domenica 6 dicembre 2020

ADA o ardore Vladimir Nabokov


Parte prima 

Capitoli 1-20

ADA o ardore

Vladimir Nabokov 

Dopo aver raggiunto le vette dello scandalo e della gloria, dopo aver pubblicato capolavori come Il donoLolita o Fuoco pallido, Nabokov decise di scrivere un romanzo dove avrebbe sfrenato i suoi estri e i suoi capricci più nascosti e più cari, sfidando il lettore a seguirlo, come un seduttore irresistibile e sottilmente perverso. E fu Ada. Sarebbe stata una storia d'amore, di quell'amore «normale e misterioso» che è come la rosa vera mescolata alle altre in un negozio di fiori finti, «pour attraper le client». E anche una storia erotica. E, dietro a tutto, sarebbe stata una celebrazione del dettaglio. «Il dettaglio è sempre benvenuto» diceva Nabokov. Dettaglio è «l'evento senza precedenti e irripetibile» che si stagna fra miliardi di simili – e con ciò in fondo obbliga la letteratura a esistere, se non altro per replicargli con un tessuto di parole che dell'irripetibile mostri qualche filo. Ogni lettore, non appena comincerà ad addentrarsi in Ada, avrà l'impressione di trovarsi davanti a uno di quei libri in cui l'autore ha inteso mettere tutto, come in una vasta arca, grande quanto un leggendario maniero familiare o per lo meno la sua sterminata e veleggiante soffitta. E in quella soffitta costellata di segreti, come nel parco di quel maniero, cosparso di nascondigli erotici, sarà felice di perdersi.

 

In copertina: Konstantin Somov, Mattino d'estate (1932). Collezione privata.


                 PARTE PRIMA


1

«Tutte le famiglie felici sono più o meno diverse tra loro; le famiglie infelici sono tutte più o meno uguali» dice un grande scrittore russo al principio di un famoso romanzo (Anna Arkadievitch Karenina, trasfigurato in inglese da R.G. Stonelower, Mount Tabor Ltd., 1880). Questa asserzione ha poco, se non niente, a che vedere con la storia che verrà ora narrata, una cronaca familiare, la prima parte della quale è, forse, più vicina a un'altra opera di Tolstoj, Detstvo i otrochestvo(Childhood and Fatherland, Pontius Press, 1858). [NOTA Tutte le famiglie felici... Qui vengono messe in ridicolo le cattive traduzioni dei classici russi. La frase di apertura del romanzo di Tolstoj è capovolta e il patronimico di Anna Arkadjevna termina con un'assurda desinenza maschile, mentre al suo cognome viene erroneamente aggiunta una desinenza femminile. I nomi «Mount Tabor» e «Pontius» alludono alle trasfigurazioni (il termine è di Mr Steiner, credo) e ai tradimenti che i grandi testi subiscono da parte di pretenziosi e ignoranti versionisti. Il titolo italiano dell'opera di Tolstoj è Infanzia, adolescenza e giovinezza].

La nonna materna di Van, Dar'ja («Dolly») Durmanov, era figlia del principe Peter Zemski, governatore del Bras d'Or, provincia americana nel Nordest del nostro grande e variegato paese, il quale aveva sposato, nel 1824, Mary O'Reilly, un'irlandese appartenente all'alta società. Dolly, figlia unica, nata nel Bras, sposò nel 1840, alla tenera e capricciosa età di quindici anni, il generale Ivan Durmanov, comandante della Yukon Fortress e pacifico gentiluomo di campagna, le cui terre nei Severn Tories (Severnija Territorii) formavano un mosaico nel protettorato ancora affettuosamente detto Estoty «russo», mescolandosi granoblasticamente [in un miscuglio di tessere di mosaico] e organicamente con il Canady «russo», o Estoty «francese», dove i colonizzatori, non solo francesi, ma anche macedoni e bavaresi, possono godere di un clima alcionio sotto le nostre Stelle e Strisce. [NOTA Severnija Territorii Territori settentrionali. Qui e ovunque la traslitterazione rispetta le regole della vecchia ortografia russa. Per «vecchia ortografia» si intende quella precedente alla riforma del 10 ottobre 1918. Estoty, o Estotiland, era il nome usato nei secoli XVI e XVII per indicare le regioni nordorientali del Labrador].

Il dominio favorito dei Durmanov era, tuttavia, Raduga, vicino alla cittadina che porta quel nome e al di là della vera e propria Estotiland, in quel riquadro atlantico del continente, tra l'elegante Kaluga, New Cheshire, USA, e la non meno elegante Ladoga, Mayne, dove avevano la casa di città e dove erano nati i loro tre figli: un maschio morto giovane e famoso, e una coppia di gemelle difficili. Dolly aveva ereditato la bellezza e il temperamento di sua madre, ma anche una vena più antica e ancestrale di gusto eccentrico, e non di rado deplorevole, che si rifletteva appieno, per esempio, nei nomi che aveva dato alle figlie: Aqua e Marina («Perché non Aqua e Tofana?» si chiedeva il buon generale dalle regali corna di cervo con una sapida risata tenuta a freno, seguita da un breve, conclusivo colpo di tosse di simulato distacco – gli scoppi d'ira della moglie lo terrorizzavano). [NOTA TofanaAllusione a «acqua tofana»].

Il 23 aprile del 1869, nella piovigginosa e calda, velata e verde Kaluga, Aqua, venticinquenne e afflitta dalla solita emicrania primaverile, sposò Walter D. Veen, un banchiere di Manhattan di antica ascendenza angloirlandese, che aveva a lungo condotto, e avrebbe presto ripreso, un intermittente, appassionato affaire con Marina. Quest'ultima, in un giorno imprecisato del 1871, sposò il primo cugino del suo primo amante, a sua volta Walter D. Veen, giovane senza dubbio non meno opulento, ma molto più noioso.

La «D» nel nome del marito di Aqua stava per Demon (una forma derivata da Demian o Dementius), e così lo chiamavano in famiglia. In società era generalmente conosciuto come Raven Veen o semplicemente Dark Walter per distinguerlo dal marito di Marina, detto Durak Walter o semplicemente Red Veen [NOTA Durak in Russo, «sciocco»]. Il duplice e favorito svago di Demon consisteva nel collezionare antiche tele e giovani amanti. Per non parlare di quanto gli piacevano le battute di mezza età.

La madre di Daniel Veen era una Trumbell, ed egli era sempre disposto a spiegare con ogni dettaglio – a meno che un secca-seccatori non riuscisse a sviarlo – come nel corso della storia americana un «Bull» (toro) inglese fosse potuto diventare una «Bell» (campana) del New England. Tra i venti e i trent'anni Dan si era «messo in affari» e si era trasformato, con una facilità perfino eccessiva, in un mercante d'arte di Manhattan. Non aveva – quanto meno sul principio – una particolare inclinazione per la pittura, nessuna attitudine per l'arte di vendere, e nessun bisogno di scuotere con gli alti e i bassi di un «mestiere» la solida fortuna ereditata da una serie di Veen molto più capaci e ardimentosi. Confessando di non provare un grande interesse per la campagna, trascorreva a Ardis, la sua sfarzosa villa vicino a Ladore, soltanto pochi fine settimana estivi scrupolosamente ombreggiati. Dopo l'infanzia era tornato solo qualche volta a nord, sul Lago Kitez, vicino a Luga, in un'altra proprietà la cui superficie comprendeva e anzi quasi coincideva con quella massa d'acqua stranamente rettangolare, anche se del tutto naturale, che un pesce persico, controllato da lui stesso al cronometro, aveva un giorno impiegato mezz'ora ad attraversare diagonalmente e che egli possedeva insieme a suo cugino, in gioventù grande pescatore. [NOTA Lago di Kitez Allusione alla leggendaria città di Kitez che scintilla sul fondo di un lago in una fiaba russa].

Nella vita amorosa del povero Dan non c'era niente di complicato né di suggestivo, ma questo non gli aveva impedito (anche se aveva ben presto dimenticato le esatte circostanze di quell'evento, così come si dimenticano le misure e il prezzo di un cappotto amorevolmente confezionato, dopo che lo si è messo e tolto per almeno due stagioni) di innamorarsi placidamente di Marina, con la cui famiglia aveva fatto conoscenza quando ancora i Durmanov possedevano la casa di Raduga (poi venduta a Mr Eliot, un uomo d'affari ebreo). Un pomeriggio, nella primavera del 1871, nell'ascensore che saliva in cima al primo edificio a dieci piani di Manhattan, aveva fatto a Marina la sua proposta, e al settimo piano (Giocattoli) era stato respinto con indignazione; era sceso da solo e, per dare aria ai propri sentimenti, era partito per un triplo giro del mondo in direzione «counter-Fogg», seguendo ogni volta, come un parallelo animato, lo stesso itinerario [NOTA Counter-Fogg Phileas Fogg, il globetrotter di Jules Verne, che compì il giro del mondo da ovest a est]. Nel novembre del 1871, mentre pianificava la sua serata con lo stesso cicerone, puzzolente ma simpatico, vestito di un completo color café au lait, che aveva già altre due volte preso al proprio servizio nello stesso albergo di Genova, ricevette su un vassoio d'argento un aerocablogramma (inoltratogli con un'intera settimana di ritardo dal suo ufficio di Manhattan dove, per la svista di una ragazza ancora inesperta, era stato archiviato nel casellario a colombaia e registrato come RIF. AMOR) nel quale Marina diceva che lo avrebbe sposato al suo ritorno in America.

Secondo il supplemento domenicale di un quotidiano che aveva appena cominciato a ospitare tra le sue vignette l'ormai da tempo defunto «Buonanotte, ragazzi», (Nicky e Pimpernella, tenera coppia di fratellini che divideva uno stretto giaciglio [NOTA: i nomi sono presi a prestito, con alcune distorsioni, da un fumetto per bambini di lingua francese]), e che era sopravvissuto con altri vecchi giornali nella soffitta di Ardis Hall, le nozze Veen-Durmanov avevano avuto luogo nel giorno di Sant'Adelaide dell'anno 1871. Dodici anni e circa otto mesi dopo, due ragazzini nudi, l'uno con i capelli scuri e la pelle abbronzata, l'altra con i capelli scuri e la pelle bianco latte, chinandosi nel caldo raggio obliquo che entrava dall'abbaino su una pila di scatoloni impolverati, poterono confrontare quella data (16 dicembre 1871) con un'altra (16 agosto dello stesso anno) anacronisticamente scarabocchiata con la calligrafia di Marina in un angolo di una fotografia scattata da un fotografo professionista (ed esposta nella biblioteca in una cornice vellutata color lampone, sullo scrittoio a cattedra di suo marito) identica in ogni dettaglio alla riproduzione del giornale, compreso l'immancabile svolazzo di un ectoplasmico velo da sposa in parte gonfiato da una brezza di sagrato di traverso ai pantaloni dello sposo. Una bambina era nata il 21 luglio 1872 a Ardis, la residenza che il padre putativo possedeva nella contea di Ladore, e per qualche oscura ragione mnemonica era stata registrata all'anagrafe come Adelaida. Un'altra bambina, questa volta veramente figlia di Dan, era nata il 3 gennaio 1876.

Oltre alla vecchia rubrica illustrata dell'ancor viva ma piuttosto rimbambita «Kaluga Gazette», quei nostri birichini Pimpernel e Nicolette trovarono nella stessa soffitta una bobina contenente quella che si sarebbe rivelata (secondo quanto disse Kim, il ragazzo di cucina, come si vedrà in seguito) una pellicola ripresa dal globe-trotter con la tecnica del microfilm, spaventosamente lunga e piena di stravaganti bazar, cherubini dipinti e monelli piscianti che riapparivano tre volte in punti diversi, nelle diverse sfumature dell'eliografia. Sarebbe naturale, nel periodo in cui ci si sta preparando a formare una famiglia, non esibire certi intérieurs (come quelle scene di gruppo a Damasco, protagonisti il globe-trotter e l'archeologo dell'Arkansas con il sigaro perennemente in bocca e la seducente cicatrice dalla parte del fegato, e le tre puttane grasse e il vecchio eiaculatore precoce Archie, come scherzosamente lo definiva il terzo elemento maschile della partita, bravo e buon britannico); eppure la maggior parte della pellicola, accompagnata da annotazioni di carattere puramente oggettivo non sempre facili da individuare – a causa della mancanza o della fuorviante collocazione dei segnalibri nelle numerose guide sparse lì intorno - fu proiettata da Dan molte volte per sua moglie durante la loro istruttiva luna di miele a Manhattan.

Ma la migliore scoperta dei due ragazzi arrivò da un altro scatolone appartenente a uno strato anteriore del passato. Si trattava di un piccolo album verde sulle cui pagine erano stati accuratamente incollati i fiori che Marina aveva raccolto, o altrimenti ottenuto, a Ex, una località alpina di villeggiatura non lontano da Briga, in Svizzera, dove aveva soggiornato prima del matrimonio, quasi sempre in uno chalet preso in affitto. Le prime venti pagine dell'album erano adorne di alcune piantine raccolte qua e là nell'agosto del 1869, sui declivi erbosi sopra lo chalet, o nel parco dell'Hotel Florey, o nel giardino del vicino sanatorio («il mio Nusshaus», come lo aveva soprannominato la povera Aqua, o «la Casa», come lo definiva con maggior ritegno Marina nei suoi appunti sul proprio soggiorno) [NOTA Nuss in Tedesco, «noce». In inglese gergale nut («noce») vuol dire «pazzo» e nuthouse «manicomio»]. Quelle prime pagine non presentavano un vero interesse botanico o psicologico; le ultime cinquanta, o pressappoco, erano rimaste bianche; ma la parte centrale, che registrava una notevole diminuzione nel numero degli esemplari, si rivelava un vero e proprio piccolo melodramma messo in scena dai fantasmi dei fiori morti. Gli esemplari erano incollati sul lato destro del foglio, a sinistra erano scritte le annotazioni di Marina Dourmanoff (sic):


Ancolie Bleue des Alpes, Ex-en-Valais, 1.IX.69. Da un inglese in albergo. «Aquilegia alpina, del colore dei suoi occhi».

Épervière auricule, 25.X.69, Ex, ex horto doctoris. Colta dal muro del giardino alpino del dottor Lapiner.

Foglia d'oro [ginkgo]: caduta da un libro, La verità su Terra, che Aqua mi ha dato prima di ritornare alla sua Casa. 14.XII.69.

Edelweiss artificiale portatomi dalla mia nuova infermiera con un biglietto di Aqua dove si dice che proviene da un «misero e bizzarro» albero di Natale della Casa. 25.XII.69.

Petalo di orchidea, una delle 99 orchidee, se mi è concesso, speditemi ieri con consegna urgente, c'est bien le cas de le dire, da Villa Armina, Alpes Maritimes. Ne ho messe da parte dieci da portare a Aqua nella sua Casa. Ex-en-Valais, Svizzera. «Nevica nella sfera di cristallo del Destino» come diceva lui. [La data è cancellata].

Gentiane de Koch, rara, portatami da lapocka [il caro] Lapiner, raccolta nel suo «silenzioso gentiarium» 5.I.1870.

[Macchia di inchiostro blu casualmente a forma di fiore, o cancellatura ritoccata con penna a feltro] Compliquaria compliquata var. aquamarina. Ex, 15.I.70.

Fiore ornamentale di carta, trovato nella borsetta di Aqua. Ex, 16.II.1870, fatto da un paziente, in quella Casa che ormai non è più sua.

Gentiana verna (printanière). Ex, 28.III.1870, nel prato della villetta della mia infermiera. Ultimo giorno qui.

[NOTA dottor Lapiner Per una ragione misteriosa ma non priva di attrattiva, la maggior parte dei medici nel libro hanno nomi connessi alla parola «coniglio». Il francese lapin di Lapiner si mescola al russo krolik, cognome dell'amato lepidotterologo di Ada e il russo zajac (lepre) riecheggia in Seitz (il ginecologo tedesco); c'è un latino cuniculus in Nikulin («nipote del grande roditorologo Kunikulinov»), e un greco lagos nel Lagosse (il medico che assiste Van nella vecchiaia). Per finire, Coniglietto, lo specialista italiano di «cancro del sangue»].


I due giovani scopritori di quello strano e sgradevole tesoro lo commentarono come segue:

«Desumo» disse il ragazzo «tre fatti essenziali: la non ancora sposata Marina e la già sposata sorella svernavano nel mio lieu de naissance [luogo di nascita]; Marina aveva il suo personale dottor Krolik, pour ainsi dire[per così dire]; e le orchidee arrivavano da Demon, il quale preferiva starsene vicino al mare, la sua bisnonna azzurro scuro».

«Sono in grado di aggiungere» disse la ragazza «che il petalo appartiene alla comune orchidea farfalla; che mia madre era anche più pazza di sua sorella; e che il fiore di carta ceduto con tanta indifferenza è una riproduzione perfettamente riconoscibile della sanicola che fiorisce al principio della primavera e che ho visto a profusione, lo scorso febbraio, sulle colline della costa della California. Il dottor Krolik, il nostro naturalista locale che tu, Van, hai citato, come avrebbe potuto fare Jane Austen, per dare una rapida informazione narrativa (ti ricordi di Brown, non è vero, Smith? [NOTA Jane Austen Allusione alle rapide informazioni narrative fornite attraverso il dialogo in Mansfield Park]), ha riconosciuto nel campione che ho portato a Ardis da Sacramento il Bear-Foot, Piede d'orso, B E A R, amor mio, non B A R E, nudo, come il mio piede o il tuo o quello della Fanciulla di Stabia – allusione che tuo padre, il quale, secondo Blanche, è anche il mio, capirebbe al volo, così» (schiocco di dita all'americana)[NOTA Fanciulla di Stabia Allusione al celebre affresco - la cosiddetta «Primavera» - di Stabia, conservato nel Museo Nazionale di Napoli e raffigurante una fanciulla che sparge fiori intorno a sé]. «Mi sarai grato» continuò, abbracciandolo, «di non aver menzionato il nome scientifico di quel fiore. Guarda caso l'altro piede – il Pied de Lion che ornava il povero, piccolo larice natalizio – è stato fatto dalla stessa mano, forse quella di uno studente cinese molto malato arrivato alla Casa direttamente dal Barkley College».

«Buon per te, Pompeianella (la stessa che tu hai visto spargere fiori in uno dei libri illustrati dello zio Dan, ma che io ho potuto ammirare l'estate scorsa in un museo di Napoli). Adesso, ragazza mia, non pensi che dovremmo raccogliere i nostri calzoncini e le nostre camicie, e poi scendere a seppellire o a bruciare immediatamente quest'album? Sei d'accordo?».

«D'accordo» rispose Ada. «Distruggere e dimenticare. Ma abbiamo ancora un'ora prima del tè».

A proposito dell'allusione all'«azzurro scuro», rimasta in sospeso:

Un antico viceré di Estoty, il principe Ivan Temnosinij, padre della trisavola dei ragazzi, principessa Sof'ja Zemski (1755-1809), e diretto discendente dei governanti di Jaroslav dei tempi precedenti all'invasione tartara, aveva un nome vecchio di mille anni che in russo significa «azzurro scuro». Pur essendo per sua natura immune dai magnifici palpiti della consapevolezza genealogica, e incurante della tendenza degli imbecilli ad attribuire allo snobismo tanto l'indifferenza quanto l'entusiasmo, Van non poteva fare a meno di sentirsi esteticamente commosso dal fondale vellutato che era sempre in grado di distinguere attraverso il fogliame nero del suo albero genealogico, come un rassicurante e onnipresente cielo estivo. Negli ultimi anni, però, non potè più rileggere Proust (come non era mai più riuscito ad assaporare la gelatina profumata del lokum [piccolo dolce turco]) senza che lo cogliessero la sensazione nauseante della sazietà e il raspare di un ghiaioso bruciore di stomaco; tuttavia il suo brano favorito restò sempre il corrusco pezzo di bravura che riguarda la storia del nome «Guermantes», la cui sfumatura si fondeva nel prisma del suo pensiero con l'adiacente ultramarino, stuzzicando piacevolmente la sua vanità artistica.

Colore o cognome? Poco chiaro. Riscrivere! (Nota a margine nell'ultima calligrafia di Ada Veen).


2

L'affaire di Marina e Demon cominciò il giorno del compleanno di lui, di lei e di Daniel Veen: il 5 gennaio 1868, quando Marina aveva ventiquattro anni e i due Veen trenta.

Come attrice, Marina non aveva nessuna delle qualità sorprendenti grazie alle quali la capacità mimica sembra valere, almeno per la durata dello spettacolo, perfino più del prezzo della ribalta come l'insonnia, la fantasia, l'arte arrogante; tuttavia quella notte, con la soffice neve che cadeva oltre le tende di velluto e i fondali dipinti, la Durmanska (che pagava al grande Scott, il suo impresario, settemila dollari d'oro alla settimana soltanto per la pubblicità, più un generoso bonus per ogni scrittura) era stata, sin dal principio di quello spettacolo da due soldi (una commedia americana che un pretenzioso scribacchino aveva tratto da una famosa trama sentimentale russa), così sognante, così bella, così commovente, che Demon (non propriamente un gentiluomo nelle questioni amorose) fece una scommessa con il suo vicino di posto in platea, il principe N.; corruppe una serie di addetti ai camerini, e poi, in un cabinet reculé (come uno scrittore francese di un secolo precedente avrebbe potuto definire con un alone di mistero quella piccola stanza dove erano finiti chissà come la tromba rotta e i cerchi per i barboncini di un vecchio pagliaccio ormai dimenticato, insieme a molti vasi impolverati di belletti di diversi colori), mise in pratica tra due scene (capitoli tre e quattro del martirizzato romanzo) il suo intento di possederla. Nel primo quadro lei si era svestita, lasciando intravedere la propria aggraziata silhouette dietro un paravento semitrasparente, e poi era riapparsa in una camicia da notte impalpabile e seducente e aveva trascorso il resto della sciagurata scena parlando di un possidente locale, il barone d'O., con una vecchia nutrice in stivali da esquimese. Sulla scorta dei suggerimenti di quella contadina infinitamente saggia, aveva quindi scritto con una penna d'oca, standosene seduta sulla sponda del letto e appoggiandosi a un comodino a zampe di capriolo, una lettera d'amore, e aveva impiegato cinque minuti a rileggerla, con voce languida ma alta, non si sapeva a beneficio di chi, visto che la nutrice sonnecchiava seduta su una specie di baule da nave, e gli spettatori erano principalmente interessati al riflesso che il raggio di luna artificiale accendeva sulle braccia nude e sui seni palpitanti di quella giovane che si struggeva d'amore.

Anche prima che la vecchia esquimese, strascicando i piedi, se ne fosse andata con il messaggio, Demon Veen aveva lasciato la poltrona di velluto rosa e aveva proceduto a vincere la scommessa, essendo il successo della sua impresa assicurato dal fatto che Marina, tenera vergine pazza, era innamorata di lui dal loro ultimo ballo, la notte di Capodanno. Per di più, la luce tropicale della luna che l'aveva appena bagnata, l'acuta percezione della propria bellezza, gli impulsi ardenti della fanciulla della finzione e il galante applauso di un teatro quasi pieno l'avevano resa particolarmente vulnerabile al solletico dei baffi di Demon. Ed ebbe anche tutto il tempo di cambiarsi per la scena successiva, che cominciava con un intermezzo piuttosto lungo interpretato da una compagnia di ballo di cui Scotty si era assicurato i servizi, portando in due vetture letto i russi che la componevano direttamente da Belokonsk, nell'Estoty occidentale. In uno splendido frutteto alcuni giovani e giocondi giardinieri, con indosso chissà perché il costume delle tribù georgiane, si lanciavano in bocca dei lamponi, mentre alcune ugualmente improbabili servette in sarovary(uno stupido errore: forse la parola «samovar» era stata travisata nell'aerocablo dell'agente) erano impegnate a raccogliere i frutti gommosi della bismalva e delle arachidi dai rami degli alberi. A un cenno invisibile di origine dionisiaca, si tuffarono tutti nella violenta danza detta kurva o «nastro» prevista dal giulivo programma i cui strafalcioni per poco non fecero cadere dalla poltrona Veen (fremente, e leggero nei lombi, e con in tasca la banconota roseorossa del principe N.). [NOTA lamponi... nastroAllusione ai ridicoli errori di una traduzione delle poesie di Mandel'štam a opera di Lowell che tradusse «Moskvu-kurvu» (Mosca la puttana) con «Moscow's ribbon of boulevards»(il nastro dei boulevard di Mosca)]

Il suo cuore mancò un battito, deliziosa perdita che non lasciò rimpianti, quando lei, vestita di rosa, accesa ed eccitata, corse nel frutteto guadagnandosi gli applausi della sua claque, un terzo della pacata ovazione che salutò l'istantaneo disperdersi degli imbecilli ma pittoreschi travisatori di Lyaska – o Iveria. Il suo incontro con il barone d'O., che arrivò senza fretta da una stradina laterale, tutto speroni e marsina verde, sfuggì in qualche modo alla coscienza di Demon, tanto questi era sconvolto dalla meraviglia di quel breve abisso di assoluta realtà tra due simulate folgorazioni di vita artefatta. Senza aspettare la fine della scena, uscì in fretta dal teatro nella nitida notte di cristallo, e i fiocchi di neve gli trapuntarono di stelle il cappello a cilindro mentre ritornava verso la propria casa nell'isolato accanto per predisporre una cena sfarzosa. Il tempo che impiegò ad andare a prendere la nuova amante con la sua slitta dall'allegro tintinnio bastò al balletto dell'ultimo atto, quello dei generali caucasici e delle metamorfizzate cenerentole, per giungere a un'improvvisa conclusione, e al barone d'O., ora in marsina nera e guanti bianchi, per inginocchiarsi in mezzo a un palcoscenico vuoto con in mano la scarpina di vetro che la sua incostante dama gli aveva lasciato nell'eludere le sue tardive avance. I claqueur cominciavano a essere stanchi e a guardare l'orologio quando Marina con un mantello nero scivolò nelle braccia di Demon e nella sua slitta.

Folleggiarono e viaggiarono, e bisticciarono, e volarono di nuovo l'uno nelle braccia dell'altra. Prima dell'inverno seguente lui cominciò a sospettare che lei gli fosse infedele, ma non riuscì a identificare il suo rivale. A metà marzo, durante un pranzo d'affari con un esperto d'arte, un tipo affabile, dinoccolato, piacente, con un frac vecchio stile, Demon si incastrò nell'orbita il monocolo, fece scattare la serratura di un'apposita valigia piatta e ne estrasse un piccolo acquarello dicendo che pensava (in realtà lo sapeva per certo, ma desiderava far ammirare la propria sicurezza di giudizio) si trattasse di un'opera sconosciuta della giovane arte del Parmigianino. Il dipinto mostrava una ragazza nuda con una mela, simile a una pesca, nella conca della mano semilevata, seduta di profilo su un supporto inghirlandato di convolvoli, e aveva per il suo scopritore l'ulteriore attrattiva di ricordargli Marina quando, richiamata dal suono del telefono fuori dal bagno di una stanza d'albergo, e appollaiata sul bracciolo di una poltrona, copriva il ricevitore chiedendo all'amante qualcosa che lui non riusciva ad afferrare perché la voce della vasca sommergeva il suo sussurro. Al barone d'Onsky bastò lanciare un solo sguardo a quella spalla sollevata e a certi effetti vermicolati di delicata vegetazione per confermare il sospetto di Demon. D'Onsky aveva la reputazione di non lasciar trapelare alcun segno di emozione estetica nemmeno in presenza del più affascinante capolavoro; questa volta, nondimeno, mise da parte la lente come avrebbe fatto con una maschera, e permise al proprio sguardo senza veli di carezzare la mela vellutata e le parti soffici e muscose del nudo con un sorriso di compiaciuto stupore. Voleva il signor Veen prendere in considerazione l'ipotesi di venderglielo all'istante? Per favore, signor Veen? Il signor Veen non voleva. Skonky (puzzola, un soprannome senza via di scampo) si sarebbe dovuto accontentare dell'orgogliosa consapevolezza che, fino ad allora, lui e il fortunato proprietario erano le sole persone ad averlo ammirato en connaissance de cause [con cognizione di causa]. Il dipinto tornò così nel suo speciale tegumento, ma dopo aver finito il quarto bicchiere di cognac, d'O. chiese implorando di potergli dare un'ultima sbirciatina. Erano entrambi un po' ubriachi, e Demon si domandò segretamente se la somiglianza di quella edenica fanciulla con una giovane attrice, che il suo ospite aveva senza dubbio visto sulla scena in Eugene e Lara o in Lenore Raven (entrambe stroncate senza pietà da un giovane critico «disgustosamente incorruttibile»), dovesse essere o sarebbe stata commentata. Non lo fu: erano ninfe di un genere davvero molto affine a causa della loro primigenia limpidezza, poiché le somiglianze tra due giovani corsi d'acqua non sono altro che mormorii di naturale innocenza e ingannevole gioco di specchi, questo è il mio cappello, il suo è più vecchio, ma abbiamo lo stesso cappellaio di Londra. [NOTA Eugene e Lara o in Lenore Raven Allusione al poema Evgenij Onegin di Puškin (nel quale Larina è il cognome di Tat'jana e di Ol'ga) e le poesie di E.A. Poe Lenore (1831) e The Raven (1845)].

Il giorno successivo Demon stava prendendo il tè nel suo albergo favorito con una signora boema che non aveva mai visto prima e che non avrebbe rivisto più (lei anelava a una sua raccomandazione per un lavoro alla Sezione Pesci e Fiori di Vetro di un museo di Boston), quando costei interruppe il proprio facondo io per indicare Marina e Aqua che, con aria assente, cipiglio alla moda e pellicce azzurrine, con Dan Veen e un bassotto al seguito, se la svignavano attraverso la hall.

«È curioso come quella terrificante attrice somigli a Eva al clessidrofono nel famoso quadro del Parmigianino» disse la signora boema.

«È tutto fuorché famoso,» rispose Demon con calma «e lei non può averlo visto.» Poi aggiunse «Non la invidio; l'ingenuo che si rende conto di aver messo il piede nel fango di una vita non sua deve provare una sensazione davvero nauseante. E da chi avrebbe avuto queste sciocche notizie? Direttamente da un tale che si chiama d'Onsky, o da un amico di un suo amico?».

«Da un suo amico» balbettò la sventurata signora boema.

Dopo essere stata interrogata nelle segrete di Demon, Marina, con una risata squillante, ordì un pittoresco tessuto di bugie; poi cedette, e confessò. Giurò che era tutto finito; che il barone, fisicamente un relitto e spiritualmente un samurai, era andato per sempre in Giappone. Da una fonte più attendibile Demon apprese che la vera destinazione del samurai era il piccolo e lindo Vaticano, una stazione termale romana, da dove sarebbe tornato a Aardvark, nel Massa, entro una settimana o giù di lì. Visto che il prudente Veen preferiva uccidere il suo uomo in Europa (si diceva che il decrepito ma indistruttibile Gamaliele stesse facendo del suo meglio per proibire i duelli nell'emisfero occidentale – una voce infondata, o il capriccio estemporaneo di un presidente idealista, perché non ne sarebbe mai venuto fuori niente [NOTA: Warren Gamaliel Harding, 29° presidente U.S.A]), Demon noleggiò il più veloce naftaplano disponibile, raggiunse il barone (che era in ottima forma) a Nizza, lo vide entrare nella libreria Gunter, lo seguì, e alla presenza dell'imperturbabile e piuttosto annoiato libraio inglese schiaffeggiò l'attonito rivale con un guanto color lavanda.

La sfida venne accettata; furono scelti due padrini locali; il barone optò per la spada; e dopo che una certa quantità di buon sangue (polacco e irlandese – una specie di «Bloody Mary» americano, in linguaggio da bar) ebbe inzaccherato i due torsi villosi, la terrazza imbiancata a calce, la rampa di scale che scendeva verso il giardino cintato in un divertente scenario alla Douglas d'Artagnan [NOTA Douglas d'Artagnan Douglas Fairbanks (1883-1939) recitava la parte di d'Artagnan nel film I tre moschettieri del 1921], il grembiule di una mungitrice del tutto accidentale, e le maniche della camicia di entrambi i padrini, l'affascinante Monsieur de Pastrouil e lo scellerato colonnello St. Alin, i due gentiluomini testé citati separarono i combattenti ansanti, e Skonky morì, non «delle sue ferite» (come dissero voci malevole), ma per una complicanza cancrenosa da parte di una piccola e forse autoinflitta trafittura all'inguine, che gli causò problemi circolatori a dispetto di non pochi interventi chirurgici subiti in due o tre anni di soste protratte all'Aardvark Hospital di Boston – una città dove, tra l'altro, egli sposò nel 1869 la signora boema nostra amica, attualmente responsabile della Sezione Pesci e Fiori di Vetro del locale museo.

Marina arrivò a Nizza pochi giorni dopo il duello e stanò Demon nella sua villa, Armina, e nell'estasi della riconciliazione nessuno dei due si ricordò di gabbare la procreazione, così che in seguito cominciò l'estremamente interesnoe polozenie (stato interessante) senza il quale, in effetti, queste tormentate note non avrebbero visto la luce.

(Van, io mi fido del tuo gusto e del tuo talento, ma sei proprio sicuro di dover continuare a far ritorno con tanto zelo a quel mondo malvagio che forse, dopotutto, è esistito solo oniricamente? Nota a margine scritta nel 1965 da Ada; cancellata con un tratto leggero della sua ultima mano esitante).

Quella fase incauta non fu l'ultima ma fu la più breve – questione di quattro o cinque giorni. Lui la perdonò. L'adorava. Desiderava moltissimo sposarla – a condizione che lei abbandonasse immediatamente la sua «carriera» teatrale. Denunciò la mediocrità del suo talento e la volgarità del suo entourage, e lei strillò che lui era un bruto e un mostro di crudeltà. Dal 10 aprile in poi cominciò ad accudirlo Aqua, mentre Marina era tornata in volo alle prove di Lucile, ancora un esecrabile dramma destinato a un altro fiasco al teatro di Ladore.

«Adieu. Forse è meglio cosi,» scrisse Demon a Marina alla metà di aprile del 1869 (la lettera potrebbe essere tanto una copia trascritta di suo pugno quanto l'originale non spedito) «perché indipendentemente dalla felicità che avrebbe potuto accompagnare la nostra vita coniugale, e dal tempo che questa vita felice sarebbe potuta durare, c'è un'immagine che io non dimenticherò e non potrò perdonare mai. Imprimitelo nella mente, mia cara. Lascia che te lo ripeta in termini che possano essere apprezzati da un'artista del palcoscenico. Tu eri andata a Boston a trovare una vecchia zia – un cliché, ma per l'occasione la verità – e io ero andato al ranch di mia zia vicino a Lolita, nel Texas. In febbraio, una mattina presto (circa a mezzogiorno chez vous), ti ho chiamato al tuo albergo da una cabina di puro cristallo sul ciglio della strada, ancora bagnata dalle lacrime di uno spaventoso temporale, per chiederti di volare da me subito, perché io, Demon, sbatacchiando le mie ali gualcite e maledicendo il dorofono automatico, non potevo vivere senza di te, e perché volevo farti vedere, tenendoti stretta, il bagliore dei fiori del deserto che la pioggia aveva fatto sbocciare. La tua voce era remota ma dolce; hai detto di essere nella condizione di Eva, di aspettare un momento, di lasciarti mettere un penjuar [Russo: accappatoio]. Invece, coprendo il ricevitore, hai parlato, suppongo, con l'uomo con il quale avevi passato la notte (e che io avrei volentieri spedito all'altro mondo, se non fossi stato ancor più ansioso di castrarlo). Questo è lo schizzo dipinto in un'estasi profetica da un giovane artista di Parma, nel sedicesimo secolo, per l'affresco del nostro destino, e coincidente, se si eccettua la mela della terribile conoscenza, con un'immagine ripetuta nella mente di due uomini. A proposito, la tua cameriera fuggiasca è stata trovata dalla polizia qui, in un bordello, e ti verrà rispedita non appena sarà sufficientemente imbottita di mercurio».

3

I dettagli del disastro EL (e non intendo la ferrovia elevata) nel beau milieu del secolo scorso, che ebbe il singolare effetto di diffondere e insieme di maledire la nozione di «Terra», sono storicamente troppo noti, e spiritualmente troppo osceni, per essere trattati per esteso in un libro che si rivolge a giovani impreparati e innamorati – e non a uomini maturi o a inumatori.

Naturalmente, oggi, dopo che tanti anni di delusione reazionaria sono passati (più o meno!) e che le nostre piccole macchine lucenti, Faradio [dio dell'elettricità] le benedica, hanno ripreso a ronzare alla meno peggio, come facevano nella prima metà del secolo diciannovesimo, l'aspetto meramente geografico della vicenda possiede un lato comico che lo redime, come quegli intarsi d'ottone, bric-à-Braques [allusione al pittore Georges Braque e al Bric-à-brac] e orrori in similoro, intesi come «arte» dai nostri progenitori privi di senso dell'umorismo. Perché, in verità, nessuno può negare la presenza di qualcosa di decisamente ridicolo in quelle configurazioni che vennero solennemente spacciate per una variopinta mappa di Terra. È proprio esilarante immaginare che la «Russia», invece di essere un grazioso sinonimo dell'Estoty, la provincia americana che si estende dal Circolo non più vizioso Artico fino agli Stati Uniti veri e propri, fosse su Terra il nome di un paese, trasferito, come da un abile eschimotaggio, attraverso la barriera di un raddoppiato oceano nell'emisfero opposto, dove si era disordinatamente disteso sopra tutta l'attuale Tartaria, dalla Curlandia alle Curili! Ma se (ancor più assurdamente), in termini spaziali terrestri, l'Amerussia di Abraham Milton venne divisa nei suoi componenti, con acqua tangibile e ghiaccio a separare le nozioni meno poetiche che politiche di «America» e «Russia», una discrepanza più complicata e anche più grottesca sorse per quanto riguarda il tempo – non solo perché la storia di ogni parte dell'amalgama non andava molto d'accordo con la storia di ciascuna delle controparti, ma perché tra le due terre si apriva una breccia di quasi cento anni in un senso o nell'altro; una breccia caratterizzata da una bizzarra confusione nella segnaletica sulle strade del tempo dove non tutti i «non più» di un mondo corrispondevano ai «non ancora» dell'altro. Si doveva, tra le altre cose, a quel concorso di divergenze «scientificamente inafferrabile» se spiriti bien rangés (incapaci di folleggiare con folli gobbetti) rifiutarono Terra come una moda strampalata o un'illusione, e menti squilibrate (pronte a immergersi in qualunque abisso) l'accettarono come supporto e simbolo della propria irrazionalità.

Come Van Veen stesso doveva scoprire al tempo della propria appassionata ricerca sulla terrologia (allora una branca della psichiatria), anche il più profondo dei pensatori e il più puro dei filosofi, Paar di Chose e Zapater di Aardvark, erano emozionalmente divisi nel loro atteggiamento verso la possibilità che esistesse «una lente deformante della nostra deformata gleba» secondo l'eufonica arguzia di uno studioso che desidera rimanere anonimo. (Hmm! Kvissà kvissà kvi sarà?, come diceva sempre la povera Mlle L. a Gavronskij. Calligrafia di Ada).

C'era chi sosteneva che le discrepanze e le «false sovrapposizioni» tra i due mondi fossero troppo numerose, e troppo profondamente intrecciate nella matassa degli eventi successivi, per non dare alla teoria della loro essenziale identità il colore di una banale fantasia; e c'era chi replicava che le differenze non facevano che confermare la realtà organica pertinente all'altro dei due mondi; e che una perfetta somiglianza avrebbe piuttosto suggerito l'idea di un fenomeno speculare, e quindi speculativo; e che due partite a scacchi con identiche aperture e identiche chiusure potrebbero ramificarsi in un numero infinito di varianti, su una scacchiera e in due cervelli, in qualunque stadio intermedio della loro evoluzione irrevocabilmente convergente.

L'umile narratore deve ricordare tutto questo a chi rilegge, perché nel 1869 (per nulla un anno mirabile), in aprile (il mio mese preferito), nel giorno di San Giorgio (secondo le stucchevoli memorie di Mlle Larivière) Demon Veen sposò Aqua Durmanov – per dispetto e per pietà, una miscela non infrequente.

O forse c'era una spezia in più? Marina, con perversa vanagloria, affermava a letto che i sensi di Demon dovevano essere stati influenzati da una bizzarra sorta di «piacere» (nel senso del plaisir francese, che stimola una quantità di vibrazioni spinali supplementari) incestuoso (qualunque cosa significhi questo termine) quando accarezzava e assaporava e delicatamente schiudeva e violava, in modi inconfessabili ma affascinanti, una carne (une chair) che era sia quella di sua moglie sia quella della sua amante, gli incanti confusi e accesi di due corpi gemelli, un'Acquamarina al contempo singola e doppia, un miraggio in un emirato, una gemma geminata, un'orgia di allitterazioni epiteliali.

In realtà Aqua era meno graziosa e di gran lunga più pazza di sua sorella. Durante i suoi quattordici anni di infelice matrimonio trascorse una serie discontinua di sempre più duraturi soggiorni in case di cura e sanatori. Una piccola mappa della parte europea del Commonwealth britannico – diciamo dalla Scoto Scandinavia fino alla Riviera, all'Aitar e alla Palermontovia – così come di gran parte degli Stati Uniti, dall'Estoty fino al Canady e all'Argentina, sarebbe potuta essere fittamente trapunta da bandierine con la Croce Rossa smaltata che, nella Guerra dei Mondi di Aqua, ne segnavano i bivacchi. C'era stato un tempo in cui aveva progettato di cercare un minimo sollievo («appena un po' di grigiore, per carità, invece del nero compatto») in protettorati anglo-americani come i Balcani e le Indie, e avrebbe potuto perfino tentare i due continenti meridionali che prosperano sotto il nostro congiunto dominio. Naturalmente, la Tartaria, un inferno indipendente, che all'epoca si estendeva dal Baltico e dal Mar Nero fino all'Oceano Pacifico era turisticamente inaccessibile, sebbene Jalta e Altyn-tagh fossero nomi dal suono stranamente attraente... Ma la sua destinazione reale era Terra la Bella, e là confidava di volare su ali lunghe come quelle di una libellula quando fosse morta. Le sue povere letterine al marito dalle case della follia erano a volte firmate: Madame Shchemjashchikh-Zvukov (dei Suoni-Strazianti).

Dopo aver sostenuto il primo assalto della pazzia a Ex-en-Valais, ritornò in America e patì una dura sconfitta, nei giorni in cui Van era ancora allattato da una giovane balia, quasi una bambina, Ruby Black, nata Black, anche lei destinata a impazzire. Infatti, non appena le creature amorevoli e fragili venivano in stretto contatto con Van Veen (come più tardi fece Lucette, per dare un altro esempio), erano subito costrette a conoscere tormenti e sventure, a meno che non fossero fortificate da una traccia del sangue demoniaco di suo padre.

Aqua non aveva ancora vent'anni quando l'esaltazione della sua natura cominciò a rivelare una tendenza morbosa. Cronologicamente lo stadio iniziale della sua malattia mentale coincise con la prima decade della Grande Rivelazione, e anche se le sarebbe stato facile trovare un altro tema per la sua ossessione, le statistiche mostrano come la Grande, e per alcuni Insostenibile, Rivelazione abbia causato più follia nel mondo perfino di quanta ne avesse provocata un'eccessiva preoccupazione religiosa nel Medioevo.

La Rivelazione può essere molto più pericolosa della Rivoluzione. Menti malate identificarono la nozione di un pianeta Terra con quella di un altro mondo, e quest'«Altro Mondo» venne confuso non solo con il «Mondo a venire» ma con il «Mondo Reale», in noi e fuori di noi. I nostri incantatori, i nostri demoni, sono nobili creature iridescenti con artigli traslucidi e ali che battono con gran forza; ma negli anni Sessanta del secolo scorso i Nuovi Credenti esortavano a immaginare una sfera dove i nostri splendidi amici erano stati completamente degradati, diventando mostri perversi, diavoli disgustosi, con i neri scroti dei carnivori e i denti avvelenati dei serpenti, oltraggiatori e torturatori delle anime femminili; mentre sul lato opposto del sentiero cosmico un'iridata bruma di spiriti angelici, abitanti della soave Terra, restauravano i miti più stantii, ma ancora potenti, dei vecchi credi con un riadattamento per armonium di tutte le cacofonie di tutti gli dèi e i divinatori che si siano mai riprodotti nelle paludi di questo nostro capace mondo.

Capace per il tuo scopo, Van, entendons-nous. (Nota a margine).

La povera Aqua, le cui fantasie erano sempre sul punto di soccombere davanti ai vaneggiamenti di ciarlatani e di cristiani, riusciva a raffigurarsi vividamente il paradiso di un salmista minore, un'America futura di edifici di alabastro alti cento piani, simile a un magnifico negozio di mobili stracolmo di grandi armadi dipinti di bianco e di frigoriferi più bassi; vedeva giganteschi squali volanti con occhi laterali che impiegavano meno di una notte a trasportare i pellegrini attraverso un intero continente, solcando il nero etere dal mare scuro a quello lucente, prima di tornare rombando a Seattle o a Wark. Udiva magiche scatole musicali che parlavano e cantavano, affogando il terrore del pensiero, facendo ascendere la ragazza dell'ascensore, sprofondando sottoterra con il minatore, lodando bellezza e purezza, la Vergine e Venere, nelle dimore di chi è solo e di chi è povero. L'innominabile potere magnetico denunciato da crudeli legiferatori in questo nostro malandato paese – oh, dappertutto, in Estoty e in Canady, nel Mark Kennensie «tedesco» così come nel Manitobogan «svedese», nell'officina dello jukonec [abitante dello Yukon] in giubba rossa così come nella cucina della Lyaskanka col fazzoletto rosso, e nell'Estoty «francese» dal Bras d'Or a Ladore, e molto presto in entrambe le nostre Americhe, e ovunque negli altri storditi continenti – era usato su Terra con la stessa liberalità dell'aria e dell'acqua, come le bibbie e le scope. Due o tre secoli prima, Aqua sarebbe potuta diventare semplicemente un'altra combustibile strega.

Nei suoi erratici anni da studentessa Aqua aveva lasciato il Brown Hill College, un istituto alla moda fondato da un suo pochissimo onorevole antenato, per prendere parte (anche questo era alla moda) a un qualche Progetto per il progresso sociale nei Severnija Territorii. Con l'inestimabile aiuto di Milton Abraham, organizzò una Farmacia Filantropica a Belokonsk, e lì si innamorò dolorosamente di un uomo sposato, il quale, dopo averle dispensato, durante i tre mesi estivi, una passione da parvenu nella sua garsonnière (una Ford familiare), preferì rinunciare a lei piuttosto che rischiare di mettere a repentaglio la propria posizione sociale in una città filistea dove gli uomini d'affari appartenevano a una «loggia» e giocavano a «golf» la domenica. La spaventosa malattia, diagnosticata sommariamente, nel suo caso e in quello di altri sventurati, come una «forma acuta di misticismo maniacale complicata da esistalienazione» (in altri termini banale pazzia), la sommerse gradualmente, con intervalli di pace estatica e momentanee zone di precaria salute, e con sogni improvvisi di eternità-serenità che divennero sempre più rari e brevi.

Dopo la sua morte, nel 1883, Van calcolò che nel corso di tredici anni, contando ogni presunto momento della sua presenza, contando le lugubri visite ai suoi diversi ospedali, nonché le sue improvvise, tumultuose apparizioni nel bel mezzo della notte (accapigliandosi con il marito, o con la fragile ma pronta governante inglese, nel salire le scale, accolta dal furioso benvenuto del vecchio appenzeller – e guadagnando finalmente la stanza dei bambini, senza parrucca, senza scarpe, con le unghie insanguinate), lui l'aveva vista veramente, o era stato vicino a lei, in tutto, per un tempo che a malapena superava quello della gestazione umana.

La rosea lontananza di Terra si velò presto per lei di brume sinistre. La sua disintegrazione andò precipitando lungo una successione di fasi ciascuna più tormentosa della precedente; perché il cervello umano può diventare il miglior luogo di tortura fra tutti quelli da lui stesso inventati, istituiti e utilizzati per milioni di anni, in milioni di terre, su milioni di creature urlanti.

Aveva sviluppato una morbosa sensibilità al linguaggio dell'acqua che scorre dai rubinetti – la quale a volte echeggia (come fa molto spesso predormitoriamente il flusso del sangue) un frammento di discorso umano, indugiando nelle nostre orecchie mentre ci laviamo le mani dopo un cocktail in compagnia di qualche estraneo. Quando, per la prima volta, si rese conto che una qualsiasi conversazione poteva così replicarsi, prolungarsi, nel suo caso in modo piuttosto impaziente e beffardo, ma in realtà del tutto innocuo, si sentì lusingata all'idea che lei, la povera Aqua, avesse casualmente scoperto un così semplice metodo di registrazione e trasmissione della parola, mentre i tecnologi (le cosiddette teste d'uovo) di tutto il mondo cercavano di rendere pubblicamente utili e commercialmente redditizi gli oltremodo elaborati e ancora assai costosi telefoni idrodinamici e altri miserabili congegni destinati a rimpiazzare quelli che erano stati spediti k certjam sobach'im (in russo «al diavolo») con l'interdizione di una non menzionabile «lammer» [allusione all'elettricità]. Ben presto tuttavia la loquacità dei rubinetti, ritmicamente perfetta ma verbalmente confusa, cominciò ad acquisire per lei un significato troppo pertinente. La purezza dell'enunciazione dell'acqua corrente crebbe di pari passo alla sua molestia. Parlava subito dopo che lei aveva ascoltato le parole di qualcuno – non necessariamente rivolte a lei – imperiose ed espressive, dette con voce rapida e caratteristica, e intonazioni molto soggettive o molto straniere, come il martellamento di un narratore ossessivo durante un detestabile ricevimento, o un liquido soliloquio in una commedia tediosa, o la bella voce di Van, o un po' di poesia ascoltata a una conferenza, mio amore, mia beltà, mio giovane abbi pietà 

[NOTA mio amore, mia beltà... Parafrasi di una poesia di A.E. Housman, A Shropshire Lad (1896)], 

ma specialmente il verso italiano, più fluido e flou, per esempio l'arietta recitata tra un martella-ginocchio e un solleva-palpebra da un semirusso, mezzotocco vecchio dottore, doc, toc, etta-otta, ballatetta, deboletta... tu, voce sbigottita... valvoletta e diavoletta... de lo cor dolente... con ballatetta va... va... della strutta, destruttamente...mente...mente... [NOTA ballatetta Frammento e alterazione di un passaggio di una «piccola ballata» del poeta italiano Guido Cavalcanti (1255-1300). I versi fondamentali dicono più o meno: «tu, voce intimorita e debole che esci piangendo dal mio cuore addolorato, vai con la mia anima e con questa piccola ballata, a parlare della mia mente distrutta»] ferma questo disco, o la guida continuerà a mostrare, come ha fatto proprio questa mattina a Firenze, una stupida colonna che commemora, ha detto, l'«olmo» che si coprì d'un tratto di foglie quando trasportarono san Zeus morto, pesante come un macigno, attraverso la sua graduale, graduale ombra [NOTA La storia dell'olmo appartiene alla leggenda di Zenobio, vescovo di Firenze nel V secolo]; oppure la megera di Arlington che parla incessantemente al suo silenzioso marito mentre i vigneti le passano accanto veloci, e continua perfino nella galleria (non possono farti questo, diglielo, Jack Black, devi proprio fargliela vedere...). L'acqua del bagno (o della doccia) era troppo un Calibano per parlare distintamente – o forse era troppo brutalmente ansiosa di emettere il suo caldo torrente e liberarsi di quell'infernale ardore per preoccuparsi di chiacchiere di poco conto; ma i flussi gorgoglianti divennero sempre più ambiziosi e detestabili, e quando nella sua prima «casa» sentì uno dei più odiosi dottori stranieri (quello che citava Cavalcanti) mescere festosamente nel suo odioso bidè odiose istruzioni in un tedesco lambito di russo, decise di non aprire mai più il rubinetto.

Ma si esaurì anche quella fase. Nuovi tormenti sostituirono le loquaci torture della sua omonima e quando, durante un intervallo di lucidità, le accadde di aprire con la sua debole manina il rubinetto di un lavabo per un sorso d'acqua, la tiepida linfa, nella sua parlata, senza una traccia di malizia o di intento parodistico, le disse: Finito! Adesso era il formarsi di soffici fosse nere (jamy, jamisci) nella sua mente, tra le sempre meno nitide sculture del pensiero e della memoria, a tormentarla fenomenicamente; il panico mentale e il dolore fisico univano le loro mani color rubino e nero, l'uno facendola pregare per la sua salute, l'altro facendole implorare la morte. Gli oggetti fabbricati dall'uomo perdevano il loro significato o assumevano connotati mostruosi; gli appendiabiti erano in realtà le spalle di telluriani decapitati, le pieghe di una coperta che lei aveva spinto a calci giù dal letto la guardavano dolorosamente con un orzaiolo su una palpebra abbassata e una cupa riprovazione nel floscio contorcimento di un labbro livido. Lo sforzo di comprendere l'informazione che le lancette di un segnatempo, di un lembo di tempo, riescono in qualche modo a trasmettere alle persone di genio diventò per lei vano come il tentativo di decifrare il linguaggio a segni di una società segreta o il canto cinese di quel giovane studente con una chitarra non cinese che aveva conosciuto quando lei o sua sorella avevano dato alla luce un bambino color malva. Ma nella sua follia, nella maestà della sua follia, c'era una patetica civetteria da regina pazza: «Sa, dottore, penso che presto avrò bisogno di un paio di occhiali, non so...» (risata altera) «non riesco proprio a vedere che cosa dice il mio orologio da polso... Per l'amor del cielo, mi dica che cosa sta dicendo! Ah! Quattro e mezzo – mezzo per che cosa? Non mi importa niente e non mi verrà in mente, "niente" e "mente" sono gemelli, io ho una sorella gemella e un figlio gemello. Lo so che lei vuole esaminare il mio pudendron, la rosa alpina pelosa nel suo album, colta dieci anni fa» (mostrando le dieci dita tutta gaia e orgogliosa, dieci sono dieci!).

Poi l'angoscia aumentò e raggiunse una compattezza insostenibile e dimensioni da incubo, facendola urlare e vomitare. Volle (e le fu concesso, Dio benedica il barbiere dell'ospedale, Bob Bean) farsi radere i ricci neri come corte spine color acquamarina, perché le stavano crescendo dentro il cranio poroso e le si arricciavano nella testa. Il puzzle di cielo e muro si smembrava, per quanto delicatamente lo si fosse messo insieme, un movimento brusco o il gomito di un'infermiera possono turbare quei leggeri frammenti e farli diventare indecifrabili contorni di oggetti anonimi, o il retro bianco delle tessere dello «Scrabble», che lei non poteva voltare dalla parte giusta, perché le sue mani erano state legate da un infermiere con gli occhi neri di Demon. Ma subito dopo panico e dolore, come una coppia di bambini in un gioco turbolento, emettevano un'ultima risata stridula e correvano via per manipolarsi l'un l'altro dietro un cespuglio, come nel romanzo Anna Karenina, del conte Tolstoj, e di nuovo, per un momento, un breve momento, tutto era silenzio in casa, e la loro madre aveva lo stesso nome della sua.

Ci fu un periodo in cui Aqua credette che un infante maschio di sei mesi nato morto, un piccolo feto meravigliato, un pesce di gomma che lei aveva prodotto nella vasca da bagno, in un lieu de naissance chiaramente definito X nei suoi sogni, dopo essere finita sciando a tutta velocità contro il ceppo di un larice, fosse stato non si sa come salvato e portato da lei al Nusshaus, con i complimenti di sua sorella, avvolto in una bambagia di cotone inzuppata di sangue, ma perfettamente vivo e sano, per essere registrato come suo figlio Ivan Veen. In altri momenti era convinta che il bambino fosse di sua sorella, nato fuori dal matrimonio, durante una bufera di neve spossante ma intensamente romantica in un rifugio di montagna sul Sex Rouge, dove un certo dottor Alpiner, medico generico e amante delle genziane, sedeva aspettando vicino a una rozza stufa rossa che i suoi stivali si asciugassero. Seguì un po' di confusione a meno di due anni di distanza (settembre del 1871 – il suo fiero cervello teneva ancora a mente dozzine di date) quando dopo essere fuggita dal suo rifugio successivo e aver raggiunto in qualche modo l'indimenticabile casa di campagna di suo marito (imitare l'accento di una straniera: «Signor Konduktor, ay vant go Lago di Luga, hier geld»), approfittò del momento in cui lui si faceva fare un massaggio nel solarium, entrò in punta di piedi nella loro antica camera da letto – e fu colta da un delizioso sgomento: il suo borotalco in un contenitore di vetro pieno a metà con il pittoresco nome di Quelques Fleurs era ancora sul suocomodino; la sua camicia da notte preferita color fiamma giaceva spiegazzata sullo scendiletto; per lei questo significò che soltanto un breve nero incubo aveva annullato la radiosa realtà del suo aver dormito con il marito per tutto quel tempo – fin dall'anniversario della nascita di Shakespeare in un giorno verde e piovoso; ma per quasi tutti gli altri, ahimè, significò che Marina (dopo che G.A. Vronskij, il magnate del cinema, l'aveva lasciata per un altro christosik [Russo, «piccolo Cristo»] dalle lunghe ciglia, come lui chiamava ogni graziosa divetta di sua conoscenza) aveva concepito, cest bien le cas de le dire, la brillante idea di far sì che Demon divorziasse dalla pazza Aqua per sposare lei, la quale pensava (felicemente e giustamente) di essere di nuovo incinta. Marina aveva trascorso un rukulirujuscij [Russo, dal francese roucoulant,«tubante»] mese con lui a Kitez, ma quando, compiaciuta, aveva divulgato le proprie intenzioni (subito prima dell'arrivo di Aqua) lui l'aveva buttata fuori di casa. Ancora più tardi, nell'ultimo breve giro di pista di un'esistenza inutile, Aqua scartò tutti quei ricordi ambigui e si sorprese a leggere e rileggere, affannosamente, beatamente, le lettere di suo figlio in una lussuosa «sanastoria» a Centaur, in Arizona. Lui scriveva invariabilmente in francese chiamandola petite maman e descrivendole il divertente collegio dove sarebbe andato quando avrebbe compiuto tredici anni. Lei sentiva la sua voce attraverso il ronzio notturno delle sue nuove, ultime, ultime insonnie piene di progetti, e quella voce la consolava. La chiamava di solito mummy o mama, accentando l'ultima sillaba in inglese, la prima in russo; qualcuno aveva sostenuto che i parti trigemellari e i dracunculi araldici non siano rari nelle famiglie trilingui, ma adesso non c'era assolutamente più nessundubbio (eccetto, forse, che nella infernicola mente della perfida Marina morta da tempo) che Van fosse il suo, suo, di Aqua, amato figlio.

Non essendo disposta a patire un'altra ricaduta dopo quel beato stato di perfetta quiete mentale, ma sapendo che non poteva durare, fece quello che aveva fatto un'altra paziente nella lontana Francia, in una «casa» molto meno radiosa e piacevole. Un certo dottor Froid, uno dei centauri somministrativi, che sarebbe potuto essere il fratello, emigrato con un nome diverso sul passaporto, del dottor Froit di Signy-Mondieu-Mondieu nelle Ardenne o, più verosimilmente, lui stesso, perché entrambi venivano da Vienne, nell'Isère, ed erano figli unici (come lo era suo figlio), elaborò, o piuttosto ripristinò, l'espediente terapeutico che mirava a creare il senso «del gruppo» facendo aiutare il personale dai pazienti migliori e «in tal senso predisposti». Aqua, quando fu il suo turno, ripeté esattamente il trucco dell'astuta Eléonore Bonvard, optando per rifare i letti e spolverare gli scaffali di vetro. L'astorium di St. Taurus, o qualunque altro fosse il suo nome (che importa – ci si dimentica in fretta delle inezie quando si è alla deriva nell'infinita assenza di cose), era forse più moderno, con una più raffinata vista sul deserto di quella dell'«ospitale» («horsepittle») casa desolata di Mondefroid, ma in entrambi i luoghi, e in un batter d'occhio, un paziente demente poteva vincere in acume un imbecille pedante.

In meno di una settimana Aqua aveva accumulato più di duecento pillole di diversa potenza. C'erano i sedativi blandi, e quelli che ti abbattono dalle otto di sera a mezzanotte, e alcune varietà di soporifici superiori che ti lasciano con gli arti inerti e la testa di piombo dopo otto ore di non esistenza, e una droga che era di per se stessa deliziosa ma un pochino letale se combinata con un sorso del fluido detergente commercialmente noto con il nome di Idiotina; e una panciuta pillola viola che le ricordava, non poteva fare a meno di ridere, quelle con cui la piccola maga zingara nel racconto spagnolo (caro alle scolare di Ladore) fa addormentare tutti i cacciatori e i loro segugi all'apertura della stagione di caccia. Per impedire che qualche intrigante cercasse di farla risorgere al momento della grande deriva, Aqua calcolò di doversi procurare un periodo il più lungo possibile di solitario stordimento in altro luogo che non fosse quella casa di vetro, e l'attuazione di questa seconda parte del progetto fu semplificata e incoraggiata da un altro agente, o doppio, del professore dell'Isère, il dottor Sig Heiler, che tutti veneravano come un asso e un semigenio, nell'accezione comune di semialcolico. Quei pazienti che con certe contrazioni delle palpebre e di altre parti semiprivate, sotto il controllo di studenti della Facoltà di Medicina, davano segno di essere entrati nella fase in cui Sig (un vecchio ragazzo leggermente deforme ma non sgradevole) era visto in sogno come un «papà Fig», spudorato sculacciatore di ragazze e spavaldo centratore di sputacchiere, erano considerati ben avviati sulla via della guarigione e degni, al loro risveglio, di partecipare a normali attività all'aperto come i picnic. La scaltra Aqua mostrò di contrarsi, simulò uno sbadiglio, spalancò i suoi occhi azzurro chiaro (con quel sorprendente contrasto delle pupille nere come il giaietto che anche sua madre Dolly aveva), mise un paio di pantaloni gialli e un bolero nero, attraversò un piccolo bosco di pini, fermò col pollice alzato un camion messicano e si fece dare un passaggio, trovò nel chaparral una gola adatta e lì, dopo aver scritto un breve biglietto, cominciò placidamente a mangiare dal cavo della mano il contenuto multicolore della sua borsetta come una qualunque ragazza russa di campagna lakomjascajasja jagodami (che banchetta con le bacche) appena raccolte nel bosco. Sorrise sognante e divertita al pensiero (di tono piuttosto «kareniniano») che la propria estinzione avrebbe colpito gli altri all'incirca tanto profondamente quanto la brutale, misteriosa e mai giustificata scomparsa di una striscia di fumetti da un giornale della domenica che si è letto per anni. Fu il suo ultimo sorriso. La trovarono molto prima – ma morì anche molto più in fretta – di quanto si sarebbe aspettata, e l'attento Siggy, con indosso ancora i suoi sformati bermuda cachi, riferì che sorella Aqua (com'era chiamata da tutti, non si sa perché) giaceva come se fosse stata sepolta nella preistoria in una posizione da fetus in utero, un commento che sembrò rilevante ai suoi studenti, come potrà sembrarlo ai miei.

Il suo ultimo biglietto, trovatole addosso e diretto a suo marito e a suo figlio, non era diverso da quello che avrebbe potuto scrivere la persona più sana di mente di questa o di quella terra.

Aujourd'hui (heute-la-là!), io, giocattolo dagli occhi rovesciati, mi sono conquistata il diritto psikitsch di godermi una scampagnata con Herr Doktor Sig, l'infermiera Joan la Terribile, e altri «pazienti», nel vicino bar(bosco di pini) dove ho notato, Van, esattamente gli stessi scoiattoli che somigliano alle moffette che il tuo antenato Azzurroscuro ha importato a Ardis Park, dove tu vagherai un giorno, non ho dubbi. Le lancette di un grande orologio, persino quando è rotto, devono sapere, e far sapere anche al più stupido degli orologini, dove si trovano, altrimenti il quadrante diventa solo una faccia bianca con dei baffi finti. Allo stesso modo, un celovek (un essere umano) deve sapere, e far sapere agli altri, dove si trova, altrimenti non è nemmeno un klok (un pezzo) di celovek, non un lui, né una lei, ma un inutile puntolino, come la misera Ruby, mio piccolo Van, soleva dire del suo seno destro vuoto. Io, povera Princesse lointaine,ormai très lointaine, non so dove mi trovo. Quindi devo cadere, così, adieu, mio caro, caro figlio, e addio povero Demon, non so la data o la stagione, ma è una giornata ragionevolmente e, senza dubbio, puntualmente bella, con un'infinità di graziose formichine che marciano in fila verso le mie pastigliette.

[firmato] La sorella di mia sorella che è teper' iz ada (ormai fuori dall'inferno).

«Se vogliamo che la meridiana della vita ci mostri il suo gioco» commentò Van, sviluppando la metafora nel roseto di Ardis Manor alla fine dell'agosto 1884 «dobbiamo sempre ricordare che la forza, la dignità e il diletto dell'uomo consistono nell'indispettire e disdegnare le ombre, e le stelle, che ci tengono nascosti i loro segreti. Solo il ridicolo potere del dolore la costrinse ad arrendersi. E spesso penso che sarebbe stato tanto più plausibile – esteticamente, estaticamente, estotialmente parlando – se lei fosse stata realmente mia madre».

4

Quando, a metà del ventesimo secolo, Van cominciò a ricostruire il suo passato più profondo, si accorse presto che i particolari della sua infanzia veramente importanti (per lo speciale scopo che la ricostruzione perseguiva) potevano essere meglio trattati, non di rado potevano essere solamentetrattati, quando riapparivano in vari stadi successivi della sua infanzia e giovinezza, come improvvise giustapposizioni che ridestavano la parte ridando vita al tutto. Ecco perché il suo primo amore ha qui la precedenza rispetto alla sua prima brutta ferita o al suo primo brutto sogno.

Aveva appena compiuto tredici anni. Non aveva mai lasciato prima di allora gli agi della casa paterna. Non si era mai reso conto prima di allora che tali «agi» potevano non essere dati per scontati, che potevano appartenere solo a una metafora preconfezionata posta a introduzione di un libro su un ragazzo e la sua scuola. A pochi isolati dagli edifici scolastici, una vedova, la signora Tapirov, che era francese ma parlava inglese con accento russo, aveva un negozio di objets d'art e di mobili più o meno antichi. Van ci andò in un luminoso giorno d'inverno. Vasi di cristallo con rose cremisi e aster bruno-aurati erano disposti qua e là nella parte anteriore del negozio – su una mensola di legno dorato, su un baule laccato, sul ripiano di un mobiletto a vetri o semplicemente lungo i gradini ricoperti da una guida che portavano al piano superiore, dove grandi armadi e appariscenti tavoli da toilette erano disposti a semicerchio intorno a una singolare compagnia di arpe. Van verificò che quei fiori erano finti e trovò curioso che le imitazioni compiacessero sempre esclusivamente l'occhio invece di riprodurre anche l'umida e grassa sensazione che danno al tatto le foglie e i petali veri. Quando ritornò il giorno dopo, l'oggetto (adesso, dopo ottant'anni, non si ricordava più che cosa fosse) che voleva far riparare, o duplicare, non era ancora pronto o non era stato reperito. Tastando, Van toccò una rosa appena schiusa e si senti defraudato della sensazione di consistenza sterile che si aspettavano le sue dita, poiché fu invece la fresca vita a baciarle con labbra imbronciate. «Mia figlia» disse la signora Tapirov, notando la sua sorpresa «ne mette sempre un mazzo vero tra quelli falsi pour attraper le client [per ingannare il cliente]. Lei ha pescalo il jolly». Mentre Van usciva entrò lei, una scolara con un cappotto grigio, dei riccioli castani che le arrivavano alle spalle e un viso grazioso. In un'altra occasione (poiché una certa parte dell'articolo, forse una cornice, richiese un tempo infinito per essere risanata, oppure tutto l'insieme dimostrò di essere assolutamente introvabile) la vide raggomitolala in una poltrona – un oggetto domestico in mezzo a quelli in vendita – con i suoi libri di scuola. Non le parlò mai. L'amò pazzamente. Almeno per un trimestre.

Quello era amore, normale e misterioso. Meno misteriose e considerevolmente più grottesche erano le passioni che intere generazioni di insegnanti non erano riuscite a sradicare, e che ancora nel 1883 godevano a Riverlane di un ineguagliato successo. Ogni dormitorio aveva il suo ganimede. Un isterico giovinetto di Uppsala, strabico, con le labbra pendule e gli arti di una goffaggine quasi abnorme, ma con una grana di pelle meravigliosamente tenera e le rotonde e cremose attrattive del Cupido del Bronzino (quello grande che un deliziato satiro scopre nel salottino di una signora), era molto ricercato e tormentato da un gruppo di ragazzi stranieri, per lo più greci e inglesi, capitanati da Cheshire, l'asso del rugby; e in parte per spavalderia, in parte per curiosità, Van vinceva il disgusto e assisteva freddamente alle loro rozze orge. Presto, tuttavia, abbandonò questo surrogato per un divertissement più naturale, benché egualmente spietato.

Un giorno la vecchia che vendeva bastoncini di zucchero e fumetti nel negozio all'angolo, cui per tradizione non era rigorosamente vietato l'accesso, assunse una giovane aiutante, e Cheshire, che era figlio di un parsimonioso lord, riuscì rapidamente ad accertare che quella grassa sgualdrinella si poteva avere per un solo verde dollaro russo. Van fu uno dei primi ad avvalersi dei suoi favori, che venivano accordati nella semioscurità, tra le ceste e i sacchi del retrobottega, dopo l'orario di chiusura. L'averle detto di avere sedici anni, anziché quattordici, e di essere dissoluto anziché vergine, fu per il nostro libertino fonte di imbarazzo quando con un'azione rapida cercò di spacciare la propria inesperienza per irruenza e riuscì solo a versare sul tappetino di benvenuto quello che lei avrebbe gioiosamente contribuito a fargli portare dentro. Le cose andarono meglio sei minuti più tardi, quando Cheshire e Zographos se ne furono andati; ma fu soltanto al successivo festino di accoppiamenti che Van cominciò ad apprezzare veramente la sua delicatezza, la sua dolce e morbida presa e l'appassionato va-e-vieni. Sapeva che lei non era nient'altro che una puttanella rosea e rotondetta come un maialino e le allontanava il viso con il gomito se tentava di baciarlo quando aveva finito, mentre con un gesto veloce della mano controllava, come aveva visto fare da Cheshire, che il portafoglio fosse sempre nella tasca posteriore dei pantaloni; comunque, quando l'ultimo di una quarantina di orgasmi se ne fu andato nel normale corso del tempo che viene meno e il suo treno si lanciò oltre campi neri e verdi verso Ardis, si sorprese a dotare di un'insospettata poesia la povera immagine di lei, l'odore di cucina delle sue braccia, le sue ciglia umide nell'improvviso bagliore dell'accendino di Cheshire, e perfino gli scricchiolanti passi della vecchia e sorda signora Gimber nella sua camera da letto al piano di sopra.

In un elegante scompartimento di prima classe, con una mano guantata sulla curva del bracciolo di velluto, ci si sente molto uomini di mondo mentre si sorveglia il paesaggio sapiente correre via sapientemente. E di tanto in tanto gli occhi vaganti del passeggero si fermavano per un istante mentre egli prestava ascolto tra sé e sé a un prurito nelle parti basse, che supponeva essere (e grazie a Dio non si sbagliava) solo una lieve irritazione dell'epitelio.

5

Nel primo pomeriggio scese dal treno, con le sue due valigie, nella pace assolata della piccola stazione di campagna da dove una strada tortuosa conduceva a Ardis Hall, che Van visitava per la prima volta. In una miniatura della sua immaginazione, aveva visto un cavallo sellato pronto per lui; ma in realtà non c'era nemmeno un calesse. Il capostazione, un uomo robusto con la faccia scottata dal sole, in divisa marrone, disse di essere sicuro che Van fosse atteso con il treno della sera, che era più lento ma aveva una carrozza con sala da tè. Avrebbe subito chiamato Ardis Hall, aggiunse, mentre faceva un segnale al macchinista impaziente. All'improvviso una vettura a nolo si fermò di fianco alla banchina e una signora dai capelli rossi, tenendo in mano il cappello di paglia e ridendo della propria fretta, corse verso il treno e fece appena in tempo a salire prima che si muovesse. Così Van acconsentì a usare quel mezzo di trasporto che un'increspatura fortuita nella tessitura del tempo gli aveva messo a disposizione, e prese posto nel vecchio calesse. Quel tragitto di mezz'ora non gli fu sgradevole. Passò attraverso boschi di pini e sopra gole rocciose, con uccelli e altri animali che cantavano nel sottobosco fiorito. Chiazze di sole e ombre merlettate gli scorrevano sulle gambe e facevano brillare di verde il bottone d'ottone privo del suo gemello sulla schiena del cocchiere. Attraversarono Torfjanka, un piccolo villaggio sognante fatto di tre o quattro isbe di tronchi, una bottega dove riparavano i secchi della mungitura e l'officina di un fabbro soffocata dai gelsomini. Il conducente salutò con la mano un invisibile amico e la sensibile vetturetta scoperta deviò leggermente assecondando il suo gesto. Ora filavano lungo una polverosa strada in mezzo ai campi. La strada digradava e si ingobbiva, e a ogni salita il vecchio taxi a molla rallentava come se fosse sul punto di addormentarsi e solo con riluttanza riuscisse a superare la propria fiacchezza.

Sobbalzarono sull'acciottolato di Gamlet, un villaggio per metà russo, e l'autista fece ancora un cenno con la mano, questa volta a un ragazzino su un albero di ciliegie. Le betulle si separarono per lasciarli passare su un vecchio ponte. Allora, con il suo nero castello in rovina in cima a una rupe e i suoi gai tetti multicolori, più a valle, lungo il fiume, Van vide Ladore – così come l'avrebbe vista ancora tante volte, molto più tardi nella sua vita.

Quando il sentiero costeggiò Ardis Park, la vegetazione assunse un aspetto più meridionale. Alla curva successiva apparve la romantica magione, adagiata su una soave altura da vecchio romanzo. Era una magnifica casa di campagna a tre piani, costruita con mattoni chiari e pietre violacee, i cui colori e la cui sostanza sembravano produrre in certe luci effetti intercambiabili. Nonostante la varietà, l'ampiezza e il vigore dei grandi alberi che avevano da tempo sostituito i due filari di virgulti stilizzati (proiettati lì dalla mente dell'architetto più che nati dallo sguardo di un pittore), Van riconobbe immediatamente Ardis Hall, così come si presentava nell'acquarello vecchio di duecento anni appeso nello spogliatoio di suo padre: la villa sorgeva su un poggio e sovrastava un prato astratto con due figurine dal cappello a bicorno e, poco distante, una mucca stilizzata.

Nessuno della famiglia era in casa quando Van arrivò. Un servo che era lì in attesa prese il suo cavallo. Van varcò la navata gotica dell'ingresso dove Bouteillan, il vecchio maggiordomo calvo che ora, poco professionalmente, portava i baffi (tinti del denso marrone di una salsa per arrosti), gli andò incontro gesticolando gioiosamente – era stato un tempo il cameriere personale del padre di Van. «Je parie» disse «que monsieur ne me reconnait pas», [Scommetto che non mi riconosce, signore] e procedette a ricordare a Van quel che Van si era già ricordato da solo, il «farmannequin» (uno speciale tipo di aquilone fatto a scatola, impossibile da rintracciare oggi perfino nei più grandi musei del giocattolo) che Bouteillan lo aveva aiutato un giorno a far volare in un prato punteggiato di ranuncoli. Entrambi alzarono lo sguardo: il piccolo rettangolo rosso restò per un attimo sospeso di sghimbescio in un azzurro cielo primaverile. L'atrio era famoso per i suoi soffitti dipinti. Era troppo presto per il tè. Van desiderava che fosse Bouteillan stesso a occuparsi delle sue valigie, o poteva andar bene una cameriera? Oh, una delle cameriere, disse Van, domandandosi per un attimo quale oggetto nel bagaglio di uno scolaro avrebbe potuto in teoria scandalizzare una domestica. La fotografia di Ivory Revery (una modella) nuda? Adesso che era diventato un uomo non aveva più importanza.

Seguendo il suggerimento del maggiordomo andò a fare un tour du jardin.Mentre avanzava senza far rumore, con le scarpe di gomma dell'uniforme scolastica, sulla sabbia rosa e soffice di un sinuoso vialetto, si imbatté in un essere nel quale riconobbe con disgusto la sua governante francese di un tempo (quel luogo brulicava di fantasmi!). Stava seduta su una panchina verde sotto un lillà della Persia, con un ombrellino in una mano e nell'altra un libro, e leggeva a voce alta a una bambina che si metteva un dito nel naso e, prima di pulirselo sul bordo della panchina, lo esaminava con sognante soddisfazione. Van decise che doveva essere «Ardelia», la maggiore delle due cuginette con le quali era previsto che dovesse familiarizzare. In realtà era Lucette, la più piccola, un neutro pargolo di otto anni con una frangetta di lucenti capelli biondorossastri e un bottone lentigginoso al posto del naso: aveva avuto la polmonite in primavera ed era ancora velata da quella strana aria remota che i bambini, specie i diavoletti, assumono e mantengono per qualche tempo dopo essere passati a volo attraverso la morte. Mlle Larivière guardò subito Van al di sopra dei suoi occhiali verdi – e lui dovette far fronte a un altro caloroso benvenuto. Al contrario di Albert, lei non era cambiata affatto dal tempo in cui si recava tre volte alla settimana a casa di Dark Veen, in città, con una borsa piena di libri e il suo piccolo, tremulo barboncino (ormai deceduto) che non poteva essere lasciato solo. Un barboncino con occhi lucenti come tristi olive nere.

Poco dopo si incamminarono tutti e tre sulla via del ritorno. La governante, sotto la marezzatura del parasole, scuoteva, in un cordoglio di reminiscenze, la testa dal grosso mento e dal grosso naso; Lucy trascinava con un rumore stridente una zappa da giardino che aveva trovato da qualche parte, e il giovane Van camminava, con il suo vestito grigio bene in ordine e la cravatta svolazzante, le mani dietro la schiena, la testa china, controllando i propri passi silenziosi e precisi e cercando di mettere i piedi uno davanti all'altro lungo una stessa linea.

Una Victoria si era fermata davanti al portico. Una signora che somigliava alla madre di Van e una bambina di undici o dodici anni, coi capelli scuri, stavano scendendo dalla carrozza, precedute da un agile bassotto. Ada aveva in mano un disordinato mazzo di fiori selvatici. Portava una tunichetta bianca con una giacca nera e un fiocco bianco nei lunghi capelli. Van non vide mai più quel vestito, e quando lo menzionava nelle sue evocazioni retrospettive, lei ribatteva invariabilmente che doveva esserselo sognato, che non ne aveva mai posseduto uno simile e che non avrebbe mai potuto mettere una giacca scura in una giornata così calda. Van rimase tuttavia fino alla fine aggrappato a quella sua prima immagine di lei.

Erano passati circa dieci anni da quando, non molto prima o dopo il suo quarto compleanno, e verso la fine di un lungo soggiorno di sua madre in un sanatorio, «zia» Marina gli era piombata addosso in un parco pubblico dove c'erano dei fagiani in una grande gabbia. Aveva ingiunto alla sua bambinaia di non impicciarsi degli affari degli altri e lo aveva portato a una bancarella vicina al padiglione dell'orchestra dove gli aveva comprato un bastoncino color smeraldo fatto di caramella alla menta e gli aveva detto che se suo padre lo avesse voluto lei avrebbe preso il posto di sua madre e che non si poteva dar da mangiare agli uccelli senza il permesso di Lady Amherst, o così aveva capito lui.

Presero il tè in un angolo graziosamente arredato dell'altrimenti molto austero atrio centrale di dove partiva lo scalone. Sedevano su sedie rivestite di seta intorno a un elegante tavolino. La giacca nera di Ada e un mazzolino rosa-giallo-blu che lei aveva composto con anemoni, celidonie e aquilegie giacevano su uno sgabello di rovere. Il cane ottenne più pezzetti di torta del solito. Price, il vecchio lugubre cameriere che portò la panna per le fragole, assomigliava al professore di storia di Van, «Jeejee» Jones.

«Somiglia al mio professore di storia» disse Van quando il cameriere si fu allontanato.

«Una volta mi piaceva la storia» disse Marina. «Mi piaceva identificarmi con le donne famose. C'è una coccinella sul tuo piatto, Ivan. Specialmente con le bellezze famose – la seconda moglie di Lincoln o la regina Joséphine».

«Sì, l'ho notata – è molto bella. Abbiamo un servizio simile a casa».

«Slivok (un po' di panna)? Parli russo, spero?» chiese Marina a Van mentre gli versava una tazza di tè.

«Neochotno, no soversenno svobodno(malvolentieri, ma correntemente)» rispose Van, slegka ulybnuvsis (con un leggero sorriso). «Sì, molta panna e tre zollette di zucchero».

«Ada e io condividiamo i tuoi gusti eccentrici. A Dostoevskij il tè piaceva con lo sciroppo di lamponi».

«Puah!» fece Ada.

Il ritratto di Marina, un olio di Tresham piuttosto bello appeso alla parete sopra di lei, la raffigurava con il grande romantico cappello a tesa larga che aveva usato per la prova generale di una scena di caccia dieci anni prima, e che aveva un'ala d'uccello iridata e una grande piuma spiovente, argentea e profilata di nero; e Van, ricordando la gabbia nel parco e sua madre da qualche parte in una gabbia tutta per sé, provò uno strano senso di mistero, come se i commentatori del suo destino si fossero riuniti a consulto. Adesso il viso di Marina era truccato in modo da imitare l'aspetto che aveva un tempo, ma la moda era cambiata, il suo vestito di cotone era stampato a fiori, i riccioli castanoramati erano schiariti artificialmente e non le ricadevano più sulle tempie, niente nel suo abbigliamento o nei suoi ornamenti echeggiava lo slancio elegante del frustino da cavallerizza nel quadro e il motivo regolare del brillante piumaggio che Tresham aveva reso con l'abilità di un ornitologo.

Non c'era molto da ricordare a proposito di quel primo tè. Van notò i sotterfugi con cui Ada nascondeva le unghie stringendo il pugno o stendendo la mano con il palmo in su quando prendeva un biscotto. Qualsiasi cosa dicesse sua madre l'annoiava o la metteva in imbarazzo, e quando Marina cominciò a parlare del bacino artificiale, altrimenti detto il Nuovo Laghetto, Van si accorse che Ada non era più seduta vicino a lui, ma se ne stava un po' in disparte davanti a una finestra spalancata, con la schiena rivolta al tavolino del tè, chiedendo in un orecchio al cane dai fianchi stretti, che ritto su una sedia scrutava anche lui qualcosa in giardino al di sopra delle zampe anteriori divaricate, che cosa avesse fiutato.

«Dalla finestra della biblioteca si può vedere il laghetto» disse Marina. «Adesso Ada ti mostrerà tutte le stanze della casa. Ada?» (e nel pronunciare il nome alla russa, con due profonde, cupe «a», gli diede il suono della parola «ardor»).

«Puoi vederne uno sprazzo anche da qui» disse Ada, girando la testa e presentando, pollice verso, la vista a Van, che posò la tazza del tè, si asciugò la bocca in un minuscolo tovagliolo ricamato che si ficcò poi nella tasca dei pantaloni, si alzò e raggiunse la bambina dai capelli scuri e dalle braccia pallide. Quando si piegò verso di lei (la superava in altezza di otto centimetri, che sarebbero diventati sedici quando lei sposò un greco cattolico, e la sua ombra, da dietro, le tenne alta sul capo la corona nuziale), Ada inclinò la testa perché lui muovesse la propria secondo l'angolazione richiesta, e i suoi capelli gli toccarono il collo. Le prime volte in cui la sognò, questo contatto rivissuto, così leggero, così fugace, si dimostrò invariabilmente superiore alla capacità di resistere del sognatore, e come una spada levata liberò sempre una salva di fuoco e uno sfogo violento.

«Finisci il tuo tè, tesoruccio» la chiamò Marina.

Subito dopo, come Marina aveva promesso, i due bambini andarono al piano di sopra. «Perché le scale scricchiolano così disperatamente quando sono due bambini a salirle?» pensò guardando la balaustra lungo la quale con stupefacente somiglianza due mani sinistre saltavano e scivolavano come un fratello e una sorella che prendano la loro prima lezione di ballo. «Dopotutto, eravamo gemelle; questo lo sanno tutti». Lo stesso lento sforzo li portò, lei davanti, lui dietro, oltre gli ultimi due gradini, e sulle scale calò di nuovo il silenzio. «Scrupoli vecchio stile» disse Marina.

6

Ada mostrò al timido ospite la grande biblioteca al secondo piano, orgoglio di Ardis e pascolo favorito della piccola verbivora, che sua madre disdegnava (perché aveva la propria personale raccolta delle Più belle mille e una commedia nel suo boudoir) e che Daniel Veen, un sentimentale e un pusillanime, fuggiva addirittura, temendo di incontrare il fantasma di suo padre, morto di infarto tra quei libri. Non c'era niente per lui di più deprimente delle raccolte di autori dispersi, anche se non gli dispiaceva che un visitatore occasionale ammirasse l'eleganza dell'ambiente: le alte librerie e i mobiletti a vetri, i quadri cupi e i busti pallidi, le dieci sedie di noce intagliato e i due imponenti tavoli con intarsi di ebano.

In un raggio obliquo di luce erudita un atlante botanico giaceva su uno scrittoio aperto alla pagina di una tavola a colori con diversi generi di orchidee. Una specie di divano, o di dormeuse, ricoperto di velluto nero, con due cuscini gialli, era collocato in una nicchia, sotto la vetrata di una grande finestra che offriva una generosa vista di quel parco tradizionale e del lago artificiale. Due candelabri, fantasmi di metallo e sego, stavano ritti, o così sembrava, sul largo ripiano della finestra.

Un corridoio che partiva dalla biblioteca avrebbe portato i nostri silenziosi esploratori fino agli appartamenti del signore e della signora Veen nell'ala ovest della casa, qualora avessero deciso di proseguire le loro indagini in quella direzione. Invece fu la spirale di una piccola scala semisegreta ad aspirarli, da dietro una libreria rotante, fino al piano superiore: lei, pallide cosce sopra di lui, saliva a falcate più lunghe, lui, tre alti gradini più indietro, la seguiva.

Le camere da letto, e gli alloggi adiacenti, erano più che modesti, e Van non poté fare a meno di rammaricarsi di essere troppo giovane, a quanto pareva, perché gli fosse assegnata una delle due stanze per gli ospiti vicine alla biblioteca. Ricordò con nostalgia i lussi di casa sua, mentre prendeva in esame i disgustosi oggetti da cui si sarebbe sentito assediato nella solitudine delle notti estive. Ogni particolare lo colpiva e gli sembrava concepito per intimorire un imbecille, dal misero letto da ospizio con una testata medioevale in legno opaco all'armadio che scricchiolava da solo, dal tozzo canterano imitazione mogano con maniglie a catenella (una catenella aveva perso il suo gancio e pendeva) al baule delle coperte (maldestro transfuga della stanza della biancheria), al vecchio scrittoio la cui ribalta a tamburo era chiusa a chiave o bloccata: Van trovò il gancetto del canterano in una delle inutili nicchie dello scrittoio e lo porse a Ada che lo lanciò dalla finestra. Non aveva mai visto prima un portasciugamani a cavalletto, né un lavabo fatto apposta per chi non aveva la vasca da bagno. Sopra il lavabo c'era uno specchio rotondo ornato con grappoli d'uva di gesso dorato; un serpente satanico avvolgeva le sue spire intorno al bacile di porcellana (gemello di quello nella toilette delle bambine dall'altra parte del corridoio). Una sedia con braccioli e schienale alto e uno sgabellino da notte con sopra un portacandele d'ottone con piattino e manico (di cui un momento prima gli era sembrato di vedere una copia esatta riflessa in uno specchio — ma dove?) completavano la parte peggiore e principale di quell'umile arredo.

Tornarono nel corridoio, lei scuotendo i capelli, lui schiarendosi la gola. Più avanti si vedeva la porta socchiusa di una camera dei giochi, o stanza dei bambini, oscillare avanti e indietro, e la piccola Lucette che sbirciava mostrando un ginocchio color ruggine. Poi la porta si spalancò – ma la bambina scappò dentro e scomparve. Barche a vela color cobalto adornavano le bianche piastrelle di una stufa e, mentre Ada passava con Van davanti alla porta aperta, un organetto giocattolo si mise in moto, suonando, come un invito, un piccolo, incespicante minuetto. Ritornarono a pianterreno – questa volta scendendo il sontuoso scalone. Fra i molti ritratti di antenati lungo la parete, lei indicò il suo preferito, il vecchio principe Vseslav Zemski (1699-1797), amico di Linneo e autore della Flora Ladorica, ritratto in vividi colori a olio, con la sua appena pubescente sposa e la di lei bambola bionda che gli sedevano nel grembo di raso. E accanto a quell'amante delle rose in boccio, con la sua giubba ricamata, era appesa (in maniera piuttosto incongrua, pensò Van) una fotografia, ingrandita e sobriamente incorniciata, scattata dal defunto Sumerechnikov [cognome derivato dalla parola russa sumerki(crepuscolo)], precursore americano dei fratelli Lumière, allo zio materno di Ada, giovane condannato a una fine precoce, ritratto di profilo, violino alla guancia, dopo il suo concerto di addio.

A pianterreno, un salotto giallo tappezzato di damasco e arredato in quello che i francesi un tempo chiamavano stile Impero si apriva sul giardino e ora, nel tardo pomeriggio, era invaso dalle ombre delle larghe foglie di una paulonia (chiamata così da un mediocre linguista, spiegò Ada, sulla base del patronimico, scambiato per un secondo nome o per un cognome, di un'innocua dama, Anna Pavlovna Romanov, figlia di Pavel, soprannominato Paolo-meno-Pietro, il perché lei non lo sapeva, un cugino del maestro del non linguista, il botanico Zemski... Adesso urlo, pensò Van). Un mobile a vetrina ingabbiava un intero zoo di piccoli animali; tra questi, l'orice e l'okapi, completi dei loro nomi scientifici, gli furono in special modo raccomandati dalla sua incantevole ma intollerabilmente pretenziosa compagna. Altrettanto affascinante era un paravento a cinque pannelli con pitture vivaci che riproducevano su uno sfondo nero le prime mappe di quattro continenti e mezzo. Passiamo, adesso, nella sala da musica, con il suo pianoforte usato di rado, e in una stanza d'angolo chiamata la Sala dei fucili nella quale si trovava un pony delle Shetland impagliato e un tempo cavalcato da una zia di Dan Veen, il cui nome da ragazza, per fortuna, era sfuggito alla memoria di Ada. Dall'altra, o da qualche altra parte della casa, c'era la sala da ballo, una lucente terra desolata, con sedie color violacciocca che «facevano tappezzeria». «Lettore, passa oltre» («mimo, chitatel'», come scriveva Turgenev). Le «cavallerizze», come venivano impropriamente chiamate le scuderie nella contea di Ladore, erano, nel caso di Ardis Hall, architettonicamente disorientanti. Un porticato chiuso da un graticcio guardava oltre la propria spalla inghirlandata dentro il giardino e poi piegava bruscamente verso il viale d'accesso. Una loggia elegante, illuminata da alte finestre, guidò Ada, ora ammutolita, con Van annoiato a morte, fin dentro una nicchia di roccia: una grotta finta, con rami di felce che le si abbarbicavano addosso senza pudore, e una cascata artificiale presa in prestito da qualche fonte letteraria, o dalla vescica bruciante di Van (dopo tutto quello stramaledetto tè).

I quartieri della servitù (tranne quelli di due cameriere dipinte e incipriate che avevano le loro stanze al piano di sopra) erano a pianterreno sul lato della corte. Ada disse di averli visitati una volta, nella fase esplorativa della sua infanzia, ma si ricordava solo di un canarino e di un antico ed efficiente aggeggio per macinare il caffè.

Volarono di nuovo al piano di sopra. Van si infilò in un gabinetto – e ne riemerse di umore molto migliore. Un minuscolo Haydn suonò ancora qualche battuta al loro rapido passaggio.

La soffitta. Questa è la soffitta. Benvenuto nella soffitta. La soffitta accoglieva un gran numero di bauli e scatoloni, due divani marroni, l'uno sopra l'altro come scarafaggi copulanti, e molti quadri in piedi negli angoli o sopra vecchi scaffali, con la faccia contro il muro come bambini in castigo. C'era, arrotolato nella sua custodia, un vecchio jikker, un tappeto volante blu con disegni arabi, sbiadito ma ancora pieno d'incanto, che il padre dello zio Daniel aveva usato da ragazzo e sul quale, in seguito, aveva volato quand'era ubriaco. A causa delle numerose collisioni, cadute e altri incidenti, particolarmente numerosi quando si vola al tramonto sopra campi idilliaci, i jikker vennero banditi dalle squadre aeree; ma quattro anni più tardi Van, che amava quello sport, corruppe un meccanico locale perché gli ripulisse l'apparecchio, ricaricasse i suoi rauchi tubi, e insomma perché lo riportasse alla sua magica funzione, e sarebbero stati molti i giorni d'estate che avrebbe trascorso con la sua Ada sospeso sopra il boschetto e il fiume, scivolando alla tranquilla altitudine di una trentina di metri sopra le strade e i tetti. Guarda che buffo quel ciclista che traballa e si tuffa nel fosso, e quello spazzacamino che si sbraccia, inciampa e cade!

Vagamente spinta dalla sensazione che finché avessero ispezionato la casa sarebbero stati per lo meno occupati in qualcosa - mentre mantenere solo la parvenza di un'attività consequenziale, malgrado il brillante talento di conversatori che entrambi possedevano, li avrebbe fatti scivolare nella disperata vacuità di un ozio impacciato, non avendo altra risorsa se non quella di un'arguzia affettata seguita dal silenzio - Ada non gli risparmiò nemmeno il seminterrato, dove un panciuto robot pulsava riscaldando gagliardamente i meandri di tubi che arrivavano fino all'enorme cucina e alle due scialbe stanze da bagno, e facevano del loro povero meglio per rendere il castello abitabile anche in inverno nei periodi di festa.

«Non hai visto ancora niente!» esclamò Ada. «C'è ancora il tetto!».

«Va bene, questa, però, sarà la nostra ultima arrampicata» disse Van a se stesso.

Per una strana sovrapposizione di regole e tegole (non facilmente spiegabile in termini non tecnici ai non amanti dei tetti), e nello stesso tempo per un casuale continuum, per così dire, di restauri, il tetto di Ardis Manor presentava un'indescrivibile confusione di angoli e livelli, di superfici verde latta e grigio pinna, di rilievi panoramici e nicchie a prova di vento. Ci si poteva stringere e baciare, sorvegliando nel frattempo il laghetto, i boschetti, i prati, il profilo d'inchiostro dei larici che segnavano il confine della proprietà più vicina a molte miglia di distanza, e le piccole sgraziate sagome di mucche più o meno prive di zampe su una collina lontana. E c'erano delle sporgenze dietro le quali ci si poteva facilmente nascondere alle indagini dei jikker o alle mongolfiere che scattavano fotografie.

Su una delle terrazze risuonò il rintocco di bronzo di un gong.

I bambini si sentirono sollevati nell'apprendere che un ospite sconosciuto era atteso per la cena. Si trattava di un architetto andaluso al quale lo zio Dan voleva far progettare una piscina «artistica» per Ardis Manor. Lo zio Dan, che sarebbe dovuto arrivare con un interprete, aveva preso «il grip russo» (l'influenza spagnola) e aveva telefonato a Marina chiedendole di essere molto gentile con il buon vecchio Alonso.

«Mi dovete aiutare!» disse Marina ai bambini, corrugando preoccupata la fronte.

«Forse potrei mostrargli una copia» disse Ada, voltandosi verso Van «di una nature morte assolutamente, fantasticamente stupenda di Juan de Labrador di Extremadura – grappoli d'uva dorati e una strana rosa su uno sfondo nero. Dan l'ha venduta a Demon, e Demon ha promesso di regalarmela quando compirò quindici anni».

«Abbiamo anche dei frutti di Zurbaràn» disse Van compiacendosi. «Tangerini, credo, e una specie di fico con sopra una vespa. Oh, non mancheremo di abbagliare quel brav'uomo con il gergo del mestiere!».

Non lo fecero. Alonso, minuscolo e rinsecchito, con uno smoking a doppiopetto, parlava solo spagnolo, mentre la somma di parole spagnole di cui disponevano i suoi ospiti superava a malapena la mezza dozzina. Van conosceva canastilla (un piccolo cestino), e nubarrones (nuvole temporalesche), che provenivano entrambe da una traduzione en regard di una bella poesia spagnola in uno dei suoi libri di scuola. Ada ricordava naturalmente mariposa, farfalla, e il nome di due o tre uccelli (menzionati nelle guide di ornitologia) come paloma, colomba, o grevol,francolino. Marina sapeva aroma e hombre, e un termine anatomico con una «j» appesa nel mezzo. Di conseguenza la conversazione a tavola consistette di lunghe, pesanti frasi spagnole pronunciate a voce particolarmente alta dal facondo architetto che pensava di aver a che fare con persone molto sorde, e da un'infarinatura di francese, intenzionalmente ma inutilmente italianizzato dalle sue vittime. Una volta che la difficile cena fu terminata, Alonso esplorò il parco, illuminato da tre torce tenute da due valletti, alla ricerca di un sito possibile per una dispendiosa piscina, poi rimise la pianta del terreno nella sua cartella, e dopo aver baciato per errore la mano di Ada nel buio, se ne andò di corsa appena in tempo per l'ultimo treno diretto a sud.

7

Van era andato a letto con le pupille scabre come carta vetrata, poco dopo il «tè della sera», un pasto estivo, in cui il tè non compariva se non in senso figurato, che seguiva di due ore la cena e il cui verificarsi sembrava a Marina naturale e inevitabile quanto il tramonto prima della notte. Nelle usanze domestiche di Ardis questo tradizionale banchetto russo consisteva prima di tutto nella prostokvasha (tradotto dalle governanti inglesi come curds-and-whey,e da Mlle Larivière come lait caillé, «latte cagliato»), di cui la piccola Miss Ada delicatamente ma avidamente (Ada, questi avverbi definivano molte delle tue azioni!) aveva scremato il sottile e vellutato strato superiore con il suo personale cucchiaio d'argento monogrammato, leccandolo tutto prima di attaccare le più amorfe profondità cagliate del suo bicchiere; alla prostokvasha si accompagnava del ruvido pane nero contadino, brune klubnika (Fragaria elatior),ed enormi, rosse fragole coltivate (un incrocio tra due altre specie di Fragaria). A Van sembrava di avere appena appoggiato la guancia sul suo cuscino fresco e piatto quando fu violentemente scosso da un vivace e gioioso cantare – limpidi gorgheggi, dolci fischietti, cinguettii, trilli, pigolii, gracchii stridenti e teneri ciu-ciu – e pensò subito con un timore da profano che Ada avrebbe saputo distinguere le singole voci di ciascun uccello, e che niente l'avrebbe trattenuta dal farlo. Infilò i piedi in un paio di mocassini leggeri, raccolse sapone, pettine e asciugamano e, racchiudendo la propria nudità in un accappatoio di spugna, uscì dalla sua camera da letto con l'intenzione di andare a immergersi nel ruscello che aveva notato alla vigilia. La pendola del corridoio rintoccò nel silenzio aurorale interrotto solo dal russare che proveniva dalla stanza della governante. Dopo un attimo di esitazione, Van entrò nel bagno della stanza dei bambini. Lì il frastuono impazzito degli uccelli e la vivida luce del sole lo raggiunsero attraverso la stretta finestra. Stava molto bene, proprio molto bene! Mentre scendeva lo scalone, il padre del generale Durmanov lo salutò con uno sguardo grave e lo consegnò al vecchio principe Zemski e agli altri antenati, severi come guardiani di un buio palazzo durante la visita del loro unico turista.

La porta principale si rivelò chiusa con chiavistello e catena. Van provò ad aprire la porta laterale a vetri, protetta da una grata, attraverso la quale si vedeva il portico inghirlandato di azzurro; anche quella non cedette. Ignorando ancora l'esistenza di un recesso sotto le scale dov'era nascosto un assortimento di chiavi di riserva (alcune, appese a ganci d'ottone, vecchissime e ormai senza identità) e dal quale si poteva accedere a un angolo appartato del giardino attraverso un ripostiglio per gli attrezzi, Van vagò per diversi salotti alla ricerca di una finestra compiacente. In una delle ultime stanze trovò, in piedi davanti a un'alta finestra, una giovane cameriera che aveva intravisto (e sulla quale si era ripromesso di investigare) la sera precedente. Era vestita di quello che suo padre, con un sorrisino lascivo non del tutto spontaneo, avrebbe definito «un sobrio nero soubrette con fremito di trine»; il pettine di tartaruga nei suoi capelli castani si accendeva di una luce ambrata; la porta finestra era aperta, e lei teneva una mano, scintillante di una minuscola acquamarina, in alto sullo stipite, mentre guardava sul sentiero lastricato un passero che si avvicinava al pezzetto di biscotto – piccolo come l'alluce di un bebé – che lei gli aveva lanciato. Il suo profilo di cammeo, la sua vezzosa narice rosea, il lungo collo francese bianco come un giglio, il contorno pieno e insieme fragile del suo corpo (il desiderio maschile non compie molti sforzi per trovare espressioni felici!) suscitarono in lui la sensazione subitanea e selvaggia di un'opportunità da cogliere, tanto che non potè fare a meno di afferrarle il braccio alzato e fasciato dalla manica del vestito, e stringerle le dita intorno al polso. Lei si liberò dalla stretta, confermando con la freddezza del suo atteggiamento di aver percepito il suo avvicinarsi, poi voltò verso di lui il viso attraente, anche se quasi privo di sopracciglia, e gli chiese se avrebbe gradito una tazza di tè prima di colazione. No. Come si chiamava? Blanche – ma Mlle Larivière la chiamava Cenerentola perché le calze le si smagliavano così facilmente e perché rompeva e perdeva tutto, e confondeva i fiori. L'abbigliamento discinto di Van tradiva il suo desiderio e questo non poteva sfuggire a una ragazza, anche se daltonica; quando lui si avvicinò ancora di più e guardò al di sopra della sua testa se un divano adatto si stesse materializzando in un angolo di quella magica dimora – dove qualsiasi luogo, come nelle memorie di Casanova, poteva trasformarsi nella nicchia di un harem – lei sgusciò via e gli si sottrasse definitivamente, modulando un piccolo soliloquio in un molle francese ladorano:

«Monsieur a quinze ans, je crois, et moi, je sais, j'en ai dix-neuf. Monsieur è nobile; io sono la figlia di un povero minatore. Monsieur ha conosciuto, sans doute, des filles de la ville; quant à moi, je suis vierge, ou peu s'en faut. De plus, se dovessi innamorarmi di lei – e voglio dire davvero innamorarmi – e potrei, ahimè, se lei mi possedesse rien qu'une petite fois [anche solo una volta] – a me recherebbe solo dolore, e fiamme infernali, e disperazione, e perfino la morte, Monsieur. Finalement, potrei aggiungere che ho le perdite bianche e devo andare da le Docteur Chronique, voglio dire Crolique, il mio prossimo giorno di libertà. Ora ci dobbiamo separare, il passero è scomparso, vedo, e Monsieur Bouteillan è entrato nella stanza accanto e può vederci benissimo in quello specchio sopra il divano dietro il paravento di seta».

«Perdonami, piccola» mormorò Van, scoraggiato dallo strano, tragico tono della ragazza: improvvisamente gli sembrava di aver preso parte a una commedia di cui, pur essendo l'attore principale, non riusciva a ricordare altro che quella scena.

Nello specchio, la mano del maggiordomo afferrò dal nulla una caraffa e scomparve. Van, riannodando la cintura dell'accappatoio, uscì dalla porta finestra nella verde realtà del giardino.

8

Quella mattina, o un paio di giorni dopo, sulla terrazza:

«Mais va donc jouer avec lui» [Su, va' a giocare con lui] disse Mlle Larivière, dando a Ada uno spintone che fece sussultare scompostamente le sue anche immature. «Non permettere a tuo cugino di se morfondrequando il tempo è così bello. Prendilo per mano. Vai a fargli vedere la dama bianca nel tuo vialetto preferito, e la montagna, e la grande quercia».

Ada si voltò verso di lui con un'alzata di spalle. Il contatto delle sue dita ghiacciate e del palmo umido, e il gesto un po' forzato con il quale gettò indietro i capelli mentre insieme si allontanavano lungo il viale principale del parco, fecero sentire a disagio anche Van, che con il pretesto di raccogliere una pigna si liberò dalla stretta. Lanciò la pigna contro una donna di marmo china su uno stamnosma riuscì solo a spaventare un uccello che si era appollaiato sul collo della sua anfora rotta.

«Non c'è niente di più banale al mondo» disse Ada «che lanciare sassi a un frosone».

«Scusami,» disse Van «non era mia intenzione spaventare quell'uccello. E poi non sono un ragazzo di campagna che sa distinguere una pigna da un sasso. A che cosa, au fond, si aspetta che giochiamo, quella?».

«Je l'ignore» rispose Ada. «Non m'importa sapere come funziona la sua povera testa. A cache-cache, [nascondino] suppongo, o ad arrampicarci sugli alberi».

«Ah, io sono bravissimo ad arrampicarmi,» disse Van «anzi, so perfino "camminare" appeso per le braccia».

«No,» disse lei «giocheremo ai miei giochi. Giochi che mi sono inventata da sola. Giochi che Lucette, spero, sarà in grado di giocare con me l'anno prossimo. Vieni, cominciamo. I primi fanno parte del gruppo ombra e luce. Oggi te ne insegnerò due».

«Capisco» disse Van.

«Capirai tra un momento» replicò la piccola saputa. «Prima di tutto dobbiamo trovare un bel legnetto».

«Guarda,» disse Van cui l'offesa bruciava ancora un po' «un altro frosone».

Avevano ormai raggiunto il rond-point –una piazzuola circondata di aiuole e cespugli di gelsomino in piena fioritura. Sopra le loro teste le braccia di un tiglio si protendevano verso quelle di una quercia, come una fanciulla scintillante di verdi lustrini che voli incontro al suo forte padre, appeso per i piedi al trapezio. Cose celestiali che già allora tutti e due capivamo bene. Già allora.

«C'è qualcosa di acrobatico in quei rami lassù, vero?».

«Sì» rispose Ada. «L'ho scoperto tanto tempo fa. Il tiglio è l'italiana volante, e la vecchia quercia soffre, il suo vecchio amante soffre, ma l'afferra ancora ogni volta» (impossibile riprodurre la giusta intonazione e rendere l'intero senso – dopo otto decenni! – ma lei disse davvero qualcosa di strabiliante, qualcosa in totale contrasto con la sua tenera età, mentre guardavano in alto e poi riabbassavano lo sguardo).

Con gli occhi rivolti a terra, Ada brandì uno stecco verde appuntito che aveva preso in prestito dalle peonie e spiegò il primo gioco.

Le ombre delle foglie sulla sabbia erano qua e là interrotte da circoletti di luce viva di diversa grandezza. Il giocatore sceglieva il suo circoletto – il migliore, il più brillante che riusciva a trovare – e ne marcava il contorno con la punta del suo legnetto; in quel momento sembrava che il tondo di luce gialla diventasse convesso come la superficie traboccante di una tintura dorata. Poi il giocatore scavava delicatamente la terra con il suo legnetto, o con le dita, all'interno del circoletto. Il livello di quella scintillante infusion de tilleul affondava magicamente nel suo calice di terra per ridursi alla fine a una preziosa goccia. Vinceva chi realizzava il maggior numero di calici in, diciamo, venti minuti.

Van domandò sospettosamente se fosse tutto lì.

No, non era tutto lì. Tracciando con decisione un piccolo cerchio intorno a una goccia d'oro particolarmente bella, Ada si accovacciò e si spostò, accovacciata, con i capelli neri che le ricadevano sulle ginocchia lisce come l'avorio, mentre le sue anche e le sue mani lavoravano, una mano teneva il legnetto e l'altra era impegnata a scansare fastidiose ciocche di capelli. Una brezza gentile eclissò improvvisamente la sua chiazza di luce. Quando questo accadeva il giocatore perdeva un punto, anche se la foglia o la nuvola si affrettavano a spostarsi di nuovo.

Va bene. Qual era l'altro gioco?

L'altro gioco (detto con voce languida) poteva sembrare un po' più complicato. Per giocarlo nel modo giusto bisognava aspettare che le ore pomeridiane fornissero ombre più lunghe. Il giocatore...

«Smettila di dire "il giocatore". O sei tu o sono io».

«Diciamo, tu. Tu disegni sulla sabbia la mia ombra dietro di me. Io mi sposto. Tu la disegni ancora. Poi segni il limite successivo» (e gli consegnò il legnetto). «Ora se io torno sui miei passi...».

«Sai una cosa,» disse Van, buttando via il legnetto «personalmente trovo che questi siano i giochi più stupidi e noiosi che siano mai stati inventati, in qualsiasi luogo, a qualunque ora antimeridiana o pomeridiana».

Lei non disse niente ma le sue narici si restrinsero. Recuperò il legnetto e rabbiosamente lo conficcò al suo posto nel terriccio, riagganciandolo con un silenzioso cenno del capo al gambo di un fiore riconoscente. Si avviò verso la casa. Lui si domandò se il suo modo di camminare si sarebbe fatto più aggraziato col tempo.

«Sono un ragazzo sgarbato e violento, per piacere, perdonami» disse.

Lei inclinò la testa senza voltarsi. In segno di parziale riconciliazione, gli mostrò due robusti ganci e due anelli di ferro fissati ai tronchi di due liriodendri. A quegli alberi, prima che lei nascesse, un altro ragazzo, un altro Ivan, il fratello di sua madre, sospendeva un'amaca nella quale dormiva in estate quando le notti diventavano roventi – la loro era, in fin dei conti, la latitudine della Sicilia.

«Splendida idea» disse Van. «A proposito, le lucciole ti bruciano se ti vengono addosso? Sto solo chiedendo. Una domanda sciocca da ragazzo di città».

Subito dopo Ada gli mostrò dove erano custodite le amache – un intero assortimento, un sacco di canapa pieno di forti e morbide reti – nell'angolo di un ripostiglio seminterrato dietro i lillà. La chiave era nascosta qui, in questo buco che l'anno scorso era stato otturato dal nido di un uccello (no, non c'è bisogno di identificarlo). Il sole con una freccia di luce pennellò di un verde più intenso la lunga scatola verde in cui si trovava l'attrezzatura da croquet; le palle non c'erano perché le avevano fatte rotolare giù dalla collina quegli scalmanati dei piccoli Erminin, che adesso avevano l'età di Van ed erano diventati bravissimi e calmissimi.

«Come siamo tutti, a questa età» disse Van e si chinò per raccogliere un pettine ricurvo di tartaruga – di quelli che le ragazze portano per raccogliere i capelli sulla nuca; ne aveva visto uno identico abbastanza di recente, ma quando, e nell'acconciatura di chi?

«Di una delle cameriere» disse Ada. «Deve essere suo anche quel romanzetto consunto, Les Amours du Docteur Mertvago, una storia d'amore mistica scritta da un pastore». [Nota: gioco basato sul nome «Zivago» (ziv in russo significa «vivo» e mërtv significa «morto»]

«Immagino che per giocare a croquet con te» disse Van «si debbano usare fenicotteri e porcospini».

«Le nostre preferenze nella lettura non coincidono» replicò Ada. «Alice in Wonderlandmi è stato consigliato molte volte e così spesso mi è stato garantito che lo avrei adorato che alla fine ho sviluppato un pregiudizio insormontabile nei suoi confronti. Hai letto qualcuno dei racconti di Mlle Larivière? Be', li leggerai. Lei pensa di essere stata, in una precedente esistenza indù, un uomo di mondo parigino, e scrive di conseguenza. Da qui, con qualche giravolta potremmo raggiungere l'atrio da un passaggio segreto, ma penso ci si aspetti che andiamo a vedere le grand chène [grande quercia], che in realtà è un olmo». A Van piacevano gli olmi? Conosceva la poesia di Joyce sulle due lavandaie? Certo che la conosceva. Gli piaceva? L'adorava. Anzi si accorgeva di adorare ogni albero, ogni ardore, ogni Ada. Che assonanze! Doveva fargliele notare?

«E adesso» disse lei, e si fermò fissandolo.

«Sì?» disse lui. «E adesso?».

«Be', forse non dovrei cercare di svagarti – dopo che hai calpestato i miei circoletti di luce; ma sarò indulgente e ti mostrerò la vera meraviglia di Ardis Manor; il mio larvario. È nella stanza accanto alla mia» (quella che non vide mai, prova a pensarci – mai!).

Ada chiuse con cura la porta di una stanza comunicante, mentre entravano in quella che sembrava una conigliera nobilitata, in fondo a un'anticamera rivestita di marmo (un bagno convertito). Nonostante il luogo fosse ben aerato, con le finestre di vetro colorato a motivi araldici spalancate (così che si sentivano le strida e i richiami di una popolazione di uccelli denutrita e terribilmente frustrata), l'odore delle gabbie – terriccio umido, turgide radici, vecchia serra e forse una punta di capra – era spaventoso. Prima di lasciarlo avvicinare, Ada armeggiò con alcuni piccoli chiavistelli e cancelletti, e un senso di grande vuoto e di malinconia sostituì il dolce fuoco che quel giorno aveva consumato Van fin dall'inizio dei loro giochi innocenti.

«Je raffole de tout ce qui rampe (vado pazza per tutto quello che striscia)» disse Ada.

«Personalmente propendo per quelli che quando li tocchi si arricciano a manicotto di pelo – quelli che per dormire si raggomitolano come vecchi cani».

«Oh, ma non dormono, quelle idée,perdono i sensi, è una piccola sincope» spiegò Ada corrugando la fronte. «E immagino che possa essere un vero piccolo trauma per i più giovani».

«Sì, arrivo a immaginarlo anch'io. Ma presumo che si abituino, con il tempo, voglio dire».

Ben presto la sua infondata ritrosia lasciò il posto a un'empatia estetica. Molti decenni più tardi Van ricordò di aver molto ammirato i bei bruchi di cucullia, nudi, lucenti, vistosamente maculati e striati, velenosi quanto i fiori di verbasco che crescevano folti intorno a loro, e la larva piatta di una catocalide locale le cui protuberanze grigie e placche lillà imitavano i nodi e i licheni del ramoscello al quale si aggrappava con tale aderenza da risultarvi praticamente saldata, e, naturalmente, la piccola limantride e il suo manto nero ravvivato lungo tutto il dorso da ciuffi dipinti di rosso, blu e giallo di lunghezza diseguale, come le setole di uno spazzolino da denti fantasia tinto con colori garantiti. E questo tipo di similitudine mi ricorda oggi i lemmi entomologici nel diario di Ada – che dovremmo avere da qualche parte, mi pare, cara, forse in quel cassetto, o no? pensi di no? Sì! Urrà! Ecco qualche esempio (la tua scrittura a guance tonde, mio amore, era un po' più larga ma, a parte questo, niente, niente, niente è cambiato):

«La testa retrattile e le diaboliche appendici anali del mostro sgargiante prodotto dalla modesta Cerura vinulaappartengono a un bruco non troppo bruco con segmenti frontali a forma di mantice e una faccia che assomiglia all'obiettivo di una macchina fotografica a soffietto. Se si accarezza delicatamente il suo corpo liscio e dilatato si ha una sensazione serica e gradevole – finché la creatura irritata e ingrata non ti spruzza addosso un fluido acido da una fenditura della gola».

«Il dottor Krolik ha ricevuto dall'Andalusia, e mi ha gentilmente dato, cinque giovani larve della Carmen Tartarugadi recente descritta e assolutamente locale. Sono creature deliziose, di una bella sfumatura color giada e con aculei d'argento, che si riproducono solo su una specie semiestinta di salice d'alta montagna (anche questa procurata per me dal caro Brulik)».

(A dieci anni o prima la bambina aveva letto – come Van – Les Malheurs de Swann[Nota: Incrocio tra Les Malheurs de Sophie di Mme de Ségur (nata contessa Rostopčin) e Un Amour de Swann di Proust]. Il prossimo estratto lo conferma):

«Penso che Marina la smetterebbe di sgridarmi per questa mia passione ("C'è qualcosa di indecente in una ragazzina che alleva bestiole così ripugnanti...", "Le signorine normali dovrebbero aborrire vermi e serpenti", eccetera) se riuscissi a persuaderla a vincere la sua schizzinosità fuori moda e a mettersi simultaneamente sul palmo e sul polso (la mano sola non sarebbe abbastanza spaziosa!) la nobile larva della Cattleya Hawkmoth (sfumature mauve di Monsieur Proust), un colosso lungo sette pollici, color carne con arabeschi turchesi, che erige la sua testa di giacinto in rigida, "sfingea", postura». [Nota: In Un amore di Swann di Proust, la cattleya (un'orchidea americana tropicale) è il fiore preferito di Odette, e «faire cattleya» è una delle espressioni amorose usate dai due amanti].

(Bello! disse Van, ma perfino io non ero riuscito ad assimilarlo, quando ero giovane. Perciò smettiamo di avvilire il villano che sfogliando queste pagine potrebbe pensare: «Oh, ma che burlone quel vecchio V.V.!»).

Alla fine di quella sua così remota, e così vicina, estate del 1884, Van, prima di lasciare Ardis, dovette fare una visita di adieu al larvario di Ada.

La larva Cappuccio (o «Pescecane»), bianco porcellana e maculata, una gemma di grande valore, aveva concluso con successo la sua ultima metamorfosi, ma l'unica Catocala lorelei di Ada era morta paralizzata da un Icneumonide che non era riuscita a sorprendere con le sue prominenze intelligenti e i suoi fumi fungosi. Lo spazzolino da denti multicolore si era comodamente trasformato in pupa all'interno di un ruvido bozzolo, promettendo di diventare una Limantria Persiana nell'autunno seguente. Le due larve di vinulaavevano assunto un aspetto ancora più brutto ma più vermesco e in certo senso venerabile: con quei forconi che ora strisciavano mollemente dietro di loro e un afflusso violaceo che smorzava la composizione cubista dei loro smodati colori, continuavano a «serpeggiare» rapidamente per tutto il pavimento della loro gabbia in un impeto locomotorio prepupazionale. Aqua aveva dovuto attraversare un bosco ed entrare in una gola per fare la stessa cosa l'anno passato. Una Nymphalis Carmen appena emersa batteva le ali color limone e ambra bruna su un lembo di grata inondato di luce, solo per essere soffocata da un pizzico delle agili dita di Ada, felice e senza cuore; la Sfinge di Odette si era trasformata, benedetta lei, in un'elefantiaca mummia con un tronco di tipo guermantoide comicamente imprigionato; e il dottor Krolik stava correndo lestamente sulle sue corte gambe dietro una veramente speciale arancio-tipo che volava oltre il limitare della vegetazione, in un altro emisfero, Antocharis ada Krolik (1884) – come veniva detta fino a che non divenne Antocharis prittwitzi Stümper (1883) per la inesorabile legge della priorità tassonomica.

«Ma poi, quando tutte queste bestie si sono schiuse,» domandò Van «che cosa ne fai?».

«Oh,» disse lei «le porto all'assistente del dottor Krolik che le mette in ordine, le etichetta e le punta con uno spillo sui ripiani di vetro di una linda teca di rovere, che diventerà mia quando mi sposerò. Avrò allora una vasta collezione e continuerò ad allevare tutte le specie di lepidotteri – il mio sogno è quello di avere un Istituto specializzato in larve di arginnidi e in viole, tutte le speciali viole sulle quali loro si accoppiano. Mi farei spedire con l'aeroplano le uova, o le larve, da tutto il Nord America, con le loro piante alimentari – la viola della sequoia dalla Costa occidentale, la viola pallida dal Montana, la viola della prateria e la viola di Egglestone dal Kentucky, e una rara viola bianca da una palude nascosta vicino a un lago senza nome su una montagna artica, dove vola l'Arginnide minore del dottor Krolik. Quando emergono, sono facili da accoppiare a mano: le tieni – qualche volta per un pochino – così, di profilo con le ali piegate,» (mostrando la tecnica senza badare a nascondere le povere unghie delle sue mani) «il maschio nella mano sinistra, la femmina nella destra, o viceversa, con le sommità degli addomi che si toccano, ma devono essere ben fresche e zuppe del fetore della loro viola preferita».

9

Ma era graziosa davvero, a dodici anni? E lui voleva – avrebbe mai voluto carezzarla, carezzarla davvero? I capelli neri le precipitavano su una clavicola, come una cascata, e il gesto che faceva per ributtarli indietro, e la fossetta sulla sua guancia pallida, rivelavano in lei l'immediato riconoscimento del loro pregio. Il suo pallore riluceva, la sua oscurità fiammeggiava. Le gonne a pieghe che le piaceva portare erano corte al punto giusto. Perfino i suoi arti nudi erano così privi di abbronzatura che con lo sguardo, accarezzando il candore delle sue tibie e degli avambracci, vi si poteva seguire il regolare declivio dei sottili peli scuri, le sete della sua fanciullezza. L'iride marrone cupo dei suoi occhi seri aveva l'enigmatica opacità dello sguardo di un ipnotizzatore orientale (nella pubblicità sulla quarta di copertina di una rivista) e appariva collocata più in alto del normale, così che tra il suo orlo e l'umida palpebra inferiore, quando ti guardava dritto negli occhi, c'era sempre un quarto di luna bianco. Le sue lunghe ciglia sembravano tinte di nero, e infatti lo erano. I suoi tratti si salvavano dalla grazia dell'elfo in virtù della forma un po' carnosa delle sue labbra riarse. Il suo normalissimo naso irlandese era come quello di Van, ma in miniatura. I denti erano discretamente bianchi, ma non molto regolari.

Le sue povere, belle manine – guardandole non si poteva fare a meno di tubare, pieni di compassione – erano rosee in confronto alla traslucida pelle delle braccia, perfino più rosee del gomito, che sembrava arrossire di vergogna per lo stato delle sue unghie: le morsicava tutte così ostinatamente che non c'erano più vestigia di margini intatti ma solo solchi incisi nella carne con la durezza del ferro, tanto che alla punta scoperta di ogni suo dito sembrava essersi aggiunta una piccola spatola. Più tardi, quando Van cercava di baciarle le mani fredde e lei le chiudeva stringendo le dita e non concedeva alle sue labbra nient'altro che le nocche, lui per arrivare a quei cuscinetti piatti e ciechi le forzava furiosamente. (Ma, oh cielo, oh, che cos'erano le lunghe, languide onici rosa e argento, dipinte e appuntite, delicate e pungenti dei suoi anni adolescenti e adulti!).

Quello che provò Van in quei primi strani giorni quando lei gli mostrò la casa – e quelle nicchie dove avrebbero fatto l'amore così presto – era un insieme di elementi di rapimento e di esasperazione. Rapimento – per la sua pelle voluttuosa, pallida e proibita, per i suoi capelli, le sue gambe, i suoi movimenti spigolosi, il suo odore d'erba e di gazzella, per lo sguardo scuro e all'improvviso fisso dei suoi occhi distanti tra loro, per la rustica nudità sotto il vestito; esasperazione – perché tra lui, uno scontroso e geniale scolaro, e quella precoce, affettata, impenetrabile bambina si stendevano un vuoto di luce e un velo d'ombra che nessuna forza avrebbe potuto vincere o perforare. Imprecava miseramente nello sconforto del suo letto quando metteva a fuoco i suoi sensi dilatati su quanto aveva intravisto di lei quando, durante la loro seconda escursione all'ultimo piano della casa, si era arrampicata su una cassa da capitano per aprire la cerniera di una specie di lucernario attraverso il quale si poteva accedere al tetto (anche il cane ci era riuscito una volta), e una mensola, o qualcos'altro, le aveva sollevato la gonna e lui aveva potuto vedere – come si assiste a un nauseante miracolo in una fiaba biblica o alla stupefacente metamorfosi di un lepidottero – che il serico bozzolo della bambina era scuro. Notò che lei sembrava aver notato che lui aveva o poteva aver notato (quello che lui non solo aveva notato, ma tenne a mente con tenero terrore finché non si fu liberato di quella visione – molto più tardi – e per strane vie), e un'espressione insolita, ottusa e arrogante, le attraversò la faccia: le guance infossate e le labbra pallide e grosse si muovevano come se masticasse qualcosa, e lei emise un guaito di ilarità senza gioia quando lui, il grande Van, inciampò e scivolò su una tegola, dopo essere a sua volta uscito con una contorsione dal lucernario. Nel sole improvviso lui capì che, fino ad allora, il piccolo Van era stato vergine e cieco, e che la fretta, la polvere e il buio gli avevano sempre nascosto i piccoli incanti della sua prima sgualdrina, così tante volte posseduta.

Da quel giorno la sua educazione sentimentale proseguì celermente. La mattina successiva gli capitò di vederla mentre si lavava la faccia e le braccia china sopra un'antiquata bacinella, su un piedistallo rococò. Aveva i capelli annodati in cima alla testa, la camicia da notte arrotolata intorno alla vita come una goffa corolla dalla quale spuntava la sua schiena magra e ombreggiata dalle costole. Un serpente di porcellana si arricciava intorno al bacile, e mentre entrambi, lui e il serpente, guardavano immobili Eva e il lieve sobbalzare dei suoi seni in germoglio, un grosso pane di sapone color mora sgusciò dalla sua mano, e il suo piede infilato in una calza nera agganciò la porta e la sbatté con un colpo che era più l'eco dell'urto del sapone contro il bordo di marmo che un segno di pudico disagio.

10

Pranzo a Ardis Hall, in un giorno qualunque della settimana. Lucette tra Marina e la governante; Van tra Marina e Ada; Dack, l'ermellino brunodorato, sotto il tavolo, tra Ada e Mlle Larivière, o tra Lucette e Marina (anche se non lo dava a vedere, a Van i cani non piacevano, specialmente durante i pasti, e specialmente quel piccolo mostro bislungo, col fiato che sapeva di selvaggina frollata). Sfrontata e magniloquente, Ada descriveva un sogno, o un prodigio di storia naturale, o uno speciale espediente bellettristico, un «monologue intérieur» di Paul Bourget preso a prestito dal vecchio Lev, o una comica gaffe della rubrica di attualità di Elsie de Nord, una volgare letteraria demimondaine che pensava che Lévin andasse in giro per Mosca in un nagol'nïy tulup, «cappotto di pecora da contadino liscio fuori, peloso dentro», secondo la definizione di un dizionario che la nostra commentatrice faceva apparire come un giocatore di prestigio, e che nessuna Elsie avrebbe mai potuto procurarsi. La sua spettacolare capacità di governare le proposizioni subordinate, le digressioni parentetiche, la sensuale accentazione dei monosillabi adiacenti («È semplice: la stupida Elsie non sa leggere») – tutto questo finì in qualche modo con l'agire su Van, come sarebbe potuto succedere con mezzi di eccitamento artificiali ed esotiche carezze-torture, in un'afrodisiaca direzione sinistra che nello stesso tempo lo offendeva e perversamente gli piaceva.

«Mia adorata» la chiamava la madre, interrompendo con gridolini il discorso di Ada: «Com'è divertente!», «Lo trovo fantastico!», ma anche indulgendo in osservazioni più ammonitorie quali: «Siediti un po' più dritta» o «Mangia, mia adorata» (accentando il «mangia» con una sollecitudine materna molto diversa dalla malizia dei sarcasmi spondaici della figlia).

Ada si raddrizzava e inarcava la flessuosa spina dorsale contro lo schienale della sedia, poi, quando il sogno o l'avventura (o qualsiasi altra cosa stesse raccontando) raggiungeva il culmine, si piegava sopra il punto dal quale Price aveva prudentemente tolto il suo piatto e, improvvisamente tutta gomiti, si buttava in avanti, invadendo il tavolo e lasciandosi andare indietro di nuovo, con la bocca contorta in smorfie smodate, e con le mani in alto, su, su, per fare segno di «lungo, lungo!».

«Mia adorata, non hai assaggiato il... oh, Price, porti la...».

La che cosa? La corda del fachiro per la bambina a sedere nudo che vuole arrampicarsi nell'azzurro infinito?

«Era di un tipo lungo, lungo. Voglio dire» (interrompendosi) «... come un tentacolo... no, aspettate» (scuotimento della testa, contrazione dei lineamenti, come se con uno strattone volesse districare i nodi di una matassa aggrovigliata).

No: la frutta, enormi prugne viola e rosa, una con una spaccatura e un'esplosione di giallo bagnato.

«E così io stavo lì...» (i capelli che precipitano, la mano che vola alla tempia e abbozza ma non conclude il colpo-che-getta-indietro la ciocca; poi un improvviso scoppio di risate ruvide-increspate che vanno a finire in un'umida tossetta).

«No, ma seriamente, mamma, lei si deve immaginare me completamente muta, me che grido ammutolita, mentre mi accorgo...».

Al terzo o quarto pasto, anche Van si accorse di qualche cosa. Lontano dall'essere l'esibizione di una ragazzina brillante a beneficio di un nuovo arrivato, il comportamento di Ada era un disperato e piuttosto abile tentativo di impedire a Marina di appropriarsi della conversazione e di trasformarla in una conferenza sul teatro. Marina, d'altra parte, mentre aspettava l'opportunità di far trottare la sua trojka di cavalli di battaglia, traeva professionale diletto nell'interpretare il ruolo trito e ritrito della madre affettuosa, orgogliosa del fascino e dello spirito della figlia, e lei stessa incantevolmente e spiritosamente indulgente nei confronti di quell'impetuosa circostanzialità: lei si esibiva – non Ada! E quando Van ebbe capito quale fosse veramente la situazione, imparò ad approfittare di ogni pausa (che Marina era sul punto di riempire con una scelta stanislavskiana) per lanciare Ada sulle acque inquiete di Botany Bay, un viaggio che in altre occasioni lo terrorizzava, ma che ora si dimostrava per la sua ragazza la rotta più facile e sicura. Questi interventi erano importanti soprattutto durante il pasto della sera, poiché Lucette e la sua governante consumavano la loro cena prima degli altri, al piano di sopra, e non essendo Mlle Larivière presente in quei momenti critici, non si poteva sperare che prendesse il sopravvento sull'arrancante Ada con un vivace resoconto di come stava lavorando alla sua ultima novella (la famosa Collana di diamanti si trovava nella più avanzata fase di lucidatura) o con ricordi della prima fanciullezza di Van, per esempio quelli del tutto accettabili che riguardavano il suo amato tutore russo, il quale corteggiava con delicatezza Mlle L., scriveva poesie decadenti russe in versi sciolti e in russa solitudine si dava al bere.

Van: «Quel coso giallo» (indicando un fiorellino graziosamente dipinto su un piatto Eckercrown) «è un ranuncolo?».

Ada: «No. Quel fiore giallo è la comune Farferugine o Caltha palustris. In campagna i contadini si confondono e la chiamano Primula odorosa, quando naturalmente la vera Primula odorosa, cioè la Primula veris, è tutt'altra pianta».

«Ho capito» disse Van.

«Sì, certo» cominciò Marina. «Quando interpretavo Ofelia, il fatto che un tempo avessi fatto raccolta di fiori...».

«Ti ha aiutato, non c'è dubbio» disse Ada. «Ora il nome russo per la Caltha palustris è Kuroslep (che i muziki della Tartaria, poveri schiavi, attribuivano per errore al ranuncolo) o anche Kaluzhnitsa, abbastanza appropriatamente usato a Kaluga, USA».

«Ah» disse Van.

«Come nel caso di molti fiori,» Ada proseguì con un sorriso pacato da scienziato pazzo «l'infelice nome francese della nostra pianta, souci d'eau, è stato tradito, o forse dovremmo dire trasfigurato...».

«Oppure deflorato» arrischiò Van Veen.

«Je vous en prie, mes enfants» intervenne Marina che aveva seguito la conversazione con difficoltà, e ora, fraintendendo ulteriormente, pensava a un altro tipo di equivoco.

«Per caso, proprio stamattina,» disse Ada, senza degnarsi di illuminare la madre «la nostra dotta governante, che è stata anche la tua, Van, e che...».

(Era la prima volta che pronunciava il suo nome... a quella lezione di botanica!).

«... è piuttosto severa con gli ibridatori di lingua inglese – crostacei chiamati "granchi" – per quanto io sospetti che le sue ragioni siano più sciovinistiche che artistiche e morali – ha attirato la mia attenzione – la mia oscillante attenzione – su alcune davvero magnifiche deflorazioni, come le chiami tu, Van, in una soi-disant versione letterale di Mr Fowlie – definita "sensitiva" in una recente visione Elsiana... sensitiva! – di Memorie, una poesia di Rimbaud (che lei fortunatamente – e con lungimiranza – mi aveva fatto imparare a memoria, sebbene io abbia il sospetto che preferisca Musset e Coppée)...».

«... les robes vertes et déteintes des fillettes...» [i vestitini verdi e scoloriti delle bambine] citò Van, trionfante.

«Ezz-atto» (facendo il verso a Dan). «Larivière mi permette di leggerlo solo nell'antologia di Feuilletin, la stessa che hai tu, a quanto pare, ma mi procurerò le sue oeuvres complètes molto presto, oh molto presto, molto più presto di quanto chiunque possa pensare. E guarda, lei scenderà proprio adesso, dopo aver rimboccato le coperte a Lucette, la nostra cara testadirame che ormai avrà indosso la sua camicia da notte verde...».

«Angel moy,» si lamentò Marina «sono certa che Van non può provare alcun interesse per l'abbigliamento notturno di Lucette!».

«... della tonalità dei salici, e starà contando le pecorelle sul suo ciel de lit che Fowlie volge in "sky's bed", "il letto del cielo" invece di "bed's ceiler", la "volta del letto". Ma, per tornare al nostro povero fiore. La vera gemma in questa collezione di Francese fallato è la trasformazione di souci d'eau (la nostra Farferugine) nell'asinina "preoccupazione dell'acqua" – eppure ci sarebbero state dozzine di sinonimi, quali mollingoccia, merinboccio, maiainbolla, e molti altri nomignoli associati alle feste della fertilità, qualunque cosa esse siano».

«D'altra parte,» disse Van «si potrebbe benissimo immaginare una Miss Rivers ugualmente bilingue, che controlla una versione francese del, vediamo, Garden di Marvell...».

«Oh,» gridò Ada «posso recitare "Le jardin" nella mia transversione... vediamo...

 

En vain on s'amuse à gagner

L'Oka, la Baie du Palmier...».

 

«... raggiungere Palma, l'Oka, o Bayes!» gridò Van.

«Sapete, bambini,» interruppe Marina risolutamente, facendo con entrambe le mani il gesto di volerli placare «quando avevo la tua età, Ada, e mio fratello aveva la tua, Van, parlavamo di croquet, di pony e di pupazzi, dell'ultima fête-d'enfants, del primo picnic, e... oh, di un milione di normali cose carine, ma mai, mai di vecchi botanici francesi e Dio sa cosa!».

«Ma non hai appena detto che facevi raccolta di fiori?» disse Ada.

«Oh, solo una volta, da qualche parte in Svizzera. Non mi ricordo. Non ha importanza adesso».

Pensava a Ivan Durmanov, che era morto di cancro ai polmoni, molti anni prima, in un sanatorio (non lontano da Ex, da qualche parte in Svizzera, dove Van era nato otto anni più tardi). Marina ricordava spesso Ivan, che era stato un famoso violinista a diciotto anni, ma di solito nel parlare non manifestava una particolare emozione. Questa volta, invece, Ada notò con sorpresa che il pesante trucco di sua madre aveva cominciato a squagliarsi sotto un improvviso diluvio di lacrime (forse un'allergia ai vecchi, piatti fiori secchi, un attacco di febbre da fieno, di genzianite, come una diagnosi solo di poco posteriore avrebbe potuto dimostrare). Marina si soffiò il naso, con la sonorità di un elefante, come disse lei stessa – e in quel momento Mlle Larivière scese per il caffè e per le rimembranze di Van bambin angélique che «adorava», à neuf ans – tesoro caro! – Gilberte Swann et la Lesbie de Catulle (e che aveva imparato, tutto da solo, a liberare quell'adorazione, non appena la lampada a cherosene lasciava la sua camera da letto ondeggiante, nel pugno della sua bambinaia nera).

11

Qualche giorno dopo l'arrivo di Van, lo zio Dan tornò dalla città con il treno del mattino, per trascorrere come d'abitudine il fine settimana con la propria famiglia.

Van si imbatté nello zio mentre questi attraversava l'atrio. Il maggiordomo, con un gesto molto simpatico (pensò Van), volendo spiegare al suo padrone chi fosse quel ragazzo alto, mise una mano a un metro dal suolo e poi la fece salire sempre più su – in un codice altitudinale che solo il nostro giovane di un metro e ottanta comprese. Van vide il piccolo signore coi capelli rossi lanciare un'occhiata perplessa al vecchio Bouteillan, che si affrettò a sussurrare il nome di Van.

Mr Daniel Veen, quando accoglieva un ospite, aveva la curiosa abitudine di affondare nella tasca della giacca le dita della mano destra irrigidita, e di tenerle lì in una specie di processo di purificazione fino all'esatto momento del saluto. Dopo la stretta di mano, quel giorno aggiunse qualche parola e comunicò al nipote che di lì a pochi minuti avrebbe piovuto «perché aveva cominciato a piovere a Ladore», e la pioggia, disse, «impiega mezz'ora circa a raggiungere Ardis». Van pensò che fosse una battuta e ridacchiò educatamente, ma lo zio Dan si mostrò di nuovo perplesso e, fissando Van con pallidi occhi da pesce, si informò se avesse familiarizzato con i dintorni, gli chiese quante lingue sapesse e se volesse comprare per poche copeche un biglietto della lotteria della Croce Rossa.

«No, grazie,» disse Van «ne ho abbastanza delle mie di lotterie» – e suo zio lo guardò di nuovo fisso, ma come di traverso.

Il tè fu servito in salotto, e tutti erano piuttosto silenziosi e avevano l'aria oppressa; subito dopo lo zio Dan si ritirò nel suo studio, estraendo da una tasca interna della giacca un giornale piegato. Non appena ebbe lasciato la stanza una finestra si spalancò da sola, un forte rovescio di pioggia cominciò a tambureggiare sulle foglie del liriodendro e dell'Imperialis, e la conversazione diventò generale e rumorosa.

La pioggia non durò – o piuttosto non si trattenne – a lungo: continuò la sua probabile strada verso Raduga o Ladoga o Kaluga o Luga, lasciando cadere sopra Ardis Hall un incompiuto arcobaleno.

Lo zio Dan, seduto su una sedia eccessivamente imbottita, cercava di leggere, con l'ausilio di uno dei dizionari in miniatura per turisti poco esigenti con cui di solito decifrava i cataloghi d'arte stranieri, un articolo che pareva dedicato alla raccolta delle ostriche su una rivista olandese abbandonata da qualcuno in treno sul sedile di fronte al suo – quando un esecrabile tumulto cominciò a diffondersi da una stanza all'altra per tutta la casa.

Il giocoso bassotto, con un orecchio che sbatteva e l'altro rovesciato dalla parte interna rosa e grigia, muovendo rapidamente le sue comiche zampe e slittando sul parquet ogni volta che svoltava, aveva rubato da qualche parte al piano di sopra un grosso batuffolo di cotone impregnato di sangue, e stava cercando un posto adatto dove nasconderlo e poi dilaniarlo. Ada, Marina e due cameriere, intralciate dalla gran quantità di mobili barocchi, inseguivano il vivace animale senza riuscire a bloccarlo, e quello continuava a correre all'impazzata attraverso la soglia di innumerevoli porte. D'un tratto la partita di caccia virò, passò accanto alla poltrona dello zio Dan, e sfrecciò via di nuovo.

«Buon Dio!» esclamò Mr Veen, cogliendo con lo sguardo il sanguinoso trofeo. «Qualcuno deve essersi mozzato un pollice!». Tastando le proprie cosce e la sedia, cercò e recuperò – sotto lo sgabello per i piedi – il glossario tascabile; tornò al suo giornale, ma un attimo dopo dovette interrompersi di nuovo per controllare la parola «groote»,[grande] che già poco prima lo aveva confuso.

Il suo significato elementare lo infastidì.

Attraverso una porta finestra spalancata, Dack portò i suoi inseguitori in giardino. Lì, sul terzo prato, Ada riuscì a bloccarlo con l'affondo volante usato nel «football americano» (un tipo di rugby giocato un tempo dai cadetti sulle umide rive erbose del fiume Goodson). Nello stesso istante, Mlle Larivière si alzò dalla panchina dove era intenta a pareggiare le unghie delle mani di Lucette e, puntando le forbici contro Blanche che stava arrivando di corsa con un sacchetto di carta, accusò la giovane sciattona di un flagrante precedente — vale a dire di aver una volta lasciato cadere una forcina nel lettino di Lucette, un machin long comme ça qui faillit blesser l'enfant à la fesse [un aggeggio lungo così che per poco non ferì la bambina alla natica]. Marina, tuttavia, che delle nobildonne russe aveva ereditato il morboso terrore «di offendere gli inferiori», dichiarò l'incidente chiuso.

«Nehoroshaya, nehoroshaya sobaka»cantilenò Ada con grande enfasi aspiratoria e sibilatoria, mentre accoglieva nelle sue braccia l'ormai privato del bottino, ma del tutto imperturbabile, «cattivo cane».

12

Amaca e miele: ottant'anni più tardi poteva ancora ricordare con il primo spasimo della gioia di allora il suo innamoramento per Ada. La memoria e l'immaginazione si incontravano a metà strada nell'amaca delle aurore della sua fanciullezza. A novantaquattro anni gli piaceva riandare a quella prima estate amorosa non come a un sogno dal quale si fosse appena risvegliato, ma come a un recupero della coscienza nelle brevi grigie ore tra il sonno poco profondo e il primo boccone del giorno. Continua tu, cara, solo per un momento. Bocconcino-cuscino, boccone-bilione. Vai avanti da qui, Ada, per piacere!

(Lei). Bilioni di Bill. Prendiamo un decennio appena decente. Un bilione di Bill, buoni, dotati, teneri e appassionati, non solo fisicamente, ma anche spiritualmente, bilioni di buone intenzioni, hanno messo a nudo il giglio di tenere Jill, non meno brillanti e appassionate, alle stazioni e in condizioni che andran controllate e poi dall'autore specificate, affinché dalle erbacce delle statistiche non risultino infestate le sue relazioni, o fino alla vita immerse nelle generalizzazioni. Non ci sarebbe un vantaggio se lasciassimo da parte, per esempio, la piccola questione della prodigiosa consapevolezza individuale e del genio giovanile, che in alcuni casi, di questo o quel particolare ansito, fa un evento senza precedenti e irripetibile nel continuum della vita, o almeno un tematico antemio di simili eventi in un'opera d'arte o in un articolo di denuncia. I dettagli smaglianti o sfumanti: la foglia locale attraverso la pelle ialina, il sole verde nell'umido occhio bruno, tout ceci, vsyo eto, in corpo e in toto, deve essere riportato, adesso preparati a continuare (no, Ada, vai avanti, ya zaslushalsya: sono tutto incantamento e orecchie), se è nostro desiderio trasmettere il fatto, il fatto, il fatto... che tra quei bilioni di brillanti coppie in una sezione trasversale di quello che tu mi permetterai di chiamare spaziotempo (per facilitare il ragionamento), una coppia è un'unica super-imperiale coppia, sverhimperatorskaya cheta, e di conseguenza (da indagare, dipingere, denunciare, mettere in musica, o sottoporre a tortura, se il decennio avesse per esempio una coda da scorpione) le particolarità del loro fare l'amore influenzano, in uno speciale unico modo, due lunghe vite più qualche lettore, canne pensanti con penne o pennelli mentali. Storia naturale davvero! Storia innaturale – perché quella precisione di sensi e senso, per la sua bizzarria, diffonde nel contado lo scontento, e perché il particolare è tutto: il canto del Fiorrancino Toscano o del Regolo Americano tra i rami di un cipresso di cimitero; una folata odorosa di Santoreggia o di Yerba Buena su un declivio costiero; il frullio danzante delle Celastrine – mescolate ad altri uccelli, fiori e farfalle: che devono essere uditi, odorati e visti attraverso la trasparenza della morte e della bellezza ardente. E quel che è più difficile: la bellezza stessa come percepita attraverso il là e l'allora. I maschi delle lucciole... (adesso è davvero il tuo turno, Van).

I maschi delle lucciole, piccoli scarabei luminosi, più simili a stelle vaganti che a insetti alati, cominciarono ad apparire nelle prime notti nere e calde di Ardis, uno dopo l'altro, qui e là, poi in una moltitudine fantasmatica, riducendosi di nuovo a pochi individui quando la loro ricerca giungeva a una fine naturale. Van li osservava con lo stesso piacevole sgomento che aveva provato da bambino quando, perso nel crepuscolo viola del giardino di un albergo italiano, in un viale di cipressi aveva pensato che fossero demoni aurei e necrofagi oppure le fantasie passeggere del parco.

Adesso, a Ardis, volavano leggeri, seguendo all'apparenza una linea diritta e solcando e risolcando il buio intorno a lui, e ciascuno faceva lampeggiare, all'incirca ogni cinque secondi, la sua luce color limone pallido, lanciando il suo segnale con riconoscibile cadenza (del tutto diversa da quella di una specie affine, che vola con il Photinus ladorensis, secondo Ada, a Lugano e Luga) alla propria femmina, rincantucciata nell'erba, che, dopo aver aspettato qualche attimo per verificare l'esatto tipo di codice luminoso, pulsava in fotica risposta. La presenza di quei piccoli splendidi insetti che illuminavano la notte fragrante di luce soave riempiva Van di una gaiezza leggera raramente evocata in lui dall'entomologia di Ada – forse a causa dell'invidia che qualche volta la conoscenza immediata del naturalista provoca nello studioso astratto. L'amaca, un comodo nido oblungo, disegnava una rete sul suo corpo nudo, sia sotto il cedro piangente che distendeva i suoi rami nell'angolo di un prato, garantendo un parziale riparo in caso di acquazzoni, sia, in serate di tempo meno incerto, quando era tesa tra due tulipifere (nello stesso punto dove una volta un ospite estivo del castello, con un mantello nero da teatro buttato su un'umida e fredda camicia da sera, era stato svegliato da una bombetta puzzolente scoppiata tra gli strumenti dell'«horse cart» e, strofinando un fiammifero, lo zio Ivan aveva visto del sangue rosso vivo macchiare il suo cuscino).

Nel buio, le finestre del castello sparivano a schiere, in file, o a scacchiera. Più a lungo di tutti, nel gabinetto della stanza dei bambini, si tratteneva Mlle Larivière, con una lampada all'essenza di rose e con il suo buvard [carta assorbente]. Un vento leggero gonfiava le tende della nuova camera da letto di Van, ora senza più confini. Venere si alzava nel cielo; Venere scendeva nella sua carne.

Tutto questo accadeva poco prima dell'invasione stagionale di una zanzara curiosamente primitiva (la cui virulenza il non troppo gentile contingente russo della nostra regione attribuiva alla dieta dei viticoltori francesi e dei mangiatori dei melmosi mirtilli di Ladore); ma anche così le affascinanti lucciole, e l'ancor più misterioso pallido cosmo che traluceva dal fogliame scuro, controbilanciavano con nuovi fastidi la sua notturna ordalia, le afflizioni di sudore e sperma associate alla sua soffocante stanza da letto. La notte, naturalmente, rimase sempre un cimento, attraverso tutti i «quasi cento» anni della sua vita, per quanto pieno di sonno o di sonniferi potesse essere il povero vecchio – perché il genio non è tutto zenzero nemmeno per Billionaire Bill con la sua barbetta a punta e la calva cupola stilizzata, o per il Brusco Proust cui piaceva decapitare i topi quando non aveva voglia di dormire, o per questo tetro o scintillante V.V. (a seconda della vista dei lettori, poverini anche loro, malgrado le nostre finezze e le loro finanze); ma a Ardis l'intensa vita del cielo, perseguitato dalle stelle, agitava le notti del ragazzo al punto che questi si sentiva riconoscente quando un tempo infame o l'ancor più infame culice – il Kamargsky Komar dei nostri muziki e il Moschito moscovita dei loro non meno allitterativi vendicatori – lo riconducevano alla sua caotica cuccia.

In questo nostro asciutto resoconto del precoce, troppo precoce, amore di Van Veen per Ada Veen, non esiste il presupposto né lo spazio per digressioni metafisiche. Tuttavia va osservato (proprio mentre i luciferi volano e palpitano, e un gufo grida – non meno ritmicamente – nel parco vicino) che Van, il quale a quel tempo non aveva ancora provato veramente il Terrore di Terra – attribuendolo in modo vago, quando analizzava i tormenti della sua cara indimenticabile Aqua, a perniciose fissazioni e a fantasie popolari - anche allora, a quattordici anni, riconosceva che i vecchi miti, che regalavano un'esistenza proficua a un turbine di mondi (non importa quanto assurdi e mistici) e li collocavano all'interno della materia grigia dei cieli soffusi di stelle, contenevano forse una lucciola di strana verità. Le sue notti nell'amaca (dove quell'altro povero giovane aveva maledetto la sua tosse striata di sangue e si era di nuovo immerso nel sogno di una nera spuma predatrice e di un frastuono di simboli in un'orcale orchestra – come gli era stato suggerito da medici di carriera) non erano adesso turbate dal tormentoso desiderio di Ada, quanto da quello spazio privo di significato sopra la testa, sotto la testa, ovunque, la demoniaca controparte del divino tempo, che vibrava intorno a lui e attraverso di lui, come doveva vibrare ancora – con un po' più di significato, fortunatamente – nelle ultime notti di una vita di cui assolutamente non mi rammarico, oh no, mio amore, non mi rammarico.

Si addormentava nel momento in cui pensava che non si sarebbe addormentato mai più, e i suoi sogni erano giovani. Quando la prima fiamma del giorno raggiungeva la sua amaca, si svegliava come un altro uomo – per la verità, un grand'uomo. «Ada, gli ardori e gli alberi» – un settenario destinato a rimanere l'unico contributo di Van Veen alla poesia anglo-americana – risuonava nel suo cervello. Benedetti gli storni, maledette le stelle! Aveva quattordici anni e mezzo; era fiero e bruciante, e un giorno l'avrebbe presa e fatta sua selvaggiamente!

Di queste verdi resurrezioni ce n'era una che riusciva a rivedere in ogni dettaglio, tutte le volte che ripensava al passato. Si era appena infilato i calzoncini da bagno, introducendovi e stipandovi quel riluttante, articolato e multiplo macchinario, si era lasciato cadere fuori dal suo nido e subito aveva cercato di capire se la parte della casa dove lei abitava fosse ritornata in vita. Non fu deluso. Vide un lampo di cristallo, un riflesso di colore. Ada stava facendo sa petite collation du matin da sola sul suo balcone privato. Van cercò i sandali, li trovò – in uno c'era uno scarabeo e nell'altro un petalo – e attraverso il ripostiglio degli attrezzi rientrò nella frescura della casa.

Ci sono bambini capaci di concepire sistemi filosofici purissimi, e anche Ada ne aveva elaborato uno tutto suo. Era a malapena trascorsa una settimana dal suo arrivo, quando Van fu ritenuto degno di essere iniziato alla sua rete di sapienza. La vita di un individuo, secondo Ada, consisteva di un certo numero di classificazioni: le «cose vere» erano rare e non avevano prezzo, le «cose» e basta formavano il materiale ordinario della vita; e poi c'erano le «cose fantasma», altrimenti dette «foschie», come la febbre, il mal di denti, le delusioni atroci, e la morte. Se tre o più «cose vere» si verificavano contemporaneamente si formava una «torre», se si verificavano in un'immediata successione di tempo si otteneva un «ponte». Le «vere torri» e i «veri ponti» erano le gioie della vita, una serie di torri equivaleva al rapimento supremo che, però, non si verificava quasi mai. In alcune circostanze, in una certa luce, una «cosa» neutra poteva sembrare, o perfino diventare, realmente «vera», o anche, per converso, poteva coagularsi in fetida «foschia». Se capitava che le gioie e le assenze di gioia si mescolassero, simultaneamente o per gradi lungo la rampa della loro durata, ci si trovava di fronte a «rovine di torri» e «crolli di ponti».

I particolari pittorici e architettonici della sua metafisica rendevano le notti di Ada meno difficili di quelle di Van, e quella mattina — come la maggior parte delle mattine — lui aveva la sensazione di ritornare da una contrada molto più remota e sinistra di quella da cui arrivava lei con la sua luce solare.

Le sue labbra piene, appiccicose e luccicanti sorrisero.

(Quando ti bacio qui, le disse qualche anno più tardi, mi ricordo sempre quell'azzurra mattina sul balcone, quando tu mangiavi una di quelle tartines au miel, che in francese sono tanto più buone).

La classica bellezza del miele di trifoglio, liscio, pallido e trasparente, scorreva fluida dal cucchiaio e bagnava di liquido ottone il pane e burro del mio amore. Mollica impregnata di nettare.

«Cosa vera?» le chiese.

«Torre» rispose lei.

E la vespa.

La vespa stava esaminando il piatto di Ada. Il suo corpicino palpitava.

«Dopo proveremo a mangiarne una,» disse lei «ma bisogna divorarla, se no non è buona. È impossibile che ci punga la lingua. Nessun animale toccherà mai la lingua di una persona. Quando un leone ha finito di sbranare un viaggiatore, ossa e tutto il resto, lascia sempre la lingua dell'uomo abbandonata nel deserto, così» (gesto incurante della mano).

«Ne dubito».

«È un mistero risaputo».

I suoi capelli erano pettinati con cura, quel giorno, e rilucevano d'un nero lustro che contrastava con l'opaco pallore del suo collo e delle sue braccia. Indossava la maglietta a strisce che più delle altre a Van, nelle sue fantasie solitarie, piaceva levarle dal torso ribelle. La tovaglia di tela cerata era divisa in quadri azzurri e bianchi. Una traccia di miele sporcava quel che rimaneva del burro nel suo freddo recipiente.

«Va bene. E la terza cosa vera?».

Lei lo guardò a lungo. Una gocciolina, come una fiammella sullo stoppino della sua bocca, lo guardò a lungo. Una viola di velluto a tre colori, della quale Ada aveva fatto un acquarello la sera prima, lo guardò a lungo dal suo calice di cristallo. Lei non disse niente. Si leccò le dita aperte senza smettere di guardarlo.

Van se ne andò senza una risposta. La torre di Ada crollò lentamente nel silenzio e nella soavità del sole.

13

In occasione del grande picnic organizzato per festeggiare il dodicesimo compleanno di Ada e il quarantaduesimo jour de fête di Ida, alla bambina fu permesso di indossare la sua lolita (dal nome della piccola zingara andalusa nella novella di Osberg, pronunciato con una «t» spagnola, e non con una spessa «t» inglese), una gonna piuttosto lunga, ma molto ampia e leggera, nera con papaveri rossi o peonie «manchevoli dal punto di vista della realtà botanica», come diceva lei pomposamente, senza ancora sapere che nei termini di questo sogno, e solo di questo, realtà e scienze naturali sono sinonimi.

(Nemmeno tu lo sapevi, mio saggio Van. Nota di Ada).

Aveva infilato, nuda, i piedi nel cerchio della gonna, con le gambe ancora bagnate e profumate di pino, dopo una speciale frizione con un guanto da bagno (sotto il regime di Mlle Larivière non si conoscevano bagni mattutini), e l'aveva alzata fino alla vita con una veloce oscillazione dei fianchi che aveva provocato il familiare rimbrotto della sua governante: mais ne te trémousse pas comme ça quand tu mets ta jupe! Une petite fille de bonne maison, ecc. Per contra, l'omissione delle mutande fu ignorata da Ida Larivière, donna dal seno prosperoso, di grande e repulsiva bellezza (con indosso in quel momento nient'altro che il busto e le calze con le giarrettiere), la quale non era, nemmeno per quanto la riguardava personalmente, aliena dal fare segrete concessioni alla canicola di quei giorni; nel caso della tenera Ada, però, quella pratica aveva effetti deprecabili. La bambina cercava di lenire l'esantema nella morbida arcata, con tutto il suo accompagnamento di sensazioni appiccicose e pruriginose non completamente sgradevoli, stando saldamente a cavalcioni del fresco ramo di un albero di mele Shattal, con grande disgusto di Van, come vedremo più di una volta. Oltre alla lolita, Ada portava una maglietta a maniche corte di jersey, bianca a strisce nere, un cappello floscio (che le dondolava sulla schiena appeso a un elastico), una fascia di velluto nei capelli e dei vecchi sandali. L'igiene e la sofisticazione nel gusto non erano, come Van continuava a notare, prerogative di Ardis.

Quando tutti gli altri furono pronti a partire, Ada si lasciò cadere dal suo albero come un'upupa. Presto, presto, mio uccello, mio angelo. Il cocchiere inglese, Ben Wright, era ancora completamente sobrio (avendo bevuto come prima colazione solo una pinta di birra). Blanche, che almeno in un'altra occasione aveva già partecipato a un grande picnic (quando era stata chiamata d'urgenza a Pineglen per slacciare il busto a Mademoiselle che era svenuta), adesso adempiva il meno prestigioso compito di trascinare fin sulla torre, nella propria stanzetta, il ringhiante e recalcitrante Dack.

Un carro con le panche trasversali aveva già portato sul luogo del picnic due camerieri, tre poltrone e numerose ceste. La romanziera, che indossava un vestito di satin bianco (confezionato da Vass di Manhattan per Marina, recentemente dimagrita di quasi cinque chili), con Ada seduta al fianco, e Lucette, très en beauté [molto bellina] in una blusa bianca da marinaio, appollaiata accanto al torvo Wright, si recava al picnic con la calèche. Van pedalava dietro di loro su una delle biciclette di suo zio o del suo prozio. La strada nel bosco era sufficientemente agevole se ci si teneva al centro (che quel giorno era ancora fangoso e scuro dopo un'alba piovosa), tra due solchi azzurro cielo picchiettati dai riflessi delle foglie di betulla le cui ombre passavano veloci sulla seta color madreperla tesa tra le stecche del parasole di Mlle Larivière e sulla larga falda del cappello bianco che Ada si era messa un po' di sghembo. Di tanto in tanto Lucette, dal suo posto accanto alla giacca azzurra di Ben, si voltava a guardare Van rivolgendogli con il palmo della mano piccoli inviti alla prudenza, come aveva visto fare a sua madre quando temeva che Ada, con il pony o con la bicicletta, andasse a finire contro la carrozza.

Marina arrivò su un'automobile rossa, un vecchio modello decappottabile a due posti che il maggiordomo aveva messo in moto con circospezione, come se si trattasse di un nuovo tipo di cavaturaccioli. Lei, di un'eleganza fuori posto, con un completo da uomo di flanella grigia, stava seduta con la mano guantata chiusa sul pomolo di una maculata canna da passeggio, quando l'automobile, con qualche sobbalzo, si fermò proprio al margine della pittoresca radura scelta per il picnic, in un antico bosco di pini solcato da gole di affascinante bellezza. Una strana pallida farfalla che arrivava dalla parte opposta passò lungo la strada di terra battuta che portava a Lugano, seguita poco dopo da un landò dal quale spuntarono, uno dietro l'altro, prontamente o lentamente, a seconda dell'età e delle condizioni fisiche, i gemelli Erminin, la loro giovane zia incinta (dal punto di vista narrativo, un grande, inevitabile peso), e una governante, la canuta Mme Forestier, compagna di scuola di Mathilde in una delle prossime avventure.

I tre gentlemen adulti attesi per il picnic non si presentarono affatto: erano lo zio Dan, che aveva perso il treno del mattino dalla città; il colonnello Erminin, vedovo, il cui fegato, come diceva in un biglietto, si stava comportando come un peceneg [selvaggio]; e il suo medico (e compagno di scacchi), il famoso dottor Krolik, gioielliere alla corte di Ada, che per mantener fede al suo titolo, il giorno dopo, di mattina presto, le portò il suo regalo di compleanno – tre crisalidi squisitamente istoriate («Gemme di inestimabile valore» esclamò Ada con un grido strozzato, inarcando le sopracciglia), ciascuna delle quali avrebbe di lì a poco prodotto, invece della Kibo Fritillaria, rarità di recente scoperta, un esemplare della deludente famiglia degli icneumonidi.

Cumuli di tenere tartine senza crosta (rettangoli perfetti di dodici per sei centimetri), il cadavere brunofulvo di un tacchino, pane nero russo, vasi di caviale Perla Grigia, violette candite, piccole torte di lamponi, mezzo gallone di porto bianco Goodson, un altro di bordeaux rosso rubino, annacquato in bottiglie thermos per le ragazze, e il fresco tè dolce delle infanzie felici – tutto era molto più facile da immaginare che da descrivere. Poteva essere istruttivo... [così nel manoscritto. Nota del Redattore].

Poteva essere istruttivo mettere a confronto Ada Veen e Grace Erminin: il pallore di latte scremato di Ada e il sano e acceso rigoglio della sua coetanea; il nero e dritto strame da streghinella della prima e il caschetto castano dell'altra; gli occhi fondi e assenti del mio amore e l'azzurro barbaglio dietro gli occhiali cerchiati di corno di Grace; la coscia nuda dell'una e la lunga calza rossa dell'altra; la sottana da zingara e il vestito alla marinara. Ancora più istruttivo sarebbe stato forse notare come la neutra fisionomia di Greg si fosse trasposta, lasciando invariato ogni tratto, nell'aura di sua sorella, dove una parvenza di grazia femminile nulla toglieva all'intima somiglianza del giovane marinaio con la fanciulla.

I resti del tacchino, il porto, che solo le governanti avevano toccato, e un piatto di Sèvres in frantumi furono rapidamente portati via dai servitori. Un gatto spuntò di sotto un cespuglio, spalancò gli occhi paralizzato dalla sorpresa e, a dispetto di un coro di «micio-micio», scomparve di nuovo.

Subito dopo Mlle Larivière domandò ad Ada di accompagnarla in un luogo appartato, raggiunto il quale, protetta dal suo voluminoso vestito con le pieghe ancora intatte, ma allungatosi di tre centimetri fino a nasconderle le scarpe di prunella, la dama rimase ferma immobile sopra uno scroscio invisibile, per tornare subito dopo alla sua statura normale. Sulla via del ritorno la volenterosa pedagoga spiegò ad Ada che il dodicesimo compleanno di una bambina rappresentava l'occasione adatta per prepararsi a un avvenimento che, disse, presto avrebbe fatto di Ada una grande fille.Ada, che sei mesi prima a scuola era stata istruita sull'argomento da una maestra, e che in realtà ne aveva già avuto per due volte esperienza, sbalordì la povera governante (Mlle Larivière non riusciva mai a tener testa alla sua intelligenza acuta e imprevedibile) sostenendo che si trattava solo di un imbroglio, una notizia da novizia, e che quelle cose ormai non succedevano quasi più alle ragazze normali e sicuramente non sarebbero successe a lei. Mlle Larivière, stupida qual era (a dispetto, o forse a causa, della sua propensione a scrivere romanzi), passò mentalmente in rivista la propria esperienza e si chiese, per un atroce istante, se il progredire della scienza, mentre lei indulgeva nella creazione artistica, non avesse per caso definitivamente alterato quello della natura.

Il primo sole del pomeriggio andò ad accendere nuovi angoli del prato e surriscaldò la zona del picnic. La zia Ruth dormiva con la testa su un guanciale da letto che le aveva procurato Mme Forestier, la quale stava lavorando ai ferri un minuscolo maglioncino per il futuro mezzo-germano dei suoi alunni. Forse, rifletteva Marina, Lady Erminin, attraverso le brume moleste del post-suicidio, sotto il magnifico verde dei pini, dall'azzurro persiano della sua residenza beata, guardava giù verso il picnic con antico sconforto e nuova infantile curiosità. I bambini facevano mostra dei loro talenti: Ada e Grace ballavano una giga russa con l'accompagnamento di un antico carillon (che, come se si ricordasse di altre rive, di altre onde, forse radiali, continuava a fermarsi nelle battute di mezzo); Lucette, con un pugno sul fianco, cantava una canzone dei pescatori di St-Malo; Greg si era messo la gonna blu, il cappello e gli occhiali di sua sorella e si era trasformato in una molto malata, ritardata Grace; e Van camminava sulle mani.

Due anni addietro, quando stava per cominciare il suo primo trimestre di reclusione nell'elegante e barbaro collegio dove l'avevano preceduto altri Veen (quando ancora «le Washingtonia si chiamavano Wellingtonia»), Van aveva deciso di imparare qualche fantastica acrobazia che gli conferisse un forte e immediato ascendente sui compagni. Quindi, dopo un colloquio con Demon, King Wing, il maestro di lotta di quest'ultimo, insegnò al robusto ragazzo a camminare sulle mani per mezzo di uno speciale gioco dei muscoli delle spalle, un trucco per l'apprendimento e il perfezionamento del quale non si richiedeva niente di meno che la lussazione dell'articolazione scapolo-omerale.

Che piacere (così nel manoscritto). Il piacere di raggiungere d'un tratto la giusta destrezza nella locomozione a testa in giù: era quasi come imparare finalmente, dopo molte dolorose e ignominiose cadute, a manovrare quei magnifici apparecchi volanti chiamati tappeti magici (o jikker) che venivano regalati ai ragazzi per il loro dodicesimo compleanno negli avventurosi giorni precedenti la Grande Reazione – e allora che emozione quella lunga, neurale carezza mozzafiato, quel sentirsi sospesi nell'aria per la prima volta e riuscire a sfiorare un mucchio di fieno, un granaio, un fuscello, un ruscello, mentre il nonno Dedalus Veen, correndo con la faccia verso l'alto, agitava una bandiera e cadeva nell'abbeveratoio dei cavalli.

Van si sfilò la maglietta a tre bottoni e si tolse le scarpe e le calze. Il suo torso magro, che nel colore e forse anche nella consistenza ben si adattava al marrone chiaro dei suoi calzoni corti e stretti, contrastava con i deltoidi troppo sviluppati e con i forti tendini dei suoi avambracci. Quattro anni più tardi Van sarebbe stato in grado di stordire un uomo con un colpo di gomito.

A testa in giù, con il corpo graziosamente arcuato e le gambe brune issate come una vela tarantina, le caviglie unite che bordeggiavano, Van si aggrappava con le mani aperte al ciglio della gravità, e andava avanti e indietro, virando e spostandosi, aprendo la bocca a rovescio e sbattendo le palpebre, che in quella sua strana posizione somigliavano alle ciotoline di un bilboquet.Ancora più straordinaria della varietà e della velocità dei passi che compiva imitando i movimenti delle zampe posteriori degli animali era la sua capacità di non lasciar trasparire nella postura il minimo sforzo; King Wing lo aveva avvertito che Vekchelo, un professionista dello Yukon, aveva perso quel dono prima di compiere i ventidue anni; ma in quel pomeriggio d'estate, sul terreno setoso della radura tra i pini, nel magico cuore di Ardis, sotto gli occhi azzurri di Lady Erminin, il quattordicenne Van ci regalò la più grande esibizione in cui avessimo mai visto impegnato un brachiambulante. Né la più fievole fiamma accese il suo viso o il suo collo! Di tanto in tanto staccava i suoi organi motori dal terreno clemente, e sembrava davvero che battesse le mani a mezz'aria, in una miracolosa parodia di uno scambietto, tanto che guardandolo ci si chiedeva se quel sognante ottundimento da levitazione non fosse il risultato di un attacco di assente benevolenza in cui la terra sospendeva per un momento la sua forza di attrazione. Va detto, di passaggio, che le alterazioni muscolari e i «doppi-scatti» periostali causati dall'impietoso tirocinio cui Wing lo aveva sottoposto sortirono negli anni successivi il curioso effetto di rendere Van incapace di scrollare le spalle.

Problemi da studiare e dibattere:

1) Quando Van era a testa in giù e sembrava che saltellasse davvero sulle braccia, i palmi delle sue mani erano entrambi staccati dal suolo?

2) L'incapacità di Van in età adulta di «scrollarsi» le cose di dosso era soltanto fisica o «coincideva» con qualche carattere archetipo della sua anima nascosta?

3) Perché Ada scoppiò in lacrime al culmine dell'esibizione di Van?

Per finire Mlle Larivière lesse il suo La Rivière de diamants, una storia che aveva appena finito di battere a macchina per il «Quebec Quarterly». La graziosa e raffinata moglie di un povero impiegato prende in prestito una collana da una ricca amica. Tornando a casa dalla festa con i colleghi d'ufficio del marito, smarrisce il gioiello. Per trenta o quaranta orribili anni gli sventurati coniugi si affannano a lavorare per mettere da parte i soldi e pagare i debiti che hanno accumulato per acquistare una collana da mezzo milione di franchi con cui hanno segretamente sostituito quella smarrita nello scrigno che hanno riconsegnato a Mme F. Come batteva il cuore di Mathilde – Jeanne avrebbe aperto lo scrigno? No, non l'aveva aperto. Quando, decrepiti ma vittoriosi (lui, semiparalizzato da mezzo secolo di copienella loro mansarde, lei, resa irriconoscibile dall'abbrutente lavaggio dei pavimenti à grande eau), confessano ogni cosa a un'ormai canuta ma ancora di giovane aspetto Mme F., quest'ultima dice loro, nell'ultima frase del racconto: «Ma, mia povera Mathilde, la collana era falsa: costava solo cinquecento franchi!».

Anche il contributo di Marina, sebbene più modesto, non fu privo di fascino. Consistette nel mostrare a Van e a Lucette (gli altri ne conoscevano già ogni particolare) proprio quel pino, e quel punto sul tronco rosso e rugoso, dove in giorni lontani, molto lontani, si nascondeva un telefono magnetico che comunicava con Ardis Hall. Dopo che «correnti e circuiti» erano stati messi al bando, disse (in fretta ma con scioltezza, pronunciando quelle parole non del tutto corrette con una désinvolture da attrice – mentre Lucette un po' smarrita tirava la manica di Van, di Vanichka, perché lui sapeva spiegare qualsiasi cosa), la nonna di suo marito, un ingegnere di grande genio, aveva «intubato» il ruscello di Redmont (che scorreva dalla cima di una collina sopra Ardis fino a sotto la radura). Aveva fatto in modo che trasportasse vibgvar (pulsazioni prismatiche) vibrazionali attraverso un sistema di segmenti di platino, i quali producevano, naturalmente, solo messaggi unidirezionali. L'installazione e la manutenzione dei «tamburi» (cilindri) costava, disse, come l'occhio di un ebreo, così l'idea era stata abbandonata, per quanto attraente fosse la possibilità di informare un membro della famiglia Veen, impegnato in un picnic, che la sua casa stava andando a fuoco. [Nota: vibgvar sta per violetto-indaco-blu-giallo-verde-arancio-rosso]

A confermare lo scontento che gli indirizzi politici nazionali e internazionali suscitavano in molte persone (il vecchio Gamaliele era ormai un vero ebete), la piccola automobile rossa ritornò scoppiettando da Ardis Hall e il maggiordomo ne balzò con un messaggio. Monsieur era appena arrivato con un regalo di compleanno per Mademoiselle Ada, ma si trattava di un oggetto così complicato che nessuno riusciva a raccapezzarsi e a capire come funzionasse. Era necessario l'aiuto di Madame. Il maggiordomo aveva portato una lettera che presentò a Marina su un vassoio tascabile.

Non possiamo ricostruire come fosse esattamente formulato il messaggio, ma ne conosciamo il contenuto: quel dono, meditato e molto costoso, era un'enorme e magnifica bambola – sfortunatamente, e stranamente, più o meno nuda; e, ancor più stranamente, con la gamba destra imprigionata in un sostegno ortopedico e il braccio sinistro bendato, e con una scatola di rivestimenti di gesso e di accessori di gomma, al posto dei normali vestitini con i fiocchi e le trine. Le istruzioni – in russo o in bulgaro? – erano inutilizzabili perché non erano scritte con il romano moderno, ma con il vecchio Kirillitsa,un alfabeto da incubo che Dan non era mai riuscito a padroneggiare. Poteva Marina tornare subito a casa per far tagliare dei vestiti da bambola adatti utilizzando alcuni graziosi avanzi di seta che la sua cameriera aveva messo da parte in un cassetto da lui scoperto, e poi riavvolgere la scatola in un nuovo foglio di carta velina?

Ada, che aveva letto il biglietto allungando il collo oltre la spalla della madre, rabbrividì e disse:

«Digli di prendere un paio di pinze e di portare tutto alla raccolta dei rifiuti postoperatori».

«Bednyachok! Povero, povero omino» esclamò Marina con gli occhi colmi di compassione. «Ma certo che vado. La tua crudeltà, Ada, qualche volta, qualche volta è, non so... satanica!».

Facendo incedere con piglio vivace il suo lungo bastone da passeggio, con la faccia che si contraeva in un'espressione di nervosa determinazione, Marina marciò verso il veicolo, che partì immediatamente sterzando e investendo una bottiglia vuota da mezzo gallone mentre, per evitare la calècheparcheggiata lì accanto, spogliava con il paraurti un corrucciato cespuglio di sambuco.

Ma lo sdegno rimasto sospeso nell'aria, ancorché vivo, si placò subito. Ada chiese alla governante carta e matita. Disteso a pancia in giù, con la guancia appoggiata alla mano, Van guardava il collo piegato del suo amore che giocava agli anagrammi con Grace, la quale innocentemente aveva suggerito «cestino».

«Sciento» disse Ada scrivendo la parola su un foglio.

«Non esiste!» obiettò Grace.

«Sì che esiste! Sono sicura. È un grande sciento. Il dottor Insecto è un grande sciento di insetti».

Grace, che meditava picchiettandosi il sopracciglio aggrottato con la gomma della matita, tentò con:

«Innesto!».

«Incesto» disse Ada prontamente.

«Rinuncio,» disse Grace «ci serve un dizionario per controllare le tue trovate».

Ma l'incandescenza del pomeriggio era entrata nella sua fase più opprimente, e la prima zanzara della stagione era stata sonoramente abbattuta sulla tibia di Ada dalla vigile Lucette. Il carro era già partito con le poltrone, le ceste e i ruminanti camerieri Essex, Middlesex e Somerset; Mlle Larivière e Mme Forestier cominciarono a scambiarsi melodiosi adieux. Le mani si agitavano e i gemelli, con la loro anziana governante e con la giovane zia dormiente, furono portati via dal landò. Una pallida farfalla diafana con il corpo tutto nero li seguì. Ada gridò: «Guarda!» e spiegò che era imparentata da vicino con una Parnassiana Giapponese. Mlle Larivière disse che avrebbe usato uno pseudonimo quando avesse pubblicato il suo racconto. Condusse le sue graziose alunne verso la calèche e con la punta del parasole diede un colpetto sans façon [senza cerimonie] sul rosso collo taurino di Ben Wright, volgarmente addormentato sul sedile posteriore, sotto i bassi festoni di fogliame. Ada lanciò il cappello nel grembo di Ida e tornò indietro di corsa dov'era Van. Non avendo familiarità con l'itinerario dell'ombra e del sole in quella radura, il ragazzo aveva sottoposto la sua bicicletta alla tortura dei raggi infuocati per almeno tre ore. Ada montò sulla sella, si lasciò sfuggire un gridolino, rischiò di cadere, controbilanciò la spinta e riprese l'equilibrio... mentre la gomma di dietro esplodeva con un comico boato.

Il veicolo fuori combattimento fu abbandonato all'ombra di un cespuglio perché Bouteillan junior, altro personaggio della casa, lo andasse a recuperare più tardi. Lucette si rifiutò di rinunciare al proprio trespolo (seguendo con un vago e breve cenno d'assenso il suggerimento del suo alticcio compagno di cassetta che con la mite, rozza mano fu visto toccare le ginocchia nude della bambina); e non essendoci uno strapontin,Ada dovette accontentarsi delle dure ginocchia di Van.

Era il primo contatto corporeo fra i due bambini ed entrambi erano imbarazzati. Ada si sistemò con le spalle girate verso Van, si risistemò quando la carrozza partì con uno strattone e si contorse ancora un po' riordinando le pieghe della sua ampia gonna profumata di pino che sembrava avvolgere il ragazzo a tutti gli effetti come un lenzuolo da barbiere. In uno stato di trance da impacciato godimento lui la teneva per i fianchi. Vedeva calde gocce di sole scorrere veloci sulle strisce zebrate della sua maglietta e sulle sue braccia nude e si immaginava che proseguissero il loro viaggio anche attraverso il tunnel delle proprie gambe.

«Perché hai pianto?» le chiese, inalando la fragranza dei suoi capelli e il calore del suo orecchio. Lei voltò la testa e per un attimo lo guardò fisso, in un silenzio indecifrabile.

(Ho pianto? Non so... ho provato una specie di sconvolgimento. Non so spiegare perché, ma sentivo che nell'insieme c'era qualcosa di spaventoso, di violento, di oscuro e, sì, di spaventoso... Vedi nota successiva).

«Mi dispiace,» disse lui quando lei distolse lo sguardo «non lo farò mai più davanti a te».

(A proposito, «a tutti gli effetti» è un'espressione che detesto. Altra nota nell'ultima calligrafia di Ada).

Con tutto il suo essere, il ragazzo, bruciante e traboccante, assaporava il peso di lei e si accorgeva di come, nel rispondere a ogni irregolarità della strada, quel peso dividesse a metà e frantumasse il nucleo di un languore che lui sapeva di dover controllare affinché l'innocenza della bambina non fosse turbata da qualche piccola infiltrazione. E avrebbe potuto abbandonarsi e struggersi in un rilassamento animale se la governante non gli avesse rivolto la parola salvando la situazione. Il povero Van spostò il sederino di Ada sul proprio ginocchio destro, smussando quello che nel gergo della camera di tortura veniva definito «l'angolo d'agonia». Nella dolente ottusità del desiderio non consumato guardò una fila di isbe sparpagliate, mentre la calèche attraversava Gamlet, un villaggio.

«Non potrò mai abituarmi (m'y faire)» disse Mlle Laparure «al contrasto tra l'opulenza della natura e lo squallore della vita umana. Guarda quel vecchio moujik décharné [emaciato] con uno squarcio nella camicia, guarda la sua misera cabane[capanna]. E adesso guarda quell'agile rondine. Oh quanto è felice la natura, oh quanto è infelice l'uomo! Nessuno di voi due mi ha detto se gli è piaciuta la mia nuova storia. Van, a te è piaciuta?».

«È una bella fiaba» disse Van.

«È una fiaba» disse cauta Ada.

«Allons donc!» gridò Mlle Larivière. «Al contrario, ogni particolare è realistico. Abbiamo davanti a noi il dramma del piccolo borghese, con tutte le sue apprensioni di classe, i suoi sogni di classe e il suo orgoglio di classe».

(Era vero: quello poteva essere stato l'intento – se si eccettuava la pointe assassine[il punto di un racconto o di una poesia che ne uccide i meriti artistici]; ma la storia mancava di «realismo» nel senso stesso che l'autrice dava a quel termine, perché un puntiglioso, parsimonioso impiegato avrebbe cercato di scoprire, prima di tutto, non importa come, quitte à tout dire à la veuve[anche a costo di raccontare tutto alla vedova se fosse stato necessario], quanto costava esattamente la collana smarrita. Questo era il difetto fatale della pathos-opera della Larivière, ma a quel tempo il giovane Van e l'ancor più giovane Ada, benché sentissero la falsità di tutto l'insieme, potevano soltanto procedere per intuito).

A cassetta si verificò una leggera agitazione. Lucette si voltò e si rivolse a Ada.

«Mi voglio sedere con te. Mne tut neudobno, i ot nego nehorosho pakhnet (Sono scomoda, e lui ha un cattivo odore)».

«Siamo quasi arrivati,» si oppose Ada «poterpi (abbi un po' di pazienza)».

«Che cosa succede?» domandò Mlle Larivière.

«Niente. Il pue [puzza]».

«Oh cielo! Qualche volta mi domando se sia mai davvero stato al servizio di quel Rajah...».

14

Il giorno successivo, o l'altro ancora, nel tardo pomeriggio la famiglia riunita prendeva il tè in giardino. Ada, seduta sull'erba, cercava pazientemente di intrecciare una ghirlanda di margherite per il cane, mentre Lucette la guardava sgranocchiando una focaccina calda e croccante. Marina rimase per quasi un minuto senza parlare porgendo al marito, con il braccio teso attraverso la tavola, il suo cappello di paglia; finalmente lui scosse la testa, guardò con un lampo negli occhi il sole che lampeggiò di rimando e si diresse, con la tazza e il «Toulouse Enquirer» in mano, verso un rustico sedile dall'altra parte del prato, sotto un immenso olmo.

«Mi domando chi possa essere» mormorò Mlle Larivière da dietro il samovar (la cui superficie lucente restituiva in fantasmagorie primitive frammenti del paesaggio circostante), mentre stringeva gli occhi come fessure scrutando il tratto di viale visibile tra i pilastri di un porticato. Van, disteso bocconi dietro Ada, levò gli occhi dal libro che stava leggendo (Atala, prestatogli da Ada) [romanzo breve di Chateaubriand].

Un giovincello alto, con le guance rosse ed eleganti pantaloni da cavallerizzo, smontò da un pony nero.

«È il meraviglioso nuovo pony di Greg» disse Ada.

Greg, scusandosi con la disinvoltura del ragazzo beneducato, disse di dover riconsegnare a Marina il suo accendino di platino che sua zia aveva scoperto nella propria borsetta.

«Santo cielo, non ho avuto nemmeno il tempo di sentirne la mancanza. Come sta Ruth?».

Greg disse che sia la zia Ruth sia Grace erano fuori combattimento per colpa di una terribile indigestione – «non causata dai vostri eccellenti panini,» si affrettò ad aggiungere «ma da tutte quelle bacche di sambuco che hanno raccolto nel bosco».

Marina stava per scuotere la campana di bronzo e ordinare al cameriere dell'altro pane tostato, ma Greg disse che era diretto a una festa a casa della contessa de Prey.

«Si è consolata piuttosto presto (skorovato)» osservò Marina, alludendo alla morte del conte ucciso in un duello alla pistola, nei Giardini Pubblici di Boston, circa due anni prima.

«È una bella donna, molto gaia» disse Greg.

«E di dieci anni più vecchia di me» disse Marina.

In quel momento Lucette richiamò l'attenzione della madre.

«Che cosa sono gli ebrei?» domandò.

«Cristiani dissidenti» rispose Marina.

«Perché Greg è un ebreo?».

«Perché-perché!» disse Marina. «Perché i suoi genitori sono ebrei».

«E i suoi nonni? I suoi arrière nonni?».

«Non saprei davvero, mia cara. I tuoi avi erano ebrei, Greg?».

«Be', non sono sicuro» disse Greg. «Israeliti, sì – ma non ebrei tra virgolette – voglio dire, non caricature o uomini d'affari cristiani. Sono arrivati in Inghilterra dalla Tartaria cinque secoli fa. Il nonno di mia madre, però, era un marchese francese di fede cattolica romana ed era fanatico di banche, di borsa e di gioielli. Penso che per questo possano averlo definito un juif [un ebreo]».

«Non credo che sia una religione molto antica, comunque, per essere una religione» disse Marina (rivolgendosi a Van e con la vaga intenzione di indirizzare quelle chiacchiere verso l'India, dove lei era stata una danzatrice molto tempo prima che Mosè o chiunque altro nascesse nella palude del loto).

«Che importanza ha...» disse Van.

«E Belle?» (era il nome che Lucette dava alla sua governante). «È anche lei una cristiana distinta?».

«Che importanza ha,» gridò Van «che importanza hanno tutti questi miti stantii, Giove o Geova, la guglia o la cupola, le moschee a Mosca, i bronzi e i bonzi, i chierici, i reliquiari e le costole sbiancate dei dromedari nella sabbia del deserto? Non sono nient'altro che polvere e miraggi della mente collettiva».

«In primo luogo vorrei sapere come ha avuto inizio questa conversazione idiota» chiese Ada, protendendo la testa verso il piccolo bassotto o taksik solo parzialmente adorno di fiori.

«Mea culpa» rispose Mlle Larivière, con risentita dignità. «Al picnic ho detto soltanto che forse Greg non era interessato ai panini con il prosciutto, perché gli ebrei e i tartari non mangiano il maiale».

«Anche i romani,» disse Greg «i coloni romani che nei tempi andati hanno crocifisso cristiani, giudei e barabbiti, e altri poveri sciagurati, anche loro non mangiavano il maiale, ma io certamente sì, e così anche i miei antenati».

Lucette era rimasta disorientata da uno dei verbi usati da Greg. Per illustrargliene il significato, Van congiunse le caviglie, allargò le braccia orizzontalmente, e rovesciò gli occhi.

«Quand'ero piccola» disse Marina infastidita «la storia della Mesopotamia ci veniva insegnata praticamente all'asilo».

«Non tutte le bambine sono in grado di apprendere quello che viene loro insegnato» osservò Ada.

«Siamo Mesopotamiani noi?» domandò Lucette.

«Siamo Ippopotamiani» disse Van. «Vieni,» aggiunse «non abbiamo ancora arato oggi».

Uno o due giorni prima, Lucette aveva espresso il desiderio di imparare a camminare sulle mani. Van la teneva stretta per le caviglie mentre lei avanzava lentamente sui palmi rossi delle sue manine, cadendo ogni tanto a faccia in giù con un piccolo grugnito o fermandosi per mordicchiare una margherita. Dack abbaiava in tono di energica protesta.

«Et pourtant,» [e tuttavia] disse trasalendo la governante dall'udito sensibile «le ho letto due volte l'adattamento che Anatole-Henri-Philippe Ségur ha tratto, in forma di fiaba, dalla commedia di Shakespeare sul perfido usuraio».

«Di Shakespeare conosce anche il monologo, da me rivisto, del re pazzo» disse Ada:

 

Ce beau jardin fleurit en mai,

Mais en hiver

Jamais, jamais, jamais, jamais, jamais

N'est vert, n'est vert, n'est vert, n'est vert, n'est vert.

 

«Ma è fantastico» esclamò Greg con un genuino singhiozzo di ammirazione.

«Non così energichno, bambini!» gridò Marina verso il duo Van-e-Lucette.

«Elle devient pourpre, sta diventando paonazza» constatò la governante. «Ribadisco che questi indecenti esercizi ginnici non vanno bene per lei».

Van sorrideva con gli occhi e sosteneva con le sue forti mani da angelo, appena sopra il collo del piede, le gambe color minestra di carote fredda della bambina, mentre continuava ad «arare» con Lucette nel ruolo dell'aratro. I capelli luminosi le pendevano davanti alla faccia, le mutande le spuntavano di sotto l'orlo della gonna, e ancora lei spronava il giovane aratore ad andare avanti.

«Budet, budet, basta adesso» disse Marina.

Van riabbassò con delicatezza le gambe di Lucette e le sistemò il vestito. Lei rimase per un attimo distesa, ansimando.

«Voglio dire che sarei felice di prestartelo per una cavalcata. In qualsiasi momento. Per tutto il tempo che ti farà piacere. Vuoi? Io ne ho un altro nero».

Ma lei scosse la testa, con gli occhi bassi, continuando a intrecciare e attorcigliare a due a due le margherite.

«Bene,» disse lui, alzandosi «devo andare. Arrivederci a tutti. Arrivederci, Ada. È tuo padre lì, sotto quella quercia, o sbaglio?».

«No, è un olmo» disse Ada.

Van guardò il prato e disse, come se stesse riflettendo – forse appena con un vago accenno di esibizionismo fanciullesco:

«Vorrei dare un'occhiata anch'io alle pidocchiose notizie del "Two-Lice Enquirer", quando lo zio avrà finito. Ieri avrei dovuto giocare una partita di cricket per la mia scuola. Veen malato, impossibilitato a battere, Riverlane annientata». [Nota: Two-liceLetteralmente «due pidocchi». Gioco di parole con il «Toulouse Enquirer». Il singolare di liceè, infatti, louse].

15

Un pomeriggio si arrampicavano sui rami scivolosi dell'albero di mele shattal in fondo al giardino. Mlle Larivière e la piccola Lucette, celate da un capriccio del bosco ceduo ma ancora a portata d'orecchi, giocavano ai cerchietti. Di tanto in tanto se ne intravedeva uno passare a volo radente, lanciato da un bastoncino invisibile, al di sopra o attraverso il fogliame. La prima cicala della stagione accordava il suo strumento. Uno scoiattolo skybab color argento-e-sabbia scalava lo schienale di una panca per assaggiare una pigna.

Van, in tuta da ginnastica blu, si era aperto un varco fino a una biforcazione appena sotto la sua agile compagna di giochi (naturalmente meglio edotta sull'intricata mappa dell'albero), ma non riuscendo a vederla in faccia si manteneva in muta comunicazione con lei stringendole la caviglia tra il pollice e l'indice, come avrebbe fatto lei con le ali chiuse di una farfalla. Il piede nudo di Ada scivolò e i due giovinetti ansanti si aggrovigliarono ignominiosamente tra i rami, in una pioggia di foglie e drupe, afferrandosi l'uno all'altro, e un attimo dopo, non appena recuperarono una parvenza di equilibrio, il viso senza espressione di Van e la sua testa rasata si trovarono in mezzo alle gambe di lei, mentre un ultimo frutto cadeva con un tonfo – il tondino nero e rotolante di un punto esclamativo capovolto. Lei indossava l'orologio da polso di Van e una tunichetta di cotone.

(«Ricordi?».

«Sì, certo, mi ricordo: mi hai baciato qui, sul lato interno...».

«E tu hai cominciato a strangolarmi con quelle tue malefiche ginocchia...».

«Cercavo una specie di supporto»).

Poteva essere vero, ma secondo una versione più tarda (notevolmente più tarda!) erano ancora nell'albero, e ancora incandescenti, quando Van, togliendosi un filo serico di bozzolo dal labbro, fece osservare che quella negligenza nell'abbigliamento poteva dirsi una forma di isteria.

«Bene,» rispose Ada, a cavalcioni del suo ramo preferito «come ormai sappiamo tutti, Mlle La Rivière de Diamants non ha niente contro il non indossare mutandine da parte di una bambina isterica durante l'ardeur de la canicule».

«Mi rifiuto di dividere l'ardore della tua piccola canicola con un albero di mele».

«È l'Albero della Conoscenza – questo esemplare è stato portato qui la scorsa estate, avvolto nel broccato, dal Parco Nazionale dell'Eden, di cui il figlio del dottor Krolik è un sorvegliante e un ibridatore».

«Che sorvegli e ibridi quanto vuole,» disse Van (le lezioni di storia naturale di Ada avevano cominciato già da molto a innervosirlo) «io posso giurare che nessun albero di mele cresce in Iraq».

«Giusto, ma questo non è un vero albero di mele».

(«Giusto e sbagliato» commentò Ada, di nuovo molto più tardi. «È vero che discutevamo sull'argomento, ma non avresti dovuto permetterti certe battute volgari allora, quando la più casta delle occasioni ti concedeva di carpire, come si dice, un primo timido bacio. Che vergogna. E poi non c'era nessun parco nazionale in Iraq ottant'anni fa». «È vero,» disse Van «e nessun bruco si accoppiava su quell'albero nel nostro frutteto». «Sì, mio adorato e slarvato». La storia naturale era storia del passato ormai).

Entrambi tenevano un diario. Poco dopo aver gustato quelle primizie di conoscenza, furono entrambi vittima di una divertente coincidenza. Ada stava andando a casa di Krolik con una scatola piena di farfalle appena uscite dal bozzolo e cloroformizzate e aveva appena attraversato il frutteto quando si fermò all'improvviso con un'imprecazione (Čert!) [Diavolo!]. Nello stesso istante Van, che incamminandosi nella direzione opposta andava ad allenarsi a sparare in un vicino padiglione (dove si trovavano una corsia per i birilli e varie attrezzature ricreative, un tempo molto sfruttate da altri Veen), si arrestò bruscamente. Per un'incantevole coincidenza, tutti e due tornarono a casa a nascondere ciascuno il proprio diario che entrambi pensavano di aver lasciato aperto nelle rispettive stanze. Ada, che temeva la curiosità di Lucette e Blanche (la governante non costituiva una minaccia, essendo patologicamente priva di spirito di osservazione), scopri di essersi sbagliata – aveva riposto l'album con la sua ultima annotazione. Van, il quale sapeva che Ada era un po' ficcanaso, sorprese Blanche nella propria camera che fingeva di fare il letto già fatto, mentre il diario, con il lucchetto aperto, giaceva sullo sgabello accanto. Van diede alla cameriera una leggera pacca sul didietro e trasferì il libro rilegato in pelle zigrinata in un luogo più sicuro. Poi Ada e Van si incontrarono nel corridoio. In qualche stadio precedente dell'Evoluzione del Romanzo nella Storia della Letteratura, si sarebbero baciati e quello sarebbe stato il nitido, breve seguito dell'episodio sull'albero di mele. Invece ciascuno riprese il proprio cammino – e Blanche, penso, andò a piagnucolare sotto il suo piccolo pergolato.

16

Le loro prime sfrenate, frenetiche carezze erano state precedute da un breve periodo di strana scaltrezza, di sorniona furtività. Il criminale mascherato era Van, ma Ada con la sua passiva accettazione sembrava tacitamente ammettere la natura disdicevole e addirittura mostruosa del comportamento del povero ragazzo. Poche settimane più tardi entrambi avrebbero considerato questa fase del suo corteggiamento con divertita condiscendenza; in quei giorni, tuttavia, la codardia che vi era implicita disorientava Ada e faceva soffrire Van – soprattutto perché sentiva che lei era smarrita.

Benché non avesse avuto mai occasione di notare il minimo sussulto di ribellione virginale da parte di Ada, la quale non era una bambina che si lasciasse impaurire facilmente e nemmeno troppo schizzinosa («Je raffole de tout ce qui rampe»), Van poteva contare su due o tre sogni spaventosi per immaginarsela nella vita reale, o quanto meno in quella di cui si rende ragione, indietreggiare con occhi furibondi abbandonandolo nel deserto del suo desiderio per andare a chiamare la governante o la madre o un gigantesco cameriere (inesistente in casa ma annientabile in sogno, percuotibile con un tirapugni acuminato, perforabile come una sacca gonfia di sangue), dopodiché Van sarebbe stato definitivamente cacciato da Ardis...

(Calligrafia di Ada: Mi oppongo con veemenza a quel «nemmeno troppo schizzinosa». È falso nei fatti e fallace nella finzione. Nota al margine di Van: Mi spiace, micia, ma resta così).

... ma anche volendo farsi beffe di quell'immagine per cercare di espellerla dalla coscienza, Van non riusciva a sentirsi fiero della propria condotta: le sue mosse segrete ma concrete nei confronti di Ada, il fare quello che faceva nel modo in cui lo faceva e il trarne quel non palesato godimento, gli davano l'impressione di approfittare dell'innocenza di lei oppure di indurla a dissimulare davanti a lui, il simulatore, la propria consapevolezza di ciò che le nascondeva.

Dopo che si fu stabilito il primo contatto, così lieve, così tacito, tra le labbra morbide di lui e la pelle ancora più morbida di lei – lassù su quell'albero pomellato, soli con quell'ardito e raro roditore che con garbo lasciava cadere libere le foglie – niente sembrava essere cambiato in un senso, tutto era perduto in un altro. Simili contatti sviluppano la loro propria tessitura; una sensazione tattile è un punto cieco, tocchiamo e sentiamo. Da allora in poi, in certe ore delle loro altrimenti pigre giornate, in certi accessi ricorrenti di contenuta follia, era come se venisse issato un segnale segreto, come se calasse un velo tra lui e lei...

(Ada: Oggi sono praticamente estinti a Ardis. Van: Chi? Ah, ho capito).

... che non poteva sparire finché lui non si fosse affrancato da quello che la necessità della dissimulazione insisteva ad abbassare al grado di uno sciagurato prurito.

(Oh, Van! Che cosa dici!).

Quando, più tardi, parlò con lei di quella sua tutto sommato patetica spregevolezza, Van non fu in grado di dire se realmente temesse che la sua avournine (come Blanche avrebbe poi detto, nel suo francese bastardo) potesse reagire a una cruda esternazione di desiderio con un'esplosione di effettivo o ben simulato risentimento, oppure se quell'approccio astuto e malinconico gli fosse stato dettato da considerazioni di compassione e pudore nei confronti di una casta infante il cui incanto era troppo irresistibile per non essere gustato in segreto e troppo sacro per essere apertamente violato; ma qualcosa andò storto – questo almeno fu chiaro. Quei vaghi luoghi comuni che si richiamavano a un'idea di vaga modestia e che erano così spaventosamente in voga ottant'anni fa, tutte le intollerabili banalità legate a un timido corteggiamento sepolto in vecchie romanze allusive e arcaiche come l'Arcadia, quei modi e quelle mode erano senza dubbio in agguato dietro il silenzio delle imboscate di Van e la tacita tolleranza di Ada. È impossibile risalire all'esatto giorno d'estate in cui cominciarono i suoi accorti e minuziosi vezzeggiamenti; ma quando Ada si rese conto che lui le stava a volte alle spalle così indecentemente vicino, con il respiro bruciante e le labbra schiuse, capì subito che quei silenziosi, esotici avvicinamenti dovevano essere cominciati molto tempo prima, in un passato indefinito e infinito, e che lei non avrebbe più potuto fermarli senza ammettere la propria tacita accettazione, allora, del loro abituale ripetersi.

Nel caldo implacabile di quei pomeriggi di luglio, alla bambina piaceva stare seduta a un tavolo coperto di tela cerata bianca, su un fresco sgabello da pianoforte di legno intarsiato d'avorio nell'assolata sala da musica, con il suo atlante botanico favorito aperto davanti, e copiare a colori su un foglio di carta liscia qualche fiore raro. Sceglieva, per esempio, un'orchidea che imitava un insetto, e con notevole abilità la riproduceva ingrandendone le dimensioni. Oppure mescolava una specie a un'altra (non catalogata ma possibile), introducendo piccole variazioni bizzarre o travisamenti che potevano apparire quasi morbosi in una ragazzina così piccola così poco vestita. Il lungo raggio che entrava di sbieco dalla porta finestra scintillava nel bicchiere sfaccettato, nell'acqua variopinta e sulla scatola di latta dei colori – e mentre lei delicatamente dipingeva una macchiolina o i lobi di un labello, per la concentrazione estatica la punta della lingua le si arrotolava all'angolo della bocca, e sotto gli occhi del sole la bizzarra bambina dai capelli color nero-blu-castano sembrava a sua volta imitare l'orchidea Specchio di Venere. Il suo abitino inconsistente e sciolto era così scollato dietro che ogni volta che lei inarcava la schiena mentre muoveva avanti e indietro le scapole prominenti – sorvegliando con il pennello a mezz'aria la sua umida impresa o scostandosi da una tempia una ciocca di capelli con la parte esterna del polso sinistro – Van, che le si era fermato di fianco, tanto vicino quanto aveva osato, poteva guardar giù la sua lucente ensellure fino al coccige e inspirare il tepore di tutto il suo corpo. Con il cuore che martellava, un'infelice mano affondata nella tasca dei pantaloni – dove teneva un borsellino con mezza dozzina di pezzi d'oro da dieci dollari per mascherare il proprio stato - si chinava su di lei, mentre lei si chinava sulla propria opera. Con molta leggerezza lasciava che le sue labbra riarse scendessero lungo i suoi tiepidi capelli e sulla sua nuca calda. Era la sensazione più dolce, più forte, più misteriosa che il ragazzo avesse mai provato; niente nella sordida lascivia del passato inverno avrebbe potuto riprodurre quella tenerezza lanuginosa, quel desiderio disperato. Per sempre Van avrebbe indugiato sul collo di Ada, su quella piccola protuberanza ossuta di rotondo diletto, se lei per sempre avesse tenuto la testa china – e se lo sventurato fosse stato capace di sopportare più a lungo l'estasi di quel contatto sulla sua bocca, ora inerte come cera, senza strofinarsi contro di lei con folle trasporto. Solo il vivido imporporarsi di un orecchio scoperto e il graduale torpore che invadeva il pennello della bambina davano segno – un segno temibile – del fatto che lei si era accorta dell'accresciuta pressione della sua carezza. Senza far rumore Van scappava nella sua stanza, chiudeva a chiave la porta, afferrava un asciugamano, si scopriva, e richiamava alla mente l'immagine che si era appena lasciato alle spalle, ancora salda e scintillante come una fiamma protetta da una mano e trasportata nel buio, solo per liberarsene con zelo selvaggio; e dopo, temporaneamente svuotato, con i lombi tremanti e i polpacci infiacchiti, tornava alla purezza della sala soffusa di luce solare dove sedeva una ragazzina, ora luccicante di sudore, sempre intenta a dipingere il suo fiore: il meraviglioso fiore che simulava un lucente lepidottero che a sua volta simulava uno scarabeo.

Se trovare sollievo, qualsiasi genere di sollievo, al suo ardore giovanile fosse stata l'unica preoccupazione di Van; se, in altre parole, il suo comportamento non avesse avuto alcuna implicazione amorosa, il nostro giovane amico avrebbe potuto tollerarne – almeno per un'estate – l'ignominia e l'ambiguità. Ma poiché Van amava Ada, quella liberazione, raggiunta in modo così complicato, non poteva costituire un fine di per sé o, piuttosto, non poteva che condurlo in un vicolo cieco, perché non era condivisa, perché era tenuta sordidamente nascosta, perché non era in grado di fondersi in quella fase successiva di un incomparabilmente maggiore rapimento che, come una vetta velata di nebbia oltre un aspro valico, prometteva di essere il vero vertice della sua perigliosa relazione con Ada. Durante quella settimana, o quei quindici giorni, di mezza estate, nonostante i quotidiani baci, lievi come farfalle, sui quei capelli, su quel collo, Van si sentiva ancor più lontano da lei di quanto non fosse alla vigilia di quel giorno in cui la sua bocca era accidentalmente venuta a contatto con una porzioncina della pelle di Ada a malapena percepita dai suoi sensi nell'intrico del melo shattal.

Ma la natura è movimento e crescita. Un pomeriggio Van le si avvicinò nella sala da musica più silenziosamente di quanto mai fosse riuscito – per un caso era a piedi nudi – e, voltando la testa, la piccola Ada chiuse gli occhi e premette le labbra contro le sue in un bacio di rosa fresca che lo estasiò e lo confuse.

«Adesso scappa via,» gli disse lei «presto, presto, ho da fare» e poiché Van restava lì fermo come un idiota, gli unse la fronte ardente con il pennello imitando l'antico «segno della croce» Estotiano. «Devo finire questo» aggiunse indicando con il sottile pennello intinto di viola-lilla una fusione di Ophrys scolopax e Ophrys veenae, «e tra un minuto dobbiamo vestirci perché Marina vuole che Kim ci faccia una fotografia – con la mano nella mano e un bel sorriso» (e con un bel sorriso si voltò di nuovo verso il suo terrificante fiore).

17

Alla voce «labbro» il dizionario più voluminoso della biblioteca diceva: «Ciascuna delle due pieghe carnose che circondano un orifizio».

Mileyshij [carissimo] Emile, come Ada chiamava Monsieur Littré, si esprimeva così: «Partie extérieure et charnue qui forme le contour de la bouche ... Les deux bords d'une plaie simple» (noi quindi parliamo con le nostre ferite; le nostre ferite procreano) «... C'est le membre qui lèche». Caro, carissimo Emile!

Una piccola e corposa enciclopedia russa si interessava a guba, labbro, esclusivamente nei significati di tribunale distrettuale nell'antica Lyaska o di golfo artico.

Le loro labbra erano assurdamente simili nella foggia, nella tinta e nel tessuto. Il labbro superiore di Van ricordava un uccello marino dalle lunghe ali visto di fronte, mentre quello inferiore, pieno e sporgente, dava un tocco di brutalità alla sua espressione usuale. La bocca di Ada non aveva nulla di questa brutalità, ma la linea arcuata del suo labbro superiore e la grandezza di quello inferiore con la sua prominente alterigia e il suo rosa opaco riproducevano la bocca di Van in chiave femminile.

Durante la fase baci (due settimane non troppo salutari di lunghi, scomposti e appiccicosi abbracci), tra i corpi senza più controllo dei nostri bambini si era frapposto un buffo, pudibondo schermo che li isolava, diciamo così, l'uno dall'altro. Ma il contatto e le reazioni al contatto, come lontane vibrazioni di segnali disperati, non potevano non farsi sentire. Costantemente, coscienziosamente, delicatamente, Van strofinava le proprie labbra contro quelle di Ada, tormentando il loro fiore infuocato, avanti e indietro, sinistra destra, piano forte, vita morte, godendo del contrasto tra l'aerea morbidezza dell'idillio disvelato e la rude congestione della carne occulta.

Ci furono altri baci. «Vorrei assaggiare» disse lui «l'interno della tua bocca. Dio, come mi piacerebbe essere un minuscolo Gulliver per poter esplorare quella caverna».

«Ti posso prestare la mia lingua» rispose lei. Detto fatto.

Una grande fragola bollita, ancora molto calda. La inghiottì fin dove era possibile tenendo Ada stretta a sé e lappandole il palato. Avevano il mento tutto bagnato. «Fazzoletto» disse lei e senza complimenti lasciò scivolare una mano nella tasca dei suoi pantaloni, ma la ritirò subito e lasciò che fosse lui a darle il fazzoletto. Senza commenti.

(«Ho apprezzato il tuo tatto» le disse Van quando ricordarono con un sorriso e un brivido l'estasi e il disagio di quel momento. «Ma abbiamo perso molto tempo – opali irrecuperabili»).

Imparò la sua faccia. Naso, guancia, mento – tutto era delineato in una tale morbidezza di contorni (associata retrospettivamente a oggetti ricordo, cappelli a tesa larga e piccole cortigiane paurosamente costose a Wicklow) da lasciar pensare a uno sdolcinato ammiratore che il suo profilo fosse stato tracciato dalla pallida piuma di una canna, dall'uomo non pensante – dalla pascaltrezza – mentre un dito più puerile e sensuale avrebbe semplicemente preferito, e infatti preferiva, palpare quel naso, quella guancia, quel mento. Le rimembranze, come Rembrandt, sono tenebrose ma festose. In una rimembranza si sta fermi, seduti e abbigliati per l'occasione. La memoria è uno studio fotografico de luxe su un'infinita Avenue Quinto Potere. Il nastrino di velluto nero che quel giorno (il giorno della fotografia mentale) legava i suoi capelli faceva risaltare la lucentezza di seta della sua tempia e il candore di gesso della scriminatura. I capelli scendevano lisci e lunghi spezzando il loro corso sulla spalla della bambina, cosi che il bianco opaco del collo attraverso la nera onda bronzea si rivelava in triangolare eleganza.

Accentuando la leggera inclinazione del suo naso si sarebbe ottenuto quello di Lucette, attenuandola verso il basso, quello di un Samoiedo. In entrambe le sorelle i denti davanti erano un pochino troppo grandi e il labbro inferiore troppo carnoso per reggere il confronto con la bellezza ideale della morte marmorea; e poiché i loro nasi erano costantemente otturati, le due bambine (soprattutto più tardi, a quindici e dodici anni) sembravano, di profilo, sempre un poco sognanti e attonite. Il biancore opaco della pelle di Ada (a dodici, sedici, venti, trentatré, ecc.) era incomparabilmente più raro della floridezza dorata di Lucette (a otto, dodici, sedici, venticinque, finis). In entrambe la linea allungata e pura della gola, che discendeva direttamente da Marina, tormentava i sensi con promesse sconosciute e ineffabili (in tutto disattese dalla loro madre).

Gli occhi. Gli occhi castano scuro di Ada. Che cosa sono poi (domanda Ada) gli occhi? Due fori nella maschera della vita. Che cosa (chiede ancora) significherebbero per una creatura che venisse da un altro corpuscolo o bolla di latte e il cui organo della vista fosse, diciamo, un parassita interno uguale a una parola palindroma come «ossesso»? E che significato avrebbero davvero per chiunque due magnifici occhi (umani, lemuriani, gufeschi) se si trovassero abbandonati sul sedile di un taxi? In ogni caso i tuoi devo descriverli. L'iride: nerobruna con schegge o raggi d'ambra disposti intorno alla seria pupilla come un quadrante di ore identiche. Le palpebre: una sorta di pieghettatura, v skladochku (in rima con Adocku, il diminutivo del suo nome all'accusativo). Il taglio dell'occhio: languido. In quella satanica notte di nero nevischio, nell'attimo più tragico e quasi fatale della mia vita (Van, grazie al cielo, ha oggi novant'anni – nota di Ada), la mezzana di Wicklow si soffermò con particolare vigore sui «lunghi occhi» della sua patetica e adorabile nipote. Oh, come cercavo, e con quale caparbio tormento, ogni possibile segno e pegno del mio indimenticabile amore in tutti i bordelli del mondo!

Scoprì le sue mani (dimentichiamo la questione delle unghie morsicate). Il pathos del carpo, la grazia delle falangi che imponevano inermi genuflessioni, nebbie di lacrime traboccanti, supplizi di irrisolvibile adorazione. Le tastava il polso come un dottore moribondo. Come un malato di mente tranquillo, carezzava le linee parallele e lanuginose che velavano l'avambraccio della brunetta. Tornava alle nocche. Le dita, ti prego.

«Sono sentimentale» diceva lei. «Posso sezionare un koala, ma non il suo piccolo. Mi piacciono le parole damigella, eglantina, elegante. Adoro quando posi i tuoi baci sulla mia bianca mano allungata».

Aveva sul dorso della mano sinistra la stessa macchiolina scura che si notava sulla destra di lui. Sicuramente – diceva con affettazione o forse con leggerezza – discendeva da una voglia che Marina anni prima si era fatta asportare chirurgicamente da quel punto preciso, quando il farabutto di cui era allora innamorata aveva lamentato la somiglianza di quel neo con una cimice.

Nei pomeriggi più quieti, dalla collina dove si era svolto questo scambio di battute si poteva sentire, prima del tunnel, il tuu del tu-tu per Toulouse.

«Farabutto è troppo forte» le fece osservare Van.

«L'ho usato con affetto».

«Anche così. Penso di conoscerlo. Ha meno cuore che ingegno, il problema è tutto lì».

Lui la guarda, il palmo della zingara che chiede la beneficenza sfuma in quello della benefattrice che chiede una lunga vita. (Chissà quando i registi cinematografici raggiungeranno questo nostro stadio?). Socchiudendo gli occhi nella verde luce del sole ai piedi di una betulla, Ada spiegava al suo appassionato indovino come le venature circolari che la accomunavano alla Katja di Turgenev, un'altra fanciulla innocente, in California fossero dette «valzer» («e infatti la señorita ballerà tutta la notte»).

Al momento del suo dodicesimo compleanno, il 21 luglio 1884, la bambina aveva smesso di mordersi le unghie – ma non quelle dei piedi – in un grande sforzo di volontà (pari a quello che le sarebbe occorso vent'anni più tardi per abbandonare le sigarette). In verità si sarebbero potute elencare alcune compensazioni – come una beata caduta nel delizioso peccato il giorno di Natale, quando la Culex ChateaubriandiBrown non vola ancora. Una nuova e definitiva risoluzione venne presa la sera della vigilia del nuovo anno, dopo che Mlle Larivière ebbe minacciato di ungere la punta delle dita della povera Ada con mostarda francese e di coprirle con cappuccetti di lana verde, gialla, arancio, rossa e rosa (dove l'indice giallo era una trouvaille) [una felice trovata].

Poco dopo il picnic del compleanno, quando baciare le mani della sua piccola innamorata era diventato per Van una tenera ossessione, le unghie di Ada, benché ancora piuttosto squadrate, diventarono abbastanza robuste per affrontare lo straziante pizzicore cui erano sottoposti in piena estate i bambini del luogo.

Durante l'ultima settimana di luglio compariva, con diabolica regolarità, la femmina della zanzara Chateaubriand. Chateaubriand (Charles), che non era stato il primo a essere punto dalla torturatrice... ma il primo a imbottigliarla e a portarla con grida di vendicativa esultanza al professor Brown, il quale scrisse, si potrebbe dire al primo colpo, la sua Descrizione Originale («piccola, nera palpi... ali ialine... gialline in certe luci... che andrebbero spente se si fogliono tenere aperti i fetri [tipografo tedesco!]...», «The Boston Entomologist» di agosto, «ritratto al vivo», 1840), non aveva legami di parentela con il grande poeta e memorialista nato tra Parigi e Tagne (ma averli sarebbe stato meglio per lui, disse Ada, che amava incrociare orchidee).

 

Mon enfant, ma sœur,

songe à l’épaisseur

du grand chêne à Tagne;

songe à la montagne,

songe à la douceur...

 

[Bambina mia, sorella mia, pensa alla grossezza della grande quercia a Tagne, pensa alla montagna, pensa alla dolcezza...]

...di scorticarsi con gli artigli o le unghie i punti colpiti da quell'insetto dalle zampine lanose caratterizzato da un insaziabile e temerario appetito per il sangue di Ada e di Ardelia, di Lucette e di Lucile (moltiplicate senza sosta dai loro pizzicori).

Il sopraggiungere della «peste» era imprevedibile quanto il suo svanire. Arrivava e si accomodava su graziose braccia e gambe nude, senza l'indizio di un ronzio, in un silenzio recueilli, [concentrato] che – per contrasto – faceva sembrare la subitanea inserzione della sua davvero infernale proboscide il tuono degli ottoni in una banda militare. Cinque minuti dopo l'attacco, al crepuscolo, tra il gradino del portico e l'impazzare dei grilli in giardino, sopravveniva un'irritazione bruciante, che il forte e il flemmatico ignoravano (sicuri che non si sarebbe protratta per più di un'ora), ma che la debole, l'adorabile, la voluttuosa prendeva come scusa per grattare e graffiare perché se graffi e gratti proverai quel che non hai provato mai (canzone da refezione). «Sladko! (Dolcezza!)» soleva esclamare Puškin alludendo a una differente specie di insetto dello Yukon. Per tutta la settimana che seguì il suo compleanno, le sciagurate unghie di Ada rimasero maculate di granato e, dopo una sessione di scarnificamento particolarmente estatico e straniato, il sangue prese letteralmente a scorrerle lungo gli stinchi, e faceva pena vederlo, rimuginava il suo tormentato ammiratore, ma era allo stesso tempo vergognosamente seduttivo – poiché noi siamo visitatori e investigatori di un davvero, davvero strano universo.

La pelle candida della bambina, tanto delicata ed eccitante agli occhi di Van e così vulnerabile al pungiglione del pestifero animale, era invece resistente come il raso di Samarcanda e sopportava ogni tentativo di autoscuoiamento quando Ada, gli occhi scuri velati come nei momenti di estasi erotica cui Van aveva già cominciato ad assistere durante i loro baci smodati, le labbra schiuse, i denti grandi laccati di saliva, si graffiava con le cinque dita i gonfiori rosa provocati dal morso di quell'insetto raro – infatti «una zanzara piuttosto rara e curiosa (descritta, non proprio simultaneamente, da due vecchi collerici – il secondo era Braun, il ditterologo di Filadelfia, molto più bravo del professore di Boston); e rara e rapinosa era la vista della mia diletta che tentava di placare la sete della sua preziosa pelle, lasciando lungo l'incanto delle sue gambe strie di perla e di rubino e raggiungendo in breve un'ebbra beatitudine nella quale, come nel vuoto, il feroce pizzicore si scatenava con nuovo impeto.

«Guarda,» diceva Van «adesso conto fino a tre, e se non smetti subito aprirò questo coltello» (e apriva il coltello) «e mi squarcerò la gamba per farla uguale alla tua. Ti prego, divorati le unghie! Qualsiasi cosa è meglio».

La linfa vitale di Van – anche in quei giorni lieti – doveva essere troppo amara, perché la zanzara di Chateaubriand non gli dimostrò mai un grande interesse. Attualmente sembrerebbe in via di estinzione, soprattutto a causa del raffreddamento del clima e dell'insensata bonifica delle paludi stupendamente ricche della regione di Ladore come di quelle vicino a Kaluga, Conn., e a Lugano, Pa. (Da poco, mi hanno detto, è stato catturato in un habitat segreto, decisamente lontano dalle suddette stazioni, un piccolo gruppo di esemplari di quella specie, tutte femmine ben nutrite del sangue del loro fortunato cacciatore. Nota di Ada).

18

Non soltanto negli anni del cornetto acustico – l'età, come diceva Van, del loro ri-ri-rimbambimento – ma ancor di più nell'adolescenza (estate 1888) Ada e Van ricercavano un dotto eccitamento ricostruendo il primo evolversi del loro amore (estate 1884), analizzando le fasi iniziali delle sue rivelazioni, le capricciose discrepanze nelle lacunose cronografìe. Ada aveva conservato soltanto poche pagine del suo diario – dedicate principalmente alla botanica e all'entomologia – perché nel rileggerlo ne aveva giudicato il tono falso e pedante; Van aveva distrutto interamente il proprio per la goffaggine del suo stile scolastico mescolato a un cinismo finto e gratuito. Bisognava quindi che si affidassero alla tradizione orale, alla mutua rettifica dei ricordi comuni.

«A ty pomnish, et te souviens-tu, e ti ricordi?» (invariabilmente con quella codetta«e» che serviva a porgere la perla da infilare nella collana spezzata) diventò nelle loro intense conversazioni l'espediente abituale per cominciare quasi tutte le frasi. Le date del calendario venivano discusse, le sequenze vagliate e variate, le annotazioni sentimentali messe a confronto, le esitazioni e le risoluzioni appassionatamente analizzate. E se qualche volta le loro ricostruzioni non coincidevano, questo non era tanto da attribuire al temperamento individuale di ciascuno ma alle loro differenze sessuali. Entrambi erano attratti dai giovani annaspamenti della vita, contristati dalla saggezza del tempo. Ada tendeva a considerare quei primi stadi una crescita estremamente graduale e diffusa, forse innaturale, probabilmente unica, ma fluida e uniforme nel suo svolgersi, così pervasa d'incanto da impedire il manifestarsi degli impulsi animaleschi e gli assalti della vergogna. La memoria di Van si ostinava a cogliere episodi specifici contrassegnati da brusche e acute, e qualche volta deplorevoli, vibrazioni carnali. Ada immaginava che i godimenti insaziabili cui era giunta, di sorpresa, senza averli sollecitati, non si fossero rivelati a Van prima che a lei: e cioè dopo settimane di carezze cumulative; quanto alle sue prime reazioni fisiologiche, trovò giusto ignorarle ritenendole connesse a quelle pratiche infantili cui si era abbandonata nel periodo precedente e che poco avevano a che fare con la gloria e la fragranza dell'appagamento individuale. Van, al contrario, non solo poteva classificare ciascuno degli spasmi non canonici che le aveva nascosto prima che diventassero amanti, ma riusciva a enfatizzare distinzioni filosofiche e morali tra la forza dirompente dell'abuso di sé e la tenerezza soverchiarne dell'amore dichiarato e condiviso.

Quando si cerca di richiamare alla mente il proprio io com'era una volta, si incontra sempre una figuretta dall'ombra lunga, ferma come un ospite incerto e ritardatario nella cornice illuminata dì una porta, in fondo all'impeccabile prospettiva di un lungo corridoio. Ada vedeva se stessa come una piccola derelitta dagli occhi smarriti con in mano un mazzolino di fiori infangati; Van aveva di sé l'immagine di un giovane satiro dispettoso con grossi zoccoli biforcuti e un equivoco zufolo. «Ma avevo solo dodici anni» gridava Ada quando veniva citato qualche particolare sconveniente. «Io ne avevo compiuti quattordici» diceva Van con tristezza.

E la signorina si ricordava, chiedeva lui, togliendosi metaforicamente di tasca dei foglietti di appunti, quando esattamente, per la prima volta, aveva arguito che il suo timido «cousin» (secondo il loro legame di parentela ufficiale) si eccitava fisicamente in sua presenza, ancorché decorosamente avviluppato in strati di lino e lana e non in diretto contatto con la signorina stessa?

Lei diceva di no, francamente non si ricordava – davvero, non era in grado - perché a undici anni, pur avendo cercato innumerevoli volte di aprire con tutte le chiavi della casa l'armadietto dove Walter Daniel Veen custodiva «Stampe erot. Giapp. & Ind.», secondo la dicitura sull'etichetta visibile attraverso l'anta di vetro (la chiave fu trovata per lei da Van in un batter d'occhio, attaccata con del nastro adesivo dietro il frontone del mobile), aveva continuato ad avere nozioni piuttosto vaghe sul modo in cui gli esseri umani si accoppiano. Certo era dotata di un notevole spirito di osservazione e aveva esaminato da vicino svariati insetti in copula,ma nel periodo in oggetto le erano capitati di rado sotto gli occhi chiari esempi di mascolinità mammifera, ed erano comunque rimasti disgiunti da qualsiasi idea o possibilità di funzione sessuale (per esempio quando, nel 1883, aveva contemplato il beccuccio beige, morbido a vedersi, del bambino del portiere negro della sua scuola elementare, che qualche volta andava a urinare nel bagno delle bambine).

Ancora prima la sua attenzione era stata attratta da altri due fenomeni che si erano poi dimostrati ridicolmente fuorviami. Doveva avere circa nove anni quando quell'anziano signore, un celebre artista di cui non poteva né voleva dire il nome, aveva preso l'abitudine di cenare a Ardis Hall. L'insegnante di disegno di Ada, Miss Wintergreen, l'aveva in grande stima, anche se in realtà le natures mortes da lei dipinte erano considerate (nel 1888 e di nuovo nel 1958) incomparabilmente superiori alle opere di quel rinomato vecchio briccone che ritraeva i suoi minuscoli nudi invariabilmente da dietro – ninfette con natiche di pesca protese a coglier fichi dall'albero, o piccole esploratrici arrampicate sulle rocce in calzoncini lì lì per scoppiare.

«So esattamente di chi intendi parlare,» la interruppe Van con irritazione «e per quanto il suo squisito talento sia oggi in disgrazia, desidererei mettere a verbale che Paul J. Gigment aveva ogni diritto di dipingere le sue villeggianti e le sue collegiali dal lato che più gli piaceva. Prosegui».

Ogni volta che (continuò imperturbabile Ada) arrivava Pig Pigment e lei lo sentiva salire le scale con passo pesante, ansando e soffiando, inesorabile come il Convitato di pietra, spirito immemorabile che la cercava e la chiamava con una voce stridula e lamentosa in totale disaccordo con l'idea della pietra, lei correva ad acquattarsi da qualche parte.

«Povero vecchio» mormorò Van.

Il suo sistema di approccio, disse lei, «puisqu'on aborde ce thème-là [visto che affrontiamo l'argomento], e non sto certo facendo paragoni offensivi», consisteva nell'offrirle con forza maniacale il proprio aiuto per raggiungere un oggetto lontano — qualsiasi cosa, un regalino che le aveva portato, dei bonbon, o semplicemente un vecchio giocattolo che aveva raccolto dal pavimento della stanza dei bambini e che aveva appeso in alto sulla parete, o una candelina rosa con la fiamma azzurra in cima all'arbre de Noël che le ordinava di spegnere con un soffio; e nonostante le sue deboli proteste sollevava la bambina prendendola per i gomiti, lentamente, spingendo, grugnendo, dicendo: oh, com'era pesante, com'era graziosa – e andava avanti finché non suonava il gong della cena o finché la bambinaia non entrava con un bicchiere di succo di frutta, e che sollievo provava ciascuno degli interessati quando nel corso di queste fraudolente ascensioni il suo povero piccolo posteriore arrivava finalmente sulla neve scricchiolante dello sparato della camicia, e lui la lasciava cadere, abbottonandosi la giacca dello smoking. E lei si ricordava...

«Che stupida esagerazione» commentava Van. «È ricolorata, immagino, alla luce artificiale di quel che è accaduto più tardi e si è saputo più tardi ancora».

E lei si ricordava di essere penosamente arrossita sentendo dire che il povero Pig era malato di mente e che aveva «un indurimento dell'aorteria», o almeno così le sembrava di aver capito; ma Ada sapeva, perfino allora, che l'«aorteria» poteva diventare spaventosamente lunga perché aveva visto Drongo, un cavallo nero, in preda, doveva ammetterlo, a grande avvilimento e vergogna per quel che gli stava capitando nel bel mezzo di un campo incolto, con tutte le margheritine che lo guardavano. La maliziosa Ada raccontò (quanto fosse sincera è un altro discorso) di aver pensato che nella pancia di Drongo ci fosse un puledro con una zampa di gomma nera che penzolava fuori: perché non aveva capito che Drongo non era affatto una giumenta, e tanto meno un canguro con una tasca davanti come quello di una sua venerata illustrazione, ma poi la sua bambinaia inglese le aveva spiegato che Drongo era un cavallo molto malato e ogni cosa era andata a posto.

«Bello,» disse Van «avvincente; ma mi stavo chiedendo quale potrebbe essere stata la prima volta in cui hai avuto il sospetto che fossi anch'io un maiale o un cavallo malato. Mi viene in mente» continuò «il tavolo tondo nel tondo di luce rosata, e tu in ginocchio vicino a me su una poltrona. Io ero in bilico sul bracciolo bombato e tu costruivi una casa con le carte da gioco, e ogni tuo movimento era, ovviamente, amplificato, come quello di una sonnambula, lento come un sogno ma anche paurosamente vigile, e io assaporavo fino in fondo l'odore da bambina del tuo braccio nudo e dei tuoi capelli che adesso uccidi con un profumo alla moda. Evento databile intorno al 10 giugno – una sera piovosa, meno di una settimana dopo il mio primo arrivo a Ardis».

«Mi ricordo le carte,» disse lei «e la luce e il rumore della pioggia, e il tuo pullover di cachemire azzurro – ma nient'altro, niente di strano o di scorretto, quello è successo dopo. Comunque, solo nelle storie d'amore francesi les messieurs hument [gli uomini annusano] le signorine».

«Be', io lo facevo mentre tu proseguivi la tua delicata impresa. Prodigio tattile. Pazienza infinita. La gravità sorvegliata dalla punta delle dita. Unghiacce mangiucchiate, piccina mia. Perdonami queste osservazioni, non riesco davvero a esprimere il disagio di quel desiderio ingombrante e vischioso. Vedi, io speravo che quando il tuo castello fosse caduto, con un gran gesto di capitolazione alla russa tu avresti finito col sederti sulla mia mano».

«Non era un castello. Era una villa pompeiana con mosaici e affreschi all'interno: stavo usando solo le figure di un vecchio mazzo del nonno per il gioco d'azzardo. E mi sono poi seduta sulla tua mano calda e dura?».

«Sul mio palmo aperto, tesoro. Piegolina di paradiso. Sei rimasta ferma per un momento e hai colmato la mia coppa. Poi hai ripiegato le gambe e ti sei di nuovo inginocchiata».

«Presto, presto, presto, a raccogliere ancora le carte lucide e piatte per ricostruire ancora, ancora piano piano. Non pensi che fossimo depravati in un modo abominevole?».

«Tutti i ragazzi molto intelligenti sono depravati. Vedo che ti ricordi bene...».

«Non quel particolare episodio, ma l'albero di mele, e quando mi hai baciata sul collo, et tout le reste. E poi – zdravstvuyte: apofeos [ed ecco: l'apoteosi], la Notte del Fienile in Fiamme!».

19

Una specie di antico enigma (Les Sophismes de Sophie di Mlle Stopčin, nella collana della Bibliothèque Vieux Rose): è il Fienile in Fiamme che precede la Soffitta, o è la Soffitta che vien prima del Fienile? La Soffitta, la Soffitta! Eravamo già da molto «cugini che si baciano» quando cominciò l'incendio. Infatti, usavo in quel periodo della crema emolliente Château Baignet che avevo comprato a Ladore per le mie povere labbra screpolate. E lei, che gridava au feu!, ci ha svegliati tutti e due di soprassalto, ciascuno nella sua stanza. Era il 28 luglio? Il 4 agosto?

Chi gridava? Gridava la Stopčin? Gridava la Larivière? La Larivière? Rispondi! Chi gridava che il fienile flambait?

No, lei era profondamente avvampata – voglio dire, addormentata. Lo so, disse Van, era lei, l'ancella all'acquarello, quella che usava i tuoi colori per ritoccarsi gli occhi – o così diceva la Larivière, che accusava sempre lei e Blanche di peccati stravaganti.

Certo! Ma non la povera French di Marina – era la nostra piccola oca Blanche. Sì, correva a precipizio per il corridoio e, come Cenerentola, sullo scalone ha perso una pantofola foderata di pelliccia.

«E ti ricordi, Van, com'era calda quella notte?».

«Eshcho bï! (e come no!). Quella notte per colpa dei lampi...».

Quella notte per colpa dei fastidiosi lampi che da lontano filtravano attraverso i cuori neri del suo arboreo giaciglio, Van aveva abbandonato le sue due tulipifere ed era andato a dormire in camera. Il tumulto nella casa e lo strepito della cameriera avevano interrotto un sogno straordinario, vivido e sconvolgente, di cui non riuscì in seguito a ricordare il soggetto, benché lo avesse messo in salvo in un cofanetto portagioie. Dormiva nudo, come d'abitudine, e adesso era indeciso se infilarsi un paio di calzoncini, o drappeggiarsi nella sua coperta scozzese. Scelse la seconda possibilità, agitò una scatola di fiammiferi, accese la candela vicino al letto, e uscì in fretta dalla sua stanza, pronto a salvare Ada e tutte le sue larve. Il corridoio era buio; da qualche parte si sentiva il bassotto che abbaiava in estasi. Van intuì dalle grida, sempre più lontane, che il cosiddetto «gran fienile», costruzione imponente e molto amata, a quasi due chilometri di distanza, stava andando a fuoco. Se quell'incendio fosse scoppiato più avanti nella stagione, cinquanta mucche sarebbero rimaste senza fieno e la Larivière senza il suo caffè con panna per la seconda colazione. Van si sentì offeso. Se ne sono andati tutti e mi hanno lasciato qui, come brontola il vecchio Fierce alla fine del Giardino dei ciliegi,(Marina era un'adeguata Mme Ranevskij).

Avvolto nella sua toga scozzese, Van accompagnò il suo nero doppio lungo la scala a chiocciola supplementare che portava alla biblioteca. Puntando un ginocchio nudo sul ruvido divano sotto la finestra, aprì le pesanti tende rosse.

Lo zio Dan, con un sigaro tra i denti, e Marina, con in testa un fazzoletto e Dack stretto a lei che lanciava occhiate di scherno ai cani da guardia, stavano prendendo posto, tra braccia levate e lanterne dondolanti, nella decappottabile – rossa come un'autopompa! - solo per essere sorpassati sulla stridente curva del viale da tre valletti inglesi a cavallo con tre autentiche cameriere francesi en croupe [in groppa, dietro il cavaliere]. Sembrava che la servitù al completo si stesse precipitando al fienile per godersi l'incendio (avvenimento raro nella nostra regione umida e senza vento), utilizzando ogni marchingegno disponibile o immaginabile: teleghe russe, telesedie, barche da strada, tandem e perfino quei carrelli meccanici per le valigie di cui il capostazione riforniva la famiglia in memoria di Erasmus Veen, loro inventore. Solo la governante (come Ada, non Van, aveva nel frattempo scoperto) continuava nonostante tutto a dormire, ansimando e sibilando, nella camera adiacente la vecchia stanza dei bambini, dove la piccola Lucette era rimasta per un istante a giacere sveglia prima di saltare sull'ultimo furgone da trasloco all'inseguimento del suo sogno.

Van, in ginocchio davanti alla grande vetrata della finestra, guardava l'occhio di fuoco del sigaro allontanarsi e svanire. Quella partenza multipla... Continua tu, Ada.

Quella partenza multipla, sullo sfondo del pallido firmamento impolverato di stelle della praticamente subtropicale Ardis, pennellato nel punto dove il Fienile andava in Fiamme di lontane vampe rossastre tra il nero degli alberi, offriva davvero una vista meravigliosa. Per raggiungere l'incendio bisognava girare intorno a un grande lago artificiale che io riuscivo a vedere qua e là frantumarsi in scaglie di luce ogni volta che un avventuroso stalliere o un palafreniere ne solcava la superficie con gli sci d'acqua o in un Rob Roy [canoa corta e leggera per navigare sui fiumi] o su una zattera – tipiche increspature come draghi di carta in Giappone; si potevano seguire con l'occhio di un pittore i fanali posteriori e anteriori dell'automobile che avanzavano a est lungo la riva AB del bacino rettangolare, poi raggiungevano l'angolo B, voltavano bruscamente e, dopo essersi arrampicati su per il lato corto, zampettavano di nuovo verso ovest, fievoli e affievoliti, fino a un punto intermedio della riva più lontana dove con una sterzata si dirigevano a nord e scomparivano.

Mentre gli ultimi due dipendenti, il cuoco e il guardiano notturno, correvano attraverso il prato in direzione di una carrozzella, o carrozzino, senza cavallo che li aspettava ammiccando con le stanghe erette (che fosse un risciò? Lo zio Dan aveva avuto un cameriere giapponese), Van, al colmo della gioia e dello sgomento, riuscì a distinguere, proprio lì tra gli arbusti color inchiostro, Ada che passava con la sua lunga camicia da notte, una candela accesa in una mano e una scarpa nell'altra, come se stesse seguendo di soppiatto la folla degli ignicoli. Era solo la sua immagine riflessa nel vetro. Ada lasciò cadere in un cestino della carta straccia la scarpa che aveva trovato e raggiunse Van sul divano.

«Si riesce a vedere qualcosa? Che cosa si vede?» continuava a ripetere la bambina dai capelli scuri, scrutando il buio, raggiante di beata curiosità, mentre cento fienili le sfavillavano negli occhi neri e ambra. Van le tolse di mano la candela e la poggiò sul ripiano della finestra accanto alla sua che era più lunga. «Sei nudo, sei mostruosamente indecente» osservò lei senza guardarlo e senza enfasi o riprovazione, e allora lui, quando lei gli si inginocchiò di fianco, si strinse meglio nel suo manto, Ramsete lo Scozzese. Per un istante contemplarono entrambi il romantico notturno incorniciato dalla finestra. Lui aveva cominciato ad accarezzarla, rabbrividendo, guardando davanti a sé, seguendo con la mano di un cieco, attraverso la batista, il solco della sua spina dorsale.

«Guarda, gli zingari» sussurrò lei, indicando tre forme indistinte – due uomini, di cui uno con una scala a pioli, e un bambino o un nano – che avanzavano circospetti in mezzo all'erba grigia del prato. Quando videro la finestra illuminata dalla candela scapparono, il più piccolo camminando à reculons come se stesse scattando delle fotografie.

«Sono rimasta a casa di proposito, perché speravo che saresti rimasto anche tu – una coincidenza premeditata» disse, o più tardi disse di aver detto – mentre lui continuava a blandire l'onda dei suoi capelli e a palpare e gualcire la sua camicia da notte, non trovando ancora il coraggio di andare di sotto in su, trovando però quello di plasmarle le natiche finché, con un piccolo sibilo, lei non finì accovacciata sui talloni e seduta nella sua mano, mentre l'infuocato castello di carte crollava in quello stesso istante. Ada si voltò verso di lui e un attimo dopo Van stava già baciando la sua spalla nuda, premendosi contro di lei come quel soldato in coda per i biglietti...

È la prima volta che lo sento nominare. Pensavo che il vecchio Mr Nymphobottomus fosse stato il mio unico predecessore.

L'estate prima. Escursione in città. Matinée francese a teatro. Mademoiselle aveva smarrito i biglietti. Il poveretto probabilmente pensava che dietro il nome Tartuffe dovesse nascondersi una speciale tartina o una ballerina di striptease.

Ce qui n'est pas si bête, au fond. Che non è, in fondo, un'idea così stupida. D'accordo. In quella scena del Fienile in Fiamme... Sì?

Niente. Va' avanti.

Oh, Van, quella notte, nell'istante in cui ci siamo inginocchiati l'uno accanto all'altra alla luce della candela, come i «Bambini in preghiera» di una mediocre illustrazione, mostrando le tenere e grinzose piante dei nostri piedi di animali un tempo arboricoli – non alla Nonna che riceve la cartolina di Natale, ma al Serpente, sorpreso e compiaciuto - mi ricordo di aver tanto desiderato chiederti una piccola informazione di carattere puramente scientifico, perché con una mia occhiata di sghembo...

Non adesso, in questo momento non è un bello spettacolo, e tra poco sarà anche peggio (o altre parole con lo stesso senso).

Van non riusciva a capire se lei fosse davvero del tutto ignorante, e così pura come il cielo di quella notte — ora prosciugato dal fuoco — o se invece fosse una totale esperienza a suggerirle di indulgere in un gioco calcolato. Per la verità non aveva importanza.

Aspetta, non subito, rispose lui in un mormorio smorzato.

Lei insisteva: Voglio sapere, voglio sapere...

Lui carezzava e separava, con le sue pieghe carnose (parties très charnues, nel caso della nostra appassionata coppia), quei fili di seta nera lisci, sciolti, e lunghi quasi ai lombi (se lei gettava come ora la testa indietro), cercando di arrivare allo splenio ancora caldo di letto. (Non è necessario, qui o altrove – non so dove c'è un altro passaggio simile - macchiare uno stile ragionevolmente puro con termini anatomici vaghi, che sono solo il retaggio studentesco di uno psichiatra. Nell'ultima calligrafia di Ada).

«Voglio sapere» ripeté lei, quando Van con labbra ingorde raggiunse il suo pallido, caldo obiettivo.

«Ti voglio chiedere» disse con sufficiente chiarezza, pur non essendo più sufficientemente in sé, dato che il palmo della mano rampante di Van aveva adesso trovato la via per arrivare al cavo dell'ascella e il suo pollice sul vezzoso capezzolo le faceva trillare il palato: suonare il campanello per chiamare la cameriera nei romanzi di epoca georgiana – impensabile in assenza di elettricità...

(Protesto. Non puoi. È proibito perfino in lituano e in latino. Nota di Ada).

«... chiedere...».

«Chiedi,» gridò Van «ma non rovinare tutto» (per esempio cibarmi di te, contorcermi contro di te).

«Bene, voglio sapere perché,» chiese (esigente e provocatoria, la fiamma di una delle due candele crepitò, uno dei cuscini era per terra) «perché diventi cosi grosso e duro lì, quando...».

«Divento dove? Quando io cosa?».

A scopo dimostrativo, con tatto, tattilmente, ancora più o meno in ginocchio, nell'intralcio dei capelli e con un occhio immerso nell'orecchio di Van, Ada eseguì una danza del ventre contro di lui (le loro rispettive posizioni ormai si erano piuttosto confuse).

«Ripeti!» gridò Van, come se lei fosse lontana, una lontana immagine riflessa in una finestra scura.

«Fammi vedere subito» disse Ada con fermezza.

Lui eliminò il suo improvvisato kilt, e il tono della voce di lei immediatamente mutò.

«Dio mio» disse come avrebbe detto un bambino a un altro bambino. «È tutto spellato, infiammato. Ti fa male? Malissimo?».

«Toccalo, presto» la implorò lui.

«Van, povero Van,» continuò Ada con la voce sottile che la fanciullina usava quando parlava con gatti, bruchi, o pupe nel bozzolo «si, lo so che brucia, ma credi che sarebbe d'aiuto se io lo toccassi? Sei sicuro?».

«Altroché,» disse Van «on n'est pas bête à ce point» («c'è un limite alla stupidità», colloquiale e sgarbato).

«Una mappa in rilievo,» continuò la mammola saputa «con i fiumi dell'Africa» e il suo indice seguì l'azzurro Nilo fin giù nella sua giungla e poi risalì ancora. «E questo che cos'è? In confronto, il cappello del Boleto Rosso non è vellutato nemmeno la metà. Mi ricorda, invece,» (chiacchierio sciolto e spedito) «il fiore del geranio o meglio ancora del pelargonio».

«Dio, come non averci pensato prima!».

«Mi piace, mi piace al tatto, Van. Davvero!».

«Stringi, stupida, non vedi che sto morendo?».

Ma la nostra giovane botanica non aveva la più pallida idea di come maneggiare a dovere l'oggetto – e Van, ormai allo stremo, dirigendolo alla cieca contro l'orlo della sua camicia da notte e sciogliendosi in una pozza di piacere, non potè trattenere un gemito.

Ada guardò in basso costernata.

«Non è quello che credi» le fece osservare Van con calma. «Non è pipì. È una cosa pulita come linfa d'erba. Bene. Il Nilo è sistemato Stop Firmato esploratore Speke».

[Nota: famoso telegramma spedito da un esploratore africano. John Speke (1827-1864) telegrafò alla Royal Geographic Society nel 1862, dopo essersi recato nel punto dove il Nilo esce dal Lago Vittoria: «Informate Sir Roderick Murchison che va tutto bene e che il Nilo è a posto». Speke era stato il primo a raggiungere il lago nel 1858, ma la sua affermazione che fosse la sorgente del fiume era stata oggetto di discussioni]

(Mi domando, Van, perché sembra che tu stia facendo del tuo meglio per trasformare il nostro passato poetico e unico in una sporca farsa. Van, onestamente! Ma io sono onesto: è così che è andata. Io non ero sicuro del terreno, di qui l'impudenza e il sorriso ebete. Ah, parlez pour vous: io, mio caro, posso affermare che quelle famose gite delle dita su per la tua Africa e in capo al mondo sono arrivate molto più tardi, quando io conoscevo a memoria l'itinerario. Mi dispiace, no — se le persone ricordassero le stesse cose non sarebbero diverse. È così che è andata. Ma noi non siamo «diversi»! Pensa e sogna sono la stessa parola in francese. Pensa alla douceur,Van! Oh certo, ci sto pensando, naturalmente, ci sto pensando — tutto era douceur, bambina mia, mia rima. Così va meglio, disse Ada).

Ti prego, continua.

Van si distese nudo nella luce, ora immobile, della candela.

«Dormiamo qui» disse. «Non torneranno prima che l'alba abbia riacceso il sigaro dello zio».

«La mia camicia è trempée [inzuppata]» bisbigliò Ada.

«Toglitela, il mio è un plaid per due».

«Non guardare, Van».

«Non vale» rispose lui e l'aiutò a sfilarsi la camicia da sopra la testa mentre lei scuoteva i capelli. Un semplice tocco di carboncino velava nel punto del mistero il suo corpo bianco gesso. Tra due costole un brutto foruncolo le aveva lasciato uno sfregio rosa. Van lo baciò e si sdraiò con le mani intrecciate sotto la testa. Lei, china sul suo corpo abbronzato, esaminava la carovana di formiche che saliva all'oasi dell'ombelico; era decisamente irsuto per un ragazzo così giovane. I piccoli seni rotondi di Ada erano proprio sopra la faccia di lui. Deploro la sigaretta postcoitale del filisteo, sia come artista sia come medico. È pur vero, tuttavia, che Van non ignorava l'esistenza di un barattolo di Traumato Turco appoggiato su una mensola troppo lontana per essere raggiunta allungando una mano indolente. L'orologio a pendolo batté un anonimo quarto, e adesso Ada guardava, la guancia appoggiata al pugno, gli emozionanti sussulti, così stranamente corrucciati, il regolare sganciamento in senso orario, e il ponderoso levarsi della reviviscenza virile.

Ma il pelo del divano, come il cielo trapunto di stelle, solleticava e stuzzicava. Prima che accadesse qualcosa di nuovo, Ada a quattro zampe riordinò la coperta e i cuscini. Piccola indigena che imita un coniglio. Van la cercò con la mano e da dietro chiuse nel palmo la sua piccola fenditura calda, poi con uno scatto convulso assunse la posizione di un bambino che costruisce un castello di sabbia; ma lei si voltò subito, ingenuamente pronta ad abbracciarlo nel modo in cui si raccomanda a Giulietta di accogliere Romeo. Aveva ragione. Per la prima volta nella loro storia d'amore, la grazia, il genio del linguaggio lirico discesero su quel ruvido ragazzo, e lui mormorò e gemette, baciandole la faccia con loquace tenerezza, gridandole disperatamente in tre lingue – le tre più grandi di tutto il mondo – parole affettuose che avrebbero costituito il fondamento di un Dizionario dei diminutivi segreti, sottoposto in seguito a numerose revisioni fino all'edizione definitiva del 1967. Quando il tono della sua voce si alzava troppo, lei gli sussurrava silenzio respirandogli in bocca, e i suoi quattro arti ormai lo cingevano senza esitazioni come se Ada avesse fatto l'amore per anni in tutti i nostri sogni – ma l'impaziente passione del giovane Van (traboccante come la vasca da bagno del vecchio Van, grigio e scorbutico artigiano della parola, che rielabora queste righe seduto sul bordo di un letto d'albergo) non sopravvisse alle prime poche spinte cieche: proruppe sui petali dell'orchidea, e una paradisea modulò un trillo d'allarme, e le luci si stavano riavvicinando a una a una sotto un'alba aspra e pungente, il lampeggiare delle lucciole circoscriveva il lago, i puntini dei fanali delle carrozze divennero stelle, le ruote graffiarono la ghiaia, i cani ritornarono soddisfatti dall'intrattenimento notturno, Blanche, la nipote del cuoco, saltò giù da un furgone della polizia color zucca con le sole calze ai piedi (molto, molto dopo la mezzanotte, ahimè) – e i nostri due bambini nudi, agguantando la coperta scozzese e la camicia da notte e dando al divano un buffetto d'addio, tornarono con le candele in mano alle loro innocenti camere da letto.

«E ti ricordi» disse Van coi baffi grigi, prendendo una sigaretta Cannabina dal tavolino da notte e scuotendo una scatola di fiammiferi gialloazzurra «come sprezzavamo il pericolo e come la Larivière ha smesso per un attimo di russare e poi ha ripreso a far tremare la casa, e com'erano freddi i gradini di ferro, e com'ero sconcertato io dalla tua – come dovrei dire? – mancanza di ritegno?».

«Idiota» disse Ada, voltata verso il muro, senza girare la testa.

Estate 1960? Un albergo affollato da qualche parte tra Ex e Ardez?

Bisognerebbe cominciare a mettere la data a ogni pagina del manoscritto: sarebbe più gentile nei confronti dei miei ignoti sognatori.

20

La mattina dopo, con il naso ancora sprofondato nel sacco di sogni di un morbido cuscino, offerto dalla soave Blanche al suo letto altrimenti austero (lui le aveva tenuto la mano, secondo il regolamento del gioco della buonanotte, in un incubo straziante – o forse era stato soltanto il suo profumo da quattro soldi a farglielo pensare), il ragazzo si rese subito conto che la felicità bussava alla sua porta. Cercò deliberatamente di prolungare il fulgore di quella presenza sconosciuta, indugiando sulle ultime vestigia di gelsomino e lacrime di un sogno insulso; ma con un vero e proprio balzo la tigre della felicità si materializzò al suo fianco.

Ah, che cos'è l'eccitazione di un privilegio appena acquisito! Sembrava che Van ne avesse conservato il riflesso nel sonno, nell'ultima parte di quel sogno nel quale diceva a Blanche di aver imparato a levitare e che la sua capacità di calcare l'aria con magica disinvoltura gli avrebbe permesso di battere ogni primato di salto in lungo, passeggiando, per così dire, a qualche centimetro da terra per un tratto di circa dieci o dodici metri (una lunghezza eccessiva avrebbe destato sospetti) con le tribune che impazzivano, mentre Zambovsky dello Zambia lo guardava, gli occhi sbarrati e le mani sui fianchi, costernato e incredulo.

Ma un trionfo puro e un'autentica liberazione, smussati dalla tenerezza e lubrificati dalla soavità, non sono nei sogni sintomo di gloria e martirio. Una metà della fantastica gioia che Van avrebbe assaporato da quel momento in poi (e per sempre, sperava) doveva il suo impeto alla sicurezza di sapere che ora avrebbe potuto profondere su Ada, apertamente e a suo piacimento, tutti i vezzi puerili che il pudore, l'egoismo maschile e lo scrupolo morale gli avevano fino ad allora vietato di considerare possibili.

Araldi dei tre pasti della giornata erano, il sabato e la domenica, tre colpi di gong: uno breve, uno medio e uno lungo. Quello breve aveva appena annunciato che la prima colazione era servita in sala da pranzo. La sua vibrazione risvegliò nella mente di Van il pensiero che in ventisei passi avrebbe raggiunto la sua giovane complice, il cui muschio delicato impregnava ancora il cavo della sua mano – e provocò in lui una specie di radioso stupore: È successo davvero? Siamo davvero liberi? I cinesi appassionati di ornitologia dicono, sussultando con l'ilarità dei ciccioni, che esiste una specie di uccelli i quali, tutte le sante mattine, quando si svegliano, in un impeto ancora sognante e automatico, si lanciano contro le sbarre della loro gabbia (e giacciono svenuti per qualche minuto), e poi per il resto della giornata, prigionieri iridescenti, si mostrano gai, docili e ciarlieri.

Van infilò la punta del piede nudo nella scarpa di tela, recuperò l'altra di sotto il letto e corse giù per le scale, superando un compiaciuto principe Zemski e un torvo Vincent Veen, vescovo di Balticomore e Como.

Ma lei non c'era ancora. Nella sala da pranzo luminosa, piena di fiori gialli in grappoli di sole ricadenti, a nutrirsi c'era solo lo zio Dan, con indosso l'abbigliamento appropriato a una giornata appropriatamente calda in campagna – per l'esattezza, un completo a strisce-caramella sopra una camicia di flanella mauve e un panciotto di piqué, con la cravatta blu e rossa del suo circolo e un colletto molto alto e morbido, chiuso da una spilla di sicurezza d'oro (ma era domenica il giorno dei fumetti, e quelle sue belle strisce e quei colori sembravano aver subito di conseguenza un leggero sfalsamento tipografico). Aveva appena finito la sua prima fetta di pane tostato con burro e un velo di buona vecchia marmellata di arance e stava facendo rumori da tacchino sciacquandosi in situ la dentiera con una sorsata di caffè che avrebbe poi inghiottito insieme ai suoi saporosi relitti. Essendo, come avevo allora ragione di credere, spavaldo, potevo imporre a me stesso di sostenere la vista della sua faccia rosea con i (roteanti) fulvi «mustacchi», ma non ero obbligato (riflessione che Van fece nel 1922, quando rivide i fiori del baguenaudier [nome francese della Colutea arborescens]) a tollerare il suo profilo senza mento e la sua basetta fulva e riccia. Il ragazzo considerò non senza appetito i bricchi azzurri della cioccolata bollente e i segmenti di pane preparati sulla tavola per il vorace appetito dei bambini. Marina consumava la prima colazione a letto, il maggiordomo e Price mangiavano in un recesso della dispensa (pensiero, in un certo senso, piuttosto divertente) e Mlle Larivière non toccava cibo fino a mezzogiorno, essendo una bigotta «midinette» (intendo le settarie, non le sartine) che aveva convinto anche il proprio padre confessore a unirsi alla fazione.

«Avrebbe potuto portarci a vedere l'incendio, zio caro» osservò Van versandosi della cioccolata nella tazza.

«Ada ti racconterà tutto» replicò lo zio Dan, spalmando amorosamente di burro e marmellata un'altra fetta di pane tostato. «L'escursione l'ha enormemente divertita».

«Ah, è venuta con voi? Ma davvero?».

«Sì – era sul carro nero con le panche, insieme ai maggiordomi. Un autentico spasso» (intonazione pseudobritannica) .

«Doveva essere una delle sguattere, non Ada» notò Van. «Non mi ero accorto» aggiunse «che ce ne fosse un bel numero qui – voglio dire di maggiordomi».

«Ah, sì, credo che sia così» disse lo zio Dan in tono vago. Ripeté il processo di sciacquo interno e con un leggero colpo di tosse si mise gli occhiali, ma non era arrivato nessun giornale del mattino – e se li tolse di nuovo.

D'un tratto Van sentì sulle scale la sua incantevole, cupa voce che diceva a qualcuno verso l'alto: «Je l'ai vu dans une des corbeilles de la bibliothèque» [l'ho vista in uno dei cestini della carta straccia della biblioteca] – riferendosi probabilmente a un geranio o a una viola, o a un'orchidea scarpetta. Poi ci fu una «pausa balaustra», come dicono i fotografi, e dopo che il lontano, soddisfatto grido della cameriera arrivò dalla biblioteca, la voce di Ada aggiunse: «Je me demande, mi chiedo qui l'a mis là, chi l'abbia messa lì». Aussitôt après [immediatamente dopo] entrò nella sala da pranzo.

Portava – anche se non in collusione con lui – calzoncini neri, maglietta bianca e scarpe di tela. I capelli tirati indietro e annodati in una stretta treccina lasciavano scoperta la sua fronte alta e bombata. La rosa di un esantema sotto il labbro inferiore luccicava di glicerina attraverso un frettoloso strato di cipria. Era troppo pallida per essere davvero bella. Aveva con sé un libro di poesie. La mia maggiore è piuttosto insignificante, ma ha bei capelli, e la più piccola è graziosa, ma rossa come une volpe, diceva sempre Marina. Età ingrata, luce ingrata, artista ingrato, ma innamorato ingrato, quello no.Una vera ondata di adorazione lo sollevò dall'epigastrio al paradiso. Il fremito nel vederla e nel sapere che lei sapeva, e che nessun altro sapeva a cosa si erano abbandonati così liberamente, così sozzamente, così deliziosamente meno di sei ore prima, era più di quanto potesse sopportare il nostro amante novello, nonostante il suo tentativo di volgarizzare tutto con il correttivo morale di un avverbio infamante. Farfugliando un esitante «hello», saluto inconsueto per il mattino (da lei, d'altra parte, ignorato), chinò la testa sulla sua colazione e continuò a controllare per mezzo di un organo polifemico segreto ogni movimento di Ada. Lei passò alle spalle di Mr Veen e gli diede con il libro un colpetto sul cranio calvo, poi spostò rumorosamente la sedia più vicina e si sedette di fronte a Van. Sbatté con grazia le ciglia da bambola, si riempì la tazza di cioccolata e, sebbene fosse già dolce che più non si poteva, mise lo stesso una zolletta di zucchero sul cucchiaino e la lasciò scivolare lentamente nella tazza assaporando lo spettacolo di quel caldo liquido bruno che soffondeva e discioglieva prima i cristalli sgretolati di un angolo, e poi l'intero pezzo.

Nel frattempo lo zio Dan, a scoppio ritardato, scacciò l'insetto immaginario che gli si era posato in cima alla testa, guardò in su, guardò di qua e poi di là, e alla fine si accorse della nuova arrivata.

«Oh sì, Ada» disse. «Van, qui, è ansioso di sapere una cosa. Che cosa facevi tu, mia cara, mentre lui e io ci preoccupavamo dell'incendio?».

Il riflesso delle fiamme investì Ada. Van non aveva mai visto una ragazza (con la pelle così traslucida e bianca), e in realtà nessun'altra creatura, porcellana o pesca, coprirsi di rossori tanto sostanziali e frequenti, e questa predisposizione lo angustiava come una particolarità assai più sconveniente degli atti che la producevano. Dopo essere riuscita a carpire al ragazzo torvo un'occhiata sciocca, lei raccontò di come era rimasta «profondamente avvampata» nella sua camera da letto.

«Non è vero,» la interruppe con asprezza Van «tu eri con me e guardavi la vampata dalla finestra della biblioteca. Lo zio Dan ha preso una cantonata».

«Ménagez vos américanismes» disse il sunnominato – e poi spalancò le braccia per accogliere con un paterno benvenuto l'innocente Lucette che entrava trotterellando e stringendo nel piccolo pugno, come un'orifiamma, un rigido retino rosa da farfalle formato ridotto.

Van scosse la testa con aria di disapprovazione guardando Ada. Lei gli mostrò il petalo appuntito della sua lingua, e con un fremito di sdegno nei propri confronti il suo innamorato sentì di arrossire a sua volta. Eccolo qui, il bel privilegio. Infilò il tovagliolo nell'anello e si ritirò nel mestechko(«posticino») accanto all'atrio.

Quando anche Ada ebbe finito di fare colazione, Van l'aspettò al varco sul pianerottolo, ancora satolla di burro dolce. Avevano solo un istante per fare il loro piano, poiché, storicamente parlando, si era agli albori del romanzo, ed essendo questo genere letterario ancora nelle mani di ragazze di parrocchia e accademici di Francia, simili occasioni erano assolutamente preziose. Lei stava su un piede solo e si grattava un ginocchio. Decisero di andare a fare una passeggiata prima di pranzo e di cercare un luogo appartato. Ada doveva finire una traduzione per Mlle Larivière. Gli mostrò la brutta copia. François Coppée? Sì.

 

Lieve è la loro caduta, e il taglialegna

distingue prima che arrivino al fango

la quercia per la sua foglia di rame

l'acero per la sua foglia di sangue.

 

«Leur chute est lente,» disse Van «on peut les suivre du regard en reconnaissant – quel tocco parafrastico di "taglialegna" e di "fango" è, naturalmente, puro Lowden (poeta minore e traduttore, 1815-1895). Tradire la prima metà della stanza per salvare la seconda ricorda un po' quel nobile russo che gettò il suo cocchiere ai lupi e poi cadde dalla slitta».

«Sai che sei proprio stupido e crudele» disse Ada. «Non deve essere un'opera d'arte o una brillante parodia. È il riscatto che un'istitutrice impazzita ha estorto a una povera scolara già oberata di compiti. Aspettami sotto la Pergola dei Baguenaudier» aggiunse. «Ci sarò tra sessantatré minuti esatti».

Le mani di Ada erano ghiacciate, il collo era caldo; il ragazzo del postino aveva suonato alla porta; Bout, un giovane valletto, figlio bastardo del maggiordomo, attraversò le riecheggianti lastre di pietra dell'atrio.

La domenica mattina la posta arrivava tardi, a causa dei voluminosi supplementi domenicali dei giornali di Balticomore, di Kaluga, e di Luga, che Robin Sherwood, il vecchio postino, nella sua uniforme verde brillante, distribuiva in sella al suo cavallo per tutta la campagna sonnolenta. Mentre Van, canticchiando l'inno della sua scuola – l'unico motivo che riuscisse a ripetere fino in fondo - scendeva saltando i gradini della terrazza, vide Robin sul suo vecchio baio tenere per le briglie lo stallone nero del suo aiutante domenicale, un bel ragazzo inglese cui il vecchio tributava un affetto, come si mormorava dietro le siepi di rose, più vigoroso di quanto la sua mansione giustificasse.

Van raggiunse il terzo prato e la pergola e ispezionò attentamente il palco predisposto per la scena, «come un provinciale arrivato con un'ora di anticipo all'opera dopo aver sobbalzato tutto il giorno lungo i sentieri della mietitura con ammiccanti papaveri e fiordalisi che si impigliavano nelle ruote del suo calesse» (Ursula di Floeberg).

Farfalle azzurre, grandi quasi come le Pieris Cavolaie e come loro di origine europea, svolazzavano svelte intorno ai cespugli andandosi a posare sui grappoli ricadenti di fiori gialli. In circostanze meno complicate, quarant'anni dopo, i nostri amanti avrebbero rivisto con stupore e con gioia lo stesso insetto e lo stesso arbusto lungo un sentiero nel bosco vicino a Susten nel Valais. Ma in quel momento Van pregustava solo il piacere di cogliere ciò che la sua memoria avrebbe potuto ricogliere più tardi. Sdraiato sull'erba, guardava le ardite alate azzurre e bruciava evocando nella variegata luce della pergola la visione delle pallide gambe e delle pallide braccia di Ada, dicendosi poi freddamente che la realtà non avrebbe mai potuto eguagliare la fantasia. Tornando da una nuotata nel largo e profondo torrente dietro il boschetto, con i capelli bagnati e un pizzicore sulla pelle, Van ricevette il premio di trovare il suo miraggio di avorio vivo esattamente riprodotto, tranne che per i capelli sciolti e per la tunichetta corta, trasparente di sole, che lei aveva indossato e che gli piaceva tanto e che aveva desiderato così ardentemente di insozzare in un passato molto vicino.

Aveva stabilito di occuparsi prima di tutto delle gambe, che sentiva di non aver degnamente celebrato la notte precedente; di fasciarle di baci dalla A dell'arco del piede sino alla V di velluto; un'impresa che Van portò a compimento appena lui e Ada si furono addentrati a sufficienza nel bosco di larici che delimitava il parco sul lato più ripido della cresta rocciosa tra Ardis e Ladore.

Nessuno dei due riuscì in seguito a stabilire, né, a onor del vero, insistette nel tentativo di farlo, come, quando e dove lui l'avesse effettivamente «deflorata» – un volgarismo che Ada nel Paese delle Meraviglie aveva trovato per caso nella Phrody's Encyclopedia definito come: «rompere la membrana vaginale di una vergine con mezzi maschili o meccanici», e accompagnato dall'esempio: «La dolcezza della sua anima fu deflorata (Jeremy Taylor)». Era stato quella notte sulla coperta? O quel giorno nel bosco di larici? O più tardi nel padiglione di tiro, o nella soffitta, o sul tetto, o su un balcone appartato, o nel bagno, o (non molto comodamente) sul tappeto magico? Non lo sappiamo e non ce ne importa.

(Mi hai baciata e mordicchiata, e spinta, e incalzata, e tormentata, lì, così tanto e così spesso, che la mia verginità si è persa nel trambusto; ma sono sicura di ricordarmi che prima di metà estate la macchina che i nostri antenati chiamavano «sesso» funzionava scorrevolmente quanto più tardi, nel 1888, ecc., caro. Nota a margine in inchiostro rosso).