti sono fatti! Sono incinta della bambina di Roy Bassart. La bambina che lui voleva. La bambina che sogna da tutta la vita. Linda, Roy. Allora, raccontaglielo! - Oh, no, - disse Roy. - Roy, adesso glielo racconti. - Ma, Lucy…

- Roy Bassart, quella notte quando nevicava… hai o non hai… non riesco a credere che tu ora possa mentire anche su questo! Ti sei o non ti sei alzato dal letto…? Mi hai o non mi hai detto…? Linda, Roy… Linda Sue! - Ma, Lucy; oh mio Dio… stavamo solo parlando. Parlando! Si lasciò cadere su un gradino in cima alle scale, con la testa fra le mani. – Sì, – gemette. - Solo parlando’. Roy, intendi sul serio… - Papà, – gridò Eleanor, – fa’ qualcosa! Ma Julian si stava già avventando su Lucy, che avanzava verso le scale. Lei fu svelta a girarsi. – Non t’azzardare a toccarmi con un dito. Se ancora sai capire quel che è bene per te, puttaniere. - Non spostare il culo da qui, – disse lui con violenza. - Sono una donna, Mr Sowerby. Puoi anche pensare che io sia una fessacchiotta come tua figlia, ma non lo sono! Non mi lascio trattare come una nullità. Da nessuno! Sono incinta, che ti aggradi o meno. Ho una famiglia da proteggere, che ti piaccia o meno. E ora, Roy, – disse, voltandosi di nuovo e facendo per salire le scale. - Oh, no, – disse suo marito, ancora con la testa fra le mani. – Non posso sopportare ancora. Davvero non posso. - Oh, sì che puoi, Roy. Perché mi hai messo di nuovo incinta, Roy! - Roy, gli urlò Julian mentre Lucy cominciava a salire, - fermala! – Roy, - gridò lei, – prendiamo Edward! E andiamo! Lui alzò la faccia, che era bagnata di lacrime. – Ma dorme. - Roy… muoviti… – Allora la mano di Julian si abbatté di nuovo su di lei. Lucy scalciò all’indietro… la mano le afferrò una caviglia. Nel frattempo la faccia di Roy si stava muovendo verso l’alto, per bloccarle la strada! Suo marito, che avrebbe dovuto proteggerla! difenderla! tutelarla! custodirla! e invece si piazzava fra lei e suo figlio, fra lei e la sua casa, fra lei e la vita di una donna! -Prendila! – disse Julian. – Roy!

-No! – gridò Lucy, e, non avendo altra scelta, portò indietro una mano e, chiudendo gli occhi, colpì con tutta la sua forza. E di nuovo ebbe quella visione. INNOCENTE.

Quando aprì gli occhi, vide Roy in piedi su di lei; si teneva la bocca.

Lei era stesa di traverso sugli scalini. Poi, sopra di lei sul pianerottolo, in mutande e maglietta, con in mano una coperta che strisciava sul pavimento, vide il piccolo Edward che guardava giù. Il bambino si mise a strillare, o per il sangue sulla mano della madre oppure per il sangue sulla faccia del padre. Eleanor, che era china sopra Lucy, si precipitò su per le scale, lo prese in braccio e lo portò via. Non riuscirono a farle mollare la ringhiera, così Lucy restò sulle scale mentre Julian stava sul gradino sotto di lei, tenendo strette le falde del suo cappotto, e Irene telefonava a papà Will. Arrivò, e le fece scendere le scale, e le fece attraversare l’ingresso fino alla porta. Tutte le luci erano accese in casa Sowerby quando Willard uscì in retromarcia dal vialetto e la portò via dal Grove, verso casa.

Padre Damrosch. Dov’era una finestra? Dov’era un muro? Era sotto una coperta. Allungò una mano nel buio. Sono solo una matricola. Era a letto. Nella sua camera. Era a Liberty Center. Da quanto dormiva? Aveva lasciato che la portasse su per le scale e le mettesse sopra una coperta… Piangeva… Lui era seduto sulla sedia accanto al letto… E lei doveva aver dormito. Ma ogni minuto che passava era un minuto perso a favore di coloro che l’avrebbero distrutta. Doveva assolutamente agire! Padre Damrosch! Ma lui cosa poteva fare? Padre Damrosch, perché non può fare qualcosa? Riusciva a vederlo: capelli neri che si pettinava con le dita, grossa mascella ondeggiante, e quella bella andatura a lunghe falcate che mandava in visibilio anche le ragazze protestanti quando lo adocchiavano col suo collare da prete mentre svoltava un angolo giù in centro. – Padre Damrosch! – chiama una delle ragazze, che lo conosce. – Padre Damrosch! – Lui saluta con la mano – «Ciao» – e scompare, mentre tutte si lasciano cadere in deliquio l’una nelle braccia dell’altra. Ed eccola lì a sobbalzare, dondolare e librarsi sul suo sedile, ecco Lucy, in viaggio per il suo primo ritiro. E padre Damrosch, che dondola anche lui, all’enorme volante del pullman. E le altre ragazze, che si alzano sui loro sedili per poi ricadere giù, e fissano i boschi neri lampeggianti come condannate a morte condotte al luogo dell’esecuzione; quasi fossero incatenate l’una all’altra, si tengono a braccetto. Qualcuno nei posti in fondo comincia a cantare: «Pack up your troubles in your old kit bag…»14 – ma soltanto due o tre voci si uniscono, poi c’è di nuovo solo lo sferragliare del vecchio pullman della parrocchia. Fa un balzo in avanti e atterra di schianto e, con l’inverno incombente che preme per calare su di loro, e l’orizzonte dove fa capolino un’ultima striscia di luce, l’atmosfera è quella di una fuga da una catastrofe. Un uccello passa sfrecciando davanti al finestrino, l’addome illuminato di rosso; sta svolazzando via, dietro la sua testa e, mentre lei si contorce sul sedile per seguirne il volo, le risuonano dentro le parole, le parole di santa Teresa: Dio! Agnello! Smarrito! - Ehilà! – mugghia padre Damrosch, premendo sul freno con i suoi scarponi militari. – Ehilà, – e sbandano, così che le gambe scattano verso l’alto e i crani ondeggiano all’unisono. – Accidentaccio, - e le ragazze ridacchiano. Aggrappandosi forte alla cintura del cappotto di Kitty, avanza lungo il pullman buio trascinando i piedi nelle galosce slacciate. Come precipitando da una scogliera, tocca terra nel cortile del convento, aspettandosi di vedere fuochi che bruciano.

Attende da sola accanto al pullman, tenendosi stretta la borsa da caccia di papà Will.

Sente kitty che la chiama e si rifugia dietro la vettura. Lì nessuno la può vedere. Dà un morso all’aria gelida e scura, e la sente schioccare come una mela acerba, e prende fra i denti una cosa dura, chiara, pura, e divora… Oh, non vede l’ora di fare la prima comunione! Solo, non deve mordere. No, no, le si scioglierà negli anfratti della bocca, e fluirà nel suo corpo, il Suo corpo, il Suo sangue… e poi qualcosa accadrà. E se fosse accaduto ciò per cui pregava in segreto? «No!» Rimane da sola dietro il pullman, con gli occhi umidi che assimilano le forme scure, le sagome che si profilano in lontananza: i preti, le suore, le ragazze che si mettono in fila e marciano nel buio; i camioncini, i pullman, le auto, che fanno i fari e partono rombando… Sente lo scricchiolio delle gomme sulla ghiaia; che rumore farebbero, le ossa sotto le ruote? Dentro, quelle persone non sono altro che questo, scheletri; dentro, sono tutte uguali. Durante le lezioni di biologia ha imparato i nomi di ogni singolo osso umano: tibia, scapola, femore… Oh, perché le persone non possono essere buone? Dentro, sono solo ossa e nervi e sangue, reni e cervello e ghiandole e denti e arterie e vene.

Perché, perché non possono semplicemente essere buone? - Padre Damrosch! - Chi c’è là dietro? -… Lucy. Lui percorre tutta la fiancata del pullman. – Stai bene? Lucy Nelson? -Sì. -Che cosa c’è? Ti è venuto il mal d’auto, Lucy? Devi andare su a farti dare la camera. Allora, che succede? Lei allunga una mano e trova uno pneumatico immobile.

- Padre Damrosch… – Ma glielo potrà dire? Non l’ha detto neanche a Kitty. Non l’ha detto neanche a santa Teresa. Nessuno conosce la cosa orribile che lei realmente vuole. - Padre Damrosch… Incunea la muffola tra i solchi della gomma e, dentro il cappuccio del giaccone, borbotta quel che non riesce più a tenere segreto: -… uccidere mio padre. - Parla forte, Lucy, se no non ti sento. Tu vuoi… - No! No! Voglio che sia Gesù a farlo! Un incidente di macchina! Una caduta! Quando ha bevuto e puzza ed è ubriaco! – Sta piangendo. – Oh, padre Damrosch, – dice, – penso che sto commettendo un terribile peccato. So che lo sto commettendo, ma non posso farci niente.

Preme la faccia contro di lui. Lo sente che aspetta. -Oh, padre, mi dica, mi dica, è un peccato? Lui è così cattivo. E così malvagio. Lucy, tu non sai di che spirito sei. - …No? Per favore, allora, per favore… che spirito sono? Poi è con le suore. Tra le tonache fruscianti, si sposta in cappella. Le candele tremolano tutt’attorno – e in alto, il Signore sofferente. Oh Dio! Agnello! Smarrito! Oh Gesù, che non uccide! Che conforta! Che salva! Che ci redime tutti! Oh Santo Glorioso Rilucente Amoroso Risanante Gesù che non uccide…fa’ di mio padre un padre!

Quando arriva la domenica sera, lei è così stremata dalle preghiere che non ha quasi più la forza di parlare. Le altre ragazze chiacchierano sui gradini laterali di St Mary, in attesa che le vengano a prendere per riportarle a casa; in tasca lei stringe forte il velo nero datole da suor Angelica della Passione. – Pazienza. Fede. Sofferenza. La piccola via, ricorda, – ha detto suor Angelica. – Lo so, lo ricorderò, – ha detto Lucy. – Per distruggere non ci vuole pazienza, – ha detto suor Angelica. - Lo so, – ha detto Lucy, – questo lo so. – Tutti possono distruggere. Un teppista può distruggere. – Lo so, lo so. – Salvare invece… – Sì, sì. Oh, grazie, sorella… - Ehi, Lucy Nelson -. Suo padre le sta facendo un cenno dall’auto. Tutt’attorno a lei le altre ragazze corrono e strillano: colpi di clacson, portiere che si aprono e si richiudono sbattendo. Sembrano tutte così fiere! così felici! così vive! E tutto freddo e nero, limpido e scintillante, una domenica sera, e tutte salgono su auto calde per essere portate a una casa calda, un bagno caldo, un latte caldo, un giaciglio caldo. -Per favore! prega lei. E così, con le altre, come le altre, si precipita verso la portiera che il padre le ha aperto. Padre Damrosch sembra una cosa nera che brucia mentre in piedi dirige il traffico alla luce dei fari. Buonanotte, Lucy. - Sì, buonanotte. Il padre si porta la mano al berretto per salutare il prete. Padre Damrosch fa un cenno con la mano.

- Arrivederci. Buona serata. Lucy chiude la portiera. A padre Damrosch grida dal finestrino: – Arrivederci, – e partono. - Bentornata alla civiltà, – dice lui. Lascia che venga redento! Rendilo buono! Oh Gesù, è solo uno che si è smarrito! Tutto qui! - Non è divertente, dice. - Be’, mica è facile dirne subito una divertente, sai -. Silenzio.

- Com’è andato l’incontro di risveglio spirituale? - E’ un ritiro. Viaggiano.

– Spero non ti sia venuto il raffreddore. Dalla voce sembra che ti sia venuto.

- Ci hanno trattate molto bene, papà. E’ un convento. E’ molto bello, e molto ben riscaldato, grazie. Ma non vuole litigare. Oh Gesù, non voglio mai più essere sarcastica. Aiutami! Papà… domenica, vieni con me.

- Venire con te dove, ochetta?

- Per favore. Devi venire. A messa.

Lui non riesce a trattenersi; sorride.

- Non ridere di me, – protesta lei. – E’ una cosa seria. – Sai com’è, Lucy, io sono un luterano vecchio stile… - Ma tu non ci vai. - Da bambino ci andavo. Quando avevo la tua età ci andavo. – Papà, tu non sai di che spirito sei! Lui distoglie lo sguardo dalla strada. E questo chi l’ha detto, ochetta? Il tuo amico prete? - Gesù! – Be’, dice lui facendo spallucce, – nessuno sa ogni cosa, questo è ovvio -. Ma sta di nuovo sorridendo. - Ma domani… non prendermi in giro! Non stuzzicarmi! Domani starai di nuovo male, lo sai che è così. - Di domani lascia che mi preoccupi io. - Ti ubriacherai di nuovo. – Ora smettila, signorina… - Ma non verrai salvato! Non verrai redento! -Ora ascolta, tu, tu in quella chiesa sarai anche una gran religiosa, ma per me sei quella che sei. -Tu sei un peccatore! Adesso basta! – dice lui. – Mi senti. Basta così, – e imbocca il vialetto. – E ti dico anche un’altra cosa. Se è così che torni a casa dopo essere andata a questi cosiddetti weekend religiosi, allora forse dovremo pensarci due volte prima di darti il permesso di andarci, e pazienza per la libertà di religione. - Ma se tu non cambi, te lo giuro, io mi faccio suora. - Ah sì, davvero? -Sì! - Be’, senti un po’, non mi risulta che prendano suore che fanno ancora il primo anno delle superiori… - Quando avrò diciott’anni potrò fare quello che voglio! E legalmente!

- Quando avrai diciott’anni, amichetta mia, se ancora ti vorrai vestire come a Halloween, e avere una faccia da prugna secca, e aver paura di una vita normale, perché è questo che, a mio parere, significa essere una suora… - Ma tu non sai! Suor Angelica non ha paura di una vita normale! Nessuna delle sorelle ce l’ha! Mi farò suora, e non c’è niente che tu possa fare per impedirmelo! Lui tira via la chiave dal quadro. – Bene, hanno fatto in fretta a trasformarti in una vera cattolica, non c’è che dire. Nel giro di un mese hai tutte le risposte pronte, vero? Ora hai il tuo modo di credere, ed è l’unico modo in cui chiunque al mondo può credere. E questa è la tua idea di libertà religiosa, a cui hai detto di aver diritto. Cavoli, – dice, e apre la portiera. - Mi farò suora, te lo giuro. - Benissimo, se vuoi fuggire la vita, accomodati pure. Lo guarda tagliare per il prato e salire i gradini del portico. Batte gli scarponi per levare la neve ed entra in casa. Gesù! Santa Teresa! Qualcuno!

Trascorre un mese invernale; poi un altro. Lei racconta tutto a padre Damrosch. – Il mondo è imperfetto, – dice lui. - Ma perché? – Non possiamo aspettarci che sia diverso da così. – Ma… perché no? – Perché siamo deboli, siamo corrotti. Perché siamo peccatori. Il male è la natura dell’umanità. – Tutti? Ogni singola persona? – Tutti fanno il male, sì. - Ma, padre Damrosch… lei no. – Io pecco. Certo che pecco Chissà che cosa fa. Come può domandarglielo? – Ma quando smetterà di essere malvagio? – chiede. – Quand’è che il mondo non sarà più malvagio? – Quando tornerà Nostro Signore. – Ma a quel punto… – Cosa, Lucy? – Be’, non vorrei sembrare egoista, padre… ma… non solo io, ma tutti quelli che sono vivi adesso… be’, saranno morti. No? – Non è questa la nostra vita, Lucy. Questo è il preludio della nostra vita. Questo lo so, padre, non è che non ci creda… – Ma non riesce a continuare. Vive troppo nel qui e ora. Suor Angelica ha ragione. E’ questo il suo peccato. Domenica dopo domenica partecipa alla messa con Kitty, due volte. E prega: Fa’ di lui un padre! Poi torna a casa a vedere cos’è successo. Ma domenica dopo domenica ad aspettarla ci sono solo il cosciotto d’agnello, i fagioli, le patate al forno, la gelatina di menta, la pasta di pane farcita, la torta e il latte. Non cambia niente, non cambia mai niente. Quando, quando succederà? E come sarà? Il Suo Spirito entrerà… Ma chi? e come? Poi il venerdì sera. E’ al tavolo da pranzo a fare i compiti; la madre è in salotto, a leggere una rivista mentre fa il pediluvio; la porta si apre. Lui abbassa l’avvolgibile scardinandolo. Lei balza in piedi, ma la madre resta seduta, immobile. E il padre sta dicendo cose terribili, orribili! Cosa dovrebbe fare? Vive troppo nel qui e ora. Questo è solo il preludio della nostra vita. La natura dell’umanità è il male. Cristo verrà di nuovo, pensa, mentre il padre tira via la bacinella da sotto i piedi della madre e rovescia l’acqua sul tappeto. La natura dell’umanità è il male. Cristo verrà di nuovo… ma lei non può aspettare! Nel frattempo quell’uomo sta rovinando la loro vita! Nel frattempo vengono distrutti! Oh, Gesù, vieni! Adesso! Devi venire! Santa Teresa! Poi si precipita al telefono.

- Voglio la polizia. Qui a casa -. E pochi minuti dopo arriva.

Voglio la polizia, dice, e quella arriva. Con le pistole, si scopre. Sta a guardare mentre lo portano via in un posto da dove non potrà più far loro del male.

Mentre faceva il numero dei Bassart, papà Will entrò in cucina. – Lucy, - disse. – Tesoro, sono le tre e mezza del mattino. Perché sei alzata? Cosa stai facendo?

- Lasciami in pace. - Lucy, non puoi telefonare alla gente… - So quello che faccio. All’altro capo suo suocero disse: – Pronto? - Lloyd, sono Lucy. Willard sedette al tavolo della cucina. – Lucy, – implorò. - Lloyd, tuo figlio Roy ha rapito Edward e mi ha abbandonata. Si nasconde dai Sowerby. Si è rifiutato di tornare a Fort Kean. Si è messo nelle mani di Julian Sowerby, e bisogna fare immediatamente qualcosa per fermarlo. Hanno intessuto una rete di menzogne, e hanno progettato di andarle a dire in tribunale. Hanno progettato di andare da un giudice a raccontare che io sono una madre incompetente mentre Roy è un padre meraviglioso… e lui chiederà il divorzio, tuo figlio, e vorrà la custodia del mio bambino.

Sono stati assolutamente espliciti in proposito, e devono essere fermati prima che facciano anche solo un passo. Hanno già cominciato a mentire a Edward, questo è assolutamente palese… e se qualcuno non interviene, e all’istante, faranno il lavaggio del cervello a quella creatura indifesa di tre anni e mezzo finché riusciranno a costringere un bambino piccolo a presentarsi davanti a un giudice per dire che odia sua madre. Ma tu sai, Lloyd, anche se loro non lo sanno… tu sai benissimo che, se non fosse stato per me, Edward non avrebbe nemmeno mai visto la luce.

Chiunque di loro l’avrebbe fatto raschiare giù per una fogna, o messo in orfanotrofio, o dato via, l’avrebbero lasciato solo al mondo, senza genitori, senza nome, e ora proprio loro pretendono di stabilire in tribunale che mio figlio preferirebbe vivere con suo padre che con me, il che è assurdo e ridicolo, e non può essere, e non è vero, e tu devi fare qualcosa, Lloyd, e subito. Tu sei il padre di Roy… Papà Will le aveva posato una mano sulla schiena. – Lasciami in pace! – disse lei. Lloyd? Aveva riagganciato. - Per favore, – disse a suo nonno, – per favore non immischiarti. Tu non sei in grado di capire cosa sta succedendo. Sei un uomo impotente e inerme. Lo sei sempre stato e lo sei ancora e, se non fosse stato per te, tutto questo non avrebbe mai avuto inizio. Quindi per favore, lascia che me ne occupi io. Stava rifacendo il numero dei Bassart quando sulla porta della cucina comparve la nonna.

- Cosa fa questa bambina, Willard? Nel cuore della notte. Lui la guardò, senza riuscire a parlare. - Lloyd, – disse Lucy nel telefono, – sono di nuovo Lucy. Era caduta la linea. - Senti, – disse il suocero, – va’ a dormire. - Non hai sentito una parola di quello che ti stavo dicendo? - Ho sentito, Lucy. E’ meglio che vai a dormire. – Non dirmi di andare a dormire, Lloyd! Dormire è fuori questione in un momento come questo! Spiegami cosa intendi fare riguardo a tuo figlio, e a tuo cognato Julian e alle loro tresche! - Io non ti spiego proprio niente, – replicò Lloyd Bassart. - Mi sa che sei tu quella che deve dare spiegazioni, Lucy. Quello che ho sentito non mi rende felice, Lucy.

Nemmeno un po’, – disse in tono minaccioso. - Spiegare cosa? Spiegare a chi? Sono incinta! Lo sai questo? E’ questa l’unica spiegazione che devo dare: sono incinta! - Temo di non essere disposto a parlare ancora con te in queste condizioni. - Ma hai sentito cosa ho detto? La mia condizione è quella di essere incinta di un secondo figlio! – Come ho detto, ho sentito troppo. Ho sentito più che abbastanza. – Menzogne!

Se vengono da loro sono menzogne! Quella che dico io è la verità, Lloyd, l’unica verità. Sono incinta! Lui non può lasciarmi in un momento come questo! - Buonanotte, Lucy.

- Lloyd, non mi puoi attaccare il telefono! Tu dovresti essere quello buono, quello onesto… quello rispettabile! Meglio che non mi attacchi il telefono! Lloyd, quattro anni fa… è esattamente quello che voleva fare all’epoca. Io avevo diciotto anni, e anche allora lui voleva scappare. E sei stato tu a impedirglielo. Lloyd, è la stessa cosa… esattamente la stessa di allora! - Ah, davvero? – disse lui. - Sì! - Sì, proprio così! – Era Alice Bassart.

- Alice, riaggancia, – disse Lloyd. Imbrogliona, imbrogliona buona a nulla… tu hai incastrato nostro figlio! E adesso di nuovo! - Alice, me ne occupo io. - Io ho incastrato lui? – disse Lucy. - Ci hai portato via nostro figlio, con un trucco da intrigante! Miss Maschiaccio! Miss Sarcastica! Miss Sogghigno!

- Alice! - Ma è stato lui a incastrare me, Alice! Mi ha incastrato illudendomi che fosse un uomo, quando in realtà è un topo, un mostro! Un deficiente! E un pervertito, ecco cos’è vostro figlio, il peggiore e il più smidollato pervertito che ci sia mai stato! – Willard! - disse Berta. Papà Will era in piedi accanto al telefono, subito dietro di lei. – Non… – disse lei, sopra la spalla, -… ti azzardare… Ma lui calò una mano sul telefono e la tenne lì, interrompendo la comunicazione. - Cosa credi di fare? – gridò lei. – Il mondo sta crollando! Il mondo è in fiamme! - Tesoro, Lucy, sono le quattro del mattino.

- Ma non hai sentito una parola di quello che ho detto? Non hai sentito cosa stanno cercando di farmi? Non lo capisci come sono in realtà queste persone buone e rispettabili? Io sono incinta! Questo non significa niente per nessuno? Sono incinta e mio marito rifiuta di assumersi le sue responsabilità! - Lucy, – disse lui con voce suadente, – domattina, tesoro, se è proprio così… - Io non aspetto domattina. Domattina sarà troppo… – Cercò di strappargli via il telefono dalle mani. - No, tesoro, no. Adesso basta. - Ma le menzogne aumentano di minuto in minuto. Dicono che l’ho incastrato per costringerlo a sposarmi. Quando è stato lui che ha sedotto me. Me lo ha fatto fare sul sedile di dietro di quell’auto, ha insistito e insistito e insistito, e non la voleva smettere, e alla fine, contro la mia volontà, per fargli vedere… per accontentarlo… avevo diciassette anni… e adesso dicono che sono stata io a incastrare lui. Come se lo avessi voluto. Come se lo avessi mai voluto a quel modo! Vorrei che fosse morto, ecco cosa vorrei. Vorrei che non fosse mai nato -. Guardò Willard in cagnesco. – Dammi quel telefono. - No. - Se non mi dai quel telefono, papà Will, dovrò fare a modo mio. O mi dai quel telefono e mi lasci chiamare suo padre… perché voglio dire a quel Lloyd Bassart che non sarà più un pilastro della comunità, se non fa subito smettere questa cosa, e subito. O mi dai quel telefono… - No, Lucy. – Ma è stato lui a sedurre me. Non lo capisci! E adesso loro dicono che io ho sedotto lui! Perché non c’è niente che non direbbero contro di me.

Niente a cui non si abbasserebbero, pur di distruggermi. Julian Sowerby non si fermerà davanti a niente… non lo capisci? Odia le donne! Odia me! Sta cercando di fare a pezzi la mia vita perché io so la verità! E non lascerò che succeda! - Chiama il dottore, Willard. Fa’ il numero del dottore, - disse Berta. - Chiamare chi? – gridò Lucy. Berta, domattina.

- Willard, adesso. - Oh sì, oh certo, – disse Lucy alla nonna. – Oh, ti piacerebbe, vero? E’ da tutti questi anni che aspetti di farmi fuori… perché io vedo anche attraverso di te… stronza egoista. Chiamare un dottore? – Mostrò il pugno a tutt’e due. Io sono incinta! Ho bisogno di un marito, non di un dottore… un marito per me e di un padre per mio figlio… - Fa’ il numero del dottore, – disse Berta. Ma Willard continuava a tenere stretto il telefono. – Lucy, – disse, – perché adesso non vai a letto? - Ma te lo vuoi ficcare in testa… Julian Sowerby mi sta portando via Edward! Un puttaniere come lui! E tutti loro lo sanno. E non gliene importa! Si compra le donne con i soldi, e a nessuno gliene frega niente! Lo capisci quello che ti sto dicendo? - Sì, tesoro. - Allora che cosa intendi fare? Il mondo è pieno di mostri e di persone abiette, e tu non fai assolutamente niente, e non lo hai mai fatto! Tu dai ascolto a lei, disse, indicando la nonna. – Ma io no! Non la ascolterò! Fece per uscire dalla cucina, ma Berta bloccava la porta. - Lasciami passare, per favore. La nonna disse: – Dove stai andando? - Alla polizia. – No, disse papà Will. – No, Lucy. - Lasciami passare, nonna cara. Papà Will, dille di lasciarmi passare, se hai un minimo di potere su tua moglie.

Vado di sopra a prendere la giacca e le scarpe, poi vado alla polizia.

Perché non la passeranno liscia, nessuno di loro. E se dovranno venire ad arrestarli tutti, Roy e Julian e quell’insigne brav’uomo di Lloyd Bassart, allora lo faranno. Perché non si possono portare via i bambini!

Non si possono rovinare le vite! Non si possono tagliare i ponti con un matrimonio e una famiglia! Lasciami passare, per favore, nonna, vado di sopra a prendere la giacca. - Berta, – disse papà Will, – lasciala andare. - E se chiami il dottore appena volto la schiena, papà Will, allora sei cattivo quanto loro. Voglio che tu questo lo sappia. Lasciala andare, Berta. -Willard… - Chiamerò, – disse lui, annuendo.

- Dunque, – disse Lucy, – alla fine la verità viene fuori, eh, papà Will? Ho sempre nutrito qualche speranza per te, se vuoi saperlo.

Ma purtroppo mi sbagliavo. E’ un vero peccato, – disse, mentre varcava la soglia e prendeva le scale. La porta della camera di sua madre era chiusa; doveva essere sveglia lì dentro ma, come sempre, era troppo pavida e spaventata per affrontare quel che stava succedendo in seno alla sua famiglia. Quando si fu vestita per uscire, Lucy andò in corridoio e, prima di scendere le scale e uscire per andare alla polizia, sostò alla porta di sua madre. Avrebbe dovuto andarsene in quell’istante, e lasciare che le parole pronunciate da sua madre quel pomeriggio fossero le ultime che loro due si sarebbero mai scambiate?

Perché, una volta che Edward fosse tornato, e la catastrofe fosse stata scongiurata, lei in quella casa non ci avrebbe mai più messo piede.

Sentiva i nonni che parlavano giù in salotto, ma non afferrava quel che dicevano. Aveva importanza? Era abbastanza chiaro da che parte si erano schierati. Lei aveva raccontato fra le lacrime l’intera storia a papà Will mentre lui la accompagnava a casa attraverso la città buia, e lui l’aveva consolata. Spossata com’era, lui l’aveva aiutata a mettersi a letto, le aveva rimboccato una coperta fino al mento, le aveva detto di riposare, le aveva detto che la mattina si sarebbe occupato lui di tutto… e, come se non avesse capito quel che invece aveva capito da molto tempo, come una babbea, come un’ingenua, lei aveva lasciato che le parole di lui e la propria disperazione la facessero sprofondare in sogni di un altro mondo, un altro qui, un altro ora, sogni del dolce Gesù e di padre Damrosch e suor Angelica della Passione. E ora, svegliandosi, aveva scoperto che anche lui le si era messo contro. Oh, quant’era assurdo! Quant’era inutile! Perché dovevano sempre costringerla agli estremi? Perché dovevano tirarsi addosso quei fastidi quando la soluzione semplice e onorevole era sempre a portata di mano?

Se solo avessero fatto il loro dovere! Se solo si fossero comportati da uomini! Un medico. Era lui che stavano aspettando giù in salotto. Il dottor Eglund! Che le desse una pasticca per farle vedere tutto rosa l’indomani mattina! Che le facesse una bella ramanzina vecchio stile! Ma era cieco il dottor Eglund? Alla fin fine le avrebbero praticato un aborto, così da togliere dai pasticci tutti gli altri? Sì, qualunque cosa, qualunque cosa, per quanto umiliante e mortificante potesse risultare per lei… pur di risparmiare a tutte quelle persone rispettabili un fardello privato e una vergogna pubblica. Oh, ma la vergogna sarebbe ricaduta lo stesso su tutti loro, non appena si fosse saputo che lei aveva dovuto presentarsi al Grove su una volante, per farsi restituire quel che loro avrebbero portato via e fatto a pezzi e distrutto. Perché era quella la scelta che le avevano lasciato. Di sicuro non sarebbe tornata da sola a Fort Kean, lasciando che Edward venisse aggredito dalle bugie, per essere preparato dai nemici di lui e di lei a testimoniare contro la sua stessa madre. E di certo non sarebbe neppure stata tanto idiota da far loro il piacere di comparire in tribunale con Mr Sowerby e il suo avvocato… di opporre i propri centesimi ai milioni di Julian, di opporre i propri scrupoli alle tecniche spregiudicate del suo avvocato, che avrebbe trascinato la causa da un tribunale all’altro, facendo lievitare i costi, e accumulando menzogne su menzogne. Oh, se li immaginava mentre raccontavano alla corte che lei, una studentessa diciassettenne, completamente priva di esperienza sessuale, aveva sedotto e spinto con l’inganno al matrimonio un uomo che si dava il caso avesse tre anni più di lei e fosse un veterano dell’esercito degli Stati Uniti. Oh no, non poteva aspettare pazientemente che accadesse questo… e nemmeno che Ellie Sowerby, quell’indiscussa autorità in fatto di malattie mentali, scoppiasse a piangere in aula testimoniando che, secondo la sua opinione professionale, Lucy Bassart era malata di mente, e lo era sempre stata.

Né intendeva restare silenziosa testimone di quel momento patetico in cui suo nonno sarebbe stato chiamato alla sbarra, e avrebbe spiegato al giudice come lui stesso avesse pensato che forse la cosa migliore per Lucy sarebbe stata una chiacchierata franca e sincera con il medico di famiglia… No, non intendeva farsi spaventare dall’unica scelta che loro le avevano lasciato per salvare la vita a se stessa e ai suoi figli, il nato e il nascituro. Aprì la porta della madre. Era quasi l’alba. - Adesso vado, mamma. La forma sotto la coperta non si mosse. La madre era rannicchiata sulla metà del letto più vicina alla finestra, con il viso nascosto dietro una mano. Lucy si sfilò i guanti.

Sul dorso della mano sinistra c’era un graffio, dove i denti di Roy avevano sfregato la carne. - Lo so che sei sveglia, mamma. Lo so che hai sentito quello che è successo giù. Lei restò immobile sotto la coperta. - Sono entrata per dirti una cosa, mamma. E te la dirò, che tu mi risponda o meno. Sarebbe più facile se tu riuscissi a tirarti su a sedere e guardarmi in faccia. Sicuramente sarebbe più dignitoso, mamma. Ma non ci sarebbe stata dignità alcuna; era quella la decisione di sua madre, ogni volta la medesima. Si limitò a premere la faccia sul cuscino, mostrando la nuca alla figlia. - Mamma, quello che ho sentito qualche ora fa… ormai era ieri… riguardo a mio padre… me ne sono lasciata turbare. E’ questo che voglio dirti. Dopo che ci siamo separate ho pensato a quello che mi avevi detto. Tu hai detto, se te lo ricordi, mamma, che lui era finito dove io avevo sempre voluto che finisse. Hai detto che speravi che adesso io fossi felice. E così sono tornata a Fort Kean, pensando: «Oh, sono una persona terribile». Ho cominciato a pensare che, se non fosse stato per me, magari gli sarebbe stato risparmiato quello che ora sta passando, qualunque cosa sia. Ho pensato: «Adesso è via da quasi quattro anni, e perché? Ha paura anche solo di farsi vedere. E’ stato costretto a scriverle attraverso una casella postale… e tutto per colpa mia». Poi ho cercato di dirmi che no, no, la causa non ero io… Ma la sai una cosa, mamma? La causa sono io! Se lui non è qui è perché ha paura di me, è questa la verità. Perché è terrorizzato dal mio giudizio. E lo sai? E’ l’unica reazione umana che quell’uomo abbia mai avuto, mamma. Restare lontano… è l’unica cosa che sia stato in grado di fare con successo in tutta la sua vita. Udì la madre che piangeva. Tutt’a un tratto la luce del sole entrò nella camera, e lei vide una lettera sulla coperta. Si annidava in una piega, dove probabilmente era caduta dalla mano della madre. Se l’era portata a letto. Mio Dio, non c’è limite, non c’è fine. Mentre lei si avventava sulla lettera, la madre si girò per vedere che cosa stava per succedere.

E lo spavento negli occhi di quella donna, l’afflizione sul suo volto… oh, era assolutamente incorreggibile! – Mamma, è stato lui a distruggere la nostra vita -. Prese la lettera. – Lui! – gridò, sventolandogliela sopra la testa. – Questo qui! E poi corse via. Perché papà Will aveva fatto irruzione nella camera, vestito ora in pantaloni e camicia. Lucy… – La abbrancò per la giacca, e lei udì il rumore di uno strappo mentre si divincolava e correva a precipizio giù per le scale. Adesso nonna Berta le stava andando incontro attraverso il salotto, ma lei strillò: – No! Sei un’egoista, un’egoista… – e quando la nonna fece un salto indietro, poté spalancare la porta e precipitarsi fuori, nel portico.

- Fermati, – la chiamò Berta. – Fermatela! Ma per strada non c’era nessuno, nessuno fra lei e il centro cittadino. Poi le cedettero le gambe. I gomiti colpirono il terreno ghiacciato un secondo prima del mento; una sensazione di nausea la attanagliò, ma subito Lucy si rimise in piedi e attraversò la strada, diretta verso Broadway.

C’erano due o tre centimetri di neve fresca sui marciapiedi sgombrati, e lastre di ghiaccio sotto i piedi, e sapeva che se fosse caduta di nuovo sarebbe stata raggiunta, ma corse più veloce che riusciva con la giacca e le galosce, perché doveva arrivare alla polizia prima che glielo impedissero. Papà Will era già fuori nel portico; lo vide lì nell’istante che si concesse per guardarsi alle spalle. Poi un’auto accostò davanti alla casa, e papà Will scese i gradini in maniche di camicia. Il dottor Eglund! L’avrebbero inseguita in auto! L’auto l’avrebbe raggiunta in pochi secondi! Poi la gente si sarebbe affacciata alle finestre, porte si sarebbero spalancate, altri sarebbero corsi fuori casa per dare una mano ai due vecchi, per impedirle di ottenere giustizia! Svoltò rapida in un vialetto, s’infilò fra un’auto e una casa e avanzò sprofondando nella spessa coltre bianca del cortile di qualcuno. Un cane abbaiò, e lei cadde goffamente a terra inciampando in una bassa recinzione metallica nascosta sotto un cumulo di neve. Poi era di nuovo in piedi, e riprese a correre. Tutto era illuminato da una luce bluastra, e l’unico rumore era il tonfo delle galosce che martellavano la neve mentre lei correva, correva verso la forra. Ma sarebbero stati lì ad aspettarla, quando fosse arrivata! Non appena l’avessero persa di vista, sarebbero andati direttamente al commissariato. I due vecchi, completamente confusi riguardo a quel che stava succedendo, completamente ignari della posta in gioco, avrebbero detto alla polizia che lei stava arrivando. E cosa avrebbe fatto la polizia? Avrebbe telefonato a Roy! Tempo che lei avesse attraversato la città fino alla forra, per poi risalire su Broadway attraverso il fiume, e suo marito sarebbe stato in commissariato ad aspettarla. E Julian! E Lloyd Bassart!

E lei sarebbe arrivata per ultima, con il giaccone coperto di neve, il viso rosso e bagnato, esausta e senza fiato, l’aspetto di una ragazzina scappata di casa… e come tale sarebbe stata trattata. Ma certo!

Avrebbero travisato i fatti a tal punto che la polizia, invece di venirle subito in aiuto, l’avrebbe consegnata nelle mani del nonno, del medico… Ma gli altri ora si sarebbero accontentati di questo? A un uomo come julian Sowerby interessava un’unica cosa: fare i suoi porci comodi. Sua moglie lo sapeva, sua figlia lo sapeva, tutti sapevano com’era fatto, ma, finché continuava a sganciare soldi, a loro cosa importava? Le pareva di sentirlo, di sentirli tutti, promettere questo, promettere quello, implorare il perdono, per poi continuare a essere com’erano sempre stati. Poiché semplicemente non si sarebbero ravveduti!

Semplicemente non sarebbero cambiati! Non avrebbero fatto altro che andare di male in peggio! Perché osteggiavano una madre e suo figlio?

Perché osteggiavano una famiglia, una casa, l’amore? Perché osteggiavano una vita bella, e favorivano una vita brutta? Perché la combattevano e la maltrattavano e la rifiutavano, quando lei non voleva altro che ciò che era giusto! Ma dove sarebbe andata adesso? Perché sapeva cosa avrebbe significato proseguire fino al commissariato, sapeva cos’avrebbe cercato di fare Julian Sowerby; sapeva come un uomo simile avrebbe saputo approfittare di quell’occasione per distruggerla, una volta per tutte. Sì, perché lei sapeva distinguere il giusto dallo sbagliato, perché lei conosceva il suo dovere e lo faceva, perché lei conosceva la verità e la diceva, perché lei non avrebbe accettato passivamente la slealtà e il tradimento, non avrebbe lasciato che le sottraessero il suo figlioletto, viziassero un uomo adulto e raschiassero via dal suo corpo la nuova vita che cominciava a crescere… avrebbero cercato di far passare lei per la colpevole, lei per la criminale!…Allora dove?

Tornare indietro non aveva alcun senso; non c’era un indietro. Ma correre dritta fra le braccia dei suoi nemici… in balia delle loro menzogne e slealtà! Girò su se stessa e imboccò di nuovo il vialetto da cui era sbucata; svoltò da una parte, poi dall’altra, verso Broadway, via da Broadway, e di nuovo lungo la strada. Girava svelta gli angoli; stava rasente ai muri; sprofondava nei cumuli. La neve farinosa le incipriava la faccia. Premette la testa contro una grondaia inguainata dal ghiaccio. Cadde. Le bruciava la pelle. Una finestra si spalancò; corse via. La luce blu divenne grigia. Cominciò a imbattersi di nuovo nelle impronte che aveva lasciato nella neve appena qualche minuto prima. Poi si ritrovò a guardare dentro la casa di Blanshard Müller dalla finestra della cucina sul retro. Aprì la porta del garage spingendola con una spalla, scivolò dentro e chiuse la porta. Tenendosi una mano sul fianco, si appoggiò al cofano dell’auto, abbassò la testa e chiuse gli occhi. Vide colori che fluttuavano. Cercò di non pensare.

Perché mi dovrebbe odiare a morte? Non mi odia! Non è possibile! E’ una bugia di Roy! Con respiri tremolanti si riempì i polmoni, e la sensazione che ogni suono dall’interno della sua testa venisse spinto verso l’esterno si affievolì. Cominciò a essere scossa dai fremiti. Poi provò una strana calma alla vista degli oggetti disposti lungo la parete laterale del garage: un tubo di gomma arrotolato, un badile, mezzo sacco di cemento, uno pneumatico sgonfio, un paio di stivali alti. Provò ad aprire la portiera dell’auto. Se solo avesse potuto concedersi un momento di tregua, per pensare; no, non per pensare… Si udì un rumore secco e tintinnante. Sobbalzò guardandosi intorno; niente. Attraverso la finestra del garage si vedeva la cucina; riusciva a distinguere alle pareti gli armadietti che sua madre aveva scelto per Mr Müller. Udì di nuovo uno schianto, e questa volta vide il ghiaccio che scivolava giù dal tetto in cortile. Salì sull’auto. E adesso? Ormai era mattina… Se in cucina si fosse accesa una luce, quanto ci avrebbe messo a uscire dal garage? E se lui l’aveva già vista e stava per prenderla alle spalle passando dalla porta d’ingresso? Che spiegazione avrebbe potuto dare? A quale versione lui avrebbe creduto? Che cosa avrebbe potuto raccontargli, se non la verità? E poi? Gli avrebbe raccontato tutto, quel che già avevano fatto, quel che avevano in programma di fare; e poi? Lui avrebbe aperto la porta del garage, sarebbe uscito in retromarcia e l’avrebbe portata lui stesso al Grove. Avrebbe suonato il campanello dei Sowerby e avrebbe aspettato accanto a lei nel loro portico, poi avrebbe chiarito a Irene Sowerby il motivo per cui lui e Lucy erano lì… Ma se l’avesse colta di sorpresa, se l’avesse scoperta lì inginocchiata a nascondersi sul sedile posteriore dell’auto… sarebbe saltato alla conclusione che fosse lei a essere nel torto!

Perciò doveva immediatamente andare alla porta sul retro… no, alla porta d’ingresso… e suonare, e dire che le spiaceva disturbarlo così di mattina presto, che si rendeva conto che era una cosa assolutamente fuori dell’ordinario, però aveva disperatamente bisogno di… Ma lui le avrebbe mai creduto? Era così mostruoso, quel che le stavano facendo, che lui avrebbe mai potuto crederci? Poteva darsi che la ascoltasse pensando per tutto il tempo fra sé: «Ovviamente, questo è solo il suo punto di vista». E se l’avesse ascoltata solo per poi telefonare alla madre per verificare la sua versione dei fatti? Cos’era in fondo Lucy Bassart per lui? Niente! Sua madre e suo padre avevano provveduto a che fosse così. «Scusa, – avrebbe detto, – non sono affari miei». Ma certo!

Perché lui avrebbe dovuto intervenire in suo aiuto, se anche le persone a lei più vicine le si erano rivoltate contro? No, c’era un’unica persona su cui poteva fare affidamento: adesso come sempre, l’unica persona che poteva salvarla era lei stessa. Doveva nascondersi; doveva trovare un nascondiglio nelle vicinanze, e poi, quando fosse venuto il momento buono, avrebbe fatto irruzione per prendere Edward, e loro due sarebbero scomparsi. Ma dove? Oh, in un posto dove non li avrebbero mai trovati! Un posto dove lei avrebbe avuto il suo secondo figlio, e loro tre avrebbero cominciato una nuova vita. Dopodiché lei non sarebbe mai più stata così ingenua, credulona e trasognata da mettere il suo bene e quello delle sue creature in mani che non fossero le sue. Avrebbe fatto da madre e padre a entrambi, e così loro tre, – lei, il suo figliolo e anche la sua figlioletta -, avrebbero vissuto senza crudeltà, senza tradimento, senza inganni; sì, senza uomini. Ma se Edward non avesse voluto andare con lei? Se lei lo avesse chiamato e lui fosse corso via dalla parte opposta? «La tua faccia è tutta nera! Vattene!» Nel guanto aveva ancora la lettera che aveva preso dal letto di sua madre. Era sprofondata fino alla vita in cumuli di neve; era inciampata e caduta sulle recinzioni dei cortili; aveva aperto con una spinta la porta del garage, era salita sul sedile posteriore dell’auto… e ancora teneva stretta nel guanto la lettera indirizzata a sua madre. Avrebbe dovuto andar via adesso. Era il momento buono. Ormai sarebbero stati tutti al commissariato. Fra poco si sarebbero divisi e avrebbero dato inizio alle ricerche. Non c’era un secondo da perdere, non per una cosa ridicola come una lettera di lui. Dal giorno della nascita di Edward non gli aveva praticamente permesso di entrare nei suoi pensieri; l’aveva scacciato dalla loro vita, poi dalla sua testa. Chiaramente non c’era altro da fare con quella lettera se non distruggerla. Sarebbe stata la cosa più giusta. Bruciare quella lettera, disperderne le ceneri al vento, sarebbe stata davvero una cerimonia appropriata. Sì, addio, addio, uomini coraggiosi e leali. Addio, protettori e difensori, eroi e salvatori. Non siete più richiesti, non siete più graditi… ahimé, siete stati smascherati per quello che siete. A mai più, a mai più, donnaioli e fedifraghi, vigliacchi e smidollati, impostori e bugiardi.

Padri e mariti, a mai più! La missiva consisteva in un unico lungo foglio di carta da lettera. C’erano spazi da compilare in cima, e poi sotto il suo messaggio. La pagina, a righe blu così che il detenuto scrivesse dritto, era coperta su entrambi i lati da una calligrafia fitta fitta. La ficcò di nuovo nella busta. Da un momento all’altro Blanshard Müller si sarebbe alzato, avrebbe sceso le scale e sarebbe uscito di casa… e lei sarebbe stata scoperta! E consegnata a loro, ai suoi nemici! Perciò via! Ma dove? In un luogo dove nessuno avrebbe pensato di cercare… un luogo abbastanza vicino perché lei potesse calare fulminea sulla casa dei Sowerby… nel pomeriggio, quando lui gioca in cortile… no, di notte, quando dormono… sì, di notte, quando dorme anche lui, acciuffarlo e portarlo via… «La tua faccia è veleno!

La tua faccia è nera! Mettimi giù!» No! No! Non doveva cedere adesso.

Non doveva cedere di fronte alle loro sporche bugie. Doveva trovare la forza necessaria. L’audacia, l’ardire necessari… Tirò di nuovo fuori la lettera dalla busta. L’avrebbe letta, e distrutta… e poi via. Sì, avrebbe letto quel che lui aveva scritto, e avrebbe trovato nelle sue parole quel che le serviva per affrontare le prove che la aspettavano… l’attesa… il rapimento… la fuga… Oh, non sapeva che cosa ne sarebbe venuto, ma non doveva aver paura! Per sostenersi nel freddo e nel buio, nella sua solitudine, mentre aspettava di liberare il bambino dai suoi carcerieri – «Mammina, dove sei stata?» -, mentre aspettava di correre in suo soccorso – «Oh, mammina, portami via!» -, di fuggire con lui verso un mondo migliore, una vita migliore, per sostenersi non avrebbe avuto altro che la forza del suo odio, della sua avversione per quei mostri che con tanta crudeltà avevano distrutto la vita di donne e bambini innocenti. Oh sì, leggila allora, e ricorda l’orrore inflitto a te e ai tuoi, la crudeltà e la meschinità inflitte di proposito, incessantemente. Sì, leggi quel che ha scritto, e troverai il coraggio per affrontare le avversità. Per quanto disgraziata, per quanto desolata, sarai implacabile. Perché devi esserlo! Perché solo tu puoi salvare tuo figlio da uomini come lui, salvare la tua inerme, innocente figlia a venire. Oh, sì, segnatele, queste sue parole, inciditele nel cuore, e poi avviati senza paura. Senza paura, Lucy! Contro tutte le circostanze avverse, ma senza paura! Perché loro sono nell’errore, e tu sei nel giusto, e non c’è scelta: alla fine il bene deve trionfare! Il buono e il giusto e il vero devono…

nome: D. Nelson

numero: 70561

data: 14 feb.

destinatario: Mrs Myra Nelson (moglie)

Carissima Myra, credo di aver riletto la tua lettera almeno venti volte. Le cose che dici sono indiscutibili. Ero così se non peggio. Come ho già detto, mi spiace e mi spiacerà finché vivo averti causato così tanto imbarazzo e dolore. Ma ora non c’è dubbio che sei di nuovo libera per sempre dai guai che ti ho causato. Mi sa che ci penserà lo stato della Florida. Quanto a me, non importa. Tutta la mia vita è stata dura, a volte -più e a volte meno.

Nessun progetto, per quanto buono, ha mai funzionato. Ma non è giusto che questo faccia del male alla persona che ti è più vicina di chiunque altro al mondo. É questo che è sbagliato. Una cosa che mi consola un po’ è che tu dici che non c’è nessun altro. Non l’avrei sopportato. Non ci sarei riuscito. Ricorda solo una cosa, che ho avuto diciannove anni di felicità. Che l’unico neo è stata la mia incapacità di darti le cose che volevo che tu avessi. Forse quando uscirò, se resisto, sarò in grado di darti un po’ di aiuto finanziario, pur se a distanza, se ancora vorrai che stiamo lontani. Però per uscire da qui con il minimo devi avere un garante e un posto di lavoro e, anche se non voglio darti disturbo, mi chiedo se ti viene in mente qualcuno. Ovviamente dipenderà da quanto vorrà essere vendicativa la «presunta Giustizia». C’è un punto fino al quale la pena è correttiva. Oltre quel punto diventa distruttiva. Da quando sono qui ho visto diversi casi in cui la Giustizia dipende da come la definisci. Se ti basi su quel che dice il vocabolario oppure su quel che dicono i dollari o l’influenza. Ho già visto molti casi in cui la Giustizia non è stata «applicata» ma comprata. Vedo come persone che avrebbero potuto essere aiutate diventano dure e incattivite. Ma non voglio dilungarmi su questo. Soprattutto non oggi. Myra, Myra, col passare degli anni i ricordi del passato diventano sempre più strazianti. Mi manchi così tanto che è peggio della fame. Anni fa ho detto che senza di te sarei finito in fretta all’inferno. E’ una previsione che si è anche troppo avverata. Ci sono persone che posso nominare di cui avrei potuto benissimo fare a meno, ma Myra, Myra, Myra, di te no. Oh Myra, avevo sempre sperato che a questo stadio della mia vita avrei potuto esprimerti questo augurio in modo molto più concreto ma, se puoi perdonarmi, bisognerà aspettare che lo stato della Florida decida altrimenti: Mentre gli anni passano – sempre più in fretta, Ci coglie una voglia sempre più netta Di portare alla mente, tornare ad abitare, Quel glorioso passato, riavere e ridare. Portiamo alla mente gli errori commessi, Pene e dolori – causati e poi ammessi, Si fanno presenti – con grande dolore Ricominciare vorremmo – con tutto il cuore.

Vorremo far meglio – che il dolore scompaia, Che tutto sia bello, e bello ci appaia. Il mio più gran desiderio, venirti vicino, Essere di nuovo – il tuo Valentino.

Il tuo fedele, Duane.

La terza notte dopo la scomparsa di Lucy, una coppietta di ragazzini delle superiori andò in macchina ad appartarsi al Paradiso della Passione. Verso mezzanotte, ora in cui la ragazza doveva essere a casa, fecero per tornare in città, ma le ruote della macchina si erano impantanate nella neve. Sulle prime il ragazzo spinse da dietro mentre la sua compagna stava al volante e premeva sull’acceleratore. Poi lui tirò fuori un badile dal bagagliaio e, nel buio, mentre la ragazza si riparava le orecchie con i guanti e lo supplicava di sbrigarsi, cominciò a spalare per liberare le ruote. Così fu trovato il corpo. Era vestito da capo a piedi; la biancheria era congelata sulla pelle. C’era anche un foglio a righe congelato contro una guancia, e la mano era congelata contro la carta. Una prima ipotesi, che la mano potesse essere stata sollevata per parare un colpo, fu respinta quando il medico legale riferì che, a parte una piccola abrasione sulle nocche della mano destra, il corpo non mostrava ferite, lividi o fori, nessuna traccia di violenza. Né c’era alcun indizio di molestia sessuale. Della gravidanza nulla fu detto, o perché il medico legale non ne trovò alcun indizio, oppure perché l’inchiesta prevedeva solo gli esami di laboratorio standard. La causa della morte era l’assideramento. Riguardo a quanto a lungo il corpo fosse rimasto lì prima di essere scoperto, il medico poteva solo avanzare supposizioni; le temperature gelide avevano mantenuto il cadavere intatto e, a giudicare dallo spessore della neve sopra e sotto, si poteva presumere che la giovane donna fosse morta da circa trentasei ore quando era stata trovata. Se così era, era riuscita a sopravvivere al Paradiso della Passione un giorno e una notte e, in qualche modo, fino alla mattina successiva. Fu qualche mese dopo il funerale, durante una di quelle primavere fresche, frizzanti e piovose tipiche delle regioni centrali degli Stati Uniti, che le lettere dalla prigione cominciarono ad arrivare direttamente alla casa.

 

 1)

Nome ojibwe del Lago Superiore, secondo la grafia scelta da H. W. Longfellow nella cnzone: The Song Of Hiawatba. [N.d.T.].  

2)

Nome d’arte dell’attore afroamericano Lincoln Theodore Monroe Andrew Perry (1902-1985), il cui personaggio riproduceva lo stereotipo dell’uomo nero pigro e bonaccione [N.d.T.].  

3)

Robert Burns, Second Epistle To J. Lapraik, vv. 43-44 [N.d.T.].  

4)

Serie poliziesca statunitense radiofonica degli anni Trenta e Quaranta [N.d.T.]  

5)

«Tu sospiri, inizia la canzone, tu canti e io sento i violini, è maaaa–gico: versi tratti dalla canzone It’s Magic, come anche la strofa seguente.  

6)

«Senza una bacchetta d’oro, O mistiche malie, Cominciano cose fantastiche, Qui sono fra le tue… braccia’.»  

7)

«C’è un albero nel prato, e li accanto passa un ruscello…»: versi tratti dalla canzone A Tree In The Meadow, come anche la strofa seguente [N.d.T.].  

8)

«Ricorderò sempre L’amore nei tuoi occhi… Il giorno in cui hai inciso in quell’albero, Ti amerò finché vivo» [N.d.T.].  

9)

«C’era un ragazzo, Un ragazzo molto strano, incantato. Dicono che abbia viaggiato molto lontano, Molto lontano per mare e per terra» [N.d.T.].  

10)

«Questo lui mi disse: La cosa più grande che mai potrai imparare, E amare,, essere anche tu amato“» [N.d.T.].  

11)

«Oh, quanto abbiamo ballato, La sera che ci siamo sposati, Abbiamo ballato:, ballato…»: versi tratti dalla canzone Anniversary Song [N.D.T.].  

12)

Versi tratti da To the Athlete Dying Young di A. E. Housman [N.d.T.].  

13)

Il Familiar Quotations di John Bartlett, pubblicato per la prima volta nel 1855, è un celebre repertorio di citazioni in lingua inglese [N.d.T.].  

14)

«Schiaffa i tuoi guai nel tuo vecchio zaino…»: ritornello dell’omonima marcia militare della prima guerra mondiale [N.d.T.].