domenica 15 dicembre 2024

NO TACCONI ORA SO CHE NON BASTA... Estratto da "La vita agra" di Luciano Bianciardi

 


NO TACCONI ORA SO CHE NON BASTA...

Estratto da "La vita agra" 

di Luciano Bianciardi

Recensione

Leggendo gli scritti di Bianciardi ci ritroviamo, come davanti allo specchio la mattina, a veder riflesse le nostre stesse inquietudini, quelle che ci inseguono senza sosta da anni e con cui abbiamo imparato ormai a convivere.

Dovremmo leggere Bianciardi perché lui ha aperto una strada e l’ha percorsa fino a uno dei suoi più radicali e drammatici sbocchi: l’annichilimento, la resa e l’autodistruzione – ed è inutile negarlo, è uno dei possibili sbocchi anche dei nostri percorsi. Ma in quel suo tragitto ha osservato, preso appunti e, divinamente, ne ha scritto, arrivando anche a individuare la chiave di volta, quel mattoncino, l’unico, che bisogna togliere per far cadere tutto, per cambiare il mondo. 


NO TACCONI ORA SO CHE NON BASTA...

No, Tacconi, ora so che non basta sganasciare la dirigenza politico-economico-social-divertentistica italiana. La rivoluzione deve cominciare da ben più lontano, deve cominciare in interiore homine.

Occorre che la gente impari a non muoversi, a non collaborare, a non produrre, a non farsi nascere bisogni nuovi, e anzi a rinunziare a quelli che ha. 

La rinunzia sarà graduale, iniziando coi meccanismi, che saranno aboliti tutti, dai più complicati ai più semplici, dal calcolatore elettronico allo schiaccianoci.

Tutto ciò che ruota, articola, scivola, incastra, ingrana e sollecita sarà abbandonato. Poi eviteremo tutte le materie sintetiche, iniziando dalla cosiddetta plastica. Quindi sarà la volta dei metalli, dalle leghe pesanti e leggere giù giù fino al semplice ferro. 

Né scamperà la carta. Eliminati carta e metallo non sarà più possibile la moneta, e con essa l’economia di mercato, per fare posto a un’economia di tipo nuovo, non del baratto, ma del donativo. Ciascuno sarà ben lieto di donare al suo prossimo tutto quello che ha e cioè – considerando le cose dal punto di vista degli economisti d’oggi – quasi niente. Ma ricchissimo sarà il dono quotidiano di tutti a tutti nella valutazione nostra, nuova.

Saranno scomparse le attività quartarie, e anzitutto i grafici, i P.R.M., e i demodossologi. Spariranno quindi le attività terziarie

LA VITA AGRA

I

Tutto sommato io darei ragione all’Adelung, perché se partiamo da un alto-tedesco Breite il passaggio a Braida è facile, e anche il resto: il dittongo che si contrae in una e apertissima, e poi la rotacizzazione della dentale intervocalica, che oggi grazie al cielo non è più un mistero per nessuno. La si ritrova, per esempio, nei dialetti del Middle West americano, e infatti quel soldato di aviazione che conobbi a Manduria mi diceva “haspero” mostrandomi il ditone della mano destra ingessato, e io non capivo; ma poi non c’è nemmeno bisogno di scomodarsi a traversare l’Oceano, perché non diceva forse “Maronna mia” quell’altro soldato, certo Merola della compagnia comando, che era nato appunto a Nocera Inferiore?

Le altre ipotesi, che cioè all’origine ci sia un bassolatino Braida, o un latino classico Praedium, hanno per me interesse minore, e in quanto al significato concordano tutte, comunque. Campus vel ager suburbanus in Gallia Cisalpina. Insomma, uno slargo, uno spiazzo vicino all’abitato, un pezzo di verde intra moenia, dove si tenevano le fiere di bestiame e magari ci bazzicavano le prostitute, a notte. Ora, siccome accanto allo spiazzo nostro c’erano le case di un tal Adalgiso Guercio, la gente continuava a dire la Braida del Guercio.

Storto d’occhi ma dritto d’animo, il pio Adalgiso fece dono delle sue case all’ordine degli Umiliati, del quale per la verità so poco: so che in quelle case del Guercio misero la loro prepositura, che poco dopo l’ordine si estinse, e che la Braida passò automaticamente al cardinale arcivescovo monsignor Chiesa. Più tardi un sant’uomo, Carlo Borromeo, destinò là dentro i compagni di Gesù, che vi tennero la loro casa insegnante. Ma intanto la vecchia Braida del Guercio, che nessuno ormai chiamava più così, era diventata un palazzo, e più precisamente un’ala del palazzo odierno, quella che guarda sulla via Adelantemi. Guarda per modo di dire, perché le finestre sono sbarrate, e le mura massicce di un rosso ferrigno, con un’aria complessiva di fortilizio. Come tutti sanno, nel 1773 i compagni di Gesù si scompagnarono e così quelli della Braida smisero di insegnare, e proprio allora la cattolicissima imperatrice Maria Teresa, saggiamente consigliata dal principe Kaunitz, riunì là dentro il lascito librario del munifico conte Pertusati, la vecchia biblioteca dell’ordine, altre raccolte minori, e aprì alla cittadinanza colta una nuova e doviziosa fonte del sapere.

Intendiamoci: tutte queste cose io le ho imparate proprio alla vecchia Braida del Guercio, perché amo documentarmi e non parlare mai a casaccio. Nemmeno con gioia, lo confesso – e lo confesso volentieri perché dà più merito alle mie fatiche di ricercatore. Ci entravo ogni volta con una specie di trepida ansia, che somigliava assai allo sbigottimento. Già mi intimoriva, nella sala dei cataloghi, fra i grossi tomi dei vecchi repertori manoscritti – dove l’inchiostro arsenicato invecchiando luccica e rode la carta, pur ottima, di duecento anni or sono – e le cassettine dei nuovi accessi (nuovi per modo di dire, in realtà appena posteriori al 1924 e fermi a prima della guerra), già mi intimoriva il grosso ritratto incombente dell’imperatrice, paffuta e vestita di nero, con in mano una cartapecora penzoloni che non guardava, perché teneva fissi su di me gli occhi materni, anzi nonneschi.

Una nonna che aveva lasciato non soltanto la biblioteca, ma anche i talleri d’argento, come quello che mi fece vedere il Macii tornando dall’Abissinia. Chissà quante volte si era svalutata la lira, e il governo aveva cambiato zecche e conii, mentre intanto i talleri della vecchia imperatrice erano rimasti buoni, non solo per i sudditi di ras Tafari, ma anche per i nostri soldatielli, che volentieri se li portavano a casa e li custodivano gelosamente.

Mi intimoriva lo sguardo di questa nonna pasciuta, serissima e forse un po’ avara, che occupava mezza parete, appesa alla balconata di legno, in mezzo alle scaffalature altissime, su su fino alle volte con graffiti i ritratti di Virgilio, Orazio, Lucano eccetera. E con una punta di angoscia consegnavo il talloncino giallo delle richieste agli impiegati dietro il bancone.

Non so per quale disposizione ministeriale, questi giovani addetti alla consegna dei libri in lettura erano quasi tutti mutilati alle mani. A chi mancava un dito, a chi due, a chi tutti e cinque. Qualcuno aveva la mano di legno e cuoio dentro il guanto nero, ferma e secca nella positura di chi te la offre alla stretta, ma senza poterla stringere. Né poter segnare sulla scheda di richiesta il numerino corrispondente al tuo nome; tanto vero che qualcuno aveva dovuto imparare a scrivere con la mano buona (buona in senso relativo, a scrivere insomma con le tre dita residue della mano sinistra), oppure ad aiutare il moncherino intervenendo con la bocca; e allora vedevi l’uomo chino sul tavolo scapeare iroso, furibondo, sembrava, i denti serrati sul mozzicone della matita. E io sinceramente mi sentivo in colpa, d’aver chiesto il libro e di costringere questo pover’uomo, in tutto uguale a me fuor che nel numero delle dita, a un simile inverecondo calvario.

Le schede di richiesta sparivano dietro una porticina, e qualcuno certo saliva su, per soppalchi e soffitte, a cercare il libro polveroso. Io non ci sono mai stato, ma mi hanno detto che i depositi della biblioteca erano e sono stipatissimi, accessibili per passaggi e cunicoli e pertugi stretti, e così bassi che un uomo di normale statura difficilmente li raggiungerebbe. Ecco perché – me l’hanno detto, ma io veramente con gli occhi miei non li ho mai visti, e non potrei quindi giurarci – la direttrice della biblioteca – aveva un nome tedesco, questa signora, ad accrescere il mio sbigottimento, quasi fosse una nipote, o una protetta, insomma una fiduciaria dell’imperatrice dei talleri – la direttrice della biblioteca utilizzava per il ritrovamento dei libri altri uomini di piccolissima statura, reclutati in Val Brembana, e forse anche nani autentici da circo equestre.

E nemmeno quietavano i miei rimorsi i lettori abituali, quelli che entravano in sala grande: in trepida attesa del mio libro – una miscellanea sulle origini della biblioteca per esempio – vedevo sfilare ora una ragazza paraplegica, la gamba sinistra sottilissima e il piedino sghembo, ora un vecchio coi capelli bianchi irsuti e scomposti, il capo torto da un lato, gli occhi sbarrati, o strabici, o abbogliorati dalla cataratta, ora persino un infermo sulla carrozzella da invalido, spinto da un’anziana donna vestita di nero e con la cuffia, che sembrava una monaca. Non vedevo l’ora di consegnare il talloncino giallo al banco della restituzione, varcare la porta a vetri, e prendere giù per l’ampio scalone.


Tutt’altra cosa, là fuori. I gradini erano larghi e comodi, tagliati per piedi cardinalizi. Ora, tante cose io invidio ai cardinali, ma più di tutto le scarpe, che sono agili di fiosso, morbide di spunterbo e larghe, sì che le dita ci stanno ben distese e slargate nelle calze di seta rossa, senza duroni, né lupinelli, né accavallamenti del terzo sul secondo dito, né unghie incarnite come succede a noialtri laici, funestati dalle punte strette e tigliose delle scarpe che fabbricano in serie non sulla forma del piede, ma sulla Füssgestalt, certi calzolari hegeliani. A scendere quello scalone capivi di aver sbagliato chissà quante scelte importanti, in vita tua; nemmeno il passo era giusto, inadeguato per via dei calzoni che dismagano l’onestà dell’incedere. Erano scalini da scendere in tonaca, con piede posato e solenne e comodo.

Alla svolta della prima rampa una vaschetta di bronzo appesa al muro avvertiva gli entranti di spegnere il sigaro, ed anche quella scritta mi intimoriva, mentre accendevo la nazionale e posavo con cura là dentro il cerino. C’era da percorrere un passaggio a volte altissime, in penombra, fiancheggiato da tante statue, calchi o copie cioè di nudi classici, mutili nel sesso quelli maschili, non so se per ira dei compagni di Gesù o se per beffa dei ragazzi che, lì accanto, frequentavano le belle arti.

La luce ti coglieva giù in fondo, dove il passaggio buio sbocca nel cortile. C’è subito una fontanella col mascherone che tiene in bocca un tubo ricurvo in giù: tu premi un bottone lì accosto e attingi col ramaiolo di ferro stagnato. Mi fermavo sempre a bere, prima di dare un’occhiata all’intorno, sul cortile quadrato pieno di archi, di colonne e di statue. Principalmente erano busti, ma ai personaggi più importanti era toccata la statua intera, a grandezza naturale e forse di più, tutti in piedi con la gamba sinistra piegata in avanti; e siccome le statue erano messe proprio a filo con le arcate, mentre il resto della figura s’era coperto di fuliggine e di sudiciume, un ginocchio, appunto il sinistro, restava bianco e nitido grazie al continuo dilavamento delle acque piovane. I personaggi di pietra stavano lì fermi a lavarsi il ginocchio, e per occupare le mani tenevano, secondo il mestier loro, chi un tomo, chi un cartiglio, chi una sfera, guardandola fissamente, come fa l’indovina col globo di vetro. Al centro del cortile sorgeva la statua bronzea di Napoleone, nudo, con le natiche tonde, atticciato e forse anche un po’ pingue (ma sempre in vantaggio sulla verità fisica di quel securo), ambedue le mani occupate, la destra da una vittoria alata, ritta in punta di piedi sopra una sfera, la sinistra su una pertica, forse un’asta di bandiera, forse una lancia spuntata, io non so bene.

Era grande il palazzone della biblioteca, già casa insegnante dei compagni di Gesù, e prima ancora prepositura degli Umiliati e alle origini Braida del Guercio. Io ho parlato diffusamente della biblioteca perché lì mi conducevano sovente, vincendo rimorsi e angustie, i miei scrupoli di giovane erudito, ma ci sarebbe da dire anche, potendo, della pinacoteca, dove si conserva un famosissimo Cristo, grosso e grigio, coi piedoni avanti, e morto, morto senza speranza di resurrezione. O dell’osservatorio astronomico, con la sfera della specola su in cima, che dà la temperatura e le previsioni del tempo per domani; o dell’orto botanico, che non ho purtroppo mai visto, ricco di piante rare, anche tropicali, capaci di crescere nonostante il freddo e l’umido, grazie a chissà quale miracolosa combinazione di muri e di giri d’aria inspiegabilmente calda soltanto lì. Basti pensare che nella baracchetta per le zappe e le vanghe e le cesoie del giardiniere aveva trovato alloggio – una branda e un tavolo – Gaetano il pittore di Napoli. Una baracca di tavole, piena di fessure, battuta dagli spifferi, eppure Gaetano si serbava vegeto e rosso in viso come quando era venuto su dal suo paese. E c’era infine la scuola delle belle arti, con le sue aule che davano sul cortile: ornato, figura, geometrico, era incisa sopra l’uscio, e verso mezzogiorno sciamavano gli alunni, lunghi, capelluti e dinoccolati, e le ragazze col mongomeri verde o rosso, una gran cartella sotto il braccio e la chioma legata a coda di cavallo sulla nuca.

Le vedevi sostare accanto a una colonna, indugiare sul portale, tante macchie di colore con sullo sfondo l’abside della vecchia chiesa, ferrigno e verde di rampicanti, dall’altra parte della strada. Quella si chiama la chiesa di San Fruttuoso, sconsacrata da chissà quanto, e buona nemmeno più per l’archivio di stato, che prima c’era, ma adesso ha sloggiato non so dove. La navata è ingombra ormai di legname sfasciato e imporrito, e del vecchio archivio resta appena una fila di colombai. I muri si scrostano, i pochi graffiti pigliano la muffa, ma l’abside sta in piedi; l’hanno serbata perché faccia da quinta, giù in fondo, fra i due parallelepipedi di vetro e cemento lustrato d’un palazzo nuovo, pieno di gente che da mattina a sera fattura la produzione metalmeccanica.

Anche da lì dopo mezzogiorno usciva un fiume di persone, ma erano diverse: tetri e aggobbiti gli uomini, ritte e secche le donne, la testa alta, la faccia immobile, tranne un ritmico vibrar delle gote, per il contraccolpo dei passi rigidi sui tacchi a spillo. Tutti sembravano voler fuggire da queste strade a loro estranee, e infatti filavano via senza un’occhiata attorno, né al palazzone di cotto, né alle ragazze in mongomeri colorato, né ai gruppi di capelluti che sostavano poco oltre, dinanzi ai due caffè: il caffè della Braida e il caffè delle Antille.

In quel punto la via Adelantemi inverte il suo nome, e continua ciottolosa – soltanto la carreggiata di pietra liscia al centro, e per il resto selci tondi di fiume – e passa dinanzi a un bottegone di antiquario, tre o quattro ristoranti, dove mangiavamo noi, cambiando porta secondo i soldi che avevamo in tasca: il Quattrino era il più economico, non c’erano né tovaglie né tovaglioli, e la pastasciutta te la scodellavano con le mani in quel buco di cucina così accosto ai tavoli di legno che d’inverno molti li preferivano appunto per questo; poi la latteria delle tre pie donne, così fiduciose nella provvidenza e nel prossimo che spesso noi si riusciva a pagare la metà di quel che si era mangiato; infine il Bersagliere, riservato per i giorni dello stipendio, un ristorante al solito toscano, cioè meglio, di Altopascio o di Chiesina Uzzanese, o forse del Ponte, non ricordo bene. Più avanti via Adelantemi (col nome invertito però) vantava due postriboli, sì che non riuscivi a dirne il nome senza sorridere un po’.

Era una strada tranquilla e tutta nostra; il traffico quasi non ci si azzardava, ma anche in via della Braida, che pure è centrale e frequentata, le auto sembravano riconoscere che questa era zona nostra e rallentavano più del dovuto, e i piloti non s’arrabbiavano né facevano le corna se un pedone uscito dal caffè delle Antille traversava senza guardare, obbligandoli a una secca frenata. Per tacito consenso insomma quella era la nostra isola, la nostra cittadella. Ci abitavo anch’io, poco oltre l’incrocio, dove via della Braida, pur restando identica per larghezza e colore, cambia nome, ne prende uno risorgimentale, a ricordo della campagna del ’59, quando vinsero i francesi.

Più che abitare, diciamo che dividevo una camera mobiliata al terzo piano del numero otto, con un fotografo che si chiamava per l’appunto Carlone. Al suo paese, mi spiegò, oltre che studente di liceo, era trequarti nella squadra di rugby, e io potevo credergli anche soltanto a guardarlo, perché era massiccio e falsamente alto (ci sono tipi così, come ci sono i falsi gobbi, mettiamo, o i falsi nani, cioè i gobbi dritti e i nani lunghi). Carlone misurava un metro e ottanta, non lo nego, ma non per questo era un uomo alto davvero, un uomo come me: era lungo e greve di tronco, insomma, ma corto di gambe e basso di sedere, proprio come si conviene, del resto, a un giocatore di rugby, che deve offrire il minor appiglio possibile al placcaggio avversario. Forse è per questo che non portava mai i calzoni del pigiama (la misura della giacca non poteva combinare con la lunghezza dei calzoni, infatti) e coricandosi mostrava, proprio sull’osso sacro, un ciuffetto di peli, come un residuo di coda.

Siccome al liceo andava bene in italiano, era venuto su con l’idea di farsi giornalista, ma poi qualcuno gli consigliò, proprio per via della sua mole e della pratica nel gioco del rugby, di scegliere invece il fotoreportaggio, un mestiere che richiede buone spalle, se vuoi farti largo nella calca e scattare il flash al momento buono. Carlone aveva accettato, e adesso lo vedevo, rincasando, steso sul letto a sfogliare vecchi numeri di “Life”: così, diceva, per trovare un’idea, uno spunto. Qualche volta, se non avevo voglia di salire in biblioteca per le mie ricerche, lo accompagnavo fino alla Mondialpicts, l’agenzia fotografica dove lavorava insieme ad altri due ragazzi, alloggiati nella camera accanto alla nostra, Mario e Ugo. Alla Mondialpicts comandava un ragioniere con gli occhiali, basso e tondo, che si tratteneva il cinquanta per cento su tutto il fatturato, e in cambio dava a nolo le macchine e i rotolini, anticipava le spese e prestava la camera oscura per lo sviluppo. Nient’altro: i servizi ciascun fotografo doveva cercarseli da sé, girando per le redazioni, inventarli, con la speranza che poi qualcuno li comprasse. E il ragioniere tratteneva il suo cinquanta per cento più le spese. Idee Carlone ne aveva: ogni tanto pigliava il treno, diretto a Genova, a Venezia, oppure alla campagna romagnola, come quando mi spiegò che aveva in mente di abbinare, con una gita sola, due servizi: sul pugile Cavicchi e sul paesaggio pascoliano.

Rientrava dopo un paio di giorni con la faccia stanca, perché le notti le passava alla sala d’aspetto della stazione, per risparmiare. Lo vedevo crollare sul letto greve, massiccio e ansante come un bufalo. Rincasavano anche Ugo e Mario, e li sentivo litigare, come al solito. Fui io, mi ricordo, a spiegargli come comportarsi, per un servizio sui giurisdavidici e sul santo Davide: gli detti anche una lettera per il Dieciné e una per il Tommencioni. Ma poi, dall’altra parete, giungeva un rumor di tosse secca e insistente; al solito, ormai lo sapevo, era Aldezabal, il basco, il pelotaro con la bronchite cronica. Insomma le stanze affittate al numero otto, terzo piano, erano tre: la nostra – di me e di Carlone – nel mezzo, fra quella di Ugo e Mario, e quella dei pelotari, cioè Aldezabal, Gazaga detto braccio di ferro e Barranocea.

Giunsi a conoscerli abbastanza bene, questi tre giovanotti baschi, neri di capelli e di occhi, già un poco pingui, col braccio destro deformato dal mestiere e i gomiti dalla sinovite. Perché il buon pelotaro non perde le palle basse, e sa al momento giusto crollare a terra, fare perno sul gomito, ricevere nella cesta e ribattere sul muro del frontis. Lo spettatore competente anche a occhi chiusi potrebbe seguire un incontro di pelota, riconoscere dal suono della palla chi ha chiuso: quando schiocca chiara sul linoleum il colpo è andato a segno, ed è fuori invece quando tonfa sul legno o strepita sulla cornice di lamiera. Basta il suono.

Fu Carlone a portarmi alla palestra di via Palermo, e m’insegnò a scommettere, e le prime volte vincemmo anche un migliaio di lire per uno, al totalizzatore dove una fila di uomini in maniche di camicia punzonavano rapidi i biglietti. C’era dentro parecchia gente, più che altro uomini, con le basette lunghe e la spilla alla cravatta, ma anche qualche donna col cappello all’antica, che stava a guardare morsicando semi di zucca e urlando a tratti: “Chiudi!” ai pelotari oltre la grande rete di ferro.

Entravano due alla volta nella gabbietta in fondo, vestiti di bianco, legandosi la cesta attorno al polso, seri e indaffarati, a lunghi passi la maggior parte, pochi correndo, come per esempio Angel, che si dava le arie. Ormai li conoscevo tutti: astuto il vecchio Arata, e imprevedibile con le sue farmacie, cioè coi suoi tiri bassi e lenti che ricadevano appena sotto il margine inferiore del frontis; poderoso e taciturno Luis, la spalla, che andava a rebote con una tesa sciabolata, spesso imprendibile; scorbutico e livido in viso Aldezabal, come tutti quelli che hanno la bronchite cronica. “Eccolo, lo vedi?” mi diceva Carlone. “Eccolo, il tossitore maledetto.” Per parte mia ammiravo più di tutti Gazaga, detto braccio di ferro, contubernale della stanza accanto. Ci ho anche parlato qualche volta, ed era un uomo serissimo: sapeva di Franco, delle Asturie, della miseria di casa sua, e perfino di come era fatta Tampa, in Florida, dove andava a giocare almeno due volte l’anno. Gli incontri – tredici mi pare – finivano dopo la mezzanotte; il pubblico sfollava sulle motorette o a piedi, i pelotari andavano a cena e poi li sentivamo rincasare verso le due, Aldezabal con la solita tossaccia insistente.

Glielo diceva anche la padrona di casa, che si facesse vedere da un medico; e una domenica anzi che Aldezabal aveva la febbre e rimase a letto, fu lei a preparargli una tazza di latte a bollore, con dentro un bicchierino di grappa, che fa tanto bene alla tosse. È vero che poi gliela mise in conto, alla fine del mese, ma non per avarizia.

Vedova da chissà quanto, e con due figliole malmaritate per casa – vedova come lei la maggiore, di un campione motociclista che s’era ammazzato in corsa, nel quaranta se ben ricordo – la signora De Sio doveva tirare avanti coi quattrini delle camere mobiliate, che non sempre arrivavano puntuali. E non ce la faceva a tenere in ordine, perché le figliole non muovevano un dito: otto letti non sono uno scherzo, sono sedici lenzuola. Per questo la signora De Sio ce ne cambiava uno ogni quindici giorni: passava sotto quello di sopra, che si sporcava un po’ meno e aggiungeva il nuovo.

Di mettere una stufa nella camera – il buco per passarci il tubo c’era – io e Carlone la pregammo un paio di volte, ma non fu possibile perché, disse la signora De Sio, poi anche gli altri avrebbero voluto il caldo. E il caldo, a parte la spesa della legna e il fumo e lo sporco che fa, oltre tutto mica giova alla salute come sembra. I raffreddori e le polmoniti si pigliano proprio quando in casa fa caldo, e si esce sudati per strada. Aldezabal per esempio aveva la bronchite cronica appunto perché lavorava allo sferisterio, caldo di radiatori, di fumo e di fiati. Era una brava donna, questa signora De Sio, sempre in casa a rattoppar lenzuoli e a lavare biancheria, da quando il marito le era morto, su in Val di Fiemme.

Certe sere mi raccontava dei tempi di Franz Joseph, l’imperatore alto, baffuto, col mantello bianco in groppa a un cavallo bianco, il giorno che venne a far visita ai suoi bravi sudditi italiani del Sudtirolo, e capitò anche al paese di lei, in Val di Fiemme. Dietro il suo cavallo venivano ufficiali bellissimi, tutti bianchi anche loro e col pennacchio, ben diritti in sella – il bustino portavano, questi ufficiali austriaci, per slanciare la figura – e al paese non si era mai veduta una festa così. Era un gran bell’uomo l’imperatore Franz Joseph, altro che quel gambecorte d’un italiano che avevano messo dopo la sua morte, e che lassù non si era mai fatto vedere.

Pagavano poche tasse, i sudditi italiani, la polizia quasi non c’era, soltanto due gendarmi boemi vecchi e coi baffi, che la sera giocavano a briscola col prete e col farmacista. Mentre dopo dall’Italia, giù, avevano cominciato a mandare questurini su questurini, piccoletti, neri e con gli occhi cattivi. Per non parlare poi degli altri vantaggi: il passaporto, per esempio, che ti portava fino a Vienna, fino a Budapest, fino a Cracovia in Polonia, senza bisogno di visti né di dogane. Certe sere di pioggia stavo anche un’ora a sentir parlare di Franz Joseph, che fu imperatore per cinquant’anni filati. Certo, anche quel gambecorte d’un italiano era rimasto sul trono cinquant’anni, ma cosa comandava, quel poveretto sposato con la montanara pecoraia, se a Roma c’era quell’altro, quello tutto nero, a fare e disfare ogni cosa?

La signora De Sio mi faceva accomodare in cucina, con quel po’ di caldo della stufa economica, e intanto la figlia minore, secca e stirata e coi nervi a fior di pelle, o giocava al solitario o sculacciava la bambina: un anno ormai che era nata, ma quel pelandrone del fidanzato, oltre a tirare di scherma, un posto che fosse un posto non lo trovava mai, e senza stipendio e senza casa di sposarsi non se la sentiva. Poco prima di cena rientrava la sorella maggiore, la vedova del motociclista: tranquilla lei per quanto l’altra era secca e bisbetica, sorridente, con negli occhi un lampo d’ironia.

Il figliolo del motociclista l’aveva ficcato in un collegio di Vittorio Veneto, s’era trovato un commerciante all’ingrosso, che veniva su il sabato e le passava un bel mensile, abbastanza da star tranquilla, vestirsi bene, non fare nulla dalla mattina alla sera. La vedevo quasi sempre rincasare insieme a Franz il triestino, e tutti e due si mettevano subito a fare i complimenti alla vecchia De Sio, sempre fresca in viso nonostante i settant’anni, e con quella bella chioma bianca e pulita. Dopo cena giocavano anche una partita a scopa, e a Franz il triestino non mancavano le battute per tenere allegra tutta quanta la compagnia, mentre sulla stufa economica bolliva il pentolone con le castagne nuove da pelare più tardi, e berci sopra un bicchierotto di vino.

Verso mezzanotte anche le donne si coricavano, e Franz il triestino se ne tornava a casa sua, vicino alla palestra della pelota, a pensione da un’altra giovane vedova, che lo stava ad aspettare con l’orecchio teso e poi entrava nel suo letto. “Mi raccomando, Franz,” diceva la vedova di via Palermo dopo aver fatto all’amore, “mi raccomando l’affitto. Siamo già al dieci e non mi hai dato una lira.” La vedova distingueva fra gli affari e il piacere. Magari lui la stava ancora carezzando, nella distensione stanca che viene dopo, e lei, gli occhi umidi e fissi in aria, poteva sembrare che si gustasse quell’abbandono, ma invece: “Stamani hai telefonato, vero Franz? Non lo negare perché ti ho sentito. Guarda che ti segno le venticinque lire. Il mese scorso me l’hai dato il bidone, eh Franz? Erano trentasei le telefonate, l’ho visto dalla bolletta”.

Ogni tanto la sera io uscivo con Franz il triestino, a passeggiare per le strade dopo cena, a bere qualcosa in una tampa piena di fumo e di uomini con gli occhi rossi e il viso duro, bluastro, a cantare. Io cerco sempre la compagnia dei triestini, perché sono uomini franchi e ventilati, aperti e disponibili a influenze composite, slave, absburgiche, dalmate e veneziane. E poi Franz sapeva un mucchio di cose.

Per esempio fu lui a insegnarmi certe belle antiche canzoni di guerra, come quella del principe Eugenio nobile cavaliere che vuol riconquistare – ma meglio ancora wiederkriegen, come dice appunto l’originale – le città di Pest e di Belgrado. Così, circa il tre di luglio arriva una spia e dice al principe Eugenio dass die Türken wollen Donau übertragen, vogliono, ’sti Turchi, traversare il Danubio con trecentomila uomini, Dreihunderttausend Mann. Il motivo, che qui non posso riprodurre, ha un bell’andamento da coro gregoriano. Oppure l’altra di Carlo VIII il quale, promettevano i suoi alabardieri, fera si grandes batailles qu’il conquerra les Itailles, per poi entrare in Gerusalemme e salire sul Monte Oliveto. Nelle tampe e nei trani e nelle crôte piemunteise spesso si cantava, allora. Franz il triestino, io, il pittore Ettorino, e tanti altri.


Il pittore Ettorino suonava anche un po’ la chitarra, e fui io questa volta a insegnargli la canzone del mio giardino con in mezzo la fontanella che butta l’acqua. Sulla prima a, sospesa, la nota va tenuta forte e lunga, e la canzone richiede fiato: “C’è l’a… c’è l’acqua fresca e bella, per annaffiar i fior”. Anche Ettorino sapeva tante canzoni, la donna lombarda per esempio, o il Meazza che va a Tortona e ci trova una barbona per un franco, oppure l’altra del Coltellacci, anzi del Curtlass, che all’improvviso salta fuori come Priapo, e spaventa passeri, ladri, gente normale e persino gli amici, cunt el bigol lung ’on brass.


Poi Ettorino ammutoliva, vuotava il suo bicchiere, e dopo un po’ attaccava a discorrere di pittura. “Tu dici che Dufy è un grande pittore. E va bene, Dufy è un grande pittore, Manet è un grande pittore, Monet è un grande pittore, Pissarro è un grande pittore, Cézanne è un grande pittore, Van Gogh è un grande pittore, Picasso è un grande pittore. Va bene, e poi? Poi cosa facciamo? Cosa faccio io? Ricominciare da più lontano, dici tu. Va bene, perché Mantegna è un grande pittore, Luini è un grande pittore, Caravaggio è un grande pittore… E poi? Poi cosa facciamo? Cosa faccio io?” E mi guardava come se la risposta io la sapessi. Invece non la sapevo e lui riattaccava: “Allora, come si diceva Fattori è un grande pittore, Lega è un grande pittore, Signorini è un grande pittore…”.


E non la finiva più, triste e opaco con tutte quelle elencazioni. Fuori le strade si incupivano di nebbia, le case avevano serrato porte e finestre, e attorno ai lumi c’era un alone umido e fuligginoso. Gli omaccioni bluastri sonnecchiavano, col capo appoggiato al tavolo, le guance e il naso distorti e accesi dal vino. Anche al bar delle Antille si spegnevano le ultime stracche chiacchiere, fumavano lentamente le ragazze pallide, vestite di nero, coi capelli appiccicosi e i piedi sporchi di melletta. I quattro giocatori di tressette nemmeno litigavano più, soltanto la signora Gianna, seduta a un tavolo davanti a un gobbetto, in mano il grappino, mostrava i denti allungati dalla piorrea e continuava a insolentire: “Le cambiali. Lo so io la grana che mi tocca di cacciare, ’sto mese, per le cambiali. Questo paese di gesuiti. Ma lo sa lei che quest’anno ci sono stati ottocentomila aborti clandestini in Italia? Lo sa? Paese di merda”.

II

Fu una rara domenica di sole, a novembre, che ricordo come fosse ora. Ti desta un organo di Barberia che suona Scapricciatiello, le note si rincorrono a cascata e salgono al terzo piano per bussare alla finestra, e Carlone si rigira mugolando sotto le coperte e si scopre e mostra il ciuffo dei peli sull’osso sacro. Di là sfaccenda la signora De Sio, la figlia minore sculaccia la bambina che strilla, anche i suoi strilli oggi suonano allegri perché è una domenica di sole. E strepita Franchino figlio del motociclista ammazzato, oggi l’han lasciato venire dal collegio di Vittorio Veneto a trovare la mammina, e la mammina oggi è contenta e contenuta e pudica proprio come si conviene a una brava mamma. In bagno c’è il fotografo Mario che sogna Parigi e canta le rififi e dimentica l’accusa della signora De Sio, che lui avrebbe intasato la tazza del cesso l’altro giorno. Si fa la barba e canta le rififi e io vedo la sua faccia bislacca con le gote spumose riflessa nel quadratino di specchio al bagno. Bello è vestirsi coi panni puliti, la camicia bianca che sa un poco di muffa, perché non l’hanno fatta asciugare a dovere con l’umidità di questi giorni, tempo infame. Ma si asciugherà più tardi addosso a me per strada al sole dove già sfilano le ragazze sempre col cappotto ma aperto davanti a mostrare il gonfio dei seni. Seni dico e non petto perché quassù il petto delle donne te lo puoi scordare, il petto voglio dire come uno zaino di ciccia, una sola cosa compatta e unita come hanno le donne di campagna. Seni, tette e tettine oggi sporgono dal cappotto un poco aperto per via del sole raro di questa domenica di novembre, la gente sorride. Il caffè oggi lo prendiamo doppio al bar delle Antille dove per fortuna non si fanno vedere i pittori capelluti e le ragazze nere coi piedi sporchi, ma soli noi due, io e Carlone a parlare delle parti nostre e di com’era la domenica laggiù, noi fermi in piazza del Duomo a guardare le ragazze col petto che escono dalla messa di mezzogiorno. Anche qui certo faranno le messe ma a guardare sul sagrato non c’è nessuno. Un discorso tira l’altro e si arriva passeggiando lemme lemme fino al tocco il tocco e mezzo quando spunta l’appetito e si decide di andare insieme al “Bersagliere” che con ottocento ottocentocinquanta lire ti dà la pastasciutta e la costata e magari anche un quartino di vino e una mela. La costata bisogna dire alla cameriera perché se dici bistecca ti dà la braciola e se dici braciola non ti dà niente, rimane lì incantata a dire prego signore. Bisognerebbe fissare per legge come si chiamano, in Italia e con un nome solo, i vari tagli della vitella, il lombo, la fesa, che non avevo mai sentito prima d’ora, la fesa francese, la piccata, la paillard, il portafoglio all’Attilio, l’ossobuco, il filetto, il controfiletto, il nodino, il biancostato e il magatello. Dopo, un altro caffè doppio e si rimane a ciondolare ai tavolini del bar delle Antille senza badare ai pittori capelluti e alle ragazze coi piedi sporchi, soltanto noi due, Carlone e io, vecchi compagni contubernali del numero otto terzo piano, amici come soltanto sono amici due uomini quando intorno c’è il pericolo. Come una notte di settembre, vicino a Lecce, quando scendevano rossi i bengala, grappoli dell’ira, uva della collera, insomma the grapes of wrath perché erano bombe inglesi, e fu Dodi a destarmi e mi vide le mani tremare e mi ci mise una sigaretta e la fumammo vicini accosto al muretto del vigneto, mentre di lassù scaricavano tonnellate di tritolo addosso ai tedeschi della Goering in fuga verso nord. Così ora con Carlone la sigaretta scambiata è un pegno di amicizia a difesa contro quest’altra collera grigia della città che si stringe attorno a noi e minaccia quest’isola nostra, appena oltre il tavolino nostro di ferro intravedi sotto la griglia scorrere impetuosa l’acqua della fogna che mina il tuo terreno e da un momento all’altro tutto può crollare, aprirsi una voragine che inghiotte noi e le Antille e tutta quanta la strada giù fino al palazzo della Braida Guercia. Resteremo noi due, Carlone e io, aggrappati a un relitto, travolti verso il fiume scuro della Vettabbia, dell’Olona, del Redefossi, ma intanto la sigaretta scambiata è pegno di amicizia, e nulla cancellerà mai questo pegno. L’amicizia di due uomini è più forte di una preghiera, sì, ma quando compare Anna e sorride nel sole, allora già in quell’amicizia qualcosa si è incrinata, perché io sono di Anna e Carlone sente che già nel pensiero io lo tradisco, perché un amico vero non sarà mai di una donna, una donna è sporca e insudicia persino le preghiere e Carlone sa che domani Anna sarà più forte di lui. Cupo ci segue giù per la strada e io so che per lui questo raro sole di domenica non brilla più, che in testa gli si è aperto un buco di buio, e così come a rinforzo chiama Ettorino, chiama un altro, perché il pugno di uomini amici sia più forte di quest’altra forza ora intervenuta, Anna bionda nel sole e grande e chiara. Io le stringo il braccio sotto il mio, fiero perché Anna è bella e tutti sappiano che è mia, soltanto mia. Ma gli altri tacciono, e continuano a tacere in casa dell’altro pittore, squallida e nuda tranne le due poltrone e la rete di ferro dove sediamo noi due felici tenendoci per mano, i pittori di là a mostrarsi le tele e Carlone accucciato per terra, le spalle contro il muro, in mano il bicchiere pieno a tirarne un sorso ogni tanto. Ettorino ha ricominciato con Dufy, Dufy è un grande pittore, Pissarro è un grande pittore, Utrillo è un grande pittore, ma i nomi si spezzano per terra come bicchieri e non resta più nulla. Nemmeno la canzone del Curtlass riempie più quel buco di buio in testa a Carlone cupo e tradito, solo il bicchiere può riempirlo quel buco, e allora io lo vedo saltare su e comincia il suo ua-da-da-ua, l’indice alzato, e dice vieni Anna balliamo. Anna gira e gira appesa in cima alla mano di Carlone, e la gonna ampia nera pieghettata fa una corolla attorno alla colonna delle gambe e lei ride e ride e ride, e Carlone saltabecca col suo ciuffo di pelo sull’osso sacro che è un residuo di coda, una coda anzi, io so che esistono uomini così in certe isole etniche cisalpine, uomini capri, uomini tori, uomini bestie che danzano alla sera, e sto a guardare col bicchiere in mano e penso che non ho una coda, perché sono uomo compiuto e adulto e civile, io.


Non fu così, certamente, ma così avrei potuto pensare e scrivere, dieci anni or sono, la serata in casa del pittore con Ettorino e Carlone. L’avrei pensata e l’avrei scritta come un bitinicco arrabbiato, dieci anni or sono, quando il signor Jacques Querouaques forse non aveva nemmeno imparato a tirarsi su i calzoni. L’avrei fatto, ma mi mancò il tempo e mi mancarono i mezzi.


Datemi il tempo, datemi i mezzi, ed io farò questo e altro.


Costruirò la mia storia a vari livelli di tempo, di tempo voglio dire sia cronologico che sintattico.


Farò squillare come ottoni gli aoristi, zampognare come fagotti gli imperfetti, pagine e pagine di avoivoevo da far scendere il latte alle ginocchia, svariare i presenti dal gemito del flauto al trillo del violino alla pasta densa del violoncello, tuonare come grancasse e timpani i futuri carichi di speranza.


E se proprio volete, ve li farò sentire tutti insieme, orchestrati in sinfonia.


Vi mostrerò il muso della tinca, davanti alla fiocina del sub, cinquanta metri sotto il faraglione, per dissolvere poi, lento, su quell’altro muso di tinca, quando lo aggredisce il raschietto del ginecologo.


Vi darò la narrativa integrale – ma la definizione, attenti, è provvisoria – dove il narratore è coinvolto nel suo narrare proprio in quanto narratore, e il lettore nel suo leggere in quanto lettore, e tutti e due coinvolti insieme in quanto uomini vivi e contribuenti e cittadini e congedati dell’esercito, insomma interi.


Proverò a riscrivere tutta la vita non dico lo stesso libro, ma la stessa pagina, scavando come un tarlo scava una zampa di tavolino. Ricordo che dalle mie parti, appena faceva buio, dicevo allora, ma adesso sono poi ben certo che quelle parti fossero veramente le mie, e come e perché io dicessi parti, appunto mie, dopo il calare del sole?


Proverò l’impasto linguistico, contaminando da par mio la alata di Ollesalvetti diobò, e ’u dialettu d’Ucurdunnu, evocando in un sol periodo il Burchiello e Rabelais, il Molinari Enrico di New York e il lamento di Travale – guata guata male no mangiai ma mezo pane – Amarilli Etrusca e zio Lorenzo di Viareggio.


Ma anche vi darò il romanzo tradizionale, con tre morti per forza, due gemelli identici e monocoriali e un’agnizione. Il romanzo neocapitalista, neoromantico o neocattolico, a scelta. Ci metterò dentro la monaca di Monza, la novizia del convento di ***, il curato di campagna e il prete bello.


Datemi il tempo, datemi i mezzi, e io toccherò tutta la tastiera – bianchi e neri – della sensibilità contemporanea. Vi canterò l’indifferenza, la disubbidienza, l’amor coniugale, il conformismo, la sonnolenza, lo spleen, la noia e il rompimento di palle.


Et dietro poteranno seguire fanterie assai, illese.


Ma tu, moro, mi stai a sentire?


A questo dunque m’ero ridotto? A chiedere aiuto al moro?


Una cosa sia subito chiara. Io non ho e non ho mai avuto pregiudizio alcuno contro i mori. Giuro che per un amico negro sarei pronto a giurare il falso, e anzi una volta l’ho già fatto.


Oltre tutto, perfettamente bianco non sono neppure io. Pochi lo sanno, ma la trisavola della mia bisnonna era, né più né meno, la Bella Marsilia, e se ne andava a far pinoli quella mattina del settembre 1799 quando i saraceni presero terra e devastarono tutta la contrada. Ventisette donne portarono a bordo di forza, quei pirati, e prima fra tutte per venustà la Bella Marsilia. Così bella che il sultano Alì ad-Kurtz la elesse favorita, e i figli presero il nome del padre, anche dopo tornati in Italia, fondando il casato degli Accorsi, come appunto si chiamava mia nonna Albina.


E nonna Albina – sotterrò il Guidi, nel quattordici, lui che tre mogli aveva già accompagnato al camposanto, dopo che ebbe popolato la Maremma di una mezza settantina di figlioli legittimi e no – la signora Albina, così alta, solenne, vestita di nero, quando fermava me bambino per strada e mi offriva il tamarindo, ogni volta mi prometteva un bel regalo, appena da Fez le fossero arrivati i quattrini dell’eredità, che era ferma in tribunale per la causa. Come posso avere io dunque pregiudizio contro i mori, se per linea materna un poco moro sono anch’io?


Né contro i mori, né contro nessuno. Casa mia è sempre stata aperta a tutti, e prima di avere una casa ho accettato persino di stare in subaffitto dai Fisslinger e lo so io che cosa mi hanno fatto patire, quei due, tedeschi nell’animo come erano, loro sud-tirolesi. In casa mia per un mese soleva venire un israeliano, certo Moshe Zuzim, a portarmi via dal piatto mezza pastasciutta, a chiedermi duecento lire per le sigarette.


Io cercavo di buttarlo fuori, di tenermi chiuso a chiave, perché a quei tempi mezza pastasciutta sottratta significava la fame, ma lui mi entrava dalla finestra, ostinato e muto ogni giorno, tranne il giorno che gli si sciolse la lingua e andò dal console del suo paese ad accusarmi d’essere una spia degli arabi, e poi dal mio padrone andò, il manigoldo, ad accusarmi d’essere una spia degli ebrei. Anzi, d’essere ebreo addirittura, come se fosse una colpa: avaro e vigliacco come un ebreo, diceva di me, che veramente ho la virtù della parsimonia e anche quella della cauta saggezza. E poi lo faccia visitare da un medico, guardi lei stesso, diceva il maledetto, e vedrà se non è circonciso come un ebreo. E questo è vero, anche se non per motivi religiosi.


Io ho avuto e ho amici ebrei e arabi, francesi e longobardi, abissini e apolidi, e ciascuno di loro testimonierà, spero. Un giapponese di San Francisco, cittadino americano dunque, che il governo aveva chiuso in campo di concentramento durante la guerra, e poi espulso dal paese per sospetta attività antipatriottica, ebbene, io me lo son tenuto in casa per un mese, lui e le sue tele, perché faceva il pittore, e lasciavo che tutto il giorno giocasse col gatto, per farsi vivo soltanto all’ora dei pasti.


Persino a qualche pisano io ho aperto l’uscio di casa – che è per proverbio azzardo pericoloso; a qualche pisano di quelli che dicono gaodé rpeoro diputà, e ogni tanto vengono su col sorrisino furbo a cercare lavoro. “Nciavresti mia nposticino da guadagnà bbene senza lavorà tanto? Sai omè, sule cencinquanta rmese? Giù, madonnarbuio, un si batte iodo. Un si trova nalira peffaccantà nceo.” E se tu gli domandi cosa vuol fare, cosa sa fare – qui è un posto da specializzati, devi presentarti con le idee chiare e precise, so fare una cosa, quella cosa, e basta – se tu glielo domandi lui rimane a bocca aperta, spalanca gli occhi, ti punta l’indice contro: “Maffai la burletta davvero? Gaodé, un lo sai osa soffà io? Un mi onosci? Lo poi domandà a coso, ome siama, a coso no? Ir figliolo di Amedeo, quello che morì anno”.


Anche a pesci simili io ho aperto l’uscio di casa, senza pregiudizio.


Se dicevo moro, poco fa, intendevo di fatto il padrone, la sua anima nera; il padrone che impunito strangola le mogli, e sempre va in giro portandosi dietro l’anima nera – ben più nera della sua – del critico che lo insuffla e gli mette le pulci nell’orecchio. Il moro dei drammoni, intendevo, il moro padrone che sbandona i putei negli orfanotrofi, che fa rinchiudere i consanguinei nei manicomi, che ogni mattina telefona al mago per l’oroscopo, compra un cavallo da corsa e licenzia dieci persone per far pari coi conti, intendevo il padrone moro Timber Jack che si fa pagare la pigione persino dalle tigri.


Essere ridotto a chiedere aiuto al moro è il peggio che potesse capitarmi. Perché infatti io non ero venuto su non dico per raccomandarmi ai mori, ma nemmeno per contare le dita ai bibliotecari, altrimenti mi sarei contate le mie, di dita, visto che al paese mio facevo appunto il bibliotecario.


Non ero venuto su per documentarmi sulla rotacizzazione della dentale intervocalica, o sulle vicende dei compagni di Gesù, no di certo. E nemmeno per farmi sbigottire dall’imperatrice Maria Teresa, né per controllare se Pietro Verri si lava puntualmente le ginocchia. Non ero venuto su per guardare l’osso sacro di Carlone, non per discorrere con Gazaga di Francisco Franco e dei fascistas maricones, o con la signora De Sio di quanto fosse dolce la vita sotto Franz Joseph; né per farmi insegnare da Franz il triestino la canzone di principe Eugenio e dei turchi al traghetto del Danubio, né per ascoltare Ettorino e le sue sfilze di pittori. Non ero venuto su per fare il verso al Querouaques. Soprattutto non ero venuto su per offrire i miei servigi al moro. No, e poi no.


La missione mia era ben altra.


Chi abbandona il giardino degli animali, dalla parte dove sono i recinti della capra nana, del llama, delle zebre, o le gabbie dei rapaci, fermi a pollaio con un’aria triste e contrita e umiliata da non far paura a nessuno, uscito da quel poco verde odoroso di bestia, deve subito badare bene a dove mette i piedi, sulla fettuccia di marciapiede minacciata dallo straripare del traffico e dalle gomitate di chi passa – contribuenti, per la più parte, perché lì dinanzi sorge il palazzaccio sporco delle tasse.


Raro perciò che si avveda del torracchione irto in cima di parafulmini, antenne, radar. Solo a tratti, quando fa specchio il sole su quel lucido, ti accade di levare gli occhi verso il torracchione di vetro e d’alluminio, di vedere una strada privata ingombra di auto in sosta, stranamente tacita in quel quartiere centrale, di girare attorno all’isolato, scoprendo un’intera cittadella – tre o quattro torracchioni simili, di vetro, di alluminio, di pietra lustrata.


Di solito non ci badi anche perché i palazzi attorno gli vogliono assomigliare e giù verso la stazione altri nuovi e maestosi ne sono sorti, sì che ormai in quel punto la città è tutta un blocco militaresco, coi suoi ponti levatoi, le sue muraglie imprendibili, i suoi camminamenti coperti, le sue aeree bertesche.


Ma l’esempio, ripeto, l’hanno dato i quattro torracchioni della nostra cittadella. Prima doveva essere diversa, forse somigliava di più al palazzo bugnato col piano nobile e i balconi lunghi sulla facciata. Credo che stiano ancora lì i cervelli, lo stato maggiore, e non dietro i finestroni dove compaiono a tratti visi pallidi di contabili chini sul fatturato, o stirate ragazzette con le dita sulla tastiera, o tecnici occhialuti, vestiti come farmacisti, al tavolo inclinato dei disegni.


No, i cervelli devono stare lì – nelle sale alte del palazzo bugnato, le finestre basse a pianterreno coll’inferriata a ghirigori, e allo stipite del portone un triplice occhio di vetro. Uno che entri di qui viene per virtù elettronica segnalato, pesato e perquisito, e di sopra si accendono tanti lumini colorati, e di te sanno subito tutto: chi sei, cosa hai in tasca, con quali intenzioni arrivi. Me, naturalmente, non mi hanno mai fatto entrare, occhio elettronico a parte. Sapevano già da tempo – né io facevo nulla per nasconderlo – quale fosse la mia missione.


Il segno è lì sulle porte, la piccozza e l’alambicco. Anzi c’era, perché una notte di nascosto l’hanno levato, e al suo posto ora c’è uno scarabocchio. Ma io lo ricordo. Lo ricordo al bavero della divisa nera delle guardie giurate, quasi tutte ex carabinieri e secondini di Portolongone allontanati dal corpo per eccesso di rigore, bluastri in faccia e con gli occhi cattivi. E il nome è di un paesino della Val di Cecina, che pochi hanno visto, e infatti molti preferiscono credere che il paese sia l’altro, l’omonimo, il famoso, dove da almeno un secolo i benestanti vanno a purgarsi.


Il paesino della Val di Cecina aveva nel 1888 una miniera di rame oggi abbandonata, una miniera piccola e primitiva, coi picconieri e i bolgiatori forse, senza laveria né processo di arricchimento per separazione idrostatica, questo è certo, ferma agli ordinamenti dell’Imperial Regia Magona. Non sul rame però è costruita la cittadella lucida che ha per segno la piccozza e l’alambicco.


No, la piccozza scavò giusto soltanto quando ebbe trovato il bisolfuro di ferro cristallizzante in dodecaedri regolari; e l’alambicco distillò giusto quando Michele Perret ebbe scoperto il processo delle camere di piombo. Il bisolfuro di ferro va frantumato nella misura di due tre millimetri, diventa cioè una sabbia granulosa e verdastra, che arrostisce ed esala gas solforosi, avviati verso le camere di piombo dove, a contatto con l’acqua e con la nitrosa, gocciola giù acido solforico. Più ne gocciola e meglio è, anche per la nazione, perché il grado di civiltà di una nazione, dice l’ufficio stampa, si misura dalla sua capacità di produrre e consumare l’acido solforico.


Un milione di tonnellate ne tirarono fuori, i bolgiatori e i picconieri delle mie parti, l’anno che scoppiò la seconda guerra mondiale. E con la guerra, chiusi i mercati del carbone centro-europeo e americano, veniva buona anche la lignite – ben cinquemila calorie, la migliore d’Italia – che scavano nella piana sotto Montemassi.


Non so se avete in mente l’affresco che dipinse Simone Martini al palazzo comunale di Siena, quello dove Guidoriccio da Fogliano, col suo cavallo bardato a losanghe nere e gialle, va all’assedio di Montemassi. Ecco, proprio dove nell’affresco sta Guido, ora c’è il villaggio degli operai, un grappolo di casupole e di camerotti sparsi in disordine, senza tracciato vero e proprio di strade, secondo le ondulazioni della breve piana interrotta dai cumuli dello sterile, dagli alti tralicci dei pozzi, dagli sterrati ingombri di materiale, travi di armatura, caviglie, panchini, bozze di cemento.


Sterile e fumo hanno bruciato il verde della campagna, sporcato le costruzioni – non risparmiando nemmeno gli uffici e la direzione – e tutto sembra sudicio e vecchio. Il terreno qua e là ha ceduto e certe case stanno in piedi per forza di cavi, altrimenti si sfascerebbero come se fossero di cartone. Ma ricordo che le famiglie ci resistevano, a forza di cambialette s’erano comprata la cucina economica e la radio, i giovani s’erano fatta la moto e la domenica andavano a Follonica per i bagni.


Subito dopo la guerra ci lavoravano tremilacinquecento operai, tra quelli del villaggio – gli scapoli ai camerotti, venuti da lontano, anche dalla Sicilia, dalla Sardegna, uno addirittura, Galletti Paolo, dalla Pennsylvania – e gli altri che con l’autobus della società scendevano ogni otto ore, secondo le gite, da Montemassi, da Tatti, da Roccastrada.


Avevano messo su un bel circolo, e alle feste da ballo del sabato venivano giovanotti anche dal capoluogo, la sezione del partito era sempre la prima nelle sottoscrizioni per il mese della stampa, e per il sessantesimo (c’era il culto della personalità, allora, ma nessuno ci faceva caso e anzi nemmeno lo chiamavano così); e la squadra di calcio stava per salire in serie C, perché potevano permettersi di comprare qualche riserva del Pisa e del Livorno, e di affidare i colori locali a un ragazzo in gamba come Goracci Enzo, mio compagno di scuola in quinta elementare.


Il guaio fu quando riaprirono i mercati dell’Europa centrale e di America, perché contro l’antracite polacca o statunitense (nemmeno scavata, quest’ultima: veniva via come niente, in superficie, sotto i denti delle draghe, fino a sette tonnellate uomo-giorno) cosa poteva fare la lignite – cinquemila calorie appena – delle parti nostre? E così cominciarono a buttarli fuori a centinaia per volta.


Certo, loro non stavano a guardare: uno sciopero di protesta laggiù durava anche cinque mesi e se mandavano la polizia, spesso se la vedevano ritornare a casa malconcia, le gomme delle jeep squarciate e i celerotti pesti e ammaccati. Dalla sede centrale – appunto la cittadella coi torracchioni lucidi – mandarono l’uomo delle accaerre, un tipo grosso e cupo, coi baffi e la moglie schizzinosa e scontenta di vedersi sbattere dalla mattina alla sera in un posto così, senza nemmeno un cinematografo frequentabile e per compagnia le mogli dei capiservizio.


Promozione, diceva il marito, ma non ci credeva nemmeno lui, perché restando su al torracchione di vetro e di alluminio, chissà quanti altri convegni avrebbe fatto, a Bordighera, Stresa, Riccione e conosciuto tanta gente utile, tanti tecnici del suo ramo, persino americani. Quaggiù invece… Chissà chi era stato a fargli le scarpe. Ma lui non si dava per vinto e rispondeva “Vedrai” quando la moglie insisteva che tutto sommato era stato un bel fesso, a lasciarsi bidonare in quel modo.


Intanto organizzò il circolo culturale per gli impiegati e i tecnici, e per dare il buon esempio fece una conferenza egli stesso, su García Lorca, e proiettò documentari dell’Usis sulle umane relazioni in Nordamerica. E non stava dietro la scrivania, lui: batteva la zona in macchina e in motocicletta, giocava a tennis con gli impiegati, trattava gli operai alla maniera loro.


“Se a qualcuno non gli va bene, esca, e facciamo a cazzotti,” diceva togliendosi la giacca. “C’è nessuno che se la sente, di farsi una bella scazzottata?”


Intanto però il direttore urgeva: umane relazioni o no, dalla sede centrale mandavano a dire ogni mese che la miniera costava troppo, facevano i conti lassù, e trecentocinquanta tonnellate uomo-giorno rappresentavano una perdita pura. Raddoppiasse la produzione, subito, almeno settecento tonnellate per quest’anno, oppure cominciasse a cercarsi un altro posto.


Così quel baffone delle umane relazioni doveva ficcarselo bene in testa, che qui non era storia di rapporti fra uomo e uomo, fra operaio e dirigente e ditta, ma fra uomo, giorno e tonnellata. Lasciasse perdere García Lorca e i documenti dell’Usis e il prete di fabbrica (che oltre tutto era una spesa, perché si beccava, don Coso, il suo bravo premio di produzione, senza produrre una madonna) e cercasse semmai di far capire a questa gente che la direzione non ce l’aveva con loro personalmente – a parte il fatto dell’iscrizione al partito, motivo di per sé sufficiente a sbatterli fuori tutti – ma d’altra parte non poteva tollerare che lì, sotto Montemassi, si continuasse a tirar fuori, con tremilacinquecento operai, appena duecentoquarantamila tonnellate all’anno, e di lignite, poi.


Fin troppo comoda la vita di tutti quanti, sinora, con gli avanzamenti a giro d’aria completo, e la coltivazione per fette orizzontali, prese in ordine discendente, con ripiena completa. Diceva proprio così, l’ingegner Garbella, con quella circolare del trentanove. Ma cosa doveva diventare, secondo lui, la miniera di lignite, un salotto?


La ripiena, continuava l’ingegnere, sarà esclusivamente costituita da materia proveniente dall’esterno, o da lavori nello sterile, esente per quanto è possibile da sostanze carboniose, e dovrà essere messa in sito a strati successivi ben annaffiati e ben calzati sino al cielo dei cantieri. Sì, bravo l’ingegner Garbella. Ma che cosa si era messo in testa? Stava parlando di una miniera o di un vaso da fiori?


Per fortuna adesso al distretto minerario non c’era più lui a dettar legge, e con l’ispettore nuovo ci si poteva mettere d’accordo. Era tempo di finirla, con tutti quei lavativi a scarriolare terriccio fino alla bocca dei pozzi. Quando l’avanzamento ha esaurito un filone, che bisogno c’è di fare la ripiena? È tutto tempo perso, tutta gente che mangia a ufo. Si disarma, si recupera il legname, e poi il tetto frani pure. E non c’è nemmeno bisogno di tracciare gli avanzamenti a giro d’aria. Si può anche scavare a fondo cieco, basta un ventilatore che ci forzi l’aria dentro, no? Certo, la temperatura così aumenta, a volte supera i quaranta gradi, ma si può rimediare, con una tubatura che goccioli acqua davanti alla ventola.


Sì, obbiettava il medico di fabbrica, la temperatura in questo modo scema, ma aumenta l’umidità, e aumentano i casi di malattia a sfondo reumatico. Ma il medico dopo tutto era un ragazzo – mio compagno di scuola al liceo, figuriamoci – e si faceva presto a chetarlo. Caro il mio dottor Nardulli, cosa si credeva lei? Che questa fosse una villeggiatura in Riviera? Che qui la gente venisse per curarsi i dolori? I travasi di bile che si prendeva il direttore, a ogni circolare della sede centrale, se li curava forse, lui? Marcava visita? Si metteva in mutua? No, qui bisognava far meno storie e aumentare il tonnellaggio. E per favore, con le radiografie ci andasse piano, il dottorino. Non erano tempi, non era aria da mettere in mutua per una sospetta silicosi o per una diminuita capacità respiratoria del diciotto per cento. Cos’era questa smania delle statistiche, anche per i polmoni della gente? Respiravano, no? E allora?


Allora, con l’ispettore consenziente, misero ventiquattro cantieri su venticinque coltivati ad avanzamento cieco e a franamento del tetto, realizzando in tal modo, diceva la relazione, una normale concentrazione del personale. Rispetto al quarantasei, produzione pressoché identica con un terzo degli operai di allora. Certo, restava il grosso guaio della ventilazione imperfetta. Non occorreva che glielo dicesse la commissione interna – questi altri lavativi – lo sapeva da sé il direttore che il flusso d’aria non aveva andamento ascendente continuo, che due rimonte, la venti e la ventidue, facevano scalino, erano almeno venti metri più alte della galleria di livello, e lì l’aria stagnava.


Sapeva anche (ma la commissione interna questo, per fortuna, lo ignorava) che a un certo punto della 265 l’aria di afflusso si mescolava con quella di riflusso, e il regolamento di polizia diceva, chiaro chiaro, che le vie destinate all’entrata e all’uscita dell’aria debbono essere divise da sufficiente spessezza di roccia tale da resistere all’esplosione. Altro che spessezza di roccia! Lì non c’era nemmeno un foglio di carta. Fortuna che quelli non l’avevano capito. Certo, si poteva rimediare: da anni erano sospesi i lavori per l’apertura di una galleria nuova che garantisse la ventilazione di tutto il settore. Ma con quelli che dalla sede centrale premevano, circolari su circolari, a chiedere che non si sprecasse un uomo, una tonnellata, un giorno lavorativo, cos’altro poteva fare, lui direttore, che mettere tutti alla frusta, a tirar su lignite?


Non si prendeva un giorno di vacanza: l’aspiratore nuovo, da sessanta cavalli, non l’aveva forse fatto piazzare la mattina del primo maggio, che era un sabato, profittando delle due giornate di festa consecutive, per dare tempo al cemento di far presa? Gli operai facevano festa, ecco; era la festa dei lavoratori, e lui – lavoratore come gli altri, o forse no? – l’aveva passata alla bocca del pozzo nove bis, con l’ingegnere e i muratori. Non era mica andato a spassarsela a Follonica o a sentire il comizio. Due giorni di festa per loro, due giorni di bile per lui.


Ma la mattina del tre la festa era finita, e allora sotto a levare lignite. Si erano riposati abbastanza o no, questi pelandroni? Eppure il caposquadra aveva fatto storie: diceva che dopo due giorni senza ventilazione, giù sotto, era pericoloso scendere, bisognava aspettare altre ventiquattr’ore, far tirare l’aspiratore a vuoto, perché si scaricassero i gas di accumulo. Insomma, pur di non lavorare qualunque pretesto era buono.


L’aspiratore nuovo, i gas di accumulo, i fuochi alla discenderia 32 – come se i fuochi non ci fossero sempre, in un banco di lignite. Stavolta era stufo: meno storie, disse ai capisquadra, mandate cinque uomini della squadra antincendi a spegnere i fuochi ma intanto sotto anche la prima gita. La mattina del giorno dopo, alle sette, la miniera esplose.


Rimasi quattro giorni nella piana sotto Montemassi, dallo scoppio fino ai funerali, e li vidi tirare su quarantatré morti, tanti fagotti dentro una coperta militare. Li portavano all’autorimessa per ricomporli e incassarli, mentre il procuratore della repubblica accertava che fossero morti davvero, in caso di contestazione, poi, da parte della sede centrale. Alla sala del cinema, ora per ora, cresceva la fila delle bare sotto il palcoscenico, ciascuna con sopra l’elmetto di materia plastica, e in fondo le bandiere rosse. Venivano a vederli da tutte le parti d’Italia, giornalisti con la camicia a scacchi, il berrettino e la pipetta, critici d’arte, sindacalisti, monsignor vescovo, un paio di ministri che però furono buttati fuori in malo modo.


Venne il povero Di Vittorio a raccomandare la calma e la moderazione. Non venne la celere e anche i carabinieri del servizio d’ordine si tennero accosto al cancello della direzione. Ai funerali ci saranno state cinquantamila persone, tutte in fila con le bandiere, le corone dei fiori, il vescovo con la mitra e il pastorale. E quando le bare furono sotto terra, alla spicciolata se ne andarono via tutti, col caldo e col polverone di tante macchine sugli sterrati.


Io mi ritrovai solo sugli scalini dello spaccio, che aveva già chiuso, e mi sembrò impossibile che fosse finita, che non ci fosse più niente da fare.


Nella bacheca al cancello stava scritto che alle famiglie delle vittime il ministero offriva contribuzioni straordinarie e immediate varianti dalle 60 alle 100 mila lire, oltre il normale trattamento previdenziale previsto dall’Inail. La direzione offriva assegni assistenziali di 500 mila lire e di un milione, secondo i relativi carichi familiari. A conti fatti ci scapitava una ventina di milioni. Ma in compenso poteva chiudere subito la miniera.

III

Ora appunto io venivo ogni giorno a guardare il torracchione di vetro e di cemento, chiedendomi a quale finestra, in quale stanza, in quale cassetto, potevano aver messo la pratica degli assegni assistenziali, dove la cartella personale di Femia, di Calabrò, di tutti e quarantatré i morti del quattro maggio. Chiedendomi dove, in che cantone, in che angolo, inserire un tubo flessibile ma resistente per farci poi affluire il metano, tanto metano da saturare tutto il torracchione; metano miscelato con aria in proporzioni fra il sei e il sedici per cento. Tanto ce ne vuole perché diventi grisù, un miscuglio gassoso esplosivo se lo inneschi a contatto con qualsiasi sorgente di calore superiore ai seicento gradi centigradi.


La missione mia, di cui dicevo pocanzi, era questa: far saltare tutti e quattro i palazzi e, in ipotesi secondaria, occuparli, sbattere fuori le circa duemila persone che ci lavoravano, chine sul fatturato, sui disegni tecnici e sui testi delle umane relazioni, e poi tenerli a disposizione di altra gente. Veramente nessuno venne a dirmi che questa era la mia missione, che dovevo fare così e così, ma era pacifico, toccava a me. Del resto bastava come mi guardarono, gli altri, salutandomi prima della partenza. “Fai la persona seria, mi raccomando. Ora sei in prima linea, lo sai?” E non era un rimprovero – che fino a quel momento fossi stato persona poco seria. No, era come quando una pattuglia scola il gavettino di cognac ed esce a notte dal camminamento coi tubi della gelatina e le pinze tagliafili. Al caporale che sta in testa dicono “in gamba, non fare il fesso”, ma è un modo di dire. Che cos’altro, se no?


E mi bastava ricordare in che modo, dopo le prime settimane quassù di ambientamento e di esplorazione tattica, parlai col consigliere provinciale Tacconi Otello. Era d’agosto e io giravo in motocicletta per la piana sotto Montemassi. Poco prima del villaggio trovai appunto Tacconi Otello che spalava il breccino sulla strada. Piccolo, grosso, coi baffetti, in calzoni e camiciola, sudava, aveva la faccia lustra e quando mi vide si appoggiò alla pala e io scesi dalla moto, anche perché non m’aspettavo di trovarlo a quel lavoro.


Mi spiegò che l’avevano licenziato da sorvegliante in miniera per via di un comizio dove aveva denigrato la società, e ora s’era trovato un posto da stradino per conto della provincia. Ma poi in consiglio protestavano, perché c’era incompatibilità: dicevano che un consigliere non può avere un posto e uno stipendio dall’amministrazione. La società l’aveva fatto chiamare in sede centrale, e se ritrattava, se diceva che quelle parole le aveva dette così, nel fervore della lotta politica, magari l’avrebbero riassunto. Era entrato in cittadella a discutere, ma senza nulla di fatto.


“Tu ci sei stato, su?” mi chiese ansioso. “Hai visto com’è? Che ne dici, ce la faremo, eh, ce la faremo?” E mi fissava negli occhi. L’avevano capito tutti, tranne forse mia madre, che continuava a dirmi di non spendere troppo, e di farmi dare la casa. L’aveva capito anche Mara.


Mara con le amiche forse parlava in un altro modo, con Ione, con Solidea, con Norma parlava di stipendio alto, di casa nuova, di feste, di vestiti da cucire, di persone importanti che avrebbe conosciuto quassù, ma sola con me era diversa. Passeggiando sulle mura a volte mi si aggrappava a un braccio, e le sentivo le ginocchia molli. Poi una sera si mise a piangere:


“E io?” diceva singhiozzando. “Ora io cosa faccio? Ma non ci si stava bene, qui insieme? Perché te ne vai lassù? Cosa ci vai a fare, lassù?” La mattina pareva la solita di sempre: si levava alle sette, stava al mercato un’ora e più e quando io mi destavo era già rientrata e preparava il caffelatte al bimbo e a me. Le faccende, e poi il mangiare, le portavano via tutta la mattinata, dopo pranzo rigovernava subito, spazzava la cucina, con la radio accesa, e a sera uscivamo un’oretta insieme a passeggio sulle mura o per il corso o per i viali della stazione. Ma la notte io non sono sicuro che dormisse sempre e destandomi per caso, dal suo respiro capivo che lei era lì a occhi aperti a pensare che cosa avrebbe fatto, con me quassù. Il bimbo si agitava nel lettino e farfugliava nel sonno.


Il giorno della partenza vennero tutti e due alla stazione, e quando il treno cominciò a svoltare dietro la cisterna dell’acqua io la vedevo ancora, ferma sulla banchina, col bimbo che la tirava per la mano perché s’era annoiato e voleva andare a casa. A Mara non dissi mai della missione. E intanto andavo ogni giorno a dare un’occhiata al torracchione di vetro e alluminio, e se veniva a trovarmi qualcuno delle parti mie, io me li tiravo dietro fin là. Non dicevamo niente, ma anche lui capiva.


“Salutameli tutti quanti,” gli dicevo poi mentre lui saliva sul tram per la stazione. “E se per caso vedi Tacconi Otello, digli così, che per quell’affare siamo intesi. Diglielo, mi raccomando.” Ma intanto bisognava guadagnarsi lo stipendio e così avevo preso servizio.


Fra l’altro ero già in parola con un giornale per certe collaborazioni, così un giorno mi decisi ad andarci, telefonando prima al giovanotto che avevo conosciuto dalle parti mie, come inviato speciale. Qui però era diverso, molto efficiente e attivo. Mi chiese cosa sapevo e cosa volevo fare e io gli spiegai com’era stato lo scoppio del grisù, la questione dello scalino alle discenderie 20 e 22, il sistema della ventilazione e tutto il resto, per filo e per segno. Poi lui chiese:


“Quando fu?”.


“Nel maggio.”


Fece un gesto, come desolato. “Nel maggio, tu mi capisci, è invecchiata come notizia. A meno che non si trovi un aggancio di attualità, non so… un nuovo scoppio, un’agitazione. E in ogni modo andrebbe in pagina sindacale, una pagina non mia. A me semmai occorrerebbe una rassegna della stampa periodica. Già la sto facendo io, ma da solo non basto. Tu te la sentiresti di spogliarmi, non so, il settore sociologico? Io mi sono accollato la filosofia e la psicologia. All’economia pensa…” frugò in un cassetto e ne tirò fuori un appunto, “…sì, pensa Bertarelli. La sociologia invece sarebbe scoperta. Te la senti di occupartene?”


Io feci un mezzo cenno di assenso, mentre mi guardava in faccia con quegli occhi acquosi, e infatti riprese:


“Ma bada bene, qui si tratta di prendersi un incarico preciso, da svolgere puntualmente, mese per mese”.


“Ma sullo scoppio non ti serve niente? Io sarei informato…”


“Te l’ho detto,” fece, impaziente. “È una notizia invecchiata, e poi andrebbe in pagina sindacale. Vuoi farlo o no, questo spoglio della stampa periodica, per il settore sociologico?”


Gli dissi di sì, lui fece “bene”, si alzò, mi tese la mano, e con un sorriso diaccio mi congedò: “Allora d’accordo, caro amico, e buon lavoro”.


Il posto mio, quello fisso, però era un altro. Andavo tutte le mattine nella redazione di un quindicinale dello spettacolo, diretto da un signore chiamato il dottor Fernaspe. Anche lui era un tipo efficiente e attivo, sempre indaffarato con i menabò, in mano la penna e un pezzo di spago con cui misurava la lunghezza del piombo riportandola poi sulle colonne dell’impaginato.


“Una, due, tre, quattro colonne,” mi diceva mostrandomi come si lavora. “Avanzano otto righe. Fammi il favore, va’ di là e taglia” e mi porgeva il mazzetto delle strisce di bozza.


“Poi fammi un sommario e un titoletto. Insisti sulla censura, e fai anche un accenno all’autocensura. Garbato, mi raccomando. Magari poi spiega bene nel sottotitolo.”


Prima di cena scendevamo tutti insieme, con Corrado e la Marina, a prendere l’aperitivo – lo offriva quasi sempre lui, Fernaspe – e io ne approfittavo per parlargli dello scoppio. Mi stava a sentire annuendo gravemente, sempre, e una volta anzi mi disse:


“Vedi, è un buon tema, e sono sicuro che tu sapresti svilupparlo bene, ma stai attento, perché c’è il pericolo di cadere nel solito neorealismo”.


“Come sarebbe?” gli chiesi.


“Sì, tutte quelle gallerie, le case pericolanti, i minatori in attesa fuori del pozzo. C’è il pericolo di cadere nella cronaca di un certo tipo. E ora invece noi ci stiamo battendo per il passaggio dal neorealismo al realismo. Dalla cronaca alla storia. Tu hai visto Senso, vero?” Feci cenno di sì, lui prese un’oliva dal bancone e continuò:


“Lì c’è già un netto accenno di passaggio dal neorealismo al realismo, dalla cronaca alla storia. La terra trema è un classico, no? Un classico del neorealismo. Insomma più avanti non si va, col mondo del lavoro, i pescatori, la presa di coscienza dei loro problemi eccetera. Il verismo di Verga diventa neorealismo e si esaurisce così. Il tuo tema, stando almeno a come me lo presenti, è sempre nel vecchio filone neorealista, e perciò è superato. Senso invece segna una svolta e un nuovo avvio, è già realismo, già storia. Da Boito, attraverso Fattori, si arriva alla constatazione della fine di un’epoca, che richiama la fine della nostra epoca”. Abbassò la voce e sorridendo, quasi una confidenza, aggiunse: “Perché il tenente Mahler in fondo è lui”.


“Lui chi?”


“Visconti, no? Tu ricordi, no?, ricordi le parole del tenente Mahler. Che cosa mi importa se oggi i nostri hanno vinto in un posto chiamato Custoza, eccetera. Mahler è consapevole della fine degli Absburgo, come Visconti è consapevole della fine della società borghese.”


Io volevo obbiettargli che allora (nel 1866), il tenente Mahler non poteva essere consapevole della fine degli Absburgo (fu nel 1918, più di mezzo secolo dopo); e che la battaglia di Custoza fu chiamata così attorno al 1868, da uno storico militare di cui ora mi sfugge il nome (ma in quel momento lo sapevo); perciò Mahler, la sera della battaglia, e standosene a Verona, e ubriaco per giunta, e a letto con una donna, come faceva a sapere che c’era stata la battaglia di Custoza? Ma non ebbi tempo di dirglielo perché lui doveva scappare a casa, e poi a una conferenza sul realismo.


La mattina dopo eravamo di nuovo tutti in redazione, Corrado, la Marina e il fattorino, a contar righe e a far titoli e sommari. Il dottor Fernaspe arrivava trafelato e serio verso le dieci, chiamava di là uno di noi, gli affidava un articolo da passare o un titolo da comporre.


“Qui fai notare che Renoir non ha seguito la strada indicata da Thomas Mann,” diceva, oppure: “Bisogna mettere in rilievo l’involuzione di Rossellini.”


Coi primi freddi avevano acceso i caloriferi, e nella stanza quadrata c’era un caldo secco e calcinoso che impastava la bocca, così ogni tanto il fattorino doveva scendere al piano sotto e prendere una caraffa d’acqua.


Appena usciti per strada ci investiva il fiato umido delle prime nebbie. Andavamo in uno dei ristoranti di Altopascio (o della Chiesina o del Ponte) che sono numerosi lì attorno, col cameriere dall’accento versiliese che ci faceva sempre ridere:


“Delafìa, dottore,” diceva sempre portandomi gli spaghetti. Dopo non c’era molto da scegliere: o la pelota basca o una fiaschetteria lì accanto, con l’insegna “Vini sardi” e tre o quattro tavolini segnati dal vino e dalle cicche, e a volte un giovanotto biondo che suonava la chitarra. Spesso ci veniva anche Franz il triestino, e cantavamo qualcosa, davanti a noi la bottiglia della vernaccia.


Nella stanza al numero otto terzo piano cominciava a farci freddo, i mattoni del pavimento sputavano il rosso, sporcando il risvolto dei calzoni al momento di levarseli. Mi ficcavo sotto le coperte, aspettando che rientrasse Carlone, poi prendevo sonno e quando arrivava lui (magari alle quattro del mattino, quando già si era sentita la tosse di Aldezabal) per non svegliarmi non accendeva la luce, e a tastoni cercava il letto, ma ogni volta, così alla cieca, prendeva a calci le gambe dei tavolini, o la sedia, o il vaso da notte abbandonato sotto il letto, e così mi svegliava lo stesso.


Al mattino di nuovo a lavorare dal dottor Fernaspe, che entrava trafelato verso le dieci, trovandoci chini sul mazzetto delle bozze. La trafila era sempre la medesima: lunedì passare gli articoli e contarli, battuta per battuta. Martedì menabò, ma a quello ci pensava il Fernaspe, col righello, la matita e lo spago: qui la fotografia, qui il testo, qui il titolo e il sommario. Giovedì prime bozze da rileggere: Fernaspe le misurava un’altra volta col solito spago e ordinava a noi di tagliare i testi perché entrassero nel suo impaginato.


“Titoletto su tre colonne,” mi diceva poi, “sommario di quattro righe. Giustezza venticinque, fanno cento battute esatte. Senza spezzare parole, mi raccomando. La fotografia va tagliata perché entri qua.”


E io subito mi mettevo al lavoro, a sillabare la frase del sommario, a contarla e ricontarla, perché con Fernaspe non c’erano storie, dovevano essere cento battute in tutto, fra bianchi e neri.


Riunito a Roma il congresso nazionale delle cineteche, già cinquantaquattro battute erano; con le residue quarantasei bisognava dire gli scopi del congresso: per la difesa del nostro patrimonio artistico. Quarantasei battute esatte, però diceva assai poco, era un sommario grigio. Ne preparavo un altro più vivo, poi tanto avrebbe scelto il Fernaspe.


Centottanta “pizze” di pellicola andranno perdute, se il governo non dà i mezzi per conservarle. Novantaquattro battute, contandoci anche il punto in fondo. Le altre sei per arrivare a cento dove le pescavo? Un che dopo pellicola mi guadagnava due spazi (non tre perché la virgola saltava); altri due spazi potevo guadagnarli mutando il dà in darà. Se il governo non darà, che sintatticamente è anche più preciso. Novantaquattro, novantasei, novantotto. Ancora due battute, le solite ultime due battute che non si pescavano mai.


Forse la cosa migliore era che in tipografia spaziassero un poco di più. Mostravo i due sommari a Fernaspe, e lui mi diceva che quel pizze era un poco audace, e poi non tutti capiscono cosa sono queste pizze, c’è il pericolo d’un equivoco, nonostante le virgolette. Così finiva per scegliere l’altro sommario, un po’ grigio forse, ma più chiaro.


Il sabato arrivavano i bozzoni dell’impaginato. In tipografia al solito avevano fatto le spaziature a capocchia, così da una parte avanzavano dodici righe, da un’altra ne mancavano sette, e per tutto il giorno noi bisognava qui tagliare, là aggiungere, e poi rifare da capo tutti i sommari, sempre per via di quei lavativi di tipografi. Il Fernaspe si attaccava al telefono e lo sentivamo urlare insulti, mentre noi si continuava a tagliare e ad aggiungere.


La sera tardi il numero era congedato, e noi avevamo tutti la bocca arsa dal fumo e dal caldo calcinoso della stanza. Il Fernaspe ci offriva l’aperitivo, sostava cinque minuti a rispiegarci il passaggio dal neorealismo al realismo, e poi filava a cena, perché dopo c’era o una conferenza o una prima.


Il torracchione di vetro e alluminio intanto era sempre lì, immobile in mezzo al traffico. Della missione io per un po’ non seppi a chi parlarne, timoroso di sentirmi rispondere o che la notizia era invecchiata, o che stessi attento col pericolo del neorealismo. Ma poi un giorno conobbi la vedova Viganò, che la pensava come me e lavorava proprio dentro alla cittadella. A una rivista specializzata, mi spiegò. Specializzata e inutile.


“Mi hanno isolata, capisci? Sanno benissimo che se mi tengono a contatto con gli altri, io glieli organizzo sindacalmente, e porto avanti la nostra lotta. Così un poco alla volta mi hanno messa in quel cantuccio, io sola con un vecchio sordo e svanito. La rivista esce ogni tre mesi, e tu che conosci il mestiere sai che per farla bastano dieci giorni. Per loro io sono uno scapito puro, ma preferiscono così.”


“Non ti licenziano?”


“Eh no, perché tu sai lo scandalo che succederebbe, se buttassero fuori una come me, vedova di guerra. Ci sarebbe pronta la campagna sul piano nazionale. Mi hanno anche offerto una liquidazione doppia del dovuto, purché me ne vada subito, ma io non mi muovo.”


Io le chiedevo informazioni tecniche sulla struttura dell’edificio, sulla posizione degli uffici, possibilmente una pianta; soprattutto mi premeva sapere come si potessero raggiungere le stanze della direzione centrale, quali gli orari, quanto forte la vigilanza notturna. Non si poteva, perforando qualche muro divisorio, far giungere il tubo fin sotto il tavolo dell’amministratore delegato, in modo che lo scoppio partisse proprio da lì?


“Scoppio di che cosa?”


“Di metano miscelato con aria, in proporzioni non inferiori al sei per cento né superiori al sedici.”


“Ma di’, che studi hai fatto, tu?”


“Filosofici.”


“E dove hai preso queste nozioni di chimica mineraria?”


La Viganò si divertiva a sentire i miei discorsi, ma quando poi capì che dicevo sul serio, che veramente pensavo a uno scoppio di grisù, e in linea subordinata a una occupazione forzosa dell’edificio, con grande pazienza si mise a spiegarmi che questo era un atteggiamento opportunistico.


“Come opportunistico? C’è da lasciarci la pelle.”


“E che vuol dire la pelle? Opportunista è chiunque abbandona la linea del partito per sostituirvi il proprio tornaconto individuale.”


“Tornaconto? Ma che cosa me ne viene in tasca, a me, da un’esplosione di grisù? Se salta per aria il torracchione io non ci guadagno proprio un bel niente, lo sai?”


“Materialmente non ci guadagni nulla, lo so, ma se lo fai tu affermi una tua linea individuale, una tua ideologia personale, contro quella del partito, e sei un deviazionista, un opportunista.”


“E allora cosa dobbiamo fare?”


“Come, lo chiedi a me? Mi sembra chiaro: condurre insieme la lotta comune, giorno per giorno. Eh, se tutto si risolvesse con uno scoppio, sarebbe comodo. L’epoca degli anarchici è finita, tu lo sai meglio di me, storicamente superata. Del resto i colpi di mano isolati non hanno mai dato nessun frutto. Oggi la lotta è delle masse. In parlamento, sui luoghi di lavoro, ciascuno al suo posto.”


Forse parlava un po’ addottrinata, ma era una brava signora, questa vedova Viganò, e mi aveva preso in simpatia, come se fossi un ragazzo un poco discolo, ma in fondo buono; era quasi sempre lei a offrirmi il caffè, quando ci incontravamo per strada. Mi domandava della nostra lotta in difesa del realismo, mi raccontava qualche aneddoto della sua vita all’interno del torracchione – il servilismo dei dipendenti, come aveva risposto al direttore del personale, una dattilografa licenziata in tronco perché trovata in possesso di un giornale di sinistra – e intanto io continuavo a contare le battute dei sommari, a dormire al terzo piano del numero otto insieme al fotografo Carlone, a mangiare ai ristoranti di Altopascio, e a cantare ai “Vini sardi”.


Due volte alla settimana scrivevo a Mara: sto bene, c’è molto da lavorare ma me la cavo, anzi ne son contento, tutti mi stimano e mi vogliono bene, mangio con appetito, non fumo molto e a parte il freddo e l’umido mi trovo a mio agio. Ho conosciuto molti amici nuovi e simpatici e un giorno te li presenterò. E lei rispondeva puntuale, due volte alla settimana, con la sua scrittura che pende all’indietro: anch’io sto bene, il bimbo ha avuto la tonsillite ma non ti preoccupare. Grazie dei soldi, la vita aumenta ma ce la farò.


Con me lontano aveva ricominciato ad andare a messa la domenica, per il resto non usciva quasi mai, badava soltanto al bimbo e alla casa. Lui adesso voleva dormire nel letto grande, aveva preso questo vizio e non c’era verso di farglielo smettere. Cresceva in fretta, il bimbo, e bisognava stargli dietro perché si sa come sono fatti i ragazzini di quell’età, crescono, allungano, spigano, e sono esposti alle malattie, la tonsillite, le bronchitelle, i febbroni della crescenza. E poi bisogna seguirli negli studi, perché oggi senza studi, senza un titolo, non si combina più niente nella vita e se le basi sono buone dopo vanno avanti da sé, ma se uno non ha fatto bene le elementari, se non ha imparato l’analisi logica, si ritrova nei pasticci, dopo, col latino. I figlioli sono un gran pensiero, è sempre stato così. Ogni tanto mi scriveva anche mia madre, per chiedermi se la casa me l’avevano data, come promesso, e se fumavo troppo.


E io stavo al terzo piano del numero otto con Carlone, invece. Certe volte la domenica mi portava con sé a studiare qualche servizio fotografico: le ballerine di via Passerella, povere figliole anche loro, magre e rifinite dalla fame, con duemila lire a serata in tutto, più si capisce le marchette; oppure l’osteria di via Lanzone, dove vanno i vecchi patiti della lirica a cantare chi mi frena in tal momento. Siedono ai rustici tavoli di legno, mangiando salame e bevendo vino, e poi a un tratto uno attacca la donna è mobile, accompagnato da un vecchio pianoforte verticale, e tutti applaudono. Oppure la fiera della roba usata, con tanti oggetti che credevi scomparsi, uno scaldino di rame, una pistola ad avancarica, con tanto di bacchetta; o l’edizione, incompleta purtroppo, di Fantômas. Aspetti insomma della città, vecchia e nuova, vicini a scomparire o non ancor nati.


Carlone dunque, i pittori capelluti delle Antille, i fotografi affamati del numero otto, le ragazze nere coi piedi sudici, i ragionieri che uscivano in branco, avviliti e crucciosi, dalle banche e dagli uffici di vetro e alluminio, i colleghi della redazione, Corrado, Marina, Franz il triestino, i pelotari. Ma io avrei voluto conoscere altra gente, diversa, che certamente doveva esserci, in città.


Ci doveva pur essere, in città, l’equivalente di Tacconi Otello, consigliere provinciale e attualmente stradino sotto Montemassi. Franz il triestino a volte mi favoleggiava di operai grandi e grossi, che limano la ghisa con le mani, da quanto le hanno callose, ma non era facile vederli, almeno per me che entravo in redazione alle nove e ne uscivo alle sette di sera.


Gli operai limatori di ghisa con le mani arrivavano infatti ogni mattina alle sei coi treni del sonno, mangiavano bivaccando in fabbrica, e ripartivano con gli stessi treni prima delle sei, ogni sera così. Anche soltanto per vederli bisognava essere alla stazione o la mattina presto o nel tardo pomeriggio, e per me questo era possibile o il sabato, o anche gli altri giorni, ma solo a costo di levarmi all’alba. O forse meglio, a costo di non andare a letto per niente, restarsene in giro con Carlone tutta la notte, prima nei bar ancora aperti, poi per le strade livide, all’ora in cui cominciano gli spazzini a innaffiare e a dar di granata.


Alle cinque cominciano a entrare i primi treni in stazione, e a buttar giù battaglioni di gente grigia, con gli occhi gonfi, in marcia spalla a spalla verso il tram, che li scarica all’altro capo della città dove sono le fabbriche. Per due, tre minuti, sotto le volte della sala biglietti sfilano a passi lesti, poi tutto ritorna vuoto e silenzioso, fino al prossimo treno, al prossimo sbarco di gente assonnata e frettolosa. Non puoi fermarne uno, chiedergli come si chiama, che cosa fa, se è vero che lima la ghisa con le mani, come dice Franz il triestino. Li guardi e sono già sfilati via senza voltare gli occhi attorno.


E anche più fretta hanno la sera, perché c’è la paura di perdere il treno, un treno qualunque sempre disponibile perché tu lo perda, e poi ti tocca aspettare mezz’ora il prossimo, ed è mezz’ora sottratta al sonno. Anche se dall’orologio è chiaro che non ce la faranno, gli uomini grigi e intabarrati, con una sciarpa di lana al collo, o il passamontagna calato sugli occhi, non rallentano la marcia verso la banchina dei treni, e continuano ad arrancare anche quando il convoglio si è messo in moto, e gli vanno dietro ostinati e febbrili.


Succede che qualcuno metta il piede in fallo e finisca sotto le ruote; e gli altri allora si affacciano al finestrino per vedere a chi è toccata, poi si rimettono a sedere. “L’era il Gino,” informa uno, nel silenzio. Io mi chiedevo se ci fosse modo di conoscerli, questi compagni di Tacconi Otello, di parlarci, superando la difficoltà dei dialetti, di allearsi con loro, perché senza questa alleanza, lo capivo, la missione mia non sarebbe mai andata in porto.


Ma era possibile questo, con i rispettivi orari così scombinati? E se non era possibile, avrei dovuto continuare a passar la giornata fra la redazione, le Antille, il numero otto di via della Braida, lo sferisterio della pelota e la cantina dei vini sardi. Ne parlai persino con la vedova Viganò e lei mi disse che queste alleanze sono possibili solo in sede di concreta attività politica.


“Se li vuoi incontrare, fai vita di sezione, come me.”


“Tu in che sezione sei?”


“Di centro.”


“E ci sono molti operai?”


“No, purtroppo, è una sezione di ceti medi: impiegati, assicuratori, rappresentanti, cassieri di banca.”


“Ma allora è inutile.”


“No, non è inutile, perché la sezione ti dà sempre la concretezza della lotta politica, e la lotta politica è una sola, nostra e degli operai.”


Ma intanto la vedova Viganò continuava a resistere nel suo cantuccio isolato, alla rivista specializzata trimestrale, e a battersi contro la direzione che voleva buttarla fuori a tutti i costi, anche a costo di triplicarle la liquidazione.

IV

Che bisognava fare vita di sezione lo diceva anche Anna, del resto. La sezzione der partido. Anna era stata in carcere, qualche giorno alle Mantellate, sotto minaccia di imputazioni piuttosto gravi: resistenza alla forza pubblica, ostruzione del traffico, ingiurie a pubblico ufficiale. In sostanza era stata una dimostrazione contro un generale americano accusato di far buttare dagli aeroplani mosche e pulci e pidocchi infetti di peste. Anna era con gli altri a tirare giù la pertichetta dei tram in pieno centro, e c’è da immaginarsi che confusione può succedere, con cinque o sei vetture ben scelte, bloccate a un quadrivio.


Cantavano, urlavano insulti ritmati al generale della peste, spostandosi in massa da un cantone all’altro, a ondate. Poi arrivò la celere, diedero l’intimazione di circolare e attaccarono a pestare coi manganelli. “A quelli gli piace di menare,” mi spiegava Anna. “Menano perché gli piace, lo sai? Ma tu li hai visti che facce hanno? Gli piace di menare.”


E siccome lei opponeva resistenza, diceva io vado piano perché mi fanno male le scarpe, quelli avevano menato anche lei, sul groppone, e con un’altra ventina di ragazze l’avevano caricata sul furgone per portarla alle Mantellate. Impronte digitali, la Wassermann del sangue, insomma le avevano trattate come delinquenti comuni, come mignotte. “Noi siamo le politiche,” precisavano le ragazze, e dai cameroni giungeva poi il loro canto, e le minacce, che presto sarebbe venuto Baffone a sistemarli. Le tenevano in custodia secondine e monache, e Anna si vergognava anche, perché, come al solito, con quel trambusto le sue cose avevano anticipato, e come si fa a presentarsi a una monaca a chiedere i pannolini?


Anna era fanatica e settaria, bisogna riconoscerlo, ma senza cattiveria dottrinale, e aveva una seria competenza in fatto di tecnica insurrezionale. Me ne accorsi il giorno che la conobbi, quando sentimmo il sibilo delle sirene. Potevi benissimo scambiarle per il fischio dei pompieri o della croce rossa, invece Anna capì subito che era ben altro, e me lo disse; tanto vero che un momento dopo all’urlo delle sirene si mischiò il grido ritmato dei dimostranti che volevano la pace.


“Cos’è?” feci io.


“Dimostrano contro il riarmo tedesco.”


Infatti la colonna avanzava compatta verso la piazza del Duomo, ma senza bandiere e nemmeno cartelli.


“È una dimostrazione improvvisata,” spiegò Anna.


“Vedrai che domani la rifanno più in grande e coi cartelli. La parola d’ordine dovrebbe essere no al riarmo tedesco, ma come fai a gridarla? Pace è più semplice, ma anche più generico. Ora vieni che ci ficchiamo dentro anche noi due.”


Mi prese per un braccio, facemmo il giro di un isolato, e ci ritrovammo proprio in mezzo alla colonna, e di lì si vedevano le camionette rosse, già pronte, con il commissario che doveva intimare lo scioglietevi. Lo urlò appunto quando la colonna fu a mezza via, esitante, ma poi le camionette si mossero, urlarono di nuovo le sirene.


“Via,” mi disse Anna, prendendomi ancora per mano. Quando le camionette furono alla nostra altezza noi entravamo in una farmacia.


“Comprati un cascé, svelto.” E lei rimase dietro la vetrina a guardare il carosello.


“È improvvisata, diretta male,” disse ancora quando le fui accanto. “In queste dimostrazioni non si avanza in colonna.”


“No? E come allora?”


“Si arriva alla spicciolata, da soli o al massimo in due o tre, e si fa finta di essere lì per caso. Poi all’ora precisa tutti su un cantone. Si tirano giù le pertichette dei tram. Si urlano le parole d’ordine, si fa caciara.”


“Com’è che la polizia è arrivata prima di loro?”


“Succede sempre. Qualcuno l’avvisa. Sempre.”


“E chi?”


“Le spie ci sono dappertutto, non lo sai?”


“Anche tra voi?”


“Certo.”


“E voi non ci fate niente? Non le conoscete?”


“Certo che le conosciamo. Ma in questi casi ci fanno comodo.”


Sul sagrato, sotto il monumento, s’era formato un gruppo di dimostranti, con un poliziotto in mezzo. Forse stavolta ne buscava lui.


“Perché comodo?”


“Certo. Se non fosse la spia ad avvertire i poliziotti, converrebbe avvertirli noi.”


“E perché?”


“Nel caso di dimostrazioni come questa, bada bene. Se non c’è scontro con la forza pubblica, la gente non si accorge neppure dell’agitazione, lo capisci? Perde di efficacia politica.”


“Insomma mandate la gente a buscarle?”


“Non sempre. Vedi là, quel celerino? Lo stanno pestando. Quando si può picchiare, si picchia anche noi.”


“Anche le donne?”


“Si capisce. Anzi, specialmente le donne. Perché in tribunale, dopo, come fa la polizia ad ammettere di averle prese da una donna?”


“E come picchiate, con la borsetta?”


“Macché. Coi piedi.”


“Coi piedi?”


“Sì. Coi tacchetti pestoni, di punta calci negli stinchi. Ma anche meglio si fa col ginocchio.”


“Col ginocchio?”


“Sì. Quando il poliziotto ti prende per un braccio e sta di fronte, basta alzare il ginocchio, e lo colpisci al basso ventre.”


“Ma funziona?”


“Altro che. Ne ho visti stendere una decina in questo modo, da ragazzette che a vederle non gli daresti due soldi.”


Passarono sotto i portici due poliziotti col viso pallido e cattivo, in mezzo un uomo basso e atticciato, col giubbotto di pelle.


“Un operaio dev’essere,” feci io.


“Sì. Bei fessi.”


“Come, bei fessi?”


“Sì, non ci sanno fare. A una dimostrazione per la pace non si manda gente vestita a quel modo.”


“Ma se è un operaio?”


“Si mette il vestito della domenica, l’operaio.”


“Perché?”


“Vedi, se fosse una dimostrazione pei salari, allora sì che andrebbe bene il giubbotto, ma questa è per la pace, e rivolta, come propaganda, ai ceti medi. Ai ceti medi si deve dare la sensazione che a dimostrare è gente come loro, e che la polizia picchia anche gente come loro.”


Il chiasso si era allontanato e uscimmo dalla farmacia. I dimostranti ora gridavano in gruppo sugli scalini del duomo, dove le camionette non potevano salire. Prendemmo anche noi da quella parte.


“Cammina piano,” disse Anna, “e prendimi sotto braccio. Dobbiamo figurare come una coppia.”


Non mi parve vero, ed ero orgoglioso di sfilare davanti alla gente eccitata con sottobraccio una bella figliola così. Me la guardavano tutti: aveva i capelli biondi annodati sulla nuca, e teneva alto il viso piccolo e chiaro, le mani ficcate nelle tasche del cappottino. Agli scalini del duomo si fermò e gridava insieme agli altri pace pace, ora che la polizia stava più lontana. Ma subito tornarono, e lei mi tirò per il braccio fin dentro la chiesa, altissima e semibuia, per uscire dalla porta laterale.


“Non ho niente da mettermi in testa,” fece. “È male.”


“Perché?”


“Perché se mi vedono uscire così, senza un cappello, un velo non so, un fazzoletto in testa, lo capiscono che non sono una fedele, che qui dentro ci sono entrata apposta per nascondermi.”


Ma per fortuna non badarono a noi, sembravamo proprio una coppia, una bella coppia, e io fui ancora orgoglioso, di avere con me Anna, e che tutti me la guardassero. Pensai che sarebbe stata bene, Anna, dritta con le gambe robuste, dietro una barricata, proprio lì all’imbocco della Galleria. Glielo dissi, fingendo di scherzare, e invece lei mi prese sul serio.


“No, guarda, barricate no. E in quel punto, poi…”


Mi spiegò come succede uno scontro armato per strada, me lo spiegò bene, tanto vero che poi ne ho trovato conferma sui testi specializzati.


Oggi non si fa più la barricata, perché è un bersaglio troppo esposto e con le armi moderne te lo spazzano via in un momento. Basta un cannoncino da quarantasette a buttare giù ogni cosa, e quelli che ci stanno dietro farebbero la fine del sorcio. Una strada, oggi, la si difende dalle case circostanti e si spara dalle finestre, dai tetti, dagli abbaini, dai portoni. Così hai il vantaggio dell’altezza e di lassù un sasso, una tegola, persino un normale vaso da notte diventa proiettile temibilissimo.


La strada, caso mai, la si interrompe con uno scasso profondo o con un ostacolo elastico. Se per esempio devi difendere un viale, per prima cosa tu abbatti gli alberi, con le fronde rivolte alla direzione da dove viene l’attacco, perché gli alberi sono difficili a rimuoversi. Lo scasso, se è profondo abbastanza, potrà servire come camminamento, per spostarsi da un lato all’altro della via. Ma deve proseguire fin dentro l’opposto androne. E in ogni modo questi passaggi da lato a lato della via debbono essere rapidi e saltuari, soltanto in caso di assoluta necessità, un ordine urgente, per esempio, un afflusso di rinforzi o di materiali, un soccorso a un ferito.


Per il resto bisogna muoversi sempre su di un lato della strada, passando per i cortili, per i tetti, per le altane, sfondando ove necessario i muri divisori fra stanza e stanza, fra costruzione e costruzione. Così si combatte per le strade, oggi. Altro che barricate. E comunque la difesa non si organizzerebbe mai lì, all’imbocco della Galleria, o in capo alla strada. A mezza via si resiste, così tu hai un settore di difesa profondo ed elastico, puoi manovrare liberamente, e costringi l’attaccante a disperdersi, a superare una serie di incroci di fuoco. Senza contare il vantaggio della sorpresa continua. Quelli avanzano allo scoperto e non sanno da quale finestra arriverà la fucilata, mentre tu ti tieni al coperto, li controlli di continuo, li segui passo per passo.


Certo, la barricata era più romantica, e Anna avrebbe fatto la sua figura, grande e formosa, col fisciù rosso al collo, e io appostato accanto a lei, con lo schioppo impugnato, la mira sicura, semplice soldato dell’insurrezione. La compagna Anna, avrebbe detto poi il bullettino stampato alla macchia, ha comandato impavida un ben assestato fuoco di fucileria, folgorando la sbirraglia. Per suo merito e onore la barricata della Galleria ha respinto ogni assalto.


Il nome mio no, non poteva figurare sul bullettino degli insorti, ma io sarei stato contento lo stesso, per Anna e per il nostro segreto. Infatti Anna ormai era la mia ragazza.


Succede sempre, in tempi di guerre e di rivoluzioni, che un uomo e una donna si amino subito, senza le usuali trafile del corteggiamento, della parte in casa e delle nozze col velo. Perciò quella sera, dopo la dimostrazione, Anna rimase con me, e prese sonno all’alba nel letto di Carlone, che per l’appunto era andato a Terontola a fare un servizio sull’appoderamento della Val di Chiana e sul museo etrusco di Cortona. E come succede in tempo di guerre e di rivoluzioni, tutti e due avevamo ansia di sapere e di fare tutto in fretta, quasi che fra un mese, una settimana, domani, non ci fosse più tempo.


Al mattino non ebbe cuore di riprendere il treno, e mangiammo insieme alla latteria sotto casa, e poi mi sembrava che via della Braida fosse soltanto nostra. Anche se poi dovette partire, eravamo certi tutti e due che presto sarebbe ritornata, e da allora non facevo che aspettarla, contando i giorni e le ore che ci separavano: andavo alla stazione col cuore in tumulto, e me la portavo subito a casa, finché poi un giorno concludemmo che non poteva più partire, e che Carlone invece poteva benissimo sistemarsi nell’altra camera con Ugo e Mario, lasciando a noi due la più grande.


Ora, io sono certo di avere avuto in sorte, durante la mia vita, un privilegio che è toccato a ben pochi: che io sappia ad Abelardo – mutilazione finale a parte – al Molinari Enrico di New York e alla mezzala sudamericana Cherubillo, pare, da quello che ne dicono gli sportivi la sera al caffè, astiosi contro di lui per cecità e per invidia. Ed ecco perché io non sento il bisogno di intervenire nei dibattiti sull’erotismo, in letteratura e dove che si sia, scomodando la Sinngebung e l’epoché.


Non ricorremmo mai, Anna ed io, alle macchine orgoniche. Non ci chiedemmo mai se al momento della ricreazione, l’interno della presentificazione si presentificasse in una nuova presenza, che fosse a sua volta ripresentificabile non nella memoria, ma soltanto in un nuovo atto creativo.


O se nell’atto sessuale ciascuno di noi si conoscesse come nascita del mondo in sé e ritrovamento dell’altro in sé e di sé nell’altro.


Infatti oggi parlano così gli esperti. Altri numerosi tecnici del ramo vanno dicendo che la nostra civiltà d’oggi vive all’insegna del sesso. L’insegna, sì, il segno, l’ideogramma, il paradigma, il facsimile.


Dicono: guardate come oggi per vendere un’aranciata la si accoppia a un simbolo sessuale, e così un’auto, un libro, un trattore persino. A un simbolo, certo, ma non al sesso reale. Un simbolo che funziona in vista di qualche altra cosa. Tu, dicono in sostanza, desidererai il coito per arrivare a. Mai il tuo desiderio, dioneliberi, sia per il coito in sé. Deriva da qui l’attivismo ateleologico della civiltà moderna, da qui deriva, aggiungiamo pure, lo scadimento della professione meretricia.


Come il tornio e la macchina da (per, anzi, se vogliamo accettare la correzione dei venditori d’ogni livello al soldo del marchese d’Ivrea, pallidi ed efficienti come tanti valvassini) come il tornio, dicevo, come la macchina da (per) scrivere non sono beni in sé, ma mezzi e strumenti per arrivare al denaro, così il prostituirsi non è mestiere, che si ama e si pratica perché bello, ma daccapo un mezzo e uno strumento per procurarsi denaro.


Quindi il metallurgico odia il tornio, io odio la macchina, forse più dei valvassini del marchese d’Ivrea, e la prostituta odia il coito.


La riduzione di fine a mezzo, qui e altrove, aliena, integra, disintegra, spersonalizza e automatizza, e così viene fuori l’incomunicabilità, e così viene fuori l’uomo-massa e la prostituta moderna, nelle sue varie sottospecie di cortigiana, mondana, amante, ganza, mignotta, zoccola, druda, ragazza-squillo, passeggiatrice, giù giù fino alla battona, alla barbona, alla spolverona e alla merdaiola, infima categoria che annovera le pestatrici di cacche canine negli stradoni bui di periferia, a notte.


Mai puttana però, secondo vorrebbe la parola antica che indicava, quando c’era, il mestiere. Non a caso la donna innamorata, accaldata, linfante, si glorierà di quest’antica parola corporativa e ti dirà, nel momento supremo, fastigioso, quando si allentano i nessi del vivere secondo paradigma – e allora i simboli svaniscono lasciando soltanto la realtà reale – ti dirà di sentirsi puttana.


Ma per intanto il coito si è ridotto, per la stragrande maggioranza degli utenti, a pura rappresentazione mimica, a ripetizione pedissequa e meccanica di positure, gesti, atti, trabalzamenti, in vista dell’evacuazione seminale, unico fine ormai riconoscibile e legalmente esigibile. Il resto non conta, il resto è puro simbolo che serve a spingerti all’attivismo vacuo.


Questo vuole la classe dirigente, questo vogliono sindaco, vescovo e padrone, questurino, sociologo e onorevole, vogliono non già una vita sessuale vissuta, ma il continuo stimolo del simbolo sessuale che induca a muoversi all’infinito.


Un simbolo sempre ritrovato, nelle apparenze, e che la gente accetta senza discutere: altrimenti come spieghereste la fortuna delle diete dimagranti, del modello steccoluto e asessuato, il quale riassume ed eleva a modulo la donna arrivista, attivista, carrierista, stirata, tacchettante, petulante e negata quindi al coito verace? E infatti essa già mira alla fecondazione artificiale, e magari alla gravidanza in vitro, ove vaghezza la punga di maternità, e insieme mira a ridurre il maschio un pecchione inutile.


Da tutto questo, mi pare, vien fuori la noia, l’incapacità, come dicono, di possedere gli oggetti, di entrare in rapporto con i bicchieri, i tram e le donne. Ma io so che la noia finirebbe nell’attimo in cui si ristabilisse la natura veridica del coito. Lo so, finirebbe anche la civiltà moderna, perché il coito veridico non è spinta ad alcunché, si esaurisce in se medesimo e, in ipotesi estrema, esaurisce chi lo compie.


Provate questa sorta di predicazione (evitando tuttavia di chiamarla educazione sessuale, altrimenti addio i miei limoni e buona notte al secchio) e avrete ogni anno un certo numero di coppie estinte per consunzione da eccesso di coito. Lo so bene. Ma i casi mortali sarebbero pur sempre meno d’un decimo di quelli oggi provocati dai doppi sorpassi in terza corsia, o dallo smog, o dalle malattie cardiocircolatorie.


E non sarebbe forse una bella morte? Gli amanti così periti avrebbero onori distinti, e sulle loro tombe, erette nei parchi cittadini e nei campi di gioco dei bimbi, altri amanti andrebbero a giurarsi fedeltà eterna.


E poi ogni anno, al volgere della primavera, ciascun villaggio sceglierebbe il suo bel prato, e lì s’intratterrebbero, da stelle a stelle, due trecento coppie di copulanti, sullo sfondo del cielo terso, durando lo strillare delle cicale, ma senza ventilazione di ninfe biancovelate, con accompagnamento dei cori che vanno eterni dalla terra al cielo, e in un angolo, gialla, ferma, inattiva, una macchina trebbiatrice della premiata ditta Cosimini di Grosseto.


Lo so, finirebbe la civiltà moderna, cesserebbe ogni incentivo alla produzione dei beni di consumo, essendo dono gratuito di natura l’unico bene riconosciuto e durevole; cesserebbe anche l’insorgere dei bisogni artificiali, nessuno vorrebbe più comprarsi l’auto, la pelliccia, le sigarette, i libri, i liquori, le droghe, e nemmeno giocare a biliardo, vedere la partita di calcio, discutere sul Gattopardo.


Unico grande bisogno sarebbe quello di accoppiarsi, di scoprire le centosettantacinque possibilità di incastro realizzabili fra l’uomo e la donna, ed inventarne ancora. Unirsi in piedi, seduti, supini, bocconi, inginocchiati, accoccolati, a caposotto. Eseguire la penetrazione vaginale, rettale, orale, scritta, telegrafata, intramammillare, subascellare, praticare l’irrumazione, la fellazione, la podicazione, il cunnilingio e il symplegma trium copulatorum.


Unirsi sui letti, dentro gli armadi, alla finestra guardando chi passa, nei prati di periferia e nella pineta di Tirrenia, sopra un moscone al largo della costa adriatica, abbandonati al ritmo delle onde e delle correnti, anche a rischio di toccare l’orgasmo già in acque territoriali jugoslave; negli scompartimenti di seconda sulla linea di Sarzana, al cinema dietro le tende delle uscite di sicurezza, per le scale di casa (coi piedi su due gradini diversi, ove trattisi di donne zoppe, neanche esse escluse dai festeggiamenti), dentro le cabine degli ascensori, nei capanni della spiaggia di Rimini, in acque salse poco oltre la battigia e frammezzo ai bagnanti, sul piedistallo delle statue di Pomona, nei palchetti della Scala recubando sulla pelliccia pagata dal Bubù; nei vomitoria dell’arena di Verona, fra le rovine della cittadella di Pisa, e finalmente sulla poltrona padronale del padrone Timber Jack, lasciandovi a dispetto e a prova i segni d’una eiaculazione ritardatissima.


Poche persone, ripeto, hanno sinora inteso queste cose: Abelardo, ripeto, il Molinari Enrico di New York, la mezzala Cherubillo e io.


Non D.H. Lawrence, che stravide tutto tirando a indovinare, non Ovidio, che ci diede soltanto una galleria di positure da bordello, non il povero Fausto Coppi, troppo tafanato com’era dalla sfortuna e dal gran bisogn de dané.


No davvero: questo programma massimo, eversore della moderna civiltà, esige purezza di cuore e assoluta dedizione, rinuncia ai beni mondani e castità di sentire, una specie di voto per un vivere solitario a due (massimo a tre) lungi dalle tentazioni terrene.


Chi faccia tale scelta, giacché egli mina alle basi il neocapitalismo e il socialismo insieme, si prepari a vedersi contro tutta quanta la società: fittacamere, portinaie, camerieri di albergo, segretarie di redazione, colleghi di ufficio, vigili urbani, questurini, preti, sociologi, radicali, comunisti, levatrici, banche, fornitori, enti nazionali, tutti li avrà contro.


Son cose queste che soltanto adesso, io, e con visibile sforzo, riesco a mettere sulla carta ed esprimere a parole, ma le scoprimmo vivendole, Anna e io, in quelle due prime settimane o così di continuo intercorso sessuale, con l’eccezione del tempo dedicato all’alimentazione, al sonno ed eventualmente al lavoro.


Ma subito, come ho detto, ce li trovammo tutti contro, e primo il dottor Fernaspe, che infatti mi licenziò.


Del resto mi aveva già avvisato, il Fernaspe, che in ufficio bisognava arrivare sempre in orario. Inutile poi venirgli a dire che la sera avevo fatto tardi con Marina e con Corrado per congedare il numero. Affare nostro, sbrigare il lavoro quotidiano in tempo. Ma la mattina lì, pioggia o vento che fosse, perché la disciplina sul lavoro è il primo requisito. E poi s’era accorto di altri interessi, oltre e diversi da quelli della rivista: che leggevo libri, per esempio, e che andavo al cinema. Ed era vero, poi, quel che dicevano certi, che cioè io stavo perdendo la testa per una donna? Con la battaglia per il passaggio dal neorealismo al realismo potevamo permetterci il lusso di disperdere tutte quelle energie? Dovevamo invece consacrarci tutti a questa lotta difficile, contro la censura, l’autocensura, il governo clericale, l’involuzione del resto della critica, le tresche vaticanesche e il ministero degli interni.


In queste cose uno o ci crede o non ci crede. Se ci crede deve consacrarcisi con tutte le sue energie, e lasciar perdere il resto; se poi non ci crede, lo dica subito e se ne vada. Cose che non ci sarebbe nemmeno stato bisogno di raccomandare, e che gli facevano perdere tempo, ritardare l’impaginazione e la rilettura delle bozze.


Poi un giorno io dovetti accompagnare Anna da una levatrice di via Ascoli, non potevo mandarcela sola, e così raccomandai agli altri, a Corrado e alla Marina, che dicessero al Fernaspe essere io ammalato a letto, per tutto quel giorno. Loro glielo dissero infatti, ma poi disgrazia volle che mi vedesse per strada un regista di cinema arrivato proprio la sera prima dalla capitale, un certo Peppe, così lo chiamavano, già più avanti del neorealismo ma non ancora giunto al realismo, come mi spiegava il Fernaspe. Ora questo Peppe, appena mi ebbe veduto, andò di filato dal Fernaspe e glielo raccontò e il Fernaspe era furibondo.


Non solo la mia era stata un’assenza ingiustificabile, ma anche una mancanza di lealtà nei suoi riguardi, una meschina bugia, una disonestà insomma, che andava punita, sia in sé che per dare l’esempio. Così mi disse, prima di farmi mandare dall’amministratore la lettera di licenziamento – senza liquidazione, perché io ero in prova, non erano ancora trascorsi nemmeno i tre mesi contrattuali e quindi non mi spettava una lira.


Certo, trovai subito un altro lavoro, ma, come mi spiegarono i colleghi affettuosi, cambiare posto in seguito a licenziamento significa mettersi in una posizione quanto mai precaria. Il posto lo si cambia vantaggiosamente dietro migliore offerta, e allora il padrone ti porta in palmo di mano, ma quando invece ti hanno buttato fuori, come vuoi che il padrone nuovo ti consideri qualcosa? Coi padroni c’è sempre un problema di rapporti di forza con cui fare i conti. Anche se nessuno esige referenze e record scritti, esiste sempre una sottaciuta scala dei valori professionali, oggi vali tot, perché sei stato nel tal posto, domani tot più tot perché ti hanno cresciuto lo stipendio o le mansioni e così via. Se invece ti licenziano, e in tronco, e per una meschina bugia, tu scemi di valore, e se anche magari non ti riducono né di stipendio né di mansione, sei pur sempre un minorato.


E con la nomea di aver perduto la testa per una donna. Sono fatti personali d’accordo, ma si risanno in giro, se ne parla, e tu cali anche come peso d’uomo e come valore professionale. Mi fu contro persino la vedova Viganò e non me lo nascose. Mi disse infatti che quella mia con Anna era una storia piccolo-borghese e forse anche dannunziana, identica a milioni e milioni di piccole storie di adulterio e concubinaggio, che potevano andare bene in una società ottocentesca, quando ancora contavano qualcosa gli spasimi sentimentali di una borghesia in formazione, ma oggi, per carità, con le lotte per la terra e i grandi scioperi industriali e le elezioni sindacali alla Fiat, cosa poteva contare Anna? Energie sprecate, che si sarebbero potute dedicare alla lotta contro i grandi monopoli, che distoglievano dalla partecipazione alla vita politica di base. In sezione bisognava vivere, altro che storie.


Per la verità Anna, poverina, fece il possibile per reinserirsi nella vita di sezione. Me lo diceva quasi ogni sera, che l’aver cambiato città e ambiente non la esimeva dai suoi doveri verso il partito. E così ci mettemmo in cerca della sezione del quartiere nostro.


Non fu per niente facile. Prima successe che trovammo chiuso e sulla porta un cartellino con l’orario, dalle quattordici alle diciotto e quindici. Il sabato ci ritornammo e la signorina magra fece: “Desiderano?”.


“Io sarei una compagna. Ora che abito qua vorrei fare il trasferimento in questa sezione.”


La ragazza magra guardava me, col mongomeri, la barba lunga e le occhiaie marcate. Poi rispose: “Dovrà ripassare lunedì, perché il segretario è assente”.


Ci tornammo il sabato dopo e il segretario ci fece attendere perché era in riunione, poi entrammo tutti e due: “Mi dica, prego”.


“Io sarei una compagna. Ora abito qua e vorrei fare il trasferimento.”


Anche il segretario guardava me. “E dove, esattamente, abita?”


“All’otto, terzo piano.”


Il segretario si alzò e si mise a guardare una pianta della città che stava appesa al muro.


“Otto,” disse poi. “No, guardi, il numero otto appartiene a un’altra sezione. La nostra si ferma al due.”


E fu così gentile da darci l’indirizzo della sezione buona, così il sabato dopo andammo lì a vedere se era possibile questo trasferimento. Il segretario ci disse che per i trasferimenti responsabile non è la sezione ma la cellula, e che quindi ci dovevamo rivolgere al capocellula responsabile dei compagni dal numero sei al quattordici. Facile trovarlo, perché aveva negozio proprio lì davanti, quello con la scritta “Salone” sopra la porta.


Dentro c’era anche una mensola piena di forbici, vasetti, pettini e cesoie, poteva sembrare un barbiere, ma poi guardando meglio, appese al muro si vedevano fotografie di cani tutti infiocchettati. Il capocellula aveva appunto un salone di bellezza per cani, e ci parlò a lungo dell’arte sua e delle mostre, anche internazionali, a cui aveva partecipato meritando premi e diplomi, una volta anzi la medaglia d’oro. Nel ventiquattro i fascisti gli avevano sfasciato la bottega, e lui aveva dovuto emigrare in Francia, facendo i mestieri più vari, fra cui il muratore, finché non aveva ritrovato la sua antica professione e così, oltre che nuova esperienza, in Francia s’era fatto anche un nome. Quel diploma per esempio – ce lo indicava – era il suo più ambito, il primo, all’exposition universelle de la beauté cynophile. Così era giunto a tenere fino a quattro lavoranti, nel salone parigino, e tornando in Italia dopo la liberazione non gli era stato difficile farsi una clientela, e ora infatti, pur non ignorando le sue idee politiche, anche le belle signore ricche della città venivano da lui per farsi curare il barboncino.


La settimana scorsa gli era capitata una bella coppia, e bisognava vedere – ce ne mostrò la fotografia, il maschio tutto azzurro, la femmina tutta rosa – che meraviglia di lavoro gli era venuto. Erano due bestiole di razza perfetta, e docili, quando capita così c’è soddisfazione, uno lavora con più impegno, perché poi i risultati eccoli, era un piacere dell’occhio starli a guardare. Poi parlammo del trasferimento.


“Sì, cara compagna,” disse quello, “scrivo subito alla tua vecchia cellula per avere le informazioni e il curriculum, e appena arrivano ti mando subito a chiamare. Stai pur tranquilla che non ti faccio perdere l’anzianità. Ma intanto dammi i tuoi dati, nome, cognome, paternità, indirizzo e professione.” Segnò ogni cosa su un quadernetto, e siccome io ero sempre stato zitto, ma lui mi guardava un po’ incuriosito, alla fine chiese:


“E questo signore è un compagno anche lui?”.


Anna gli spiegò di no, che ero un intellettuale molto vicino a loro, e che avrei desiderato partecipare a qualche riunione di cellula. “Sì, ma senza diritto di voto, però,” fece il capocellula. Poi entrò una signora col bassotto e ce ne dovemmo andare.


Intanto, mentre aspettavamo che al capocellula del salone arrivassero le informazioni per il trasferimento, noi cercavamo, nelle poche ore di libertà, di tenerci in contatto con il resto del mondo. Nemmeno ci rassegnavamo all’impossibilità di serbare i contatti con la classe operaia, che aveva orari sfasati rispetto ai nostri, giungeva alle sei del mattino coi treni del sonno e ripartiva alle sei del pomeriggio, oppure, terminato il lavoro, rincasava in fretta per travestirsi da ceto medio e andarsene al cinema o al bar.


Frequentavamo certe cantine rivestite di legno, dove gli avventori sembravano, dal viso e dall’abbigliamento, operai, ma neanche lì era facile, e forse quegli omaccioni col viso duro e sanguigno erano soltanto dei disoccupati cronici, spacciatori di sigarette contrabbandate, giocatori di tavoletta; e oltre tutto parlavano farfugliando, sempre fra di loro, in una lingua incomprensibile, o cantavano canzoni irriconoscibili, per via del vino.


Così i nostri amici erano sempre quelli, i fotografi del bar delle Antille, e qualche pittore, come il Cavallini di Piombino. Il pittore Ettorino invece se n’era andato a Roma, e sul conto suo correvano voci che mi garbavano poco.


Un giorno, ci ripetevamo spesso, avremmo avuto un po’ di casa nostra, e quella sarebbe diventata un porto e una bandiera; l’avremmo aperta a tutti gli uomini di sentimento e di buona volontà. Per adesso c’era la camera al terzo piano del numero otto, con il pavimento di mattoni che sputavano il rosso e tingevano il risvolto dei calzoni al momento di levarseli, e i lenzuoli della signora De Sio, rinnovati con la frequenza di uno per letto ogni quindici giorni, passando sotto quello di sopra che si sporca meno.


Anna fece levare il quadro del sacro cuore da sopra il letto, e mise al suo posto la faccia del povero Di Vittorio, ritratta a carboncino dal pittore Levi – un pezzo autentico che possiedo ancora. La signora De Sio non protestò, perché era donna buona e tollerante; e poi capiva la nostra storia, avendo due figlie malmaritate. Anche Carlone ci capiva e ci voleva bene, e così Ugo e Mario, sia detto a loro merito.


Non ci capiva né ci amava, oltre al Fernaspe e alla vedova Viganò, la portiera dello stabile, una donnetta rimpicciolita e smagrita dalla cattiveria, che potendo ci avrebbe fatto del male, spesso e volentieri. E bastava uscire un momento dalla cittadella attorno alla Braida del Guercio per sentire che anche gli altri, tutti, ci erano ostili. Eppure noi non trascuravamo mai di rivolgere la parola ai bisognosi, alle vecchiette piangenti a un angolo della strada, ai mendicanti, alle cassiere dei bar, alle commesse dei negozi.


Ai passanti no, perché erano troppo occupati a passare e non avrebbero tollerato un’intrusione nella loro marcia quotidiana, specie poi da parte di questi due – così pensavano, lo so – scalmanati, lui in mongomeri e con la barba lunga, lei con addosso quei coloroni e quelle gonnellone ampie e il fazzoletto rosso legato alla gola. Tipi da non fidarsi, pensavano, perdigiorno senza una lira in tasca, sicuramente.


E quest’ultima parte era vera: nel nuovo impiego, a cui ero arrivato dopo il licenziamento senza liquidazione, e quindi un po’ per pietà, mi davano, secondo le ritenute, poco più o poco meno di centomila lire al mese, e la metà bisognava mandarla tutti i mesi a Mara, perché si sa come sono fatte queste ragazze di Bube, sempre fedeli alla scelta del dovere, alle istituzioni, e ai quattrini.


Povera Mara, però: non sapeva ancora nulla, e continuava a scrivermi due volte la settimana: il bambino ha avuto la tosse ma ora sta meglio e non ti preoccupare, tu abbiti cura, copriti bene, mangia regolarmente e sta’ tranquillo che me la cavo, anche se la vita rincara e grazie dei soldi.


Continuava a badare alla casa e al bimbo: la spesa ogni mattina, con le quattro chiacchiere in piazza del mercato in compagnia delle amiche (“Quando ci vai su?” le chiedevano un po’ maligne, quelle, a un tratto, ma lei subito scantonava con un: “Presto presto”); poi le faccende di casa, una rimestata al tegame ogni tanto, perché il riso non attacchi al fondo, il pranzo, rigovernare, a sera la passeggiatina col bimbo e a letto presto. Me la figuravo, appena ci pensassi, questa sua vita grigia e a suo modo eroica, fatta di mille gesti eguali e dimessi, fedele giorno per giorno alla scelta, al dovere, ai luoghi. Non va avanti così la civiltà? Non è forse il continuo lavorio di queste formiche che tiene in piedi la vita dei popoli, e ne ordisce il tessuto connettivo? Ed allora, era giusto che io, amico degli umili e dei diseredati, alleato per mia scelta della classe operaia, eversore in pectore di torracchioni, umiliassi e diseredassi questa donna?


L’ostilità degli altri, dichiarata a volte, più spesso muta ma sensibile nella faccia chiusa di quante formiche umane io incontrassi appena uscito dalla Braida Guercia, coi suoi pittori capelluti, le ragazze dai piedi sporchi, e i fotografi morti di fame, non era forse giusta? L’ostilità degli altri a volte mi entrava in petto: che cosa vuoi da me, Anna? Perché ci sei venuta? Che cosa ci fai, tu, qua dentro?

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