venerdì 23 dicembre 2022

VITE CHE NON SONO LA MIA Emmanuel Carrère



   VITE CHE NON SONO LA MIA

Emmanuel Carrère


Recensione  di Michel Houellebec


Estratto da "Interventi" di Michel Houellebecq

Il testo è uscito su “Le Figaro” dell’8 novembre 2003 ed è stato ripubblicato in Houellebecq, “Cahiers de L’Herne” (Éditions de L’Herne, 2017).


Tra i molti passi angoscianti che scandiscono Vite che non sono la mia, uno dei più dolorosi, per me, è quello della vecchia lesbica inglese che ha appena perso la compagna nella catastrofe.

My girlfriend, diceva lei, e immagino questa coppia di lesbiche attempate, residenti in una cittadina inglese, attive in qualche associazione, la loro casetta arredata con amore, i viaggi ogni anno in paesi lontani, gli album di fotografie, tutto andato in frantumi. Il ritorno della sopravvissuta, la casa vuota, le tazze con i loro nomi, e una non servirà mai più, e questa donna imponente seduta al tavolo della cucina si prende la testa tra le mani e piange e si dice che adesso è sola e resterà sola fino alla morte.18

Emmanuel Carrère, durante la vacanza a Ceylon conclusasi così tragicamente, ha di certo incontrato quell’attempata lesbica inglese; ma le tazze se le è immaginate. Il che, mi sembra, definisce piuttosto bene il margine d’invenzione che lo scrittore si concede, in un libro come questo dove “è tutto vero”. Il dettaglio non è insignificante. Perché le tazze vogliono dire qualcosa. Ed è stato proprio nel momento in cui ho letto delle tazze che, ricordo, sono scoppiato in singhiozzi e ho dovuto posare il libro, incapace per alcuni minuti di proseguire la lettura. È comunque impossibile illustrare dei semplici fatti; anche quando lo si fa a prescindere da qualsiasi ambizione letteraria, si è sempre obbligati, un po’ più un po’ meno, a inventare. In ogni caso, in tutti i libri che scrive attualmente, Emmanuel Carrère ha scelto di non inventare né i personaggi né gli avvenimenti importanti; ha scelto, essenzialmente, di comportarsi da testimone (non da testimone infallibile, cosa impossibile, come ho appena detto; ma da testimone). È una scelta che ovviamente m’interessa, se non altro perché io, finora, mi sono attenuto alla scelta contraria. Per ragioni estetiche, se vogliamo, ma anche per ragioni meno nobili, in cui si mischiano pigrizia, insolenza e megalomania (tipo: non rompetemi il cazzo con i dettagli, non ho tempo da perdere con la realtà, e in ogni caso la realtà la conosco meglio di chiunque altro).

Ma passiamo oltre, torniamo a Emmanuel Carrère. Non so esattamente quando e in quali circostanze abbia optato per tale scelta; ma credo di avere una piccola idea riguardo al perché. Idea che mi viene, stranamente, dai miei primi lavori su Lovecraft. Con la simpatica radicalità che lo caratterizzava, l’autore americano si congedava dal romanzo realista con queste parole: “Il caos dell’universo è così totale che nessun testo scritto può offrirne un sia pur timido cenno.” Mi sembra che Emmanuel Carrère, a un dato momento della sua attività di romanziere, si sia trovato faccia a faccia con un problema del genere. Le persone, è il minimo che si possa dire, non sanno più come vivere. Il caos è così totale, lo smarrimento così generalizzato, che nessun modello di comportamento ereditato dai secoli passati sembrava applicabile ai tempi che viviamo adesso. Così, a un dato momento, a Emmanuel Carrère è parso impossibile non soltanto utilizzare le tipologie esistenti, ma anche crearne di nuove. Il tempo dell’“uomo senza qualità”, prefigurato da Musil in maniera peraltro approssimativa, era davvero arrivato. Circostanza aggravante, Emmanuel Carrère era allora legato a un tipo di ispirazione stravagante, influsso remoto dei seguaci dell’arte per l’arte, che credeva di aggirare il problema concentrando l’interesse della letteratura nel virtuosismo linguistico che vi si può svolgere. Insomma, Emmanuel Carrère si è un po’ trovato nella stessa situazione di quei militanti maoisti dopo che, sentendosi accusati di deviazionismo formalista, hanno fatto autocritica, e hanno deciso di tornare a lavorare in fabbrica, a contatto con il vero proletariato.

(Vorrei che questo paragone un po’ irriverente non fosse scambiato per un’offesa; perché, dopotutto, quei militanti maoisti, quando decidevano di tornare in fabbrica, avevano semplicemente ragione; e la prova veniva regolarmente sancita dal fatto che, una volta rimessisi in riga, non tardavano a rinunciare al maoismo, nonché al militantismo; la teoria non aveva resistito alla realtà.)

In ogni caso, pur misurandosi con il mondo senza una teoria precostituita, Emmanuel Carrère non è affatto sprovvisto di strutturazione intellettuale; poiché possiede al massimo grado dei valori, che in larga misura strutturano come una teoriaE qui è necessario tornare un po’ indietro, in quanto, su questo punto, Emmanuel Carrère prende nettamente le distanze non soltanto dai contemporanei, ma anche dalle due o tre generazioni che lo hanno preceduto.

Per gli autori del XIX secolo, la questione del bene e del male non si pone in alcun modo. Né Balzac né Dickens né Dostoevskij né Maupassant né Flaubert nutrono il minimo dubbio sulle circostanze in cui il comportamento dei loro personaggi sembri rispettabile, ammirevole, un tantino deplorevole o francamente abietto. Cosicché, il fatto che poi scelgano di dispiegare uno spettro morale molto ampio, di mettere in scena casi estremi, oppure, all’opposto, scelgano di concentrare l’attenzione su caratteri intermedi diventa una scelta estetica personale, dalle variabili infinite. Tuttavia le basi del giudizio morale sono in loro solide e indiscutibili come lo sono state sempre nei filosofi che nel corso dei secoli precedenti si sono occupati di etica.

È nel passaggio dal XIX al XX secolo che le cose iniziano a guastarsi. Sotto l’influenza di pensatori nefasti e fasulli che hanno ritenuto di attribuire un carattere contingente alla legge morale, si è sviluppata un po’ alla volta un’opposizione stupida, ma stranamente tenace, tra il campo dei conservatori e quello dei progressisti. Cosa che, in verità, si sarebbe potuta verificare molto prima, sotto l’influenza deleteria dei “filosofi dei Lumi”; ma quei sedicenti filosofi disponevano di un’intelligenza troppo angusta per esercitare un’effettiva influenza su autori di un certo livello, tanto che il magnifico slancio romantico non fece nessuna fatica a ridurli in polvere. Marx e Nietzsche erano, bisogna convenirne, di ben altro calibro rispetto a Voltaire e La Mettrie. Per cui, pure nei migliori, si è insinuato un dubbio morale, anche su questioni poco controverse. Il dubbio si è focalizzato soprattutto sulle questioni sessuali, e la colpa, occorre ammetterlo, è in gran parte dei conservatori. La pruderie vittoriana è un fenomeno incomprensibile, esagerato, che non si è mai visto (e non si rivedrà mai più); e non desta certo sorpresa che proprio in Inghilterra si sia manifestato il massimo della confusione. Confusione che dà poi risultati magnifici in Galsworthy, ingiustamente dimenticato (credevo che a un autore che ha saputo creare il personaggio di Soames Forsyte l’immortalità fosse garantita). Anche se è probabilmente in Somerset Maugham che le questioni morali attingono il grado supremo di tensione, risolvendosi negli esiti artistici più straordinari. Maugham, certo per pudore, si era cucito addosso un personaggio di vecchio omosessuale raffinato e cinico. Sebbene non sia sempre stato vecchio, né esclusivamente omosessuale (lo testimonia la sua discendenza), e il suo cinismo dissimulasse manifestazioni di generosità pratica alquanto concrete. Così, è nei libri che Maugham dà via libera al personaggio che ha creato. Le persone amate non sempre sono quelle più degne d’amore; è una verità desolante e banale per la quale non si riesce assolutamente a trovare una soluzione. Il desiderio è naturale e sano, è la natura a parlare, e lui non intende rinunciarvi; ma gradirebbe anche molto che le brave persone fossero felici, che la loro vocazione all’amore fosse soddisfatta, eventualità ovviamente impossibile, e tutto ciò ci regala, soprattutto in La luna e sei soldi e Acque morte, alcune tra le più belle pagine della letteratura inglese.

Più si avanza nel XX secolo, più aumenta la confusione, più la legge morale perde terreno, fino a farsi del tutto incomprensibile; per tacere di quando viene sistematicamente svilita. L’adagio “Non si fa buona letteratura con i buoni sentimenti” avrà alla fine un notevole impatto negativo. Credo persino che l’assurda sopravvalutazione di cui godono da tempo gli autori collaborazionisti trovi qui la sua origine. Intendiamoci bene, Céline non è privo di meriti, è solo ridicolmente sopravvalutato. E i Poèmes de Fresnes di Brasillach sono bellissimi, di una bellezza sorprendente anche in un autore tanto modesto. Ma tutti gli altri, i vari Drieu, Morand, Félicien Marceau, Chardonne... non costituiscono altro che una sfilza di mediocri abbastanza penosa. Mi pare insomma che la loro strana sopravvalutazione tragga origine proprio da una perversa enfatizzazione dell’adagio indicato, il quale potrebbe essere riformulato così: “Se è una carogna, è probabilmente un buon autore.”

Questo per dire a quale assurdo grado di confusione si fosse arrivati. Il che non fa che accentuare gli immensi meriti di Emmanuel Carrère. Quando si entra in uno dei suoi libri (ed è praticamente l’unico della sua generazione del quale si possa dire una cosa del genere), i miasmi del dubbio morale evaporano, l’atmosfera diviene più limpida, il respiro si fa più ampio. Carrère sa quando il comportamento dei suoi personaggi è rispettabile, ammirevole, odioso, moralmente neutro; può nutrire dubbi su tutto ma non su questo. Sono una tale chiarezza di concezione, una tale dirittura intellettuale e morale che lo rendono capace, lui e lui solo (o quasi), di affrontare determinati soggetti, in effetti moralmente delicati. Non si elogerà mai abbastanza, per esempio, il suo ritratto di Jean-Claude Romand nell’Avversario. Nessuno potrà dire che Jean-Claude Romand non sia un assassino odioso, che non meriti ampiamente la pena che gli viene inflitta; ma è altrettanto certo che Romand offre un’immagine ben poco credibile del male, ed è qui che si manifesta appieno il talento di Emmanuel Carrère. È davvero notevole vedere come riesca, a poco a poco, a farci avvicinare a Romand, a rendercelo persino simpatico, senza mai concedersi la minima compromissione sulla questione del male.

(Romand, del resto, è altamente significativo. Una delle qualità più importanti, e più raramente ricordate, del romanziere è quella di saper scegliere i soggetti. È necessario riflettere, riflettere a lungo; poi mirare, mirare con tutta la precisione possibile, e tirare in pieno centro. Le cause penali sono centinaia ogni anno, e gli omicidi in ambito famigliare occupano gran parte della lista; ma scegliere come bersaglio un personaggio che, nella sua mitomania, ha scelto di spacciarsi per un medico umanitario, e persino per un “grosso nome dell’umanitario”, la dice lunga sulla nostra società.)

Limonov è l’incarnazione di un problema più antico, ma non meno delicato. Che Limonov abbia avuto del talento è difficilmente contestabile; ma che per altri versi sia stato davvero una carogna è altrettanto evidente. È appassionante paragonare il trattamento a cui Emmanuel Carrère sottopone il caso Limonov e quello a cui Somerset Maugham sottopone il caso Gauguin. Maugham ha per Gauguin un’ammirazione infinita, lo considera (certo con un po’ di esagerazione, ma sorvoliamo) un genio del calibro di Michelangelo; ma la brutalità e l’egoismo che Gauguin manifesta nella vita privata lo disgustano. Il martirio di Dirk Stroeve, uno degli individui la cui vita fu distrutta da Gauguin, gli ispira pagine allucinate, piene di dolore; ma al tempo stesso non può condannare Gauguin, sarebbe chiedergli troppo, e soffre, il povero Maugham, soffre sempre di più, al punto che la sua sofferenza di autore diviene il vero soggetto di un libro superbo, anche se impegnativo da leggere. Carrère, viceversa, non si meraviglia affatto che uno scrittore di talento sia anche una carogna; se ne rammarica, preferirebbe che fosse altrimenti, ma non si tratta, per lui, di una contraddizione insostenibile; è solo uno di quegli strani scherzi che la natura si diverte a combinare quando modella gli uomini. Il suo punto di vista in proposito è quello di Shakespeare; e, a parte lui, di tutti i classici.

La pulizia e la chiarezza del punto di vista di Emmanuel Carrère hanno come corollario una qualità che, per quanto negativa, non è meno rilevante: quella di non porsi mai falsi problemi.

Provo sempre una stretta al cuore quando vedo dei pensatori cristiani (o forse dei monaci cristiani, insomma, dei cristiani) porsi, con gravità e dolore, il “problema del male”. Quale problema del male? Se c’è un’entità che è di casa nel mondo, che ritroviamo senza sorpresa, la cui esistenza è tutt’altro che problematica, questa è proprio il male.

E mi procura sempre una leggera irritazione sentir elogiare la “profonda conoscenza della natura umana” manifestata da questo o quell’autore che non ha fatto altro, nel corso della sua lunga carriera, se non allineare una poco invitante schiera di personaggi egoisti e cinici. Se mai, a mio parere, un autore del genere ha solo manifestato una comprensione del cuore umano a dir poco superficiale. Esistono esseri umani, infatti, che in maniera consapevole e deliberata decidono di trattare costantemente gli altri con lealtà, onestà e buonafede; e che si conformano, fino alla morte, a questa massima. Altri ancora, senza esservi minimamente costretti, si adoperano coraggiosamente a prestare soccorso agli altri, e si sforzano di aiutare il prossimo come meglio possono, di alleviarne le sofferenze. Il bene esiste, esiste nel modo più assoluto, così come esiste il male. Ed è questa esistenza totalmente contraria a ogni legge naturale, questa esistenza controproducente dal punto di vista biologico, che costituisce davvero un problema. Ed è questo problema del bene, l’unico forse che abbia un valore, che Emmanuel Carrère si pone nelle più belle pagine dei suoi libri. Perché Étienne Rigal, giovane speranza del sindacato della magistratura, ha preferito all’assegnazione di una comoda poltrona ministeriale la nomina di magistrato di sorveglianza a Béthune? Perché ha deciso di offrire il suo aiuto a poveri alcolizzati e semidegenerati? Perché?

Riprendiamo l’argomento da una prospettiva un po’ diversa. Nei libri di Emmanuel Carrère, la questione della comunità umana, della possibilità di una comunità umana, mi sembra tornare in maniera molto insistente. Cioran nota concisamente che la fede in Dio “era una soluzione” e che di sicuro non se ne scoprirà mai una migliore. Tra gli immensi vantaggi della fede, ne individuo almeno tre. Il primo: le questioni cosmologiche sull’origine dell’universo, dello spazio, del tempo ecc. trovavano ipso facto soluzione. Il secondo: la morte era sconfitta (la propria e soprattutto quella altrui). Il terzo: si costituiva la possibilità di una comunità umana (li riconoscerete dal fatto che si amano tra loro ecc.). Di questi tre punti, mi è sempre parso che il terzo fosse quello che stava più a cuore a Emmanuel Carrère, quello che meglio spiegava la sua rinnovata fascinazione per il cristianesimo. La cui immagine più impressionante è senza dubbio rappresentata dalla straordinaria penultima pagina del Regno: quella in cui, danzando a fianco di Élodie, la ragazza down, nella comunità dell’Arca di Jean Vanier, l’autore, sopraffatto dalle lacrime, intravede davvero che cosa sia il Regno.

Sulla questione della comunità umana, io mi sento molto meno eloquente, e più contraddittorio. Estremamente sensibile all’emozione collettiva, non mi sono mai sentito tanto vicino alla fede come quando assistevo a una messa. Anche se non tutte le messe si equivalgono, se così posso dire, ed è quando la celebrazione si svolge in occasione di una sepoltura che l’ideale cristiano mi turba al massimo grado. L’ultima a cui ho partecipato era in onore di Bernard Maris. Emmanuel era lì, anche lui (ha parlato molto bene del nostro amico assassinato). E mi rammento del senso di certezza, di evidenza, che emanava dalle parole del sacerdote: no, la morte non esiste, non esiste nel modo più assoluto, non piangete, bambini, Cristo ha sconfitto la morte. Un senso di certezza che mi trasmette nervosismo, afflizione.

È possibile che la questione della comunità umana in generale m’interessi meno poiché riservo il mio interesse più appassionato alla ristretta comunità composta da un uomo e da una donna. Anche Emmanuel Carrère le riserva un grande interesse, l’amore occupa un posto ragguardevole nei nostri libri (lui insiste in maniera molto commovente sull’amore coniugale, e anche sulla sessualità coniugale). Ma alla questione della comunità umana in generale lui non ha mai rinunciato, mentre io, devo ammetterlo, sì; la parola “fraternità” m’ispira di primo acchito una certa diffidenza. Mi guardo bene dal vantarmene; mi limito a riconoscerlo. Riconosco le mie debolezze, anche se non intendo esagerarle; le mie credenze sono circoscritte, ma sono violente. Io credo alla possibilità di un regno ristretto. Io credo all’amore.

Si tratta certo di una promessa molto modesta, se paragonata a quella del Regno; di un amore molto circoscritto, se paragonato alla carità di cui parla san Paolo; anche se mi capita di pensare che forse può bastare. Non so che cosa ne pensi Emmanuel Carrère, non sono sicuro che lui stesso lo sappia; so solo che abbiamo il diritto di domandarglielo, io e tutti i suoi lettori (per quanto doloroso possa essere, gli scrittori si espongono a questo: i lettori hanno il diritto, l’assoluto diritto d’intimargli di esprimersi con chiarezza su come conviene vivere). Insomma, pur senza conoscere la risposta di Emmanuel Carrère, credo di averlo letto a sufficienza per sapere che apprezzerà il seguente passo, che prendo in prestito da Versilov (uno dei personaggi più enigmatici di Dostoevskij, in quanto stranamente privo d’isteria):

Intanto avrei stabilito quale obbligo assoluto per ogni persona intellettuale di rendere felice durante la sua vita almeno un essere vivente, in qualunque modo, purché si trattasse di una felicità reale, come pure avrei introdotto come legge l’obbligo, per ogni contadino, visto il disboscamento della Russia, di piantare anche solo un albero in tutta la sua vita.19

18 Emmanuel Carrère, Vite che non sono la mia, trad. di Federica Di Lella, Adelphi, 2019, p. 18. (N.d.T.)

19 Fëdor M. Dostoevskij, L’adolescente, III, 8, 1, trad. di M. Rakowska e L.G. Tenconi, Garzanti, 1981, p. 636. (N.d.T.)


VITE CHE NON SONO LA MIA

 La notte che precedette l’onda ricordo che io e Hélène abbiamo parlato di separarci. Non era complicato: non abitavamo sotto lo stesso tetto, non avevamo figli in comune, potevamo perfino immaginare di restare amici; però era triste. Era ancora vivo in noi il ricordo di un’altra notte, quando ci eravamo appena conosciuti, interamente passata a ripeterci che eravamo fatti l’uno per l’altro, che avremmo vissuto il resto della nostra vita insieme, che saremmo invecchiati insieme, e perfino che avremmo avuto una bambina. Poi una bambina l’abbiamo avuta, nel momento in cui scrivo speriamo ancora di invecchiare insieme e ci piace pensare che avevamo capito tutto fin dall’inizio. Ma da quell’inizio ci separava un anno complicato, caotico, e ciò che ci sembrava sicuro nell’autunno del 2003, nell’incanto del colpo di fulmine, ciò che ci sembra sicuro, o comunque desiderabile, cinque anni dopo, non ci sembrava più sicuro per niente, e neppure desiderabile, quella notte del Natale 2004, nel nostro bungalow dell’Hotel Eva Lanka. Anzi, eravamo sicuri che quella vacanza sarebbe stata l’ultima passata insieme e che, nonostante la nostra buona volontà, fosse stata un errore. Stesi fianco a fianco, non osavamo parlare della prima volta, di quella promessa a cui entrambi avevamo creduto con tanto ardore e che, ormai era chiaro, non sarebbe stata mantenuta. Non c’era ostilità tra noi, semplicemente ci guardavamo con rammarico allontanarci l’uno dall’altro: era un peccato. Io rimuginavo sulla mia incapacità di amare, tanto più palese in questo caso, con Hélène, che è così facile da amare. Pensavo che sarei invecchiato da solo. Hélène, dal canto suo, pensava ad altro: a sua sorella Juliette che, subito prima della nostra partenza, era stata ricoverata per un’embolia polmonare. Aveva paura che si ammalasse gravemente, paura che morisse. Obiettavo che era una paura irrazionale, ma in ogni caso quella paura ha pian piano preso il sopravvento sulla mente di Hélène e a me ha dato fastidio che si lasciasse assorbire tanto da qualcosa in cui io non avevo la minima parte. A un certo punto lei è andata a fumare una sigaretta sulla veranda del bungalow. Io l’ho aspettata sdraiato sul letto, dicendomi: Se torna presto, se facciamo l’amore, forse non ci separeremo, forse invecchieremo insieme. Ma non è tornata, è rimasta da sola lì fuori a guardare il cielo che si rischiarava a poco a poco, ad ascoltare i primi cinguettii degli uccelli, mentre io mi sono addormentato nella mia metà del letto, solo e triste, convinto che la mia vita sarebbe andata sempre peggio.

 

 

Ci eravamo iscritti tutti e quattro, Hélène e suo figlio, io e il mio, a un corso di immersione in un piccolo club del villaggio vicino. Ma dopo l’ultima lezione Jean-Baptiste aveva male a un orecchio e non voleva scendere sott’acqua, noi due eravamo stanchi per via della notte passata quasi in bianco, così abbiamo deciso di annullare. Rodrigue, l’unico che aveva veramente voglia di andarci, era deluso. Puoi benissimo fare il bagno in piscina, gli diceva Hélène. Lui era stufo di fare il bagno in piscina. Avrebbe voluto almeno che qualcuno lo accompagnasse alla spiaggia sotto l’albergo, dove non aveva il permesso di andare da solo perché c’erano delle correnti pericolose. Ma nessuno lo ha voluto accompagnare, né sua madre, né io, né Jean-Baptiste, che preferiva restare nel bungalow a leggere. Jean-Baptiste all’epoca aveva tredici anni, gli avevo più o meno imposto quella vacanza esotica in compagnia di una donna che conosceva poco e di un ragazzino molto più piccolo di lui; fin dall’inizio si annoiava e ce lo faceva capire standosene per conto suo. Quando, irritato, gli chiedevo se non era contento di essere lì, in Sri Lanka, rispondeva in malo modo che sì, era contento, ma che faceva troppo caldo e che tutto sommato stava meglio nel bungalow, a leggere o a giocare al Game Boy. Era il classico preadolescente, insomma, e io il classico padre di preadolescente, e mi sorprendevo a fargli, quasi parola per parola, le stesse ramanzine che alla sua età mi esasperavano tanto in bocca ai miei genitori: Dovresti uscire, essere curioso, valeva proprio la pena di portarti fin qui... Fiato sprecato. Si è rintanato nel suo antro, e Rodrigue, rimasto solo, ha cominciato ad annoiarsi e a tormentare Hélène, che cercava di sonnecchiare su una sdraio, sul bordo dell’immensa piscina di acqua di mare dove una tedesca anziana ma incredibilmente atletica, che assomigliava a Leni Riefenstahl, nuotava ogni mattina per due ore. Io intanto, senza smettere di autocommiserarmi per la mia incapacità di amare, sono andato a gironzolare nella zona degli ayurvedici, come avevamo soprannominato il gruppo degli svizzeri tedeschi che occupavano certi bungalow un po’ appartati e seguivano un seminario di yoga e di massaggi indiani tradizionali. A volte, quando non erano in seduta plenaria con il maestro, facevo qualche posizione con loro. Poi sono tornato alla piscina, avevano sparecchiato gli ultimi tavoli della colazione e cominciato a preparare per il pranzo, presto si sarebbe posto il drammatico problema di cosa fare nel pomeriggio. Tre giorni dopo il nostro arrivo avevamo già visitato il tempio nella foresta, dato da mangiare alle scimmiette, visto i Buddha distesi e insomma, a meno che non volessimo lanciarci in escursioni culturali più impegnative che non attiravano nessuno di noi, esaurito le risorse del posto. Oppure avremmo dovuto essere quel genere di persone capaci di andarsene in giro per giorni in un villaggio di pescatori, appassionandosi a tutto quello che fanno gli autoctoni, al mercato, alle tecniche di riparazione delle reti, a ogni minima usanza locale. Io non lo ero e mi rimproveravo di non esserlo, di non trasmettere ai miei figli quella curiosità generosa, quell’acutezza dello sguardo che ammiro per esempio in Nicolas Bouvier. Avevo portato con me Il pesce-scorpione, il romanzo in cui questo scrittore-viaggiatore racconta di un anno passato a Galle, un grosso borgo fortificato situato a una trentina di chilometri dal posto in cui ci trovavamo noi, sulla costa meridionale dell’isola. Non è un libro pervaso di stupore e ammirazione, come La polvere del mondo, il suo testo più noto, bensì una storia di sconfitta, di perdita, di lenta caduta nell’abisso. Ceylon è descritta come un sortilegio, nel senso crudele del termine, non nell’accezione usata dalle guide per avventurosi globe-trotter e sposini in luna di miele. Bouvier per poco non ci ha perso la ragione e il nostro soggiorno, che lo concepissimo come un viaggio di nozze o come un banco di prova per un’eventuale famiglia allargata, era un fiasco. Un fiasco tranquillo, però, senza drammi e senza rischi. Cominciavo a non vedere l’ora di tornare a casa. Mentre attraversavo la hall aperta ai lati, invasa dalle bougainvillee, ho incrociato un cliente dell’albergo che si lamentava perché non era riuscito a mandare un fax: era saltata la corrente. Alla reception gli avevano accennato a qualcosa che era successo in paese, un incidente che aveva causato il black-out, ma non aveva capito bene di cosa si trattasse, sperava solo che non sarebbe durato a lungo perché il fax era importante. Sono tornato da Hélène, che era sveglia e mi ha detto che stava accadendo qualcosa di strano.

 

 

L’immagine successiva è quella di un gruppetto di persone, clienti e dipendenti dell’albergo, accalcate in fondo al parco, su una terrazza a picco sull’oceano. A prima vista, stranamente, non noto nulla. Sembra tutto normale. Poi è come se mettessi a fuoco. Mi rendo conto che l’acqua è lontanissima. In genere, tra il limitare delle onde e la base della scogliera, la spiaggia è larga una ventina di metri. Ora invece si estende a perdita d’occhio, grigia, piatta, scintillante sotto il sole velato: sembra di essere al Mont-Saint-Michel con la bassa marea. Mi accorgo anche che è disseminata di oggetti di cui sul principio non riesco a valutare le dimensioni. Quel pezzo di legno contorto è un ramo caduto o un albero? Un albero molto alto? Quella barchetta sfasciata sarà davvero solo una barchetta? Non sarà addirittura una nave, un motopeschereccio sbalzato via e spaccato come un guscio di noce? Non si sente alcun rumore, neanche un alito di vento tra i ciuffi delle palme da cocco. Non ricordo le prime parole che mi sono arrivate alle orecchie una volta raggiunto il gruppo, ma a un certo punto qualcuno ha mormorato: Two hundred children died at school, in the village.

 

 

Costruito sulla scogliera a strapiombo sull’oceano, l’albergo è come avviluppato nell’esuberanza vegetale del suo parco. Per raggiungere la strada costiera bisogna varcare un cancello sorvegliato da un guardiano, poi scendere lungo una rampa di cemento. Ai piedi della rampa di solito sono parcheggiati dei tuk-tuk, motocarrozzette coperte da un telone e attrezzate con una panca su cui si può stare in due, stringendosi anche in tre, e che vengono utilizzate per gli spostamenti brevi, fino a dieci chilometri: per tragitti più lunghi è necessario prenotare un vero taxi. Oggi non c’è neanche un tuk-tuk. Io e Hélène siamo scesi fino alla strada sperando di capire che cosa sta succedendo. Qualcosa di grave, a quanto pare, ma eccetto l’uomo che ha parlato dei duecento bambini morti alla scuola del villaggio, e che qualcuno ha smentito obiettando che i bambini non potevano essere a scuola perché era Poya, la festa buddhista della luna piena, nessuno in albergo ha l’aria di saperne più di noi. Non ci sono tuk-tuk e neppure passanti. Di solito se ne vedono a tutte le ore: donne cariche di pacchi che camminano a gruppi di due o di tre, studenti con le camicie bianche perfettamente stirate, tutta un’umanità sorridente e sempre pronta ad attaccare discorso. Finché costeggia la collina che la protegge dall’oceano, la strada è normale. Non appena superiamo quel tratto e inizia la pianura, scopriamo che mentre da un lato tutto è rimasto immutato, alberi, fiori, muretti, bottegucce, dall’altro il paesaggio è completamente devastato, invischiato in un fango nerastro come una colata di lava. Dopo qualche minuto di cammino in direzione del villaggio ci viene incontro un tizio alto e biondo, stravolto, con i pantaloncini e la camicia strappati, sporco di fango e sangue. È olandese, stranamente è la prima cosa che dice, la seconda è che sua moglie è ferita. L’hanno soccorsa dei contadini, lui sta andando in cerca di aiuto, pensava di trovarlo al nostro albergo. Parla anche di un’onda immensa che si è infranta sulla costa e poi si è ritirata portandosi dietro case e persone. Sembra sotto shock, più stupito che sollevato di essere vivo. Hélène si offre di accompagnarlo in albergo: forse nel frattempo la linea telefonica è stata ripristinata e si può sperare che tra gli ospiti ci sia un medico. Io voglio proseguire ancora un po’ e dico che li raggiungerò presto. All’ingresso del villaggio, tre chilometri più avanti, regna un clima di angoscia e di confusione. Ovunque si formano e si disfano capannelli, si vedono camionette coperte da teloni che fanno manovra, si sentono grida, gemiti. Prendo la strada che scende verso la spiaggia, ma un poliziotto mi blocca. Gli chiedo che cosa è successo esattamente, risponde: The sea, the water, big water. È vero che ci sono dei morti? Yes, many people dead, very dangerous. You stay in hotel? Which hotel? Eva Lanka? Good, good, Eva Lanka, go back there, it is safe. Here, very dangerous. Il pericolo sembra passato, ma obbedisco lo stesso.

 

 

Hélène è arrabbiata con me perché me ne sono andato mollandole i ragazzi, quando avrebbe dovuto essere lei la prima a correre a caccia di notizie: è il suo lavoro. Durante la mia assenza ha ricevuto una telefonata da LCI, il canale all-news per cui scrive e conduce il telegiornale. In Europa è notte, il che spiega come mai gli altri clienti dell’albergo non siano ancora stati chiamati da parenti e amici in preda al panico, ma i giornalisti in servizio sanno già che nel Sudest asiatico c’è stata una catastrofe di enormi dimensioni, ben più grave dell’inondazione locale che avevo ipotizzato io in un primo momento. Sapendo che Hélène era in vacanza laggiù, speravano in una testimonianza a caldo, e lei invece non aveva granché da dirgli. E io, che ho da dire? Che cosa ho visto a Tangalle? Non molto, devo ammetterlo. Hélène alza le spalle. Io batto in ritirata nel nostro bungalow. Ero piuttosto eccitato, tornando dal paese, perché nel bel mezzo di questa vacanza monotona capitava qualcosa di straordinario, ma ora sono contrariato per questo screzio fra noi e per la consapevolezza di non essere stato all’altezza della situazione. Scontento di me, mi immergo di nuovo nella lettura del Pesce-scorpione. Tra una descrizione di insetti e l’altra, una frase mi colpisce: «Quel mattino avrei voluto che una mano estranea mi chiudesse le palpebre. Non c’era nessuno, quindi me le chiusi da solo».

 

 

Jean-Baptiste viene a cercarmi nel bungalow, sconvolto. È appena arrivata in albergo la coppia di francesi che abbiamo conosciuto due giorni prima. La loro bambina è morta. Mio figlio ha bisogno di me per affrontare la cosa. Camminando con lui lungo il vialetto che conduce all’edificio principale, ripenso a quando ci siamo incontrati in uno di quei ristoranti allestiti nei tucul sulla spiaggia, proprio dove il poliziotto mi ha impedito di andare. Erano seduti al tavolo vicino al nostro. Tutti e due sulla trentina, lui qualche anno in più, lei qualcuno in meno. Entrambi belli, allegri, socievoli, visibilmente molto innamorati l’uno dell’altro e della loro figlioletta di quattro anni. La bambina è venuta a giocare con Rodrigue e così ci siamo messi a chiacchierare. Al contrario di noi, conoscevano benissimo il villaggio, non alloggiavano in albergo, ma in una casetta che il padre di lei prendeva in affitto per tutto l’anno lì sulla spiaggia, a duecento metri dal ristorante. Erano il genere di persone che fa piacere incontrare all’estero, e ci siamo separati con la certezza di rivederci. Senza fissare un appuntamento: ci saremmo sicuramente incrociati al villaggio o sulla spiaggia.

Hélène è al bar con loro e con un uomo più anziano che i riccioli grigi e il viso da uccello fanno assomigliare all’attore Pierre Richard. L’altro giorno non ci siamo detti i nostri nomi, Hélène fa le presentazioni. Jérôme. Delphine. Philippe. Philippe è il padre di Delphine, quello che prende in affitto la casa sulla spiaggia. E la bambina che è morta si chiamava Juliette. Hélène lo dice con voce neutra, Jérôme annuisce per confermare. Il suo viso e quello di Delphine restano senza espressione. Chiedo: Ne siete sicuri? Jérôme risponde di sì, vengono dall’ospedale del paese, dove sono andati a riconoscere il corpo. Delphine guarda davanti a sé, non sono certo che ci veda. Siamo seduti tutti e sette, loro tre e noi quattro, su poltrone e panche di tek con cuscini di colori vivaci, sul tavolino davanti a noi ci sono succhi di frutta e tè, un cameriere passa a chiedere cosa desideriamo io e Jean-Baptiste, e noi ordiniamo meccanicamente, poi scende di nuovo il silenzio. Dura un po’, finché a un tratto Philippe si mette a parlare. Non si rivolge a nessuno in particolare. Ha una voce acuta, spezzata, che fa pensare a un meccanismo rotto. Nel corso delle ore seguenti ripeterà più volte, quasi con le stesse parole, questo racconto.

 

 

Quella mattina, subito dopo colazione, Jérôme e Delphine sono andati al mercato, e lui è rimasto a casa per badare a Juliette e Osandi, la figlia del padrone della guesthouse. Stava leggendo il giornale locale seduto sulla poltrona di vimini nella veranda del bungalow, di tanto in tanto alzava gli occhi per controllare le due bambine che giocavano in riva al mare. Saltellavano ridendo tra le piccole onde. Juliette parlava francese, Osandi srilankese, ma si capivano benissimo lo stesso. Alcune cornacchie si contendevano gracchiando le briciole della colazione. Tutto era calmo, si preannunciava una bella giornata, Philippe ha pensato che magari nel pomeriggio sarebbe andato a pesca con Jérôme. A un certo punto si è reso conto che le cornacchie erano scomparse, che non si sentivano più versi di uccelli. È stato allora che è arrivata l’onda. Il mare, che un attimo prima era una tavola, un attimo dopo era un muro alto quanto un grattacielo e stava per crollargli addosso. Per una frazione di secondo ha pensato che sarebbe morto e che non avrebbe avuto il tempo di soffrire. È stato sommerso, travolto e trascinato nell’immenso ventre dell’onda per un tempo che gli è sembrato interminabile, poi è riemerso sulla cresta. È passato come un surfista sopra le case, sopra gli alberi, sopra la strada. Dopodiché l’onda è ripartita in senso opposto, risucchiandolo verso il largo. Si è accorto che stava sfrecciando rapidissimo contro muri semidistrutti su cui si sarebbe sfracellato e d’istinto si è aggrappato a una palma da cocco, che poi ha mollato, quindi a un’altra, che pure avrebbe mollato se qualcosa di duro, un pezzo di staccionata, non lo avesse bloccato e tenuto fermo contro il tronco. Attorno a lui sfilavano a tutta velocità mobili, animali, persone, travi, blocchi di calcestruzzo. Ha chiuso gli occhi, aspettandosi di essere maciullato da uno di quegli enormi relitti, e li ha tenuti chiusi finché non si è calmato l’agghiacciante muggito della corrente e hanno cominciato a riemergere altri suoni, grida di uomini e donne feriti, e allora ha realizzato che il mondo non era finito, che lui era ancora vivo, che adesso iniziava il vero incubo. Ha aperto gli occhi e si è lasciato scivolare lungo il tronco fino alla superficie dell’acqua, che era completamente nera, opaca. La corrente era ancora forte ma si poteva resisterle. Gli è passato davanti il corpo di una donna con la faccia nell’acqua, le braccia a croce. Tra le macerie i sopravvissuti cominciavano a chiamarsi l’un l’altro, i feriti gemevano. Philippe era indeciso: meglio andare verso la spiaggia o verso il paese? Juliette e Osandi erano morte, di questo era certo. Doveva trovare Jérôme e Delphine e dirglielo. Era questo il suo compito, ormai, nella vita. L’acqua gli arrivava al petto, era in costume da bagno, imbrattato di sangue, ma non sapeva esattamente dove fosse ferito. Avrebbe preferito restare lì immobile, aspettare l’arrivo dei soccorsi, e tuttavia si è sforzato di mettersi in marcia. Sotto i suoi piedi nudi il suolo era irregolare, molle, instabile, tappezzato da un magma di oggetti taglienti che non riusciva a distinguere e con cui aveva una tremenda paura di ferirsi. Tastava il terreno prima di ogni passo, avanzava lentamente. A cento metri da casa sua non riconosceva niente: non c’era più né un muro, né un albero. Di tanto in tanto dei visi familiari, quelli dei vicini che annaspavano come lui, neri di fango, rossi di sangue, con gli occhi spalancati dall’orrore, e che come lui cercavano i loro cari. Non si sentiva quasi più il rumore di risucchio dell’acqua che rifluiva, sempre più forti invece le grida, i pianti, i rantoli. Alla fine Philippe ha raggiunto la strada e, un po’ più su, il punto in cui l’onda si era fermata. Era strano, quel confine segnato in modo così netto: al di qua il caos, al di là il mondo normale, assolutamente intatto, con le casette di mattoni rosa o verde chiaro, i vialetti di laterite rossa, le bottegucce, i motorini, le persone vestite, indaffarate, vive, che cominciavano appena a prendere coscienza del fatto che era successo qualcosa di inaudito e spaventoso, ma non sapevano ancora esattamente cosa. Gli zombie che, come Philippe, tornavano a calpestare la terra dei vivi non potevano far altro che farfugliare la parola «onda», e questa parola riecheggiava nel villaggio come probabilmente l’11 settembre 2001 a Manhattan è riecheggiata la parola «aereo». Ondate di panico spingevano le persone nelle due direzioni opposte: verso il mare, per vedere che cosa era successo e soccorrere quelli che potevano essere soccorsi; lontano dal mare, il più lontano possibile, per mettersi in salvo nel caso in cui l’incubo fosse ricominciato. In mezzo al trambusto e alle grida Philippe ha risalito la via principale fino al mercato, dove era l’ora di massima affluenza e, convinto che avrebbe dovuto cercarli a lungo, ha invece subito avvistato Delphine e Jérôme sotto la torre dell’orologio. Avevano appena saputo della catastrofe, ma le voci erano così confuse che Jérôme, in quel momento, credeva che un cecchino impazzito avesse aperto il fuoco da qualche parte a Tangalle. Philippe gli è andato incontro, sapendo che quelli sarebbero stati per loro gli ultimi istanti di felicità. Jérôme e Delphine lo hanno visto avvicinarsi, arrivargli davanti, sporco di fango e sangue, con il viso disfatto, e a questo punto del racconto Philippe si interrompe. Non riesce a continuare. La bocca resta aperta, ma non riesce a pronunciare di nuovo le tre parole che deve aver pronunciato in quel momento.

 

 

Delphine ha urlato, Jérôme no. Ha preso Delphine fra le braccia, l’ha stretta a sé più forte che poteva mentre lei urlava, urlava, urlava, e a partire da quel momento ha messo a punto il suo programma: Non posso più fare niente per mia figlia, quindi penserò a salvare mia moglie. Non ho assistito a questa scena, che racconto sulla base di quanto ci ha detto Philippe, ma ho assistito al seguito e ho visto il programma in azione. Jérôme non ha perso tempo a sperare ancora. Philippe non era solo suo suocero ma un suo amico, un amico di cui si fidava totalmente, ha capito subito che, per quanto scosso e smarrito potesse essere, se aveva pronunciato quelle tre parole, significava che era vero. Delphine invece voleva credere che si sbagliasse. Lui si era salvato, forse anche Juliette. Philippe scuoteva la testa: Non è possibile, Juliette e Osandi erano proprio in riva al mare, non c’è nessuna speranza. Nessuna. L’hanno ritrovata all’ospedale, fra le decine, se non già centinaia di cadaveri che l’oceano aveva restituito e che per mancanza di spazio venivano adagiati direttamente a terra. C’erano anche Osandi e suo padre.

 

 

L’albergo, nel corso del pomeriggio, si trasforma nella zattera della Medusa. I turisti coinvolti nella catastrofe arrivano seminudi, spesso feriti e sotto shock, gli è stato detto che qui saranno al sicuro. Corre voce che potrebbe esserci un’altra onda. La gente del posto si rifugia oltre la strada costiera, il più lontano possibile dall’acqua, e gli stranieri nel punto più elevato, cioè da noi. Le linee telefoniche sono interrotte, ma a fine giornata cominciano a squillare i cellulari dei clienti dell’albergo: parenti e amici che hanno appena saputo la notizia e chiamano in preda all’ansia. Li rassicuriamo il più rapidamente possibile per non consumare le batterie. La sera la direzione dell’albergo mette in funzione per qualche ora un gruppo elettrogeno che permette di ricaricarle e di seguire i notiziari in televisione. In fondo al bar c’è uno schermo gigante che di solito serve a guardare le partite di calcio, perché i proprietari sono italiani, come pure gran parte della clientela. Tutti quanti, ospiti, personale, superstiti, si radunano davanti alla CNN e solo a quel punto si rendono conto delle reali proporzioni della catastrofe. Le immagini provengono da Sumatra, dalla Thailandia, dalle Maldive: sono stati colpiti tutto il Sudest asiatico e l’Oceano Indiano. Vengono trasmessi a ripetizione brevi filmati amatoriali in cui si vedono, ripresi da una certa distanza, l’arrivo dell’onda e i fiumi di fango che penetrano nelle case, travolgendo ogni cosa. Ormai tutti parlano di tsunami come se conoscessero questa parola da sempre.

 

 

Ceniamo con Delphine, Jérôme e Philippe, li rivedremo l’indomani a colazione, poi a pranzo, poi di nuovo a cena, staremo insieme fino al giorno della partenza per Parigi. Non hanno l’atteggiamento di chi, annichilito dal dolore, si mostra indifferente a tutto, incapace di muovere un dito. Vogliono portare via con loro il corpo di Juliette e, fin dalla prima sera, il terrificante senso di vuoto dovuto alla sua assenza è tenuto a bada dalle questioni pratiche. Jérôme vi si butta a capofitto, è il suo modo per restare in vita, per tenere in vita Delphine, e Hélène gli dà man forte cercando di mettersi in contatto con la loro compagnia di assicurazioni per organizzare il rimpatrio loro e della salma. Naturalmente non è facile: i cellulari funzionano male, c’è la distanza, la differenza di fuso orario, tutti i centralini sono intasati, la mettono in attesa costringendola ad ascoltare per minuti preziosi, nel corso dei quali le batterie si scaricano, musichette rassicuranti o voci registrate, e quando alla fine riesce a beccare un essere umano questo trasferisce la chiamata a un altro operatore e riparte la musica, oppure si interrompe la comunicazione. Contrattempi del genere, del tutto ordinari, e che nella vita ordinaria sono solo seccanti, in queste circostanze straordinarie risultano insieme mostruosi e provvidenziali perché frammentano i compiti da svolgere, danno una forma al passare del tempo. C’è qualcosa da fare, Jérôme lo fa, Hélène lo aiuta, è semplice. Intanto Jérôme guarda Delphine. Delphine guarda nel vuoto. Non piange, non grida. Mangia pochissimo, ma un po’ sì. Le trema la mano e tuttavia riesce a portarsi alle labbra una forchettata di riso al curry. A infilarla in bocca. A masticarla. A riabbassare la mano con la forchetta. A ripetere il gesto. Io guardo Hélène e mi sento impacciato, impotente, inutile. Mi dà quasi fastidio vederla darsi tanto da fare e non preoccuparsi minimamente di me: è come se non esistessi più.

 

 

Più tardi siamo sdraiati sul letto, l’uno accanto all’altro. Con la punta delle dita sfioro la punta delle sue, che non reagiscono. Vorrei stringerla tra le braccia ma so che non è possibile. So a che cosa sta pensando, è impossibile pensare ad altro. A poche decine di metri da noi, in un altro bungalow, probabilmente anche Jérôme e Delphine se ne stanno sdraiati a occhi aperti. Lui la starà stringendo tra le braccia o non è possibile neanche per loro? È la prima notte. La notte dopo il giorno in cui la loro bambina è morta. Stamattina era viva, si è svegliata, è andata a giocare nel loro letto, li chiamava papà e mamma, rideva, era calda, era quanto di più bello e più caldo e più dolce ci fosse al mondo, e ora è morta. Sarà per sempre morta.

Fin dal giorno del nostro arrivo andavo dicendo che l’Hotel Eva Lanka non mi piaceva, avevo proposto di trasferirci in una delle piccole guesthouses sulla spiaggia, molto meno confortevoli ma che mi ricordavano i miei viaggi avventurosi di venticinque, trent’anni prima. Non dicevo sul serio: nel descrivere quei posti meravigliosi, insistevo volutamente sull’assenza di elettricità, le zanzariere bucate, i ragni velenosi che ti cadono in testa; Hélène e i ragazzi protestavano orripilati, mi prendevano in giro per queste mie nostalgie da vecchio fricchettone, era diventato un siparietto quotidiano. Le guesthouses sulla spiaggia sono state spazzate via dall’onda, e con loro la maggior parte di quelli che ci abitavano. Penso: Avremmo potuto esserci anche noi tra loro. Jean-Baptiste e Rodrigue avrebbero potuto decidere di scendere alla spiaggia sotto l’albergo. Tutti e quattro avremmo potuto, com’era in programma, uscire in mare con l’istruttore di immersioni subacquee. E, dal canto loro, Delphine e Jérôme probabilmente pensano: Avremmo potuto portare Juliette con noi al mercato. Se l’avessimo fatto domani mattina verrebbe ancora a infilarsi nel nostro letto. Il mondo attorno sarebbe in lutto, ma noi stringeremmo la nostra bambina tra le braccia e ci diremmo: Grazie a Dio lei è qui, questa è l’unica cosa che conta. La mattina del secondo giorno Jérôme dice: Vado da Juliette. Come se volesse assicurarsi che si stiano davvero prendendo cura di lei. D’accordo, dice Delphine. Lui esce con Philippe. Hélène presta un costume da bagno a Delphine, che nuota a lungo, lentamente, con la testa ben dritta e lo sguardo assente. Attorno alla piscina ora ci sono tre o quattro famiglie di turisti coinvolti nella catastrofe, ma hanno perso soltanto i loro averi e, davanti a Delphine, non osano lamentarsi troppo dei patimenti che hanno dovuto sopportare. Gli svizzeri tedeschi continuano il loro seminario ayurvedico in tutta tranquillità, come se non si accorgessero affatto di quello che sta succedendo intorno a loro. Verso mezzogiorno Philippe e Jérôme tornano stravolti: Juliette non è più all’ospedale di Tangalle, l’hanno trasferita altrove, chi dice a Matara, chi a Colombo. Ci sono troppi cadaveri, alcuni li bruciano, altri li evacuano, cominciano a circolare voci di un’epidemia. La sola cosa che hanno potuto fare per Jérôme è stata dargli un pezzo di carta su cui hanno scarabocchiato poche parole, che un impiegato dell’albergo gli traduce con aria dispiaciuta e imbarazzata. È una specie di ricevuta, che dice solo: «Bambina bianca, bionda, con un vestito rosso».


 


 


Anche io e Hélène andiamo a Tangalle. Il conducente del tuk-tuk è loquace: Many people dead, ma sua moglie e i suoi figli, grazie a Dio, sono illesi. Quando ci avviciniamo all’ospedale ci assale l’odore. Pur non avendolo mai sentito, lo riconosciamo. Dead bodies, many dead bodies, dice il conducente portandosi un fazzoletto al naso e suggerendoci di fare lo stesso. Nel cortile alcuni uomini, di cui solo pochi in camice da infermiere – gli altri, vestiti normalmente, probabilmente sono dei volontari –, trasportano su barelle cadaveri che poi infilano, gli uni sugli altri, nel retro di un camion coperto da un telone. Li porteranno via, ne arriveranno altri. Entriamo, al pianterreno, in una grande sala che assomiglia più a un mercato del pesce che all’atrio di un ospedale. Il pavimento di cemento è umido, scivoloso, ogni tanto ci versano dell’acqua perché l’ambiente conservi una parvenza di pulizia. I corpi sono disposti in file, ne conto una quarantina. Sono lì da ieri, molti sono gonfi a causa della permanenza in acqua. Non ci sono occidentali, forse, come Juliette, sono stati evacuati per primi. Hanno la pelle grigia più che scura. Non avevo ancora mai visto un morto, mi sembra strano che mi sia stato risparmiato fino a quarantasette anni. Con un lembo di stoffa premuto sul naso perlustriamo le corsie, saliamo al primo piano. Non c’è nessun controllo, è difficile distinguere i visitatori dal personale dell’ospedale, non ci sono porte chiuse, ovunque giacciono cadaveri, grigiastri e tumefatti. Penso alle voci sulla possibile epidemia, all’olandese che in albergo sosteneva con autorevolezza che se tutti quei cadaveri non fossero stati bruciati immediatamente sarebbe stato impossibile evitare una catastrofe sanitaria: avrebbero contaminato l’acqua dei pozzi e i topi avrebbero diffuso il colera nei villaggi. Ho paura di respirare con la bocca, ma anche con il naso, come se quell’odore atroce potesse contagiarmi. Mi chiedo che siamo venuti a fare qui. A vedere. Solo a vedere. Hélène è l’unica giornalista presente sul posto, ha già dettato un articolo ieri sera, un altro stamattina, si è portata dietro la macchina fotografica, ma non ha il coraggio di tirarla fuori. Interpella un medico visibilmente sfinito, gli fa qualche domanda in inglese. Lui risponde, ma non lo capiamo bene. Quando ci ritroviamo fuori, il camion carico di cadaveri è andato via. Al di là del cancello, sul ciglio della strada, c’è uno spiazzo di erba secca e pungente ombreggiato da un baniano immenso, e ai piedi di questo baniano una decina di persone. Dei bianchi con i vestiti a brandelli e il corpo ricoperto di ferite superficiali, che non si sono preoccupati di medicare. Ci avviciniamo, e fanno cerchio intorno a noi. Hanno tutti perso qualcuno, la moglie, il marito, il figlio, l’amico, ma al contrario di Delphine e Jérôme non lo hanno visto morto e non vogliono perdere le speranze. La prima che ci racconta la sua storia si chiama Ruth. Scozzese, capelli rossi, sui venticinque anni. Alloggiava con Tom in un bungalow sulla spiaggia, si erano appena sposati, erano in viaggio di nozze. Stavano a dieci metri l’uno dall’altro quando è arrivata l’onda. Ruth è stata travolta, si è salvata nello stesso modo di Philippe e da allora cerca Tom. L’ha cercato dappertutto: sulla spiaggia, tra le macerie, in paese, al posto di polizia, poi quando ha capito che tutti i corpi arrivano all’ospedale non si è più mossa di qui. È entrata più volte a ispezionare le corsie, ha esaminato i nuovi cadaveri scaricati dai camion e quelli caricati su altri camion diretti alle pire, non ha né dormito né mangiato, i dipendenti dell’ospedale le hanno detto di andare a riposarsi, hanno promesso di avvertirla se ci fossero state notizie, ma lei non vuole allontanarsi, vuole restare qui con gli altri, e gli altri ci restano per le sue stesse ragioni. Intuiscono che ormai possono arrivare solo brutte notizie. Ma vogliono essere presenti quando il corpo del loro caro o della loro cara verrà scaricato dal camion. Siccome è qui da ieri sera, Ruth è ben informata su quello che succede: conferma che i cadaveri dei bianchi, se arrivano all’ospedale, vengono rapidamente trasferiti a Matara, dove c’è più spazio e, a quanto pare, una camera mortuaria. I corpi della gente del posto, invece, restano lì in attesa che le famiglie li reclamino, ma spesso, soprattutto nel caso dei pescatori che avevano la casa proprio in riva all’oceano, le famiglie sono state interamente sterminate e non c’è più nessuno che possa andare a cercarli, allora li bruciano. Tutto ciò viene fatto in modo caotico, alla meno peggio. Dal momento che l’elettricità, le linee telefoniche e le strade sono interrotte, dall’esterno non può arrivare il minimo aiuto. Ma poi che significa dall’esterno, quando il dramma riguarda tutta l’isola? Nessuno ne è uscito indenne, ciascuno si occupa dei propri morti. Così dice Ruth, anche se si rende perfettamente conto che io e Hélène ne siamo usciti indenni. Siamo illesi, siamo insieme, abbiamo vestiti puliti, non cerchiamo nessuno in particolare. Dopo questa visita all’inferno torneremo nel nostro albergo, dove ci verrà servito il pranzo. Faremo il bagno in piscina, daremo un bacio ai nostri figli pensando che l’abbiamo scampata per un pelo. Il senso di colpa non serve a niente, lo so, è solo uno spreco di tempo e di energia, ciò non toglie che mi tormenti e non vedo l’ora che questa storia sia finita. Hélène, invece, non si cura delle sue emozioni. Si dedica anima e corpo a fare quello che può – per quanto irrilevante sia, bisogna farlo lo stesso. È attenta, precisa, fa domande, pensa a tutto quello che può essere utile. Ha portato con sé i contanti che abbiamo e li distribuisce a Ruth e agli altri. Annota il nome di ognuno, seguito dal nome e dalla descrizione sommaria dei dispersi: domani tenterà di andare a Matara, li cercherà lì. Si segna i numeri di telefono dei parenti, in Europa o in America, per chiamarli e dire: Ho visto Ruth, è viva, ho visto Peter, è vivo. Si offre di accompagnare in albergo chi vuole andarci, basta che restino una o due persone di guardia, gli altri potranno mangiare, lavarsi, farsi medicare, dormire un po’, telefonare, poi torneranno a dare il cambio. Ma nessuno accetta di venire con noi.


 


 


Dei bianchi che stavano in attesa sotto il baniano, davanti all’ospedale, ricordo soprattutto Ruth, perché è la persona con cui abbiamo parlato di più e perché l’abbiamo rivista in seguito, ma mi torna in mente anche un’inglese di mezz’età, corpulenta, con i capelli corti, che aveva perso la sua compagna – my girlfriend, diceva lei, e immagino questa coppia di lesbiche attempate, residenti in una cittadina inglese, attive in qualche associazione, la loro casetta arredata con amore, i viaggi ogni anno in paesi lontani, gli album di fotografie, tutto andato in frantumi. Il ritorno della sopravvissuta, la casa vuota. Le tazze con i loro nomi, e una non servirà mai più, e questa donna imponente seduta al tavolo della cucina si prende la testa fra le mani e piange e si dice che adesso è sola e resterà sola fino alla morte. Per mesi, dopo che siamo tornati a casa, Hélène è stata ossessionata dall’idea di riprendere i contatti con quelle persone, di sapere che fine avessero fatto, se qualcuno di loro avesse ricevuto il miracolo. Ma, per quanto abbia cercato nei bagagli, non è mai riuscita a scovare il foglio su cui aveva annotato ogni cosa, e ci siamo dovuti rassegnare a non saperne più niente. L’immagine che conservo della mezz’ora passata con loro è una scena da film dell’orrore. Ci siamo noi, puliti e in ordine, incolumi, e attorno a noi la cerchia dei lebbrosi, dei radioattivi, dei naufraghi tornati allo stato selvaggio. Solo il giorno prima erano come noi, noi eravamo come loro, ma a loro è capitato qualcosa che a noi non è capitato, e adesso apparteniamo a due umanità separate.


La sera Philippe racconta la sua storia d’amore con Ceylon, dove è andato per la prima volta più di vent’anni addietro. Informatico nella periferia di Parigi, sognava di terre lontane, e aveva un collega srilankese che è diventato suo amico e li ha invitati tutti e tre da lui: Philippe, la sua moglie di allora e Delphine, che era ancora una bambina. Era il loro primo viaggio importante in famiglia e gli è piaciuta ogni cosa: il fermento delle città, la frescura delle montagne, l’indolenza dei villaggi in riva all’oceano, le risaie a terrazza, il verso dei gechi, i tetti di tegole scanalate, i templi nelle foreste, la luminosità delle albe e dei sorrisi, i piatti di riso al curry mangiati con le mani. Philippe ha pensato: Questa sì che è vita, è qui che vorrei vivere un giorno. Quel giorno era ancora lontano: il collega srilankese si è trasferito in Australia, per un po’ si sono scritti, poi si sono persi di vista, il legame con l’isola magica era spezzato. Philippe ne aveva abbastanza di fare il pendolare, era un intenditore di vini e all’epoca un informatico non aveva difficoltà a trovare un lavoro ben retribuito ovunque volesse, così è andato a vivere nei pressi di Saint-Émilion. In poco tempo si è creato una discreta clientela: grandi viticoltori, centrali d’acquisto di cui modernizzava e controllava i sistemi di gestione. Sua moglie ha aperto un negozio che, contrariamente a quanto ci si sarebbe aspettati in una zona ritenuta poco accogliente verso i nuovi arrivati, ha fatto affari d’oro. Ormai vivevano in campagna, in una bella casa circondata dai vigneti, guadagnavano bene facendo un lavoro che gli piaceva, la loro era una riconversione riuscita. In seguito ha conosciuto Isabelle e divorziato senza drammi. Delphine è cresciuta, bella e brava. Non aveva ancora compiuto quindici anni quando ha visto Jérôme per la prima volta e deciso che sarebbe stato l’uomo della sua vita. Lui ne aveva ventuno, era un bel ragazzone, rampollo di una famiglia di ricchi grossisti di vini. In quell’ambiente non si scherza con le disparità economiche ma, quando con il passare degli anni le fantasie adolescenziali della ragazza si sono trasformate in un legame serio e condiviso, Jérôme è riuscito a resistere alle pressioni dei suoi, mostrando la pacata fermezza del proprio carattere: amava Delphine, aveva scelto Delphine, non gli avrebbero mai fatto cambiare idea. Philippe stravedeva per la figlia, c’erano tutte le ragioni di temere che nessun pretendente avrebbe incontrato il suo favore, e invece tra genero e suocero è scoccato un altro colpo di fulmine, di natura amichevole stavolta. Nonostante i vent’anni di differenza, hanno scoperto di avere gli stessi gusti – i grandi bordeaux e i Rolling Stones, Pierre Desproges e la pesca sportiva, e, come ciliegina sulla torta, Delphine –, e dopo un po’ hanno cominciato a comportarsi come vecchi amici. Gli sposini hanno trovato casa in un paese a una decina di chilometri da quello in cui abitavano Isabelle e Philippe. Le due coppie sono diventate inseparabili. Cenavano tutti e quattro insieme a casa ora degli uni ora degli altri, a turno Philippe e Jérôme tiravano fuori una bottiglia da degustare alla cieca, durante la cena parlavano di colore, bouquet e archetti, al dolce accendevano uno spinello di erba del giardino, mettevano su Angie o Satisfaction, si volevano bene, erano felici. Philippe, sotto la pergola, ricominciava a parlare dello Sri Lanka. Erano già passati otto anni, ne aveva nostalgia e anche Delphine. Una sera d’autunno, subito dopo la vendemmia, stavano cenando all’aperto, avevano bevuto uno Château-Magdelaine del 1967, l’anno di nascita di Jérôme, e stavano progettando di andarci in vacanza tutti e quattro insieme, quando Isabelle ha lanciato l’idea: perché, prima, non andavano i due mariti da soli a fare un piccolo sopralluogo?


Per i due mariti quelle cinque settimane di piccolo sopralluogo srilankese sono un ricordo magico. Zaino in spalla e Guida Routard in tasca, sono andati in giro senza una meta precisa, a seconda di dove li portavano i pullman, i tuk-tuk, le feste di paese, gli incontri occasionali o l’ispirazione del momento. Philippe era orgoglioso di mostrare al genero la sua isola, e un po’ scocciato ma in fin dei conti orgoglioso anche del fatto che il genero, dopo qualche giorno, se la cavasse perfino meglio di lui. Con il suo fisico robusto, la sua pacatezza, la sua bonaria ironia, Jérôme dev’essere il compagno di viaggio ideale: adattabile, paziente, mai impreparato di fronte agli eventi, sempre pronto ad accogliere i contrattempi come occasioni, gli sconosciuti come possibili amici. Più minuto, più nervoso, più loquace, Philippe turbinava attorno a quella forza tranquilla come il suo quasi sosia Pierre Richard attorno a Gérard Depardieu in Les compères e nella Capra. Probabilmente li divertiva, durante le chiacchierate con gli altri viaggiatori sulle verande delle guesthouses, lasciare tutti di stucco rivelando di essere genero e suocero.


Sono scesi verso sud. La strada costiera tra Colombo e Tangalle, che noi abbiamo percorso in taxi in mezza giornata, loro l’hanno suddivisa pigramente in tappe, e più serpeggiava languida allontanandosi dalla capitale, più la vita sembrava dilatarsi, paradisiaca, atemporale, fra la risacca e le palme da cocco. L’ultima vera città su quella costa è Galle, la fortezza portoghese dove, quarant’anni prima, Nicolas Bouvier era approdato da solo e aveva vissuto una lunga stagione all’inferno in compagnia di termiti e fantasmi. Philippe e Jérôme non avevano la minima affinità con l’inferno, per cui hanno tirato dritto fischiettando. Dopo Galle c’è soltanto qualche piccolo villaggio di pescatori: Weligama, Matara, Tangalle e, appena fuori da Tangalle, il sobborgo di Medaketiya. Una manciata di case di mattoni verdi o rosa, corrose dagli spruzzi di acqua di mare, una giungla di palme da cocco, banani e manghi, i cui frutti ti cadono direttamente nel piatto. Sulla spiaggia di sabbia bianca, piroghe a bilanciere di colori vivaci, reti, capanne. Zero alberghi, ma alcune di queste capanne sono adibite a guesthouse e il tizio che le gestisce si chiama M.H. O meglio, ha uno di quei nomi srilankesi di almeno dodici sillabe necessari perché un uomo abbia un minimo di consistenza nel mondo e, per facilitare la vita agli stranieri, si fa chiamare M.H., pronunciato all’inglese: emeic. Medaketiya e la guesthouse di M.H. erano il sogno di tutti i globe-trotter della terra. La spiaggia. La meta raggiunta, il posto in cui finalmente ti fermi. Abitanti affabili, semplici, corretti. Pochi turisti, e tutti come loro: autonomi, tranquilli, gelosi della loro privacy. Philippe e Jérôme sono rimasti lì tre giorni a fare bagni, a mangiare la sera il pesce pescato la mattina, a bere birra e a fumare spinelli, congratulandosi a vicenda per il buon esito del sopralluogo: il paradiso in terra esisteva, lo avevano trovato, ora dovevano solo portarci le loro mogli. Quando, al momento di partire, hanno annunciato a M.H. che sarebbero tornati presto, quest’ultimo ha risposto cortesemente con l’equivalente srilankese di Inshallah, ma l’anno seguente sono davvero tornati tutti e quattro, e anche l’anno dopo, e quelli dopo ancora. A poco a poco hanno riorganizzato le loro vite fra Saint-Émilion e Medaketiya. Soprattutto Philippe: gli altri avevano più impegni e potevano andarci solo durante le vacanze, lui invece passava lì tre o quattro mesi all’anno. Sempre nella casa di M.H., che a poco a poco è diventato un amico e una volta è perfino andato a trovarli nella Gironda: il viaggio non è stato un gran successo, M.H. lontano dalla sua terra si sentiva a disagio, non si è convertito ai pregiati vini bordolesi, pazienza. Dalla guesthouse Philippe si è trasferito in un altro bungalow che M.H. gli affittava per tutto l’anno, lui e Isabelle lo hanno arredato come volevano ed è diventato veramente casa loro. A Medaketiya avevano un posto dove stare, a Medaketiya avevano degli amici. Laggiù tutti li conoscevano e li amavano. Quando è nata Juliette, ce l’hanno portata ancora in fasce. M.H. aveva avuto in età avanzata, oltre ai figli già grandi, una bambina che aveva chiamato Osandi, e Osandi, che aveva tre anni più di Juliette, ha presto imparato a occuparsi di lei: era sua sorella.


Una cosa che piaceva moltissimo a Philippe era partire un mese prima del resto del gruppo e passare quel periodo da solo a Medaketiya, sapendo che presto gli altri lo avrebbero raggiunto. Si godeva al tempo stesso la solitudine e la fortuna di avere una famiglia: una moglie con cui formava una bella coppia, una figlia meravigliosa, talmente meravigliosa da essere riuscita, nel trovarsi un marito, a trovargli un amico, il suo migliore amico per la precisione, e una nipotina che assomigliava alla madre alla sua età, il che è tutto dire. Era davvero una bella vita, la sua. Aveva avuto il coraggio di rischiare quando gli era sembrato necessario – di trasferirsi a Saint-Émilion, cambiare lavoro, divorziare –, senza per questo inseguire vane chimere o provocare troppa sofferenza attorno a sé, e ora non aspirava a conquistare più niente, solo a gustarsi quello che aveva già conquistato: la felicità. Altra caratteristica che lo accomunava a Jérôme e che è rara in un giovane della sua età: quello sguardo leggermente canzonatorio, ma privo di malevolenza, sulle persone che si affannano e si stressano e tramano, assetate di potere e ansiose di dominare il prossimo. Gli ambiziosi, i capetti, gli eterni insoddisfatti. Lui e Jérôme, al contrario, erano di quelli che fanno bene il proprio lavoro, ma una volta finito, incassati i soldi, si godono il meritato riposo, anziché accollarsi altri lavori per guadagnare altri soldi. Avevano il necessario per essere soddisfatti di ciò che gli era toccato in sorte, e certo non tutti hanno questa fortuna, ma avevano anche e soprattutto la saggezza di accontentarsi, di apprezzare quello che avevano, di non desiderare di più. Il dono di sapersela spassare senza sensi di colpa e senza ansia, di sapersi abbandonare a chiacchierate pigre e scherzose all’ombra del baniano, sorseggiando una birra. Bisogna coltivare il proprio giardino. Carpe diem. Per vivere felice, vivi nascosto. Philippe non cita queste massime, ma il succo è quello, e mentre parla mi sento totalmente estraneo alla sua saggezza, io che vivo nell’insoddisfazione, in uno stato di tensione perenne, che inseguo sogni di gloria e mando all’aria gli amori perché immagino sempre che altrove, un giorno, più in là, troverò di meglio.


Philippe pensava: Ho trovato il posto dove voglio vivere, il posto dove voglio morire. Ci ho portato la mia famiglia e ho trovato una seconda famiglia, quella di M.H. Quando mi appisolo sulla poltrona di vimini, quando percepisco sotto i piedi nudi il legno della veranda del bungalow, quando sento stridere sulla sabbia la scopa di fibra di cocco con cui ogni mattina M.H. spazza il cortile, quel suono così familiare, così rasserenante mi dice: Sei a casa, nella tua casetta. Finite le pulizie, M.H. passerà da me, calmo e regale nel suo sarong carminio. Ci fumeremo una sigaretta insieme. Scambieremo qualche parola senza importanza, come due vecchi amici che non hanno bisogno di parlare per capirsi. Credo di essere diventato un vero srilankese, ha detto un giorno Philippe, e ricorda l’occhiata amichevole ma leggermente ironica che gli ha lanciato M.H.: Se lo dici tu... Ci è rimasto un po’ male ma gli è anche servito di lezione. Era diventato un amico, sì, ma restava uno straniero. La sua vita, checché ne pensasse, non era lì.


Oggi Philippe potrebbe pensare: A Medaketiya è morta la mia nipotina, in pochi istanti la nostra felicità è stata distrutta, non voglio sentir parlare mai più di Medaketiya. Ma non lo pensa. Pensa che adesso potrà dimostrare al fu M.H. che la sua vita era realmente lì, tra loro, che lui è uno di loro, che dopo aver condiviso con loro i giorni lieti, non gli volterà le spalle nel momento della sventura, non dirà arrivederci e grazie, e chi si è visto si è visto. Pensa a quello che resta della famiglia di M.H., alle loro case distrutte, alle case dei loro vicini pescatori, e dice: Voglio stargli vicino. Aiutarli a ricostruire, a ricominciare a vivere. Vuole rendersi utile, che altro potrebbe fare di sé stesso?

Non si sa quando potremo partire. Non si sa dove sia stato portato il corpo di Juliette: forse all’ospedale di Matara, forse a Colombo. Jérôme, Delphine e Philippe non se ne andranno senza di lei, e noi non ce ne andremo senza di loro. Matara è troppo lontana per arrivarci in tuk-tuk, ma a colazione il proprietario dell’albergo annuncia che è in partenza una camionetta della polizia diretta lì e che lui ha preso accordi con i poliziotti perché portino anche Jérôme. Hélène si offre subito di accompagnarlo e subito lui accetta. Penso che avrei dovuto offrirmi io, che era una faccenda da uomini e li guardo allontanarsi con una punta di invidia di cui mi vergogno. Mi sento come un bambino lasciato a casa dagli adulti quando bisogna occuparsi di cose serie. Come Jean-Baptiste e Rodrigue, che da quarantott’ore sono abbandonati a loro stessi. Ci prendiamo cura di Philippe, Delphine e Jérôme, e pochissimo di loro due. Passano le giornate chiusi nel bungalow a rileggere vecchi fumetti, ci vedono solo all’ora dei pasti, durante i quali se ne stanno in silenzio, con i musi lunghi, a disagio, e io mi rendo conto che deve essere difficile vivere in questo modo una circostanza così terribile: trattati da bambini piccoli, iperprotetti, senza avere la possibilità di partecipare. Mi dico che non vedere niente forse ha un effetto ancora più traumatico che vedere i cadaveri e che almeno Jean-Baptiste è abbastanza grande per poter venire in paese con me. Interamente votato al suo piano di soccorso, Philippe vuole andare ad accertarsi di persona della situazione. Ho qualche scrupolo ad affidare Rodrigue a Delphine, ma lei dice che non c’è problema, anzi, e così usciamo.


 


 


Il tuk-tuk passa a una certa distanza dall’ospedale, non abbastanza però da risparmiarci l’odore di morte. Da lontano scorgo il gruppo dei turisti naufraghi che si aggirano lentamente sotto il baniano, e ancora una volta ho la sensazione di essere un sopravvissuto in un film di zombie e di superare in macchina un gruppo di morti viventi sfaccendati, che ci seguono con le braccia ciondoloni e lo sguardo vuoto. Percorrendo la via principale stranamente calma, arriviamo nella piazza del mercato, dove due giorni prima Philippe ha trovato Jérôme e Delphine e gli ha annunciato la morte di Juliette, poi scendiamo sulla spiaggia di Medaketiya: una distesa di fango nero, fetido, da cui emergono resti di barche, di case, di staccionate, tronchi d’albero sradicati e, qua e là, un pezzo di muro ancora in piedi. In mezzo a queste rovine ci sono persone che si danno da fare, scavano, recuperano oggetti eterogenei: una bacinella, una rete da pesca, un piatto sbeccato, le poche cose che gli restano. Quando passa Philippe lo riconoscono tutti, gli vanno incontro, e con ognuno si ripete praticamente la stessa scena. Si abbracciano, piangono insieme, si scambiano notizie in un inglese maccheronico: sostanzialmente i nomi dei morti. Philippe non riferisce niente di nuovo, lì tutti sanno già di Juliette, di Osandi, di M.H. Lui invece non sa ancora dei vicini e all’annuncio di ogni morte emette, come i suoi interlocutori, una sorta di gemito. Non lo diceva solo per vantarsi che conosceva tutti, che tutti lo avevano adottato. Piange per quei pescatori srilankesi come fossero suoi parenti. A ognuno dei superstiti tenta di spiegare che deve partire il prima possibile con Delphine e Jérôme, ma che tornerà presto per aiutarli, che troverà dei soldi, che resterà a lungo. Sembra molto importante per lui dirlo, e importante per loro sentirlo, in ogni caso lo abbracciano ancora più forte. Procediamo maceria dopo maceria, superstite dopo superstite, abbraccio dopo abbraccio, fino al piccolo cortile di M.H. Della guesthouse non rimane più nulla e del bungalow che Philippe prendeva in affitto solo qualche asse del pavimento, un piatto doccia, un muro decorato da un affresco raffigurante palme da cocco, pesci e reti in colori vivaci e allegri. Lo aveva dipinto Delphine l’anno prima, insieme a Juliette. Vi si erano dedicate entrambe con grande impegno, Juliette aveva tre anni, era fiera di aiutare sua madre. Philippe si siede davanti all’affresco, fra le macerie. Io e Jean-Baptiste restiamo in disparte. Lo guardiamo da lontano. Al suo posto faresti anche tu come lui? mi chiede di punto in bianco mio figlio. Farei cosa? Se la tua nipotina di quattro anni fosse morta, o se io e Gabriel, i tuoi figli, fossimo morti, penseresti ai pescatori di Medaketiya? Esito a rispondere. Non lo so. A me, riprende Jean-Baptiste, credo che non me ne potrebbe importare di meno dei pescatori di Medaketiya. Dopo averci riflettuto un po’, dico che importarsene può essere o la prova di una generosità straordinaria o una strategia di sopravvivenza, e che preferisco vederci una strategia di sopravvivenza. Mi sembra più umano. In certi momenti pensare solo a sé stessi è la cosa più umana. Preoccuparsi dell’umanità in generale quando tuo figlio è appena morto non mi pare possibile, ma non credo che Philippe e Jérôme si preoccupino dell’umanità in generale, credo che si preoccupino di sopravvivere alla morte di Juliette. E di salvare Delphine, soprattutto.


Tornato in albergo, chiamo Hélène sul cellulare ma non risponde. All’ora di pranzo lei e Jérôme non sono ancora arrivati, li aspettiamo per un po’, poi pranziamo senza di loro. Gli italiani che gestiscono l’albergo si comportano da due giorni in modo irreprensibile: danno alloggio e cibo a tutti, usano verso i rifugiati senza un soldo gli stessi riguardi riservati agli ospiti paganti e se, per mancanza di rifornimenti, i pasti diventano via via più frugali, il servizio conserva la disinvolta cerimoniosità che aveva prima della catastrofe. Sono nervoso, in imbarazzo, guardo l’orologio. Non lo ammetterei per niente al mondo ma la verità è che per me la situazione si riduce a questo: la mia donna è andata a vivere un’esperienza estrema con un altro uomo. Io, che solo due giorni prima la trovavo spenta e apatica, adesso la vedo come l’eroina di un romanzo o di un film d’avventura, la giornalista bella e coraggiosa che nel cuore dell’azione dà il meglio di sé. In questo romanzo o questo film non sono io il protagonista, io mi identifico piuttosto, ahimè, con il marito diplomatico, ironico, equilibrato, perfetto durante i cocktail e i garden party all’ambasciata, ma che quando l’ambasciata è circondata dagli khmer rossi non è più all’altezza, temporeggia, aspetta che gli altri decidano per lui, ed è con un altro che sua moglie va in prima linea, sfida il pericolo, guarda la morte in faccia. Per ingannare l’attesa, sempre più tormentosa, riprendo in mano Il pesce-scorpione. Leggo un capitolo in cui Matara viene descritta come un villaggio di stregoni particolarmente temibili, e una frase attira la mia attenzione: «Se sapessimo quello che rischiamo, non oseremmo mai essere felici». Io non ho mai osato esserlo, la cosa non mi riguarda. Faccio una partita a scacchi con Jean-Baptiste, disegno con Rodrigue personaggi più o meno mostruosi su fogli piegati in modo che ciascuno di noi non veda cosa ha disegnato l’altro. Questo gioco che gli ho insegnato io, ispirato ai surrealisti, si chiama cadavre exquis, cadavere squisito, e quando Rodrigue ripete l’espressione gli faccio abbassare la voce, imbarazzato. Lui capisce subito il perché e lancia un’occhiata inquieta a Delphine. Più tardi parlo un po’ con lei. Mi descrive la loro vita a Saint-Émilion. Ha sempre amato la natura, non ha mai neppure immaginato di vivere lontano dalla campagna. Né ha mai cercato di fare carriera o di raggiungere l’indipendenza lavorando: era una giovane madre casalinga assolutamente priva di complessi, in grado di far apparire naturale e persino moderna la più tradizionale divisione dei compiti. Jérôme lavorava, lei si occupava di Juliette, della casa, del giardino, degli animali. Juliette adorava gli animali, soprattutto i conigli, ai quali voleva dare da mangiare solo e sempre lei. Jérôme tornava ogni giorno per pranzo e si prendeva tutto il tempo necessario per chiacchierare tranquillamente con la moglie, gustare i piatti che lei aveva preparato, giocare con la figlia. Lavorava, sì, ma con i suoi ritmi, sempre disponibile nei confronti di loro due, del suocero e del loro piccolo gruppo di amici, e i clienti che il suo mestiere gli imponeva di frequentare erano un’estensione di questa cerchia familiare all’interno della quale era racchiusa la loro felicità. Ascolto Delphine, la guardo: bionda, graziosa, infantile. Il padre dice che assomiglia a Vanessa Paradis, o meglio, e ci tiene a questa precisazione, che Vanessa Paradis assomiglia a lei. È vero, ma anche se ho visto Juliette una sola volta e per non più di mezz’ora, mi sembra che assomigli soprattutto a sua figlia. Cerco di immaginare quella loro vita così serena e così lontana dalla mia. Delphine la descrive con voce calma, ma è una calma da sonnambula e tutti i verbi sono al passato.


 


 


Più tardi in albergo arriva Ruth. Dopo quarantott’ore passate davanti all’ospedale senza né dormire né mangiare è così debole che hanno dovuto portarla qui praticamente di peso. Le hanno servito un panino, che lei però non tocca neanche. Il più anziano degli italiani che gestiscono l’albergo è venuto a dirle che le è stata preparata una camera, insiste gentilmente perché vada a stendersi, perché dorma un po’, ma lei scuote la testa. Quando stava sotto il baniano non voleva spostarsi per nessuna ragione. Ora che l’hanno schiodata da lì per metterla su questa poltrona, di nuovo non vuole più spostarsi, almeno non per andarsene a letto. Pensa che se cederà al sonno Tom non potrà tornare. Per farlo tornare, deve rimanere sveglia. Quello che vorrebbe è andare sulla spiaggia, sedersi nel punto in cui l’onda li ha separati, dove c’era il loro bungalow, e restare lì con gli occhi fissi sull’orizzonte, fino a quando Tom non riemergerà vivo dall’oceano. Nel dire queste cose si tiene ben dritta, come per meditare, e la immagino starsene così sulla spiaggia per giorni, settimane, senza mangiare o dormire o parlare, il respiro sempre più lento e silenzioso, e a poco a poco smettere di essere una persona umana per diventare una statua. La sua determinazione fa paura, si sente che è sul punto di passare dall’altra parte, di sprofondare nella catatonia, nella morte vivente, e io e Delphine capiamo che il nostro compito è fare il possibile per impedirlo. Significa riuscire a convincerla che Tom non tornerà, che è morto annegato come gli altri. Dopo due giorni è praticamente certo. Sperando di aiutarla, come Jérôme aiuta lei, Delphine le racconta la loro storia. Le dice quello che finora non le ho mai sentito dire, quello che di solito sono gli altri a dire davanti a lei: che la sua bambina è morta. Nel suo inglese scolastico pronuncia queste parole: My little girl is dead. Ruth fa una sola domanda: L’hai vista morta? Delphine non può che rispondere di sì e Ruth dice: Allora non è la stessa cosa. Io non ho visto Tom morto. Finché non lo avrò visto, non crederò alla sua morte. Crederci sarebbe come ucciderlo. Non capisce granché di quello che le diciamo, ma possiamo farla parlare, è comunque un modo per mantenere un contatto. Lei è assistente sociale, lui carpentiere. Si rifiuta di credere alla sua morte, ma dice: He was a carpenter. L’imperfetto comincia a intaccare le sue frasi. Si conoscono e si amano fin dall’adolescenza, si sono sposati in autunno e il giorno dopo le nozze sono partiti per un giro del mondo che doveva durare un anno. Avevano già progettato che cosa fare al ritorno: il primo figlio – ne volevano tre – e la casa. In un paesino non lontano da Glasgow hanno comprato, accendendo un mutuo, un pezzo di terra con un rudere, un granaio in rovina che Tom aveva intenzione di restaurare. Non importava quanto ci sarebbe voluto – probabilmente due anni, visto che Tom avrebbe potuto lavorarci solo nel tempo libero –, nel frattempo avrebbero abitato in una roulotte. Il bambino avrebbe passato il primo anno nella roulotte, ma poi avrebbero avuto una casa, una vera casa tutta per loro e per i figli, cosa che né l’uno né l’altro ha avuto nell’infanzia, perché vengono entrambi da famiglie contadine sradicate e trapiantate in città, prive di punti di riferimento. Tom e Ruth si assomigliavano, le loro storie si assomigliavano e, sentendo Ruth, si intuisce che non sono state storie facili. Avevano la stessa paura di andare alla deriva, di vivere una vita che non volevano, ma si erano incontrati, si erano promessi di restare uniti nella buona e nella cattiva sorte, di assistersi l’un l’altro qualsiasi cosa fosse accaduta. Insieme erano forti, avevano un progetto, avrebbero costruito la loro vita, senza lasciarla in balìa della corrente. Prima di dedicarsi anima e corpo a questo progetto, di ritrovarsi inchiodati ai propri doveri dai figli, dal lavoro, dalle rate del mutuo, obblighi ai quali d’altronde aspiravano, avevano deciso di concedersi quell’anno di libertà per andare a vedere il vasto mondo, loro due soli. Dopodiché si sarebbero messi sotto e non si sarebbero più fermati, la loro vita si sarebbe svolta, tenace e laboriosa, in un paesino della Scozia, tra campagna e periferia industriale, dove piove per i tre quarti del tempo. Ma prima ci sarebbe stato questo: il giro del mondo, zaino in spalla, le stazioni dei pullman, le albe e le sere ai Tropici, i lavoretti improvvisati a ogni tappa per non intaccare il loro gruzzoletto – un mese in una pizzeria di Izmir come lavapiatti, un altro in un cantiere navale nel Sud dell’India –, e poi immagini, ricordi che avrebbero conservato per tutta la vita. Si vedevano già, da vecchi, nella casa costruita da Tom, la casa dove sarebbero cresciuti i loro figli, la casa dove sarebbero andati a trovarli i loro nipoti, intenti a guardare le foto della grande avventura della loro giovinezza. Ma se Tom non è più accanto a lei per condividerli, non c’è più nessun ricordo possibile, nessun progetto possibile. La giovinezza di Ruth è finita e della vecchiaia non ne vuole più sapere. L’onda le ha portato via il futuro insieme al passato. Non avrà né casa né bambini. Non servirebbe a niente dirle che a ventisette anni la sua vita non è finita, che superato il lutto incontrerà un altro uomo con cui sarà possibile qualcos’altro. Se Tom è morto, Ruth può solo morire.


Ascoltandola penso: Questa donna ha perso tutto, ma è perché aveva tutto, almeno tutto ciò che conta. L’amore, il desiderio che durasse, la volontà di farlo durare e la fiducia: sarebbe durato. Io, che ne ho tante altre, le invidio questa ricchezza. Non sono mai riuscito, finora, a figurarmi così la mia vita con una donna. Non sono mai veramente convinto che la donna con cui sto sia quella con cui invecchierò, che mi chiuderà gli occhi o a cui io li chiuderò. Mi dico che la prossima sarà finalmente quella giusta, ma al tempo stesso temo che, viste le mie precedenti esperienze, con la prossima non andrà meglio, che nessuna sarà quella giusta, che alla fine resterò solo. Prima dell’onda io e Hélène ci stavamo separando. Ancora una volta l’amore si sgretolava, non ero riuscito a prendermene cura. E mentre Ruth, con voce bassa e spenta, parla delle foto del loro viaggio di nozze, di come fossero certi che le avrebbero guardate insieme da vecchi, io mi distraggo, ho la mente altrove, penso a quale sarebbe per noi l’equivalente di quelle foto. Qualche mese prima ho girato un film tratto dal mio romanzo Baffi. Durante la preparazione e le riprese io e Hélène abbiamo passato spesso la notte sul set principale, l’appartamento della coppia interpretata da Vincent Lindon e Emmanuelle Devos. Provavamo un piacere furtivo a dormire nel letto dei protagonisti, a usare la loro vasca da bagno, a rimettere frettolosamente tutto a posto la mattina, prima che arrivasse la troupe. La sceneggiatura prevedeva una scena erotica che volevo risultasse molto cruda. I due attori, un po’ preoccupati, mi chiedevano di continuo come pensavo di girarla e io rispondevo con disinvoltura che avevo già un’idea, mentre in realtà non ne avevo nessuna. Per la scena 39 nel piano di lavorazione era in programma una notte intera e, con l’avvicinarsi di quella notte, ho cominciato a preoccuparmi anche io. Una sera, sul set, Hélène, a cui avevo confidato le mie preoccupazioni, ha proposto di provare noi la scena per chiarirci le idee. Per due notti di seguito, davanti a una videocamera piazzata su un treppiede, l’abbiamo quindi provata, variata, arricchita, con grande entusiasmo e dedizione. Al momento stabilito è stata girata davvero, non era neanche tanto male, ma alla fine è stata tagliata in fase di montaggio e da allora annunciare agli attori che sarebbe stata inserita nei contenuti speciali del DVD è diventata una battuta di rito. In realtà, per i contenuti speciali del DVD, sarebbero molto meglio i due nastri di porno domestico conservati nel cassetto della mia scrivania con l’innocente etichetta: prove, rue René-Boulanger. E quel pomeriggio al bar dell’Hotel Eva Lanka, mentre io e Delphine ascoltiamo Ruth parlare di Tom e del loro amore, mi viene in mente che un giorno, se io e Hélène restassimo insieme, se passassimo tutta la vita insieme, quei due nastri potrebbero diventare un vero tesoro. Mi immagino da vecchio guardare insieme a Hélène sullo schermo i nostri corpi di un tempo, sodi, vigorosi, flessuosi, mentre lei, con una mano cosparsa di macchioline, afferra il mio uccello avvizzito che le offre i suoi fedeli servigi da trent’anni, e quell’immagine di colpo mi sconvolge. Mi dico che deve succedere, che se c’è una cosa che devo riuscire a fare prima di morire è quella.


Hélène e Jérôme hanno gli occhi lucidi, febbrili, di chi torna dal fronte dopo aver visto il fuoco della battaglia. Jérôme si limita a dire a Delphine che Juliette non è più a Matara ma a Colombo e che si darà da fare per organizzare la partenza il prima possibile. Cerco di convincere Hélène a venire nel bungalow perché si riposi un po’ e mi racconti, ma lei dice: Dopo. Vuole restare con Ruth, a cui appena arrivata è andata a dare un bacio come se la conoscesse da sempre. È sfinita, e lo sfinimento la rende radiosa. Stiamo tutti intorno a Ruth, uniti dall’idea che sia ancora possibile fare qualcosa per lei. Strapparla al vuoto davanti al quale se ne sta immobile, senza vederci. Salvarla. Ancora una volta è Hélène a chiederle se ha telefonato ai suoi genitori in Scozia. Ruth scuote la testa: a che pro? Hélène insiste: deve farlo. L’atroce incertezza sulla sorte di Tom che tanto la logora, i suoi la stanno sicuramente provando per la sorte della figlia. Non è giusto lasciarli senza notizie. Ruth cerca di tirarsi indietro: non vuole dire che Tom è morto. Non devi per forza dire che lui è morto, solo che tu sei viva, dice Hélène. Non sei neanche costretta a parlare, se vuoi posso farlo io, basta che mi dai un numero di telefono. Ruth esita poi, senza guardare Hélène, pronuncia le cifre a una a una. Mentre Hélène le digita sul cellulare, io penso alla differenza di fuso orario, il telefono squillerà nel cuore della notte in un cottage di mattoni della periferia di Glasgow, ma forse non sveglierà nessuno: i genitori di Ruth, se sta chiamando loro, probabilmente non dormono più da tre giorni. Composto il numero, Hélène passa il telefono a Ruth, che lo prende. Evidentemente all’altro capo qualcuno ha risposto. Dice: It’s me, poi: I am ok, poi nient’altro. Loro le parlano, lei ascolta. Noi la guardiamo. Si mette a piangere. Le lacrime le scorrono sulle guance, è come una diga che cede, poi le lacrime diventano singhiozzi, le scuotono le spalle, le scuotono tutta la parte alta del corpo, fino a quel momento pietrificato, lei piange e ride e ci dice: He is alive. Per noi è come assistere a una resurrezione. Pronuncia qualche altra parola in risposta a quello che le dice il suo interlocutore, poi ridà il telefono a Hélène. Scuote lentamente la testa, ripete a mezza voce, a noi, a sé stessa, alla terra e al cielo: He is alive. Poi si gira verso Delphine che, seduta sulla panca accanto a lei, piange a sua volta. La guarda, le poggia la testa sulla spalla, e Delphine la abbraccia.

 C’era voluto molto tempo, mi ha raccontato Hélène quella notte, per arrivare a Matara. Eppure non è lontano, ma la strada era interrotta in diversi punti, dovevano continuamente raccogliere o depositare autostoppisti e a ogni ponte bisognava aspettare, perché in tutti i fiumi venivano ripescati cadaveri. A un certo punto la camionetta è passata davanti al centro immersioni dove saremmo dovuti andare il giorno dell’onda: dell’edificio non restava più niente, come d’altronde dell’intero villaggio vacanze di cui faceva parte, e il poliziotto a cui Hélène ha chiesto che fine avessero fatto le centinaia di clienti ha sospirato: All dead. L’ospedale di Matara è molto più grande di quello di Tangalle, accoglie molti più cadaveri, e l’odore di morte era ancora più penetrante di quello che avevamo sentito il giorno prima. Hélène e Jérôme sono stati accompagnati nella camera mortuaria, le cui celle frigorifere – una ventina – erano riservate ai cadaveri dei bianchi: La zona vip, ha ghignato Jérôme, il cui umorismo diventava via via più amaro. Gli hanno aperto le celle, l’una dopo l’altra. Hélène non sapeva se temere di più che Juliette fosse in una di quelle celle o che non ci fosse. Non c’era. Hanno perlustrato l’ospedale da cima a fondo. Jérôme sventolava davanti al naso delle persone il pezzo di carta su cui, a Tangalle, gli avevano scarabocchiato la descrizione di Juliette. Gli rispondevano indicando con un gesto rammaricato, impotente, i corpi grigi e gonfi di cui era disseminato il pavimento: Guardi lei stesso, a lei la scelta. Dopo un’ora avevano guardato tutto ed erano completamente smarriti. Qualcuno li ha indirizzati verso un ufficio dove, davanti un computer, un impiegato faceva scorrere a ciclo continuo le foto dei morti passati per l’ospedale e poi trasferiti altrove. Una mezza dozzina di srilankesi era radunata in cerchio attorno allo schermo, e il cerchio si è allargato per fare posto a Hélène e Jérôme. Probabilmente li avevano scambiati per una coppia. Una bella coppia: lui altissimo, con la camicia bianca, i capelli ricci e la barba di tre giorni, lei in pantaloni bianchi e maglietta, con quel suo corpo magnifico, entrambi con i volti tesi per l’angoscia e la tristezza. Benché ciascuno lì avesse già la sua buona dose di angoscia e tristezza da sostenere, quei due ispiravano simpatia, e tutti si adoperavano come potevano per aiutarli. Jérôme ha descritto sua figlia all’impiegato, che non capiva bene e continuava a far scorrere le foto sullo schermo. Uomini, donne, bambini, vecchi, persone del posto e occidentali, visi inquadrati frontalmente, deturpati, tumefatti, con gli occhi aperti o chiusi, scorrevano a decine, ognuno veniva mostrato per qualche secondo poi automaticamente si passava al successivo, e alla fine è apparsa la foto di Juliette. Hélène era accanto a Jérôme. Lo ha visto mentre vedeva la foto della sua bambina morta. Lo ha guardato mentre la guardava. Quando al posto di quella di Juliette è comparsa la foto successiva, Jérôme ha dato di matto. Si è avventato sul computer e urlando ha chiesto di tornare indietro. L’impiegato ha cliccato con il mouse, poi ha consultato la scheda che accompagnava la foto: Juliette non era più lì, l’avevano portata a Colombo il giorno prima. La sua foto ha di nuovo lasciato il posto alla successiva e di nuovo Jérôme ha perso la bussola, di nuovo ha chiesto di tornare indietro: non riusciva a staccare lo sguardo dallo schermo, né a rassegnarsi alla scomparsa di Juliette. L’impiegato ha cliccato più volte di seguito per bloccare l’avanzamento automatico. Jérôme fissava avidamente il viso di sua figlia, i capelli biondi, le bretelle del vestitino rosso sulle spalle rotonde e abbronzate. Ogni volta che appariva la foto successiva, si metteva a supplicare: Again! Again, again, e mentre lo scrivo penso a Jeanne, la nostra bambina, che da poco ha imparato a dire: Ancora!, e lo ripete senza stancarsi mai quando la facciamo saltare sulle ginocchia o sul letto. Chissà, forse è stata Hélène che alla fine, per sbloccare la situazione, per strapparlo al baratro in cui era precipitato, lo ha preso per mano e gli ha detto: Su, andiamo adesso! Come sono tornati? C’erano dei buchi nel racconto, ne parlava con riluttanza. Era sfinita, certo, aveva i nervi a pezzi, ma capivo anche che non diceva di più per non rivelare la terribile e sconvolgente esperienza intima che aveva condiviso con Jérôme, e quell’intimità mi feriva.


 


 


È passato un altro giorno prima che potessimo ripartire per Colombo. Un giorno vuoto: non ci restava che aspettare, e abbiamo aspettato. Siamo rimasti tra di noi, sicché ricordo a malapena le altre persone, clienti dell’albergo e superstiti. Molto defilati, quasi invisibili, visto che anche i pasti li consumavano da soli, non so dove, c’erano gli svizzeri ayurvedici e Leni Riefenstahl, che continuava a fare le sue vasche ogni mattina. Un po’ più vicine, una coppia di israeliani con la figlia che doveva avere l’età di Juliette e che i due covavano con gli occhi, dicendosi, com’è facile immaginare, che avrebbe potuto fare la stessa fine di Juliette, e una famiglia di francesi antipatici, preoccupatissimi all’idea che qualche individuo disonesto trovasse le loro carte di credito in mezzo alle macerie e le usasse – sui contanti, dicevano compiaciuti della propria generosità, ci avevano già messo una pietra sopra. Probabilmente ce l’avevano con Delphine e Jérôme, la cui disgrazia gli impediva di lamentarsi liberamente delle loro personali sventure, in ogni caso li evitavano e aspettavano che si fossero allontanati per piombare su di me o su Hélène, chiederci in prestito i cellulari e mettersi a sbraitare con la loro compagnia di assicurazioni, perché mandasse immediatamente un elicottero.


Jérôme ha ottenuto dalla direzione dell’albergo di essere accompagnato il giorno dopo a Colombo. Il minibus poteva accogliere, facendoli stringere al massimo, una dozzina di passeggeri, e parte della serata è trascorsa in trattative per l’attribuzione dei posti. Forse ci sarebbe stata un’altra partenza uno o due giorni dopo, ma non era certo, perché i mezzi di trasporto disponibili sulla costa erano stati quasi tutti requisiti per i soccorsi, la benzina scarseggiava, e insomma quella era un’occasione da non perdere. La tragedia che li aveva colpiti era valsa a Jérôme, Delphine e Philippe il diritto di precedenza e, poiché gli eravamo stati vicini fin dal primo giorno, era scontato che saremmo partiti anche noi. Jean-Baptiste e Rodrigue non ne potevano più di fare su e giù tra il bungalow, il ristorante e la piscina dell’albergo: hanno accolto con sollievo la notizia della partenza. Dai suoi parenti Ruth aveva saputo che Tom, ferito, si trovava nell’ospedale di una cittadina situata a circa cinquanta chilometri dal mare, sulle montagne; ci perdevamo in congetture su come avesse fatto a finire lassù, ma in ogni caso, siccome lunghi tratti della strada costiera erano interrotti e per arrivare a Colombo bisognava passare per l’interno, abbiamo deciso che sarebbe venuta con noi e che, a costo di allungare un po’ il percorso, l’avremmo accompagnata al capezzale del marito. Restavano ancora quattro posti liberi che la direzione si è sentita in dovere di offrire ai francesi antipatici, i quali, per fortuna, o perché la presenza dei compatrioti in lutto li infastidiva, o perché facevano davvero affidamento sull’elicottero della compagnia di assicurazioni, hanno declinato la proposta.


 


 


Ruth si è unita al nostro gruppo per l’ultima cena insieme, che nei miei ricordi, e anche in quelli di Jean-Baptiste, rappresenta il momento più strano di tutta la settimana. Volendo descriverla, non posso fare a meno di evocare una sorta di euforia – un’euforia febbrile e tragica, ma comunque euforia. Abbiamo bevuto molto, birra e anche vino, il vino che si può trovare sul menu di un ristorante del Sud dello Sri Lanka, qualcosa come un beaujolais nouveau vecchio di cinque anni, imbottigliato da un commerciante tamil sudafricano e che, per giunta, sapeva di tappo. Quel vinaccio terribile, di cui penso che ci siamo comunque scolati parecchie bottiglie, forse addirittura tutta la riserva, scatenava l’ironia di Philippe e Jérôme, amanti dei grandi bordeaux, i quali, ispirati da un’etichetta in tutto e per tutto indecifrabile, si sono esibiti in una conversazione davvero delirante. Hanno dato fondo a tutto il repertorio di battute e allusioni di cui si nutre la loro complicità: vino rosso e rock’n’roll, retrogusto di nocciola dello Château Cheval Blanc e aneddoti su Keith Richards, repertorio a cui si aggiungeva ora la stronzaggine degli svizzeri ayurvedici, che Jérôme, irrefrenabile, feroce, sbeffeggiava senza pietà quando ne vedeva passare uno: Come va, avete raggiunto la pace interiore? Siete abbastanza zen? Procedete sulla via della liberazione? Ottimo, ragazzi, ottimo, continuate così! Era sarcastico ma non solo: è con vera commozione che ha brindato e ci ha invitati a brindare alla resurrezione di Tom. Ruth era visibilmente imbarazzata. Fino a qualche ora prima sprofondata nel suo dolore, lontana anni luce dal mondo dei vivi, aveva completamente perso di vista gli altri: per lei non esisteva più nessuno al di fuori di Tom che era morto e di sé stessa, che era decisa a morirne. Ma dopo il miracolo della telefonata era tornata a essere quella che probabilmente era stata per tutta la vita: una ragazza dolce e compassionevole, a cui veniva spontaneo reprimere la propria gioia per partecipare al lutto di queste persone che l’avevano aiutata con tanta generosità. Ma aveva fatto i conti senza considerare la prorompente vitalità di Jérôme, che non mangiava niente, ma beveva, fumava, rideva, provocava, parlava a voce alta, senza lasciare che su di noi ripiombasse il silenzio. Bisognava tenere duro e lui teneva duro. Si faceva carico di tutto, ci tirava su tutti, ci trascinava tutti con sé. Nel frattempo con la coda dell’occhio non smetteva di guardare Delphine, e ricordo di aver pensato: Questo significa amare veramente, e non c’è niente di più bello di questo, un uomo che ama veramente sua moglie. Lei se ne stava in silenzio, assente, spaventosamente calma. Era come se Jérôme e Philippe, perché Philippe faceva strenuamente da spalla a suo genero, eseguissero una danza sacra attorno a lei, come se non smettessero mai di gridarle: Non te ne andare, per favore, resta con noi. Diverse volte Ruth, che era seduta accanto a lei, le ha preso la mano, timidamente, come se non fosse autorizzata a farlo, amorevolmente, perché nonostante tutto era autorizzata, o perché non lo era nessuno, o perché lo erano tutti, non esistevano più né autorizzazioni, né formalità, solo questo grumo di sofferenza bionda, graziosa, senza rimedio, e il bisogno di prenderle la mano.


Verso la fine della cena, era tardi, Rodrigue esausto si è arrampicato sulle ginocchia di Hélène. Da bambino quale era ancora, si è rannicchiato contro la sua spalla, e lei gli ha accarezzato i capelli a lungo. Lo ha coccolato, rassicurato: Sono qui. Poi si è alzata per portarlo a letto. Si sono allontanati insieme attraversando il giardino e Delphine li ha seguiti con lo sguardo. Che cosa stava pensando? Che solo quattro sere prima coccolava la sua bambina e le rimboccava le coperte, e che quelle cose non le avrebbe fatte mai più? Che non si sarebbe mai più seduta sul suo letto a leggerle una storia per farla addormentare? Che non avrebbe mai più riordinato i peluche attorno a lei? Fino all’ultimo giorno della sua vita i peluche, le giostrine, le melodie dei carillon le avrebbero spezzato il cuore. Com’è possibile che quella donna stringa a sé suo figlio vivo mentre la mia bambina è gelida e non parlerà mai più e non si muoverà mai più? Come non odiarli, lei e suo figlio? Come non pregare: Mio Dio, fa’ un miracolo, ridammi la mia bambina, prendi il suo, fa’ che sia lei a soffrire come soffro io, e io a essere tristissima di quella tristezza rassicurante e confortevole che ha il solo effetto di farci apprezzare di più la nostra fortuna?


Delphine ha distolto lo sguardo dalle sagome di Hélène e Rodrigue che scomparivano nel buio del viale in direzione dei bungalow. Nell’incrociare il mio, ha sorriso e, riferendosi a Rodrigue, ha mormorato: È così piccolo...


La distanza era immensa, l’abisso che la separava da noi impossibile da colmare, ma c’era una nota di dolcezza, di affetto nella sua voce strozzata, e quella dolcezza, quell’affetto mi hanno messo i brividi molto più dei pensieri naturali e orribili che avevo immaginato poco prima. Col senno di poi mi sembra che quella sera sia successo qualcosa di straordinario. Eravamo insieme a quest’uomo e a questa donna a cui era capitato quanto di peggio possa capitare al mondo, e a noi niente di niente. Eppure, al di là dei pensieri reconditi che potevano affiorare, e certamente affioravano – non c’è dubbio che, se avessero potuto fare a cambio e salvarsi precipitando noi nell’infelicità, lo avrebbero fatto, chiunque lo farebbe, chiunque preferisce i propri figli a quelli degli altri, significa essere umani e va bene così –, eppure penso che quella sera, durante quella cena, loro non ce l’avessero con noi. Non ci odiavano come sul principio avevo ritenuto inevitabile. Erano contenti per il miracolo che aveva restituito a Ruth la felicità che a loro invece era stata definitivamente strappata. Delphine era commossa nel vedere Rodrigue accoccolarsi tra le braccia di sua madre. Abbiamo vissuto quella tragedia insieme, per qualche giorno siamo stati al tempo stesso tanto intimamente vicini e tanto radicalmente separati quanto è possibile esserlo, e so che noi gli volevamo bene e credo che anche loro ne volessero a noi.


 


 


Io e Hélène siamo usciti dal ristorante tardissimo. Lasciandoci alle spalle le ultime voci, abbiamo seguito il viottolo lastricato che costeggiava la piscina per poi inoltrarsi nell’oscurità tra gli alberi immensi. Il parco dell’albergo era enorme, dall’edificio centrale al nostro bungalow c’erano cinque minuti a piedi. Quei cinque minuti servivano da camera di decompressione. Non si sentiva più niente eccetto un continuo e rasserenante stridio di insetti e, alzando la testa, il cielo sopra i ciuffi delle palme da cocco era così pieno di stelle che si aveva l’impressione di sentir crepitare anche loro. Invisibili, le onde si infrangevano a un ritmo regolare sulla spiaggia lì sotto. Camminavamo in silenzio, sfiniti. Sapevamo che di lì a poco ci saremmo sdraiati fianco a fianco, i nostri corpi tesi si preparavano al riposo. Ci siamo presi per mano. Ricordo, in quei giorni, la mia paura infantile che Hélène si allontanasse da me, quello che ricorda lei invece è che eravamo insieme, veramente insieme.

Alla fine, la mattina della partenza, i posti rimasti liberi nel minibus sono stati assegnati a una coppia di svizzeri ayurvedici, i quali, com’è ovvio, erano al corrente di quello che era successo a Delphine e Jérôme e forse, evitando qualsiasi accenno alla cosa, pensavano di dare una lodevole prova di discrezione. Così si sono limitati a salutarci in blocco con un cenno del capo e, vedendo Jérôme, che era seduto davanti, accendersi una sigaretta, hanno fatto presente che anche con le finestre aperte il fumo li disturbava. Di conseguenza il viaggio è stato inframmezzato da innumerevoli sostesigaretta, durante le quali scendevamo tutti tranne gli ayurvedici che, in minoranza, non osavano lamentarsi ma erano palesemente convinti che lo facessimo apposta per rompergli le scatole. Siamo prima arrivati a Galle per la strada costiera, che era interrotta da continui sbarramenti, ingombra di mezzi di soccorso, fiancheggiata da processioni di superstiti con fagotti e carriole, dirette chissà dove. Nei pressi della città si circolava ancora più lentamente, ma appena il minibus ha imboccato la strada di montagna verso l’interno le scene di esodo sono terminate. Lasciataci alle spalle la prima linea, abbiamo proseguito immersi in una natura al tempo stesso lussureggiante e placida. Nei villaggi le persone si dedicavano tranquillamente alle proprie occupazioni e accoglievano il nostro passaggio con un sorriso. Jérôme e Philippe ritrovavano intatte le impressioni del loro viaggio avventuroso di dodici anni prima. Era come se non fosse successo niente, e addirittura come se, lontano dalla costa, nessuno sapesse che era successo qualcosa.

 

 

A un certo punto del viaggio, mentre fumavamo sul ciglio della strada, Philippe mi ha preso un po’ in disparte e mi ha chiesto: Tu che sei scrittore, scriverai un libro su tutto questo?

La domanda mi ha còlto alla sprovvista, non ci avevo pensato. Ho detto che in linea di principio pensavo di no.

Dovresti, ha insistito Philippe. Se sapessi scrivere, lo farei io.

Allora scrivilo. Ha più senso che lo scriva tu.

Philippe mi ha guardato con aria scettica, ma meno di un anno dopo quel libro lo ha scritto, ed è un buon libro.

 

 

Dopo quelli di Tangalle e di Matara, l’ospedale di Ratnapura aveva di confortante che lì venivano curati i vivi e non smistati i morti. Al posto dei cadaveri sul pavimento, c’erano feriti stesi sui letti o, nel caso degli ultimi arrivati, su giacigli che ingombravano i corridoi al punto che era difficile passare. Ci pareva incomprensibile e quasi soprannaturale che Tom fosse stato ritrovato a cinquanta chilometri dalla costa, ma non era stata l’onda a scaraventarlo laggiù, la spiegazione era più prosaica: i degenti per cui si poteva ancora fare qualcosa venivano trasferiti in questo ospedale, nell’interno. Alcuni erano conciati proprio male, si sentivano rantoli, gemiti, i farmaci e le bende scarseggiavano, il personale medico era sommerso di lavoro, sembrava di essere in un’infermeria in tempo di guerra. Non so quante porte abbiamo aperto prima che Ruth si immobilizzasse sulla soglia di una stanza facendo cenno a me e a Hélène di fermarci. Lo aveva visto, voleva prolungare quell’istante in cui lo vedeva senza che lui vedesse lei. C’erano una ventina di letti, ci ha indicato il suo. Tom, con gli occhi aperti, guardava davanti a sé. Era un tipo robusto con i capelli cortissimi e il torso nudo e fasciato. Non sapeva che Ruth era lì, ma soprattutto non sapeva che era viva, era nella stessa situazione in cui si trovava lei il giorno prima. Alla fine gli si è avvicinata. È entrata nel suo campo visivo. Per un po’ sono rimasti l’uno di fronte all’altro senza dire niente, lui con la schiena appoggiata sui cuscini, lei ritta ai piedi del letto, poi lei gli è corsa tra le braccia. Tutti nella stanza li guardavano, molti si sono messi a piangere. Era bello piangere perché un uomo e una donna che si amavano e che si erano creduti morti a vicenda si erano ritrovati. Era bello vederli mentre si guardavano e si toccavano con tanta meraviglia. Tom aveva la gabbia toracica sfondata, un polmone perforato, era in gravi condizioni, ma lo stavano curando bene. Sul comodino aveva un romanzo di spionaggio consunto, in inglese, qualche lattina di birra e un grappolo d’uva, tutte cose portate da un vecchietto sdentato che lui non conosceva ma che lo accudiva e ogni giorno, da quando era arrivato, gli faceva piccoli regali di quel genere. Il vecchietto era lì, seduto con discrezione sul bordo del letto. Tom lo ha presentato a Ruth, che lo ha abbracciato con gratitudine. Poi Ruth ha riaccompagnato me e Hélène al parcheggio dell’ospedale dove gli altri ci stavano aspettando. Ci ha salutati uno per uno. Appena Tom fosse stato in condizioni di viaggiare, sarebbero tornati a casa. Per loro la storia finiva bene.

Hélène, l’ho già detto, al ritorno ha perso il foglio su cui aveva annotato l’indirizzo di Ruth e Tom. Non ricordiamo il loro cognome, quindi non è facile sapere come se la passano adesso. Nel momento in cui scrivo sono trascorsi più di tre anni da allora. Se hanno tenuto fede ai loro progetti, ora dovrebbero abitare nella casa che Tom ha costruito con le sue mani e avere un bambino, forse già due. Parleranno dell’onda qualche volta? Di quei giorni terribili in cui ciascuno dei due ha creduto l’altro morto e la propria vita finita per sempre? E noi saremo parte di quella narrazione come loro lo sono della nostra? Che cosa ricorderanno di noi? I nomi? Le facce? Le loro facce, io le ho dimenticate. Hélène dice che Tom aveva gli occhi azzurrissimi e che Ruth era bella. A volte pensa a loro, e il suo pensiero in sintesi consiste nello sperare con tutto il cuore che siano felici e che invecchieranno insieme. Nello sperare questo, ovviamente pensa a noi due.

 

 

L’ambasciata francese di Colombo ci ha dirottati sull’Alliance française, che fungeva da centro di accoglienza per i turisti coinvolti nella catastrofe e da unità di supporto. Avevano steso dei materassi nelle aule e affisso nell’atrio una lista – che continuava ad allungarsi – delle persone disperse. Alcuni psichiatri offrivano assistenza. Remissiva, Delphine ha accettato di consultarne uno, che poi ha confidato i suoi timori a Hélène: reggeva troppo bene il colpo, si proibiva di cedere, ma così il crollo al ritorno sarebbe stato ancora più rovinoso. Quell’atmosfera apocalittica aveva un che di irreale, di anestetizzante, presto però la realtà le sarebbe piombata addosso. Hélène annuiva, sapeva che lo psichiatra aveva ragione. Pensava alla cameretta della bambina, laggiù, a Saint-Émilion, al momento in cui Delphine ne avrebbe varcato la soglia. Per rimandare quel momento, avremmo quasi preferito non partire, non subito, non ancora, restare ancora un po’ tutti insieme nell’occhio del ciclone, ma erano già in corso i preparativi per il viaggio, si parlava di posti su un aereo che sarebbe decollato la mattina dopo. Jérôme si è fatto portare, da solo stavolta, all’ospedale dove avevano trasferito il corpo di Juliette. Quando è tornato ha riferito a Delphine che Juliette era bella, che non era sfigurata, poi a Hélène, tra i singhiozzi, che aveva detto una bugia: nonostante la cella frigorifera, era già in stato di decomposizione. La sua bambina in stato di decomposizione. Dopodiché è cominciato tutto un tira e molla riguardo alla cremazione. Delphine e Jérôme volevano portarsi via il corpo ma non volevano che fosse seppellito. Quando si vive una situazione assolutamente intollerabile, capita che qualcosa, un dettaglio, sia ancora più intollerabile di tutto il resto: per loro era l’immagine della piccola bara. Non volevano seguire la piccola bara della loro bambina. Preferivano che venisse cremata. Gli hanno spiegato che non era possibile: per motivi sanitari il corpo doveva essere rimpatriato in una bara piombata, che poi non sarebbe più stato consentito né aprire, né bruciare. Se decidevano di rimpatriarla, avrebbero dovuto per forza seppellirla. L’unica possibilità, se volevano cremarla, era di farlo lì. Dopo una lunga e burrascosa discussione si sono rassegnati a questa seconda ipotesi. Era già buio, Jérôme e Philippe sono usciti di nuovo per andare all’ospedale, sono tornati dopo parecchio tempo con una bottiglia di whisky di cui avevano già bevuto una buona metà e che abbiamo finito insieme, poi abbiamo continuato a bere in un ristorante che conoscevano loro, il posto dove era tradizione che cenassero la prima sera di ogni soggiorno in Sri Lanka. Quando è arrivata l’ora di chiusura, il proprietario ha accettato di venderci un’altra bottiglia. Avere quella bottiglia ci ha aiutato ad aspettare alzati il momento di prendere l’aereo, siamo saliti a bordo ubriachi e ci siamo addormentati subito.

Quell’ultima notte a Colombo la ricordo come una sorta di corsa frenetica e scomposta. A un certo punto si è parlato di una cerimonia buddhista, poi non se n’è più parlato. La cremazione ha avuto luogo in fretta e furia, una faccenda sbrigativa a cui nessuno è stato invitato ad assistere, dopodiché non restava che sbronzarsi e levare le tende. Avremmo potuto rimanere un giorno di più, cercare di fare le cose per bene, ma non aveva senso fare le cose per bene, più niente aveva senso, più niente poteva essere per bene, bisognava chiudere quella faccenda, solo chiudere quella faccenda, e chiuderla in malo modo. Nel terminal dell’aeroporto Jérôme, la forza tranquilla, era diventato all’alba una specie di punk ghignante, con gli occhi iniettati di sangue, che provocava gli altri passeggeri e che, se qualcuno osava fiatare, gli sbatteva sul muso: Mia figlia è morta, stronzo, ti basta?

 

 

Ho anche un altro ricordo però. Eravamo appena arrivati all’Alliance française e ci è stato proposto di fare una doccia. Possibile che nei giorni precedenti all’Hotel Eva Lanka mancasse o fosse stata razionata l’acqua? Non credo. Avevamo alle spalle soltanto una lunga giornata di viaggio, eppure era come se avessimo passato tre mesi nel deserto senza lavarci. L’hanno fatta prima i ragazzi, poi io e Hélène, insieme. Siamo rimasti a lungo l’uno di fronte all’altro, sotto lo striminzito filo d’acqua. Sentivamo tutta la fragilità dei nostri corpi. Io guardavo quello di Hélène, così bello, così prostrato dalla fatica e dallo spavento. Non provavo desiderio ma una straziante pietà, un bisogno di accudire, di proteggere, di custodire sempre. Pensavo: Oggi potrebbe essere morta. È preziosa per me. Enormemente preziosa. Vorrei che un giorno fosse vecchia, che la sua carne fosse vecchia e sfatta, e continuare ad amarla. Tutto ciò che era accaduto in quei cinque giorni e che stava finendo allora, in quel preciso istante, ci ha travolto come un fiume in piena. Si apriva una cateratta, liberando un flusso di dolore, di sollievo, di amore, mescolati insieme. Ho stretto Hélène tra le braccia e detto: Non voglio più che ci lasciamo, mai più. Lei ha detto: Neanch’io voglio più che ci lasciamo.


Ho trovato l’appartamento in cui abitiamo oggi due settimane dopo il nostro rientro a Parigi. Qualche giorno più tardi, firmato il contratto di affitto, stavamo facendo un sopralluogo insieme a un artigiano polacco che doveva tinteggiare le pareti e ristrutturare la cucina, quando ha squillato il cellulare di Hélène. Lei ha risposto dicendo sì, ha ascoltato qualche istante in silenzio, poi si è spostata nella stanza accanto. Quando io e il polacco l’abbiamo raggiunta, aveva gli occhi pieni di lacrime e le tremava il mento. Suo padre le aveva appena comunicato che Juliette aveva un altro tumore. Un altro, perché ne aveva già avuto uno, da adolescente. Questo lo sapevo. Che cos’altro sapevo di lei, all’epoca? Che camminava con le stampelle, faceva il giudice, abitava vicino a Vienne, nell’Isère. Hélène vedeva di rado sua sorella. Le loro vite non si assomigliavano per niente, c’era sempre qualcosa di più urgente da fare che andare a Vienne. Ma le voleva bene. Mi aveva parlato di lei diverse volte, con affetto e anche con ammirazione. Poco prima delle vacanze di Natale Juliette aveva avuto un’embolia polmonare, Hélène era preoccupata, ma l’onda aveva spazzato via quella preoccupazione insieme al resto della nostra vita di prima, da quando eravamo tornati non avevamo più accennato all’argomento, e ora veniva fuori che aveva un altro tumore. Al seno stavolta, con metastasi ai polmoni.


 


 


Siamo andati a trovarla un weekend del mese di febbraio, quando aveva appena iniziato la chemioterapia. Sapendo che avrebbe perso i capelli, aveva chiesto a Hélène di comprarle una parrucca e Hélène aveva girato diversi negozi specializzati per trovare la più bella. Aveva comprato anche dei vestitini per le tre nipoti. Nella loro famiglia tutto quanto è frivolezza, eleganza e apparire è di competenza di Hélène. Certo non di Juliette e di suo marito, che abitavano in una villetta moderna in un paesino privo di attrattive, a metà strada tra la campagna e la periferia. Ho trovato una giovane donna stremata, smagrita, che non si alzava più dalla poltrona, un marito slanciato, affabile, bello, un po’ svagato, e tre bambine davvero incantevoli, la maggiore delle quali, che aveva sette anni, disegnava con grande applicazione e con una sicurezza del tratto sorprendente per la sua età, riempiendo quaderni interi di principesse agghindate con abiti di gala e con il capo ornato di pietre preziose. Con la stessa serietà seguiva un corso di danza e l’ho fatta ridere improvvisando con lei qualche improbabile entrechat sulle note del Lago dei cigni. A parte questa provvida scenetta, un misto di inerzia e imbarazzo mi ha spinto a partecipare molto poco alla conversazione, che in ogni caso, per via della debolezza di Juliette, languiva. Era inverno, hanno acceso le luci presto, il pomeriggio si trascinava lento. Ho ispezionato, come faccio sempre quando arrivo da qualche parte, gli scaffali della piccola libreria, in cui c’erano manuali pratici, albi per bambini, saggi divulgativi su giustizia e bioetica, qualche romanzo di quelli che si comprano all’autogrill. In mezzo a questo campionario ai miei occhi deprimente, ho scovato un libro solitario, un romanzo di un’autrice che amo molto, Béatrix Beck. Il romanzo si intitola: Plus loin, mais où? Sfogliandolo mi sono imbattuto in una frase che mi ha fatto ridere e che ho letto ad alta voce: «Fa sempre piacere ricevere visite, se non quando arrivano gli ospiti almeno quando se ne vanno».


 


 


Juliette non voleva che tornassimo troppo presto a trovarla: non prima che si fosse rimessa dalla chemioterapia. Sono passati due mesi, nel corso dei quali lei e Hélène si sono parlate solo al telefono. Juliette era di quelle persone che tendono a rassicurare i propri cari più che ad allarmarli, il che rendeva le notizie ancora meno rassicuranti. I medici, diceva, erano ottimisti, la combinazione della chemioterapia e di una cura recente, a base di Herceptin, sembrava stesse facendo regredire la malattia. Ma si parlava di remissione, non di guarigione, e anche se sperava che fosse lunga, Juliette ormai progettava la sua vita solo nel lasso di tempo di quella remissione. Quando Hélène proponeva di farle visita, le rispondeva: Aspettate un po’, aspettate che venga il bel tempo, staremo in giardino, sarà più piacevole, e poi per ora sono troppo stanca. Quelle conversazioni erano strazianti per Hélène. Mi diceva, con una sorta di stupore: Mia sorella morirà. Fra sei mesi, fra un anno, ma è sicuro, morirà. Io la stringevo fra le braccia, le stringevo il viso fra le mani, dicevo: Io ci sono, ed era così, io c’ero. Ripensavo a quando, appena un anno prima, la maggiore delle mie sorelle aveva rischiato di morire, come pure, molto tempo addietro, la minore: quei ricordi mi aiutavano a provare, almeno in parte, quello che provava lei, a starle un po’ più vicino, ma la verità è che, tranne nei momenti in cui me ne parlava, o quando, senza che me ne parlasse, mi accorgevo che aveva pianto, non ci pensavo molto. A parte quella minaccia incombente, la nostra vita era felice. Per inaugurare la nuova casa abbiamo dato una grande festa, e per settimane tutti i nostri amici ci hanno ripetuto che feste così allegre ce n’erano di rado. Ero orgoglioso della bellezza di Hélène, della sua ironia, della sua indulgenza, amavo senza averne paura il suo fondo di malinconia. Di lì a poco il film che avevo girato l’estate prima sarebbe stato presentato al Festival di Cannes. Mi sentivo brillante, importante, e il dramma di quella quasi cognata ammalata di cancro nella sua casetta sperduta in un buco di provincia mi addolorava, certo, ma era lontano. Quella vita che si stava spegnendo non aveva niente a che fare con la mia vita in cui tutto sembrava sbocciare, prosperare. Il problema principale per me era che la situazione logorava Hélène e mi tratteneva un po’ – molto poco, a dire il vero – dall’impulso di dare libero sfogo davanti a lei all’euforia lievemente megalomane da cui ero pervaso in quella primavera.


 


 


Tra Cannes e l’uscita del film c’era ancora una tappa sulla via della gloria, un altro festival, a Yokohama. Avrei viaggiato in business class, ci sarebbe stato il fior fiore del cinema francese, mi vedevo già acclamato in giapponese. Hélène lavorava, sicché non poteva accompagnarmi, ma aveva programmato di fare finalmente, durante la mia assenza, un salto a Vienne: Juliette diceva di sentirsi un po’ meglio, avrebbe fatto bel tempo e avrebbero potuto starsene in giardino. Dovevo partire il lunedì e il venerdì ho registrato la voce fuori campo per un documentario che avevo girato in Kenya con un amico – facevo un sacco di cose in quel periodo, e mi sembrava che non mi sarei più fermato. Registrare la mia voce e dominarla meglio di quanto non faccia nella vita mi procura un indubbio piacere narcisistico ed ero riuscito a infilare nel commento la frase che mi faceva ridere sulle visite che fanno sempre piacere, se non quando arrivano gli ospiti almeno quando se ne vanno, per cui io e Camille, la mia montatrice, siamo usciti dallo studio più che soddisfatti di quel pomeriggio di lavoro e di noi stessi. Siamo andati a bere qualcosa nel dehors di un caffè, ho scroccato una sigaretta a una ragazza seduta accanto a noi, lei ha scherzato, io pure, Camille, che per me è sempre un pubblico di bocca buona, ha riso di cuore, e in quel momento mi è squillato il cellulare. Era Hélène. Chiamava dalla televisione, andava alla Gare de Lyon senza passare da casa: Juliette stava morendo.


 


 


I suoi genitori ci aspettavano a Lione, alla stazione Perrache. Avevano chiuso in fretta e furia la casa nel Poitou, dove erano in vacanza per qualche giorno, e attraversato la Francia in macchina. Sul momento ho pensato che avessero aspettato di essere almeno a metà strada per chiamare Hélène, in modo che non arrivasse prima di loro, ma più tardi ho trovato sulla nostra segreteria telefonica una serie di messaggi sempre più impellenti che mi hanno ricordato quelli trovati sulla mia vent’anni prima, quando la mia sorella minore ha avuto un grave incidente d’auto. Ero tornato a casa tardi e troppo sbronzo per ascoltarli, li ho scoperti solo la mattina dopo. Allo spavento per la notizia si era aggiunta, anche se in pratica non sarebbe cambiato nulla, la vergogna di esserne stato indebitamente protetto per un’intera notte, di aver dormito il sonno degli ubriachi, se non quello dei giusti, mentre mia madre, che ho spesso accusato di non dire la verità per proteggere i suoi cari, aveva fatto di tutto per avvisarmi. Io e Hélène siamo saliti sui sedili posteriori e ho avuto la sensazione che le cose riprendessero un corso perduto da molto tempo: i genitori davanti, i figli dietro. Il tragitto fino all’ospedale Lyon-Sud è stato piuttosto lungo, con circonvallazioni infinite, cartelli che vedevamo troppo tardi, uscite che non prendevamo in tempo per cui dovevamo prendere la successiva e poi la circonvallazione in senso inverso. Queste difficoltà nel trovare la strada permettevano di parlare di argomenti neutri. Per i genitori di Hélène, come per i miei, la buona educazione consiste in primo luogo nel tenere per sé le proprie emozioni, ma avevano gli occhi rossi, e le mani di Jacques, il padre, tremavano sul volante. Subito prima di arrivare, Marie-Aude, la madre, ha detto senza voltarsi che probabilmente quella sera avremmo visto Juliette per l’ultima volta. Forse ancora il giorno dopo, non si sapeva.


 


 


Era in rianimazione. Hélène e i genitori sono entrati nella camera, io volevo restare sulla soglia, ma Hélène mi ha fatto segno di seguirla, di starle dietro, vicinissimo, mentre si avvicinava a sua sorella e le prendeva la mano in cui era infilato l’ago della flebo. A quel contatto Juliette, che giaceva immobile con la testa riversa all’indietro, si è girata leggermente verso di lei. I suoi polmoni non reggevano quasi più, tutta l’energia che le restava era impegnata nell’atto, divenuto terribilmente difficile, di respirare. Non aveva più capelli, il viso era emaciato e cereo. Avevo visto molti morti tutti in una volta a Tangalle, i miei primi morti, ma non avevo ancora mai visto qualcuno morire. Ora lo vedevo. I genitori e la sorella le hanno parlato l’uno dopo l’altro senza che lei potesse rispondere, ma li guardava e sembrava riconoscerli. Non ricordo che cosa le hanno detto. Probabilmente hanno ripetuto il suo nome, e chi erano loro, e che erano lì. Juliette, sono papà. Juliette, sono mamma. Juliette, sono Hélène. E le stringevano le mani, le toccavano il viso. Tutt’a un tratto lei si è tirata su nel letto, inarcando la schiena. Ha fatto diverse volte un gesto brusco e maldestro per strapparsi la maschera dell’ossigeno, come se invece di aiutarla a respirare glielo impedisse. Spaventati, abbiamo pensato che non funzionasse più, che sarebbe morta subito per mancanza d’aria. È arrivata un’infermiera e ha detto di no, che l’apparecchio funzionava bene. Hélène, che teneva Juliette fra le braccia, l’ha aiutata a rimettersi distesa. Lei non si è opposta. Quel lampo di vitalità l’aveva spossata. Più che calma sembrava distante, irraggiungibile. Siamo rimasti per un po’ tutti e quattro al suo capezzale. Più tardi l’infermiera ci ha detto che nel pomeriggio, quando poteva ancora parlare, aveva chiesto di vedere le figlie, ma solo dopo la festa scolastica di fine anno, che si sarebbe tenuta la mattina seguente. I medici pensavano di poterla tenere in vita fino a quel momento. Quella notte avrebbero fatto in modo che riposasse. Era stato pianificato tutto da lei e suo marito. Non voleva morire intontita dai farmaci, ma al tempo stesso ci faceva affidamento per evitare che l’eccesso di sofferenza le sottraesse la propria morte. Voleva che la aiutassero a resistere per fare quello che le restava da fare ma non oltre. Più ancora del suo coraggio, a impressionare l’infermiera erano la sua lucidità e la sua intransigenza.


 


 


In albergo, quella notte, Hélène era stesa accanto a me, ma trincerata nel suo dolore, anche lei irraggiungibile. Ogni tanto si alzava per andare a fumare una sigaretta davanti alla finestra socchiusa e allora mi alzavo anch’io, fumavo anch’io una sigaretta. Nella camera in cui stavamo era vietato e come posacenere usavamo uno dei bicchieri di plastica del bagno con un goccio d’acqua sul fondo per evitare che si bruciasse. Si formava un intruglio ripugnante. Avevamo entrambi intenzione di smettere di fumare, diversi vani tentativi al nostro passivo, ma di comune accordo avevamo deciso, invece di riprovarci in un momento sbagliato rischiando di fallire ancora una volta e scoraggiarci, di rimandare e di aspettare, per cercare di smettere sul serio, un momento veramente propizio, vale a dire un momento in cui non eravamo troppo stressati. Questo significava per me dopo l’uscita del film e per Hélène, me ne rendo conto adesso anche se non ce lo eravamo detto esplicitamente, dopo la morte di Juliette, che vedeva avvicinarsi da diversi mesi con un terrore attonito. Ci alzavamo, fumavamo, ci rimettevamo a letto, ci rialzavamo, tutto praticamente senza parlare. A un certo punto Hélène mi ha detto: Per fortuna sei qui, e mi ha fatto bene sentirglielo dire. Al tempo stesso pensavo a Yokohama. Mi dicevo che, per come si stavano mettendo le cose, le probabilità che potessi prendere l’aereo lunedì erano davvero scarse e cercavo invano di calcolarle. Pensavo anche allo Sri Lanka, a come ci eravamo abbracciati sotto la doccia dell’Alliance française decidendo di non lasciarci più. La camera dei suoi genitori era nello stesso corridoio, a tre porte dalla nostra. Loro non si erano lasciati, e nemmeno i miei. Invecchiavano insieme e, anche se non erano un modello per noi, trovavo che invecchiare insieme non fosse cosa da poco. Probabilmente erano stesi sul letto in silenzio. Forse si stringevano l’uno all’altro. Forse piangevano tutti e due, girati l’uno verso l’altro. Era l’ultima notte della figlia, o la penultima. Aveva trentatré anni. Erano lì per la sua morte. E le tre bambine a pochi chilometri da noi? Stavano dormendo? Che cosa succedeva nelle loro teste? Che significa, a sette anni, sapere che tua madre sta morendo? E a quattro anni? E a un anno? A un anno non sanno, non capiscono, a quanto pare, ma anche senza parole di certo intuiscono che attorno a loro sta succedendo qualcosa di immensamente grave, che la vita sta per essere stravolta, che non si sentiranno mai più realmente sicuri. Mi frullava per la testa una questione linguistica. Non sopporto l’uso della parola «mamma» se non al vocativo e in un contesto privato: che anche a sessant’anni ci si rivolga così alla propria madre, passi, ma che, finita la scuola materna, si continui a dire «la mamma di Tizio» o, come Ségolène Royal, «le mamme», mi disgusta, e in questo disgusto ci vedo qualcosa di diverso dall’istinto di classe che mi fa storcere il naso quando qualcuno dice in mia presenza «e quant’altro» o ripete ogni due secondi «non c’è problema». Eppure, finanche per me, quella che stava morendo non era la madre di Amélie, Clara e Diane, ma la loro mamma, e questa parola che non mi piace, questa parola che da tanto tempo mi fa tristezza, non dico che non mi facesse tristezza, ma avevo voglia di pronunciarla. Avevo voglia di dire sottovoce: Mamma, e di piangere, e di essere, non consolato, no, ma cullato, solo cullato, e di addormentarmi così.

Rosier, dove abitavano Juliette, Patrice e le loro tre figlie, dove abitano ancora Patrice e le sue tre figlie, è un paesino piccolissimo, senza negozi né bar, ma con una chiesa e una scuola, attorno alle quali sono sorti dei quartieri residenziali. La chiesa risale alla fine dell’Ottocento, nessuna delle villette è di quell’epoca, sicché viene da chiedersi come fosse il paese un tempo, se fosse abitato da contadini prima di essere scoperto da giovani coppie che lavorano a Vienne o a Lione e hanno preferito stabilirsi lì perché è un posto non troppo caro e adatto ai bambini. Quando ci ero andato con Hélène, a febbraio, lo avevo trovato tanto più lugubre perché mi ricordava molto, per l’aspetto e gli abitanti, quello in cui avevano vissuto Jean-Claude Romand e la sua famiglia, non lontano da lì, nella regione di Gex. A giugno sembrava già più accettabile, anche per via del bel tempo. Il giardino, attrezzato con un’altalena e una piscina di plastica, dà sulla piazza della chiesa, che basta attraversare per arrivare alla scuola. Immaginavo le bambine che uscivano dopo colazione con la cartella sulle spalle e a merenda, le visite da una casa all’altra, le biciclette appese nei garage sopra il banco da lavoro e il tagliaerba. Era un po’ soffocante, ma in fondo gradevole.

Quando siamo arrivati, il sabato mattina, in casa c’era molta gente: oltre a Patrice e alle figlie, che stavano finendo di prepararsi per la festa scolastica, i parenti da entrambe le parti, genitori, fratelli e sorelle, senza contare i vicini che passavano per un saluto e un caffè. Se ne facevano in continuazione, di caffè, tirando fuori dalla lavastoviglie non ancora avviata tazze che venivano sciacquate sotto il rubinetto. Io ero il più recente dei parenti acquisiti, avevo bisogno di un compito e mi sono avvicinato al tavolo della cucina per aiutare la madre di Patrice a preparare una grande insalata per il pranzo. Sapevamo tutti perché eravamo lì, non aveva senso parlarne, ma di che parlare allora? Lei aveva letto un mio libro, L’Avversario, che le aveva consigliato Juliette dicendo che ero il nuovo fidanzato di Hélène, e lo aveva trovato molto duro. Ho ammesso che, in effetti, era duro, che era stato duro anche per me scriverlo, e mi sono un po’ vergognato di scrivere cose tanto dure. Le persone che frequento di solito non trovano niente di sorprendente nel fatto che un libro sia terribile: anzi, molti lo considerano un merito, una prova di audacia da parte dell’autore. I lettori più ingenui, come la madre di Patrice, ne sono turbati. Non che ritengano sbagliato scrivere questo genere di cose, ma si chiedono perché scriverle. Pensano che il tizio gentile e beneducato che li aiuta a tagliare a fettine i cetrioli e che ha l’aria di partecipare sinceramente al lutto della famiglia, ebbene che quel tizio dev’essere parecchio sciroccato, o parecchio infelice, o comunque che deve avere qualcosa che non va, e il peggio è che non posso dargli torto.

Cercavo rifugio nella compagnia della madre di Patrice, anche perché non osavo rivolgermi alle bambine, parlo delle due più grandi, Amélie e Clara. Con loro non bastava essere gentili e beneducati. Non sapevo cosa fosse opportuno fare, ma sapevo di non esserne capace in quel momento. La prima volta che ero stato lì, avevo fatto il pagliaccio per divertire Amélie. Ora era Antoine a fare il pagliaccio per divertirla. Antoine è il fratello minore di Hélène e Juliette ed è una persona assolutamente deliziosa. È allegro, cordiale, in lui non c’è niente di affettato, di controllato, con lui tutti si sentono subito a proprio agio, specialmente i bambini. Ho scoperto in seguito l’abisso di dolore in cui può sprofondare, ma quel giorno invidiavo la sua semplicità, il suo rapporto spontaneo con la vita, che sono quanto di più lontano ci sia dal mio carattere e, almeno così mi sembrava allora, da quello di Hélène. Però Hélène è capace di cancellare sé stessa. Lo avevo scoperto vedendola prestare assistenza ai superstiti dell’onda, ne avevo conferma osservandola con Clara. La sera prima Patrice, come avevo appena saputo da sua madre, aveva parlato alle tre bambine. E parlare significava dire: Mamma sta per morire; domani, dopo la festa della scuola, andremo a trovarla tutti e quattro, e sarà l’ultima volta. Aveva pronunciato quelle parole, le aveva dovute ripetere. Clara aveva capito. Sapeva che presto sarebbe stata privata, a quattro anni, di quell’amore insostituibile che sua madre le dava, e ne cercava già un surrogato nella zia. Vedevo Hélène coccolarla, accoglierne le moine e le lacrime, ed ero turbato dalla sua delicatezza come lo ero stato, laggiù, vedendola in una situazione esattamente opposta, insieme ai genitori di un’altra Juliette.

 

 

Ho fatto e faccio ancora lo sceneggiatore, una parte del mio lavoro consiste nel costruire situazioni drammatiche, e una regola del mestiere è quella di non aver mai paura delle esagerazioni e del melodramma. Penso tuttavia che in una mia storia non mi sarei mai permesso di ricorrere a un effetto spudoratamente strappalacrime come il montaggio alternato della festa scolastica con le bambine che ballano e cantano e dell’agonia della madre in ospedale. Aspettando che arrivasse il loro turno, io e Hélène uscivamo ogni dieci minuti dal porticato per fumare una sigaretta, poi tornavamo al nostro posto accanto ai parenti e, quando sono comparse prima Clara, tra i piccoli della materna che facevano il balletto dei pesci nell’acqua, poi Amélie che, in tutù, partecipava a un numero con il cerchio e l’hula-hoop, ci siamo sbracciati come gli altri per attirare la loro attenzione, mostrare che c’eravamo. Era importante per loro, quello spettacolo. Erano bambine coscienziose, diligenti. Fino a pochi giorni prima credevano che la madre sarebbe stata lì a guardarle. Quando l’avevano portata all’ospedale, Patrice aveva detto loro – probabilmente ci sperava ancora – che sarebbe tornata in tempo per la festa. Poi che non era sicuro che sarebbe tornata per la festa, ma che sarebbe tornata presto. Poi, il giorno prima, che non sarebbe tornata mai più. Ciò che rendeva il momento, se possibile, ancora più straziante è che quella festa era molto bella. Dico davvero. Gabriel e Jean-Baptiste, i miei due figli, ormai sono grandi, ma quand’erano alla materna e alle elementari ne ho viste parecchie di feste di fine anno, recite, canzoni e pantomime. Fanno sempre tenerezza, ovviamente, ma sono anche macchinose, approssimative, per dirla tutta un po’ raffazzonate, sicché se c’è una cosa di cui i genitori più indulgenti sono grati ai maestri che si fanno in quattro per organizzarle è che durino poco. Lo spettacolo della scuola di Rosier non durava poco, ma non era stato messo su alla meno peggio. La precisione di quei brevi balletti e di quelle scenette non poteva essere che il risultato di un grande lavoro e di un grande impegno – una serietà inconcepibile nelle scuole radical chic frequentate dai miei figli. I bambini avevano l’aria felice, equilibrata. Crescevano in campagna, in un ambiente familiare protetto. Di certo le persone divorziavano e si scannavano a Rosier come altrove, solo che in quel caso andavano via da Rosier, che era veramente un posto per famiglie unite, un posto dove ogni bambino, dal palco su cui cantava e ballava, poteva cercare con lo sguardo tra le file del pubblico suo padre e sua madre, insieme, ed era scontato che fossero insieme. Era la vita come la mostrano le pubblicità delle assicurazioni o dei prestiti bancari, la vita in cui ci si preoccupa del tasso annuo del proprio libretto di risparmio e del calendario delle vacanze scolastiche, la vita al Mulino Bianco, la vita in tuta, la vita ordinaria in tutto, priva non solo di stile ma della consapevolezza che alla propria vita si può cercare di dare forma e stile. Squadravo quella vita dall’alto in basso, io non ne avrei mai voluta una del genere, eppure quel giorno guardavo i bambini, guardavo i loro genitori filmarli con le videocamere e mi dicevo che scegliere di vivere a Rosier non significava solo scegliere la sicurezza e il conformismo, ma anche l’amore.

 

 

Nella folla di genitori che riempiva il porticato della scuola e che dopo lo spettacolo si è radunata sul piazzale davanti alla chiesa, tutti sapevano. Non parlavano ancora di Juliette al passato, ma non potevano fingere che ci fossero speranze. Vicini e amici più o meno intimi andavano a dare un bacio a Patrice che teneva in braccio la piccola Diane, gli mettevano una mano sulla spalla, si offrivano di badare alle bambine o di ospitare, se a casa sua non c’era posto, i membri della famiglia venuti per la morte di sua moglie. Lui aveva sulle labbra un sorriso sconfortato e gentile, che esprimeva un’autentica gratitudine per le più convenzionali manifestazioni di simpatia – detto questo, il fatto che fossero convenzionali non significa che non fossero sincere –, e mi colpiva molto, non ha mai smesso di colpirmi, la sua semplicità. Stava lì in pantaloncini corti e sandali, dava il biberon alla figlia più piccola e non si poneva minimamente il problema di come manifestare il suo dolore. È cominciata la festa. C’erano stand dedicati al tiro con l’arco e alla pesca, piramidi di barattoli da buttare giù con una pallina da tennis, un atelier di pittura, una lotteria a premi... Amélie aveva un blocchetto di biglietti della lotteria da smerciare, tutti i membri della famiglia e qualche vicino gliene hanno comprati un po’, ma nessuno di noi ha vinto niente. Siccome al momento dell’estrazione stavo con lei e Hélène, ho finto di seguire il gioco molto attentamente, controllavo i numeri con febbrile impazienza ed esageravo la mia delusione per farla ridere. Lei rideva, ma rideva a modo suo, con aria grave, e io cercavo di immaginare che ricordo avrebbe avuto, da adulta, di quella giornata. E adesso, mentre scrivo queste cose, cerco di immaginare quello che proverà se un giorno le capiterà di leggerle. Dopo la festa c’è stato un pranzo in giardino, sotto la grande catalpa. Faceva molto caldo, al di là delle siepi si sentivano voci di bambini che ridevano e si schizzavano nelle piscine gonfiabili. Clara e Amélie, sedute a tavola buone buone, facevano dei disegni per la madre. Se colorando uscivano dai bordi, aggrottavano la fronte e ricominciavano daccapo. Quando Diane si è svegliata dopo il sonnellino pomeridiano, Patrice e Cécile, l’altra sorella di Juliette, hanno portato le tre bambine in ospedale. Al momento di salire in macchina, Amélie si è girata verso la chiesa, si è fatta un furtivo segno della croce e ha mormorato in un soffio: Fa’ che mamma non muoia.

 

 

Il nostro turno, mio e di Hélène, è arrivato nel tardo pomeriggio. Pensando che avrei dovuto guidare io, il giorno prima mi ero premurato di memorizzare l’itinerario e mi sono messo d’impegno a seguire la strada senza errori né incertezze: non potevo fare granché, ma essere un bravo autista era già qualcosa. Abbiamo aperto le stesse porte a doppio battente, percorso gli stessi corridoi deserti, illuminati dai neon, aspettato a lungo davanti all’interfono che ci dessero accesso al reparto di rianimazione. Quando siamo entrati nella camera, Patrice era steso sul letto accanto a Juliette e, chino su di lei, le teneva un braccio attorno al collo. Juliette aveva perso conoscenza, ma respirava ancora a fatica. Per lasciare Hélène un po’ da sola con la sorella, Patrice è andato nel corridoio. Io ho guardato Hélène sedersi sulla sponda del letto e prendere la mano inerte di Juliette, poi accarezzarle il viso. È passato un po’ di tempo. Uscendo dalla camera, ha chiesto a Patrice che cosa dicevano i medici. Lui ha risposto che secondo loro sarebbe morta nella notte, ma che non si poteva sapere con esattezza quanto ci sarebbe voluto. Ora devono aiutarla, ha ribattuto Hélène. Patrice ha annuito ed è tornato nella camera.

Il medico di guardia era un giovane calvo con gli occhiali dorati e l’aria abbottonata. Ci ha ricevuti insieme a un’infermiera bionda, calorosa nei modi quanto lui era freddo, e ci ha pregato di accomodarci. Probabilmente immagina, ha detto Hélène, che cosa sono venuta a chiederle. Lui ha fatto un piccolo cenno, più un incoraggiamento a continuare che un sì, e Hélène, con gli occhi che le si riempivano di lacrime, ha continuato. Ha chiesto quanto tempo poteva ancora durare quella situazione e il medico ha ripetuto che non era in grado di dirlo, ma che era questione di ore, non di giorni. Juliette era in bilico tra la vita e la morte. Ora bisogna aiutarla, ha ripetuto Hélène. Lui ha risposto solo: Abbiamo già cominciato a farlo. Hélène ha lasciato il suo numero di cellulare e ha chiesto che la chiamassero quando tutto fosse finito.

 

 

In macchina, tornando dall’ospedale, non era sicura di essere stata abbastanza chiara con il medico, né che lo fosse stata la sua risposta. Ho cercato di rassicurarla: non c’era stata nessuna ambiguità né da una parte né dall’altra. Temeva anche lo zelo dell’infermiera calorosa, che aveva parlato di un possibile miglioramento. Juliette poteva resistere ancora ventiquattr’ore, aveva affermato in tono speranzoso, o perfino quarantotto. Quelle ore, Hélène ne era certa, sarebbero state di troppo. Juliette aveva detto addio ai suoi cari, Patrice le era accanto: era il momento giusto. La medicina ormai poteva solo aiutarla a non perdere quel momento.

Ci siamo fermati a Vienne per comprare altre sigarette e bere qualcosa nel dehors di un caffè sul corso principale. Era un sabato sera in una cittadina di provincia, la gente andava in giro in camicia, in abiti leggeri, c’era aria d’estate e di Sud. Oltre al traffico normale abbiamo visto e sentito passare prima delle moto, che i ragazzi del posto facevano impennare e rombare il più forte possibile, poi le auto di un corteo nuziale con veli bianchi sulle antenne radio e clacson strombazzanti, e infine un camion pubblicitario che annunciava il teatrino dei burattini per quella sera. Era un incontro al vertice, sbraitava il tizio nel megafono, un incontro da non perdere: Guignol e Winnie Pooh! Come per la festa scolastica avevo l’impressione che lo sceneggiatore avesse davvero calcato la mano.

Abbiamo parlato di Patrice. Come avrebbe fatto, da solo con tre figlie piccole, senza un’entrata fissa? I fumetti a cui si dedicava nello studio allestito nel seminterrato di casa sua non gli fruttavano granché, era Juliette a mantenere la famiglia con il suo stipendio di magistrato e già così, benché alle bambine non mancasse niente, si intuiva che avevano qualche difficoltà ad arrivare alla fine del mese. Certo, poteva contare sull’assicurazione, con cui avrebbe finito di pagare la casa, e poi avrebbe trovato lavoro. La sua mitezza e la sua modestia non ne facevano un fulmine di guerra, naturalmente non avrebbe avviato un’agenzia di pubbliche relazioni, ma si poteva aver fiducia in lui: tutto quello che sarebbe stato necessario fare, lo avrebbe fatto. Più in là si sarebbe risposato. Un ragazzo così bello, così simpatico, avrebbe sicuramente trovato una donna altrettanto simpatica. L’avrebbe amata come aveva amato Juliette: non si sarebbe crogiolato nel suo dolore, non c’era traccia di morbosità in lui. Un giorno o l’altro sarebbe capitato, inutile pensarci prima del tempo. Per il momento era lì, stringeva fra le braccia sua moglie che stava morendo e, indipendentemente da quanto ci avrebbe messo, si poteva star certi che le sarebbe rimasto accanto fino alla fine, che Juliette sarebbe morta sentendosi al sicuro fra le sue braccia. Niente mi sembrava più prezioso di quella sensazione, della certezza di potersi abbandonare fino all’ultimo istante fra le braccia di qualcuno che ti ama di un amore incondizionato. Hélène mi ha riferito quello che Juliette aveva detto all’altra sorella, Cécile, il giorno precedente il nostro arrivo, quando era ancora in grado di parlare. Aveva detto che era contenta, che la sua piccola vita tranquilla era stata una vita riuscita. In un primo momento ho pensato che fosse una frase consolatoria, poi che fosse sincera e alla fine che fosse vera. Mi è tornata in mente la famosa frase di Fitzgerald: «La vita è tutta un processo di disgregamento», e quella non pensavo che fosse vera. Almeno non pensavo che lo fosse per tutte le vite. Per quella di Fitzgerald, forse. Per la mia, forse – all’epoca lo temevo più di oggi. Per di più, non sappiamo che cosa accada all’ultimo minuto, probabilmente ci sono vite il cui apparente fallimento è ingannevole, perché si sono riscattate in extremis o perché ci è sfuggito qualche particolare impercettibile. Probabilmente ci sono vite all’apparenza riuscite che sono in realtà infernali, e forse, per quanto terribile sia pensarlo, infernali fino alla fine. Ma quando Juliette giudicava la sua io le credevo, e quello che mi spingeva a crederle era l’immagine di quel letto di morte su cui Patrice la stringeva fra le braccia. Ho detto a Hélène: Sai, è successa una cosa. Fino a pochi mesi fa, se avessi scoperto di avere il cancro, di dover presto morire e mi fossi fatto la domanda che si è fatta Juliette – la mia è una vita riuscita? –, non avrei potuto rispondere come lei. Avrei detto di no, che la mia non era una vita riuscita. Avrei detto che mi erano riuscite alcune cose, avevo avuto due figli belli e vivaci, scritto tre o quattro libri in cui aveva preso forma quello che ero. Ho fatto quello che ho potuto, con le mie capacità e le mie inadeguatezze, ho lottato per farlo, il bilancio non è del tutto negativo. Ma mi è mancata la cosa più importante, l’amore. Sono stato amato, sì, ma non ho saputo amare, o potuto, è lo stesso. Nessuno ha potuto abbandonarsi con piena fiducia al mio amore e io, alla fine, non mi abbandonerò all’amore di nessuno. Questo avrei detto, prima dell’onda, se mi avessero annunciato che stavo per morire. Ma poi, dopo l’onda, ti ho scelta, ci siamo scelti, e non è più lo stesso. Tu sei qui, accanto a me, e se dovessi morire domani potrei dire come Juliette che la mia è stata una vita riuscita.

Ho davanti agli occhi quattro foglietti strappati da un taccuino a spirale e pieni, fronte e retro, di appunti presi allo scopo di descrivere nel modo più preciso possibile la camera 304 dell’Hôtel du Midi di Pont-Évêque, Isère. Dovevo partecipare a un libro collettivo in omaggio al mio amico Olivier Rolin, che l’anno prima aveva pubblicato un romanzo in cui descriveva minuziosamente una serie di camere d’albergo di varie parti del mondo. In quelle camere erano ambientate delle storie in cui comparivano entraîneuse, trafficanti d’armi e loschi figuri con i quali il narratore prendeva sbronze colossali. Il suo editore aveva avuto l’idea di prolungare il gioco chiedendo a una ventina di scrittori, amici di Olivier, di descrivere a loro volta una camera d’albergo e di usarla come pretesto per immaginare quello che volevano. A un certo punto dell’interminabile notte in cui aspettavamo la telefonata che ci avrebbe annunciato la morte di Juliette, per distrarre Hélène mi sono messo a parlare di questo testo che mi era stato commissionato e della mia incertezza sulla scelta dell’albergo. Per restare fedele allo spirito dell’iniziativa, romanzesco e ludico, ci sarebbe voluto un luogo di un esotismo un po’ sofisticato. Su questo registro avevo in serbo l’Hotel Vjatka di Kotel’nič, perfetto esempio di edificio fatiscente in stile brežneviano, dove probabilmente dal giorno dell’inaugurazione non era mai stata cambiata nemmeno una lampadina e dove, sommando i miei soggiorni, avevo passato tre o quattro mesi. All’altro estremo della scala, l’unico altro albergo in cui avevo veramente abitato, cioè in cui avevo vissuto parecchie settimane, era il lussuoso Intercontinental di Hong Kong, dove Hélène mi aveva raggiunto durante le riprese del film tratto da Baffi. Incontrandoci nella hall, ammirando la vista panoramica sulla baia dalla nostra stanza al ventottesimo piano, salendo e scendendo negli ascensori, ci sembrava di essere in Lost in translation. Immaginavo che l’albergo che mi attendeva a Yokohama fosse dello stesso tipo e mi ero ripromesso, come piacevole compito per le vacanze, di descrivere la camera che avrei occupato. Se non vai a Yokohama, mi ha detto Hélène, allora descrivi questa, di camera. Possiamo farlo qui, adesso, per passare il tempo. Ho preso il taccuino e ci siamo messi al lavoro, con lo stesso zelo di quando avevamo provato la scena erotica del film. Ho scritto che la camera, di circa quindici metri quadri, era interamente tappezzata, soffitto compreso, da una carta da parati dipinta di giallo. Non una carta da parati gialla, ha puntualizzato Hélène: una carta da parati che inizialmente doveva essere bianca e che poi è stata dipinta di giallo, con rilievi che imitavano un tessuto a trama larga. Dopo siamo passati ai rivestimenti in legno, i telai di porte e finestre, il battiscopa e la testiera del letto, questi ultimi dipinti di un giallo più carico. Era una camera molto gialla, insomma, con un tocco di rosa e di verde pastello nelle lenzuola e nelle tende, come pure nelle due litografie appese sopra e di fronte al letto. Stampate nel 1995 da Nouvelles Images SA, risentivano entrambe dell’influenza di Matisse e dello stile naïf iugoslavo. Appoggiato sul gomito, trascrivevo rapidamente le osservazioni di Hélène, che ora camminava su e giù per la stanza contando le prese elettriche, testando l’interruttore delle luci, sempre più assorbita da quell’inventario. Tralascio i dettagli: era una camera come tante di un albergo come tanti, per quanto tenuto molto bene – e gestito con grande cordialità. L’unica cosa di qualche interesse, ma anche la più difficile da descrivere, si trovava nel piccolo disimpegno che serviva da ingresso. Ricopio dai miei appunti: «È un armadio a muro con una doppia porta: una dà sul disimpegno e l’altra si apre ad angolo retto sul corridoio che conduce alle camere. In pratica può essere considerato un passavivande a due ripiani, quello superiore per i panni, quello inferiore per i vassoi della colazione, come indicano i pittogrammi stampati sul vetro di due piccoli sopraluce, che hanno così la duplice funzione di indicare dove mettere cosa e di dare modo di controllare se qualcosa è stato messo». Dubito che sia chiarissimo, ma pazienza. Ci siamo chiesti se quella sorta di armadio, piuttosto insolito, avesse un nome che ci potesse risparmiare una descrizione così complicata. Ci sono persone che sono molto brave in questo, che sanno il nome delle cose in ogni ambito o quasi. Il mio amico Olivier è una di loro, io no, Hélène un po’ più di me. So che la parola «sopraluce» nelle righe che ho appena riportato è sua.

È spuntata l’alba. Avevamo concluso il nostro inventario, e il telefono non aveva suonato. Hélène inorridiva all’idea che sua sorella fosse ancora in bilico tra la vita e la morte. Anch’io mi sentivo smarrito. Abbiamo chiuso le tende, ci siamo messi sotto le lenzuola e abbiamo dormito, male ma comunque un po’, stretti l’uno all’altro a cucchiaio. Il telefono ci ha svegliati alle nove. Juliette era morta alle quattro del mattino.

 

 

Abbiamo ritrovato Antoine, Jacques e Marie-Aude a colazione nella sala da pranzo dell’albergo. Cécile era a Rosier con Patrice e le figlie. Ci siamo abbracciati in silenzio, quel silenzio accompagnato da una pressione della mano sulla spalla che nel nostro ambiente è la massima espressione del dolore, poi abbiamo parlato di cose pratiche: il funerale, chi sarebbe rimasto quel giorno, come ci saremmo alternati nei giorni seguenti per stare accanto a Patrice e alle bambine, e già ci offrivamo di ospitarli a turno durante le vacanze estive. Per le ore successive era già tutto programmato: bisognava ripassare da Rosier, poi andare all’ospedale, credo che abbiano detto semplicemente: «a vedere Juliette». Non a porgerle l’estremo saluto, né a raccogliersi davanti alla sua salma: se c’è un merito che si deve riconoscere ai borghesi all’antica è quello di non ricorrere a questi eufemismi assurdi e di dire, per esempio: «È morto», non: «È deceduto» o «Non c’è più». Dopo saremmo andati a Lione per incontrare un collega di Juliette. Un collega di Juliette? Il giorno della sua morte? Io e Hélène eravamo un po’ stupiti. Sì, ha spiegato Jacques, un giudice che lavorava con lei al tribunale di Vienne e che le era stato molto vicino durante la malattia. Ad avvicinarli, tra le altre cose, era stato il fatto che anche lui da giovane aveva avuto un tumore e gli avevano amputato una gamba. Quella mattina, di sua iniziativa, aveva proposto ai membri della famiglia, visto che erano tutti lì, di riunirsi a casa sua per parlare di Juliette. Quella visita di condoglianze a un magistrato con una gamba sola mi sembrava piuttosto bizzarra, ma non potevo fare altro che accodarmi.

 

 

Non ricordo niente del primo contatto che abbiamo avuto con le bambine dopo che avevano perso la madre. Mi sembra che tutto si sia svolto con una certa calma, senza pianti, o comunque senza urla. Poi c’è stata la visita alla casa funeraria dell’ospedale. È un edificio moderno composto da una sala molto grande, con il soffitto molto alto, molto luminosa, una sorta di atrio, che ricorda le scenografie fisse della tragedia classica e da cui si ha accesso a numerose salette: le camere ardenti, la cappella e infine i bagni, dove si ha qualche remora a tirare lo sciacquone, perché il posto è silenziosissimo e i suoni rimbombano. Quella domenica mattina eravamo gli unici visitatori e siamo stati ricevuti da un tizio in camice da infermiere, che ci ha fatti sedere in un angolo della sala grande per spiegarci che cosa sarebbe accaduto, tecnicamente, nei pochi giorni che precedevano il funerale. Non era un infermiere, in realtà, ma un volontario addetto all’accoglienza dei parenti e ci teneva a tracciare una netta linea di demarcazione tra, da un lato, le mansioni di competenza dell’ospedale e del servizio pubblico che lui rappresentava e, dall’altro, quelle a cui dovevano provvedere i professionisti delle pompe funebri. Fino al momento della composizione nella bara, compito di questi ultimi, l’ospedale si faceva carico delle visite, controllava che il corpo venisse trasferito dall’obitorio alla camera ardente e presentato nel miglior modo possibile, vale a dire lavato, pettinato e, all’occorrenza, truccato. Era tutto gratuito, non dovevamo esitare a fare domande, le persone come lui erano al servizio dei parenti. I trattamenti estetici più impegnativi, invece, che potevano rivelarsi necessari, specie in estate, quando bisognava aspettare diversi giorni prima del funerale, erano gestiti dalle pompe funebri, quindi a pagamento. Insisteva molto sulla distinzione tra i servizi gratuiti e quelli a pagamento, ripeteva il concetto per essere sicuro che avessimo capito bene e, pensando alle famiglie meno agiate di quella di Juliette, lo trovavo giusto. In quel discorso che probabilmente recitava, pressoché parola per parola, a tutti i visitatori, una frase tornava più volte: «Siamo qui perché tutto si svolga nel migliore dei modi». Questa frase dev’essere un luogo comune nelle professioni legate alla morte e al dolore, e tuttavia avevamo l’impressione che quell’uomo facesse veramente il possibile perché tutto si svolgesse nel migliore dei modi.

Noi adulti avremmo visto Juliette subito, l’avevano preparata per la nostra visita, le bambine invece ci sarebbero andate nel pomeriggio, e la madre di Patrice aveva avuto l’idea di far scegliere a loro, nel guardaroba della mamma, un abito che a lei piaceva o che secondo loro le stava bene. In realtà Juliette non indossava quasi mai abiti, di solito portava pantaloni informi e comodi, però ci teneva che le figlie fossero ben vestite, dovevano sembrare delle principesse, così diceva, e forse non è un caso che Amélie si ostinasse a disegnare delle principesse. Quella mattina la madre di Patrice aveva quindi accompagnato le due più grandi davanti all’armadio a scegliere l’abito che la mamma avrebbe avuto nella bara, abito che ci eravamo portati dietro, così il pomeriggio, quando sarebbero venute le bambine, Juliette lo avrebbe avuto indosso. Il volontario ha approvato questa iniziativa e, già che c’era, ha aggiunto che eravamo fortunati perché il collega che di lì a poco gli avrebbe dato il cambio era lo specialista indiscusso del gruppo in materia di trucco. Marie-Aude si è un po’ allarmata: Juliette quasi non si truccava. Proprio per questo, ha replicato il volontario, era un bene che ci fosse il suo collega specialista: avrebbe fatto un lavoro estremamente delicato, in modo da dare l’impressione che fosse non truccata, ma viva. Quando siamo usciti dalla camera ardente, dopo dieci minuti di cui non ho niente da dire, lo specialista era appena arrivato. Avvertito delle perplessità dei familiari, ha cercato di rassicurarci e ha chiesto se qualcuno di noi, magari una delle sorelle, avesse voglia di dargli una mano, di truccare la defunta insieme a lui. È una cosa che può sembrare difficile, ha precisato, ma che può anche essere di gran conforto. Del resto, se all’ultimo momento la persona non se la fosse più sentita, avrebbe fatto da solo, nessuno era costretto a imporsi compiti penosi. Hélène e Cécile si sono guardate poco convinte, e alla fine nessuna delle due ha voluto truccare la sorella. Ripenso a quello specialista, su cui io, Hélène e Antoine abbiamo un po’ ironizzato in macchina: era un tizio in bermuda rosa, grassottello, con la zeppola e una frangia di capelli tinti che lo faceva sembrare un attore travestito da parrucchiere omosessuale per una commedia di serie b, e solo ora, scrivendo, mi chiedo che cosa potesse spingerlo ad andare di domenica, a titolo gratuito, a truccare cadaveri, guidando sui loro visi le dita dei parenti più prossimi. Forse semplicemente il piacere di essere d’aiuto. È una motivazione per me più misteriosa della perversione.

Ho rimandato finché ho potuto il momento di arrivarci, ma eccoci qua, siamo tutti e otto sulle scale del giudice con una gamba sola. Il palazzo, antico, borghese, si trova in una strada pedonale che sbocca davanti alla stazione Perrache e penso che sarà comodo per ripartire. Le scale sono di pietra, strette, non c’è l’ascensore, il che mi pare strano per un uomo con una gamba sola, ma ci fermiamo al primo piano. Suoniamo, ci apre, gli altri varcano la soglia a uno a uno presentandosi e stringendo la mano al padrone di casa il quale, poiché intanto la luce delle scale si è spenta, non vede che c’è ancora qualcuno sul pianerottolo e mi chiude la porta in faccia. Non so perché, trovo divertente, e lui pure, che la mia amicizia con Étienne Rigal sia cominciata così. Non so neanche perché ero convinto che il giudice con una gamba sola fosse scapolo, che vivesse in un appartamento minuscolo e buio, ingombro di fascicoli polverosi e magari impregnato di puzza di gatto. Invece no, l’appartamento era ampio, luminoso, con bei mobili tenuti bene, e non c’era bisogno di sbirciare attraverso lo spiraglio della porta di una cameretta per capire che era abitato da una famiglia. Evidentemente, però, moglie e bambini erano stati pregati di andare a fare una passeggiata: Étienne ci riceveva da solo. Sulla quarantina, alto, ben piantato, in jeans e maglietta grigia. Occhi azzurrissimi, sporgenti, dietro un paio di occhiali senza montatura. Viso aperto, voce carezzevole, un po’ acuta. Quando ci ha preceduti in salotto, abbiamo visto che zoppicava e che trascinava la gamba sinistra, del tutto rigida, appoggiandosi sulla destra. Il salotto dava sulla strada e il sole che entrava dalle finestre aperte inondava di luce fino alla parete opposta un bel parquet antico. Ci siamo accomodati, a coppie, i genitori su due poltrone vicine, io e Hélène stretti a un’estremità di un lunghissimo divano, Antoine e sua moglie all’altra estremità, Cécile e suo marito su due sedie. Su un tavolino c’erano una coppa piena di ciliegie e un vassoio con bicchieri e succhi di frutta, ma Étienne ha chiesto se volevamo un caffè e tutti hanno detto di sì, per cui è andato in cucina a prepararlo. In sua assenza non è stata pronunciata una sola parola. Hélène si è alzata per andare a fumare alla finestra, io l’ho raggiunta dopo aver dato un’occhiata agli scaffali della libreria, che rivelava gusti più personali, o più vicini ai miei, di quella di Rosier. Étienne è tornato con il caffè: usava una macchina per l’espresso che faceva solo una tazzina alla volta, eppure, misteriosamente, tutte e nove sono arrivate fumanti sul vassoio. Ha chiesto una sigaretta a Hélène precisando: Ho smesso da molto tempo, ma oggi è un giorno particolare, ho una gran paura. Senza esserci consultati, gli avevamo lasciato libera la poltrona di fronte al divano, che si trovava in posizione centrale, un po’ come il banco dei testimoni in tribunale. Lui però ha preferito sedersi a terra, o meglio accovacciarsi sulla gamba destra piegata, stendendo la sinistra davanti a sé – posizione che sembrava mostruosamente scomoda e che tuttavia ha mantenuto per quasi due ore. Tutti noi lo guardavamo. E lui ha guardato, uno per uno, noi che lo guardavamo – non riuscivo a capire se fosse assolutamente calmo o molto nervoso. Ha ridacchiato sommessamente lasciando trasparire il suo imbarazzo, poi ha detto: Strana, eh, questa situazione? Tutt’a un tratto mi sembra assurdo, e anche presuntuoso, avervi fatto venire, come se avessi da dirvi cose che non sapete su una persona che era vostra figlia, vostra sorella... Ho davvero una gran paura, sapete. Ho paura di deludervi, ho paura anche di rendermi ridicolo, non mi fa onore questa paura ma insomma è quello che provo. Non ho preparato niente. Ieri ho cercato di organizzare mentalmente una specie di discorso, elencando i punti che volevo affrontare, ma alla fine non ci sono riuscito, ho lasciato perdere, non sono bravo in queste cose. Quindi dirò quello che mi viene. Ha fatto una breve pausa, poi ha ripreso: C’è una cosa di cui credo non vi siate resi conto e che vorrei farvi capire, e cioè che Juliette era un grande giudice. Certo, sapete che amava il suo lavoro e che lo faceva bene, probabilmente pensate che fosse un ottimo magistrato, ma era più di questo. Nei cinque anni in cui abbiamo lavorato insieme al tribunale di Vienne, io e lei siamo stati due grandi giudici.

 

 

Questa frase mi ha fatto drizzare le antenne, questa frase e il modo in cui l’ha pronunciata. C’era dentro un orgoglio incredibile, un che di inquieto e allegro insieme. Riconoscevo quell’inquietudine, riconosco coloro in cui si cela a occhi chiusi, in mezzo alla folla, al buio, sono i miei fratelli, ma l’allegria di cui era intrisa mi ha preso alla sprovvista. Si capiva che quell’uomo era un tipo emotivo, ansioso, perennemente teso verso qualcosa che gli sfuggiva, ma che al tempo stesso questo qualcosa ce l’aveva, che in lui era radicata una sicurezza incrollabile. Non parlo di serenità, né di saggezza, né di autocontrollo, ma di un modo di aggrapparsi alla propria paura e di ostentarla, un modo di tremare che mi ha fatto tremare a mia volta e capire che stava succedendo qualcosa.

Ho citato a memoria l’inizio del discorso di Étienne: non sono le sue parole esatte, ma a grandi linee sì. Poi tutto si confonde nei miei ricordi, come si confondeva nel suo monologo. Ha parlato di giustizia, del modo in cui lui e Juliette amministravano la giustizia. Al tribunale di Vienne si occupavano soprattutto di pratiche di sovraindebitamento e di controversie in materia di alloggi, ovvero di cause che vedono contrapporsi potenti e poveracci, deboli e forti, anche se spesso le cose sono più complicate e a loro andava bene che fossero più complicate, che una pratica non consistesse in una serie di caselle da riempire, ma in una storia e poi in un precedente. A Juliette non sarebbe piaciuto, ha detto Étienne, essere vista come una che si schierava dalla parte dei poveracci: sarebbe stato troppo semplice, troppo romantico, soprattutto non sarebbe stato giuridicamente corretto, e lei restava ostinatamente una giurista. Avrebbe ribattuto che era schierata dalla parte della legge, ma era diventata, erano diventati entrambi dei virtuosi nell’arte di applicare veramente la legge. Per farlo erano capaci di passare decine di ore a spulciare un piano di ammortamento, capaci di scovare una direttiva a cui altri non avrebbero mai pensato, capaci di deferire la questione alla Corte di giustizia delle Comunità europee, dimostrando che la somma dei tassi di interesse e delle penali imposte da certe banche superava il tasso di usura e che dissanguare la gente in questo modo era non solo immorale ma illegale. Le loro sentenze sono state pubblicate, discusse, attaccate con violenza. Sono stati denigrati nel «Recueil Dalloz». Nel mondo della giustizia francese dell’inizio del XXI secolo il tribunale di istanza di Vienne è stato un luogo importante: una sorta di laboratorio. Tutti i colleghi si chiedevano che cos’altro avrebbero tirato fuori dal cappello i due oscuri giudici zoppi di Vienne. Perché avevano in comune anche quello, certo: erano entrambi zoppi, entrambi scampati a un cancro nell’adolescenza. Si erano riconosciuti fin dal primo giorno, come storpi, come persone nel cui corpo è successo qualcosa che solo chi l’ha vissuto può capire. In seguito ho imparato a conoscere il modo di pensare e di parlare di Étienne, per libere associazioni che devono più alla psicoanalisi, suppongo, che agli insegnamenti della facoltà di Legge, ma durante quel primo incontro stentavo a seguirlo nei suoi bruschi passaggi da una considerazione di tecnica giuridica a un ricordo, talvolta molto intimo, legato al suo handicap o a quello di Juliette, alla malattia di Juliette o alla sua. Il cancro li aveva devastati e plasmati, e quando era tornato a colpire Juliette, Étienne aveva dovuto affrontarlo di nuovo. Accanto a lei si era creato un posto vuoto, che non potevano occupare né Patrice né il resto della famiglia, ma solo lui, e proprio di quel posto ci stava parlando. Per dirci cosa? Non belle parole. Non che Juliette era coraggiosa, né che aveva lottato, né che ci voleva bene e nemmeno che era morta felice. Tutto questo potevano dircelo altre persone. Lui parlava di un’altra cosa, una cosa che gli sfuggiva, che ci sfuggiva, ma che riempiva quel salotto assolato di una presenza imponente, schiacciante, anche se non triste. Ho sentito che quella presenza mi chiamava in causa in un preciso istante, quando Étienne ha rievocato l’esperienza per lui fondante della prima notte. La prima notte che passi all’ospedale, da solo, quando hai appena saputo che sei gravemente malato, che hai una malattia di cui forse morirai e che questa, ormai, è la realtà. In quel momento, dice, ti trovi ad affrontare qualcosa che è come una guerra totale, una disfatta totale, una metamorfosi totale. Una distruzione psichica, che può essere una ricostruzione. Non ricordo molto altro, però ricordo che quando ci siamo congedati, mentre l’uno dopo l’altro gli stringevamo la mano nell’ingresso, si è rivolto a me. Non aveva fatto capire in alcun modo di conoscermi come scrittore, ma a quel punto, davanti a tutti, guardandomi dritto negli occhi, mi ha detto: Dovrebbe pensarci, a questa storia della prima notte. Forse fa al caso suo.

Ci siamo ritrovati tutti e otto per strada, storditi. Io e Hélène abbiamo deciso di riprendere il treno, gli altri tornavano a Rosier, ci siamo salutati, la tappa successiva sarebbe stata il funerale. Siamo andati a piedi alla stazione Perrache, percorrendo la strada pedonale e poi attraversando l’ampia place Carnot. Domenica, le due del pomeriggio, un gran caldo. I borghesi pranzavano a casa, i poveri si riversavano sui prati. Aspettando il treno, abbiamo mangiato un panino nel dehors di un caffè. Da quando ci eravamo separati dagli altri, non avevamo aperto bocca. Ciò che era successo in quelle due ore mi aveva sconvolto ma anche, non trovo una parola più adatta, entusiasmato. Volevo dirlo a Hélène, ma temevo che quell’entusiasmo fosse fuori luogo. Inoltre non ero sicuro che Étienne le fosse piaciuto come era piaciuto a me. A un certo punto era stata quasi aggressiva con lui. Aveva promesso a Juliette, stava dicendo Étienne, che avrebbe fatto fare uno stage alle sue tre figlie, quando fosse venuto il momento. Aspetti, era intervenuta Hélène, è un po’ presto e non bisogna costringerle, per rispetto della memoria della madre, a studiare giurisprudenza se hanno voglia di fare altro. Non si tratta di studiare giurisprudenza, aveva risposto gentilmente Étienne: mi riferivo a quegli stage di pochi giorni che fanno fare alle superiori. Più di una volta, mentre parlava, avevo sentito Hélène, accanto a me, spazientita e quasi esasperata. Era come guardare un film che ci piace insieme a qualcuno a cui piace meno, e capivo quello che, nelle parole di Étienne, poteva averla urtata. Azzardandomi a rompere il silenzio per dire che io lo avevo trovato straordinario, quel tipo, mi aspettavo che rispondesse: Un po’ cattolico però. Per Hélène, come per molte persone cresciute in una famiglia credente, l’apprezzamento «un po’ cattolico» è del tutto negativo. Per me no. In ogni caso non ha risposto così. Anche lei era rimasta colpita da Étienne, o meglio era rimasta colpita da quello che Étienne aveva detto di Juliette. Étienne le interessava perché era l’amico e il confidente di Juliette. Per me era diverso: io cominciavo a interessarmi a Juliette per quello che ne aveva detto Étienne.

Comunque, ha osservato, quello che dice senza dirlo è che era innamorato di lei.

Ho risposto: Non lo so.

 

 

La notte seguente, la prima dopo la morte di Juliette, ho ripensato a quello che ci aveva raccontato Étienne e mi è venuta l’idea di raccontarlo a mia volta. In seguito ho avuto molti dubbi su questo progetto, e l’ho accantonato per tre anni pensando che non ci sarei più tornato su, ma quella notte mi si è imposto come una cosa ovvia. Mi era stato commissionato un lavoro, dovevo solo rispondere di sì. Steso accanto a Hélène addormentata, mi esaltavo all’idea di un testo breve, da leggere in un paio d’ore, il tempo che avevamo passato da Étienne, mediante il quale avrei potuto condividere con altri l’emozione che avevo provato ascoltando lui. Sul momento quel progetto mi è sembrato estremamente circoscritto, estremamente realizzabile. Dal punto di vista tecnico avrei dovuto scriverlo come L’Avversario, in prima persona, senza inventare niente, senza espedienti letterari, e al tempo stesso era l’esatto contrario dell’Avversario, il suo positivo, in un certo senso. Si svolgeva nella stessa zona, nello stesso ambiente, le persone abitavano nelle stesse case, leggevano gli stessi libri, avevano gli stessi amici, ma da un lato c’era Jean-Claude Romand, l’incarnazione della menzogna e dell’infelicità, dall’altro Juliette ed Étienne, che tanto nell’esercizio del loro mestiere quanto nell’esperienza della malattia non avevano mai smesso di perseguire la giustizia e la verità. E poi c’era una coincidenza che mi turbava: il morbo di Hodgkin, il tumore da cui Romand sosteneva di essere affetto per dare un nome confessabile alla cosa innominabile che aveva dentro, era proprio quello che Juliette, più o meno nello stesso periodo, aveva avuto davvero.

Hélène, dal canto suo, ha deciso di scrivere poche righe da leggere al funerale. Ne abbiamo parlato, l’ho aiutata a riordinare le idee. Ci teneva a dire, soprattutto, che nel corso di quella che chiamava la sua piccola vita tranquilla, e che non era stata né piccola né tranquilla, Juliette aveva sempre scelto. Non tergiversava, non tornava sui suoi passi. Sceglieva e teneva fede alle sue scelte: il suo lavoro, suo marito, la sua famiglia, la loro casa, il loro modo di vivere insieme, tutto tranne la malattia. Quella vita era la sua, quel posto era il suo, non ha mai cercato di occuparne un altro, ma lo occupava pienamente. In tutto ciò vi era un senso che per Hélène era importante, e che forse era in contrasto con l’idea più caotica che si faceva della sua vita. Al tempo stesso le tornavano in mente certe cose a cui un senso non riusciva proprio a darlo e che la angosciavano. Come alcuni amano cucinare per le persone a cui vogliono bene, Hélène ama vestirle. Diceva: Ho sempre voluto regalare una borsa a Juliette, una bella borsa, e al momento di entrare nel negozio mi ricordavo che non era possibile, che per via delle stampelle non poteva usarne. Ma avrei potuto regalarle un bello zaino, al posto di quelli orrendi che aveva. Avrei potuto. Non mi piaceva vederle portare cose orrende, però di belle non gliene ho regalate abbastanza. È terribile, l’ultimo regalo che le ho fatto è la parrucca. E ancora: Quando eravamo piccole, ero gelosa perché lei era la più piccola e la più carina. Sì, te lo assicuro, tu l’hai conosciuta solo alla fine, ora ti faccio vedere. Andava a prendere gli album di fotografie e li metteva sul tavolo della cucina. Quegli album li avevo già sfogliati con lei quando li avevamo tolti dagli scatoloni dopo il trasloco, ma allora avevo fatto caso solo a Hélène. Adesso guardavo Juliette, Juliette da bambina, Juliette da ragazza, ed è vero, era carina. Più di Hélène non so, non mi pare, ma carina sì, molto carina e per niente seriosa come me l’ero immaginata, forse a causa del suo handicap e del suo mestiere. Guardavo il suo sorriso, guardavo le stampelle, che nella foto non erano mai lontane, e non mi sembrava coraggiosa ma viva, pienamente e avidamente viva. È stato dopo aver visto quelle foto che ho parlato a Hélène del mio progetto. Temevo che reagisse male: sua sorella, che io non conoscevo quasi, era appena morta e io, di punto in bianco, decidevo di scriverci un libro. Ha avuto un momento di stupore, poi ha concluso che era giusto. La vita mi aveva assegnato quel posto, Étienne me l’aveva indicato e io lo occupavo.


La mattina dopo, a colazione, ha riso, riso davvero, e mi ha detto: Sei strano però. Sei l’unica persona che conosca capace di pensare che l’amicizia tra due giudici zoppi e malati di cancro, che spulciano fascicoli di cause per sovraindebitamento al tribunale di istanza di Vienne, sia un soggetto che vale oro. Oltre tutto non vanno neanche a letto insieme e alla fine lei muore. Ho riassunto bene? È questa la storia?

Ho confermato: È questa.

La cosa andava così: prendevo il treno alle otto alla Gare de Lyon, alle dieci ero a Perrache e un quarto d’ora dopo suonavo alla porta di Étienne. Lui preparava il caffè, ci sedevamo al tavolo della cucina, l’uno di fronte all’altro, io aprivo il taccuino e lui cominciava a parlare. All’epoca dell’Avversario, quando intervistavo le persone legate al caso Romand, sempre lì a Lione o nella regione di Gex, evitavo di prendere appunti perché temevo di guastare il fragile rapporto di fiducia che ero riuscito, o non ero riuscito, a instaurare con i miei interlocutori. Tornato in albergo, trascrivevo quello che ricordavo della conversazione. Con Étienne non mi facevo questi scrupoli. In generale, con lui e più tardi con Patrice, non ho mai agito per calcolo, mai pensato che una certa frase o un certo atteggiamento da parte mia rischiasse di alienarmi una simpatia indispensabile all’impresa, mai avuto paura di fare un passo falso. Quando lo avevo avvicinato, il giorno del funerale, per dirgli che volevo scrivere la sua storia e quella di Juliette, e che avremmo dovuto parlare, Étienne non si era mostrato minimamente sorpreso, si era limitato a tirare fuori l’agenda e a proporre una data: venerdì 1° luglio. Eravamo impegnati in un progetto comune, quel progetto implicava che mi raccontasse la sua vita e lui non ha mai fatto mistero del piacere che la cosa gli procurava. Ama parlare di sé. È il mio modo di parlare degli altri e agli altri, dice, e con grande perspicacia ha osservato che è anche il mio. Sapeva che, parlando di lui, avrei necessariamente parlato di me. E questo non lo metteva a disagio, anzi. Niente lo metteva a disagio, credo, e di conseguenza niente metteva a disagio neanche me. È piuttosto insolito trovarci a raccontare non solo quello che abbiamo vissuto, ma chi siamo, quello che ci rende noi stessi e nessun altro, a una persona che conosciamo appena. È una cosa che capita all’inizio di una relazione sentimentale e di una terapia psicoanalitica, e capitava a noi, con una naturalezza sconcertante. Il suo modo di raccontare, come ho detto, procede per associazioni, con salti bruschi da un argomento all’altro, da un periodo all’altro. Io ho il gusto, se non addirittura l’ossessione, della cronologia. L’ellissi la apprezzo solo come artificio retorico, debitamente prevista e controllata da me, altrimenti mi spaventa. Forse è perché nella mia vita c’è uno strappo e tessendo una trama quanto più fitta possibile spero di ripararlo, che ho bisogno di avere dei punti di riferimento – il martedì precedente, la notte successiva, tre settimane prima –, di non saltare nessuna tappa, e nei nostri colloqui riportavo continuamente Étienne a questo ordine, che ora mi impone di cominciare il racconto dal ricordo di suo padre.


 


 


Lui lo descrive come un professore universitario atipico, curioso di tutto, che nel corso del tempo ha insegnato astronomia, matematica, statistica, filosofia della scienza e semiologia, senza mai dedicarsi esclusivamente a una disciplina né, di conseguenza, fare la carriera a cui poteva aspirare. Provenendo dal mondo delle cosiddette scienze dure, voleva avvicinarsi alla realtà, all’umano e alle incertezze che vi sono associate, e così negli anni Sessanta si è ritrovato a tenere un corso di formazione per gli operai della Peugeot a Montbéliard, dove la famiglia di sua moglie possedeva una casa immensa, labirintica, impossibile da riscaldare, che in seguito hanno dovuto vendere e di cui Étienne ha ancora nostalgia. Per «corso di formazione» quelli che lo avevano ingaggiato intendevano una formazione scientifica, non a caso avevano chiamato un professore di matematica, ma lui si proponeva di risvegliare le coscienze e teneva lezioni di filosofia, politica e morale. È stato licenziato nel giro di pochi mesi, da quello come da parecchi altri posti dove è passato lasciando una traccia in poche menti fertili. Era il tipico cristiano di sinistra, lettore di Simone Weil e di Maurice Clavel, fedele elettore di Rocard, iscritto al PSU, nelle cui liste si è presentato alle elezioni legislative nella Corrèze, il feudo della famiglia dal lato paterno, contro il candidato chiracchiano locale: non ha vinto, ma è comunque arrivato al ballottaggio. Cristiano con gli atei, quando era con i cristiani diventava un mangiapreti capace di sostenere che Gesù andava a letto con Giovanni, il suo discepolo prediletto. In lui c’era un contestatore destinato a essere malvisto da tutte le gerarchie, un francescano che avrebbe potuto mettersi a lavorare in fabbrica o andarsene in giro in sandali senza meta, ma anche un borghese desideroso di ricevere riconoscimenti e che non poteva prendere alla leggera i propri insuccessi. Col senno di poi, Étienne è convinto che abbia passato almeno dieci anni della sua vita in preda a una profonda depressione. La sua eccentricità aveva un retrogusto amaro, non era piacevole, passeggiando per strada con gli amici, incontrarlo in giacca, cravatta, calzini e scarpe nere, con le gambe magre e pelose che sbucavano da un paio di pantaloncini Adidas, ma non sapeva cosa fosse l’egoismo e suo figlio non ricorda di avergli mai visto commettere una bassezza. Della legge ebraica aveva accolto il comandamento di dare il dieci per cento di quello che guadagnava ai poveri e, se alla fine dell’anno non era riuscito a mettere da parte quel dieci per cento, chiedeva i soldi in prestito per non venire meno all’impegno preso. Era un giusto malinconico e disgustato, ma pur sempre un giusto, contro il quale Étienne non ha mai avuto motivo di ribellarsi. Le sue scelte, dice, sono la prosecuzione di quelle di suo padre. Pur non essendo come lui credente, Étienne aderisce alle parole del Vangelo e ricorda con affetto l’oratorio che frequentava a Sceaux, dove un prete di cui rispettava l’intelligenza, un altro che cercava di risvegliare le coscienze, esortava i ragazzi a leggere Dom Hélder Câmara e i teologi della liberazione. Non è un caso, pensa, che oltre a lui tre dei suoi compagni dell’oratorio siano diventati magistrati, tra i più brillanti ma anche tra i più smaccatamente di sinistra della loro generazione. Come suo padre, in fondo, Étienne ha scelto di cambiare la società, di renderla più giusta, solo che lui ha scelto di essere più furbo di suo padre: un riformista anziché un Don Chisciotte.


 


 


Étienne mi ha detto anche un’altra cosa sul suo conto, ma più in là, quando sono andato a trovarlo ad agosto nella casa di famiglia, nella Corrèze. Quella costruzione di pietra grezza, con strette aperture, appartiene ai Rigal fin dal Seicento. È stato suo padre a comprarla da un cugino e a farla ristrutturare rispettando lo stile originale, che non prevedeva riscaldamento né altre comodità; è stato sempre lui, insieme alla moglie, a procurarsi tutta una serie di mobili rustici, madie, cassapanche di legno scuro e stalli con gli schienali rigidi che sembrano usciti da un quadro di Le Nain e non invogliano minimamente a sedersi davanti al fuoco con un buon libro. Étienne ha un bel ricordo delle vacanze passate lì, non a caso ci torna spesso, e tuttavia è convinto che in quel posto, nell’infanzia, suo padre sia stato vittima di abusi sessuali. Non ha elementi a sostegno di questa tesi, il che mi fa tornare in mente una biografia americana del romanziere Philip K. Dick, fondata sullo stesso postulato: l’autore non ha nessuna prova del fatto che Dick sia stato violentato da bambino, ma ritiene che tutto in lui lo affermi a gran voce, la sua personalità non si spiega se non con un trauma del genere. Quando lo faccio notare a Étienne, mi dà ragione e riconosce che la sua convinzione dice più di lui stesso che della realtà: forse non è vero, forse è soltanto una sua fantasia, l’unica spiegazione che ha saputo darsi per giustificare la fobia dei contatti fisici che aveva suo padre. Era senza alcun dubbio un padre amorevole, e non solo, un padre che ha saputo dare fiducia ai propri figli, ma non li ha mai baciati, mai abbracciati, gli bastava sfiorarli per trasalire come se avesse toccato un serpente: per cui magari non era stato violentato, ma è indubbio che avesse qualche problema con la fisicità.


Ne aveva anche Étienne? In un primo momento ha detto di no, che andava tutto bene, poi pensandoci meglio ha ricordato che all’epoca della scuola era un tipo solitario, perso nelle sue fantasticherie di giorno e tormentato, di notte, da incubi terrificanti, inoltre fino all’età di sedici anni ha fatto la pipì a letto. Conosco questi comportamenti – benché io non abbia fatto la pipì a letto così a lungo – e posso dire che no, non andava tutto bene.


 


 


Étienne ha capito prestissimo di voler fare il giudice. Questa vocazione mi incuriosisce. Di adolescenti che da grandi volevano fare il giudice ne ho conosciuto solo uno alle superiori e non so se poi lo è diventato davvero, ma a quanto ricordo era un tipo spaventoso. Avevo l’impressione che dicendo giudice in realtà pensasse sbirro, e sbirro come quelli interpretati all’epoca da Michel Bouquet nei film di Yves Boisset: gli sbirri sornioni e perversi nelle cui mani è meglio non cadere. Detto questo, forse mi sbagliavo, forse ci sbagliavamo tutti, da neofiti lettori di «Charlie Hebdo» quali eravamo: forse quel ragazzo era solo timido, orgoglioso della sua vocazione, ferito nel sentirla deridere, e magari è diventato una persona di valore come Étienne Rigal. Forse, se l’avessi conosciuto a quell’età, mi sarei tenuto alla larga anche da Étienne Rigal. Non credo, preferisco credere che saremmo diventati amici.


Una delle cose che mi hanno fatto venire voglia di scrivere questa storia è il modo in cui Étienne la prima volta ha detto: Io e Juliette siamo stati due grandi giudici. La sicurezza e l’orgoglio con cui ha pronunciato quelle parole erano davvero straordinari. Come un artista che, pur sapendo benissimo di non essere arrivato alla fine della carriera, di avere ancora molto da fare, di non poter dare niente per scontato, sa anche di avere al suo attivo un’opera, almeno una, grazie alla quale nonostante tutto può dormire tranquillo, perché certo il futuro non si può prevedere, ma intanto lui se l’è giocata e ha vinto. Al tempo stesso questa idea di grandezza associata al mestiere di giudice mi lasciava perplesso. Se mi avessero chiesto di citare tre o anche un solo grande giudice avrei fatto scena muta, al massimo mi sarei ricordato di qualche nome legato a casi mediatici, e tra l’altro questi giudici un po’ più noti al pubblico – Halphen, Van Ruymbeke, Éva Joly – sono giudici istruttori, non giudici che siedono nelle aule di tribunale con la toga e l’ermellino, personaggi che la mitologia romanzesca e cinematografica rappresenta il più delle volte come odiosi custodi dell’ordine borghese. Anche se siamo tutti d’accordo sull’idea, perbenista ma esatta, che non conta tanto cosa si fa ma come lo si fa e che è meglio essere un bravo salumiere che un pittore scadente, più o meno tutti operiamo una netta distinzione fra i mestieri creativi e gli altri, ed è principalmente nei primi che l’eccellenza, fatta non solo di competenza, ma anche di talento e carisma, si valuta in termini di grandezza. Sempre restando nell’ambito del diritto, un grande avvocato riuscivo a concepirlo, un grande ufficiale giudiziario meno. E un grande giudice, francamente, soprattutto nel caso di un giudice di istanza, specializzato non in importanti cause penali, ma in modesti contenziosi civili: muri divisori, curatele, affitti non pagati... be’, diciamo che non mi sembrava il massimo.


(E poi c’è la frase del Vangelo: «Non giudicate»).


 


 


Per spiegare la sua vocazione Étienne dice tre cose. Che gli piaceva l’idea, non di difendere i deboli e gli oppressi, ma di valutare cosa sia giusto e di ristabilire la giustizia. Che aspirava a cambiare la società, ma anche a occuparvi una buona posizione: non che volesse diventare ricco, però intendeva condurre una vita agiata. Infine, che nel giudicare si esercita un potere e lui, pur senza avere il gusto del potere, prova gusto nell’esercitarlo.


Quando dice di non avere il gusto del potere, ma di provare gusto nell’esercitarlo, non sono certo di cogliere la sfumatura, ma questa sfumatura è sintomatica di un tratto del suo carattere che ho imparato a conoscere, e che mi piace molto. Era evidentissimo il giorno della nostra visita collettiva. Ogni volta che qualcuno lo interrompeva, non per contraddirlo ma per confermare, completare o commentare quello che stava dicendo, lui scuoteva la testa e mormorava che no, non era esattamente così. Poi riprendeva a parlare dicendo la stessa cosa con una leggerissima sfumatura di significato. Penso, ragionando un po’ come lui, che per andare d’accordo con gli altri abbia bisogno di non essere d’accordo con loro. Per esempio, a un certo punto, il padre di Juliette ha accennato all’amicizia tra lui e sua figlia, e a quella parola lui ha storto il naso: lui e Juliette non erano amici, erano intimi, è diverso. Quando l’ho conosciuto meglio, gli ho detto che a me, per indicare quello che c’era tra lui e Juliette, la parola amicizia sembrava perfetta e che, se così non era, non capivo cosa potesse essere l’amicizia. Pur essendo sensibile al gusto per la precisione che rivela, dopo un po’ ho cominciato a prenderlo in giro per quella sua mania di negare qualsiasi cosa gli si dica, per poi riformularla quasi con le stesse parole, e lo ha divertito essere preso in giro per questo: siamo sempre contenti quando le persone che ci vogliono bene vedono nei nostri difetti un motivo in più per volerci bene. Da quel momento ha accettato sempre più spesso di essere d’accordo con me.

È il gennaio 1981. Io ho ventitré anni, faccio il servizio civile in Indonesia e scrivo il mio primo romanzo. Lui ne ha diciotto, frequenta l’ultimo anno delle superiori a Sceaux. Sa cosa vuole fare dopo la maturità: la facoltà di Legge, poi l’ENM, l’École Nationale de la Magistrature. Gioca a tennis. È ancora vergine. E da diversi mesi gli fa male la gamba sinistra. Molto male, sempre più male. Dopo una serie di visite mediche piuttosto inconcludenti, gli viene prescritta una biopsia e, quando arriva il risultato, il padre lo porta d’urgenza all’Institut Curie. Ha un’espressione grave, angosciata, non pronuncia la parola fatale, ma dice fra i denti: Ci sono delle cellule sospette. In una corsia al piano interrato diversi medici fanno cerchio attorno al ragazzo. Ebbene, giovanotto, dice uno di loro, cercheremo di conservarti tutto intero.

Non torni a casa. Rimani qui.

Che succede?

Non hai capito? si stupisce suo padre, sconvolto, rimproverandosi di non essersi fatto capire: Hai un cancro. Amici e parenti sono autorizzati a fermarsi non oltre le otto. Étienne resta solo nella stanza d’ospedale. Gli portano la cena, una compressa per aiutarlo a dormire, e poco dopo spengono la luce. È buio. È la prima notte: quella di cui ha parlato il giorno in cui ci siamo conosciuti e che stavolta, siccome è importante, molto importante, cerca di raccontarmi nei minimi particolari.

È steso sul letto, in mutande perché suo padre non ha pensato che sarebbe accaduto tutto così alla svelta, che lo avrebbero trattenuto, e quindi non ha portato niente per la notte. Solleva la coperta per guardarsi le gambe, quelle due gambe che sembrano due gambe normalissime, le due gambe di un adolescente sportivo. Nella sinistra, nella tibia della sinistra, c’è quella cosa, che lavora per distruggerlo.

Qualche mese prima ha letto 1984 di George Orwell. Ed è rimasto terribilmente impressionato da una scena. Winston Smith, il protagonista, è finito nelle mani della polizia politica e l’ufficiale che lo interroga gli spiega che il suo lavoro consiste nello scoprire, per ogni sospetto, la cosa di cui ha più paura al mondo. Puoi torturare la gente, le puoi strappare le unghie o i testicoli, ma c’è sempre qualcuno che non si arrende, e non puoi sapere in anticipo chi sarà, gli eroi non sono necessariamente quelli che immaginiamo. Ma una volta individuata la principale paura di un individuo, è fatta. Nessun eroismo, nessuna resistenza sono più pensabili, puoi portargli davanti sua moglie o suo figlio e chiedergli se vuole che quella cosa sia fatta a lui o a sua moglie o a suo figlio, e per quanto possa essere coraggioso e amarli più di sé stesso, preferirà che sia fatta a sua moglie o a suo figlio. È così, esistono orrori, diversi per ciascuno di noi, che non possiamo affrontare. Per quanto riguarda Smith, l’ufficiale ha fatto un’indagine e scoperto quello che voleva sapere. Ciò che lo terrorizza, che non potrebbe mai sopportare, è l’idea che qualcuno gli avvicini alla faccia una gabbia con dentro un topo, e la apra, e che il topo, affamato, si precipiti a divorargliela, affondando i denti aguzzi nelle guance, nel naso, fino a trovare il boccone più prelibato, gli occhi, e a cavarglieli.

Questa è l’immagine che la prima notte si presenta con prepotenza a Étienne. Solo che il topo è dentro di lui. Lo divora vivo dal di dentro. Ha cominciato dalla tibia, ora sta risalendo lungo la gamba, si farà strada nelle viscere, poi lungo la colonna vertebrale, fino a raggiungere le sue circonvoluzioni cerebrali. È un’immagine più che una sensazione, stranamente non sente nulla, è come se il suo corpo e il dolore che pure da mesi non gli dà requie fossero scomparsi, ma l’immagine è talmente agghiacciante che per sfuggirle Étienne vorrebbe morire. Pur di cancellarla dalla sua mente, vorrebbe che gli si spegnesse il cervello, che tutto finisse, vorrebbe smettere di esistere. Tuttavia, toccato il fondo di questo orrore, riesce a dire a sé stesso: Devo trovare qualcos’altro. Un’altra immagine, altre parole, a ogni costo, per superare la nottata. Se supererà la nottata, accadrà qualcosa che forse non lo salverà, ma che non sarà quella cosa. Grazie al sonnifero piomba in un dormiveglia in fondo al quale il topo erra e rosicchia. Si riaddormenta, si sveglia, le lenzuola sono zuppe di sudore. E all’alba il topo non c’è più. Se n’è andato. Non tornerà. Al suo posto c’è una frase. Una frase che Étienne visualizza come se fosse scritta sul muro davanti a lui.

Questa frase folgorante, Étienne non la pronuncia. Ne pronuncia altre, che mi sembrano solo approssimazioni, parafrasi. Nessuna ha per me l’evidenza lampante e l’efficacia di cui parla. Annoto sul taccuino: le cellule cancerose sono tue tanto quanto quelle sane. Tu sei quelle cellule cancerose. Non sono un corpo estraneo, un topo che si è insinuato nel tuo corpo. Fanno parte di te. Non puoi odiare il tuo cancro perché non puoi odiare te stesso (io penso, senza dirlo: Certo che puoi). Il tuo cancro non è un avversario, sei tu.

Capisco quello che mi sta dicendo Étienne: che queste frasi e quella che non dice sono state decisive. Ci credo, so che parla di qualcosa che è suonato assolutamente esatto alle sue orecchie, ma che per il momento non suona altrettanto esatto alle mie. Penso che sia necessario aspettare, che su questa prima notte dovremo tornarci ancora.

 

 

Però l’immagine del topo mi è familiare. Solo che, nel mio caso, l’animale che mi rosicchia dall’interno è una volpe. Il topo di Étienne viene da 1984, la mia volpe dalla storia del ragazzo spartano studiata durante le lezioni di latino. Il ragazzo spartano aveva rubato una volpe e la teneva nascosta sotto la tunica. Davanti al consiglio degli anziani la volpe comincia a mordergli la pancia. Invece di liberarla, confessando quindi il furto, il ragazzo spartano si lascia divorare le viscere, senza battere ciglio, fino a morirne.

Un giorno, l’ho raccontato a Étienne, sono andato a parlare con il vecchio psicoanalista François Roustang. Gli ho detto della volpe, che speravo ancora di riuscire a scacciare scoprendo come e perché, verso la fine dell’infanzia, mi si fosse piazzata qui, sotto lo sterno, e non avesse più smesso di opprimermi e rosicchiarmi il plesso solare. Roustang ha alzato le spalle. Non credeva più alle interpretazioni né del resto alla psicoanalisi, solo all’esattezza dei gesti. Ha detto: La lasci uscire. Lasci che vada ad acciambellarsi lì, sul divano. Non c’è altro da fare. Vede, è lì. Se ne sta buona. E, mentre andavo via, stringendomi la mano: Può lasciarmela, se vuole. Gliela tengo io.

Per un po’ ho creduto che avrebbe funzionato. Non sono andato a riprendere la volpe, è tornata da sola. Ora non mi tormenta più, non so se perché dorme o perché, come spero, ha sloggiato sul serio, ma all’epoca dei miei colloqui con Étienne, tre anni fa, era ancora qui. Mi faceva soffrire. E mi aiutava ad ascoltarlo.

 

 

Hanno cominciato subito la chemioterapia nella speranza di salvargli la gamba e gliel’hanno salvata. Lui ha sopportato coraggiosamente quasi tutta la cura, quello che non sopportava era l’idea di perdere i capelli e i peli. Era un adolescente inquieto, tormentato, ancora insicuro della propria virilità. Le ragazze lo spaventavano non meno di quanto lo attraevano. Così, quando hanno cominciato a cadergli i capelli, quando all’immagine che vedeva ancora nello specchio si è sovrapposta quella dello zombie che sarebbe presto diventato, calvo, senza sopracciglia, senza peli attorno ai genitali, per quanto gli assicurassero che sarebbero ricresciuti in fretta, l’angoscia è stata troppo forte e ha interrotto la cura. Di sua iniziativa, di nascosto, senza dirlo a nessuno. Gli restavano solo poche sedute, che duravano una mezza giornata e non più tre giorni come all’inizio: i genitori lo avrebbero accompagnato volentieri ma lui preferiva, così diceva, andarci da solo in métro, e in realtà non ci andava. Ai medici del Curie ha spiegato che stava continuando la cura in una clinica di Sceaux, ha anche chiesto un’apposita prescrizione e a quanto pare è stato convincente, perché nessuno ha chiamato i genitori per controllare che stesse seguendo il protocollo. Occupava le ore così liberate andando a zonzo per Parigi o perlustrando gli scaffali delle librerie del Quartiere Latino. A che cosa pensava quando saltava la chemio come si saltano le ultime lezioni a fine anno, quando ormai i giochi sono fatti? Si rendeva conto del rischio che correva? Lui dice di sì. Dice anche che quando ha avuto la ricaduta si è chiesto: Se avessi fatto la chemio fino alla fine, mi sarei riammalato lo stesso? L’avrei persa, la gamba? Non avendo una risposta, si è presto disinteressato della domanda.

A giugno ha superato l’esame di maturità e quell’estate, invece di riposarsi come gli avevano consigliato, ha trovato un lavoretto da studente alla Fnac Sport, nel reparto racchette da tennis. Gli era stato proibito di fare sport, perché se gli si fosse fratturata la tibia non si sarebbe più calcificata, ma lui continuava lo stesso a giocare a tennis e anche a calcio, una delle attività in cui è più alto il rischio di beccarsi un bel colpo con i tacchetti proprio sulla tibia. Se correndo simili rischi desse prova di un’incoscienza normale in un adolescente che è stato a un passo dalla morte e che vuole vivere senza sottostare a mille limitazioni, o se invece fosse mosso da una pulsione più oscura, è un’altra domanda a cui non risponde.

Un anno dopo lo hanno dichiarato guarito. Doveva solo sottoporsi a degli esami di controllo ogni tre mesi poi ogni sei. Andava al Curie all’uscita dai corsi di Legge al Panthéon. La sala d’attesa era affollata di malati di cancro che lui guardava con vero e proprio disgusto. Un giorno, ricorda, hanno portato su una barella una donna in uno stato terribile. Probabilmente non pesava più di trentacinque chili, aveva la faccia vizza come se fosse stata rimpicciolita dagli Jívaros. L’hanno fatta passare per prima, e lui ha pensato con rabbia: Perché deve avere la precedenza su di me che ho un sacco di cose da fare nella vita, mentre a lei non resta che crepare? Non si vergognava di essere così cinico, anzi ne andava fiero. La malattia gli faceva schifo, i malati pure, tutto ciò ormai non lo riguardava più.

Aveva ventidue anni quando la malattia è tornata. Male alla gamba, sempre la stessa, tanto da non riuscire a dormire, da far fatica a camminare. Stento a credergli quando mi assicura che né lui né i suoi genitori hanno pensato subito a una ricaduta, ma dopotutto lo ritenevano perfettamente guarito, per cui un dolore, anche se molto forte, alla gamba poteva non essere niente di grave: uno strappo muscolare, una tendinite. Lui comunque quel dolore non lo ha riconosciuto. Ma l’hanno mandato di nuovo al Curie a fare una radiografia e, quando gli hanno detto di tornare tre giorni dopo per i risultati, a quel punto la posta in gioco era chiara: sono state pronunciate le parole cancro e amputazione.

Aveva appuntamento all’una e la mattina, alle nove, un esame orale dell’ultimo anno al Panthéon. Il professore con cui doveva sostenerlo era in ritardo, alle undici lo stavano ancora aspettando. Étienne è andato in segreteria a spiegare la sua situazione: all’una doveva essere all’Institut Curie, in rue d’Ulm. Era importante, avrebbero deciso se amputargli o no la gamba sinistra. Gli piace essere un po’ teatrale e non ha rinunciato a godersi il turbamento che quella dichiarazione ha suscitato nella segretaria. Date le circostanze, la donna ha proposto di rimandare l’esame, solo il suo, ma lui ha rifiutato, e così lei si è data da fare per trovare un altro professore. Étienne ritiene di essere andato bene e, tenuto conto della sua prestazione e insieme della pietà che avrebbe dovuto ispirare il suo stato, ancora oggi non si capacita di aver preso solo dodici su venti.

Al Curie ha avuto il verdetto: cancro al perone, bisognava amputare, e il prima possibile. I medici proponevano, come quattro anni prima, di ricoverarlo seduta stante per operarlo il giorno dopo, ma Étienne è stato irremovibile: la domenica seguente c’era una festa per i vent’anni di Aurélie, la sua fidanzata, e lui ci teneva ad andare. Lo hanno accontentato: sarebbe entrato in ospedale la domenica sera, l’operazione avrebbe avuto luogo il lunedì mattina.

Cerco di immaginare non solo in che stato fosse all’uscita da quel consulto, ma anche in che stato fosse suo padre, che lo aveva accompagnato. Se c’è un incubo peggiore del venire a sapere che ti amputeranno una gamba, è venire a sapere che l’amputeranno a tuo figlio ventiduenne. Suo padre, oltretutto, aveva sofferto da ragazzo di tubercolosi ossea e si chiedeva se non vi fosse un qualche legame fra questo e il cancro di Étienne. Quell’ipotesi, molto improbabile, aggiungeva una sorta di senso di colpa all’atroce sensazione di impotenza che provava. Sconvolto dal dolore, ha proposto seriamente di farsi amputare lui una gamba perché potessero trapiantarla al figlio. Étienne ha riso e ha detto: Non la voglio, la tua vecchia gamba, te la puoi tenere.

Poi gli ha chiesto di dargli un passaggio da Aurélie, che abitava anche lei a Sceaux, e di passarlo a prendere più tardi. Stava con Aurélie da due anni, avevano avuto insieme la loro prima esperienza sessuale. Lei era molto carina, molto delicata, Étienne pensa ancora oggi che si sarebbero benissimo potuti sposare. Si sono sdraiati tutti e due sul letto di lei, lui le ha detto: Lunedì mi tagliano la gamba, e finalmente si è messo a piangere. Per ore, mentre calava la notte, sono rimasti l’uno fra le braccia dell’altro, o meglio lui fra le braccia di lei che lo stringeva con tutta la sua forza, gli accarezzava i capelli, la faccia, il corpo, forse anche la gamba che presto non avrebbe più avuto. Gli sussurrava parole dolci, ma quando lui le ha chiesto se lo avrebbe amato ancora senza una gamba è stata onesta. Ha risposto: Non lo so.

 

 

Il giorno prima della festa è successa una cosa strana. Étienne ha preso la macchina del padre, senza dire perché, ed è andato in una sauna in rue Sainte-Anne a scopare con un tizio. Non gli era mai capitato prima né gli è più capitato dopo, non ha mai pensato di essere omosessuale, ma quella sera lo ha fatto. È una delle ultime cose che ha fatto con due gambe. Fatto cosa, esattamente? Come per certe scene vissute in sogno, non ricorda nulla, a parte qualche dettaglio marginale. Il tragitto di andata. La macchina parcheggiata in un garage di avenue de l’Opéra, poi la ricerca di quella strada in cui non era mai stato, il biglietto d’ingresso alla cassa, lo spogliatoio dove si è tolto i vestiti per entrare nudo nel bagno di vapore, dove altri uomini nudi si sfioravano, si facevano pompini, si inculavano. E lui, ha fatto dei pompini, se li è fatti fare? Ha inculato, si è fatto inculare? Che aspetto aveva il tizio? Tutto questo, il momento clou della scena, gli si è cancellato dalla memoria. Sa solo che è accaduto. Poi è tornato a Sceaux, dove i genitori non erano ancora andati a letto, ha parlato con loro con quel tono neutro che prendiamo quando è in corso una catastrofe e in realtà non c’è niente da dire.

 

 

Non so se il paragrafo precedente figurerà nel libro. Étienne è stato chiaro: Tutto quello che ti dico puoi scriverlo, non voglio esercitare alcun controllo. Però capirei benissimo se, leggendo il testo prima della pubblicazione, mi chiedesse di passare sotto silenzio questo episodio. Per riguardo verso i suoi più che per vergogna, perché sono sicuro che non se ne vergogna: è un comportamento strano, che neanche lui si spiega bene, ma non certo una cattiva azione. Detto questo, anche di una cattiva azione, non credo che se ne vergognerebbe. O forse sì, se ne vergognerebbe, ma riterrebbe giusto non nascondere neppure la vergogna. Direbbe semplicemente: L’ho fatto, me ne vergogno, questa vergogna fa parte di me, non la rinnegherò. La frase: «Sono un uomo. Nulla di ciò che è umano mi è estraneo» mi sembra, se non la massima espressione della saggezza, in ogni caso una delle sue espressioni più profonde, e quello che mi piace di Étienne è che la prende alla lettera, anzi secondo me è proprio questo che lo autorizza a essere giudice. Lui non vuole cancellare niente di ciò che lo rende umano, meschino, fallibile, magnifico, ed è questo il motivo per cui io, nel raccontare la sua vita, non voglio tagliare niente.

(Appunto di Étienne a margine del dattiloscritto: «Non c’è problema, lascia»).

 

 

La festa di compleanno di Aurélie non era una festa di soli giovani. C’erano i suoi amici, ma anche i genitori, gli amici dei genitori, persone di ogni età. Non si svolgeva di sera, ma di pomeriggio, nel giardino in fiore. Avevano preparato uno spettacolo, Étienne doveva cantare. Ha cantato. Il dolore era così forte da costringerlo a usare le stampelle. Tutti intorno a lui sapevano che sarebbe stato ricoverato la sera stessa e il giorno dopo gli avrebbero amputato la gamba.

Verso le sei se ne stava sdraiato sotto un albero con la testa appoggiata sulle ginocchia di Aurélie, che gli accarezzava i capelli. Di tanto in tanto alzava gli occhi e la guardava. Lei gli sorrideva, gli diceva a bassissima voce: Sono qui, Étienne. Sono qui. Lui chiudeva gli occhi, aveva bevuto un po’, non molto, ascoltava il brusio delle conversazioni attorno a loro, il ronzio di una vespa, il rumore di qualche sportello d’auto che sbatteva in strada. Stava bene, avrebbe voluto che quel momento durasse per sempre, o che la morte lo cogliesse così, senza che se ne rendesse conto. Poi è arrivato suo padre e ha detto: Étienne, è ora di andare. Ancora oggi lui pensa a che cosa abbia significato per suo padre dover dire: Étienne, è ora di andare. Sembra impossibile da dire, eppure l’ha fatto. Quelle parole sono state pronunciate, i gesti compiuti con calma – ma in fondo, dice, non si poteva fare altrimenti. Be’, in realtà sì: avrebbe potuto mettersi a urlare, dimenarsi, gridare no, non voglio, come certi condannati a morte quando vanno a prenderli in cella dicendo loro esattamente la stessa cosa: È ora di andare. E invece no, lo hanno aiutato ad alzarsi e lui si è alzato.

Ecco: mi alzo per andare a farmi amputare una gamba.

Ha chiesto ai suoi di essere presenti quando avrebbe ripreso conoscenza e loro sono lì, tutti lì attorno a lui: i genitori, il fratello, le sorelle e Aurélie. La prima sensazione al risveglio dall’anestesia generale è: Non mi fa più male. Il tumore comprimeva il nervo, provocando un dolore che da qualche mese era diventato insopportabile. Non gli fa più male, quindi. Non sente niente. Ma vede: la sagoma della gamba destra stesa sotto il lenzuolo, la sagoma della coscia sinistra e, a partire dal punto in cui dovrebbe esserci il ginocchio, il lenzuolo ricade, non c’è più nulla. Gli ci vorrà del tempo per trovare il coraggio di sollevare il lenzuolo e la coperta, di tirarsi su e allungare una mano, di farla scorrere nello spazio in cui prima c’era la sua gamba. Non pensa ad altro, ha una gamba in meno, e al tempo stesso continua a dimenticarlo. Se non guarda il vuoto al posto della gamba, se non controlla che non c’è più, niente glielo ricorda. Il suo cervello razionale ha registrato l’informazione, ma non è il cervello razionale ad avere coscienza del corpo e a farlo muovere. Il giorno in cui vorrà vestirsi, mettersi i boxer, non cadrà dalle nuvole, si sarà preparato all’idea, avrà pensato: Mi è stata amputata una gamba, sto per fare un gesto che non ho mai fatto dopo l’operazione e dovrò farlo in modo diverso da tutte le volte che l’ho fatto in precedenza. Ci avrà pensato, eppure, quando si abbasserà tenendo i boxer con le due mani, prima farà per infilarci il piede sinistro, pur sapendo benissimo, pur vedendo benissimo che il piede sinistro non lo ha più, e gli occorrerà uno sforzo cosciente per infilarci solo il destro, risalire lentamente lungo la gamba destra e la colonna di vuoto dall’altra parte, fino ad arrivare al di sopra del ginocchio e poter continuare come ha sempre fatto lungo le cosce, infine sollevare un po’ il sedere, ed ecco, si è messo i boxer. Sarà così per tutto, dovrà reimpostare il programma, passare dalla modalità normale alla modalità «mutilato». Dovrà prendere confidenza non solo con il vuoto che c’è al posto della gamba, ma anche con il passaggio dal vuoto alla gamba amputata, quello che con una parola orribile, usata del resto per designare una cosa a sua volta non proprio attraente, chiamiamo: il moncone. Il momento in cui per la prima volta la mano tocca il moncone è una tappa cruciale di questo apprendistato. La distanza non è molta, basta allungare il braccio, ma fa un po’ ribrezzo toccare quella cosa, e poi ci vorrà parecchio altro tempo, Étienne è ancora molto lontano dal traguardo, per accettare l’idea, per ritenere possibile che un altro, e specialmente un’altra, possa un giorno toccare con amore quel moncone, accarezzarlo, che quella non sarà una zona accuratamente evitata. Questo apprendistato in teoria avrebbe dovuto farlo al centro di riabilitazione di Valenton, vicino a Créteil, dove lo trasferiscono all’uscita dalla clinica. Non si sofferma più di tanto su questa fase. Dice solo che quando ti viene amputata una gamba ti riempiono di bugie. Ti spiegano: Le sarà amputata sopra il ginocchio, è l’altezza ideale per la protesi e presto potrà condurre una vita normale. E poi, al centro di riabilitazione, chiedi al medico quando potrai ricominciare a giocare a tennis, e quello ti guarda come se fossi diventato pazzo: A ping-pong sì, il ping-pong è ottimo, ma il tennis scordatelo. Prima di applicarti la gamba artificiale, ti hanno detto anche: Quando ti ci sarai abituato, la protesi farà parte di te, sarà come avere una gamba nuova. E poi arriva il giorno in cui te la fanno provare, la protesi, fa clic-clac e capisci che era uno scherzo, che non sarà mai una gamba nuova. Vedendoti piangere, gli infermieri ti dicono gentilmente che all’inizio è così per tutti, che ci vuole un po’ di tempo, che fa parte dell’apprendistato, ma gli altri mutilati, quelli un po’ più avanti di te nell’apprendistato, ti dicono, ce n’è almeno uno che ti dice: Benvenuto nel club, benvenuto fra quelli che ormai sono per tre quarti uomini e per un quarto metallo.

Étienne è scappato. Doveva restarci tre mesi, in quel posto, ma già la prima settimana ha chiesto ai genitori di comprargli una macchina, la sua prima macchina per disabili, con un solo pedale, per poter uscire quando voleva, e dopo quindici giorni è tornato a casa. Come i malati di cancro del Curie, i mutilati di Valenton gli facevano schifo, non gli interessavano le amicizie, e neppure le semplici conoscenze nate da quel genere di solidarietà.

 

 

L’anno di chemioterapia, invece, non era negoziabile. È stato atroce. Erano cicli di tre giorni, una volta al mese, e in quei tre giorni, semplicemente, vomitava senza sosta. Tre giorni a vomitare, quando non hai più niente da vomitare. Ogni volta l’idea di tornarci lo terrorizzava. In generale lui ritiene che si debba vivere tutto lucidamente, essere presenti a sé stessi in tutto quello che succede, anche nella sofferenza, già all’epoca era il suo unico credo, ma in quel caso no, non serviva a niente, era troppo disgustoso, troppo umiliante, era meglio estraniarsi, e così ha chiesto di essere imbottito di farmaci. Sua madre aveva il permesso di andare e di tenergli la fronte, Aurélie no: non voleva che lo vedesse così. Oggi, vent’anni dopo, se ne pente. È addirittura, dice, uno dei grandi rimpianti della sua vita, molto più che aver saltato le ultime sedute della prima chemio: Aurélie voleva stargli vicino, era il suo posto visto che lo amava, e lui non glielo ha permesso. Non ha avuto fiducia in lei.

Oltre a farlo stare terribilmente male, la chemioterapia gli ha, come temeva la prima volta, fatto perdere i capelli e i peli. Sono caduti quasi tutti, non tutti. Aurélie insisteva perché si rasasse quei pochi che gli restavano, ma lui si è rifiutato, ha tenuto qualche ciocca lunga che lo rendeva ancora più orrendo. Lei gli rimproverava, non a torto, di calcare la mano. Lui si guardava, nudo, allo specchio: quella cosa magra, bianca, glabra, senza una gamba era lui. Il giovanotto sportivo che era stato fino a qualche mese prima si era trasformato in questo mutante. Aurélie ha resistito per quasi un anno, poi lo ha lasciato. Tra i ventidue e i ventotto anni lui non ha avuto neanche una donna.

 

 

Dopo il primo tumore aveva cominciato una psicoterapia. Non c’entrava niente, mi assicura, con la malattia, da cui all’epoca si riteneva guarito, no, l’aveva intrapresa per problemi sessuali. Non si dilunga più di tanto sull’argomento, ma mi sembra chiaro che la sua attuale sicurezza in campo sessuale sia proporzionata alla miseria che l’ha preceduta. Nel periodo del secondo tumore e dell’amputazione il suo psicoterapeuta andava a trovarlo tutti i giorni in clinica. Aveva appena dieci anni più di Étienne. Un paziente giovane, malato di cancro, a cui era stata amputata una gamba: era un’esperienza inedita per lui. Gli diceva: Siamo tutti e due alle prime armi, non so come fare, non so che strada abbiamo imboccato. Étienne lo trovava rassicurante.

La psicoterapia si è trasformata in analisi ed è andata avanti per altri nove anni. Per tutto il periodo in cui Étienne è stato studente all’ENM a Bordeaux, poi magistrato nel Nord della Francia, due volte alla settimana prendeva il treno per Parigi, e non ha mai saltato una seduta. Grazie a questa esperienza assidua ha acquisito non solo familiarità, ma anche una fiducia quasi religiosa nell’inconscio. Non è, o comunque non si dichiara, credente, ma ha il gusto e il dono di sapersi abbandonare a questa forza che, nel suo intimo, è più forte di lui, forse anche più saggia. Questa forza non è qualcosa di esterno, non è un Dio personale o trascendente. È qualcosa che pur essendo lui non è lui, qualcosa che lo travalica, lo ispira, lo mette a dura prova e lo salva, e a cui a poco a poco ha imparato a non opporsi. Non dico che chiami inconscio ciò che i cristiani chiamano Dio, forse piuttosto ciò che i cinesi chiamano Tao.

Arrivato a questo punto, devo andarci con i piedi di piombo. Immagino che in analisi abbia parlato molto della sua malattia e, per dirla senza mezzi termini, mi stupisce che con la sua fede nel potere dell’inconscio si professi tanto ostile a qualsiasi interpretazione psicosomatica del cancro. Su questo punto non discute, ti mangia vivo. Quelli che sostengono: Viene dalla testa, o dallo stress, o da un conflitto psichico irrisolto, li ammazzerei, dice, e li ammazzerei anche quando ne deducono: Tu ne sei uscito perché hai lottato, perché hai avuto coraggio. Non è vero. Ci sono persone che lottano, che sono coraggiosissime e che non ne escono. Un esempio: Juliette.

Questa cosa l’ha detta fin dal primo giorno, quello dell’incontro con la famiglia, l’ha ripetuta durante il nostro primo colloquio a due, e ogni volta io ho fatto come se fossi d’accordo, ma la verità è che non sono sicuro di essere d’accordo. Naturalmente, su una questione così controversa e d’altronde insolubile, non ho teorie, né l’autorevolezza per averne. Nell’esprimermi sull’argomento, so di non dire niente sull’eziologia del cancro ma, tutt’al più, qualcosa su di me, e cioè: intanto, istintivamente, non penso che il cancro sia una malattia che ti piomba addosso dall’esterno per caso (o comunque non sempre, non necessariamente), inoltre e, soprattutto, penso che neanche Étienne in cuor suo lo pensi, o in ogni caso che sostenga di pensarlo con troppa veemenza perché la sua non sia una difesa.

 

 

Ho riletto Il cavaliere, la morte e il diavolo di Fritz Zorn che, come molti altri lettori, trovai sconvolgente quando uscì nel 1979. Riporto le prime frasi: «Sono giovane, ricco e colto; e sono infelice, nevrotico e solo. Ho avuto un’educazione borghese e mi sono comportato bene per tutta la vita. Naturalmente ho anche il cancro, il che, per la verità, dopo quello che ho appena detto, mi pare abbastanza naturale. La faccenda del cancro ha però un duplice aspetto: da un lato si tratta di una malattia organica di cui molto probabilmente morirò quanto prima, ma alla quale potrei anche sopravvivere; dall’altro è una malattia psichica, e posso considerare una fortuna che sia finalmente esplosa».

Ed ecco l’ultima: «Mi dichiaro in stato di guerra totale».

Sembra troppo bello, ma è vero: Zorn, che significa «rabbia», è uno pseudonimo, il vero nome dell’autore era Angst, che significa «angoscia». Nel passaggio da un nome all’altro, da un’espressione all’altra, il giovane aristocratico remissivo, alienato, «educato a morte», come dice lui, è diventato al tempo stesso un ribelle e un uomo libero. La malattia, il terrificante approssimarsi della morte gli hanno insegnato chi era, e sapere chi siamo – Étienne direbbe piuttosto: dove stiamo – significa essere guariti dalla nevrosi. Rileggendo Il cavaliere, la morte e il diavolo, non ho smesso un attimo di pensare alla vita che avrebbe fatto Fritz Zorn se fosse sopravvissuto, all’uomo realizzato che sarebbe potuto diventare se gli fosse stato concesso di godersi quell’ampliamento della coscienza che aveva pagato a caro prezzo. E ho pensato che, per me, quell’uomo realizzato era Étienne.

Non ho osato dirglielo, né parlargli di un altro libro, meno noto, che mi ha colpito quasi altrettanto quell’estate. Si chiama Le Livre de Pierre ed è una lunga intervista di Louise Lambrichs a Pierre Cazenave, uno psicoanalista che ha avuto il cancro per quindici anni e che è morto prima della pubblicazione del libro. Cazenave non si definiva un «malato di cancro» ma un «canceroso». «Quando mi è stato comunicato che avevo il cancro» dice «ho capito che lo avevo sempre avuto. Era la mia identità». Psicoanalista e canceroso, è diventato uno psicoanalista per cancerosi, partendo dall’intuizione, personale e privata, ma confermata dalla maggior parte dei suoi pazienti, che «la sofferenza peggiore è quella che non possiamo condividere. E il canceroso, il più delle volte, prova doppiamente questa sofferenza. Doppiamente perché, in quanto malato, non può condividere l’angoscia che sente con chi gli sta intorno e perché dietro questa sofferenza se ne cela un’altra, più antica, che risale all’infanzia e che a sua volta non è mai stata condivisa, mai stata vista da nessuno. Ed è questa la cosa peggiore per una persona: non essere mai stata vista, mai stata riconosciuta».

La terapia dei cancerosi serve proprio a questo, dice: a vedere e riconoscere quella sofferenza, a fare in modo che il paziente guarisca almeno da quella. Questo non li salverà necessariamente dalla morte ma, tra Molière che si faceva beffe dei medici i cui malati muoiono guariti e il grande psicoanalista inglese Winnicott che chiedeva a Dio la grazia di morire pienamente vivo, Pierre Cazenave si schiera decisamente dalla parte di Winnicott. Il suo paziente è il malato che accoglie la malattia non come una catastrofe accidentale, ma come una verità che lo riguarda intimamente, un’oscura conseguenza della sua storia, l’espressione estrema della sua infelicità e del suo smarrimento di fronte alla vita. In quel tipo di malato, e quando Pierre Cazenave parla di quel tipo di malato parla anche di sé stesso, è mancato qualcosa nella costruzione del narcisismo primario. Una crepa profonda solca il nucleo più antico della sua personalità. Esistono, dice, due specie di uomini: quelli che sognano spesso di cadere nel vuoto e gli altri. I secondi sono stati sostenuti, e sostenuti bene, vivono sulla terraferma, dove si muovono con sicurezza. I primi al contrario soffriranno per tutta la vita di vertigini e di angoscia, avranno sempre la sensazione di non esistere realmente. Questa malattia infantile può restare a lungo silente nell’adulto, prendendo le sembianze di una depressione invisibile anche a sé stessi, finché un giorno si trasforma in cancro. Il malato a quel punto non si meraviglia, lo riconosce. Sa che quel cancro era lui. Per tutta la vita ha temuto qualcosa che, in realtà, era già successo. In chi ha vissuto quel disastro, e naturalmente lo ha dimenticato, l’annuncio della malattia mortale ne fa riaffiorare il ricordo – il disastro attuale risveglia quello antico, determinando un tormento psichico intollerabile, di cui non si capisce l’origine. Questo tormento panico, Pierre Cazenave lo interpreta come il sussulto disperato dell’essere clandestino che, nel suo intimo, non ha mai avuto diritto all’esistenza e che tutt’a un tratto capisce di avere i giorni contati. Per chi ha sempre avuto coscienza di esistere, l’annuncio della morte è triste, crudele, ingiusto, e tuttavia può essere inquadrato nell’ordine delle cose. Ma come potrebbe esserlo per chi, nel suo intimo, ha sempre avuto l’impressione di non esistere realmente? Di non aver vissuto? A questi pazienti lo psicoanalista propone di trasformare la malattia e anche l’approssimarsi della morte nell’estrema occasione di esistere veramente. Cita una frase misteriosa, straziante, di Céline: «Forse è questo che si cerca attraverso la vita, nient’altro che questo, la più grande sofferenza possibile per diventare sé stessi prima di morire».

Pierre Cazenave non è un teorico, parla solo per esperienza: la sua e quella dei suoi pazienti, a cui lo lega, è questa la formula con cui definisce la propria arte e che vorrei essere degno di fare mia, «una solidarietà senza riserve con tutto ciò che la condizione umana comporta in termini di insondabile tormento». Nel quadro clinico che descrive riconosco una persona che non era malata di cancro – che, orribile a dirsi, non ha avuto questa fortuna e se n’è inventato uno perché sotto sotto sapeva che era la sua verità, perché sotto sotto sperava che quella verità venisse riconosciuta dalle sue cellule. E siccome così non è stato, non ha potuto fare altro che mentire. Questa persona è Jean-Claude Romand. Riconosco anche una parte di me stesso, quella che si è riconosciuta in Romand, ma io sono stato fortunato, ho potuto trasformare il mio male in libri invece che in metastasi o in menzogne. Riconosco infine qualcosa di Étienne, che era tormentato da incubi orribili, che ha fatto la pipì a letto fino all’adolescenza ed è convinto che suo padre sia stato violentato da bambino. Quindi, certo, non credo che tutti i tumori si spieghino così, ma credo che ci siano persone il cui nucleo è incrinato praticamente fin dal principio, che nonostante tutti i loro sforzi, il loro coraggio e la loro buona volontà non riescono a vivere veramente, e che uno dei modi con cui la vita, che vuole vivere, si fa strada in loro possa essere la malattia, e non una malattia qualsiasi: il cancro. Proprio perché la penso così mi irrita tanto quando qualcuno dice che siamo liberi, che sta a noi decidere di essere felici, che è una scelta morale. I professori di allegria per i quali la tristezza è un sentimento di cattivo gusto, la depressione un segno di pigrizia, la malinconia un peccato. Sono d’accordo, è un peccato, forse addirittura il peccato mortale, ma ci sono persone che nascono peccatrici, che nascono dannate, e non c’è sforzo, coraggio o buona volontà che possa strapparle alla loro condizione. Tra quelli che hanno il nucleo incrinato e gli altri c’è un abisso come tra i poveri e i ricchi, come nella lotta di classe, certo, ci sono poveri che riescono a cavarsela, ma la maggior parte no, non ci riesce, e dire a un depresso che la felicità è una decisione è come dire a un affamato che può benissimo mangiare brioche. Quindi, sì, io ci credo che per queste persone la malattia mortale e la morte possano essere un’occasione di riuscire finalmente a vivere, come afferma Pierre Cazenave, e ci credo ancor più perché, se devo essere sincero, in certi momenti della mia vita sono stato così infelice da desiderarle. Nel momento in cui lo scrivo, penso di essere ormai cambiato. Penso perfino, per quanto presuntuoso possa sembrare dirlo, di essere guarito. Ma voglio ricordare. Voglio ricordare quello che sono stato e che molti altri sono. Non voglio ridiventarlo, ma non voglio neanche dimenticare o trattare dall’alto in basso l’essere divorato dalla volpe che tre anni fa ha cominciato a scrivere questa storia.

Il pesce-scorpione, il libro di Nicolas Bouvier che leggevo a Ceylon, si conclude a sua volta con una frase di Céline: «La peggior sconfitta, in ogni cosa, è dimenticare, e specialmente ciò che ci ha fatto crepare».

Finita l’ENM, Étienne ha preso due decisioni: aderire al sindacato della magistratura e scegliere un posto difficile, ovvero quello di giudice dell’applicazione delle pene a Béthune. Il sindacato è la roccaforte dei piccoli giudici rossi che rifiutano di far parte della cerchia dei notabili e stanno col fiato sul collo ai delinquenti in colletto bianco, giudici ai quali viene rimproverato di esercitare una giustizia di classe all’inverso. Il tipico esempio di questa deriva è la storia del notaio di Bruay-en-Artois, accusato di stupro e omicidio non sulla base di indizi convincenti, ma per la sua bella casa, la sua bella macchina e la sua pancetta da rotariano. Quanto a Béthune, siamo – proprio come nel caso di Bruay – nel profondo Nord disagiato: disoccupazione, miseria, discariche abbandonate, gente analfabeta e alcolizzata stuprata nei parcheggi da altra gente analfabeta e alcolizzata. Sono due decisioni collegate, che vanno di pari passo, eppure entrano ben presto in conflitto. Non molto tempo dopo, infatti, Étienne è stato reclutato da alcuni colleghi del sindacato più anziani di lui, che si erano introdotti nel mondo politico. Questi ex sessantottini ormai quarantenni avevano saputo approfittare dell’ascesa della sinistra per spartirsi i posti di rilievo. Avevano davanti a sé ancora una buona ventina d’anni di carriera per monopolizzarli e mettere i bastoni fra le ruote ai loro successori, ma un principiante talentuoso e malleabile avrebbe potuto raccogliere qualche briciola. Era il secondo settennato di Mitterrand. Giovane speranza della sinistra giudiziaria, Étienne è stato scelto per prendere parte a una commissione per la riforma dell’applicazione delle pene, che avrebbe potuto aprirgli le porte di un gabinetto ministeriale. Nel suo desiderio di diventare giudice c’era anche, per sua stessa ammissione, un certo gusto per il potere e per la vita agiata, ma uno come lui, con la sua acuta coscienza di classe, non poteva ignorare che la sua professione stava perdendo prestigio. Un tempo i giudici erano persone importanti, ma proprio nell’anno in cui lui ha finito l’ENM, il 1989, il protocollo ufficiale li ha retrocessi di rango, collocandoli dietro i viceprefetti, e a poco a poco hanno smesso di invitarli ai ricevimenti ufficiali. A differenza della maggior parte degli alti funzionari, che soprattutto in provincia hanno auto e appartamento di rappresentanza, loro non godono di nessun fringe benefit. Lavorano in ambienti mal riscaldati, con vecchi telefoni grigi, senza computer, assistiti da segretarie arcigne. Nell’arco di una sola generazione il notabile che occupava un posto di riguardo nella società è diventato un ometto qualunque che si sposta in métro e pranza al self-service, e sempre più spesso questo ometto qualunque è una donna, segno inequivocabile della proletarizzazione di una carica. Étienne, a cui piace la vita agiata e che rivendica il suo essere un borghese, aveva tutte le ragioni per cogliere al volo la prima occasione di migrare verso più alte sfere. Con quanta insistenza glielo abbiano proposto, non lo dice, ma so che è troppo orgoglioso per vantarsi e credo che sempre per orgoglio abbia scelto, realmente scelto, voglio dire avendo la possibilità di scegliere, di diventare un oscuro giudice di base fra i pezzenti del Pas-de-Calais.


La sua attività nell’ufficio di giudice dell’applicazione delle pene ricorda un po’ quello che succede nello studio di un analista. Il suo ruolo consiste nell’ascoltare e nel cercare di trovare qualcosa che chi gli è seduto di fronte possa capire.


La sua clientela è composta da persone profondamente ferite: molti sono eroinomani e sieropositivi. Le probabilità che ne vengano fuori sono scarse, le buone parole in linea di massima inutili. Eppure ce ne sono, di buone parole, cioè parole al tempo stesso vere e opportune, talvolta persino efficaci.


Davanti a questi esseri devastati, sconfitti, già in partenza senza speranze, Étienne scopre che quanto più quello che dicono è difficile da ascoltare, tanto più lui è calmo. Di fronte alle sofferenze altrui ritrova istintivamente l’atteggiamento che gli ha permesso di sopportare le sue quando era malato di cancro. Ancorarsi al proprio intimo, alle proprie viscere. Non ribellarsi, non lottare, non opporsi: ai farmaci, al decorso della malattia, a quello della vita. Non cercare qualcosa di intelligente da dire, lasciare uscire le parole che gli affiorano alla bocca: non sono per forza quelle giuste, ma solo così quelle giuste hanno una qualche possibilità di affiorare.


Non di rado parla di sé. A chi ha paura e si disprezza parla della sua paura, dell’immagine degradata che aveva di sé stesso. A un malato della sua malattia. Non sono argomenti su cui mantiene pudicamente il riserbo. I suoi due tumori, la gamba in meno fanno molto effetto su quelle persone, e lui lo sa. Li sfrutta senza farsi scrupoli, è una fortuna che le sue disgrazie servano a qualcosa.


Ma a che cosa, esattamente? A essere più umano? Più saggio? Migliore? Lui dice di odiare questa idea. Io rispondo che a me pare giusta. Un po’ perbenista, un po’ cattolica direbbe Hélène, ma pur sempre giusta, e lui ne è la prova vivente.


Che vorresti dire? Che sono una brava persona perché ho avuto il cancro e mi hanno amputato una gamba? Parli sul serio?


Dico no, no, è chiaro che non è così semplice, che si può avere il cancro e continuare a essere un mascalzone o un imbecille, ma in realtà sì, è proprio quello che dico. Quello che invece non dico, così come non accenno né a Fritz Zorn né a Pierre Cazenave, è che secondo me il cancro lo ha guarito.


 


 


Cerco di immaginare questo giovane giudice che zoppica lungo i marciapiedi di Béthune. Non abita lì, non esageriamo, ha preso un appartamento a Lille. Ha i suoi libri, i suoi dischi. La sera si toglie la protesi e se ne va a letto da solo. Sempre da solo. La cura, la debilitazione fisica, la perdita dei capelli e dei peli hanno messo a dura prova la sua libido. Ora va meglio, i capelli sono ricresciuti, è un uomo brillante, possiamo dire che sia affascinante, ma in tutta onestà non si può negare che avere una gamba sola sia un problema nella vita e con le donne. Quella che lo accetterà così com’è, quella che lo avrebbe amato con due gambe ma che lo incontrerà e lo amerà adesso, con una gamba sola, ancora non l’ha conosciuta. Avrà il presentimento che sta per succedere, che qualcosa cambierà radicalmente rendendo possibile l’amore e la fiducia? O invece ha perso la speranza? No, non ha perso la speranza. Neanche in fondo al baratro ha mai realmente perso la speranza. Ha sempre conservato quell’elementare fame di vita che ogni volta, dopo una seduta di chemio da incubo, lo spingeva a varcare la soglia del caffè di fronte all’Institut Curie, andare al bancone, ordinare un enorme panino con il salame e divorarlo dicendosi che, nonostante tutto, era bello vivere, e vivere la vita di Étienne Rigal. E tuttavia è prigioniero di quello che gli psichiatri chiamano double bind, un doppio vincolo che lo condanna alla sconfitta in entrambi i casi. Testa vinci tu, croce perdo io. Essere respinto perché hai una gamba sola è penoso, essere desiderato per lo stesso motivo è anche peggio. La prima volta che una ragazza mi ha fatto capire di non voler venire a letto con me per questa ragione, mi dice, è stata una brutta botta. Ma mi è anche capitato di sentire un’altra ragazza dire davanti a un sacco di persone: Sarebbe eccitante andare a letto con Étienne per via della sua gamba di legno. E, ti assicuro, è stato un colpo ancora più difficile da incassare. Eppure bisogna imparare a incassare anche questo. Mi ha aiutato molto una relazione che, verso la fine di questo lungo deserto sessuale, ho avuto con una ragazza che da bambina era stata violentata da suo padre e più tardi, nell’adolescenza, da due sconosciuti. Era assolutamente terrorizzata dal sesso. Anch’io, all’epoca, ero terrorizzato dal sesso. Eravamo tutti e due terrorizzati, e forse è proprio per questo che siamo finiti a letto insieme. Abbiamo fatto quello che potevamo per avere meno paura ed è stato straordinario. Straordinario dal punto di vista sessuale, ti assicuro, di una tenerezza e di una naturalezza incredibili: una delle migliori esperienze della mia vita. L’ho raccontato spesso, nel mio ufficio di giudice, alle donne violentate, e anche ad alcuni uomini, in realtà. Dicevo: È vero, quello che vi è successo complica la vostra vita sessuale, è un trauma terribile, un handicap, ma dovete sapere che ci sono persone a cui questo vostro handicap farà un bene dell’anima, e se lo accettate ne farà anche a voi.


 


 


Digitando su Google le parole «sessualità» e «handicap», mi sono imbattuto in un sito chiamato Overground, destinato a persone attratte sessualmente dai mutilati. Si autodefiniscono devotees – cioè «patiti» –, altri, ancora più estremisti, sono detti wannabees – «aspiranti» –, perché ambiscono a farsi amputare a loro volta un arto, così da identificarsi con l’oggetto dei loro desideri. I wannabees che passano realmente all’atto sono pochi, per la maggior parte si accontentano di fantasticarci su e di realizzare dei fotomontaggi in cui si vedono con l’agognato moncone. Quelli che vanno fino in fondo vivono un calvario. Ho letto la testimonianza di uno di loro: per anni ha cercato invano di trovare un chirurgo compiacente che acconsentisse ad amputargli una gamba sana e alla fine se l’è massacrata da solo con un fucile da caccia in modo abbastanza grave da rendere inevitabile l’amputazione. Devotees e wannabees formano una comunità piuttosto malvista, che vorrebbe affrancarsi dalla sua cattiva fama: Non siamo perversi, dicono i suoi membri, certo abbiamo gusti particolari, insoliti, ma in fondo sono gusti naturali e vorremmo poterne parlare apertamente. I loro desideri, lo ammettono, sono complicati da realizzare. L’incontro ideale sarebbe quello tra un devotee e un wannabee, il wannabee si farebbe amputare un arto ed entrambi godrebbero della loro complementarità in perfetta armonia: Internet ha il grande vantaggio di facilitare questo tipo di incontri, partendo dal principio che fra adulti consenzienti tutto è permesso – perfino, com’è successo qualche anno fa, l’accordo fra un tizio che desiderava mangiare un proprio simile e un altro che, almeno all’inizio, si dichiarava disponibile a essere mangiato. Ma questo incontro ideale è raro: nella stragrande maggioranza dei casi la vocazione del wannabee resta confinata nel mondo della fantasia, mentre nella vita reale la circostanza più frequente, come per i cripto-omosessuali, è quella in cui il devotee – mettiamo che sia un uomo – è sposato con una donna che è completamente all’oscuro dei suoi desideri e che se li scoprisse inorridirebbe. Sul sito gli viene consigliato di fare qualche cauto tentativo, per esempio di proporre alla compagna dei giochi erotici con le stampelle, ma è chiaro che la passione per le amputazioni è più difficile da confessare di quella per la sodomia o per il pissing, e che ci sono ancora meno probabilità di riuscire a convertire a una passione del genere qualcuno che non l’abbia già. La terza via, che dovrebbe essere la via maestra per il devotee, è quella di incontrare una persona già mutilata. In teoria si potrebbe pensare che queste persone, la cui infermità respinge molti, siano contente di conoscere qualcuno che al contrario ne è attratto. Il problema, che neppure un sito militante e propagandistico può dissimulare, è che quasi tutti i mutilati involontari – cioè quasi tutti i mutilati – reagiscono come Étienne quando si sentono dire da una ragazza che ha voglia di andare a letto con loro perché hanno una gamba di legno: ne sono disgustati. Provano ribrezzo per il desiderio dei devotees, ai quali si può solo consigliare l’ipocrisia: nel corteggiare una mutilata, il devotee deve nasconderle accuratamente che lo fa per via del suo handicap; bisogna che lei pensi di essere desiderata nonostante quell’handicap.


 


 


Era la seconda volta che andavo da Étienne, stavamo parlando dalla mattina. All’ora di pranzo ha telefonato alla moglie per proporle di raggiungerci al ristorante italiano dove mi aveva già portato la prima volta. Avevo incrociato fugacemente Nathalie al funerale di Juliette e mi chiedevo un po’ preoccupato che cosa potesse pensare della strana impresa in cui io e suo marito ci eravamo imbarcati, ma appena si è seduta sul divanetto accanto a lui, bionda, risoluta, allegra, ho smesso di preoccuparmi. La situazione sembrava divertirla, visto che Étienne si fidava di me anche lei si fidava, e con evidente piacere mi hanno raccontato a due voci quello che nella loro mitologia personale chiamano il quarto d’ora americano: espressione che non conoscevo e che indica il momento in cui, a una festa, le ragazze prendono l’iniziativa del corteggiamento.


Autunno 1994. Étienne sta concludendo l’analisi. Benché niente sia oggettivamente cambiato, ritiene che qualcosa si sia aperto in lui, che ormai la partita vada giocata nel campo della vita. L’analista approva e si preparano per una seduta che per decisione comune sarà l’ultima. È un momento critico: per nove anni, due volte alla settimana, hai detto a un’altra persona quello che non dici a nessuno, hai intessuto una relazione che non assomiglia a nessun’altra, ed ecco che di comune accordo mettete fine a questa relazione, convinti che tale fine ne rappresenti il compimento; sì, è davvero un momento critico. Dopo quest’ultima seduta Étienne va alla Gare du Nord a riprendere il treno per Lille, dove nel tardo pomeriggio tiene la sua prima lezione a un gruppo di avvocati giovanissimi. Di quel gruppo, che poi si riunisce in un caffè per discutere, fa parte anche Nathalie. Alcuni hanno adorato Étienne, altri lo hanno detestato. Lei è fra quelli che lo hanno adorato. Lo ha trovato brillante, originale, iconoclasta. È rimasta colpita dalla dolcezza della sua voce e dal suo senso dell’umorismo, dietro il quale intuisce una ricchezza di esperienze e un mistero che la affascinano. Indaga, scopre dove vive e che vive da solo, passeggia da solo, va da solo a comprare libri alla Fnac. Le piace sempre di più. Alle lezioni successive le sembra che lui si interessi a una sua compagna di corso, ma la cosa non la preoccupa, intanto perché la compagna è già impegnata, inoltre, e soprattutto, perché, anche se lui non lo sa ancora, lei è sicura che sarà l’uomo della sua vita. Lo invita a una festa, lui non ci va. Il corso finisce, era un ciclo breve, solo poche lezioni. Allora lei va a trovarlo in tribunale e gli spiega che gli studenti, desiderosi di approfondire l’argomento, vorrebbero seguirne almeno un’altra. Non è vero, ma lei chiamerà a raccolta una decina di compagni per fare le comparse durante questa lezione supplementare, che si tiene, molto informalmente, a casa di Étienne. Alla fine le comparse si dileguano. Nathalie invece si trattiene e gli propone di andare al cinema. Il film che vanno a vedere, Film rosso di Kieślowski, narra la storia di un giudice zoppo e misantropo interpretato da Jean-Louis Trintignant, ma loro non fanno minimamente caso alla coincidenza perché dopo dieci minuti lei lo bacia. Passano il resto del pomeriggio a casa di lui, Nathalie resta a dormire lì. Étienne capisce che gli sta succedendo qualcosa di straordinario e si spaventa. Il giorno dopo aveva in programma di partire per passare una settimana di vacanza a Lione da un’amica e, pensando che sia una buona occasione per calmarsi e considerare la situazione con distacco, parte. Resta dall’amica una notte, nel corso della quale capisce non solo che si è innamorato, ma che questo amore è fiducioso, condiviso, sicuro, che sarà la base su cui costruirà tutta la sua vita. La mattina chiama Nathalie: Sto tornando, vuoi che ci vediamo da me? Vuoi venire a vivere con me? Lei si presenta con la sua roba, non si lasceranno più. Ma Étienne ha un’altra cosa da dirle, che è meno piacevole: anche se non fa il test da molti anni per non abbattersi ulteriormente, è quasi sicuro che la chemioterapia l’abbia reso sterile. Nathalie non nega che per lei è un problema, perché vorrebbe dei figli, ma non si lascia scoraggiare, si mette subito alla ricerca di una soluzione. Compra un libro del biologo Jacques Testart sulle varie tecniche di procreazione assistita: Se nessuna funziona, conclude, li adotteremo. Prima però bisogna comunque rifare il test. Lei decide, organizza; lui esegue, sbalordito. Tutto ciò che grava sulla sua vita, la gamba in meno, le sue paure, la probabile sterilità, lei lo accetta, se ne fa carico: fa parte del pacchetto, e il pacchetto le piace. Lo accompagna a masturbarsi alla banca del seme e una settimana dopo vanno a ritirare i risultati. La segretaria dice a Étienne che la dottoressa vuole riceverli di persona, il che non fa ben sperare, ma quando la dottoressa apre la porta della sala d’attesa sorride vedendoli avvinghiati l’uno all’altro sul divanetto di similpelle nera, mano nella mano, e anch’io sorrido guardandoli, undici anni dopo, sul divanetto del ristorante. Ho dato un sacco di brutte notizie in questi giorni, dice, per cui avevo voglia di darne una buona: Potete avere figli. Uscendo, si dicono: Be’, allora ci diamo da fare? Un mese dopo Nathalie è incinta.


 


 


Lei è del Nord, ma ne ha abbastanza del Nord e lui pure. Tra l’altro è già da un po’ che uno dei suoi colleghi penalisti gli ripete, con l’aria saputa di chi, sul tuo conto, ne capisce più di te, che il posto più adatto a lui è il tribunale di istanza. Questo collega è molto più anziano di Étienne, di destra, cattolico, un vero magistrato all’antica, loro due non sono d’accordo quasi su niente, ma si stimano, e a Étienne non dispiace l’idea di affidarsi al parere di un altro, come tanti, in mancanza di una chiara inclinazione personale, si affidano al caso, o come io per esempio, in circostanze simili, mi affido ai responsi sibillini dell’I Ching. È bello decidere, ritiene, ma puoi anche decidere di lasciarti influenzare, di accettare un consiglio o un suggerimento perché così ti gira, di non cristallizzare il flusso della vita fissandoti su qualcosa di assolutamente contingente come la tua volontà. D’istinto, non mi ci vedevo più di tanto come giudice di istanza, ma dato che Bussières mi ci vede benissimo, perché no? Perché non presentare la mia candidatura per il posto che si libera al tribunale di istanza di Vienne? Vienne è vicinissima a Lione, Nathalie potrà iscriversi all’albo di Lione, e poi farà più caldo che a Béthune.

Vienne, sottoprefettura dell’Isère, è una cittadina di trentamila abitanti, con vestigia gallo-romane, un quartiere antico, una strada pedonale fiancheggiata da caffè e un festival di jazz a luglio. Ed è una cittadina tanto benestante quanto Béthune è indigente. Circolo di notabili, dinastie di commercianti e di togati, facciate severe dietro le quali si risolvono a porte chiuse le liti fra eredi: Étienne era alquanto divertito nel ritrovarsi catapultato in questa provincia da film di Chabrol, anche perché in ogni caso non avevano la minima intenzione di abitare a Vienne, ma solo di andarci tre volte alla settimana, mezz’ora di macchina dal quartiere Perrache, dove avevano appena trovato l’appartamento in cui vivono ancora oggi. Era divertito, sì, e i suoi racconti facevano ridere Nathalie, il centro di gravità della loro vita era altrove, in quel bell’appartamento che erano felici di arredare e dove era appena nato il loro secondo figlio. Ciò non toglie però che quando, alla prima udienza da lui presieduta, l’avvocato è arrivato con mezz’ora di ritardo senza scusarsi, Étienne ha capito che era in atto una prova di forza in cui non gli conveniva farsi mettere i piedi in testa. Gli avvocati del foro di Vienne lavorano lì da vent’anni e fra vent’anni ci lavoreranno ancora, prima di loro ci lavoravano i genitori, dopo ci lavoreranno i figli, e quando vedono spuntare un nuovo giudice la loro prima preoccupazione è fargli capire che sono loro i padroni di casa e lui è un semplice inquilino, di cui si dà per scontato che si adegui alle usanze del posto. Étienne ha convocato l’avvocato e gli ha detto gentilmente: Era la prima volta, per cui ho preferito evitare un incidente in aula, ma, per piacere, che non si ripeta o andrà a finire male.


Ha funzionato.


 


 


Quando era giudice dell’applicazione delle pene il suo lavoro consisteva nel ricevere le persone nel suo ufficio, faccia a faccia. In jeans e maglietta, le ascoltava, ci parlava, trovava per aiutarle soluzioni pratiche che nella maggioranza dei casi non avevano niente di giuridico. Le relazioni con loro potevano durare anni. Invece adesso, al tribunale di istanza, sedeva in toga su un banco, con accanto una cancelliera e un usciere, anche loro in toga, che mostravano nei suoi confronti un rispetto gerarchico un po’ troppo compassato per i suoi gusti. Sempre durante la sua prima udienza c’è stata un’altra gag: uscendo dalla camera di consiglio, ha cavallerescamente ceduto il passo alla cancelliera, che è stata presa alla sprovvista da quella bizzarra iniziativa. Ha rifiutato imbarazzata, come se sospettasse che lui volesse approfittarne per sodomizzarla, e in seguito Étienne ha notato che faceva sempre in modo di restare parecchio indietro finché lui non aveva varcato la soglia. Fino all’ultimo momento, con un lieve tremito alle mani, fingeva di sistemare dei fascicoli sul tavolo. Étienne sorrideva di quei solenni cerimoniali, ma sentiva la mancanza dei rapporti personali con gli imputati. Le decisioni che prendeva influivano sulla vita di persone che, nel migliore dei casi, avrebbe visto per cinque o dieci minuti. Non aveva più a che fare con degli individui ma con dei fascicoli. Oltretutto bisognava sempre sbrigarsi. L’intasamento delle cancellerie induce a esercitare una giustizia meccanica in cui a una determinata infrazione corrisponde una determinata ammenda, un determinato vizio contrattuale fa scattare una determinata decisione del giudice, e si va di fretta, tanto più che la produttività, vale a dire il numero di sentenze emesse, è un criterio decisivo per la valutazione di un giudice, quindi per il suo avanzamento di carriera. A Étienne non pesava essere rapido, anzi in generale gli piace, ma si è ripromesso di non cedere alla tentazione della catena di montaggio e di continuare a vedere in ogni fascicolo una storia individuale, unica, meritevole di una particolare soluzione di diritto.


 


 


Nel corso di quell’autunno sono andato due volte a Vienne per fare un giro al palazzo di giustizia. È un bell’edificio secentesco, che domina la piazzetta in cui si trova il tempio di Augusto e di Livia, vanto del centro storico della città. Quando non ero «in udienza», come un giorno mi sono sorpreso a dire, incontravo giudici, cancellieri, avvocati a cui Étienne mi aveva raccomandato. Mi informavo su cosa faccia esattamente un giudice di istanza, su come lo facessero Étienne e Juliette, e loro mi chiedevano che cosa avevo in mente di fare con quelle informazioni. Un devoto omaggio a mia cognata da poco scomparsa? Un testo sulla giustizia in Francia? Un pamphlet sul sovraindebitamento? Io ero del tutto incapace di rispondere. Capivo che erano lusingati nel vedere uno scrittore interessarsi al loro lavoro, a cui non molti si interessano, ma al tempo stesso percepivo da parte loro una certa diffidenza. Il nome di Étienne non mi spalancava le porte come avevo sperato. Il magistrato che lo aveva sostituito, una donna con cui mi ero messo in contatto facendo il suo nome per dirle che avevo intenzione di piantare le tende nel tribunale per una settimana o due, mi ha risposto che uno stage non si improvvisa così. Io non avevo mai parlato di stage, mi ero limitato ad avvertire per educazione che intendevo assistere ad alcune udienze, la maggior parte delle quali era pubblica, ma, come spesso accade quando facciamo la sciocchezza di chiedere un’autorizzazione non necessaria, quella banale procedura è diventata un affare di stato: lei non poteva prendersi la responsabilità di darmi il permesso, serviva quello del primo presidente della Corte d’appello. E perché non del guardasigilli? ha ironizzato Étienne, senza stupirsi più di tanto. Ho capito che l’ombra del suo predecessore incombeva sulla nuova padrona di casa, la quale probabilmente mi vedeva come una specie di spia assoldata da lui, un emissario dell’imperatore venuto a ridestare vecchi fantasmi in piena Restaurazione.


 


 


Alla fine ho veramente fatto qualcosa che assomigliava a uno stage e appurato quello che mi aveva detto Étienne: che il giudice di istanza è l’equivalente nell’ambito della giustizia del medico di base. Affitti non pagati, sfratti, pignoramenti dello stipendio, tutela di disabili o anziani, controversie relative a somme inferiori ai 10.000 euro – al di sopra di quella cifra sono di competenza del tribunale di grande istanza, che occupa la parte nobile del palazzo di giustizia. Per chi abbia frequentato la Corte d’assise o qualsiasi tribunale correzionale, il meno che si possa dire è che l’istanza offre uno spettacolo poco gradevole. Qui tutto è modesto, i torti, i risarcimenti, le poste in gioco. La miseria c’è eccome, ma non ha virato alla delinquenza. Si sguazza nel pantano dell’esistenza quotidiana, si ha a che fare con persone invischiate in difficoltà al tempo stesso mediocri e insormontabili, e il più delle volte non si ha neppure a che fare con loro dal momento che non si presentano all’udienza, né si presentano i loro avvocati, visto che non hanno avvocati, allora si può solo mandargli per raccomandata la sentenza, che spesso non avranno il coraggio di andare a ritirare.


Il pane quotidiano del penalista del Nord era la delinquenza dei tossici sieropositivi. Quello del civilista di Vienne è il contenzioso in materia di tutela del consumatore e recupero crediti. Vienne, come ho detto, è una cittadina borghese, l’Isère non è certo fra i dipartimenti francesi più poveri, ma a Étienne sono bastate poche settimane per scoprire che nel mondo in cui viveva la gente era sommersa dai debiti e non ce la faceva ad arrivare alla fine del mese. Nelle udienze civili una piccola lite a proposito di muri divisori o di danni da infiltrazioni d’acqua era una boccata d’aria perché per qualche decina di minuti rompeva la monotona processione delle società finanziarie che citavano in giudizio debitori insolventi.


A questa forma di disagio sociale Étienne non era stato preparato né dalla vita né dagli studi. L’unica volta che un professore, all’ENM, aveva parlato di leggi a tutela del consumatore, lo aveva fatto con sprezzante ironia, come di leggi destinate agli imbecilli, a persone che firmano i contratti senza leggerli e a cui è pura demagogia voler prestare assistenza. Il fondamento del diritto civile, si legge nei manuali, è il contratto. E il fondamento del contratto è l’autonomia della volontà e l’uguaglianza delle parti. Nessuno si impegna o dovrebbe impegnarsi contro il proprio volere, chi lo fa deve poi accettarne le conseguenze: la prossima volta sarà più cauto. Étienne non aveva avuto bisogno di vivere otto anni nel Pas-de-Calais per scoprire che gli uomini non sono né liberi né uguali, ma non per questo aveva sconfessato – restava pur sempre un giurista – il principio secondo cui i contratti vanno rispettati. Cresciuto in un ambiente borghese, non aveva mai avuto veri problemi economici. Lui e Nathalie avevano un conto congiunto, un libretto di risparmio, un’assicurazione sulla vita e un mutuo per l’appartamento, che pagavano con addebito diretto e che avevano calcolato con un margine abbastanza ampio da non doversi mai chiedere se fosse ragionevole andare in vacanza. In materia di credito revolving la sua unica esperienza era la tessera della Fnac, che gli dava diritto, come gli avevano spiegato, a forme di pagamento agevolato di cui non usufruiva mai, preferendo pagare in contanti i cd e i libri che comprava, e concedersene qualcuno in più con i punti fedeltà. Ogni tanto, ma di rado perché non figurava in nessuna banca dati, trovava nella cassetta delle lettere una pubblicità di qualche finanziaria. «Attingi liberamente al tuo salvadanaio» dice Sofinco. «Non aspettare a regalarti quello che desideri» propone Finaref. «Bisogno di soldi? Subito?» si preoccupa Cofidis. «È il momento di approfittarne» assicura Cofinoga. Lui le buttava nel cestino senza farci caso.


Però, da quando in udienza vedeva sfilargli davanti le persone che quei prestampati li avevano sottoscritti, aveva cominciato a guardarli con occhi diversi. Si accorgeva di quanto è facile convincere i poveri che, pur essendo poveri, possono comprare una lavatrice, una macchina, una console Nintendo per i bambini o semplicemente qualcosa da mangiare, che potranno restituire i soldi in seguito e che questo non gli costerà praticamente niente di più che se pagassero in contanti. A differenza dei prestiti più controllati e meno costosi concessi dalle banche classiche, di cui peraltro le finanziarie sono delle filiali, i contratti di questo tipo si concludono in un batter d’occhio: basta firmare in calce il prestampato, che reca l’intestazione «offerta preliminare». Lo puoi fare direttamente alla cassa del negozio, è valido da subito, tacitamente rinnovato, puoi prendere quanto vuoi, quando vuoi, sicché hai la piacevole impressione che si tratti di soldi gratuiti. Impressione che il modo in cui sono formulate le offerte non fa niente per smentire. Lì non si parla di prestito ma di «salvadanaio», non di credito ma di «pagamento agevolato». Dicono per esempio: «Ha bisogno di 3000 euro? Che ne direbbe di 3000 euro per un euro al mese? Ebbene, cara signora, è proprio fortunata, perché in quanto affezionata cliente – del nostro negozio, del nostro centro di vendita per corrispondenza –, lei è stata scelta come beneficiaria di un’offerta assolutamente eccezionale. Da oggi può chiedere l’apertura di una riserva di credito che può arrivare fino a 3000 euro». Il costo estremamente elevato di questo credito figura in caratteri minuscoli sul retro dell’offerta, alcuni lo leggono altri no, il più delle volte no, in ogni caso firmano, perché è l’unico modo, per chi non ha soldi, di comprarsi ciò di cui ha bisogno, o magari non sempre bisogno ma voglia, semplicemente voglia, perché anche chi è povero ha delle voglie, è questo il dramma. Laddove la banca avrebbe la prudenza di dire di no, la finanziaria dice sempre di sì, perciò i banchieri orientano cortesemente verso di essa i clienti con il conto sempre in rosso. La finanziaria non vuole sapere se sei già pesantemente indebitato. Non controlla niente: Ecco, firma qui sotto e spendi, non ti chiede altro. Tutto fila liscio finché paghi la rata mensile, o meglio le rate mensili, perché la peculiarità dei crediti in questione è quella di accumularsi, come niente ti trovi con una decina di queste carte. Immancabilmente, a un certo punto, arrivano i mancati pagamenti: non riesci più a tenere il passo. L’ente creditizio intenta un’azione giudiziaria. Chiede il recupero delle somme dovute, più quello degli interessi previsti dal contratto, più quello delle penali per il ritardo anch’esse previste dal contratto, e il totale ammonta a molto più di quanto tu avessi potuto immaginare.


 


 


Quell’anno c’è stato un processo che ha fatto molto scalpore. Riguardava una coppia che guadagnava 2600 euro al mese, lui come operaio, lei come aiuto infermiera. Hanno tentato di suicidarsi e di uccidere i loro cinque figli perché dopo dodici anni di vita a credito, con sei conti in banca, ventuno crediti revolving, quindici carte magnetiche e quasi 250.000 euro di debiti, i loro creditori sono passati alle vie legali. Alle offerte allettanti hanno fatto seguito i solleciti di pagamento, e siccome gli sono piombati addosso tutti insieme non è stato più possibile trasferire il debito da un conto all’altro, aprire una nuova linea di credito per prendere tempo. La partita era persa, per loro era la fine. L’ultima carta revolving non ancora rifiutata è servita a comprare degli abiti nuovi, per far sì che i bambini arrivassero vestiti come si deve nell’altro mondo, che il padre con sinistro candore immaginava «uguale al nostro, ma senza debiti». Il suicidio collettivo è fallito, è morta solo una delle figlie. In Corte d’assise il padre ha preso quindici anni e la madre dieci. Il caso ha commosso tutta la Francia. È una storia straziante, mi dice Étienne, ma non veramente emblematica perché i Cartier ricorrevano al credito in modo irresponsabile, per vivere al di sopra delle loro possibilità. Avevano comprato un televisore e una console per videogiochi a ognuno dei figli, elettrodomestici di lusso, cambiavano compulsivamente macchina, mobili e attrezzature, si abbonavano a tutto quello che gli capitava a tiro, insomma erano le classiche persone a cui anche il venditore meno scaltro sa, varcando la soglia della loro villetta, che riuscirà a rifilare qualsiasi cosa. Avevano il profilo tipico di quello che i sociologi definiscono il sovraindebitato «attivo», che la crisi ha reso minoritario rispetto al sovraindebitato «passivo». A quest’ultimo non si può imputare di consumare eccessivamente e di servirsi del credito in modo sconsiderato, per il semplice motivo che è povero, poverissimo, e che per mettere qualche pacco di pasta nel carrello della spesa non ha altra scelta se non prendere soldi in prestito. È l’ultracinquantenne che vive del sussidio statale, o la madre single disoccupata, senza nessuna qualifica, senza prospettive se non, nel migliore dei casi, quella di trovare un impiego part-time, precario e sottopagato, con il classico effetto perverso per cui lavorare, se ci riuscirà, alla fine sarà meno conveniente che vivacchiare con i sussidi a cui ha diritto. Sono tutte persone che hanno solo debiti e niente per pagarli. I fascicoli che li riguardano si accumulano sulla scrivania del giudice di istanza.


E il giudice di istanza che può fare? In generale non ha un gran margine di azione. Vede benissimo che ci sono da un lato un povero cristo con le spalle al muro e dall’altro una grossa società che non si fa intenerire, ma in fondo farsi intenerire non è compito della grossa società, e neppure del giudice. Fra il povero cristo e la grossa società c’è un contratto, e il ruolo del giudice consiste nel far rispettare questo contratto, o costringendo il debitore a pagare o pignorandogli i beni. Il problema è che nella maggior parte dei casi il debitore è insolvibile e i suoi beni impignorabili, vale a dire che ha solo lo stretto necessario per sopravvivere. Fino alla metà dell’Ottocento l’impasse veniva superata condannandolo alla prigione per debiti – istituto che, come mi ha spiegato Étienne, è caduto in disuso non per umanità, ma perché il sostentamento dei detenuti era a carico dei creditori, non dello Stato, e l’interesse economico ha avuto la meglio sulla soddisfazione di vedere punito il colpevole. Oggi c’è un’altra soluzione, ovvero la commissione di sovraindebitamento.


 


 


Étienne era ancora all’ENM nel 1989 quando, sotto la spinta dell’emergenza sociale, la legge Neiertz ha istituito in ogni dipartimento una di queste commissioni incaricate di trovare una soluzione laddove è evidente che soluzioni non ce ne sono. Per il professore che si faceva beffe della neonata legislazione a tutela del consumatore, considerandola un’immeritata assistenza prestata agli imbecilli, era un po’ la fine del mondo, la creazione di qualcosa di assolutamente nuovo e di giuridicamente scandaloso: il diritto di non pagare i debiti. In teoria non si tratta di questo, ma di calcolare quanto la persona sovraindebitata, tirando la cinghia al massimo, possa pagare ogni mese e di proporre a lei e al suo creditore un piano di rientro. In pratica però, dopo essersi a lungo destreggiati tra scadenze, rinvii e rinegoziazioni, arriva il momento in cui bisogna per forza parlare di cancellazione del debito, e questa rivoluzione giuridica è stata riconfermata quindici anni dopo, quando la situazione era ulteriormente peggiorata, con l’approvazione della legge Borloo, che ha istituito la «procedura di risanamento personale», detta anche «fallimento civile». Da quel momento si applica ai privati il principio del fallimento commerciale, vale a dire che se la loro situazione risulta «irrimediabilmente compromessa» – valutazione non facile da fare sotto nessun punto di vista – i debiti vengono semplicemente cancellati, e pazienza per i creditori.


Nel 1997, quando Étienne è arrivato a Vienne, non si era ancora a questo punto. Ma le associazioni dei consumatori e alcuni parlamentari sia di destra sia di sinistra militavano in tal senso contro la lobby delle finanziarie. Citavano l’esempio dell’Alsazia e della Mosella, dove questa pratica era in vigore già da molto tempo e non per questo la terra aveva smesso di girare. E, a partire dal 1998, la legge Aubry ha reso possibile una parziale estinzione dei debiti, che veniva raccomandata sempre più spesso dalle commissioni di sovraindebitamento. Che poi tali raccomandazioni venissero o meno seguite dai giudici, questo naturalmente dipendeva dal singolo giudice, dalla sua filosofia del diritto e della vita.


 


 


A Vienne ho assistito a qualche udienza per sovraindebitamento. Non erano presiedute da Étienne, che oggi non lavora più al tribunale di istanza, ma da un giudice di nome Jean-Pierre Rieux, che era stato il predecessore di Juliette e che, dopo la sua morte, aveva avuto l’incarico di sostituirla temporaneamente. Étienne, che ha lavorato con lui per due anni, me ne aveva parlato con simpatia: Vedrai, è il contrario di me, ma è uno che sa dove sta. «Sa dove sta», in bocca a Étienne, è il migliore dei complimenti. All’inizio non capivo che cosa volesse dire esattamente, ora lo capisco meglio, forse perché io stesso so un po’ meglio dove sto. Sulla cinquantina, ben piantato, ex giocatore di rugby, ex educatore diventato magistrato in età avanzata e cominciando dalla gavetta, Jean-Pierre ci tiene a ricordare che fino al 1958 quello che oggi è chiamato giudice di istanza si chiamava giudice di pace. Ed è proprio questa secondo lui l’essenza del suo mestiere: conciliare, fare in modo che le persone trovino un accordo. Una delle cose che gli piacevano, e che si fa sempre meno spesso perché non ce n’è il tempo, era il sopralluogo giudiziario. Un tizio viene a dirti: Il cancello elettrico che mi ha installato la ditta Tal dei tali non funziona. Tu che fai? Vai a dare uno sguardo al cancello elettrico. Prendi la macchina, porti con te la cancelliera, chiami la ditta Tal dei tali perché vengano anche loro sul posto e, con un po’ di fortuna, li convinci a firmare, seduta stante, un verbale di conciliazione, dopodiché andate a bere qualcosa tutti insieme. Questo modo di fare un po’ alla buona non era nello stile di Étienne. A lui non piacevano i sopralluoghi. Quello che gli piaceva, o meglio quello che ha cominciato a piacergli, era il diritto puro, la sottigliezza della logica giuridica, mentre Jean-Pierre non ha problemi ad ammettere di essere un giurista sbrigativo. Io non me ne intendo di diritto, dice alzando le spalle, cerco solo di evitare che la gente si faccia fregare troppo.


Le udienze per sovraindebitamento, al contrario delle altre udienze civili, non si svolgono nell’aula grande del tribunale ma in una stanzetta ribattezzata «la biblioteca» per via di qualche codice poggiato su uno scaffale, e senza alcuna formalità. La cancelliera porta toga e facciole, ma il giudice è in maniche di camicia. Sembra di essere in un ufficio di collocamento o nell’ufficio di un qualsiasi altro servizio sociale, impressione che non viene smentita da quello che si vede e si sente.


La situazione prevede poche varianti. Qualcuno ha presentato una pratica alla commissione di sovraindebitamento, che è come una succursale della Banca di Francia in ogni dipartimento (in fondo, dice Jean-Pierre, qualcosa bisognava pur farglielo fare, alla Banca di Francia, visto che le hanno tolto tutti i suoi poteri). Magari la pratica è stata giudicata inammissibile e chi l’ha presentata contesta tale decisione. O magari invece è stata dichiarata ammissibile, la commissione ha fissato un piano di rientro e uno o più creditori contestano questo piano, con cui il loro credito viene ridotto o addirittura annullato. O magari infine il piano viene convalidato dal giudice senza ulteriori udienze.


Prima che la cancelliera faccia entrare l’interessato, Jean-Pierre lancia un’occhiata alla copertina cartonata del fascicolo. La lunghezza della colonna in cui sono elencati i nomi dei creditori gli permette di farsi un’idea dell’entità del macello. Trattandosi della signora A., scuote la testa: ha visto di peggio.


 


 


Quarantacinque anni, obesa, strizzata in una tuta verde e viola, con i capelli corti incollati alla fronte e un grosso paio di occhiali fantasia dai motivi fluo, la signora A. è visibilmente a disagio. Jean-Pierre, interrogandola, fa il possibile per rassicurarla. È cordiale, affabile, dice: Bene, vedremo cosa si può fare, e già dal tono si capisce che qualcosa si potrà fare. La signora A. guadagna 950 euro al mese come operatrice sociosanitaria in ospedale, ha a carico due figli di sei e quattro anni, prende gli assegni familiari e il contributo personalizzato per l’alloggio, ma siccome lavora questo contributo si è ridotto e ora copre solo un terzo dell’affitto. La situazione è diventata critica tre anni prima, quando ha divorziato, perché tutte le spese sono raddoppiate. Quando Jean-Pierre le chiede se possiede una macchina, lei intuisce che si tratta di una domanda pericolosa, perché la macchina è un bene che può essere pignorato, e si affretta a spiegare che ne ha assolutamente bisogno per andare al lavoro. Jean-Pierre dice che non ha nessuna intenzione di farle portare via la macchina, anche perché ha più di dieci anni e, scusi se glielo dico, non vale niente. E spese di baby-sitter, ne ha? Sì, ammette la signora A., come se fosse una cosa di cui vergognarsi.


Sulla base di tutte queste informazioni la commissione ha calcolato, secondo la tabella prevista dal Codice del lavoro, la parte del suo reddito che può essere destinata al rimborso dei debiti contratti: 57 euro al mese. I debiti in questione, fra le tasse, l’OPAC di Vienne che le affitta l’appartamento, il Crédit municipal di Lione e le finanziarie France-Finances e Cofinoga, ammontano a 8675 euro. La commissione ha fatto il calcolo: la signora, in dieci anni, può rimborsare al massimo 6840 euro. Restano 1835 euro, che la commissione propone di cancellare. Il problema è decidere chi ne subirà le conseguenze. Il fisco deve essere pagato per primo, è la legge. Subito dopo c’è l’OPAC di Vienne, creditore con finalità sociali che non è il caso di mandare in rovina. Quindi a restare a bocca asciutta saranno il Crédit municipal, France-Finances e Cofinoga. A tutti e tre la commissione ha comunicato la proposta di conciliazione. Due non hanno reagito, il che significa che accettano. France-Finances invece la contesta, e la signora A. è molto preoccupata perché le hanno mandato una lettera feroce, accusandola di non voler pagare quando loro sanno benissimo che in realtà potrebbe farlo. Ce l’ha qui la lettera? chiede Jean-Pierre. Tirando su col naso, la signora A. fruga nella cartellina di plastica che appena arrivata ha poggiato sul tavolo, davanti a sé, e a cui è rimasta aggrappata per tutto il tempo come a un salvagente. Dà la lettera a Jean-Pierre, che la scorre, dopodiché le chiede se qualcuno è andato a parlare con i suoi vicini o le ha telefonato sul posto di lavoro. Sì. D’accordo, dice Jean-Pierre, ora le spiego cosa succederà. Io emetterò la sentenza fra due mesi, è la regola, ma a lei preferisco comunicarla subito. Quello che farò sarà seguire la proposta della commissione. Il che significa che cancellerò il suo debito con France-Finances e che loro non avranno più il diritto né di mandarle lettere, né di telefonarle al lavoro, né di parlarne con i suoi vicini. Se lo faranno, saranno loro a violare la legge e lei può rivolgersi a me. Da parte sua, lei deve pagare 57 euro al mese al fisco e all’OPAC, e questi vanno assolutamente pagati, ogni mese. Finché lo farà, finché rispetterà scrupolosamente il piano concordato, non avrà problemi. L’altra cosa è che non deve più chiedere prestiti. Nessuno. Ha capito? La signora A. ha capito e se ne va sollevata.


Quella lì, commenta Jean-Pierre dopo che la porta si è richiusa alle spalle della signora, farà sicuramente del suo meglio. Non dico che ci riuscirà, perché con 950 euro al mese, due bambini a carico, la benzina che costa un patrimonio e di cui non può fare a meno perché al lavoro deve per forza andarci in macchina, l’affitto che aumenta e il contributo per l’alloggio che diminuisce, mi chiedo come possa arrivare alla fine del mese. Mi fa ridere chi dice che un piano di sovraindebitamento è una soluzione troppo comoda, ti cancellano i debiti e buonanotte, ma è una vita d’inferno, per dieci anni non fai altro che pagare, non puoi mettere da parte un euro, non puoi chiedere un prestito, non ti è consentito nessuno sfizio, ed è calcolato talmente al centesimo che non puoi permetterti di sbagliare, la minima spesa imprevista si trasforma in una catastrofe. Ti pianta in asso la macchina: è la fine. Buona parte delle persone che vengono qui, inutile farsi illusioni, prima o poi torna. Lei spero di no, ma loro, guarda: basta vedere l’elenco.


 


 


Sul fascicolo dei coniugi L. sono elencati i nomi di una buona ventina di creditori: banche, locatori, finanziarie, ma anche meccanici e piccoli commercianti, i due hanno conti aperti un po’ ovunque e, anche se nessuna somma è molto elevata, il totale è consistente. Entrano. Tutti e due sulla trentina, lui scheletrico, colorito terreo e faccia devastata dai tic, lei cicciottella, le guance arrossate dalla couperose, e se la signora A. per tutta la durata dell’udienza aveva a stento trattenuto le lacrime, lei sembra in uno stato ancora peggiore, completamente apatica. Di recente si sono separati, ma restano uniti nell’affrontare i creditori. Lei ha tenuto la casa, dove vive con i loro quattro figli, lui dorme nella macchina, ormai fuori uso. Ultimamente lei ha lavorato per qualche mese come cameriera e lui come venditore porta a porta: cercava di rifilare certi estintori di più di cinquanta chili a dei vecchietti che non erano neanche in grado di sollevarli. Lui è stato licenziato perché non ne piazzava abbastanza e lei ha dovuto smettere perché, per l’appunto, la macchina è fuori uso, il turno finiva a notte fonda e non c’erano autobus per tornare a casa. Sono entrambi sieropositivi. Con i sussidi pubblici come unici mezzi di sostentamento, un indebitamento così massiccio e una speranza di «ritorno a miglior fortuna», per usare l’espressione giuridica in vigore, pari a zero, viene da chiedersi come mai non siano stati orientati verso il fallimento civile, che cancellerebbe tutti i loro debiti, anziché verso la commissione di sovraindebitamento, che non può spingersi a tanto. Devono restituire quasi 20.000 euro. La loro capacità di rimborso è stata fissata, Dio solo sa come, a 31 euro al mese. Tale cifra è sufficiente per concordare un piano della durata di centoventi mesi che non ha la minima speranza di essere rispettato. Loro però non chiedono di meglio, sono chiaramente sfiniti, in realtà vogliono solo una tregua, qualche settimana lontani dalle società di recupero crediti che, nonostante la loro palese insolvibilità, danno fondo a tutto il loro arsenale di mezzi di persuasione: gli avvisi di mora incollati ben in vista sulla cassetta delle lettere, il giro del vicinato opportunamente informato delle loro difficoltà finanziarie, e perfino la visita ai bambini, con cui vanno a parlare il mercoledì pomeriggio dicendo di riferire il messaggio ai genitori. Se mamma e papà non pagano i debiti, sarete cacciati di casa. Loro vi vogliono bene, non vorranno certo farvi dormire per strada, allora ditegli di pagare quello che devono, forse a voi che siete i loro bambini daranno ascolto. Sembrerà che voglia fare del miserabilismo spicciolo, ma le cose stanno proprio così, e il dramma, aggiunge Jean-Pierre, è che i tizi che fanno questo schifo di mestiere sono anche loro dei poveri diavoli, ogni settimana ne vede alcuni presentare istanza di sovraindebitamento, quando gli chiede che lavoro fanno, sorpresa: sono impiegati part-time presso una società di recupero crediti, e quando a lui cascano le braccia non capiscono neanche il perché. Per farla breve, Jean-Pierre ha chiesto agli L. se per loro non sarebbe meglio tentare la strada del fallimento civile, precisando che fallimento civile significa cancellare tutti i debiti, ma hanno detto di no, avevano già avviato una pratica, erano troppo stanchi per ricominciare daccapo. Jean-Pierre ha sospirato e ha detto: D’accordo. Ma l’avete guardato, il vostro piano di rientro? Avete visto che ci sono 31 euro al mese da pagare? Hanno risposto di sì, e io ho avuto l’impressione che se avesse detto 310 o 310.000 euro avrebbero risposto comunque di sì. Prima di congedarli, Jean-Pierre si è assicurato che fossero adeguatamente seguiti dai servizi sociali, che ci fosse qualcuno, da qualche parte, con cui potessero parlare. Hanno detto di nuovo sì, sì, e sono usciti come se non ne potessero più di stare in quella stanza, di rispondere a quelle domande, di fare atto di presenza a uno dei tanti obblighi dell’esistenza. Il piano di rientro era stato inoltrato a tutti i creditori, assieme a una convocazione pro forma. Solo una delle finanziarie lo contestava, ma non aveva mandato nessuno, ritenendo probabilmente, e non a torto, che la causa fosse persa in partenza. Tuttavia, quando la cancelliera è andata a chiamare le parti dell’udienza successiva, è tornata, piuttosto sorpresa, insieme a un tizio in camicia a quadri, venuto anche lui per la pratica degli L. Aveva ricevuto la convocazione ed era venuto. Lavorava da Intermarché, che citava in giudizio i signori L. per due assegni scoperti del valore di 280 euro. Sentendo questo, mi sono detto: Data la situazione, Intermarché può tranquillamente tollerare di vedere andare in fumo 280 euro. Ma come sempre non era così facile, perché l’Intermarché in questione era un minimarket in franchising situato a Saint-Jean-de-Bournay, un paesino non lontano da Rosier, e il tizio in camicia a quadri non era certo un cinico rappresentante della grande distribuzione, ma al contrario un poveraccio sfruttato che se mancavano 280 euro dalla cassa ce li rimetteva di tasca sua. Aveva incrociato gli L. che uscivano, li aveva riconosciuti e, con aria seccata, ammetteva: In effetti non sembra che se la passino bene. Esatto, ha confermato Jean-Pierre con un sospiro, allora è inutile che le racconti balle. Arriva un momento, purtroppo, in cui non si può fare altro che constatare lo stato delle cose e io non ho più potere della Banca di Francia, non posso inventarmi dei soldi che non ci sono. Guardi l’elenco: un sacco di creditori, praticamente nessun reddito, quattro figli, per cui... Per cui? gli ha fatto eco il negoziante. Per cui, lei lo ha visto il piano di rientro. La Banca di Francia propone il rimborso di un certo numero di crediti e la cancellazione di altri. C’è stato un momento di silenzio, poi il negoziante ha detto: Ah... è una soluzione. Si capiva benissimo che quella soluzione la trovava difficile da mandar giù, e soprattutto che sentirla difendere da un giudice lo sconcertava. Allora Jean-Pierre si è alzato e, tenendo in mano il piano di rientro, è passato dall’altra parte del tavolo, è andato a sedersi accanto al negoziante e gli ha spiegato: Ascolti, non deve darla per persa. È un piano calcolato su centoventi mesi, il che sinceramente mi sembra un po’ ottimistico, considerata la loro esistenza precaria. Ma, vede, per lei non hanno proposto la pura e semplice cancellazione. Quello che le viene proposto è di non ricevere niente per cinquantatré mesi, il tempo necessario per pagare i creditori che hanno la priorità, dopodiché avrebbe 31 euro al mese per nove mesi. Non è impossibile che in poco più di quattro anni riesca a recuperare i suoi soldi. Non glielo posso promettere, non so in che condizioni saranno loro fra quattro anni, ma è possibile. Il negoziante è andato via non del tutto rasserenato ma nemmeno avvilito.


 


 


Étienne ha imparato il mestiere di giudice di istanza lavorando al fianco di Jean-Pierre. Nella sostanza erano d’accordo. Pensavano che le finanziarie esagerassero e non gli dispiaceva quando avevano occasione di metterle con le spalle al muro. Ma improvvisavano. Cercavano di trovare una soluzione caso per caso, senza pensare alla teoria giuridica, senza preoccuparsi di fare giurisprudenza. Poi Étienne ha saputo che un altro giudice di istanza, Philippe Florès, aveva fatto del suo tribunale di Niort l’avanguardia della tutela dei consumatori. Étienne è consapevole del proprio valore, non vuole restare nell’ombra e per questo, dice, non ha paura di chiedere quando non sa, né di copiare da chi ne sa più di lui. Quindi si è messo in contatto con Florès e ha seguito il suo insegnamento – meno empirico di quello che aveva ricevuto da Jean-Pierre.


Florès aveva finito l’ENM il suo stesso anno, ma si era trovato a lavorare al tribunale di istanza fin da subito, proprio nel momento in cui venivano istituite le commissioni di sovraindebitamento. Anche lui, a dispetto, o a causa della sua provenienza da una famiglia povera, era sconcertato da quella novità. Andava contro tutto ciò che gli era stato insegnato nel corso di tanti anni di studio sul rispetto dei contratti e sul diritto che non è fatto per gli imbecilli. Su questo punto ha presto cambiato idea: il diritto è fatto anche per gli imbecilli, per gli ignoranti, per tutti coloro che sì, hanno firmato un contratto, ma che comunque a ben guardare sono stati fregati.


Eppure esiste una legge volta a limitare queste fregature: la legge Scrivener, approvata nel 1978 sotto la presidenza Giscard, ma di ispirazione più socialdemocratica che repubblicana, nel senso che limita la libertà, in teoria sacrosanta, dei contratti.


Secondo la pura logica liberale le persone sono libere, uguali e adulte quanto basta per potersi accordare senza che lo Stato se ne impicci. Secondo la pura logica liberale un proprietario ha pieno diritto di proporre all’inquilino un contratto in base al quale potrà scacciarlo o raddoppiare l’affitto quando gli gira, esigere che spenga la luce alle sette di sera o che si metta la camicia da notte anziché il pigiama: dal momento che l’inquilino ha il diritto simmetrico di non accettare il contratto, è tutto a posto. La legge però tiene conto della realtà, e del fatto che nella realtà le parti non sono davvero libere e uguali come nella teoria liberale. L’uno possiede, l’altro chiede, l’uno può scegliere, l’altro meno, per questo i contratti di locazione sono soggetti a regole ben precise, e così pure i prestiti. Da un lato bisogna incoraggiarli perché fanno girare l’economia, dall’altro bisogna impedire alle persone di farsi infinocchiare perché questo ha una ricaduta sociale negativa. La legge Scrivener dichiara dunque vessatorie le clausole che renderebbero il contratto troppo iniquo e vincola il mutuante, visto che è lui a redigerlo, al rispetto di un certo numero di requisiti formali, modelli standard, diciture obbligatorie, criteri di leggibilità, insomma di tutta una serie di norme destinate a far sì che il mutuatario sia almeno consapevole dell’impegno che si sta prendendo.


Il problema della legge Scrivener è che le finanziarie, a cui in teoria dovrebbe imporre delle regole, non la rispettano e che i consumatori, a cui dovrebbe garantire delle tutele, non la conoscono. Florès la conosceva a fondo e si era messo in testa, agendo in totale solitudine, di farla rispettare. Niente di più, ma niente di meno.


I suoi colleghi, aprendo una pratica del tipo Cofinoga contro la signora Tal dei tali, per lo più si limitavano a constatare: In effetti la signora Tal dei tali non sta più pagando le rate previste dal contratto; in effetti, ai sensi di questo contratto, Cofinoga ha tutte le ragioni di esigere capitale, interessi e penali; in effetti la signora Tal dei tali non ha un centesimo, ma la legge è la legge, un contratto è un contratto e, pur trovandolo deprimente, io come giudice non ho altra scelta se non emettere una sentenza esecutiva, ovvero disporre il pignoramento dei beni della signora Tal dei tali, oppure dirottarla verso la commissione di sovraindebitamento.


Florès, invece, dava a stento un’occhiata alla somma che la signora Tal dei tali doveva restituire e passava subito a esaminare il contratto. Spesso vi trovava clausole vessatorie e quasi sempre qualche irregolarità formale. La legge impone per esempio che il testo sia stampato in corpo otto, e quello non lo era. Impone che il rinnovo tacito sia proposto per lettera, e non c’era stata nessuna lettera. Florès si era creato una tabella con le irregolarità più frequenti, barrava le caselle e, in udienza, concludeva: Il contratto non è valido. L’avvocato di Cofinoga sgranava gli occhi. Se ci sapeva fare, diceva: Signor giudice, non è affar suo. Tocca alla parte inadempiente sollevare queste obiezioni, o al suo avvocato, ma lei non può sostituirsi a loro. Ricorra in appello, si limitava a rispondere Florès.


Nel frattempo stabiliva che Cofinoga aveva il diritto di esigere il capitale, ma non gli interessi e le penali. Ebbene, quello che il mutuatario rimborsa non è tanto il capitale, quanto gli interessi e l’ammontare dell’assicurazione. Se il giudice decide che deve rimborsare solo il capitale e che quanto ha già rimborsato vada considerato parte del capitale, finirà per concludere: Lei non deve più, mettiamo, 1500 euro, ma 600, e a volte proprio niente, e a volte addirittura è Cofinoga a doverle dei soldi. La signora Tal dei tali non credeva alle sue orecchie.


 


 


Philippe Florès, a Niort, è stato il pioniere di questa tecnica giuridica. Étienne, a Vienne, non ha tardato a seguire le sue orme (avevo scritto: «a eguagliarlo», ma Étienne, sul dattiloscritto, ha annotato: «Non esageriamo!». Prendo atto). Si divertiva un mondo alle udienze civili, soprattutto quelle per sovraindebitamento, dove la sua tendenza a scovare le irregolarità e a dichiarare decaduti gli interessi cambiava radicalmente le carte in tavola. Anzitutto, dal punto di vista del povero sovraindebitato, non è certo la stessa cosa sentirsi dire: Lei non può pagare, la sua situazione economica è irrimediabilmente compromessa, quindi non ho scelta, sono costretto a cancellare il debito, o invece: Le è stato fatto un torto, io riparo questo torto. È molto più piacevole, da sentire e da pronunciare, ed Étienne non si privava di questo piacere. Peraltro, una volta ridotto il debito globale, era possibile fissare piani di rientro non più totalmente irrealistici. Anche in questo caso sta al giudice decidere chi sarà rimborsato per primo, chi sarà rimborsato eventualmente in seguito e chi non sarà rimborsato affatto. È una decisione politica. Chi non sarà rimborsato affatto non lo sarà non solo perché il debitore non ha i mezzi per rimborsarlo, ma anche perché non se lo merita. Perché si è comportato male, perché è lui il cattivo della situazione, perché è eticamente giusto che ogni tanto chi cerca di fregare gli altri resti fregato. Naturalmente Étienne non si esprime in modo così brutale. Preferisce distinguere tra i creditori che sarebbero gravemente danneggiati dalla cancellazione del loro credito e quelli che lo sarebbero meno: da un lato il piccolo meccanico, il piccolo locatore privato, il piccolo negoziante in franchising di Saint-Jean-de-Bournay, i quali, se non vengono pagati, rischiano a loro volta il sovraindebitamento; dall’altro la grossa finanziaria o la grossa compagnia di assicurazioni che ha comunque incluso nel contratto il rischio di insolvenza. Preferisce dire che il piccolo fornitore, il piccolo meccanico, il piccolo negoziante in franchising di Saint-Jean-de-Bournay, dopo essere rimasti scottati, potrebbero diventare diffidenti, non lasciarsi più intenerire, che i legami sociali ne risentirebbero e che, in quanto giudice, il suo ruolo è prima di tutto questo: salvaguardare un po’ la tenuta dei legami sociali, far sì che le persone possano continuare a vivere insieme.


 


 


Eppure finanche Jean-Pierre cominciava a pensare che esagerasse. Tra il serio e il faceto gli dava del Robespierre, del piccolo giudice rosso. Diceva: È troppo facile, e soprattutto non è compito dei giudici, dividere il mondo in grosse società ciniche e poveri ingenui senza via di scampo, e mettersi anima e corpo al servizio dei secondi. A questo rimprovero Étienne rispondeva come Florès: Io mi limito ad applicare la legge. L’applicava, in effetti, ma a modo suo, e tenendo presente un testo che lo aveva molto colpito quando frequentava l’ENM, l’arringa di Baudot. Questo Baudot, uno degli ispiratori del sindacato della magistratura negli anni Settanta, era stato sanzionato dal guardasigilli, all’epoca Jean Lecanuet, per aver tenuto ad alcuni giovani giudici questa arringa: «Siate parziali. Per garantire l’equilibrio tra il forte il debole, tra il ricco e il povero, che non hanno lo stesso peso, fate pendere la bilancia un pochino da una parte. Siate prevenuti a favore della donna rispetto all’uomo, del debitore rispetto al creditore, dell’operaio rispetto al padrone, dell’investito rispetto alla compagnia di assicurazioni dell’investitore, del ladro rispetto alla polizia, della parte in causa rispetto alla giustizia. La legge va interpretata, dirà quello che voi vorrete che dica. Tra il ladro e il derubato non abbiate paura di punire il derubato».


 


 


Gli avvocati delle banche e delle finanziarie uscivano dalle udienze al tempo stesso demoralizzati e furibondi, costretti com’erano a spiegare ai clienti che il motivo per cui avevano perso, mentre prima in casi come quelli vincevano a colpo sicuro, era che al tribunale di Vienne c’era un rompicoglioni, un giudice con una gamba sola che misurava la grandezza dei caratteri e diceva che, ahimè, non erano corpo otto, quindi addio interessi e penali. Se la trovata del corpo otto non funzionava, sollevava un’altra obiezione: nessun contratto otteneva il suo beneplacito. A Bourgoin, nello stesso dipartimento, c’era un altro tribunale di istanza, in cui il giudice si regolava in maniera opposta a Étienne: dal suo ufficio i creditori uscivano sempre contenti. Così hanno cominciato a fare carte false per barare sulla competenza territoriale e portare i loro casi davanti a quell’uomo comprensivo: inflessibile con i poveri, mite con i ricchi, ironizzava Étienne, ma il giudice di Bourgoin non si vedeva certo così e avrebbe detto di sé quello che Étienne e Florès dicevano di loro: Applico la legge. Il suo modo di applicarla, nel 1998 o 1999, era ancora il più comune. I giudici di Niort e di Vienne passavano, anche tra i colleghi, per sinistrorsi ed esaltati. Però le cose cominciavano a cambiare.


Le finanziarie, analizzava Florès, hanno all’incirca il due per cento di insolvenze. È un problema marginale, hanno predisposto delle coperture, non ci perdono il sonno. Quello che gli fa perdere il sonno è il rischio di contagio. Sanno benissimo che il novanta per cento dei loro contratti viola la legge. Finché in Francia ci sono un paio di giudici che se ne accorgono e ne approfittano per far saltare i loro interessi, passi, tanto più che spesso le sentenze che emettono vengono poi invalidate in appello. Ma se ce ne sono cinquanta o cento, è un altro paio di maniche. E a loro potrebbe costare molto caro.


Una simile prospettiva a Étienne e a Philippe Florès sembrava esaltante. Si vedevano al tempo stesso come piccoli Davide in lotta contro i Golia del credito e come due apripista che prima o poi il resto del gregge avrebbe inevitabilmente seguito. Facevano circolare copie delle loro sentenze tra i membri dell’Associazione dei giudici di istanza, cercavano di convertire i colleghi. Ogni adesione era una vittoria e li avvicinava alla massa critica che avrebbe portato a un radicale cambiamento in giurisprudenza e a un vero e proprio terremoto nel mondo delle banche.


 


 


Étienne ha avuto un fremito di trionfo il giorno in cui i rappresentanti di una grossa finanziaria hanno chiesto di parlargli. Ha fissato un appuntamento. Quelli sono entrati nel suo ufficio in quattro, due dirigenti della società, uno dei quali venuto appositamente da Parigi, e due avvocati di Vienne. Mi piacerebbe raccontare l’incontro come la scena di un film poliziesco. Comincia in un’atmosfera tranquilla, scherzosa: E così è lei il guastafeste? Un po’ alla volta, però, le battute si trasformano in velate minacce, e dopo un po’ neanche più velate. Intimidazione, tentativo di corruzione. Uno dei tizi, in giacca e cravatta e con un cappello floscio, parla camminando avanti e indietro. Il giudice con una gamba sola lo guarda fare quella sceneggiata senza perdere la calma. Gli scagnozzi non fiatano. Alla fine quello che parla si ferma davanti al giudice e dice, storcendo la bocca in una smorfia: La farò a pezzi. Afferra un ninnolo dalla scrivania, lo frantuma tra le mani pallide e nervose, poi apre il pugno e lascia cadere i cocci: La farò a pezzi così. In realtà non è affatto andata in questo modo. La conversazione è stata cortese e tecnica, tra persone civili. I tizi hanno ammesso che le sentenze di Vienne erano una bella rottura di scatole per loro, e che temevano proprio quello che Florès auspicava: l’effetto valanga. Inoltre le disapprovavano: continuando su quella strada, il credito sarebbe diventato impossibile e allora sì che sarebbe stato un bel guadagno per tutti. Ma non erano lì per discutere delle loro divergenze giuridiche, piuttosto per avere dei consigli. Come evitare d’ora in poi di prestare il fianco a simili contestazioni? Come riuscire a non sgarrare?


È semplice, ha risposto Étienne, un po’ stupito: esiste una legge, rispettatela.


I tizi hanno sospirato: Non è facile...


Che cosa non è facile? La legge dice che il contratto deve essere redatto in corpo otto, non lo è praticamente mai e io non ci penso due volte ad approfittarne per farvi perdere gli interessi. Voi direte: È un cavillo del cazzo. Ditemi invece perché, pur conoscendola, non applicate mai questa regola che, tutto sommato, non ci vuole molto ad applicare. Per conto mio, io un’ipotesi ce l’ho: semplicemente vi fa comodo che i contratti non siano leggibili. Perché non mandate mai una lettera per proporre il rinnovo del contratto? Perché lo rinnovate tacitamente, cosa contraria alla legge e che io, di nuovo, non ci penso due volte a evidenziare? Vi dirò io perché, l’ho saputo da uno del vostro settore (in realtà era Florès che si era fatto degli amici nell’ambiente degli enti creditizi e aveva avuto da loro delle dritte interessanti). Perché per un certo periodo le avete mandate, quelle lettere, e avete avuto il trenta per cento di rescissioni. Una bella rottura di scatole. L’esperienza insegna che una carta di credito inattiva prima o poi sarà utilizzata, mentre una carta di credito disdetta è perduta: significa un cliente in meno. Perché menzionate il tasso d’interesse solo in caratteri microscopici, nascosti sul retro di un volantino magniloquente? Lo sapete benissimo perché. Perché è spaventoso, il vostro tasso d’interesse. Il diciotto o il diciannove per cento, è più alto del tasso di usura, e voi lo appioppate alla chetichella a persone che non firmerebbero mai se se ne rendessero conto.


È qui che si sbaglia, ha risposto il dirigente venuto da Parigi. Firmano lo stesso perché non hanno scelta. Lei dirà: sarebbe più conveniente chiedere un prestito classico, ma il problema dei nostri clienti è che i prestiti classici non glieli concedono. È come assicurare la macchina quando hai all’attivo tanti di quegli incidenti che nessuno te la vuole più assicurare: costa caro, per forza. Lei parla continuamente di informazioni. Un giorno dice che non informiamo abbastanza i nostri clienti sull’impegno che si stanno prendendo, il giorno dopo che noi, dal canto nostro, non ci informiamo abbastanza sulle loro capacità di rimborso. Ma quello che vogliono i nostri clienti sono i soldi, non informazioni che li dissuadano dal prenderli in prestito. E quello che vogliamo noi è guadagnare prestando soldi, non raccogliere informazioni che ci dissuadano dal prestarne. Facciamo solo il nostro mestiere, il credito è qualcosa che esiste, e lei, con il suo perenne cavillare sulla forma dei contratti, sta semplicemente facendo il processo alla pubblicità. È sempre così, la pubblicità. Si scrive a caratteri cubitali: Acquista la tua nuova auto a 30 euro al mese, e poi c’è un asterisco, e a piè di pagina, stampata talmente in piccolo che in effetti bisogna sforzarsi per leggere, c’è una serie di clausole da cui risulta che in realtà il costo è un po’ più di 30 euro al mese, oppure che l’offerta è valida in un determinato periodo e non in un altro. Lo sanno tutti, la gente non è stupida. Ma lei, se capisco bene, vorrebbe un mondo senza pubblicità, senza prestiti, forse anche senza televisione, perché si sa che la televisione la rincretinisce, la gente...


Certo, ha concluso Étienne sorridendo, del resto passo le vacanze in Corea del Nord. No, mi va benissimo un mondo dove è consentito violare la legge. Ma voglio anche, in quanto giudice, che mi sia consentito farla rispettare. È il liberalismo, no?

C’è una cosa che fa ridere Étienne quando racconta di come ha conosciuto Juliette. Le parole che gli sono balenate in mente la prima volta che l’ha vista. Ha sentito bussare alla porta del suo ufficio, ha detto: Sì, avanti, e quando ha alzato gli occhi lei avanzava verso di lui sorreggendosi sulle stampelle. Allora ha pensato: Che bello, una zoppa!


A farlo ridere ancora oggi non è il pensiero in sé, ma che sia emerso in modo così spontaneo e già tradotto, nel momento stesso in cui veniva concepito, in queste quattro parole, di cui garantisce l’esattezza – compreso il «che bello». Un attimo dopo ha visto, al di sopra di quelle stampelle, una faccia simpatica, un bel sorriso, un che di aperto, di allegro e serio insieme che naturalmente faceva parte dell’impressione generale, ma la cosa che gli è apparsa per prima, ancora prima dell’impressione generale, sono state le stampelle. Il suo modo di avanzare verso di lui con le stampelle: lo ha subito visto come un regalo. E subito si è sentito felice di poter contraccambiare. Era semplicissimo: gli bastava alzarsi e passare dall’altra parte della scrivania per mostrarle che, pur non avendo le stampelle, zoppicava anche lui.

Quando, all’inizio dell’autunno, ho deciso di andare a Vienne per fare un giro al palazzo di giustizia e vedere in che consiste il lavoro di un giudice di istanza, ho capito che era arrivato il momento di chiamare Patrice. Siccome non gli avevo ancora parlato del mio progetto, di cui solo Étienne e Hélène erano al corrente, quella telefonata mi metteva un po’ in ansia. Lui mi è sembrato leggermente stupito, ma tutt’altro che diffidente. Mi ha detto: Vieni quando vuoi.


 


 


Mi aspettava sulla banchina della stazione con Diane in braccio e mi ha chiesto se per me era un problema passare un momento con lui all’Intermarché a fare la spesa. Le figlie non mangiano alla mensa, per cui deve preparare tre pasti al giorno, tre pasti per tre bambine la più piccola delle quali ha solo un anno e mezzo. E non perde mai la pazienza, al massimo alza un po’ la voce quando ne combinano troppe. Mi sono subito messo ad aiutarlo, a tirare fuori la spesa dal bagagliaio, ad apparecchiare la tavola, a sparecchiare, a svuotare e poi riempire la lavastoviglie, a passare una spugnetta sul tavolo di formica gialla, a raccogliere da terra il riso e lo yogurt che Diane aveva fatto cadere dall’alto del seggiolone, sicché nel giro di un’ora facevo parte della famiglia. Patrice accoglieva la mia presenza con la massima naturalezza, non sembrava che gli creasse alcun problema, e neppure alle bambine. Dopo pranzo ha messo a letto Diane per il sonnellino pomeridiano, Amélie e Clara hanno attraversato la piazza per tornare a scuola e noi due siamo andati a bere il caffè in giardino, sotto la catalpa. Parlavamo del più e del meno, dell’organizzazione della vita quotidiana da quando Juliette non c’era più. Patrice non sembrava né curioso né impaziente di vedermi arrivare al dunque, e ancora meno dava l’impressione di chi sta a guardare aspettando che l’altro si scopra per primo. Ero andato a passare qualche giorno con loro, chiacchieravamo bevendo il caffè, tutto qua. Nel treno che mi portava a Vienne mi ero chiesto con ansia come avrei fatto a parlargli, quali argomenti avrei potuto usare per ingraziarmelo, ma ormai non mi chiedevo più niente del genere. Bevuto il caffè, ho tirato fuori il taccuino, come nella cucina di Étienne, e ho detto: Ora vorrei che mi parlassi di Juliette. E, prima ancora, di te.


 


 


Suo padre, un uomo alto e magro, austero, con una barbetta a collana, è professore di matematica. Sua madre, maestra, ha smesso di lavorare per crescere i figli. L’amore per la montagna li ha indotti a trasferirsi prima ad Albertville, poi in un paesino nei dintorni di Bourg-Saint-Maurice, dove hanno comprato una casa. Il padre, ecologista militante della prima ora, è un nemico giurato delle colossali stazioni sciistiche, della pubblicità, della televisione – che si è sempre rifiutato di comprare – e in generale della società dei consumi. I figli, pur ammirandolo, lo temevano un po’. La madre, al contrario, li viziava. Voleva che fossero dei bambini felici e sicuri di sé, e Patrice ritiene senza rancore che li abbia protetti un po’ troppo, almeno lui. Per esempio, gli ha fatto ripetere la quinta elementare pensando che non fosse pronto ad affrontare la prima media, perché aveva paura di essere preso in giro in cortile, durante la ricreazione. Finché lui e i suoi fratelli erano piccoli andava tutto bene: avevano un gruppetto di amici con cui giocavano ai cowboy nelle strade del paese. Le cose erano cambiate con l’adolescenza. Gli amici, dopo le medie, avevano lasciato gli studi, il che era fuori discussione per i tre fratelli. Gli amici avevano il motorino, fumavano, rimorchiavano le ragazze; i tre fratelli non avevano il motorino, non fumavano, non rimorchiavano le ragazze: avevano assimilato a tal punto i valori familiari da ritenere che fossero cose da idioti, e il sabato sera, invece di andare a ballare, se ne stavano chiusi in camera, a luci spente, ad ascoltare dischi di Graeme Allwright e dei Pink Floyd. Non si sentivano superiori, ma diversi sì. Gli amici, che oggi rivedono, sono diventati chi meccanico, chi muratore, chi noleggiatore di sci e chi conducente di gatti delle nevi a Bourg-Saint-Maurice; i due fratelli di Patrice fanno i maestri come la madre e non hanno lasciato la Savoia, lui è fumettista nell’Isère: nessuno di loro si è allontanato più di tanto dalle radici comuni, nessuno di loro ha vissuto spettacolari successi né spettacolari fallimenti, eppure le differenze rimangono. Quando, dopo il sonnellino, abbiamo portato Diane dalla signora che le fa da baby-sitter per qualche ora ogni pomeriggio, Patrice mi ha parlato di lei e di suo marito, sostenendo che appartengono a un ambiente completamente diverso dal loro: con ciò intendeva dire che vivono con la televisione accesa, tifano per una squadra di calcio e, politicamente, tendono a destra, se non addirittura all’estrema destra. Detto questo, ha aggiunto che sono persone straordinarie e ascoltandolo ero sicuro che lo pensasse davvero, che nella constatazione della diversità dei loro valori non si celasse alcun senso di superiorità, neanche l’ombra di quello snobismo che talvolta appare tanto più virulento quanto più, a guardare dall’esterno, la distanza sembra insignificante. Non per questo Patrice evita di parlare ai vicini di Attac e della Tobin Tax, senza riscuotere grandi consensi, senza dubitare minimamente delle proprie convinzioni e senza tuttavia disprezzare quelli che non le condividono e deplorano che in Francia ci siano troppi stranieri.


 


 


A scuola non andava molto bene e lui stesso dice che era pigro. Gli piaceva starsene in disparte a fantasticare, a sognare vite immaginarie in mondi popolati da cavalieri, giganti e principesse. Dava forma a queste fantasticherie componendo dei «librogame». Quando è stato bocciato alla maturità, si è rifiutato di ripetere l’anno: niente di quello che insegnavano al liceo lo attirava. Il problema era che non lo attirava niente in generale, nessun mestiere, tranne forse quello del fumettista. Aveva trovato una risposta all’imbarazzante domanda: Che cosa vuoi fare dopo? Più che una vera vocazione, era un rifugio, ammette: un modo di tenere a distanza il mondo reale, dove bisognava essere forti e lottare per imporsi. I genitori hanno acconsentito a mandarlo a Parigi, dove avrebbe condiviso una mansarda con un cugino e lavorato alle tavole che gli avrebbero aperto le porte dell’editoria. Con il senno di poi, rimpiange di non aver frequentato una scuola di disegno, che gli avrebbe permesso di acquisire delle basi tecniche. Era completamente autodidatta, disegnava con la penna biro su fogli a quadretti e non sapeva praticamente niente delle tendenze dominanti nel campo che aveva scelto. Conosceva John e Solfamì, Spirou, Tintin, Blueberry e poco altro. Ogni tanto, da Gibert Jeune, sfogliava fumetti per adulti, «L’Écho des savanes», «Fluide glacial», ma distoglieva subito lo sguardo, come se anche solo osservare quelle immagini aggressive, sofisticate, caustiche potesse significare tradire l’universo infantile a cui era tanto legato. Andava in giro per le strade di Parigi con suo cugino, che studiava la viola ed era un romantico come lui. Qualche volta andavano al Parc de Sceaux e si arrampicavano su un albero. Restavano lassù tutta la giornata, appollaiati sui rami, a fantasticare della principessa che un giorno avrebbero incontrato. Alla fine dell’anno, nonostante tutto, Patrice è riuscito a scrivere la parola «fine» in calce all’ultima tavola del suo fumetto, dopodiché ha provato a piazzarlo. Il tizio che lo ha ricevuto da Casterman gli ha detto con garbo che non era male, ma troppo ingenuo, troppo sdolcinato. Patrice è uscito di lì con la sua cartella da disegno sotto il braccio, deluso ma non realmente sorpreso. Non è andato a bussare ad altre porte. Il mondo del fumetto era più tosto di quello dei suoi fumetti.


Raggiunta l’età del servizio militare, non ha pensato né al servizio civile all’estero, come i giovani borghesi scafati, né a farsi riformare, come i giovani borghesi rivoluzionari: era contrario alla guerra e all’esercito, gli sembrava quindi normale dichiararsi obiettore di coscienza. Così si è ritrovato a fare spettacolini dal vago sapore medioevale in un castello nei pressi di Clermont-Ferrand, attività che avrebbe potuto piacergli se i suoi compagni non si fossero rivelati rozzi e sboccati come soldatacci, poi aveva prestato servizio in un centro di documentazione pedagogica, dove sfruttavano le sue competenze artistiche facendogli disegnare scenette per l’insegnamento delle lingue. Congedato dall’esercito, dopo due anni, è andato a iscriversi all’ufficio di collocamento, che gli ha trovato un impiego come corriere. Si è trasferito in un piccolo monolocale a Cachan. Oggettivamente c’era di che preoccuparsi per il suo futuro, ma lui non se ne preoccupava. Le preoccupazioni non sono il suo forte, come non lo sono i progetti di carriera e la paura dell’avvenire.


Si è iscritto a un corso di teatro amatoriale alla Maison des Jeunes et de la Culture del V arrondissement. Facevano principalmente improvvisazione ed esercizi di espressione corporea, gli piaceva molto di più che allestire spettacoli veri e propri. Si stendevano a terra su tappetini di gommapiuma, con una musica più o meno meditativa in sottofondo, e l’unica raccomandazione era quella di lasciarsi andare. All’inizio erano ripiegati su sé stessi, raggomitolati, poi cominciavano a muoversi, si alzavano lentamente, si aprivano come fiori che si volgono verso il sole, tendevano le mani gli uni verso gli altri, entravano in contatto fra loro. Era magico. Altri esercizi, a coppie, consistevano nello stare in piedi faccia a faccia guardandosi negli occhi e cercando di trasmettere un’emozione: diffidenza, fiducia, paura, desiderio... L’esperienza del teatro ha rivelato a Patrice quanto fosse a disagio nei rapporti con gli altri. Nelle foto che mi ha mostrato si vede che anche a quell’epoca era un bel ragazzo, mentre lui si descrive come uno spilungone brufoloso, con una barbetta sparuta, un paio di occhiali tondi, un cespuglio di capelli stile afro e delle sciarpe fatte a maglia da sua madre. Il teatro lo ha aiutato ad aprirsi. Era un percorso verso l’altro e soprattutto verso le ragazze. Lui era cresciuto insieme a due fratelli maschi e non solo non era mai andato a letto con una ragazza ma non ne conosceva, letteralmente, nessuna. Grazie al corso di teatro ne ha incontrate diverse, qualcuna l’ha invitata a bere un caffè o al cinema, ma il suo romanticismo si spingeva fino alla ritrosia e quelle ragazze che gli sembravano troppo spregiudicate lo intimidivano. È stato allora che è comparsa Juliette.


 


 


Quando Hélène mi diceva che Juliette era la più bella delle tre sorelle e che lei ne era gelosa, scuotevo la testa. L’avevo vista malata, l’avevo vista moribonda, avevo visto qualche foto di loro da bambine, nelle quali, tra l’altro, lei e Hélène si assomigliavano moltissimo. Di fatto, in quelle che mi ha mostrato Patrice è incredibilmente bella, con una grande bocca sensuale e piena di denti, sul tipo di Julia Roberts o Béatrice Dalle, e un sorriso non solo radioso, come dicono tutti quelli che l’hanno conosciuta, ma ingordo, quasi rapace. Socievole, divertente, a suo agio in società, era così brillante che avrebbe dovuto scoraggiare un ragazzo come Patrice. Per fortuna c’erano le stampelle. Le stampelle la rendevano accessibile.


Non si sono visti subito da soli, all’inizio sono usciti in gruppo. Il loro insegnante li accompagnava a teatro, e a teatro ci sono sempre delle scale da salire, e Juliette non poteva salirle. Patrice è timido ma robusto. Sin dalla prima volta l’ha presa in braccio e in seguito nessuno gli ha più conteso quel privilegio. Hanno salito insieme, lui portando lei, tutte le scale che hanno incontrato sul loro percorso. Hanno iniziato a visitare monumenti, meglio se con molti piani, e a tenersi per mano quando erano seduti fianco a fianco nella penombra dei teatri. Entrambi erano molto sensibili a quel contatto, ricorda Patrice. Le loro dita si sfioravano, si accarezzavano, si intrecciavano per ore, la sensazione non era mai la stessa, era sempre nuova, sempre conturbante. Patrice stentava a credere che quel miracolo stesse accadendo proprio a lui. Poi si sono baciati. Poi hanno fatto l’amore. Lui l’ha spogliata, lei è rimasta nuda fra le sue braccia, lui ha spostato con delicatezza le sue gambe quasi inerti. Per entrambi era la prima volta.


Patrice aveva trovato la principessa dei suoi sogni. Bella, intelligente, troppo bella e troppo intelligente per lui, pensava, eppure con lei tutto era semplice. Non aveva motivo di temere civetterie, tradimenti o colpi bassi. Poteva essere sé stesso, abbandonarsi senza il timore che lei approfittasse della sua ingenuità. Per lei quello che stava succedendo tra loro era importante quanto lo era per lui. Si amavano, quindi sarebbero diventati marito e moglie.


 


 


All’inizio però le differenze di carattere che c’erano tra loro li hanno un po’ preoccupati, soprattutto lei. Non solo Patrice non aveva un vero lavoro, ma neppure si curava di averne uno. Gli bastava guadagnare giusto il necessario per sopravvivere guidando furgoni o tenendo laboratori di fumetto in un centro ricreativo del comune di Parigi. Juliette invece era determinata, caparbia. Dava moltissima importanza ai suoi studi. Le seccava che Patrice fosse così sognatore, così poco combattivo, e a Patrice seccava che lei studiasse legge. Per giunta a Paris II, università nota per essere un covo di fascisti. Pur non essendo attivamente politicizzato, Patrice si definiva anarchico e nella legge vedeva solo uno strumento di repressione al servizio dei ricchi e dei potenti. Se almeno Juliette si fosse riproposta di diventare avvocato, di difendere i deboli e gli oppressi, avrebbe anche potuto capire, ma giudice! In realtà a un certo punto Juliette aveva pensato all’avvocatura. Si era specializzata in diritto commerciale, ma il corso l’aveva disgustata. Agli studenti veniva insegnato a giocare d’astuzia per consentire ai loro futuri clienti di fare soldi come meglio credevano e intanto estorcergli succulente parcelle. Quel liberalismo apertamente identificato con la legge del più forte, il cinismo sorridente dei professori e dei compagni di corso, tutto sembrava dare ragione alle requisitorie idealistiche di Patrice. Lei amava il diritto, gli spiegava senza perdere la pazienza, perché nello scontro tra il debole e il forte la legge tutela e la libertà assoggetta, e proprio per far rispettare la legge anziché snaturarla voleva diventare magistrato. Patrice capiva il principio, ma in ogni caso per lui avere una moglie giudice era una cosa difficile da digerire.


E difficile da digerire era anche la differenza sociale. Juliette abitava con i genitori e lui, ogni volta che andava a trovarla in quel grande appartamento dalle parti di place Denfert-Rochereau, si sentiva terribilmente a disagio. Entrambi accademici in ambito scientifico, Jacques e Marie-Aude sono cattolici, un po’ snob, tendenzialmente di destra, e a casa loro Patrice si sentiva guardato dall’alto in basso, lui e i suoi genitori così provinciali, un professore delle medie e una maestra elementare, che andavano in giro a bordo di vecchie macchine sgangherate ricoperte di adesivi contro il nucleare. A casa dei suoi regnava il dogma del confronto: ci si può confrontare su tutto, ci si deve confrontare su tutto, solo dal confronto può nascere la luce della conoscenza. Ebbene, agli occhi dei genitori di Juliette, come del resto a quelli dei miei, confrontarsi con un ecologista savoiardo che considera i forni a microonde pericolosi per la salute è assurdo quanto lo sarebbe farlo con un tizio convinto che la Terra sia piatta e che il Sole le giri intorno. Non vedono due opinioni ugualmente degne di essere prese in considerazione, ma da un lato quella di persone che sanno, dall’altro quella di persone che non sanno, e non intendono fingere di affrontarsi ad armi pari. Non potevano negare che Patrice fosse un bravo ragazzo, che amasse sinceramente Juliette, ma d’altra parte incarnava tutto quello che loro detestavano: i capelli lunghi, l’insulsaggine sessantottina e soprattutto l’insuccesso. Lo vedevano come un fallito e non riuscivano a rassegnarsi all’idea che la figlia, tanto dotata, si fosse invaghita di un fallito. Lui, dal canto suo, aveva dei bersagli astratti e generici: il grande capitale, la religione vista come oppio dei popoli, la scienza impazzita, ma non era nella sua natura estendere queste ostilità di principio ai singoli individui. Il disprezzo che avvertiva nei futuri suoceri lo lasciava disarmato, non era in grado di ripagarli con la stessa moneta, al massimo si spingeva a pensare che per lui sarebbe stato meglio se le loro strade non si fossero incrociate. Ma si erano incrociate, lui amava Juliette, e in un modo o nell’altro bisognava affrontare il problema.


Di questo disprezzo penso che lei abbia sofferto più ancora di lui, perché era pur sempre figlia dei suoi genitori e non poteva non vederlo con i loro occhi. Non era tipo da mentire a sé stessa. Ha scelto Patrice con piena consapevolezza. Ma prima di sceglierlo ha avuto qualche esitazione. Probabilmente ha immaginato in maniera nitidissima, in una luce cruda e addirittura crudele, come sarebbe stata la sua vita con Patrice. I limiti entro i quali quella scelta l’avrebbe confinata. Ma anche il solido supporto che le avrebbe dato. La certezza di essere amata di un amore incondizionato, di essere sempre sostenuta.


Lo stesso Patrice ha cominciato ad avere dei dubbi. La legge, i suoceri, l’obbligo di avere successo, niente di tutto ciò faceva per lui. Con lei si sentiva troppo lontano dalle sue radici. E poi, era davvero ragionevole costruirsi una vita con un’invalida senza aver conosciuto nessun’altra ragazza? Mi racconta che un giorno ne hanno discusso e hanno concluso razionalmente che non erano adatti a vivere insieme. Si sono detti il perché. Patrice ha parlato di più, era sempre così fra loro. Diceva quello che gli passava per la testa e nel cuore, si confidava senza riserve, mentre lei non si sapeva mai molto bene che cosa pensasse. Al termine della discussione hanno deciso di lasciarsi e si sono messi a piangere. Hanno continuato a piangere per due ore, abbracciati, sul letto singolo della stanzetta di Cachan, e piangendo ciascuno ha capito che non esisteva dolore di cui l’altro non potesse consolarlo, che l’unico dolore inconsolabile era proprio quello che si stavano infliggendo in quel momento. Allora hanno detto che no, non si sarebbero lasciati, che sarebbero andati a vivere insieme, che non si sarebbero mai separati, ed è esattamente quello che hanno fatto.


Juliette poteva anche ammettere, ha spiegato ai genitori, che loro disapprovassero la sua scelta, ma esigeva che la rispettassero, e lei e Patrice sono andati a vivere in un minuscolo monolocale all’ottavo piano di una casa popolare, nel XIII arrondissement. L’ascensore era spesso guasto, Patrice la portava su in braccio. Qualche piano più giù c’era una residenza che accoglieva ex detenuti, a cui lei offriva gratuitamente la sua consulenza giuridica. Vivevano con pochissimi soldi: la pensione di invalidità di Juliette, che per principio non voleva un centesimo dai genitori, e i compensi che Patrice riceveva per certi fumetti pubblicati su una rivista destinata ai collezionisti di schede telefoniche. In seguito si sono trasferiti a Bordeaux dove, quasi dieci anni dopo Étienne, Juliette ha studiato all’ENM. Era brillante e, come in tutti i posti in cui capitava, molto amata. Un disegno in cui Patrice aveva rappresentato la Marianne con le sue sembianze è stato scelto come simbolo degli studenti del suo anno. È nata Amélie. Finita la scuola Juliette ha scelto il civile, l’istanza e Vienne, perché aveva appurato che lì in tribunale c’era l’ascensore.

Più Patrice mi parlava, quel pomeriggio sotto la catalpa, più ero sorpreso della fiducia che mi dimostrava. Avevo l’impressione che questa fiducia non fosse rivolta nello specifico a me: l’avrebbe avuta nei confronti di chiunque, perché non aveva mai preso l’abitudine di diffidare. Una specie di cognato scrittore, per di più reo di aver pubblicato libri considerati cupi e crudeli, piombava a casa sua intenzionato a scriverne uno sulla sua defunta moglie e gli chiedeva di raccontargli la sua vita, e lui gliela raccontava. Non recitava la parte del buono, né tantomeno quella del cattivo. Non recitava affatto, non si preoccupava minimamente della mia opinione. Non si vantava, né si vergognava. Il fatto di mostrarsi senza difese gli dava una grande forza. Anche di lui Étienne dice con ammirazione: «È uno che sa dove sta».

 

 

Amélie e Clara sono tornate da scuola e siamo andati tutti e quattro in bicicletta a prendere Diane a casa della baby-sitter. Per Clara, Patrice aveva un seggiolino sul portapacchi, mentre Amélie sapeva già pedalare da sola, senza le rotelle. Abbiamo attraversato la strada e il piazzale antistante alla scuola, siamo passati davanti alla chiesa, poi abbiamo imboccato la stradina che porta al cimitero. Lì è proprio campagna, con pendii e mucche. Andiamo a fare un salutino alla mamma? ha proposto Patrice. Abbiamo appoggiato le bici al muro del cimitero, e lui ha preso Clara in braccio. La tomba di Juliette è coperta di terra smossa, circondata da grossi ciottoli dipinti con colori vivaci dai bambini del paese. Ognuno ha scritto il proprio nome su un ciottolo. Ho ripensato al giorno del funerale. In chiesa Patrice aveva letto un testo semplice e commovente, in cui diceva che aveva perso il suo amore, poi Étienne ne aveva letto uno veemente, in cui diceva che la morte non è mai bella, e infine Hélène aveva letto il testo che le avevo visto scrivere, in cui diceva che la piccola vita tranquilla di Juliette non era stata né piccola né tranquilla, ma pienamente vissuta e scelta. C’era stata anche una sorta di omelia pronunciata dal padrino di Juliette, che era diacono e aveva perso la figlia per un tumore. In seguito Étienne mi ha detto che non gli erano piaciuti i sorrisi benevoli, cattolici, con cui aveva accompagnato l’affermazione che Juliette era ormai accanto al Padre e che dovevamo esserne lieti; al tempo stesso riconosceva che ad alcuni faceva bene sentirsi dire queste cose, e allora perché no? Poi la processione si era snodata lungo la strada che avevo appena percorso con Patrice e le bambine. Non era per niente solenne, ma andava bene così. Anziché con un carro funebre, la bara era stata portata a spalla. C’erano molti bambini, molte giovani coppie: era il funerale di una donna giovanissima. Le cose avevano preso una brutta piega davanti alla tomba perché Patrice, irritato anche lui dal discorso del diacono e da quelle che considerava solo sceneggiate da baciapile, aveva detto che adesso ognuno poteva dire addio a Juliette nel modo che riteneva più opportuno. Già in chiesa aveva tolto il crocefisso che era stato messo sulla bara. Come i suoi, Patrice crede nella sincerità e nella spontaneità in ogni circostanza, lui vive così ed è contento, ma una volta venuto meno il cerimoniale stabilito dal rito religioso è stato il caos più totale. Invece di formare una fila e gettare, l’uno dopo l’altro, una manciata di terra sulla bara, i presenti si sono sparpagliati a casaccio, disorientati, abbandonati alla propria iniziativa, timorosi di azzardare il gesto che ritenevano più opportuno, e forse ignari di quale fosse. Si accalcavano sull’orlo della tomba, i bambini cercavano di poggiarci sopra i ciottoli che gli avevano fatto dipingere a scuola. Un credente, per riportare un po’ d’ordine, ha attaccato un’Ave Maria, ma solo in pochi lo hanno seguito. Quasi tutti erano usciti dal cimitero e si radunavano sulla strada in gruppetti silenziosi e afflitti, alcuni si erano già messi a fumare, nessuno sapeva più se la cerimonia fosse conclusa o no, ed è stato il becchino a decidere, avvicinandosi con l’escavatore alla tomba per riempirla di terra e decretando così la fine del funerale. Quando gli toccava assumere la responsabilità di un rituale sociale, Patrice non ci sapeva fare, ma da solo con le figlie e con me era la naturalezza in persona, diceva parole semplici e giuste, e ho pensato che per le bambine quelle visite frequenti al cimitero dovessero essere rasserenanti. Clara, in braccio al padre, stava in silenzio, ma Amélie, con l’aria della frequentatrice abituale, faceva il giro delle tombe vicine. Trovava che fossero meno belle di quella della madre. Non mi piace il marmo, diceva, mi fa tristezza, e dal tono un po’ sentenzioso si capiva che stava ripetendo una frase sentita da un adulto e che la ripeteva a ogni visita perché ripeterla le faceva bene. La guardavo e mi chiedevo se sarei stato ancora in contatto con lei quando sarebbe diventata adulta. Se avessi scritto il libro probabilmente sì. Sarei stato ancora con Hélène? Avremmo contribuito insieme all’educazione di quelle bambine, come Hélène desiderava tanto? Le avremmo portate ogni anno in vacanza con noi, e non solo la prima estate dopo la morte della madre? Di lì a dieci anni Amélie sarebbe stata una ragazza nella cui vita forse io avrei avuto un ruolo, quello di una specie di zio che aveva scritto un libro sui suoi genitori, un libro in cui si parlava di lei da piccola. La immaginavo mentre leggeva questo libro e mi sono detto che lo stavo scrivendo sotto lo sguardo suo e delle sue sorelle.

 

 

Dopo cena ho letto una storia a Clara per farla addormentare. Raccontava di un piccolo rospo che ha paura a stare da solo al buio, sente degli strani rumori e va a rifugiarsi nel letto di mamma e papà. Io la mamma non ce l’ho più, ha detto Clara. La mia mamma è morta. Le ho risposto: È vero, e non ho trovato niente da aggiungere. Pensavo ai miei figli, alle storie che gli leggevo quando erano piccoli. Pensavo che qualche tempo prima io e Hélène stavamo per avere un figlio insieme – lo aveva perso subito dopo la morte di sua sorella – e che probabilmente non ne avremmo più avuti. Ricordavo Clara durante la settimana di vacanza che aveva passato da noi con Amélie. Ripeteva: Quando torneremo a casa, forse ci sarà mamma. Non poteva fare a meno di immaginare che a un certo punto si sarebbe aperta una porta e sulla soglia sarebbe apparsa la sua mamma. Ho pensato che quelle frequenti visite al cimitero fossero una buona cosa: almeno stava in un posto, non era ovunque e in nessun luogo. A poco a poco avrebbe smesso di essere dietro ogni porta.

 

 

Messe a letto le bambine, io e Patrice siamo scesi nel suo studio nel seminterrato, dove aveva preparato un letto per me. Mi ha parlato di un fumetto che stava progettando, una delle sue solite storie di cavalieri e principesse che avrebbe intitolato Il Prode. Ah sì? Il Prode? Ho sorriso, e lui di rimando ha abbozzato un risolino rammaricato e orgoglioso insieme, che significava qualcosa come: Già, chi nasce tondo non può morire quadrato. Prima di potersi dedicare al Prode, doveva concludere un lavoro su commissione, una serie di sketch di una pagina ciascuno ambientati in un canile, i cui protagonisti erano una mezza dozzina di cani molto caratterizzati: il rottweiler ringhioso, il barboncino snob, il dalmata sbruffone, il bastardino simpatico e fessacchiotto che ho subito identificato come l’eroe positivo delle storie. Quando gliel’ho fatto notare, Patrice ha abbozzato lo stesso risolino di prima, quel risolino che significava: Complimenti, mi hai beccato. Prode e fessacchiotto, proprio come me. Ho guardato le tavole a una a una. Erano fumetti per bambini, un po’ datati ma disegnati con un tratto delicato e sicuro, e con incredibile modestia. Ho detto incredibile, ma avrei dovuto dire incomprensibile, è una cosa che io non riesco a capire. Io sono ambizioso, irrequieto, ho bisogno di credere che quello che scrivo sia eccezionale, che sarà ammirato, mi esalta crederci e quando non ci credo più crollo. Patrice no. A lui piace disegnare quello che disegna, ma non crede che sia eccezionale e non ha bisogno di crederci per vivere in pace. Non cerca neanche di cambiare stile. Per lui sarebbe impossibile quanto cambiare i propri sogni: è una cosa su cui non ha alcun controllo. Ho pensato che in questo era un vero artista.

Mentre guardavamo i disegni, ha squillato il telefono. Ah, Antoine! ha detto Patrice alzando la cornetta. Allora è fatta? Era fatta. Laure, la moglie di Antoine, aveva appena partorito il loro primo figlio. Arthur? È un bel nome, Arthur. In piedi accanto a Patrice che faceva gli auguri al cognato, ho temuto che gli dicesse che ero lì. Immaginavo lo stupore di Antoine, anche se aveva altro a cui pensare, nel venire a sapere che ero andato a passare qualche giorno a Rosier senza Hélène, e più ancora quello dei loro genitori. Non avevo chiesto a Patrice di non dire a nessuno della mia visita, ma lui che, ne sono sicuro, non mente mai, ha mentito per omissione non facendo parola della mia presenza.

Marie-Aude e Jacques sono stati gli ultimi a cui ho parlato di questo libro. A differenza di quello di Patrice, il loro lutto mi intimidisce. Temevo, con le mie domande, di risvegliare il loro dolore, anche se so che è un’assurdità, perché quel dolore non si è mai sopito, né il tempo riuscirà a lenirlo. Loro non lo affrontano parlandone, ma occupandosi delle nipotine ogni volta che possono con una premura e una delicatezza estreme. Io, Patrice, Étienne e Hélène, ognuno a modo suo, crediamo nelle virtù terapeutiche della parola. Jacques e Marie-Aude, come i miei genitori, ne diffidano, il loro motto potrebbe essere: never explain, never complain. Così ho aspettato di essere quasi alla fine del lavoro per informarli e al tempo stesso per chiedergli di contribuire raccontandomi quello che nessuno potrebbe raccontare meglio di loro: la prima malattia di Juliette. Non ne parlano mai, neanche quando sono soli, come del resto della seconda malattia e della morte, ma, nella speranza che un giorno, più in là, questo libro possa essere di conforto per le bambine, hanno accettato. Hanno cominciato seduti sulle poltrone del salotto, a una certa distanza l’uno dall’altro, poi lui si è spostato sul divano accanto alla moglie, le ha preso la mano e non l’ha più lasciata. Ogni volta che uno dei due parlava, l’altro lo fissava con tenerezza e apprensione, temendo che potesse crollare da un momento all’altro. Gli occhi gli si riempivano di lacrime, si riprendevano, si scusavano: è la loro maniera di tener duro e di amarsi.


 


 


Juliette aveva sedici anni, cominciava il terzo anno del liceo quando ha mostrato a sua madre un grosso rigonfiamento sul collo che le faceva male. L’hanno portata immediatamente all’ospedale Cochin, poi in un centro di radioterapia, dove le è stato diagnosticato il morbo di Hodgkin, lo stesso tumore del sistema linfatico che si era inventato Jean-Claude Romand. Jacques e Marie-Aude non credono all’inconscio ma all’attività casuale delle cellule, sarebbe al tempo stesso inutile e crudele sollevare con loro l’ipotesi psicosomatica, tanto più che nel caso della figlia non ci sono molti elementi per suffragarla, sebbene Patrice accenni a un senso di abbandono provato nell’infanzia, di cui Juliette gli ha più volte parlato verso la fine. C’era una questione molto più urgente da affrontare: il tipo di terapia. Per l’équipe medica Jacques e Marie-Aude erano interlocutori difficili perché molto informati e molto esigenti, sicché alla fine il dottore che aveva in cura Juliette ha scaricato su di loro la responsabilità della scelta tra la chemio e la radioterapia. Oggi ritengono che sia stato feroce condannarli a quella scelta e a quel dubbio sterile e angosciante: Se avessimo optato per l’altra possibilità, avremmo potuto evitare quello che è successo in seguito? Juliette è stata sottoposta alla radioterapia, cura meno pesante e che non fa cadere i capelli. Dopo qualche mese l’hanno dichiarata guarita. Ha ripreso la danza, la scuola, ha partecipato a una sfilata di moda. In casa non si parlava più della malattia, del resto non ne avevano mai parlato molto: Antoine, che all’epoca aveva quattordici anni, non ha mai sentito pronunciare la parola cancro.


 


 


L’estate seguente, in Bretagna, ha cominciato a incespicare e a perdere l’equilibrio. Lei, di solito così vivace, aveva sempre un’aria nervosa, svogliata. In realtà cercava di nascondere, soprattutto a sé stessa, che le gambe la reggevano sempre meno. La storia è molto simile a quella vissuta da Étienne qualche anno prima, solo che nel suo caso non si trattava di una recidiva del cancro. I primi esami non sono stati risolutivi, le hanno fatto almeno tre punture lombari di cui probabilmente ha conservato un ricordo atroce. I genitori temevano che si trattasse di sclerosi multipla. Alla fine un neurologo dell’ospedale Cochin gli ha detto la verità. Aveva una lesione che risaliva alla radioterapia. Nel contare le vertebre per individuare il tratto della colonna da esporre ai raggi, evidentemente si erano sbagliati e avevano sovrapposto due campi di irradiazione. Nella zona che era stata irradiata una volta di troppo il midollo spinale era rimasto danneggiato, e quindi l’impulso nervoso non arrivava più correttamente alle gambe, di cui Juliette stava cominciando a perdere l’uso. Che cosa si può fare? hanno chiesto Jacques e Marie-Aude, disperati. Cercare di limitare i danni, ha risposto il neurologo con una smorfia poco rassicurante. Aspettare che si stabilizzi. Quel che è perso è perso, ora bisogna vedere solo come evolve la situazione.


Da quel momento è cominciato il vero incubo. Jacques e Marie-Aude non osavano riferire a Juliette quello che gli aveva detto il neurologo. Restavano sul vago, aspettavano di essere soli per scoppiare in singhiozzi. Jacques non riusciva a togliersi dalla mente un episodio capitato sei mesi prima: aveva accompagnato Juliette in ospedale per la terapia e, mentre aspettava dietro la porta, aveva sentito i radiologi che discutevano del centraggio, cioè dei segni tracciati sulla schiena di sua figlia; sembrava che non fossero d’accordo, a un certo punto li aveva sentiti gridare e si era un po’ preoccupato, col senno di poi si era convinto che l’errore era stato commesso in quel momento. Perché si era trattato proprio di un errore, e l’errore non era stato scegliere la radioterapia al posto della chemio: la radioterapia aveva guarito perfettamente Juliette dal linfoma, solo che era stata fatta male e quella negligenza le era costata le gambe. Hanno messo sotto assedio il centro di radioterapia per inchiodare il primario alle sue responsabilità. Era, ricordano, un uomo freddo e pieno di sé, che si mostrava al tempo stesso indifferente alla loro sofferenza e scettico circa le loro competenze scientifiche. Ha respinto senza pensarci due volte la diagnosi del neurologo del Cochin, negato ogni errore e attribuito quello che ormai bisognava chiamare l’handicap di Juliette a una forma di «ipersensibilità» alla terapia, di cui l’unica responsabile era la natura. Ci mancava solo che dicesse che era colpa della ragazza. Jacques e Marie-Aude hanno odiato quel barone come non avevano mai odiato nessuno in vita loro, con la vaga consapevolezza che in realtà tramite lui era la loro impotenza che odiavano. Quando alla fine gli hanno chiesto di poter consultare la cartella clinica della figlia, lui ha promesso con un sospiro che gliel’avrebbe fatta avere, ma non l’hanno mai ricevuta: in seguito gli è stato comunicato che era sparita.


E Juliette, nel frattempo, che cosa pensava? Hélène ricorda che soffriva di quelle che in famiglia chiamavano le sue «emicranie»: se ne stava per giornate intere al buio, nessuno poteva né parlarle né toccarla, ogni sollecitazione sensoriale era per lei una tortura. Ricorda anche quello che le aveva confidato sua madre di soppiatto e sottovoce: che Juliette rischiava di finire su una sedia a rotelle, ma non doveva saperlo perché se lo avesse saputo avrebbe smesso di lottare. Oggi la stessa Marie-Aude confessa con un filo di voce che la mattina non osava andare al lavoro perché temeva che Juliette, nonostante il coraggio che le attribuivano, «potesse fare una sciocchezza». L’atmosfera a casa era infinitamente più pesante dell’anno prima. Il morbo di Hodgkin è una malattia grave ma da cui nove volte su dieci si guarisce e, anche se il pericolo era reale, l’avevano presto e giustamente considerato circoscritto, e poi accantonato: era un incidente di percorso, mentre adesso stavano precipitando verso la catastrofe.


«Irreversibile» era la parola tabù. Jacques e Marie-Aude descrivono quell’anno come una lotta perpetua, all’inizio per non pronunciarla e poi per trovare il coraggio di farlo. Quello che rifiutavano di dire alla figlia hanno rifiutato di dirlo innanzitutto a sé stessi. Poi è stato necessario farlo. Dal momento che Juliette si avvicinava alla maggiore età, ai genitori è stata prospettata la necessità di presentare una pratica che le avrebbe permesso di ricevere dei sussidi, di ottenere una tessera di invalidità, di sostenere l’esame per la patente su un’auto con comandi speciali e di godere di altri vantaggi che ormai avrebbero fatto parte della sua vita. La pratica comprendeva una dichiarazione che attestava una lesione stabilizzata, ma permanente, del midollo spinale. Hanno rimandato finché hanno potuto il momento di mettere insieme le carte, di firmarle e di farne firmare alcune a Juliette, che si è astenuta da qualsiasi commento. E ha ricevuto la tessera d’invalidità qualche giorno prima del suo diciottesimo compleanno.


 


 


A diciotto anni quella ragazza incantevole e sportiva ha dovuto rassegnarsi all’idea che non avrebbe mai più camminato come gli altri. Una delle sue gambe sarebbe rimasta quasi inerte e l’altra del tutto, le avrebbe trascinate reggendosi sulle stampelle, non avrebbe potuto aprirle il giorno in cui avrebbe fatto l’amore per la prima volta. Avrebbe avuto bisogno di aiuto, così come per uscire dalla vasca da bagno o per salire le scale. In uno dei testi che sono stati letti al funerale qualcuno ha messo in relazione la sua passione per la giustizia con l’ingiustizia che aveva subìto. Ma quando i suoi genitori hanno pensato di fare causa al centro di radioterapia, Juliette, che già studiava legge, si è opposta. Non era più ingiusto essere invalida a causa della terapia che a causa della malattia. Anzi, non era nemmeno poi così ingiusto: era un peccato, questo sì, una vera sfortuna, ma la giustizia non c’entrava proprio niente. Per scendere a patti con il suo handicap, preferiva disinteressarsi della sua causa e degli eventuali responsabili.


Sapendolo permanente non sopportava che le dicessero, con gentilezza: Non si sa mai, forse col tempo tornerà tutto a posto. Con le migliori intenzioni del mondo, la madre di Patrice sperava davvero che un giorno la situazione si sarebbe sbloccata, che un giorno avrebbe ripreso a camminare. Grande sostenitrice della medicina alternativa, ha insistito moltissimo perché Juliette incontrasse una pranoterapeuta che le ha imposto le mani e ha insegnato a Patrice come massaggiarle la schiena: dall’alto in basso, molto a lungo, arrivando fino all’osso sacro e poi agitando vigorosamente la mano per disperdere le energie negative. Per diverse settimane Patrice ha assolto con scrupolosa attenzione al proprio compito, aspettando un miglioramento. Lei trovava piacevoli quei massaggi, ma niente di più, non si illudeva di poter guarire. Alla fine glielo ha detto e gli ha detto anche che non le piaceva essere portata sui sentieri di montagna su una specie di lettiga, o esortata a rotolarsi tra le onde sulle spiagge delle Landes, come se tutto ciò potesse farle bene. C’erano abbastanza cose che le facevano bene, per non doversi prestare a quelle sceneggiate. Per quanto ingegnose, le attrezzature che consentono a chi non si regge in piedi di sciare o di scalare il Monte Bianco non le interessavano. Non facevano per lei. Patrice l’ha capito e ha rinunciato alla speranza di vederla un giorno camminare. Lui l’aveva conosciuta quando le stampelle ce le aveva già, e l’amava con quelle.

La scena si svolge nell’ufficio di Étienne alle sei del pomeriggio, qualche mese dopo che si sono conosciuti. Entrambi hanno avuto una giornata pesante. Sarebbero dovuti rientrare direttamente, lui a Lione, lei a Rosier, ma Juliette sa già che a Étienne piace, prima di chiudere bottega, starsene seduto per un po’, con gli occhi chiusi, senza muoversi. Non pensa in particolar modo al lavoro che ha appena terminato né a quello che lo aspetta o, se ci pensa, lo fa senza volerlo, distrattamente. Si abbandona ai pensieri che gli passano per la testa, li lascia fluttuare, non giudica. A lei piace stargli accanto in quei momenti e lui, che fino ad allora preferiva goderseli da solo, aspetta con piacere le sue visite. A volte parlano e a volte no: per loro non è un problema starsene insieme in silenzio. Quella sera, appena la vede entrare e sedersi incrociando le stampelle contro il bracciolo della poltrona, Étienne capisce che qualcosa non va. Lei dice di no, che va tutto bene. Lui insiste. Alla fine lei gli racconta di un incidente capitato nel pomeriggio. Incidente è una parola grossa: un piccolo screzio, ma ci è rimasta male. Ha chiesto a un usciere di andare a prenderle dei fascicoli che aveva lasciato in macchina e lui ci è andato sospirando. Tutto qui. Non ha detto niente, ha soltanto sospirato, ma quel sospiro sottintendeva, o almeno così lo ha interpretato Juliette, che era seccato di essere costretto a farle quel piacere perché era disabile. Eppure, aggiunge, io sto veramente attenta a non approfittarne...


Étienne la interrompe: Fai male. Dovresti approfittarne molto di più. Non bisogna cadere in questo tranello, né rovinarsi la vita facendo la parte del disabile che si comporta come se non lo fosse. Bisogna essere chiari in queste cose, considerare che gli altri te li devono, questi piccoli favori, del resto è vero che te li devono, e in generale sono anche contenti di farteli perché sono contenti di non essere al posto tuo, e farti piccoli favori gli ricorda fino a che punto ne sono contenti: non possiamo volergliene, se cominciassimo non ne usciremmo più, ma questa è la verità.


Juliette sorride divertita, come le capita spesso quando lui si infervora. Potrebbero chiudere il discorso, ma quella sera lui non ha intenzione di chiuderlo e aggiunge: Non ne puoi più, vero?


Lei alza le spalle.


Non ne posso più nemmeno io, riprende lui.


E, quando mi racconta questa scena, lo ripete: Non ne posso più.


Poi mi spiega: È una frase semplicissima ma estremamente importante, perché è una frase che ci proibiamo. Ci proibiamo non solo di pronunciarla ma anche, per quanto possibile, di pensarla. Perché se cominciamo a pensare: «Non ne posso più», dopo un po’ ci ritroviamo a pensare: «Non è giusto» e: «Potrei avere un’altra vita». E questi pensieri sono insopportabili. Se cominciamo a dirci: «Non è giusto», non riusciamo più a vivere. Se cominciamo a dirci che la vita potrebbe essere diversa, che potremmo correre come tutti gli altri per prendere il métro o giocare a tennis con i nostri figli, la vita diventerebbe uno schifo. «Non ne posso più», e dietro «Non ne posso più», Non è giusto», e dietro «Non è giusto», «La vita potrebbe essere diversa» – sono tutti pensieri che non portano a niente. E tuttavia sono pensieri che esistono e non ci fa bene neanche investire tutte le nostre energie per fare finta che non esistano. È complicato arrivare a un compromesso con questo genere di pensieri.


Con sé stessi c’è una certa flessibilità, ma la regola, e si accorgono che è la stessa per entrambi, è di non parlarne mai con gli altri. Quando dicono gli altri, intendono l’altro per eccellenza, Nathalie per lui, Patrice per lei. A loro, che in linea di massima possono ascoltare tutto, è importante non confidare questo genere di pensieri. Perché gli fanno male, un male che è un misto di tristezza, impotenza e senso di colpa, e che bisogna stare attenti a non infliggergli. Ma bisogna anche stare attenti a non stare troppo attenti, a non controllarsi troppo con l’altro. Qualche volta, dice Étienne, mi lascio andare in presenza di Nathalie. Sbotto che non ne posso più, che è troppo orribile e troppo ingiusto avere una gamba di plastica, che ho voglia di frignare, e mi metto a frignare. Mi capita quando la pressione è troppo forte, ogni tre o quattro anni, e poi posso reggere fino alla volta successiva. E tu, qualche volta lo dici a Patrice?


Qualche volta.


E piangi?


Mi è capitato.


Mentre si dicono queste cose le lacrime cominciano a scorrere sulle guance di entrambi. Scorrono senza vergogna, senza ritegno, e loro provano perfino un briciolo di gioia nel versarle. Perché poter dire: «È orribile», «Non è giusto», «Non ne posso più», senza temere che l’interlocutore si senta in colpa, poterlo dire con la certezza – sono parole di Étienne – che l’altro capisca quello che abbiamo detto esattamente come noi lo abbiamo detto, senza niente di più, senza proiettarci niente di suo, è una gioia immensa, un sollievo immenso. E allora continuano a parlare. Sanno o intuiscono che non gli capiterà di nuovo di lasciarsi andare così, che non se lo concederanno più, per evitare che diventi una forma di compiacimento, ma quella sera si lasciano andare.


Io, dice Étienne, quando sono al cesso, conto i punti del tennis. Li visualizzo. L’ultima volta che ho giocato a tennis è stato vent’anni fa, ma nella mia testa ci gioco ancora e so che continuerà a mancarmi fino alla fine.


Per me, interviene Juliette, è così con la danza. Mi piaceva un sacco ballare, ho ballato fino a diciassette anni, non è tanto, e a diciassette anni ho saputo che non avrei ballato mai più. Il mese scorso il fratello di Patrice si è sposato, guardavo gli altri che ballavano e morivo dalla voglia di farlo anch’io. Sorridevo, provavo affetto per loro, ero felice di essere lì, ma a un certo punto hanno messo un pezzo che mettevano sempre quando avevo ancora le gambe sane, YMCA, te lo ricordi: uai-em-siei! Credo che avrei dato dieci anni di vita per ballarlo, solo per quei cinque minuti che dura la canzone.


Più tardi, quando ne hanno abbastanza delle confidenze, lei dice con un tono più grave: Comunque, se non mi fosse capitato quello che mi è capitato, forse non avrei mai conosciuto Patrice. Sicuramente no. Capace che non l’avrei nemmeno visto. Mi sarebbe piaciuto tutto un altro tipo di uomo: più brillante, più seduttore, il tipo che sulla piazza faceva di più al caso mio, perché io ero carina e brillante. Non voglio dire che l’infermità mi abbia reso più intelligente e profonda, ma è per merito suo se ora sto con Patrice, è per merito suo se ho le bambine, e da questo punto di vista è il contrario del rimpianto, il contrario dell’amarezza, non passa giorno senza che mi dica: Ho l’amore. Tutti corrono dietro all’amore, io non posso correre ma ce l’ho. Amo questa vita, amo la mia vita, la amo incondizionatamente. Capisci?


Sì, benissimo, dice Étienne. Anch’io amo la mia vita. Per questo è così difficile dire a Nathalie: «Non ne posso più». Perché, se glielo dico, lei pensa che vorrei una vita diversa e, siccome non me la può dare, si intristisce. Ma dire «non ne posso più» non significa che vorremmo una vita diversa e nemmeno che siamo tristi. Tu sei triste?


No, ora non lo è più.

Si erano riconosciuti. Avevano affrontato le stesse sofferenze, inimmaginabili per chi non le abbia affrontate. Venivano dallo stesso mondo. I genitori di entrambi erano parigini e borghesi, cristiani e di formazione scientifica; di destra quelli di Juliette, di sinistra quelli di Étienne, ma era una differenza di poco conto se paragonata all’alto concetto che ambedue le famiglie avevano del proprio rango. Avevano sposato entrambi una persona di un ambiente più modesto, come si diceva nel loro (appunto a margine di Étienne: «Non nel mio»), e la amavano profondamente. Quei matrimoni erano il centro della loro vita, la chiave della loro realizzazione personale. Entrambi potevano contare su quel supporto, e prima di incontrarsi si sarebbero meravigliati se qualcuno gli avesse detto che nelle loro vite mancava qualcosa. Ma quel qualcosa di cui non sentivano la mancanza, quando è arrivato, lo hanno accolto con un misto di stupore e gratitudine. Étienne, con la sua mania di contraddire i suoi interlocutori, contesta la parola «amicizia», ma per me essere amici è proprio questo, e nella vita un vero amico è una cosa rara e preziosa come un vero amore. Certo, tra un uomo e una donna la questione è più complicata, perché ci si mette di mezzo il desiderio e con esso l’amore. A questo proposito, nel loro caso non ho niente da dire, o solo che Patrice da un lato e Nathalie dall’altro hanno capito che per la prima volta nella vita di Juliette e in quella di Étienne c’era un’altra persona importante, e se ne sono fatti una ragione.

Con l’eccezione di quella che ho riportato, le chiacchierate intime fra loro erano piuttosto rare. Le conversazioni riguardavano perlopiù questioni di lavoro. Ci può piacere lavorare con qualcuno in particolare come ci piace fare l’amore con qualcuno in particolare, ed Étienne, che è sopravvissuto a Juliette, sa che avrà sempre nostalgia della loro intesa. Non c’era nessun contatto fisico tra loro. Si erano stretti la mano all’inizio del primo incontro, ma non alla fine, e mai più in seguito. Non si salutavano con un bacio e nemmeno con un cenno della testa, non si dicevano né buongiorno né arrivederci. Che fossero passate solo poche ore o un intero mese di vacanza, si ritrovavano sempre come se uno dei due stesse tornando dalla stanza accanto dove era andato un attimo a prendere un fascicolo. Ma c’era, dice lui, qualcosa di sensuale e di voluttuoso nel loro modo di esercitare la legge insieme. Entrambi amavano il momento in cui si scopre la falla, in cui il ragionamento fila, si dipana da sé: Adoro, diceva Juliette, quando ti brillano gli occhi.

Come magistrati avevano due stili completamente diversi. Juliette era pacata e rassicurante. Cominciava sempre l’udienza spiegando come si sarebbe svolta. Che cos’era la giustizia, perché si trovavano lì. Il principio della prova e quello del contraddittorio. E, se bisognava spiegare tutto daccapo, lo faceva. Si prendeva il tempo necessario, aiutava gli imputati che capivano male o si esprimevano male. Étienne, invece, era brusco e a volte brutale, capacissimo di interrompere un legale dicendo: La conosco, avvocato, so cosa sta per dire, non vale la pena che continui a perorare, avanti il prossimo. Dalle sue udienze le persone uscivano destabilizzate, rasserenate da quelle di Juliette. Queste differenze si riflettevano anche nello stile delle loro sentenze, mi dice Étienne, che descrive quello di Juliette come classico, chiaro, equilibrato, e il suo come romanico: aspro, irregolare, con bruschi salti di tono che mi piacerebbe saper cogliere, ma che sinceramente il mio orecchio poco allenato non percepisce.

Hanno portato avanti le stesse battaglie, o meglio Juliette ha aderito a quelle di Étienne in materia di alloggi e soprattutto di tutela del consumatore, ma non penso che fossero mossi dalle stesse motivazioni. Se un tipo brillante come Étienne ha scelto il tribunale di istanza, la provincia, quelle cause così trascurabili, secondo me è perché preferiva essere il primo in un paesino piuttosto che correre il rischio di essere il secondo o il centesimo a Parigi, in Corte d’assise, nell’arena. Il Vangelo, Lao-tzu, l’I Ching invitano all’unisono a «favorire il piccolo», ma quando persone come Étienne o come me, che su questo punto ci assomigliamo molto, adottano simili strategie di umiltà, lo fanno chiaramente per un tortuoso e contrastato desiderio di grandezza, e io vedo nelle sue battaglie una vanità d’autore e un desiderio di riconoscimento applicati a oggetti che, lo confesso, mi sembrano un po’ irrisori – come se la vanità d’autore di cui sono ostaggio io si applicasse a qualcosa di incommensurabilmente più nobile.

Juliette non aveva questo genere di problemi. A lei piaceva restare nell’ombra, e le andava benissimo che Étienne passasse per il suo mentore e facesse parlare di sé più di lei. Sentenze che avevano discusso a lungo insieme, ma che erano sentenze di Étienne, venivano pubblicate con la sua firma in riviste giuridiche. Più volte lui si è offerto di mandare a quelle riviste una sentenza di Juliette, di metterla in luce, ma lei ha sempre rifiutato. Credo che fosse animata al tempo stesso da un gusto disinteressato per la giustizia e dall’inattesa soddisfazione di poter essere un giudice in linea con le idee di suo marito. Loro due parlavano molto di politica, come parlavano molto di ogni cosa, e anche se erano d’accordo sull’essenziale, Patrice era così diffidente nei confronti di tutte le istituzioni, così pronto a denigrarle sempre e comunque, che lei per reazione si ritrovava ad assumersi, nella coppia, l’ingrato compito di incarnare il partito dell’ordine. Eppure era convinta di aver fatto molta strada rispetto all’ambiente da cui proveniva. Votava per i socialisti, o per i verdi se non davano troppo fastidio ai socialisti, leggeva gli articoli che lui le consigliava su «Politis» o su «Le Monde diplomatique», ma agli occhi di Patrice non era mai abbastanza, e in definitiva lei non vedeva perché avrebbe dovuto abbracciare tutti i valori dell’ambiente di lui. Nonostante la fedeltà, che Patrice le rinfacciava, alla sua educazione borghese, era stata lei a insegnargli la formula, un classico all’ENM, secondo cui il Codice penale impedisce ai poveri di rubare ai ricchi e il Codice civile permette ai ricchi di rubare ai poveri, ed era la prima a riconoscere che quella formula conteneva un fondo di verità. Quando aveva assunto l’incarico al tribunale di istanza, si aspettava di dover spesso e volentieri ratificare un ordine sociale ingiusto, e invece grazie a Étienne si ritrovava in prima fila in una battaglia rischiosa, esaltante, in difesa dei deboli e degli oppressi, dei vasi di coccio contro i vasi di ferro. Ovviamente lei rifiutava quella retorica, diceva di non parteggiare per niente e per nessuno, si preoccupava solo di far rispettare la legge, ma ormai «il giudice di Vienne», come cominciavano a chiamarli nelle raccolte di giurisprudenza, erano due zoppi al posto di uno.

 

 

Nel momento in cui Juliette è subentrata a Jean-Pierre Rieux quella giurisprudenza diventava più severa. Le finanziarie, scontente del fatto che un manipolo di giudici di sinistra appoggiasse sistematicamente i mutuatari insolventi contro di loro, ricorrevano in appello. Le cause finivano davanti alla Corte di cassazione. Non meno sistematicamente la Corte di cassazione, che è per vocazione di destra, ha cominciato ad annullare tutte le sentenze dei tribunali di istanza. Quei poveri cristi che si erano rallegrati di non dover più pagare né interessi né penali ora venivano a sapere che invece sì, li dovevano pagare eccome, perché un giudice più potente aveva bacchettato il giudice che si era espresso a loro favore. Per fare questo la Corte di cassazione aveva dalla sua due armi e qui, chiedo scusa, devo essere un po’ tecnico.

La prima arma si chiama termine di decadenza. La legge dice che il creditore deve agire nei due anni successivi al primo mancato pagamento, altrimenti decade dal suo diritto e può andare al diavolo. L’idea è quella di impedirgli di uscirsene dopo dieci anni reclamando enormi somme di denaro che abbia lasciato accumularsi senza mai richiamare all’ordine il debitore. Questa è senza dubbio una misura che ha lo scopo di tutelare il debitore. Ora, la novità introdotta dalla Corte di cassazione è che bisogna agire in modo equilibrato e che lo stesso vincolo va applicato a entrambe le parti: quindi anche il debitore ha solo due anni dal momento della firma per contestare la regolarità del contratto; trascorsi questi due anni, la partita è chiusa, non ha più il diritto di lamentarsi. Non so cosa ne pensi il lettore, se ha letto con attenzione questo paragrafo. Non escludo che nel valutare tali questioni giuridiche, ma in fondo anche politiche e morali, io sia troppo condizionato da Étienne. Tuttavia non vedo come non si possa trovare squilibrato un equilibrio del genere. Perché è sempre il creditore che cita il debitore in giudizio, mai il contrario. Gli basta aspettare due anni in tutta tranquillità per fargli causa, con la certezza che, per quanto sia zeppo di clausole vessatorie, nessuno potrà più contestare una virgola del suo contratto. Per potersi tutelare, il mutuatario avrebbe dovuto sapere che era illegale già al momento della firma. Avrebbe dovuto essere perfettamente informato, mentre lo spirito della legge consisteva proprio nell’impedire che ci si approfittasse della sua ignoranza.

A Étienne, a Florès e ora a Juliette questo modo di stravolgere a vantaggio del mutuante un testo destinato a tutelare il mutuatario metteva i bastoni tra le ruote. Le loro sentenze trovavano fondamento nella legge, ma quando bisogna interpretare la legge, la Corte di cassazione ha l’ultima parola, e ce l’aveva sempre più spesso. Restava però un certo margine di azione, perché la questione della decadenza non entrava in gioco tutte le volte. Come se fossero tenuti in scacco da una coppia di torri, avevano ancora le vie di fuga delle diagonali. La situazione è diventata critica quando l’avversario, oltre alle torri, ha messo in campo la regina. La regina della Corte di cassazione è una sentenza, emessa nella primavera del 2000, secondo la quale il giudice non può rilevare d’ufficio, cioè di propria iniziativa, una violazione della legge. È un principio della teoria liberale: non si possono avere più diritti di quelli che si rivendicano; perché un torto venga riparato, bisogna che chi l’ha subìto lo contesti. Nel caso di una controversia tra un consumatore e un professionista del credito, se il consumatore non contesta le irregolarità del contratto, non spetta al giudice farlo al posto suo. Il ragionamento non fa una piega nella teoria liberale, ma nella realtà il consumatore non le contesta mai, perché non conosce la legge, perché non è stato lui a ricorrere alle vie legali, perché nove volte su dieci non ha un avvocato. Non importa, dice la Corte di cassazione, il giudice deve fare il suo mestiere: non può immischiarsi in cose che non gli competono; se è scandalizzato, deve tenerselo per sé.

Étienne, Florès e Juliette erano scandalizzati, ma avevano le mani legate, e i debitori che avevano illuso con false speranze erano costernati. Le finanziarie, invece, gongolavano.

Un giorno di ottobre del 2000 Étienne sfoglia delle riviste giuridiche nel suo ufficio. Gli capita tra le mani una sentenza commentata della Corte di giustizia delle Comunità europee, che comincia a leggere distrattamente, poi con sempre maggiore attenzione. La storia riguarda un contratto di credito al consumo, in cui si prevede che per qualsiasi controversia sia competente il tribunale di Barcellona, dove risiede l’ente creditizio. Siccome l’ente creditizio risiede a Barcellona, toccherebbe al consumatore, che magari abita a Madrid o a Siviglia, andare fin lì per difendersi? La clausola è vessatoria, la cosa salta agli occhi del giudice di Barcellona, che la denuncia. Ma neanche in Spagna può farlo d’ufficio, allora deferisce la questione alla CGCE. La CGCE emana la sentenza. Étienne la legge. Prima ancora di aver finito, si alza e scende al piano terra. Entra nella stanzetta adiacente all’aula grande in cui Juliette sta facendo udienza, apre la porta di comunicazione e le fa segno di raggiungerlo. Juliette, come un’attrice richiamata dalle quinte nel bel mezzo di uno spettacolo, non capisce, cerca di ignorarlo, ma lui insiste. Con grande stupore della cancelliera, dell’usciere, delle parti che sono in causa per un trituratore per WC difettoso, Juliette sospende l’udienza, afferra le stampelle e zoppica fino alla stanzetta dove Étienne la sta aspettando. Che succede? Guarda un po’ qui. Le passa la rivista. Lei legge.

«Quanto alla questione di stabilire se un giudice, cui è stata sottoposta una controversia relativa a un contratto stipulato tra un professionista e un consumatore, possa rilevare d’ufficio l’illiceità di una clausola di tale contratto, si deve ricordare che il sistema di tutela istituito dalla direttiva si fonda sull’idea che il consumatore si trovi in una situazione di inferiorità rispetto al professionista per quanto riguarda sia il potere nelle trattative sia il grado di informazione ... L’obiettivo perseguito dalla direttiva, che obbliga gli Stati membri a prevedere che le clausole vessatorie non vincolino i consumatori, non potrebbe essere raggiunto se questi ultimi fossero tenuti a eccepirne essi stessi l’illiceità ... Ne discende che una tutela effettiva del consumatore può essere ottenuta solo se il giudice nazionale ha facoltà di valutare d’ufficio tale clausola».

Fiuuu. In un film una musica intensamente drammatica farebbe da sottofondo alla sequenza in cui la protagonista scorre queste righe. Vedremmo le sue labbra muoversi mentre lei procede nella lettura, avrebbe un’espressione prima perplessa, poi incredula, infine meravigliata. Alzerebbe lo sguardo verso il protagonista farfugliando qualcosa come: Ma quindi... questo vuol dire che...

Controcampo su di lui, calmo, intenso: Sì, hai letto bene.

Faccio dell’ironia, ed è vero che c’è qualcosa di comico nel contrasto tra questa prosa indigesta e l’esaltazione che ha suscitato, ma a quel punto si potrebbe fare dell’ironia su quasi tutte le imprese umane nelle quali non siamo direttamente coinvolti, su ogni forma di impegno, su ogni tipo di entusiasmo. Étienne e Juliette portavano avanti una battaglia il cui esito avrebbe influito sulla vita di decine di migliaia di individui. Da mesi subivano una sconfitta dopo l’altra, stavano per mollare, ed ecco che Étienne scovava l’arma segreta che avrebbe cambiato il corso del conflitto. È sempre una goduria, quando siamo angariati da un capetto che ci dice: È così e basta, io non devo rendere conto a nessuno, scoprire che al di sopra di lui c’è un grande capo, e che per di più questo grande capo ci dà ragione. Non solo la CGCE dice il contrario della Corte di cassazione, ma la sua decisione prevale sull’altra, dal momento che il diritto comunitario ha la preminenza sul diritto nazionale. Étienne non sapeva niente di diritto internazionale, ma trovava già che fosse meraviglioso. Cominciava a elaborare la teoria che ha tirato fuori, me lo ricordo bene, la mattina della morte di Juliette: più la norma giuridica sta in alto, più è generosa e vicina ai grandi princìpi che ispirano il Diritto con la D maiuscola. I governi commettono piccole ingiustizie a suon di decreti, mentre la Costituzione o la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino le proibiscono e si muovono nello spazio etereo della virtù. Per fortuna la Costituzione e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo hanno la preminenza sui decreti, e sarebbe da stupidi non avvalersi di questo asso nella manica per contrastare le mosse di un fante o perfino di un re. Farsi pagare dal proprio debitore è un diritto sacrosanto, ma anche avere una vita dignitosa lo è, e se dobbiamo arbitrare fra i due diritti, possiamo tranquillamente affermare che il secondo si fonda su una norma giuridica più elevata e che quindi prevale. Stesso discorso per, da un lato, il diritto di un proprietario di riscuotere l’affitto e, dall’altro, quello dell’inquilino di dormire sotto un tetto, e proprio grazie alle lotte che portano avanti da una decina di anni giudici come Étienne e Juliette il secondo di questi diritti sta cominciando a diventare opponibile, cioè in pratica superiore al primo.

Insomma, Étienne si esalta, gli brillano gli occhi. Juliette gliel’ha detto: le piace quando gli brillano gli occhi. Le piace e condivide quell’esaltazione, ma nella coppia lei è quella che deve avere i piedi per terra, non dimenticare in nessuna occasione il principio di realtà. Dice: Dobbiamo riflettere. Verrebbe da pensare che non costa niente appellarsi al diritto europeo per contrastare la giurisprudenza nazionale e fare rabbia alla Cassazione, ma non è vero, in realtà può costare carissimo. La giurisprudenza nazionale è contestata da certe associazioni dei consumatori con cui Florès è in contatto, che stanno combattendo una guerra di trincea. La guerra lampo a cui in questo momento pensano tutti e due, ognuno per conto suo, rischia, se fallisce, di mandare a monte questo lavoro di lungo respiro. Se la CGCE dice di no, le finanziarie potranno avvalersi di questo precedente per chissà quanto tempo.

Seguono giorni febbrili, telefonate e scambi di mail con Florès, ma anche con una docente di diritto comunitario, Bernadette Le Baut-Ferrarese, che, interpellata, si appassiona al caso. Secondo lei la risposta della CGCE non è scontata, ma vale la pena tentare, con la consapevolezza che è un po’ come con la grazia del presidente all’epoca della pena di morte: o la va o la spacca, poi non avranno altre carte da giocare. Alla fine decidono di buttarsi. Chi si butterà? Chi redigerà la sentenza provocatoria? Potrebbe farlo uno qualunque dei tre giudici, ma a quanto pare la questione non si è neanche posta: è Étienne quello a cui più di tutti piace stare in prima linea.

 

 

Da qualche mese sulla sua scrivania si accumulano pratiche relative a un contratto proposto da una nostra vecchia conoscenza, la Cofidis, contratto che ha un grazioso appellativo: Libravou. Il Libravou potrebbe essere studiato nelle aule universitarie come perfetto esempio di adescamento conseguito con l’inganno. Si presenta come una «richiesta gratuita di disponibilità pecuniaria», con la parola «gratuita» stampata in caratteri cubitali, mentre il tasso di interesse, che è del 17,92 per cento e che, se si aggiungono le penali, risulta superiore al tasso di usura, compare in corpo minuscolo sul retro della pagina. Dalla pila Étienne sceglie a caso la pratica con cui far scoppiare la loro piccola bomba: Cofidis SA contro Jean-Louis Fredout. Non è una causa importante: Cofidis chiede 16.310 franchi, di cui 11.398 di capitale, il resto di interessi e penali. All’udienza il signor Fredout non si presenta, non ha un avvocato. Quello della Cofidis invece è un veterano del foro di Vienne, un habitué del tribunale di istanza, e non si allarma quando Étienne gli fa notare che «le clausole finanziarie mancano di leggibilità», che «tale mancanza di leggibilità va raffrontata con la menzione della gratuità in forma particolarmente appariscente» e che per tali motivi «le clausole finanziarie possono ritenersi vessatorie». Non si allarma, conosce a menadito i cavilli di Étienne, di cui tra l’altro ha grande stima, quindi in un tono canzonatorio ma per niente aggressivo, come se recitasse la sua parte in un duetto ben rodato, gli risponde che anche se le clausole sono vessatorie chi se ne frega, perché il contratto è del gennaio del 1998, la citazione in giudizio dell’agosto del 2000, il termine di decadenza è trascorso da un pezzo, quindi spiacente, signor giudice, è stato bravo ad averci provato, ma la legge è la legge, finiamola qui.

Bene, dice Étienne, finiamola qui. Sentenza tra due mesi. Più si lascia mettere a tacere in apparenza, più dentro di sé gongola. Se fosse per lui emetterebbe la sentenza la settimana successiva, ma bisogna fare come se niente fosse, rispettare i termini abituali. L’udienza si conclude il venerdì alle sei del pomeriggio e il sabato mattina lui è a casa davanti al computer. Scrive in uno stato di febbrile eccitazione, ride da solo. Dopo due ore ha già finito, la sentenza è lunga quattordici pagine, il che è raro. Chiama Juliette per leggergliela ad alta voce e fa ridere anche lei. Poi è la volta di Florès e di Bernadette, che ormai è pienamente coinvolta nella congiura. Lasciano decantare, controllano tutto, soppesano ogni singola parola. Siamo nell’ambito del puro tecnicismo, questo è ovvio, ma l’idea centrale si può riassumere facilmente. La sentenza consiste nel dire: Non posso emettere la sentenza perché la legge non è chiara, e per chiarirla devo sottoporre una questione alla CGCE. La questione, che si definisce pregiudiziale, è questa: è conforme alla direttiva europea che il giudice nazionale, allo scadere del termine di decadenza, non possa rilevare d’ufficio una clausola vessatoria in un contratto? Rispondetemi sì o no, io mi regolerò di conseguenza.

 

 

Dopodiché aspettano con trepidazione il decorrere dei due mesi regolamentari, al termine dei quali viene inviata alle parti e soprattutto alla CGCE la sentenza, che non può definirsi veramente tale perché dipende dalla risposta che riceverà la questione pregiudiziale. Qualche tempo dopo Étienne incrocia in un corridoio l’avvocato della Cofidis, un po’ disorientato da quell’oggetto giuridico non identificato. Be’, scherza l’avvocato, se le piace divertirsi così... Noi ricorreremo in Cassazione e la Cassazione casserà, è il suo lavoro, e cassando la sentenza annullerà la questione pregiudiziale. Avremo solo perso un anno, io me ne infischio e anche lei, soltanto quel poveretto si illuderà e alla fine pagherà comunque fino all’ultimo centesimo. Étienne, che prevedeva quella mossa, sorride. Non credo, dice, che le cose andranno così: proprio la Corte di cassazione afferma che l’unico ricorso possibile è quello contro le sentenze definitive e non contro quelle interlocutorie. E lei ha ricevuto una sentenza interlocutoria. L’altro alza un sopracciglio. Ne è sicuro? Sicurissimo, risponde Étienne.

Ah, be’.

 

 

La macchina si mette in moto. In Lussemburgo cominciano col far tradurre la questione pregiudiziale di Étienne in tutte le lingue europee e la inviano a tutti gli stati membri. Chi vuole reagire reagisca. Passano sei mesi. Una mattina dell’aprile 2001 arriva in tribunale una grossa busta con l’intestazione della CGCE. Étienne è solo in ufficio, ma si fa violenza: aspetta Juliette per aprirla. Chiedono di non essere disturbati. La busta contiene due documenti: uno, molto voluminoso, è un rapporto della Cofidis, l’altro, più breve, è il parere della Commissione europea. Non è difficile immaginare cosa contenga il primo, la suspense è tutta concentrata sul secondo, ed è proprio per godersi quella suspense logorante e deliziosa insieme che si impongono di leggere per primo l’altro. Ventisette pagine fitte fitte, redatte da un pool di avvocati riuniti in unità di crisi. Il nemico avverte il pericolo e sfodera l’artiglieria pesante. Sin dal preambolo si parla di un «improduttivo clima di ribellione», della «fronda di alcuni giudici sostenuta da alcuni sindacati e anche da alcuni membri del sindacato della magistratura». Lo vedi, osserva Étienne al settimo cielo, scrivono sempre nello stesso modo, i reazionari, in ogni epoca. A questo fanno seguito, secondo il classico assetto di guerra, le argomentazioni propriamente giuridiche, di cui risparmio i dettagli al lettore, presentate a sostegno dell’argomentazione principale, che è politica: se continuiamo a fare le pulci alle finanziarie e a favorire i mutuatari insolventi, alla fine ne farà le spese tutto il sistema e le conseguenze ricadranno sul mutuatario onesto. Niente di imprevedibile, quindi, eccetto la veemenza del tono. In un altro contesto suonerebbe bonario, ma trattandosi di prosa giuridica, fa l’effetto di un attacco personale con il bazooka. È lusinghiero, elettrizzante. Hanno letto il rapporto senza saltare una riga. Ora non resta che scoprire il verdetto. La Commissione non è la CGCE: emette un parere, non una decisione, ma generalmente questo parere viene seguito e, se la Commissione dice di no, è sicuro che anche la CGCE dirà di no. Un no significherà la sconfitta, l’umiliazione. Dovranno sopportarle, Étienne e Juliette non faranno harakiri in ufficio, questo no, ma sarà dura da accettare, lo sanno bene tutti e due. Leggi prima tu, dice Étienne, tu sei più forte di me. Juliette comincia a leggere. Principio di effettività... compensazione da parte del giudice dell’ignoranza di una delle parti... riferimento alla sentenza di Barcellona...

Alza la testa, sorride: è un sì.

 

 

È come essere su un ponte di legno, dice Étienne. Un ponte traballante, pericoloso. Abbiamo poggiato un piede. Abbiamo visto che regge. Allora possiamo poggiarci anche l’altro.

(Mi rendo conto, riportandola, che questa metafora è un po’ ardita per un uomo con una gamba sola).

Étienne non aspetta che la CGCE confermi il parere della Commissione per raddoppiare la posta in gioco presentando una seconda questione pregiudiziale. La questione riguarda sempre la rilevabilità d’ufficio, ovvero il diritto del giudice di rilevare un’ingiustizia che la vittima non ha contestato, ma questa volta la affronta da un altro punto di vista. Al posto del signor Fredout ora c’è un certo signor Giner e al posto della Cofidis l’ACEA, ma a parte questo la causa è praticamente identica. In udienza Étienne fa notare che il tasso effettivo globale, detto TEG, non è menzionato nell’offerta di credito, cosa a suo avviso irregolare. Nessuno, tranne Juliette, è al corrente del successo del primo blitz, nessuno può immaginare che Étienne ne stia già preparando un secondo. L’avvocato dell’ACEA, quindi, senza sospettare niente, tira fuori l’argomentazione che aveva previsto di tirar fuori nel caso prevedibile in cui il solito giudice cavilloso si fosse messo a cavillare. L’irregolarità, ammesso che ci sia, riguarda un ordine pubblico di protezione, il giudice non si deve immischiare.

L’ordine pubblico di protezione è un’altra trovata della Corte di cassazione, che dagli anni Settanta lo distingue dall’ordine pubblico di direzione. L’ordine pubblico di protezione non riguarda la società, ma solo l’individuo. Tocca a lui far valere il suo diritto, e il giudice, che rappresenta la società, non può quindi procedere d’ufficio. L’ordine pubblico di direzione è un’altra cosa: riguarda l’interesse generale e in particolare l’esigenza di disciplinare il mercato. Ogni sua violazione può e deve essere rilevata dal giudice.

Questa distinzione Étienne la trova stupida. Dice: Ho lavorato nel penale nel Nord e oggi lo faccio di nuovo a Lione. È in nome dell’ordine pubblico che accetto di assolvere alla funzione estremamente spiacevole di mandare in carcere delle persone. È in nome dell’ordine pubblico che accetto di sbattere in prigione dei marocchini che hanno rubato un’autoradio. La giustizia è una cosa violenta. Accetto questa violenza, ma solo a patto che garantisca un ordine coerente e indivisibile. La Corte di cassazione dice che tutelando il signor Fredout e il signor Giner stiamo tutelando solo il signor Fredout e il signor Giner, i quali dovrebbero essere abbastanza svegli da tutelarsi da soli, altrimenti peggio per loro. Io non sono d’accordo. Io ritengo che, tutelando il signor Fredout e il signor Giner, sto tutelando la società nel suo insieme. Ritengo che esista un solo ordine pubblico.

Uno dei vantaggi del diritto comunitario è che non si limita a stabilire delle regole: dice anche qual è l’intenzione perseguita nello stabilirle, e quindi è legittimo invocare quell’intenzione. Nel caso della direttiva a cui mi riferisco, continua Étienne, l’intenzione è perfettamente chiara, e perfettamente liberale. Si tratta di disciplinare la libera concorrenza nel mercato del credito. Questo è il motivo per cui viene imposto in tutta l’Europa che i contratti menzionino il TEG: perché la concorrenza sia esercitata in modo trasparente. Non menzionarlo è un’irregolarità, su questo punto sono tutti d’accordo, ma la Cassazione mi proibisce di rilevare questa irregolarità con il pretesto che così facendo mi occupo solo della persona – ordine pubblico di protezione – e non del mercato – ordine pubblico di direzione. Chiedo quindi alla CGCE: la menzione del TEG è un mezzo per tutelare il mutuatario o per disciplinare il mercato? Visto che la direttiva dice a chiare lettere: per disciplinare il mercato, la questione che pongo è ancora più semplice: ditemi se ho letto bene. Se ho letto bene, la giurisprudenza della Cassazione non ha alcun senso.

Col senno di poi Étienne trova che la sentenza Fredout sia scritta male e che sia anche un po’ capziosa. Secondo lui la CGCE avrebbe potuto respingerla, sospetta che l’abbia accolta per le ragioni sbagliate: non voleva perdere un’occasione come quella per marcare la sua preminenza sul diritto nazionale. Della sentenza Giner invece va molto fiero. È un oggetto giuridico che lo manda in estasi. Innanzitutto perché non è una sentenza di sinistra. Étienne non si vede affatto come il pericoloso sinistroide descritto dagli avvocati della Cofidis. Si definisce socialdemocratico, ma crede nelle virtù della concorrenza: gli dà ancora più soddisfazione inchiodare una finanziaria ultraliberale alla sua stessa logica con un’argomentazione che perfino Alain Minc sottoscriverebbe. E poi adora lo stile, il contrasto tra l’enormità del problema sollevato – che cos’è l’ordine pubblico? – e il falso candore sconcertante, socratico, della domanda conclusiva: Ho letto bene? Gli piace quel modo semplice e chiaro di colpire nel segno. Lo capisco. È quello che piace anche a me nel mio lavoro: quando ogni cosa appare semplice, chiara, quando tutto funziona. E naturalmente quando è efficace.

 

 

Quanto all’efficacia, be’, parliamone. Prima di lasciare l’incarico al tribunale di Vienne, Étienne ha potuto sancire la decadenza degli interessi dovuti alla Cofidis nella causa Fredout. Nella causa Giner il creditore, sentendo che il vento cominciava a girare, ha preferito lasciar perdere. Questa doppia vittoria, e soprattutto il fatto che facesse giurisprudenza, sono valsi a Juliette e Étienne di essere, cosa di cui lui si fregia, «denigrati nel “Recueil Dalloz”» da professori di diritto che presentavano «il giudice di Vienne» come il nemico pubblico numero uno. Sul lungo termine l’effetto della loro battaglia è che la legge sulla decadenza è stata modificata, la rilevabilità d’ufficio da parte del giudice ampliata e i debiti di decine di migliaia di poveracci ridotti secondo legge. Meno spettacolare, per dire, dell’abolizione della pena di morte. Ma abbastanza per pensare di essere serviti a qualcosa, e anche di essere stati due grandi giudici.Étienne dice di essersi fatto trasferire a Lione come giudice istruttore perché dopo otto anni al tribunale di istanza era sfinito, e poi perché a un certo punto bisogna pur andarsene, allora meglio farlo dopo una vittoria. Gli avvocati di Vienne insinuano alle sue spalle che il trasferimento sia stato una forma di sanzione: rompeva le palle a tutti, al ministero non lo potevano soffrire. Comunque sia andata, è lui il primo a riconoscere che non era certo una promozione, che Vienne è stato l’incarico della sua vita, che forse nella sua carriera ce ne saranno di più prestigiosi, ma difficilmente di più elettrizzanti.


Lasciare l’istanza significava anche lasciare Juliette. Da Vienne a Lione c’è solo mezz’ora di macchina, ma sapevano benissimo che il collante della loro amicizia erano la frequentazione quotidiana, i fascicoli di cui si occupavano entrambi, la possibilità di aprire la porta dell’ufficio dell’altro in ogni momento, la convivenza al lavoro come per altre coppie la convivenza a casa. Nei primi tempi dopo la separazione si sono visti qualche volta a pranzo da soli, hanno passato qualche domenica insieme con le due famiglie, ma era evidente che non era più lo stesso, così non hanno insistito. Étienne è arrivato a pensare che anche se non si fossero più visti non sarebbe stato poi tanto grave, perché Juliette ormai faceva parte di lui, era diventata un’istanza della sua mente, l’interlocutrice a cui si rivolgeva una parte del suo monologo interiore, e non aveva dubbi che per lei fosse uguale. Si sentivano al telefono. Lei gli raccontava del tribunale in sua assenza, le varie storielle delle cancelliere e degli uscieri, e lui si divertiva come in quelle fantasie infantili in cui sei morto ma non ti perdi niente di quello che si dice al tuo funerale. Con la sua sostituta Juliette non aveva la stessa intesa, ma era normale: aveva vissuto un’esperienza straordinaria e non poteva aspettarsi che fosse sempre così. L’esaltazione che aveva provato nei cinque anni di scontri con le banche e la Corte di cassazione era scemata, lasciando il posto alla stanchezza. Lavorava moltissimo per tenersi in pari con i fascicoli, andava a dormire a mezzanotte, si alzava alle cinque del mattino, ma aveva sempre paura di non farcela, di accumulare un ritardo che non avrebbe più potuto recuperare. Nell’ascoltarla, Étienne si rendeva conto che stava arrancando, avrebbe voluto starle vicino per aiutarla come solo lui sapeva fare, rendendo allegro e appassionante anche il lavoro più arido. Si è sentito sollevato quando Juliette gli ha annunciato di essere incinta: almeno avrebbe respirato un po’. Ma la gravidanza si è rivelata più difficile delle prime due. Era stata lei a volere un terzo figlio, Patrice era un po’ spaventato, ma lei ci teneva tanto: sarebbe stato l’ultimo. Diane è nata il 1° marzo 2004. Étienne e Juliette si sono visti al reparto maternità, poi a Rosier, accanto alla culla della neonata. Amélie e Clara giocavano a mamma e figlia con la sorellina. Juliette se le mangiava con gli occhi tutt’e tre, le sue tre bambine, e nel suo sguardo Étienne ha visto l’amore, naturalmente, la felicità, ma anche qualcosa che non ha saputo o voluto analizzare e che gli ha spezzato il cuore. Dopo le vacanze estive lei ha ripreso a lavorare, era il suo secondo rientro dalle ferie senza di lui. Nelle loro conversazioni telefoniche ricorrevano di continuo le parole «stanchezza», «debolezza», «sfinimento», poi si è aggiunta anche «angoscia», che lui non le aveva mai sentito pronunciare.


 


 


Una mattina di dicembre Patrice è stato svegliato da un respiro affannoso. Juliette accanto a lui soffocava e al tempo stesso era scossa dai singhiozzi. Ha cercato di calmarla. Tra gli spasmi lei è riuscita a dirgli che non capiva cosa le stesse succedendo, ma sentiva che era qualcosa di grave. Patrice ha ottenuto subito un appuntamento dal medico di base a Vienne. Visto che era sabato e che le bambine non andavano né a scuola né dalla baby-sitter, sono usciti tutti e cinque. Durante la visita Amélie e Clara hanno fatto dei disegni nella sala d’attesa. Il medico ha mandato Juliette a fare una radiografia ai polmoni, in pronto soccorso. Per distrarre le bambine che cominciavano a essere stufe, Patrice le ha portate in una libreria dove c’era un reparto per l’infanzia che loro hanno messo a soqquadro. Con Diane in braccio che piangeva, Patrice metteva pazientemente a posto gli albi illustrati, scusandosi con la libraia che, per fortuna aveva dei figli anche lei, e sapeva che significa. Sono tornati dal radiologo, poi con la radiografia dal medico, che ha assunto un’espressione allarmata e ha detto di andare subito a Lione per una TAC. Sono risaliti in macchina. Le visite erano durate tutta la mattina, le bambine non avevano pranzato né fatto il sonnellino pomeridiano, Diane non era stata cambiata e tutt’e tre strillavano a più non posso sul sedile posteriore. Juliette, su quello davanti, non era in condizioni di calmarle, era un inferno. All’ospedale di Lione, un’altra attesa per la TAC. Per fortuna c’era un’area gioco per bambini con una piscina piena di palline. Una vecchia signora molto malmessa chiedeva ogni dieci minuti a Patrice dove si trovasse e lui le ripeteva: all’ospedale, a Lione, in Francia. Era così sopraffatto dagli eventi che non aveva avuto nemmeno il tempo di preoccuparsi, ma quando gli hanno comunicato la diagnosi: embolia polmonare, si è sorpreso di sentirsi sollevato, perché un’embolia polmonare è una cosa seria, certo, ma non è un cancro. Hanno deciso di trasportare Juliette, in ambulanza, alla clinica protestante di Fourvière, dove le avrebbero fatto una flebo di anticoagulanti per sciogliere i grumi di sangue che ostruivano i vasi polmonari. Patrice si è accordato con lei che avrebbe riportato le bambine a casa e poi sarebbe tornato lì con una borsa di vestiti e il beauty-case, perché lei doveva restare in clinica per qualche giorno. Prima di andare via ha parlato con il medico, secondo il quale la TAC non mostrava niente di preoccupante. L’unica cosa un po’ anomala erano tracce di fibrosi nei polmoni, che risalivano probabilmente alla radioterapia subita quindici anni prima. I raggi avevano indotto lo sviluppo di fibrosi negli organi e ora era difficile distinguere le nuove lesioni dalle vecchie, ma insomma, nel complesso, niente di grave, era tutto sotto controllo.


 


 


Appena si è sistemata in clinica Juliette ha chiamato Étienne. Lui ricorda le sue esatte parole: Vieni, vieni subito, ho paura. E quando è entrato nella stanza una mezz’ora dopo: È peggio della paura, è orrore.


Che cosa ti fa orrore?


Con un gesto vago lei ha indicato il tubicino che la collegava alla sacca della flebo appesa all’asta: Questo. Tutto questo. Essere di nuovo malata. Non riuscire a respirare. Morire soffocata.


Parlava con una voce veemente, rotta, carica di un’insofferenza che non le conosceva. L’insofferenza, l’amarezza, il sarcasmo non erano da lei, ma quel giorno l’ha vista insofferente, amara, sarcastica. Quel viso che di solito neppure quando era stanca morta appariva scontroso era chiuso, quasi ostile. Con un ghigno che le si addiceva ancora meno ha detto: Proprio in questi giorni mi stavo chiedendo se farmi una pensione integrativa, ma a questo punto credo che non ne valga la pena. Tanto di guadagnato.


Étienne non ha raccolto la provocazione, le ha solo chiesto con calma se le avevano detto che sarebbe morta, e lei ha dovuto ammettere che non glielo avevano detto. Le avevano detto la stessa cosa che avevano detto a Patrice: embolia polmonare, probabilmente legata alla radioterapia, e le faceva girare i coglioni, aveva usato queste parole, parole che non usava mai, ma quel giorno sì, le faceva girare i coglioni dover pagare ancora per una vecchia malattia con cui credeva di aver chiuso i conti.


C’è stato un momento di silenzio, poi ha ripreso, più piano: Ho una terribile paura di morire, Étienne. Sai, quando mi sono ammalata, a sedici anni, avevo un’idea romantica della morte. La trovavo affascinante, non sapevo se ero realmente in pericolo di vita, ma ero pronta. Anche tu una volta mi hai detto che a diciott’anni pensavi che un cancro potesse essere un’esperienza simpatica. Me lo ricordo benissimo, hai detto «simpatica». Ma ora che ci sono le bambine mi fa orrore. Mi fa orrore l’idea di lasciarle. Capisci?


Étienne ha annuito. Capiva, ovviamente, ma invece di dire quello che avrebbe detto chiunque al suo posto: Chi ti dice che morirai? Hai un’embolia polmonare e non un cancro, non farti prendere dal panico, ha detto: Se muori, loro non moriranno per questo.


Non è possibile. Hanno troppo bisogno di me. Nessuno le amerà mai come le amo io.


Che ne sai? Sei molto presuntuosa. Spero che tu non muoia tanto presto, ma se dovesse succedere bisogna che ti sforzi non solo di dirti ma anche di pensare realmente: La loro vita non finirà con me. Anche senza di me, potranno essere felici. È una faticaccia.


Quando Patrice è tornato, dopo aver affidato le figlie ai vicini, Juliette davanti a lui non ha lasciato trasparire niente di quell’attacco di panico di cui Étienne era stato l’unico testimone. Ha assunto il ruolo della malata modello, fiduciosa e positiva, che non avrebbe praticamente più dismesso. I medici dicevano che l’allarme era rientrato, non c’era ragione di non crederci e forse ci ha creduto. Dopo cinque giorni l’hanno rimandata a casa con una ricetta in cui le prescrivevano un paio di calze elastiche contenitive e degli anticoagulanti che le avrebbero consentito di recuperare rapidamente la capacità respiratoria.


Non l’ha recuperata. Continuava a mancarle l’aria, boccheggiava come un pesce fuor d’acqua, allungava il collo, avvertiva un senso di oppressione al petto. È davvero insopportabile? le ha chiesto il medico al telefono. Insopportabile no, visto che lo sopportava, ma molto fastidioso e non solo fastidioso: angosciante. Aspettiamo un po’, diamo tempo alle medicine di fare effetto. Facciamo il punto della situazione a inizio gennaio.


Durante le vacanze di Natale, che hanno trascorso in Savoia dai genitori di Patrice, le figlie le rimproveravano di essere sempre stanca, di non decorare l’albero e di non fare niente con loro. Allora si sforzava di fingere, scherzava, giocava a fare la vecchia mamma a pezzi che bisognava solo buttare nella spazzatura, e le bambine ridevano, gridavano: No! No! Nella spazzatura no! Ma a Patrice confidava che si sentiva proprio così: guasta nel profondo, irrecuperabile, ormai da rottamare. In casa c’era un sacco di gente, un gran rumore, un viavai continuo, scorribande di bambini per le scale. Appena potevano loro due si rifugiavano in camera, si stendevano sul letto abbracciati e Juliette gli sussurrava accarezzandogli una guancia: Povero amore mio, sei stato sfortunato. Patrice protestava: era l’uomo più fortunato del mondo invece, e lei, commossa dalla sua evidente sincerità, rispondeva: Sono io la donna più fortunata del mondo. Ti amo.


Il giorno di Natale è stato anche quello dello tsunami. Hanno saputo che Hélène e Rodrigue erano salvi prima ancora di capire a che cosa erano scampati, ma da quel momento non hanno perso neanche un telegiornale, neanche uno di quegli speciali che permettevano di seguire la catastrofe in diretta, minuto per minuto. Le spiagge tropicali devastate, i bungalow di paglia, le persone seminude che gridavano e piangevano, sembrava tutto incredibilmente lontano dalla Savoia innevata, da quella casa in pietra rustica, dal tepore del camino. Mettevano un altro ciocco nel fuoco, compativano quella povera gente e si rallegravano di sentirsi al sicuro. Juliette però non si sentiva al sicuro neanche un po’. La trattavano come una convalescente e non come una malata, facevano come se stesse meglio, ma in cuor suo lei sapeva benissimo che non stava meglio, che non era normale avere sempre la sensazione che le mancasse l’aria. Capiva che Patrice era preoccupato e non voleva farlo preoccupare di più. Immagino che abbia pensato di chiamare Étienne e che, se non l’ha fatto, non era perché non voleva che si preoccupasse, sapeva che lui poteva farlo preoccupare quanto voleva, ma perché chiamare Étienne era un po’ come prendere una medicina straordinariamente potente ed efficace, che preferiamo tenere in serbo per quando staremo molto male. Lei stava già molto male, ma cominciava a temere che ben presto sarebbe stata ancora peggio.


Il giorno dopo il loro rientro a Rosier, Patrice ha dovuto riportarla in ospedale. La notte, al pronto soccorso, soffocava. Le hanno diagnosticato una complicazione dell’embolia: un versamento pleurico, era quello a darle il senso di oppressione e a renderle difficoltoso il respiro. Ha trascorso il Capodanno all’ospedale di Vienne. Le hanno fatto un drenaggio polmonare, evacuato il liquido. Di nuovo l’hanno rimandata a casa dicendole che presto sarebbe stata meglio. Di nuovo i giorni sono passati senza che stesse meglio. Di nuovo l’hanno ricoverata, stavolta in pneumologia nell’ospedale di Lyon-Sud. Di nuovo le hanno fatto un drenaggio polmonare, evacuato il liquido dalla pleura, stavolta però quel liquido lo hanno analizzato, ci hanno trovato delle cellule metastatiche e le hanno annunciato che aveva di nuovo il cancro.

Quella mattina Étienne aveva accompagnato Timothé, il figlio maggiore, a lezione di tennis. Seduto su una panchina dietro la rete metallica, lo stava guardando giocare quando gli ha squillato il telefono in tasca. Senza giri di parole Juliette gli ha detto quello che aveva da dire. Non le tremava la voce, era calma, niente a che vedere con l’atterrita richiesta di aiuto dalla clinica protestante di un mese prima. Anche Étienne si è lasciato pervadere da una calma totale, come sa fare lui, ancorandosi con tutto sé stesso al fondo delle proprie viscere. Ha pensato di correre all’istante all’ospedale di Lyon-Sud, ma poi ha cambiato idea, sia perché quel giorno lavorava, sia perché Juliette gli aveva detto che c’era Patrice con lei e lui preferiva vederla da solo, e poi perché sapeva per esperienza che in una stanza d’ospedale la sera è il momento più difficile e anche quello di maggiore intimità.


Ci è andato dopo cena. Lei l’ha visto avanzare fino ai piedi del letto, ma non oltre. Chinarsi su di lei, baciarla, toccarle la spalla o prenderle la mano era fuori discussione. Sapeva che per tutto il giorno si era potuta abbandonare tra le braccia di Patrice, sentendosi sussurrare all’orecchio parole dolci, inutili, tranquillizzanti, di quelle che si dicono a una bambina che si sveglia nel cuore della notte per un incubo: Non avere paura, sono qui, prendi la mia mano, stringila, finché me la stringi non potrà capitarti niente di male. Con Patrice poteva essere una bambina: lui era il suo uomo. Con lui, con Étienne, era un’altra cosa, e lei era un’altra donna: una donna razionale, che aveva il controllo della sua vita e ci rifletteva su. Era Patrice il suo momento di tregua, non Étienne. E d’altra parte lei doveva prendersi cura di Patrice, non di Étienne. Doveva essere coraggiosa per Patrice, mentre con Étienne poteva permettersi quello che ci proibiamo con le persone che amiamo: il terrore, la disperazione.


Sembrava calma come lo era stata la mattina al telefono. Sono rimasti entrambi in silenzio per un po’, poi lei ha detto che non aveva un cancro ai polmoni ma al seno. L’origine era il seno, nei polmoni era una metastasi. Quel pomeriggio le avevano fatto una scintigrafia per sapere se ce n’erano anche nelle ossa, l’esito era incerto o forse non avevano avuto il coraggio di comunicarglielo. In ogni caso, la situazione era brutta.


Étienne ha pensato a una frase che lo aveva colpito nel libro del biologo Laurent Schwartz: la cellula cancerosa è l’unica tra le cose viventi a essere immortale. Ha pensato anche: Ha trentatré anni. Invece di sedersi sulla poltrona accanto al letto, è andato a piazzarsi il più lontano possibile da lei, appoggiato all’enorme termosifone di ghisa che diffondeva nella stanza un calore soffocante. Visto che lei ora taceva, ha parlato lui. Ha detto che da quel momento le cose sarebbero cambiate ogni giorno: le terapie, i protocolli, le speranze, le false speranze, è questo l’aspetto più duro della malattia e doveva prepararcisi. Le ha detto di ridurre al minimo le visite di amici e parenti, che sono pieni di buone intenzioni ma che alla fine non fanno che sottrarti energie. Le ha detto che l’importante era resistere giorno per giorno. Risparmiarsi. Se ce l’avesse fatta a resistere tanto da poter pensare, di lì a qualche mese, di riprendere il lavoro, basta con Vienne, era troppo pesante, doveva chiedere il trasferimento a Lione come aveva fatto lui. Su questo punto è stato categorico, le ha perfino proposto di scriverle lui la lettera e di parlarne con il primo presidente della Corte d’appello, a Grenoble. Non ha accennato di nuovo alle bambine, né all’idea di prepararsi a lasciarle o di preparare loro. Sapeva che lei stava pensando a quello, ma per il momento non aveva da dirle niente che non le avesse già detto la volta precedente, in clinica, e così è stato zitto.


C’è stato un altro momento di silenzio, poi Juliette ha detto che non voleva essere espropriata della sua malattia come era successo quando aveva sedici anni. I suoi genitori avevano usato tutto il loro amore, tutte le loro energie, tutte le loro conoscenze per proteggerla, se avessero potuto si sarebbero presi il cancro al posto suo, ma lei non voleva più che nessuno si prendesse il cancro al posto suo. Voleva viverlo pienamente, fino alla morte se era la morte che l’aspettava alla fine, come sembrava probabile, e per riuscirci contava sull’aiuto di Étienne.


Ti ricordi, le ha chiesto lui, la prima notte di malattia, la prima volta? La notte dopo il giorno in cui ti hanno detto che avevi un cancro?


No, Juliette non se la ricordava. Non ricordava di aver mai sentito le parole: Hai un cancro. Non ricordava nemmeno di aver capito, in seguito, che aveva avuto un cancro. Doveva essere successo per forza, visto che lo sapeva, ma il momento in cui era passata dal non sapere o dalla confusione a quella consapevolezza, il momento in cui era stata pronunciata quella parola le sfuggiva. Capisci cosa significa quando dico che sono stata espropriata della mia malattia?


Benissimo, ha detto Étienne. Allora la tua prima notte è questa. Ti parlerò della mia, è importante.


 


 


Ho già raccontato che il giorno in cui ho conosciuto Étienne, mentre stavo andando via dopo due ore di monologo che mi avevano lasciato con la sensazione di aver messo il cervello in una centrifuga, lui si è girato verso di me e mi ha detto: Questa storia della prima notte forse fa al caso suo, ci pensi. Ci ho pensato, e mi sono messo a scrivere questo libro. Étienne è tornato sull’argomento fin dal nostro primo colloquio a due, e io ho annotato con la massima precisione possibile il racconto di quella notte all’Institut Curie, con il topo che lo divora e la frase misteriosa che la mattina lo salva. Non ci ho capito molto, ma ho pensato che sì, era importante, che un giorno o l’altro ci saremmo tornati su e che allora forse avrei capito meglio. E infatti: tre mesi dopo, sempre nella sua cucina, seduti davanti a una tazzina di caffè, lui mi racconta di quando è andato a trovare Juliette il giorno in cui lei ha saputo di avere un cancro. Mi ripete quello che le ha detto, rifà lo stesso racconto, e io lo ascolto avidamente, ma la frase salvifica continua a sfuggirmi. Prendo appunti. L’indomani cerco nel taccuino precedente quelli che avevo preso la prima volta. Sono identici. Ritrovo, quasi parola per parola, le stesse frasi deludenti, prive della chiarezza illuminante di cui risplendeva, a suo dire, la vera frase. Penso scoraggiato: Chi non ha vissuto questa esperienza non può parlarne e anche chi l’ha vissuta ha difficoltà a trovare le parole. Sfoglio il taccuino e mi soffermo, qualche pagina dopo, su un’altra frase, copiata da Il cavaliere, la morte e il diavolo, che stavo rileggendo in quel periodo: «Com’è noto, i tumori di solito di per sé non fanno male; a fare male sono gli organi sani compressi dal tumore. Credo che ciò valga anche per la malattia psichica: ovunque sento dolore, là sono io». Ritorno sulle frasi di Étienne, su questa per esempio: «La mia malattia fa parte di me. Sono io. Quindi non posso odiarla». Si assomigliano, ma non dicono esattamente la stessa cosa. Fritz Zorn rincara la dose: «L’eredità dei miei genitori è dentro di me come un gigantesco tumore; tutto ciò che in me soffre, l’angoscia, il tormento, la disperazione, quello sono io». Étienne non dice questo, non dice che una nevrosi familiare o sociale, a forza di pesare sulla sua anima, ha preso la forma di un tumore, ma dice e ripete in tutti i modi: La mia malattia sono io. Non mi è estranea. Ebbene, quello che dice qui, o quello che in ogni caso qualcosa o qualcuno dice dentro di lui, è il contrario di quello che dice apertamente, a gran voce. Apertamente e a gran voce dice, come Susan Sontag, che in proposito ha scritto un saggio bello e degno di rispetto, Malattia come metafora: La spiegazione psichica del cancro è al tempo stesso un mito senza fondamento scientifico e un obbrobrio morale, perché colpevolizza i malati. Questa è la tesi ufficiale, la linea del partito. In sordina, invece, dice le stesse cose che dicono Fritz Zorn o Pierre Cazenave: che il cancro non era un aggressore esterno, ma una parte di lui, un nemico intimo e forse nemmeno un nemico. Il primo è un modo di pensare razionale, il secondo magico. Possiamo sostenere che diventare adulti, cosa che la psicoanalisi dovrebbe aiutare a fare, significhi abbandonare il pensiero magico per quello razionale, ma possiamo anche sostenere che non si debba abbandonare niente, che ciò che è vero su un determinato piano mentale non lo sia su un altro, e che si debbano abitare tutti i piani, dalla cantina alla soffitta. Mi sembra che Étienne faccia proprio così.


 


 


Prima di salutare Juliette, le ha detto: Non so che cosa succederà stanotte, ma certamente succederà qualcosa. Domani sarai diversa. Quando è tornato, la sera dopo alla stessa ora, lei aveva un’espressione abbattuta. Gli ha detto: Non ha funzionato. Non sono riuscita a vivere questa specie di conversione di cui parli. Non riesco a vedere la malattia come te, e in realtà non ho neanche capito bene come la vedi tu. Io, lo so che è ridicolo, la vedo lì, come qualcosa che mi sta spiando da quella poltrona. Gli ha indicato la poltrona di similpelle nera, con la struttura in tubolare metallico, su cui lui neanche quella sera si era seduto, preferendo il termosifone.


(Tre anni dopo, leggendo questa pagina, Étienne mi ha detto che quella cosa acquattata sulla poltrona, in agguato, lo aveva fatto pensare alla mia volpe sul divano di François Roustang. Io invece penso che quel giorno Juliette abbia detto il contrario di quello che dice lui: La mia malattia mi è estranea. Mi uccide, ma non sono io. E penso che lei non l’abbia mai vista in modo diverso).


Bene, hai vissuto la tua prima notte, ha detto Étienne. Stai imbastendo il tuo rapporto con la malattia. Le hai dato il suo spazio, non tutto lo spazio. Va bene così.


Juliette non sembrava convinta. Ha sospirato, come farebbe chi è stato bocciato a un esame e preferisce cambiare discorso, poi ha aggiunto con aria triste: Le mie figlie non si ricorderanno di me.


Neanche tu ti ricordi di com’era tua madre quando eri piccola. Né io della mia. Non sappiamo più che faccia avevano. Eppure abitano in noi.


 


 


Étienne ricorda queste parole che, dice, gli sono uscite di bocca in modo spontaneo. E io in modo altrettanto spontaneo gli dico: Mi hai parlato molto di tuo padre, ma non di tua madre. Parlami di lei. Mi guarda un po’ stupito, resta un attimo in silenzio, sembra che non gli venga niente da dire, poi attacca. Racconta di un’infanzia solitaria a Gerusalemme, dove il nonno dirigeva l’ospedale francese. Da bambina non andava a scuola, la madre le faceva lezione a casa. Per molto tempo il mondo per lei si era limitato a quella cerchia familiare ansiosa e ristretta. Anche il padre di Étienne è cresciuto nella più grande solitudine, il loro è stato l’incontro di due solitudini. Lei ha amato con tutto l’amore di cui era capace quell’uomo eccentrico, ribelle e infelice. Ha saputo proteggere i figli dalla depressione del marito, trasmettergli una libertà e un’attitudine alla felicità che loro due non avevano, ed Étienne l’ammira per questo. Lui era il terzo figlio. Prima della sua nascita, Jean-Pierre, il secondo, è morto a un anno per insufficienza respiratoria. Lo hanno portato in ospedale, dove è morto soffocato, tra atroci e incomprensibili sofferenze, lontano da sua madre, a cui avevano proibito di rimanere e che per il resto della sua vita non ha mai smesso di pensare a quella scena: al suo bambino morto da solo, senza di lei. Ecco, mi dice Étienne, cosa posso raccontare di mia madre.


 


 


Juliette ha chiesto ai medici dell’ospedale di Lyon-Sud di essere sinceri con lei, e loro lo sono stati. Le hanno detto che non sarebbe guarita, che sarebbe morta di cancro, che non potevano prevedere quanto tempo le rimanesse da vivere, ma in linea di massima si poteva contare in anni. Verosimilmente quegli anni sarebbero stati molto medicalizzati e la qualità della sua vita ne avrebbe risentito. Aveva un marito, tre bambine a cui voleva stare accanto il più a lungo possibile, qualunque cosa era meglio di niente, per cui ha deciso di sottoporsi docilmente alle cure. Otto giorni dopo la diagnosi ha cominciato la chemioterapia e l’Herceptin, che le somministravano una volta alla settimana in day hospital. Questo per il cancro. Per le difficoltà respiratorie purtroppo gli anticoagulanti si erano dimostrati inefficaci, i suoi polmoni erano devastati – cartone, aveva detto il radiologo scuotendo la testa con tristezza: non aveva mai visto una donna di quell’età in uno stato simile, l’unica soluzione era attaccarla all’ossigeno. E così sono state mandate a Rosier, e caricate su un carrello a mano per trasportarle dal furgoncino a casa, due enormi bombole di ossigeno, una per la camera da letto e una per il soggiorno. C’era una manopola per regolare il flusso, un lungo tubo e una specie di cannula che passava dietro le orecchie e davanti aveva due beccucci da infilare nel naso. Appena sentiva avvicinarsi una delle sue crisi respiratorie, Juliette si bardava con quell’attrezzatura e si sentiva subito meglio. C’era la vaga speranza che la necessità di quell’ausilio sarebbe stata temporanea, che le terapie antitumorali avrebbero avuto un effetto positivo anche su quel fronte, ma in realtà Juliette lo ha usato sempre più spesso, verso la fine stava quasi sempre attaccata alla bombola e si tormentava all’idea che le figlie avrebbero conservato di lei quell’immagine, che l’avrebbero ricordata come un’inferma, o come una creatura fantascientifica.


 


 


Quando Amélie le ha chiesto: Mamma, morirai? lei ha deciso di essere non meno sincera di quanto i medici lo erano stati con lei. Le ha detto: Sì, tutti moriremo un giorno, anche tu, Clara e Diane morirete, ma fra tanto tanto tempo, e anche papà. Io non morirò fra tanto tempo, ma comunque fra un po’.


Fra quanto?


I dottori non lo sanno, ma non subito. Te lo prometto, non subito. Quindi non dovete avere paura.


Amélie e Clara avevano paura, è ovvio, ma meno, credo, che se avessero raccontato loro una bugia. E, in un certo senso, quelle parole che rassicuravano le bambine, facendo sì che potessero continuare a vivere la loro vita di bambine, per il padre assolvevano alla stessa funzione. Patrice vive nel presente. Quello che i saggi di ogni epoca additano come il segreto della felicità, l’essere qui e ora, senza rimpiangere il passato né preoccuparsi per il futuro, lui lo pratica istintivamente. In teoria siamo tutti pronti ad ammettere che è inutile angustiarci per problemi che potrebbero insorgere tra cinque anni, perché non sappiamo se tra cinque anni si presenteranno nella stessa forma, né se saremo ancora qui per affrontarli. Lo ammettiamo, certo, ma ciò non toglie che ci angustiamo lo stesso. Patrice, invece, non si angustia. Questa spensieratezza va di pari passo con il candore, la fiducia, l’abbandono, tutte virtù elogiate dalle Beatitudini, e immagino che un’affermazione del genere lo lascerà perplesso, tanto è intransigente la sua cultura laica, in compenso mi stupisce che dei cristiani devoti come i suoi suoceri non si rendano conto che l’atteggiamento di fronte alla vita di questo anticlericale alla buona incarna semplicemente lo spirito del Vangelo. Come un bambino si ripete, a letto, una formula magica che lo tranquillizza, come le sue figlie, Patrice si ripeteva: Non subito. Fra tre, quattro, cinque anni. Nel corso di questi tre, quattro, cinque anni Juliette sarebbe diventata sempre più fragile, più dipendente, e il suo compito sarebbe stato occuparsi di lei, aiutarla, sostenerla, come aveva sempre fatto. Non voglio tracciare un quadro troppo idilliaco, Patrice era devastato dall’angoscia e dall’insonnia, come sarebbe successo a chiunque, ma sono convinto, perché me l’ha detto lui, che ben presto abbia messo a punto questo programma: esserci, sostenere Juliette, vivere il tempo che gli restava da vivere insieme pensando il meno possibile al momento in cui sarebbe finito, e che il fatto di seguire questo programma li abbia aiutati immensamente tutti, lui, Juliette e le bambine.


 


 


Alla notizia della malattia di Juliette, la madre di Patrice ha tirato fuori dal cilindro uno scienziato eterodosso, un certo Beljanski, i cui farmaci a base di piante avrebbero guarito – non soltanto alleviato, guarito – le sofferenze dei malati di cancro e di AIDS. Scosso dalle testimonianze che lei gli citava, credendoci solo in parte, o forse meno che in parte, ma non volendo scartare a priori nessuna possibilità, Patrice ha tentato di convincere Juliette a prendere, insieme alle terapie chimiche, queste pillole che un medico di fiducia della sua famiglia poteva procurarle. Da degna figlia dei suoi genitori Juliette ha risposto che se fosse esistita una pillola miracolosa contro il cancro e l’AIDS, lo si sarebbe saputo. Da degno figlio dei suoi, Patrice le ha spiegato che, se non se ne sapeva molto, era perché la scoperta di Beljanski minacciava gli interessi delle case farmaceutiche, che facevano di tutto per insabbiarla. Discorsi del genere esasperavano Juliette. Erano spesso motivo di litigi tra loro. Lei aborriva le teorie complottiste, alle quali lui ammette senza reticenze di dare un certo credito. Patrice ha battuto in ritirata, ma non per questo si è arreso: anche se non ci credeva, le chiedeva di provare per lui: perché non dovesse rimproverarsi, se fosse morta, di aver trascurato una possibilità anche minima di salvarla. Lei ha sospirato: Se è per farti sentire meglio, allora va bene. Il medico di fiducia della famiglia è arrivato con le capsule e le ha spiegato il protocollo, a cui lei si è sottoposta con grande riluttanza, anche perché non osava confessarlo ai medici che la seguivano. Quando alla fine lo ha fatto, nel timore che la terapia di Beljanski interferisse con l’Herceptin, le è stato detto solo, con un’alzata di spalle, che si trattava di un integratore alimentare e che, se non le faceva bene, di certo non le avrebbe fatto neanche male. Dopo poche settimane ha smesso di prenderlo, e Patrice non ha avuto il coraggio di insistere.


 


 


Era sfinita, dormiva male e di giorno difficilmente passava un’ora senza attaccarsi all’ossigeno. Non mancava all’appello nessuna delle piccole seccature che si accompagnano alle grandi malattie: un giorno un’allergia al port, quella specie di piccolo serbatoio che si mette sottopelle per facilitare l’inserimento dell’ago, un altro una trombosi che le ha fatto diventare il braccio viola fino alla spalla, per cui hanno dovuto di nuovo ricoverarla d’urgenza. Ciononostante, secondo il parere dei medici, sopportava bene la chemioterapia: meglio di quanto avesse temuto e di quanto anche Étienne, ricordando la propria esperienza, avesse temuto per lei. Era incoraggiante. Patrice si concedeva di pensare: E se funzionasse, dopotutto? Se i medici, per onestà, per non dare false speranze, fossero stati troppo pessimisti? Se guarisse? O se almeno avesse una lunga fase di remissione, senza troppe terapie, senza troppe sofferenze? Con l’arrivo della bella stagione potremmo fare delle cose insieme: passeggiate nel bosco, picnic.


A febbraio c’è stato un vago miglioramento, e per questo Juliette ha accettato che io, Hélène e Rodrigue andassimo a trovarla, con la parrucca in valigia. Juliette, che aveva sempre portato lunghi i suoi bei capelli neri e folti, se li era fatti tagliare, ma non aveva ancora cominciato a perderli e ad avere davvero, come diceva lei, una faccia da malata di cancro. Qualche giorno dopo la nostra visita, Patrice glieli ha rasati. In seguito lo ha fatto una volta alla settimana, passandole con grande attenzione la macchinetta sul cranio per evitare che risultasse ispido. Per loro, dice, era un momento molto intimo, molto dolce. Aspettavano che le figlie non fossero in casa, gli piaceva avere un po’ di tempo davanti a loro, prolungavano l’operazione. Io penso: come una coppia che s’incontra di pomeriggio per fare l’amore.


A differenza di Étienne, il quale, senza essere un libertino, ama parlare di sesso al punto da considerarlo un requisito indispensabile di ogni conversazione degna di questo nome, Patrice è piuttosto pudico e mi ha sorpreso, sfogliando le tavole di uno dei suoi fumetti pieni di esili principesse e di prodi cavalieri, trovarci un angelo munito di un uccello piuttosto appariscente. Ciò detto, quando glielo chiedo, mi risponde senza imbarazzo che durante la gravidanza e dopo la nascita di Diane il desiderio tra loro si era sopito, che era riemerso lentamente in autunno, cosa di cui sono stati felici, ma che in seguito lei ha cominciato a sentirsi sempre più stanca: ci sono stati i problemi respiratori, poi l’embolia, poi, insomma... Hanno rifatto l’amore solo una volta, subito dopo aver saputo del cancro. Erano tutti e due maldestri, sfasati. Lui aveva paura di farle male. Non sapeva che sarebbe stata l’ultima volta. A parte il sesso in senso stretto, avevano avuto sin dall’inizio un rapporto affettivo totalmente fusionale. Si toccavano molto, dormivano rannicchiati l’uno contro l’altro a cucchiaio. Quando nel sonno uno dei due si girava, lo faceva anche l’altro, lei si spostava le gambe con le mani e si ritrovavano nella stessa posizione ma al contrario: Patrice si addormentava incollato alla schiena di lei e quando si svegliava era lei, da dietro, a stringersi alla sua schiena, con le ginocchia piegate nell’incavo di quelle di lui. Con la malattia questo era diventato impossibile: c’era la bombola di ossigeno, Juliette doveva dormire sollevata, la camera da letto sembrava una stanza di ospedale. Sentivano la mancanza di quella intimità notturna che nel corso della loro vita comune non li aveva mai abbandonati, ma continuavano a tenersi per mano, a cercarsi nel buio e, anche se la superficie di contatto era diminuita, Patrice non ricorda una sola notte, fino all’ultima, in cui un pezzetto di pelle dell’uno non abbia toccato un pezzetto di pelle dell’altro.



A fine febbraio c’è stato un primo controllo, e hanno dovuto ammettere che l’esito era deludente. Non c’erano nuove metastasi, il cancro non progrediva, ma nemmeno regrediva. Questo è il problema nei pazienti giovani, ha detto un medico: le cellule proliferano più rapidamente. In tutta onestà, speravano di ottenere di più dalla terapia, che hanno deciso di continuare senza molta convinzione e un po’, così ha pensato a Juliette, perché non sapevano che altro fare.


Sulla strada del ritorno, ha detto a Patrice che era tempo di smetterla di fare lo struzzo. Ora doveva prepararsi.Con chi le stava intorno Juliette non ha fatto mistero della malattia. Già dopo l’embolia polmonare aveva detto ad Anne-Cécile, la vicina di casa: Senti, mi sono molto spaventata, ho pensato che fosse una cosa grave, pare di no, ma se invece lo fosse sappi che conto su di te per le bambine. Quando, un mese dopo, ha avuto la diagnosi, ha informato gli amici nel suo modo deciso e diretto: Ho il cancro, non sono sicura di farcela, avrò bisogno di voi. Lei e Patrice formavano con altre due coppie del posto, Philippe e Anne-Cécile, Christine e Laurent, un piccolo gruppo ben affiatato. Avevano figli della stessa età, lo stesso stile di vita. Venivano tutti da fuori, nessuno era di Rosier, del resto a Rosier pochissime persone sono di Rosier, e forse è per questo che i nuovi arrivati si integrano tanto facilmente. La loro comunità mi ricordava quella che avevo conosciuto nella regione di Gex e, quando andavo a prendere il caffè in quelle case nuove, arredate con lo stesso stile allegro e senza pretese, con, appiccicato sulle cassette postali, un adesivo buffo, disegnato da Patrice, per rifiutare le pubblicità, mi sembrava di essere tornato ai tempi in cui raccoglievo le testimonianze degli amici di Florence e Jean-Claude Romand. Organizzavano grigliate in giardino, si tenevano i bambini a vicenda, si scambiavano DVD: film d’azione per i ragazzi e commedie romantiche per le ragazze, che Patrice e Juliette guardavano sullo schermo del computer perché, unici in tutto il paese, non avevano la televisione. Nella loro cerchia questa scelta militante, retaggio della famiglia di lui, era oggetto di battute ricorrenti, come pure la tendenza di Patrice a prendere tutto alla lettera. Lui e Philippe formavano un duo collaudato, il finto cinico e l’idealista sognatore, e Patrice riconosce sorridendo che, sotto lo sguardo affettuoso delle mogli, ci marciava un po’ a fare la parte di Rantanplan, «il cane più stupido del West».


Qualche settimana prima che Juliette parlasse del suo cancro, era stata Anne-Cécile a fare un grande annuncio: era incinta. Oggi ricorda come una cosa veramente atroce il progredire parallelo della sua gravidanza e della malattia della vicina. Avevano entrambe la nausea, ma nel caso di Juliette era a causa della chemioterapia. Una si portava dentro la vita, l’altra la morte. Per accogliere il loro quarto figlio, Anne-Cécile e Philippe avevano intrapreso grandi lavori in casa, e anche Patrice e Juliette avevano in mente di farne alcuni, di abbattere dei tramezzi, di ritinteggiare e di trasformare il seminterrato in uno studio vero e proprio. Ne avevano discusso tutti e quattro insieme, aprendo sul tavolo progetti, cataloghi, mazzette di colori, e ora per loro era un discorso chiuso. Anne-Cécile e Philippe si vergognavano di essere felici, di crescere e prosperare mentre sui loro amici, la cui vita fino a quel momento era stata così simile alla loro, si era abbattuta la sciagura. Anne-Cécile pensava che al posto di Juliette non sarebbe riuscita a non avercela con lei, e per poco non è andata a finire come di solito finisce in questi casi: l’imbarazzo, i modi via via più compassati, le visite sempre più rare. Ma si è resa conto che Juliette non ce l’aveva con lei per la sua felicità, proprio per niente, che si interessava sinceramente alla sua gravidanza, ai loro progetti per il futuro, che lei poteva parlargliene senza che sembrassero cose irrilevanti o fuori posto, e che per essere d’aiuto non era necessario avere un’aria triste.


 


 


Una sera di marzo Patrice e Juliette sono passati da loro sul tardi, senza preavviso, tornando da una cena al ristorante cinese di Vienne. Jacques e Marie-Aude, che erano andati a trovarli per qualche giorno, si occupavano delle bambine e avevano insistito perché uscissero da soli. Si sono seduti tutti e quattro in salotto, hanno riacceso il camino, Anne-Cécile ha proposto di prendere una tisana e Philippe un whisky. Juliette ha aspettato che tutti si fossero messi comodi per dire che l’ultimo controllo era andato male, che a cena lei e Patrice avevano parlato di due cose importanti e che voleva parlarne anche con loro. La prima riguardava il suo funerale. A queste parole Anne-Cécile e Philippe hanno avuto il tatto di non protestare, e sono sicuro che Juliette gliene è stata grata. Patrice non è credente, ha detto lei, e io non lo so, è complicato, ma voi sì. Siete gli unici amici credenti che abbiamo e mi piace il vostro modo di vivere la fede. Ci ho pensato su, preferisco una cerimonia religiosa: è meno lugubre, permette alle persone di stare insieme, e poi altrimenti sarebbe troppo dura per i miei genitori, non posso fargli questo. Insomma, vorrei che ve ne occupaste voi. Va bene? Va bene, ha risposto Anne-Cécile con una voce il più possibile neutra, e Philippe con il suo tipico humor britannico ha aggiunto: Faremo come se fosse il nostro.


Bene, la seconda cosa ora. So che se muoio Diane non avrà ricordi coscienti di me. Amélie sì, Clara un po’, ma lei no, e non riesco proprio ad accettarlo. Patrice naturalmente fa delle foto, ma tu, Philippe, sei veramente bravo. Vorrei che d’ora in poi mi fotografassi il più possibile. Se mi fai molte foto, magari tra le tante qualcuna non troppo brutta ci sarà.


Philippe ha detto di sì e lo ha fatto. Ma la cosa terribile, ricorda, era che anche solo prendere la macchina fotografica e puntarla su di lei ha iniziato a voler dire: Stai per morire.


 


 


Bisognava che tutto fosse a posto, i fascicoli in ordine, come alla vigilia delle ferie estive, e Juliette temeva di non avere abbastanza tempo. Non sapeva esattamente quanto gliene restasse, ma in ogni caso poco. Ha ripartito le varie incombenze tra gli amici, chiesto a ognuno di loro di fare qualcosa per lei, dopodiché quel che era detto era detto, non ci ritornava più su. Philippe si sarebbe occupato delle foto e della messa. Anne-Cécile, che è logopedista, avrebbe aiutato Clara a correggere un piccolo difetto di pronuncia, e Christine, che insegna alle medie, si sarebbe incaricata di indirizzarle negli studi. Laurent, responsabile delle risorse umane in un’impresa, è stato promosso a consulente per le questioni economiche – indennità di morte, mutuo della casa, previdenza sociale di Patrice e delle bambine –, che la preoccupavano moltissimo. Ha preso in esame con lui le due ipotesi: decesso a breve termine o lunga malattia. La seconda la impensieriva quasi di più, dal punto di vista economico, perché i congedi per una lunga malattia comportano una diminuzione dello stipendio e già così il budget familiare bastava appena. Una soluzione sarebbe stata barare, riprendere il lavoro per una settimana per poi sospendere di nuovo, un’altra chiedere un part-time per malattia, ma dubitava di averne la forza. In caso di decesso, il mutuo della casa sarebbe stato rimborsato dall’assicurazione, e il consulente alla Cassa di previdenza forense, con cui lei e Laurent sono andati a parlare insieme, ha detto che Patrice sarebbe stato coperto per due anni. Ma dopo?


Juliette cercava di preparare anche lui alla vita che lo aspettava senza di lei. All’inizio Patrice rifiutava quei discorsi, li trovava morbosi, ma poi si è reso conto che facevano bene a tutti e due e ha cominciato quasi ad anticiparli con piacere: allentavano la tensione, Juliette dopo era più tranquilla. C’era una specie di dolce intimità coniugale, che a volte gli dava una sensazione di totale irrealtà, nel sedersi a tavola, alla luce della lampada, a parlare di quelle cose. Nella loro coppia era lei che usciva per andare a lavorare e lui che si occupava della gestione della casa, per cui non aveva bisogno di direttive per l’organizzazione domestica, ma lei ci teneva a passare tutto in rassegna, come un proprietario un po’ maniaco che spiega al futuro inquilino dove va messa ogni cosa, in quali giorni bisogna portare fuori la spazzatura, quando andrà rinnovato il contratto di manutenzione della caldaia. Il momento più doloroso è stato quello in cui ha affrontato la questione delle vacanze estive. Le aveva già organizzate, facendo in modo che le figlie trascorressero qualche settimana con ciascuna delle due famiglie. Pensava che per Patrice sarebbe stato un bene avere un po’ di tempo per sé, per riposarsi: sarebbe stata un’estate difficile per lui. Quando ha capito che si riferiva all’estate imminente, Patrice si è sentito mancare, e lei se n’è accorta. Gli ha preso la mano, gli ha detto che ne parlava solo nel caso in cui, ma sapevano entrambi che la realtà era un’altra.


Sentendo Patrice raccontarmi queste cose, ho ripensato a quell’estate, che ormai era già alle nostre spalle. Avevamo ospitato Clara e Amélie per una settimana, come aveva programmato Juliette, e fatto del nostro meglio per distrarle. Clara non si staccava un attimo da Hélène. Su un quaderno rilegato, con la sua bella scrittura precisa, Amélie ha iniziato un romanzo la cui protagonista era ovviamente una principessa e di cui ricordo la prima frase: «C’era una volta una madre che aveva tre figlie». E tutt’a un tratto quelle scene, che per me erano dei ricordi, le ho viste come delle anticipazioni. Qualche mese prima Juliette aveva immaginato quelle passeggiate in bicicletta, quei bagni, quelle coccole intrise di nostalgia, pensando: Io non ci sarò più. Sarà la prima estate delle mie figlie senza di me.


 


 


Durante il mio stage al tribunale di istanza la signora Dupraz, la cancelliera con cui Juliette andava più d’accordo, mi ha parlato della tutela dei minori, di cui si occupavano insieme ogni martedì. Quando in una famiglia uno dei genitori muore lasciando un’eredità ai figli minorenni, il giudice tutelare ha il compito di salvaguardare i loro interessi e quindi di controllare l’uso che il genitore superstite fa del capitale. Un paio di mesi dopo la morte del coniuge, va a spiegargli queste cose, che alcuni prendono male considerandole un’ingerenza nella vita familiare. Il fatto è che il vedovo o la vedova non ha il diritto di prelevare neanche un centesimo dal conto del figlio senza l’autorizzazione del giudice, e le banche sono severissime su questo punto perché, se non vigilano adeguatamente, possono essere condannate a rimborsare la somma. La maggior parte delle richieste non pone nessun problema e Juliette aveva rapidamente preso l’abitudine di firmare interi fasci di autorizzazioni a giugno per le vacanze e a dicembre per i regali di Natale. Ma ci sono casi in cui il confine tra l’interesse del figlio e quello dell’adulto non è chiaro. Si può autorizzare il rifacimento della copertura di un tetto perché per il bambino è meglio vivere in una casa in cui non piova. Ma poiché per lui è meglio anche avere un padre che non sia perseguito dagli ufficiali giudiziari, bisogna perciò dedurne che il suo capitale può essere usato per saldare i debiti paterni? Sono decisioni che rientrano nella discrezionalità del giudice e ci vuole molto tatto per rendere tale arbitrato il meno invadente possibile. Juliette, mi ha detto la signora Dupraz, era bravissima nell’esercizio di questa giustizia molto umana con la quale ora sta avendo a che fare Patrice. E pensando a lui la signora Dupraz si è ricordata, con commozione, di un giovane padre che avevano ricevuto. Aveva perso la moglie da poco, aveva due bambini piccoli, e il suo modo di parlare di lei e di loro, la nobiltà e la semplicità del suo dolore le avevano turbate. E poi era bello, così bello che era diventato una battuta fissa fra loro dire: Senti, quello lì, lo dovremmo convocare più spesso. Mi chiedo se Juliette, prima di morire, abbia ripensato a questo episodio, a quel giovane vedovo tanto bello, dolce, inerme. Mi chiedo se abbia immaginato il colloquio che Patrice avrebbe avuto nell’ufficio del giudice tutelare, quello stesso ufficio che un tempo era stato il suo, e l’impressione che avrebbe fatto alla persona che sarebbe stata lì, al suo posto, due o tre mesi dopo la sua morte. Chissà.


 


 


Philippe, che due o tre volte alla settimana va a correre la mattina presto, ha convinto Patrice ad accompagnarlo: gli avrebbe liberato la mente. Correvano sulle strade di campagna intorno a Rosier, a brevi falcate, sia perché Patrice non era allenato, sia per poter parlare. Patrice confidava a Philippe quello che non osava dire a Juliette. Si rimproverava di non darle un sostegno maggiore, di sfuggirla a volte. Era dura anche stare sempre in casa insieme, lei spiaggiata sul divano del salotto con la bombola di ossigeno, a cercare di leggere qualcosa, a dormicchiare, a soffrire senza del resto reclamare la presenza di lui, che, rinchiuso nel seminterrato, nella stanza adibita a studio, faceva vagamente finta di lavorare ma in realtà si stordiva con i videogiochi. Qualche volta Martin, il figlio di Laurent e Christine, che aveva tredici anni, andava a trovarlo e passavano ore a fare decollare aerei o a far fuori schiere di nemici a colpi di bazooka. A Juliette non piaceva che perdesse tempo così, ma si rendeva conto che aveva bisogno di quella sorta di anestesia. Appena smetteva, nella sua testa la giostra si rimetteva a girare: paura, pietà, vergogna, amore senza limiti, e poi domande senza risposta. Non più: Morirà? ma: Quando morirà? Si poteva fare qualcosa per evitarlo? Se avessero scoperto il tumore tempestivamente, sarebbe cambiato qualcosa? Il primo cancro aveva forse a che vedere con Černobyl’, e il secondo con la linea elettrica ad alta tensione che si trovava a cinquanta metri dalla loro ex casa? Sulla rivista «Sortir du nucléaire», a cui era abbonato, aveva letto uno studio molto allarmante al riguardo. Quel genere di elucubrazioni, come le chiamano loro, faceva letteralmente impazzire i genitori di Juliette, Patrice aveva imparato a non aprire bocca sull’argomento, ma ci pensava lo stesso, e pensare lo logorava.


Ascoltandolo, Philippe si preoccupava. Temeva che non avrebbe retto il colpo, che alla morte di Juliette non ce l’avrebbe fatta. Lui, Philippe, pensa che non lo reggerebbe, un colpo simile: se Anne-Cécile morisse, gli crollerebbe il mondo addosso. Non si sentirebbe solo infelice, ma completamente perso. Non saprebbe cavarsela. E per questo oggi Philippe è ancora più pieno di ammirazione nel vedere che invece Patrice regge il colpo, che ce la fa, che se la cava. A chi si meraviglia, Patrice risponde: Prendo la vita come viene. Ho tre figlie da crescere, e le cresco. È rarissimo vederlo depresso. Resiste. Tanto di cappello, dice Philippe.


 


 


Al di là dei compiti che assegnava a tutti, Juliette non si è confidata molto con gli amici, se per confidarsi intendiamo dire cose che non serve a niente dire, cose per cui l’altro non può fare niente. Lei lo avrebbe definito lamentarsi, e non voleva lamentarsi. Quando di pomeriggio Anne-Cécile o Christine passavano a prendere una tazza di tè e a fare due chiacchiere, lei diceva che le giornate trascorrevano lentamente, tra la poltrona e il divano, in uno stato di perenne nausea sonnolenta, che non aveva la forza di leggere, a malapena di guardare un film di tanto in tanto, che la sua vita era sempre più limitata, e non era divertente, ma non si dilungava più di tanto, a che pro? La faceva soffrire, e lo diceva, non essere in grado di occuparsi di più delle figlie. La spossatezza era tale che non riusciva nemmeno più a leggergli delle storie, figuriamoci andare a vedere Amélie che ballava al teatro di Vienne. Avrebbe dovuto approfittare di quei momenti che erano forse gli ultimi della loro vita insieme, ma la sera aveva un unico desiderio, che la smettessero di fare confusione, che Patrice le portasse a letto e che si addormentassero. Le veniva da piangere. E su quel punto, lei che non ripeteva mai le istruzioni, ci ritornava di continuo: Parlerai di me alle bambine, vero? Gli dirai che ho lottato? Che ho fatto del mio meglio per non lasciarle?


Si preoccupava anche per i genitori. Se fosse stato per loro, si sarebbero trasferiti a Rosier per starle vicino, per poter almeno, nell’impotenza tremenda in cui si trovavano, essere lì, accanto a lei, ma dopo qualche giorno Juliette preferiva che andassero via. Nonostante i loro sforzi, la feriva il loro sguardo su Patrice, e la umiliava il disagio di Patrice, e poi lì erano fuori posto. La loro presenza l’avrebbe fatta diventare di nuovo la bambina che non voleva più essere, quella bambina che già una volta, quindici anni prima, avevano protetto dal cancro. Quando diceva «la mia famiglia» pensava alla famiglia che aveva formato, non a quella in cui era nata. Sentendo il tempo e le energie diminuire, Juliette sceglieva della sua vita quello che aveva scelto, non quello che aveva ereditato. Ma ai genitori voleva bene. Sapeva quanto li faceva soffrire essere tenuti lontani dalla sua morte, avrebbe voluto aiutare anche loro ad affrontarla, ma non sapeva come, e di certo non potevano saperlo al posto suo Christine o Anne-Cécile.


Le amiche avrebbero voluto, come dicevano loro, parlare, ma ogni volta che accennavano all’angoscia che sicuramente la attanagliava di fronte alla malattia, lei le zittiva, dicendo: No, tranquille. Per queste cose c’è Étienne.


Un giorno ho detto a Étienne: Non conoscevo Juliette, questo lutto non è il mio, non c’è nulla che mi autorizzi a scrivere di lei. Mi ha risposto: Invece è appunto questo che ti autorizza a farlo, e per me in un certo senso è lo stesso. La sua malattia non era la mia. Quando mi ha detto della ricaduta, ho pensato: Fiuuu! è toccato a lei e non a me, e forse proprio perché l’ho pensato, perché non mi sono vergognato di pensarlo, sono riuscito a darle un po’ di sollievo. A un certo punto, per essere più partecipe, mi sono sforzato di ricordarmi della seconda volta che ho avuto il cancro, della paura della morte, di quella solitudine terrificante – e non ha funzionato. Potevo pensarci, naturalmente, ma non provarlo. Mi sono detto: Meglio così. Era lei che stava per morire, non io. La sua morte mi sconvolgeva come poche cose mi hanno sconvolto nella vita, ma non mi sopraffaceva. Ero davanti a lei, accanto a lei, ma non al posto suo.


 


 


Era sempre lei a telefonare, mai lui. Étienne non le diceva niente di confortante, ma lei poteva dirgli tutto, senza temere di farlo soffrire. «Tutto» vuol dire l’«orrore». L’orrore morale di immaginare il mondo senza di te, di sapere che non vedrai crescere le tue figlie, ma anche l’orrore fisico, che a poco a poco prendeva il sopravvento. L’orrore del corpo che si ribella perché sente che sarà annientato. L’orrore di venire a sapere a ogni controllo qualcosa di nuovo che cambia le carte in tavola, sempre in peggio: ti sforzi di pensare che non è possibile avere solo brutte notizie, e invece sì, è possibile. L’orrore delle terapie, di soffrire ininterrottamente e per niente, senza speranza di guarire, solo per metterci più tempo a crepare. Ad aprile lei gli ha detto: Ne ho abbastanza, è troppo per me, io mollo. Lui ha risposto: Ne hai tutto il diritto. Hai fatto quello che hai potuto, nessuno può chiederti di andare oltre. Molla, se vuoi.


L’autorizzazione di Étienne le ha fatto bene. Se l’era tenuta in serbo come farebbe con una fiala di cianuro chi rischia la tortura, e ha deciso di continuare ancora un po’. Si aspettava di provare sollievo il giorno in cui i medici le avrebbero detto: Senta, non c’è più niente da fare, d’ora in poi la lasceremo tranquilla, e si è sorpresa di sentirsi così abbattuta quando, a maggio, quel giorno è arrivato. Le hanno annunciato che avrebbero sospeso l’Herceptin, che le provocava dei problemi cardiaci senza darle in cambio alcun giovamento. Non glielo avevano detto con la sincerità che aveva immaginato, ma in pratica quella decisione equivaleva ad alzare bandiera bianca e Juliette, che non pensava già più alla sua vita in termini di anni ma di mesi, ha capito che ormai era questione di settimane, forse di giorni.

Subito dopo aver sospeso l’Herceptin, ha avuto un violento diverbio con Patrice a proposito del referendum sulla Costituzione europea. Patrice militava per il «no» al punto da trascurare i videogiochi per i forum su Internet. Era la sua nuova droga. Risaliva dal seminterrato con in mano certi documenti trovati sul sito di Attac, che aveva stampato e sottolineato con l’evidenziatore. Si poteva e si doveva resistere, sosteneva, al dominio incontrastato del liberismo, che era perverso presentare come una fatalità. Juliette lo lasciava parlare senza esprimere la propria opinione e lui si è ricordato del suo silenzio all’epoca della guerra del Golfo, quando si erano appena conosciuti. Patrice era contro l’intervento, denunciava la manipolazione mediatica e, visto che lei stava zitta, pensava che fosse d’accordo – fino a quando, messa con le spalle al muro, aveva ammesso che non era così. Benché non fosse apertamente a favore, non era contraria quanto lui, o comunque non era così sicura di quello che pensava. Patrice è caduto dalle nuvole. Perché non dirlo prima? Perché non discuterne? Perché sapeva benissimo che lui non avrebbe cambiato idea e non vedeva il motivo di litigare per niente, ecco tutto. La stessa scena si è ripetuta nel maggio del 2005, ognuno se la prendeva con la famiglia dell’altro e Patrice, non senza ragione, anche con l’influenza di Étienne. La cosa è degenerata al punto che Juliette gli ha augurato di incontrare, dopo la sua morte, una graziosa no-global, simpatica e rilassata, al posto di una moglie rompipalle, malata di cancro e di destra. Alla fine gli ha dato procura per votare «sì», cosa che Patrice ha fatto una settimana prima che morisse.


Il motivo per cui, più commosso che rammaricato, Patrice mi ha raccontato di quest’ultimo screzio è che gli avevo chiesto come immaginava la sua futura vita sentimentale. La domanda non lo scandalizzava, ma gli dava da pensare. Magari aveva ragione Juliette, magari si sarebbe rifatto una vita con una no-global simpatica e rilassata, perché no? Niente di più facile. Ma una delle cose che gli erano piaciute di Juliette era proprio che lei non fosse il tipo di donna con cui era naturale che stesse uno come lui. Lo aveva scombussolato, fatto uscire dai sentieri battuti. Juliette era la diversità, l’inatteso, il miracolo, la fortuna che capita una volta sola nella vita, e non a tutti. Perciò non mi posso lamentare, conclude Patrice: io questa fortuna l’ho avuta.


 


 


Mercoledì 9 giugno ha preso al videonoleggio di Vienne il film di Agnès Jaoui Così fan tutti. Dopo aver messo a letto le figlie, lo hanno guardato insieme sul divano del salotto, con il computer sistemato sul poggiapiedi davanti a loro. Juliette aveva la maschera per l’ossigeno, ma non si sentiva troppo male. Si è addormentata prima della fine, sulla spalla di Patrice, come ormai capitava quasi sempre quando guardavano un film o quando lui le leggeva qualcosa ad alta voce. Lui è rimasto immobile, nel timore di svegliarla. Per quei momenti di quiete, in cui la sentiva respirare e aveva l’impressione di proteggerla con la sua sola presenza, sarebbe stato pronto a far durare ancora a lungo la vita terribile che stavano facendo. Anche per sempre. Con mille precauzioni l’ha portata in camera, l’ha messa a letto. Poi si è addormentato tenendole la mano. Alle quattro del mattino Juliette è stata colta da un accesso di tosse improvviso, irrefrenabile. Non riusciva più a respirare, l’ossigeno ad alti flussi non le dava sollievo, sembrava che stesse affogando. Come era successo a dicembre, Patrice ha chiamato prima il pronto soccorso e poi Christine perché andasse lì a badare alle bambine. Mentre aspettavano l’ambulanza, Christine voleva entrare in camera, ma Juliette, attraverso la porta, ha detto no, no, e oggi Christine rimpiange di non essersi allontanata quando gli infermieri l’hanno portata via: nel ritrovarsi faccia a faccia con Juliette, ritiene di non aver rispettato la sua volontà, che era di non farsi vedere in quello stato. Ma ha detto a Patrice che si sarebbe occupata di tutto, che lui poteva restare in ospedale per l’intera giornata e anche la notte, cosa che ha fatto. In rianimazione il livello di ossigeno nel sangue è tornato normale, ma a Juliette continuava a mancare il respiro. Le hanno somministrato la morfina, che le ha dato un po’ di sollievo. Hanno drenato inutilmente due litri di liquido accumulato nella pleura del polmone destro. Il giovedì è trascorso così. Il venerdì mattina il primario del reparto di oncologia è entrato nella stanza e ha annunciato che non potevano fare più niente, che il corpo era allo stremo delle forze e che sarebbe morta nel giro di qualche giorno, forse di qualche ora. Juliette ha risposto che era pronta. Ha fatto chiamare i genitori, il fratello e le sorelle: se fossero arrivati nel pomeriggio o in serata, avrebbe potuto dirgli addio. Quanto alle bambine, Juliette non voleva compromettere la partecipazione delle grandi allo spettacolo della scuola e ha chiesto al medico se poteva fare in modo che di lì a ventiquattr’ore fosse in condizione di salutarle. Lui le ha garantito di sì, le avrebbero dosato la morfina in modo che non fosse né troppo sofferente né troppo stordita dalla sedazione. Risolte queste faccende, Juliette ha riunito nella sua stanza l’équipe medica che la curava da febbraio e li ha ringraziati uno per uno. Non ce l’aveva con loro perché le terapie non erano servite, era sicura che avevano fatto tutto il possibile, e nel modo più umano possibile. Poi ha detto a Patrice di andare a casa a occuparsi delle bambine e a parlare con loro. Durante la sua assenza, avrebbe visto Étienne.


 


 


Étienne: Ero il suo fratello maggiore in materia di diritto, e lo ero anche in materia di cancro. Facevamo lo stesso percorso ed era chiaro a entrambi che io la precedevo. Ma quel venerdì pomeriggio era lei la sorella maggiore. Mi ha detto: Étienne, tu sei fra le poche persone che hanno dato un senso alla mia vita, grazie alle quali l’ho vissuta veramente. Penso che, nonostante la malattia, sia stata una bella vita. La guardo e ne sono contenta. E io, continua Étienne, io che parlo sempre, non ho saputo che cosa rispondere. Era arrivata in un luogo dove non potevo più seguirla. Allora ho detto: La lettera, l’hai scritta? Era una cosa di cui avevamo parlato molto, la lettera che voleva lasciare alle figlie. Ne aveva abbozzate e buttate via diverse, ogni volta che ci provava si sentiva sopraffatta, perché c’era troppo da dire, oppure quasi niente: Vi voglio bene, vi ho voluto bene, siate felici. Ha risposto tristemente: No, non l’ho scritta, e le ho proposto di farlo. Qui? Adesso? Sì, adesso, e quando sennò? Per cominciare, cosa vorresti dire di Patrice alle bambine? Faceva sempre più fatica a parlare, ma ha risposto senza pensarci: Era il mio punto d’appoggio. Mi sosteneva. Poi, qualche secondo dopo: È il padre che ho scelto per voi. Anche voi, nella vita, scegliete. Potete chiedergli tutto, vi darà tutto quello che gli chiederete finché siete piccole e, quando diventerete grandi, sceglierete da voi. Ci ha pensato un po’ su, poi ha detto: È tutto.


Non ho preso appunti, quando sono tornato a casa ho scritto la lettera in due minuti: era fatto. L’ho data a sua sorella Cécile, che gliel’ha letta e mi ha detto che lei ha fatto un cenno con la testa per dire che andava bene. Ma prima di uscire dalla stanza mi sono seduto sulla sponda del letto e le ho preso la mano. L’ho tenuta per qualche momento nella mia. Le avevo stretto la mano quando era entrata nel mio ufficio, sei anni prima, ma poi, fino a quel venerdì pomeriggio, non ci eravamo mai più sfiorati.


 


 


A casa Patrice ha trovato le bambine e sua madre, che era arrivata da poco e che aveva dato il cambio a Christine. Le bambine non erano troppo spaventate, i ricoveri di Juliette ormai facevano parte della loro vita quotidiana. Volevano solo sapere se ci sarebbe stata alla festa della scuola. Patrice ha detto di no, non ci sarebbe stata, e loro hanno protestato: glielo aveva promesso. Allora Patrice ha detto che non sarebbe più tornata a casa, che l’indomani, dopo la festa, sarebbero andati tutti insieme a salutarla in ospedale e che quella sarebbe stata l’ultima volta, perché stava per morire. Teneva Diane in braccio e si rivolgeva a lei sebbene avesse solo quindici mesi, non meno che alle due più grandi. Ricorda che Amélie e Clara hanno pianto, gridato, che la cosa è andata avanti per un’ora, dopodiché hanno impazzato fino al momento di andare a letto, tanto erano sovreccitate. Stranamente, sono riusciti tutti ad addormentarsi. L’indomani mattina Patrice è andato in ospedale prestissimo, in modo da essere di ritorno per l’inizio dello spettacolo. Durante la notte Juliette si era aggravata. Era molto agitata: di tanto in tanto rovesciava gli occhi, le poche forze che le rimanevano erano concentrate nell’atto della respirazione, una respirazione rauca, dolorosa, che le scuoteva tutto il corpo. Quando ha sentito che lui era lì, gli si è aggrappata al braccio e ha detto con una voce sgradevole, piuttosto forte, dondolandosi avanti e indietro: Su, ormai è finita! Su, ormai è finita! Patrice ha provato a parlarle, con molta dolcezza, a dirle che le bambine sarebbero venute dopo la festa, ma lei sembrava non capire e ripeteva: Su, ormai è finita! Patrice era costernato, sia perché le bambine rischiavano di vederla in quelle condizioni, sia perché quando Juliette gli aveva detto di non aver paura della morte le aveva creduto. Quello che trovava insopportabile, gli assicurava, era dover lasciare loro quattro, ma la morte non la spaventava più: era preparata. Quello stoicismo le si addiceva, era quella l’immagine che avrebbe voluto lasciare di sé, mentre adesso Patrice vedeva un corpo sfiancato dal dolore, in balìa di qualcosa che assomigliava al panico. Erano finiti i ragionamenti lucidi, la serenità. Juliette perdeva il controllo. Non era più lei. Patrice è andato a parlare con le infermiere, che gli hanno detto che era l’effetto dell’Atarax ma che, come avevano promesso, avrebbero fatto di tutto perché fosse il più possibile calma e lucida all’arrivo delle figlie. Di sicuro hanno fatto di tutto, ma ha funzionato solo in parte. Quando Patrice, accompagnato da Cécile, le ha portato le bambine, Juliette era a malapena cosciente. Se le parlavano da molto vicino, lo sguardo si accendeva per un secondo, ma poi ricadeva nel vuoto. Un paio di volte ha fatto un vago cenno con la testa, che poteva passare per un sì. Amélie e Clara avevano fatto dei disegni per lei, portato la videocassetta dello spettacolo ma, pur sapendo quanto ci tenessero e quanto fino al giorno prima ci avesse tenuto anche Juliette, Patrice non se l’è sentita di collegare la videocamera al televisore della stanza come avevano programmato. Era talmente penoso che hanno fatto durare la visita meno del previsto. Clara ha dato un bacio a sua madre, Patrice ha messo il faccino di Diane contro la guancia di Juliette, ma Amélie era così atterrita che non ha voluto staccarsi dalle braccia della zia.


 


 


A questo punto del racconto di Patrice, Amélie è entrata in salotto in pigiama e a piedi scalzi. Era andata a letto già da un pezzo, ma probabilmente si era svegliata e dalla porta socchiusa della sua stanza aveva ascoltato quello che stavamo dicendo. Patrice non si è scomposto minimamente, del resto aveva cominciato a raccontarmi gli ultimi giorni di Juliette in presenza delle figlie, senza abbassare la voce. Amélie si è piazzata di fronte a noi e ha detto: Per me è ancora più terribile che per Diane e Clara che la mamma sia morta, perché io non l’ho salutata, ho avuto paura. Patrice ha risposto con tutta calma che, anche se non le aveva dato un bacio, l’aveva comunque salutata e che l’importante era che fosse lì e che la mamma l’avesse vista. Ho capito dal suo tono che non era la prima volta che ne parlavano e, mentre andava a rimetterla a letto, ho pensato che fosse un’ottima cosa per Amélie poter formulare il rimprovero che si faceva: una volta espresso, era meno probabile che in seguito quel senso di colpa le avvelenasse la vita senza che lei neanche ne capisse l’origine. E poiché ho buone ragioni di pensare che la vulgata psicoanalitica sui benefici della parola contrapposti ai danni del silenzio sia fondata, ho fatto i più sinceri complimenti a Patrice, quando è tornato, perché con il suo atteggiamento consentiva alle figlie di dare un nome alle cose.


 


 


Terminate le visite, è rimasto solo con Juliette. Non era più così agitata, ma nemmeno serena come lui aveva sperato. Seduto sulla sponda del letto, cercava di comunicare con lei, di intuire i suoi desideri. Le ha dato da bere e lei è riuscita a deglutire. A un certo punto la gabbia toracica ha ripreso a sollevarsi in modo spasmodico, Patrice ha sentito che il suo corpo si contraeva e ha pensato che fosse arrivato il momento, ma invece no, Juliette non stava morendo, soffriva. Risucchiata dal nulla, resisteva. Le ha chiesto: Hai paura? Lei ha fatto cenno di sì con la testa, in maniera inequivocabile. Aspetta, le ha detto, ti do una mano. Torno subito. Non preoccuparti, torno subito. Si è staccato da lei con la massima delicatezza possibile ed è andato nello studio del medico per dirgli che ora bisognava aiutarla ad andarsene. Una mezz’ora dopo io e Hélène siamo andati nello stesso studio per chiedere la stessa cosa allo stesso medico, che ci ha detto che avevano già cominciato a farlo. A Patrice aveva risposto: Va bene, mi aspetti qui. Lo ha lasciato solo nello studio, dove è rimasto per cinque minuti che gli sono sembrati eterni. Fissava inebetito la vernice scrostata del battiscopa, il neon sul soffitto intorno a cui svolazzava un moscerino, la notte d’estate che cominciava a calare nel riquadro della finestra, e aveva l’impressione che fossero le uniche cose reali al mondo, che non esistesse nient’altro, che non fosse mai esistito e non sarebbe mai più esistito nient’altro. Tornato nella stanza, ha notato che gli occhi di Juliette, semiaperti quando era uscito, erano chiusi. Ripensandoci dopo, gli è venuto il terribile dubbio che fosse caduta in coma proprio durante la sua breve assenza. Che avesse visto confusamente uno sconosciuto entrare nella stanza e fare un gesto, qualunque esso fosse, una puntura o qualcosa con la flebo, che nello stato di semincoscienza in cui si trovava le avesse fatto pensare: È venuto a darmi il colpo di grazia. Che il suo ultimo pensiero, prima che tutto si spegnesse, fosse stato: Muoio e Patrice non c’è. Nei giorni successivi questo scenario da film dell’orrore, che per fortuna sul momento era lungi dall’immaginare, lo ha ossessionato al punto da spingerlo a telefonare al medico, che lo ha rassicurato. Non poteva essere andata così: la dose di morfina ci mette più di un’ora ad agire, Juliette aveva perso conoscenza molto gradualmente.


 


 


Si è steso di nuovo accanto a lei, ma stavolta si è messo comodo, quasi come se fossero a casa, nel loro letto. Juliette respirava in modo regolare, sembrava che non soffrisse più. Scivolava lentamente in uno stato crepuscolare che a un certo punto si sarebbe trasformato nella morte, e lui l’ha accompagnata fino a quel punto. Ha cominciato a parlarle all’orecchio, quasi sussurrando, e mentre le parlava le toccava con dolcezza la mano, il viso, il petto, e ogni tanto la baciava sfiorandola appena con le labbra. Pur sapendo che il suo cervello non era più in grado di analizzare né le vibrazioni della sua voce né il contatto con la sua pelle, era sicuro che il corpo li percepisse ancora, che lei avrebbe fatto il suo ingresso nell’ignoto sentendosi avvolta da qualcosa di familiare e di amorevole. Lui c’era. Le ha raccontato la loro vita e la felicità che lei gli aveva dato. Le ha detto quanto aveva amato ridere con lei, parlare di tutto e di niente con lei, e anche litigare con lei. Le ha promesso che sarebbe andato avanti senza cedimenti, che si sarebbe preso cura delle bambine, che non doveva preoccuparsi. Avrebbe pensato a fargli mettere la sciarpa, non avrebbero preso freddo. Le ha cantato le canzoni che le piacevano, le ha descritto l’attimo della morte come la luce di un fortissimo flash, un’onda di pace di cui non possiamo avere idea, un ritorno beato all’energia universale. Un giorno anche lui avrebbe varcato quella soglia, l’avrebbe raggiunta. Le parole gli venivano facili, le pronunciava a voce molto bassa, molto pacata, ne era lui stesso ammaliato. A far male è la vita che cerca di resistere, ma il tormento di essere viva stava finendo. L’infermiera gli aveva detto: Chi lotta muore più velocemente. Se l’agonia stava durando così a lungo, pensava, forse era perché Juliette aveva smesso di lottare, ciò che era ancora vivo in lei era tranquillo, disteso. Non lottare più, amore mio, molla, molla, lasciati andare.


Verso mezzanotte, però, si è detto che non era possibile, non era possibile che il giorno dopo fosse ancora in quello stato. Alle quattro del mattino stacco il respiratore, ha stabilito. Ma già all’una non ce la faceva più ad aspettare, ha pensato che fosse lei a comunicargli quella sensazione di impazienza ed è andato dall’infermiera di turno a chiederle se poteva staccarla dalla macchina, perché secondo lui era arrivato il momento. Lei ha detto di no, rischiava di essere troppo brusco, meglio non fare niente. Più tardi si è addormentato. Un elicottero lo ha svegliato poco prima delle tre. Ha sorvolato l’ospedale per un bel po’. Dopodiché Patrice non ha staccato gli occhi dalla sveglia. Alle quattro meno un quarto il respiro di Juliette, che era ormai solo un soffio, si è fermato. Lui è rimasto per un attimo in ascolto, ma non si sentiva più niente, il cuore non batteva più. Ha pensato che Juliette avesse intuito quello che voleva fare alle quattro e glielo avesse risparmiato.


 


 


Patrice racconta, racconta, ho l’impressione che non voglia più smettere.


Non ho dovuto chiuderle le palpebre. La guardavo, mi sembrava che avesse un viso sereno e bello, non come gli ultimi giorni. Pensavo: È mia moglie, ed è morta. Mia moglie è morta. Ho sentito svanire il suo calore contro il mio corpo, mi sono stupito che accadesse così rapidamente. Dopo un quarto d’ora era fredda. Mi sono alzato, ho avvertito le infermiere, ho chiamato Cécile che vegliava a casa, poi sono uscito a fare due passi intorno all’ospedale. Verso est un angolino di cielo cominciava a rischiararsi, sulla città si addensavano nuvole rosa, era stupendo. Ero sollevato che fosse finita, ma soprattutto, in quel momento, provavo un immenso affetto per lei. Non so come dire, forse affetto sembra debole come parola, ma era un sentimento più forte e più grande dell’amore. Qualche ora dopo, nella sala mortuaria, non provavo già più quel sentimento: l’amore, sì, certo, ma quella specie di affetto immenso era finito.

Il venerdì, prima di lasciare Juliette, Étienne le aveva chiesto se preferiva che tornasse a trovarla o che restasse a disposizione, e lei aveva risposto: Che resti a disposizione. Lui ha passato la notte ad aspettare, intuendo che non lo avrebbe più chiamato: si erano detti tutto, ora c’era posto solo per Patrice. La mattina ha preso l’autobus per l’ospedale, ma è sceso due fermate prima di arrivare ed è tornato a casa. Ha trascorso il sabato con la famiglia, fatto spese da Decathlon con i ragazzi, cercato di lavorare un po’. Juliette aveva dato disposizione di avvisarlo appena fosse morta, lo ha chiamato la madre di Patrice alle cinque del mattino. Ricorda di essersi innervosito perché lo aveva svegliato e soprattutto perché aveva detto: «Juliette se n’è andata» invece di «Juliette è morta». Ha grugnito: Lo so, lo so e, quando lei gli ha proposto di andare a vedere il corpo nella sala mortuaria, ha risposto di no, che non gli interessava.


 


 


Il giorno dopo la mia lunga conversazione notturna con Patrice ho pranzato con Étienne a Vienne, poi lui mi ha riaccompagnato a Rosier. La prima cosa che ha detto quando siamo arrivati è che doveva andare via immediatamente. Lui e Patrice non si vedevano dal giorno del funerale, si percepiva un certo imbarazzo tra loro, ma io ho proposto di fare un caffè e di berlo in giardino, sotto la catalpa, dove poi abbiamo finito per passare l’intero pomeriggio, via via più contenti di essere lì tutti e tre.


Di quel pomeriggio ricordo due momenti.


Patrice ha parlato del modo in cui lui e le figlie stavano imparando a vivere senza Juliette. Lei mi sostiene, diceva, la sua energia mi sostiene, e poi in certi momenti non mi sostiene più. Le notti sono difficili. All’inizio ho pensato che non sarei mai riuscito a dormire senza di lei, il mio corpo era così abituato al suo che mi sembra di sentirlo attaccato al mio, poi mi sveglio e lei non c’è, e allora mi sento perso, completamente perso. Ma a poco a poco mi sto abituando a questa sensazione. So che con il tempo svanirà. Che un giorno mi capiterà di stare un quarto d’ora senza pensare a lei, e poi un’ora... Cerco di far capire questa cosa alle bambine... Quando dico che siamo stati fortunati a poter stare con lei e ad averla amata e a essere amati da lei, Clara dice che la più fortunata è stata Amélie perché l’ha avuta per più tempo, poi Diane perché non si rende bene conto, e che quindi quella per cui è più difficile è lei, che sta in mezzo... Ma nonostante tutto, penso che le cose si stiano mettendo meglio per tutti e quattro. Penso che ce la caveremo. E tu?


Si è girato verso Étienne, che è stato preso alla sprovvista dalla domanda.


Io cosa?


Tu, ha ripreso Patrice, com’è per te la vita senza Juliette?


Étienne, in seguito, mi ha detto di essere rimasto sorpreso e poi turbato dal fatto di essere messo di fronte al lutto, e per giunta dal vedovo, in questo modo, su un piano di quasi parità. In cuor suo pensava che quel posto gli spettasse (appunto a margine di Étienne: «Non esattamente: trovavo giusto che mi spettasse un posto»), ma non l’avrebbe mai rivendicato. Ci voleva l’incredibile generosità di Patrice perché gli venisse riconosciuto come una cosa scontata.


Ha ridacchiato: Per me? Oh, è semplicissimo. Mi manca non poter più parlare con lei. Sono egoista, come al solito penso solo a me stesso e mi dico che ci saranno cose di cui fino alla morte non parlerò più con nessuno. Fine. La persona con cui potevo parlarne senza intristirmi non c’è più.


Poi è venuto fuori il discorso del power point in memoria di Juliette che Patrice stava preparando per parenti e amici. Aveva fatto una prima selezione molto ampia, e adesso stava facendo la seconda, più ristretta. Su alcune foto non aveva dubbi, in altri casi era molto indeciso, ogni volta che ne scartava una sentiva una stretta al cuore e aveva l’impressione di condannare all’oblio un istante della loro vita insieme. Ci si dedicava la sera nel suo studio nel seminterrato, dopo aver messo a letto le figlie. Gli piaceva quel momento della giornata, insieme triste e dolce. Non aveva fretta di concluderlo, quel power point, perché sapeva bene che una volta concluso, copiato e distribuito avrebbe dovuto voltare pagina, cosa che non aveva molta voglia di fare, o comunque non troppo presto.


Un po’ come la lettera che Juliette voleva lasciare alle figlie, ha osservato Étienne: si riprometteva sempre di scriverla, ma nello stesso tempo rimandava, perché sapeva che una volta scritta non le sarebbe restato più niente da fare.

Siamo rimasti in silenzio. Dall’altro lato della piazza c’è stata un’esplosione di grida di bambini. Uscivano da scuola. Amélie e Clara sarebbero rientrate di lì a poco, bisognava preparare la merenda, poi andare a prendere Diane. Allora Étienne ha detto: C’è una foto che non puoi inserire nel tuo power point perché non esiste, ma se io ne dovessi conservare una sola, sceglierei proprio quella. Una sera, forse ti ricordi, siamo andati tutti e quattro a teatro, a Lione. Tu e Juliette, io e Nathalie. Noi siamo arrivati per primi, vi abbiamo aspettato nel foyer. Vi abbiamo visti entrare nell’atrio e salire lo scalone, tu la portavi in braccio. Lei ti si aggrappava al collo, sorrideva, e la cosa più bella era che sembrava non solo felice ma anche orgogliosa, incredibilmente orgogliosa, e anche tu lo eri. Tutti vi guardavano e vi cedevano il passo. Eri davvero il cavaliere che porta in braccio la sua principessa.


Patrice è rimasto un attimo in silenzio, poi ha sorriso, con quel sorriso stupito e pensoso con cui accogliamo una verità evidente a cui non avevamo fatto caso: È strano, ora che me lo dici, mi è sempre piaciuto portare le persone... Anche da ragazzino portavo il mio fratello più piccolo. Mettevo i bambini in una carriola e li spingevo, oppure me li prendevo sulle spalle...



In treno, mentre rientravo a Parigi, mi sono chiesto se esistesse una formula altrettanto semplice ed esatta – a lui piaceva portare le persone, lei aveva bisogno di essere portata – per definire quello che univa me e Hélène. Non sono riuscito a trovarla, ma ho pensato che forse, un giorno, ci sarebbe venuta in mente.

 Quando sono tornato da Rosier, i seni di Hélène si erano ingrossati e lei mi ha annunciato che era incinta. Avrei dovuto esserne felice, ho avuto paura. La sola spiegazione che trovo a quella paura è che non mi sentivo pronto: c’erano ancora troppi impedimenti, troppi nodi da sciogliere. Per essere di nuovo padre nella seconda metà della mia vita, avrei dovuto essere un figlio pressoché risolto, traguardo da cui mi reputavo ben lontano. A mio merito torna questo: che, nonostante lo sgomento, ho pensato fosse meglio dire di sì che di no, e più o meno coscientemente, a tentoni, mi sono applicato a cambiare. Il mio progetto mi appariva ormai fuori luogo, ho chiamato Étienne e Patrice per avvertirli che lo avevo accantonato, aggiungendo che forse un giorno l’avrei ripreso, ma non ne ero affatto sicuro. Étienne ha detto: Vedrai più tardi. Mi sono messo a scrivere senza filtri di me stesso, del disastro dei mei amori precedenti, del fantasma che ossessionava la mia famiglia e a cui ho deciso di dare sepoltura. La gestazione del libro è durata quanto la gravidanza, è un eufemismo dire che sono stati mesi difficili, ma ne sono venuto a capo poco dopo la nascita di Jeanne e dall’oggi al domani è accaduto il miracolo in cui non osavo sperare: la volpe che mi divorava le viscere se n’è andata, ero libero. Ho passato un anno a godermi il semplice fatto di essere vivo e a guardar crescere nostra figlia. Non avevo idea di che cosa avrei fatto in seguito, ma non me ne preoccupavo. Freud definisce la salute mentale in un modo che mi è sempre piaciuto, anche se mi sembrava inaccessibile per me, come la capacità di amare e di lavorare. Io ero capace di amare e, meglio ancora, di accettare di essere amato, il lavoro sarebbe venuto poi. Un po’ a caso, senza sapere bene che cosa intendessi fare, la scorsa primavera ho cominciato a mettere insieme i ricordi dello Sri Lanka, poi ho ripescato i miei appunti su Étienne, Patrice, Juliette e le leggi a tutela del consumatore. Ho ripreso in mano il libro tre anni dopo averne concepito il progetto, lo concludo tre anni dopo averlo abbandonato.

 

 

Stavolta prima di pubblicarlo ho voluto farlo leggere ai diretti interessati. Lo avevo già fatto con Jean-Claude Romand, ma precisandogli che L’Avversario era chiuso e che non avrei più toccato una virgola. Sottoporre Un romanzo russo all’approvazione di mia madre e di Sophie sarebbe equivalso a buttarlo direttamente nel fuoco: non potevo permettermi quel lusso, quindi le ho messe di fronte al fatto compiuto. Non me ne pento, mi ha salvato la vita, ma oggi non lo rifarei. Hélène è stata la prima a leggere queste pagine. Aveva accettato l’idea del libro, ma più mi avvicinavo alla fine più aveva paura di scoprire che cosa potessi aver scritto su Juliette. Non riesce ancora a credere alla sua morte, né a parlare di lei, forse si rimprovera di non aver capito chi era in realtà la sorella. Quando ha finito di leggere eravamo entrambi sollevati e ho mandato il testo a Étienne e a Patrice dicendogli il contrario di quello che avevo detto a Romand: potevano chiedermi di aggiungere, togliere o cambiare quello che volevano, lo avrei fatto. L’impegno che avevo preso con loro preoccupava Paul, il mio editore. Non è mai successo, mi ha fatto notare, che qualcuno si sia detto soddisfatto di quello che è stato scritto su di lui in un libro: una volta corretto dai protagonisti, del mio sarebbe rimasto ben poco. Nel caso specifico si sbagliava, e la mia ultima visita a Lione e a Rosier alla fine è stata per me, e penso anche per loro, il momento più commovente di tutta l’impresa. Mi sentivo come un ritrattista che nel mostrare la tela al suo modello spera che sia contento, e ambedue lo sono stati. Étienne mi ha detto: Ci sono dei punti su cui non sono minimamente d’accordo, ma non ti dirò mai quali perché non voglio che tu ci rimetta le mani. Mi piace che sia il tuo libro e, nel complesso, mi piace anche il tizio che porta il mio nome nel tuo libro. Anzi, te lo posso anche dire: ne vado piuttosto fiero. Non mi ha fatto togliere niente, mi ha chiesto solo di fare qualche aggiunta perché ciascuno avesse ciò che gli spettava: quando avevo raccontato del blitz della CGCE, per ragioni di economia narrativa avevo omesso di aggiungere, alla troika Juliette-Étienne-Florès, Bernadette Le Baut-Ferrarese, la specialista di diritto comunitario che avevano consultato, e lui avrebbe trovato ingiusto che non comparisse nella foto. Patrice, invece, temeva che avessi dato troppa importanza alle sue divergenze politiche con Juliette. Ritornava continuamente su quel punto, argomentava, attenuava, correggeva. Non gli dava fastidio passare per un naïf di sinistra, ma non voleva a nessun costo che lei potesse essere considerata, anche solo lontanamente, di destra, e io avevo l’impressione, che molto mi turbava, di sentirlo continuare, attraverso il mio libro, la discussione serena e appassionata che avevano avuto nei tredici anni della loro vita comune. Quando, dopo quella conversazione, siamo andati a prendere le bambine a scuola, molte compagne di classe di Amélie mi sono venute intorno e mi hanno detto: È vero che hai scritto un libro su Juliette? Potremo leggerlo? Ma Amélie e le sorelle, quando a cena ho accennato alla cosa, non hanno praticamente reagito. Sì, lo so, dicevano, e guardavano da un’altra parte, cambiavano discorso.

 

 

Qualche mese dopo il nostro ritorno dallo Sri Lanka siamo andati a trovare Philippe, Delphine e Jérôme a Saint-Émilion. La camera di Juliette era un mausoleo, di una tristezza terribile. Poi Philippe ha scritto il suo libro, e ci siamo scambiati qualche mail al tempo stesso affettuosa e distante. L’anno seguente è nata Camille, dieci giorni dopo Jeanne, e anche in quel caso ci siamo scambiati solo le partecipazioni. In pratica ho ripreso i contatti con Philippe dopo due anni di silenzio, gli ho mandato il dattiloscritto chiedendogli di leggerlo e di preparare sua figlia e suo genero. A parte qualche piccolo dettaglio topografico, gli andava bene tutto, ma secondo lui era meglio che Delphine e Jérôme non lo leggessero. In ogni caso non in quel momento, e forse mai. Siamo andati tutti e quattro – io, Hélène, Rodrigue e Jeanne – a passare un weekend da loro ed è stato un weekend delizioso. Delphine e Jérôme avevano appena avuto un maschietto, Antoine, che non aveva ancora un mese. Le due bambine hanno fatto subito amicizia. Rodrigue, che adora Delphine, era felice di rivederla, e anche lei lo era. Gli ho dato notizie di Jean-Baptiste, che ora studia in un’università irlandese, e di Gabriel, suo fratello maggiore, che ha da poco cominciato a lavorare come montatore cinematografico. Philippe ha raccontato come si è costituita e poi sciolta la sua associazione a sostegno dei pescatori di Medaketiya. Continua a passare lì tre o quattro mesi all’anno. Dal suo bungalow sulla spiaggia guarda l’oceano. Pensa alla sua vita, qualche volta riesce a non pensare a niente. La serata è trascorsa come trascorrono abitualmente le serate da Delphine e Jérôme, commentando i vini degustati alla cieca, ascoltando dischi rari dei Rolling Stones, fumando l’erba del giardino e ridendo, ridendo molto. La camera di Juliette non è più un mausoleo, è diventata quella di Camille, che la dividerà con Antoine quando lui sarà cresciuto un po’, ma sul caminetto c’è una foto di Juliette, di cui ora parlano senza imbarazzo. Non hanno due figli, ma tre, solo che uno dei tre è morto. Quando abbiamo cominciato a parlare del mio libro, Delphine ha detto che voleva leggerlo, ma Philippe, con la stessa voce improvvisamente acuta e tremante che aveva laggiù, l’ha avvertita: per lei sarebbe stato particolarmente difficile perché avrebbe scoperto cose che le erano state nascoste. Non capivo a cosa si riferisse e l’ho preso in disparte per chiederglielo. Parlava del momento in cui Jérôme, di ritorno dall’obitorio di Colombo, dice a Delphine che Juliette è ancora bella, poi a Hélène che le ha detto una bugia, che la loro bambina è già in stato di decomposizione. Ti immagini, diceva Philippe, se Delphine scopre dal tuo libro che Jérôme le ha detto una bugia? Ho proposto di eliminare quel particolare, se pensava che fosse più doloroso degli altri, ma lui ha risposto che non se ne parlava neanche e, quando stavamo per tornare con gli altri, ha riconosciuto che Delphine ci avrebbe visto non un tradimento ma un’ulteriore prova dell’amore di suo marito. Alla fine abbiamo deciso che Philippe avrebbe passato il testo a Jérôme, poi Jérôme a Delphine, se lo avesse ritenuto possibile. Ho pensato che questa successione gerarchica rispecchiasse il modo in cui, quando erano lì, i due uomini, il marito e il padre, si erano coalizzati per proteggerla, ma quando l’ho detto a Hélène lei ha scosso la testa e ha ribattuto: È lei che li protegge, in realtà, è lei che si fa carico di tutto. Se sono rimasti insieme, se hanno avuto altri figli, se alla fine la vita ha avuto la meglio, è stato grazie a lei. Allora ho ripensato a una cosa che Delphine aveva detto a cena: il momento in cui, quando erano lì, la vita aveva avuto la meglio, in cui aveva scelto di vivere invece di lasciarsi sprofondare, era stato quando aveva accettato di badare a Rodrigue durante la nostra assenza. Dapprima ha pensato: No, occuparmi di un bambino due giorni dopo la morte di mia figlia, non potrei mai, ma poi ha detto di sì, e a partire da quel momento ha continuato, nonostante tutto, a dire di sì.

 

 

Stamattina Jeanne si è svegliata alle sette, è uscita da sola dal suo letto, di cui ormai riesce a scavalcare le sbarre, e ci ha raggiunti nel nostro. Io sono andato in cucina a prepararle il biberon, che lei ha preso sdraiata tra noi due, senza fare confusione e senza agitarsi troppo, ma la tregua non dura mai a lungo, dopo un po’ bisogna giocare e cantare. In questo momento la sua canzone preferita è Monsieur l’ours. Io faccio la parte dell’orso: girato di spalle, con il piumone tirato fin sopra la testa, comincio a russare fragorosamente. Hélène intona la canzoncina: Signor orso, ti vuoi svegliare? Hai dormito abbastanza, mi pare. Al mio tre ti devi alzare. Un, due, tre. Signor orso, dormi o ti alzi? E io la prima volta, con la voce più cavernosa possibile, rispondo: Dormo! Hélène ricomincia: Signor orso, dormi o ti alzi? Stavolta mi giro ringhiando: Mi alzo! Hélène e Jeanne imitano le voci spaventate dei bambini che si sentono nel disco. Jeanne è al settimo cielo. Il signor orso non avrà vita lunga, prima di lui ci sono stati i tre micetti che avevano perso le muffole e già adesso, quando per caso Jeanne apre il libricino musicale dei micetti, con le pile che cominciano a dare segni di cedimento, ci assale una sorta di nostalgia: era la canzone di quando era piccolissima, camminava appena, non parlava ancora, e ormai quel periodo, quel periodo magico, è passato e non ritornerà più. Penso a tutti questi motivetti che ci incantano e alla tortura in cui deve trasformarsi questo incanto quando accade l’irreparabile: i giochi, le filastrocche, le babbucce, quando la bambina marcisce in una cassa sottoterra. Eppure per Delphine e Jérôme questo incanto è tornato a essere possibile, con gli altri due figli. Non hanno dimenticato nulla, ma sono riemersi dal baratro. Lo trovo ammirevole, incomprensibile, misterioso. Sì, è questo il termine più adatto: misterioso.

Dopo, mentre Hélène veste Jeanne, vado a preparare la colazione. Quando dico veste non significa solo che le mette dei vestiti, ma che li sceglie, del resto glieli compra con pari se non maggior piacere e buongusto di quando li compra per sé, il che fa di Jeanne la bambina più elegante del mondo. Mi raggiungono tutt’e due in cucina. Hélène indossa dei pantaloni da yoga e un maglioncino leggero, molto scollato, i pantaloni le mettono in risalto i fianchi e il maglioncino i capezzoli. La trovo bella, sexy, tenera, sono colmo di meraviglia per la serenità del nostro amore e per la forza di questa serenità. Accanto a lei so dove sto. L’idea che potrei perderla mi risulta insopportabile, ma per la prima volta nella mia vita penso che a strapparmela, o a strapparmi a lei, potrebbe essere un incidente, una malattia, qualcosa che ci piombasse addosso dall’esterno e non l’insoddisfazione, la noia, la voglia di novità. È un’imprudenza dirlo, ma credo che sia così. Naturalmente temo che, se ci verrà concesso di durare, vi saranno delle crisi, dei momenti di stanchezza, altri di burrasca, che il desiderio si affievolirà e si rivolgerà verso altri, ma penso che resisteremo, che uno dei due chiuderà gli occhi all’altro. In ogni caso non c’è niente che mi sembri più desiderabile.

Nell’ingresso io e Jeanne ci mettiamo i cappotti e lei afferra il passeggino. Non il passeggino che usiamo per portarla in giro e dove oramai si siede sempre meno volentieri, ma quello giocattolo che usa lei per portare in giro una bambola piuttosto brutta, senza capelli e con il corpo di plastica che odora di chewing-gum alla fragola. Da quando Hélène le ha comprato questo passeggino, vuole sempre portarselo dietro. In generale vuole fare tutto quello che facciamo noi, e dato che noi portiamo a spasso la nostra bambina, lei vuole portare a spasso la sua. Spingiamo il passeggino sul pianerottolo, Hélène si accovaccia sulla soglia di casa per dare un ultimo bacio alla figlia prima che esca, Jeanne fa per entrare nell’ascensore di cui io tengo aperta la porta, poi ci ripensa, si gira verso Hélène, fa ciao con la mano, torna in ascensore, si mette in punta di piedi per premere il pulsante. Poco prima che la cabina a vetri sparisca al di sotto del pianerottolo, vedo Hélène che ci sorride. Usciamo per strada, Jeanne spinge il passeggino e io le cammino accanto controllando che non scenda dal marciapiede. È così orgogliosa di imitarci che si dimentica di perdere tempo e di fermarsi a ogni portone, palo o motorino come fa di solito: fa la brava, tira dritto, percorriamo rue d’Hauteville quasi altrettanto velocemente che se l’avessi portata io nel passeggino. Ogni tanto si gira verso di me per sottolineare che si sta comportando bene. Arriviamo davanti al palazzo della baby-sitter, sollevo Jeanne all’altezza del citofono e come ogni mattina le guido le dita sui tasti per comporre il codice. Il rituale prosegue per le scale con l’interruttore della luce a tempo, poi con il campanello e con l’attesa, dietro la porta, dei passi della signora Laouni nel corridoio. Jeanne non fa mai i capricci quando la porto dalla signora Laouni. Sta bene con lei, la signora Laouni è una donna al tempo stesso affettuosa e ferma, si capisce che a casa sua tutto va per il verso giusto. Eppure l’anno scorso ha perso il marito. Ci ha telefonato una mattina piangendo per dire che non poteva badare a Jeanne perché il marito era morto nella notte, se lo era ritrovato morto nel letto accanto a lei, un attacco di cuore. Prima di questa disgrazia sembrava una donna felice, a suo agio nella vita. Mai un segno di amarezza, di malumore o di trascuratezza. Ordine, buonumore, dinamismo, gentilezza. Niente di tutto questo è cambiato dopo la morte del marito. Non so nulla della loro vita di coppia e lui non l’ho mai incontrato, andava al lavoro prima che portassi Jeanne e tornava a casa dopo che ero andato a prenderla, ma sono sicuro che lei lo amava, che avevano un’ottima intesa, che erano degli ottimi genitori per le loro figlie, che ora le manca da morire, che la vita senza di lui è triste, ingiusta, contro natura, e mi colpisce che il suo dolore, di cui non fa mistero quando qualcuno gliene parla, sembri non pesare mai sui bambini di cui si occupa. Sono loro che mi aiutano a tenere duro, dice, e io le credo. Qualche volta, quando apre la porta la mattina, mi accorgo che ha gli occhi gonfi, che probabilmente ha pianto tutta la notte e ha fatto fatica ad alzarsi, ma prende Jeanne in braccio e Jeanne ride, e anche lei ride, e so che sarà così fino a sera.

Ripercorro rue d’Hauteville, mi fermerò al caffè di place Franz-Liszt a leggere il giornale e poi tornerò a casa. Rodrigue sarà andato a scuola, Hélène forse si sarà rimessa a letto, io la raggiungerò e faremo l’amore in quel modo tranquillo, coniugale, un po’ abitudinario, che ispira a entrambi un desiderio sempre rinnovato e spero inestinguibile. Farò un altro caffè, che berremo insieme in cucina parlando dei figli, di come va il mondo, dei nostri amici, di questioni domestiche. Lei andrà al lavoro e dovrò mettermi a lavorare anche io. Da sei mesi a questa parte, ogni giorno, di mia spontanea volontà, passo alcune ore davanti al computer a scrivere di ciò che mi fa più paura al mondo: la morte di un figlio per i suoi genitori, quella di una giovane donna per i suoi figli e suo marito. La vita mi ha reso testimone di queste due sciagure, l’una dopo l’altra, e mi ha assegnato il compito, o almeno io ho capito così, di raccontarle. A me le ha risparmiate, e prego che continui così. Ho sentito dire diverse volte che la felicità si apprezza solo retrospettivamente. Pensiamo: Non me ne rendevo conto, ma allora ero felice. Per me non è così. Sono stato a lungo infelice e perfettamente consapevole di esserlo; oggi amo quello che mi è toccato in sorte, il che non è un gran merito da parte mia, considerato quanto è facile da amare, e la mia filosofia si riassume nella frase che Maria Letizia Ramolino, la madre di Napoleone, avrebbe sussurrato la sera dell’incoronazione: «Speriamo che duri».

Ah, e poi: preferisco ciò che mi accomuna agli altri uomini a ciò che mi distingue da loro. Anche questa è una novità.

 

 

Arrivato alla fine di questo libro, penso che gli manchi qualcosa, riguardo a Diane. Amélie e Clara hanno avuto un po’ di spazio, ognuna ha una sua scena come una stanza tutta per sé, ma lei all’epoca era così piccola che compare solo come una bimba di poco più di un anno, muta o strepitante in braccio a suo padre. Ora di anni ne ha quattro, e immagino che pensi quello che per altre ragioni hanno pensato anche le sue sorelle: che per lei è ancora più difficile che per loro. Perché lei è l’ultima, perché lei ha avuto sua madre accanto solo per quindici mesi, perché lei non se la ricorda nemmeno. Nathalie, la moglie di Étienne, mi ha raccontato che, l’ultima volta che erano andati a trovarli a Rosier con i figli, Diane protestava in continuazione perché voleva stare in braccio a Juliette e Juliette ogni volta la rimetteva in braccio a Patrice. Le restava solo un mese di vita e diceva: Non deve abituarsi, sennò dopo le mancherà troppo. Patrice racconta che le sue prime parole sono state: Dov’è mamma?, e il primo film che le è piaciuto è stato Bambi. Ha rivisto centinaia di volte la scena in cui Bambi capisce che la mamma non si alzerà più, è l’immagine più vicina a quella che ha della propria storia. Patrice aggiunge che delle tre figlie ora è lei quella che parla di più di Juliette, ed è l’unica che gli chiede, spessissimo, di guardare il famoso power point. Scendono insieme nel seminterrato, si mettono insieme davanti al computer, che Patrice accende. Parte la musica e sfilano le immagini. Patrice guarda sua moglie. Diane guarda sua madre. Patrice guarda Diane che la guarda. Lei piange e anche lui piange, ed è così dolce piangere insieme, il padre e la sua bambina, ma lui non può e non potrà mai più dirle quello che i padri vorrebbero sempre dire ai figli: Su, non è niente. E io, che sono lontano da loro, io che per ora, e sapendo quanto sia fragile questa condizione, sono felice, vorrei lenire ciò che può essere lenito, pochissimo, certo, e perciò questo libro è dedicato a Diane e alle sue sorelle.

Il libro di Philippe Gilbert, Les Larmes de Ceylan, è apparso presso le Éditions des Équateurs, e quello di Louise Lambrichs, Le Livre de Pierre, presso le Éditions du Seuil.


Grazie a Colette Le Guay, Philippe Le Guay e Belinda Cannone per i nostri soggiorni di studio a Montgobert e per la loro amicizia; e a Nicole, Pascale e Hervé Clerc per il Levron e per la loro.