mercoledì 15 maggio 2024

CERTE DONNE Estratto da "Troppa felicità " Alice Munro




CERTE DONNE
Estratto da "Troppa felicità "
Alice Munro
  Certe volte mi stupisco se penso a quanto sono vecchia. Mi ricordo ancora di quando, d’estate, si spruzzavano d’acqua le strade del paese per tenere bassa la polvere, di quando le ragazze portavano guêpière e sottogonne che stavano ritte da sole, e di quando non si poteva fare quasi niente contro malattie come la polio e la leucemia. Qualcuno dopo la polio si riprendeva, piú o meno zoppo, ma chi si ammalava di leucemia si metteva a letto e, dopo un declino di settimane o mesi in un clima di tragedia, se ne andava. 
  Fu per un caso simile che ebbi il mio primo impiego, nelle vacanze estive dei miei tredici anni. Il giovane Mr Crozier (Bruce) era tornato sano e salvo dalla guerra, dove aveva combattuto come pilota, aveva frequentato la facoltà di Storia al college, si era laureato, sposato, e poi si era ammalato di leucemia. Bruce e la moglie erano venuti a stare a casa della matrigna di lui, la vecchia Mrs Crozier. La giovane Mrs Crozier (Sylvia) era impegnata due pomeriggi la settimana come docente di corsi estivi nello stesso college dove si erano conosciuti, a una quarantina di miglia da lí. Fui assunta per occuparmi del giovane Crozier durante le assenze della moglie. Stava a letto nella stanza d’angolo che s’affacciava sulla via al piano di sopra, ed era ancora in grado di andare in bagno da solo. Non dovevo fare altro che portargli acqua da bere, tirare su o giú gli avvolgibili e vedere cosa voleva quando suonava la campanella che aveva sul comodino da notte. 
  Di solito voleva che gli spostassi il ventilatore. L’aria gli piaceva ma gli dava fastidio il ronzio. Quindi voleva il ventilatore in camera per un po’, e poi lo voleva in corridoio, ma accanto alla porta aperta. 
  Quando lo seppe, mia madre si chiese perché non avessero sistemato il paziente in un letto al piano di sotto dove, coi soffitti alti, sarebbe stato piú fresco. 
  Le dissi che non c’erano camere, di sotto. 
– Be’, santo cielo, non possono preparargliene una? Provvisoriamente? 
  Il commento dimostrava quanto poco conoscesse casa Crozier e le abitudini della vecchia Mrs Crozier. La vecchia Mrs Crozier camminava col bastone. Nei pomeriggi in cui ero lí saliva un’unica volta con passo minaccioso per vedere come stava il figliastro, e sono dell’opinione che anche in mia assenza non si scomodasse di piú. La seconda volta saliva per necessità quando era ora di andare a letto. Ma l’idea di una camera al pianoterra l’avrebbe scandalizzata non meno di un wc in salotto. Per fortuna un gabinetto da basso già c’era, dietro la cucina, ma ero certa che se l’unico servizio fosse stato di sopra, lei si sarebbe sobbarcata la fatica di salire ogniqualvolta ne avesse avuto bisogno, piuttosto che contemplare un cambiamento tanto radicale e traumatico. 
  Mia madre si era messa in testa di darsi all’antiquariato, perciò era curiosissima di vedere cosa ci fosse dentro quella casa. Riuscí anche a entrare una volta, durante il mio primo pomeriggio di lavoro. Ero in cucina e rimasi impietrita, quando la sentii gorgheggiare un «Ehi, di casa!» accompagnato dal mio nome. Seguí qualche colpo pro forma sulla porta mentre già avanzava sui gradini di cucina. E poi il passo calcato della vecchia Mrs Crozier in arrivo dalla veranda. 
  Mia madre disse che aveva fatto un salto per vedere come se la cavava sua figlia. 
– Non c’è male, – rispose Mrs Crozier sulla soglia, impedendo la vista degli arredi antichi.   Mia madre fece ancora qualche commento imbarazzante e alla fine se ne andò. Quella sera disse che la vecchia Crozier non sapeva comportarsi, perché era solo la seconda moglie, rimediata a Detroit durante un viaggio d’affari, il che spiegava pure perché fumasse e si facesse i capelli neri come catrame e la bocca rossa come uno sbaffo di marmellata. Non era neppure la madre dell’invalido al piano di sopra. Non avrebbe avuto abbastanza cervello per essere sua madre. 
 (Era una delle nostre solite liti; quella volta riguardava la sua improvvisata, ma in realtà era irrilevante). 
Alla vecchia Crozier dovevo sembrare non meno invadente di mia madre, e altrettanto egocentrica. Il primissimo pomeriggio ero entrata nel salotto sul retro, avevo aperto il mobile libreria e mi ero passata in rassegna la collana dei Classici Harvard allineati in bell’ordine. Non trovai quasi nulla di incoraggiante, ma scelsi un libro che mi pareva potesse essere un romanzo, a dispetto del titolo in lingua straniera, I Promessi Sposi. Sí, sembrava proprio un romanzo, ed era in inglese. 
  Al tempo dovevo avere l’idea che i libri fossero tutti gratis, dovunque li si trovasse. Come l’acqua delle fontanelle pubbliche. 
  Quando la vecchia Crozier mi vide con quel libro in mano mi chiese dove l’avessi preso e che ci facessi. Dalla libreria, risposi, e me lo sono portato di sopra per leggerlo. La cosa che pareva scandalizzarla di piú era che da sotto, l’avessi portato sopra. Sull’intenzione di leggerlo sembrava disposta a lasciar correre, come se si trattasse di un’attività troppo estranea alle sue abitudini per poterla prendere in considerazione. Infine, disse che, se volevo un libro, dovevo portarmelo da casa. 
 I Promessi Sposi, comunque, era un mattone. Non mi dispiacque doverlo rimettere a posto. 
  Naturalmente c’erano dei libri anche nella stanza del malato. Leggere, lí, sembrava accettabile. I volumi però erano quasi sempre aperti a faccia in giú, come se Mr Crozier si limitasse a leggiucchiarli qua e là per poi accantonarli. I titoli, in ogni caso, non mi tentavano. Civiltà al paragone. La grande congiura. 
  E poi, la nonna mi aveva messo in guardia dicendomi di evitare piú possibile di toccare quello che aveva toccato il malato, per via dei germi, e che dovevo usare sempre un panno per prendere il suo bicchiere dell’acqua. 
  Mia madre disse che la leucemia non la portavano i germi. 
– E chi la porta, allora? – disse la nonna. 
– I dottori non lo sanno. 
– Bah. 
  Era la giovane Mrs Crozier a riportarmi a casa in macchina, anche se la distanza da percorrere era giusto quella da un capo all’altro del paese. Mrs Crozier era una donna alta e sottile, coi capelli chiari e la carnagione mutevole. Certe volte aveva delle chiazze rosse in faccia, come se si grattasse con le unghie. Correva voce che fosse piú vecchia del marito, che lui fosse stato suo studente al college. Secondo mia madre a nessuno era passato per la testa che, come reduce di guerra, lui poteva aver tranquillamente seguito i suoi corsi senza per forza essere piú giovane. La gente ce l’aveva con lei solo perché era una donna istruita. 
  Correva anche un’altra voce: che lei avrebbe potuto starsene a casa e occuparsi del marito, come aveva promesso di fare quando l’aveva sposato in chiesa, anziché andare in giro a insegnare. Anche su questo mia madre la difendeva, dicendo che erano solo due pomeriggi la settimana e che le conveniva non abbandonare la professione, visto che tra non molto sarebbe rimasta sola. Per giunta, se non si levava di torno la vecchia signora una volta ogni tanto, non c’era da credere che sarebbe impazzita? Mia madre difendeva regolarmente le donne che lavoravano fuori casa, e la nonna l’attaccava sempre per questo. 
 Un giorno provai a conversare con la giovane Mrs Crozier, alias Sylvia. Era l’unica persona laureata che conoscessi, oltre che l’unica professoressa. A parte suo marito, ovviamente, ma lui ormai non contava piú. 
– Scusi, ma Toynbee scriveva libri di storia? 
– Come, prego? Ah. Sí. 
  Non le importava di nessuno di noi, né di me, né dei suoi detrattori o sostenitori. Non badava a noi piú che a degli insetti su un paralume. 
  Quel che contava per la vecchia Mrs Crozier era soprattutto il suo giardino di fiori. C’era un uomo che veniva a darle una mano, piú o meno vecchio quanto lei, ma meglio in arnese. Abitava nella nostra via ed era proprio tramite lui che la vecchia era venuta a sapere di me come possibile aiutante da assumere. A casa non faceva altro che spettegolare e coltivare erbacce, mentre lí pacciamava e sfalciava senza sosta, con lei sempre appresso, china sul bastone, all’ombra del grande cappello di paglia. Certe volte la vecchia sedeva sulla panchina continuando da lí a fare commenti e impartire ordini, intanto che fumava una sigaretta. In principio, osavo avventurarmi tra le siepi perfette per chiedere se lei o il suo aiutante gradivano un bicchiere d’acqua, e lei sbottava in un «Attenta alle mie aiuole» prima di dirmi di no. 
  Nessuno portava mai fiori in casa, invece. Qualche papavero l’aveva fatta franca e cresceva selvatico oltre la siepe, quasi sulla strada, perciò chiesi il permesso di raccoglierne un mazzo per rallegrare la stanza del malato. 
– Morirebbero e basta, – mi disse, evidentemente senza rendersi conto dell’infelicità del commento, date le circostanze. 
  Determinati suggerimenti o proposte le facevano tremare i muscoli della faccia sottile e piena di macchie, socchiudere gli occhi neri e muovere le labbra come se avesse in bocca un sapore cattivo. In quei casi era in grado di bloccarti sul nascere, come si estirpa una pianta di rovo. 
  I due giorni in cui andavo a lavorare non erano consecutivi. Diciamo che potevano essere il martedí e il giovedí. Il primo giorno rimasi sola con il malato e la vecchia Mrs Crozier. Il secondo, arrivò una persona di cui nessuno mi aveva parlato. Sentii l’auto sul vialetto d’ingresso, una corsetta vivace sui gradini del retro e qualcuno che entrava in cucina senza bussare. Dopodiché la sconosciuta chiamò «Dorothy», che io non sapevo fosse il nome della vecchia. La voce era quella di una donna o di una ragazza, una voce scherzosa e sfrontata al tempo stesso, da avere quasi l’impressione che ti stesse facendo il solletico. 
  Mi precipitai giú per le scale di servizio dicendo: – Credo che sia in veranda. 
– Santi numi! E tu chi sei? 
  Le spiegai chi ero e che ci facevo lí, e la giovane disse di chiamarsi Roxanne. 
– Sono la masseuse. 
  Non mi piaceva farmi sorprendere da una parola che non conoscevo. Non dissi nulla, ma lei capí come stavano le cose. 
– Ti ho presa in castagna, eh? Faccio massaggi. Mai sentito dire? 
  Intanto apriva la borsa che aveva con sé. Comparvero pezze, cuscinetti e spazzole piatte foderate di velluto. 
– Mi serve dell’acqua per scaldare questi, – disse. – Puoi mettere su il bollitore. 
  La casa era lussuosa, ma l’acqua corrente era solo fredda, come a casa mia. 
  A quanto sembrava mi aveva identificata come qualcuno disposto a prendere ordini, specie se impartiti con voce cosí suadente, magari. Aveva ragione, anche se è probabile non immaginasse che la mia prontezza aveva piú a che vedere con la mia curiosità che con il suo fascino. 
  Era già abbronzata benché fosse l’inizio dell’estate, e il taglio di capelli alla paggio mostrava riflessi ramati, roba che al giorno d’oggi si può facilmente ottenere comprando un flacone di tinta, ma che allora era invidiabile e insolita. Occhi marroni, una fossetta su una sola guancia, un’aria cosí sorridente e maliziosa che non si riusciva mai a guardarla abbastanza da stabilire se fosse davvero carina, né quanti anni avesse. 
  Il posteriore le faceva una bella curva all’infuori, anziché distribuirsi sui fianchi. 
  Scoprii subito che era nuova in paese, sposata col meccanico del distributore della Esso, e che 
aveva due figli piccoli, di quattro e tre anni. – Mi ci è voluto un bel po’ per capire come mai arrivavano, – disse con una delle sue strizzatine d’occhi ammiccanti. 
  Aveva seguito il corso per diventare masseuse a Hamilton, dove abitavano prima, scoprendo di avere un talento innato per quel lavoro. 
– Dor-thee? 
– È in veranda, – le ripetei. 
– Lo so. La stavo solo prendendo in giro. Ora tu forse non sai come funzionano le cose, ma per 
farsi fare un massaggio bisogna spogliarsi completamente. Finché si è giovani, non è un problema, ma quando si invecchia, sai, ci si può vergognare. 
  E là si sbagliava, almeno riguardo alla sottoscritta. Voglio dire, rispetto al non essere un problema spogliarsi quando si è giovani.   – Perciò forse è meglio se te ne vai. 
  Questa volta scesi dallo scalone, mentre lei armeggiava con l’acqua calda. Cosí ebbi modo di lanciare un’occhiata attraverso la porta aperta della veranda che in realtà di sole ne prendeva ben poco, avendo le vetrate sui tre lati invase dal generoso fogliame delle catalpe. 
  Vidi la vecchia Mrs Crozier distesa a pancia in giú su un divanetto con la faccia voltata dall’altra parte, completamente nuda. Una striscia sottile di carne chiara. Non sembrava vecchia come le parti di lei sempre esposte: le mani e gli avambracci cosparsi di efelidi brune e venati di scuro, le guance a macchie marroni. Questa parte di corpo invece, solitamente coperta in tutta la sua lunghezza, era di un bianco giallognolo, come legno appena scortecciato. 
  Sedetti sul gradino in cima alla scala e ascoltai i rumori del massaggio. Tonfi e grugniti. La voce di Roxanne si era fatta imperiosa adesso, gioviale ma piena di esortazioni. 
  – C’è un brutto nodo qui. Accidenti. Mi sa che dovrò andarci pesante. Scherzavo. Oh, su su, si lasci andare. Lo sa che ha proprio una bella pelle, qui? All’altezza del fondoschiena, per cosí dire. Liscia come il culetto di un bebè. Adesso devo proprio schiacciare, sentirà un po’ male. Molli la tensione. Faccia la brava bambina. 
  La vecchia Mrs Crozier emetteva qualche sommesso guaito. A metà tra il lamento e il senso di gratitudine. Andò per le lunghe, dopo un po’ mi annoiai. Tornai a sfogliare certi vecchi numeri del «Canadian Home Journal» che avevo trovato in un mobile dell’ingresso. Leggevo le ricette e guardavo i servizi di una moda sorpassata, finché udii Roxanne che diceva: – Adesso pulisco tutto quanto e andiamo di sopra come ha detto lei. 
  Di sopra. Feci riscivolare le riviste al loro posto in quel mobile che avrebbe fatto gola a mia madre ed entrai nella camera di Mr Crozier. Dormiva, o comunque teneva gli occhi chiusi. Spostai il ventilatore di qualche centimetro, gli lisciai la coperta e mi avvicinai alla finestra per armeggiare con le tapparelle. 
  Come previsto, dalle scale sul retro provenne il rumore del passo lento e minaccioso della vecchia Mrs Crozier col suo bastone, preceduto dal rapido scalpiccio di Roxanne, che diceva: – Si tenga pronto, lassú, perché adesso arriviamo a scovarla. 
  Ora Mr Crozier aveva gli occhi aperti. Oltre alla consueta espressione spossata c’era nel suo sguardo una specie di allarme. Ma prima che potesse tornare a fingersi addormentato, Roxanne fece irruzione nella stanza. 
– Ah, ecco dove si nascondeva. Stavo giusto dicendo alla sua matrigna che era ora che ci presentassero. 
  Mr Crozier disse: – Piacere di conoscerla, Roxanne. 
– Come fa a sapere come mi chiamo? 
– Le voci corrono. 
– Ma ha un ragazzino, quassú, – disse Roxanne rivolgendosi alla vecchia Mrs Crozier, che intanto faceva il proprio rumoroso ingresso nella camera. 
– Smettila di pasticciare con quella tapparella, – mi disse la vecchia. – Va’ a prendermi un po’ d’acqua fresca se non sai cosa fare. Non fredda, ho detto fresca. 
– Che disastro, – disse Roxanne a Mr Crozier. – Chi le ha fatto la barba e quando è stata l’ultima volta? 
– Ieri, – rispose lui. – Ci penso da solo, cerco di arrangiarmi. 
– Lo immaginavo, – disse Roxanne, e a me: – Mentre prendi l’acqua, puoi metterne un po’ a scaldare per me, cosí vedo di raderlo come si deve? 
  Fu cosí che Roxanne si assunse quest’altro incarico, dopo il massaggio, una volta la settimana. 
A Mr Crozier, quel primo giorno, disse che non doveva preoccuparsi. 
– Non ho intenzione di prenderla a botte come mi avrà sentito fare di sotto, con la Dorothysaura. Prima di frequentare il corso da massaggiatrice, facevo l’infermiera. Anzi, l’aiuto infermiera. Cioè, ero una di quelle che si sobbarcano tutta la fatica, prima che arrivi l’infermiera a dare ordini a destra e a manca. In ogni caso, ho imparato a far star bene la gente. 
 La Dorothysaura? Mr Crozier sorrise. Ma la cosa bizzarra fu che anche la vecchia Mrs Crozier si limitò a sorridere. 
  Roxanne lo sbarbò perfettamente. Gli lavò con la spugna faccia, collo, petto, mani e braccia. Gli tirò le lenzuola intorno, riuscendo chissà come a non disturbarlo, e gli sistemò i cuscini dopo averli sprimacciati. Senza mai smettere di fare battute e dire sciocchezze. 
– Comunque, Dorothy, lei dice bugie. Mi aveva detto che quassú c’era un ammalato, perciò io arrivo e mi chiedo, Ma dove sarebbe l’ammalato? Non vedo nessun ammalato da queste parti. Giusto? 
  Mr Crozier disse: – Lei come mi definirebbe, sentiamo. 
– Un convalescente. Ecco come la definirei. Non voglio dire che dovrebbe alzarsi e andare a 
ballare, non sono cosí stupida. Mi rendo conto che ha bisogno di riposo a letto. Ma come convalescente. Un malato grave come dovrebbe essere lei in teoria, non ha questa bella cera. 
  Ritenevo offensive simili ciance e moine. Mr Crozier aveva una cera orrenda. Quando lo aveva lavato gli si potevano contare le costole, come a un sopravvissuto a una carestia, era alto, calvo, aveva la pelle di un pollo appena spennato, e il collo cordolato come quello di un vecchio. Ogni volta che mi ero occupata di lui in qualsiasi modo, avevo evitato di guardarlo. E questo non soltanto perché era brutto e malato. Soprattutto perché stava morendo. Avrei provato in parte la stessa ritrosia anche se fosse stato di una bellezza angelica. Sentivo in casa un’atmosfera di morte che aumentava man mano che ci si avvicinava alla sua stanza, e lui ne era al centro, come l’ostia che i cattolici custodiscono in quella scatola dal nome formidabile, tabernacolo. Mr Crozier era l’essere segnato, diverso da tutti gli altri, ed ecco che se ne arrivava Roxanne a invadere il suo territorio a furia di scherzi, vanterie e trovate che secondo lei l’avrebbero distratto. 
  Si informò, per esempio, se in casa c’era un gioco chiamato dama cinese. 
  Doveva essere la seconda volta che veniva; gli chiese cosa facesse tutto il giorno. 
  – Qualche volta leggo. Dormo. 
  E di notte, come riusciva a prendere sonno? 
– Se non dormo, sto sveglio. Penso. A volte leggo. 
– Non disturba sua moglie? 
– Lei dorme nella stanza sul retro.   – Ah-nn. Lei ha bisogno di svago. 
– Pensa di cantare e ballare per me? 
  Colsi la vecchia Mrs Crozier distogliere lo sguardo, con un sorriso spontaneo. 
– Non faccia l’impertinente, – disse Roxanne. – A carte, come se la cava? 
– Detesto giocare a carte. 
– Be’, c’è una dama cinese in casa? 
  Roxanne rivolse la domanda alla vecchia Mrs Crozier la quale, dapprima disse di non averne idea, poi si chiese se potesse essercene una nel cassetto del buffet in sala da pranzo.   E mi spedirono sotto a guardare. Tornai con il tavoliere e il barattolo delle biglie.   Roxanne piazzò il tavoliere sulle gambe di Mr Crozier e tutti e tre ci mettemmo a giocare, mentre la vecchia Crozier diceva di non aver mai capito il gioco e di non essere mai riuscita a mettere a posto le biglie. (Con mio assoluto stupore, parve offrire il commento come una battuta). A Roxanne capitava di squittire quando le toccava la mossa o di brontolare se uno di noi le mangiava una delle biglie, ma faceva attenzione a non disturbare mai il paziente. Teneva il corpo fermissimo e appoggiava le biglie leggere come piume. Cercai di imparare a imitarla, perché se non lo facevo mi spalancava gli occhi in segno di ammonimento. Sempre sorridendo però, con la sua fossetta sulla guancia.  Ricordavo di avere sentito la giovane Mrs Crozier in macchina dirmi che suo marito non gradiva conversare. Lo affaticava, disse, e la stanchezza tendeva a renderlo piú irritabile. Perciò pensai che quella fosse l’occasione migliore per irritarsi. Essere costretto a giocare un gioco cretino sul proprio letto di morte, quando perfino attraverso le lenzuola si sentiva che aveva la febbre. 
  Sylvia, però, si sbagliava, a quanto pare. Mr Crozier doveva essersi fatto piú paziente e gentile di quanto lei immaginasse. Con gl’inferiori – e Roxanne certamente lo era – si mostrava piú tollerante, piú cortese. Quando doveva aver solo voglia di starsene lí sul letto a riflettere sui sentieri della vita passata e a concentrarsi sul proprio futuro. 
  Roxanne gli asciugava il sudore della fronte, dicendo: – Non si agiti tanto, non ha ancora vinto. 
– Roxanne, – fece lui. – Roxanne. Lo sa chi si chiamava cosí? 
– Hmm? – disse lei, ma io mi intromisi. Fu piú forte di me. 
– La moglie di Alessandro Magno. 
  La mia testa era come il nido di una gazza ladra, pieno di cianfrusaglie di sapere. 
– Ma va? – chiese Roxanne. – E chi diavolo era? Alessandro Magno? 
  In quell’istante, quando guardai Mr Crozier, capii una cosa triste e inaudita. 
  Gli faceva piacere che lei non lo sapesse. Ne ero sicura. Gli faceva piacere che non lo sapesse. L’ignoranza di lei risvegliava un piacere che si fondeva sopra la lingua come un avanzo di caramella al latte. 
  Il primo giorno era arrivata in pantaloncini corti, come me, ma la volta successiva, e in seguito sempre, Roxanne indossava un vestito verde chiaro di tessuto rigido e lustro. Lo si sentiva frusciare quando arrivava di corsa su per le scale. Portò a Mr Crozier un vaporoso cuscinetto di lana per evitare le piaghe da decubito. Era immancabilmente scontenta della sua biancheria da letto, che si sentiva in dovere di sistemargli. Ma per quanto borbottasse, i suoi gesti non lo irritavano mai e anzi riusciva a fargli ammettere che dopo stava meglio. 
  Non si perdeva mai d’animo. Certe volte se ne arrivava con una scorta di indovinelli. O di barzellette. Alcune erano del genere che mia madre definiva sporche e non permetteva circolassero in casa nostra, a meno che a raccontarle non fossero determinati parenti della famiglia di mio padre i quali in pratica non disponevano di altri argomenti di conversazione. 
  Le barzellette di solito cominciavano con una domanda apparentemente seria ma insulsa. 
  Avete sentito di quella suora che è entrata in un negozio per comprare un tritacarne? 
  Avete sentito che cosa ha ordinato per dolce una coppia di sposi, la prima notte di nozze?   Le risposte contenevano sempre un doppio senso di modo che chi raccontava le barzellette poteva fingersi scandalizzato e accusare gli ascoltatori di avere la testa piena di pensieri sconci.   E quando ci ebbe abituati tutti a sentirle fare questo genere di battute, Roxanne procedette allo stadio successivo, quello di barzellette di cui credo mia madre ignorasse perfino l’esistenza: facezie con frequenti allusioni a pratiche sessuali con pecore, polli o macchine da mungitura. 
  «Terrificante, no?», commentava sempre, alla fine. Aggiungeva che non sarebbe venuta a conoscenza di roba simile se suo marito non l’avesse portata a casa dall’officina. 
  Il fatto che la vecchia Mrs Crozier ridacchiasse mi sconcertava almeno quanto le battute stesse. Forse non le capisce, pensavo, e si diverte solo ad ascoltare Roxanne, qualunque cosa racconti. Se ne stava seduta con un sorriso ebete stampato in faccia, come se avesse ricevuto un regalo e sapesse, ancora prima di averlo scartato, che le sarebbe piaciuto tanto. 
  Mr Crozier non rideva, ma lui comunque non rideva mai. Alzava le sopracciglia, fingendo di non approvare, di ritenere Roxanne scurrile ma pur sempre adorabile. Forse era solo un fatto di educazione, o di riconoscenza per tutti gli sforzi di lei, di varia natura. 
Personalmente mi premuravo di ridere, perché Roxanne non mi catalogasse come piena di 
candori moralistici. 
  Faceva anche un’altra cosa, sempre per tenerci allegri: ci raccontava della sua vita. Di quando era scesa a Toronto da un paesino sperduto nel Nord dell’Ontario per andare a trovare sua sorella maggiore, di come aveva trovato lavoro da Eaton, prima come inserviente alla caffetteria e poi, d’improvviso, grazie a uno dei dirigenti che l’aveva notata perché si dava da fare ed era sempre di buonumore, come commessa al reparto guanti. (Avevo l’impressione che, a sentir lei, fosse un po’ come essere stati scoperti dalla Warner Bros.). E chi ti va a capitare in reparto, un bel giorno? Niente meno che Barbara Ann Scott, la stella del pattinaggio, venuta a comprarsi un paio di guanti in capretto bianco lunghi fino al gomito. 
  Frattanto la sorella di Roxanne aveva un tale numero di spasimanti che la sera, per decidere con quale uscire, faceva a testa o croce, e mandava Roxanne a scusarsi con gli esclusi alla porta della pensione, mentre lei e il prescelto se la svignavano dall’ingresso di servizio. Roxanne diceva che forse era stato cosí che le si era sciolta la parlantina. Senza contare che dopo un po’ qualcuno dei giovanotti conosciuti in quel modo aveva cominciato a invitare fuori lei, anziché sua sorella. Non sapevano quanti anni avesse davvero. 
  – Me la sono proprio spassata, – diceva. 
  Cominciai a capire che esistono conversatrici che la gente ama ascoltare non per quello che raccontano, ma per il piacere con cui lo fanno. Una specie di compiacimento, una luce negli occhi, la convinzione che ogni loro aneddoto sia di per sé rilevante e loro stesse, fonte intrinseca di godimento. Potevano forse esistere persone – gente come me – che non cedevano a questo genere di allegria, ma a loro unico discapito. E la gente come me, in ogni caso, non sarebbe mai stata il pubblico d’elezione di quelle conversatrici. 
  Mr Crozier sedeva appoggiato ai cuscini e in tutto e per tutto mostrava di essere contento. Contento di chiudere gli occhi e lasciarla parlare, per poi riaprirli e trovarsi di fronte Roxanne, come una sorpresa di cioccolata la mattina di Pasqua. E ancora godersi, a occhi aperti, lo spettacolo di ogni fremito delle sue labbra rosso caramella, di ogni dondolio del suo generoso fondoschiena.   La vecchia Mrs Crozier intanto ondeggiava avanti e indietro in un curioso stato di appagamento. 
  Roxanne trascorreva al piano di sopra lo stesso tempo che passava sotto, al massaggio. Mi chiedevo se la pagassero, per farlo. Se cosí non era, come poteva permettersi quel lusso? E chi poteva pagarla, se non la vecchia Crozier in persona? 
  E perché? 
  Per tenere comodo e allegro il figliastro? Poco probabile, secondo me. 
  Per farsi intrattenere in modo bizzarro? 
  Un pomeriggio, dopo che Roxanne ebbe lasciato la sua stanza, Mr Crozier disse di avere piú sete del solito. Scesi a prendergli dell’acqua dalla caraffa che stava al fresco nel frigorifero. Roxanne si preparava ad andarsene. 
– Non intendevo fare cosí tardi, – disse. – Non vorrei mai incontrare la signora maestra. 
  Per un attimo non capii. 
– Sai, no? Syl-vi-a. Anch’io non le vado tanto a genio, giusto? Ti parla mai di me, quando ti porta a casa? 
 Risposi che Sylvia non l’aveva mai neanche nominata, durante i tragitti in macchina. Ma perché avrebbe dovuto? 
– Dorothy sostiene che Sylvia non lo sa prendere. Che lo faccio di gran lunga piú contento io. 
Cosí dice Dorothy. E non mi stupirei che gliel’avesse anche detto in faccia. 
  Pensai a Sylvia che ogni giorno, tornando a casa, si precipitava di sopra nella stanza del marito, prima ancora di rivolgere la parola a me o alla suocera, con il viso acceso dall’ansia e dalla disperazione. Avrei voluto ricordare questo fatto, difenderla in qualche modo, ma non sapevo come. Le persone sicure di sé come Roxanne, del resto, sembravano avere spesso la meglio su di me, se non altro non prestandomi ascolto. 
– Sei certa che non ti dice mai niente di me? 
  Ripetei di no, mai niente. – È stanca, quando arriva a casa. 
– Sí, sí. Siamo tutti stanchi. Solo che qualcuno impara a far finta di non esserlo. 
  A quel punto in effetti mi uscí una frase, per contrastarla. – A me Sylvia piace abbastanza. 
  – Ma non mi dire, – mi canzonò lei. 
 E mi prese alla sprovvista, tirandomi scherzosamente una ciocca della frangia che di recente mi ero tagliata da sola. 
  – Dovresti proprio farti aggiustare quei capelli come si deve. 
  Cosí dice Dorothy. 
  Ammesso che Roxanne fosse per carattere a caccia di ammirazione, Dorothy, cosa cercava? Sentivo che c’era di mezzo una cattiveria, ma non sarei stata in grado di definirla. Forse era solo il desiderio di avere Roxanne, e la sua vitalità, in giro per casa il doppio del tempo. 
  Ormai era piena estate. L’acqua si fece bassa nei pozzi. L’autobotte smise di passare a spruzzare le strade e alcuni negozi incollarono alle vetrine una specie di cellophane giallo per evitare che i prodotti sbiadissero. Le foglie erano chiazzate, e l’erba secca. 
  La vecchia Mrs Crozier si ostinava a far zappare il giardino. È cosí che si deve fare nei periodi di siccità, si continua a dissodare il terreno per sfruttare ogni avanzo di umidità sottostante.   I corsi estivi del college si sarebbero conclusi dopo ferragosto, e a quel punto Sylvia Crozier sarebbe stata a casa tutti i giorni. 
  Mr Crozier era sempre contento di vedere Roxanne, ma sovente si addormentava. Gli capitava di crollare senza nemmeno buttare indietro la testa, a metà di una barzelletta o di un aneddoto. Dopo un momento si risvegliava, e domandava dov’era. 
– Sempre qui, dormiglione. E dovrebbe anche starmi a sentire. Le ci vorrebbe una sculacciata. 
Oppure, che ne dice se provo a farle il solletico? 
  Lo capiva chiunque che si andava spegnendo. Aveva le guance incavate come quelle di un vecchio e la punta delle orecchie trasparente come se fossero fatte di plastica e non di carne. (Benché al tempo nessuno di noi dicesse «plastica», bensí «celluloide»). 
  Il mio ultimo giorno di lavoro, e l’ultimo di scuola per Sylvia, cadde in una giornata di massaggio. Sylvia dovette uscire presto per una cerimonia al college e io perciò fui costretta a farmela a piedi da un capo all’altro del paese e arrivai quando Roxanne era già lí. Anche la vecchia Mrs Crozier era in cucina, e mi guardarono entrambe come se si fossero dimenticate di me e io avessi interrotto qualcosa. 
– Li ho ordinati apposta, – diceva la vecchia Crozier. 
  Doveva riferirsi alla scatola di biscotti alla mandorla che stava sul tavolo. 
– Sí, ma io gliel’ho detto, – ribatté Roxanne. – Quella roba, non posso mangiarla. Per nessunissima ragione. 
– Ho mandato apposta Hervey in panetteria a comprarli. 
  Hervey era il vicino di casa, quello che l’aiutava coi fiori. 
– E che se li mangi Hervey, allora. Non sto scherzando, mi fanno proprio malissimo. 
– Pensavo che ci potevamo concedere qualcosa di buono, di un po’ speciale, – incalzò Mrs Crozier. – Dato che è l’ultimo giorno, prima… 
– L’ultimo giorno prima che quella piazzi le chiappe in casa, lo so. Ma non servirebbe a niente che mi riempissi di chiazze come una iena ridens, no? 
  Di quali chiappe piazzate in casa si stava parlando? 
  Di quelle di Sylvia. Di Sylvia. 
La vecchia Mrs Crozier indossava uno splendido négligé di seta nera disegnato a ninfee e 
anatre. Disse: – Con lei tra i piedi, possiamo scordarci qualsiasi strappo alla regola. Vedrai.   – Allora diamoci da fare e non perdiamo altro tempo, oggi. Non se la prenda per questa roba, non ce l’ho con lei. Lo so che l’ha fatto per gentilezza. 
– Lo so che l’ha fatto per gentilezza, – le fece il verso la vecchia in un falsetto cattivo. Poi tutte e due guardarono me, e Roxanne disse: – La caraffa è al solito posto. 
  Presi dal frigo la caraffa d’acqua di Mr Crozier. Pensai che, di tutta la scatola, avrebbero potuto offrirmi almeno un biscotto alla mandorla, ma a quanto pare a loro non venne in mente.  Pensavo di trovarlo abbandonato sui cuscini a occhi chiusi, ma Mr Crozier era invece sveglissimo. 
– Aspettavo, – disse, e prese fiato. – Che tu arrivassi, – proseguí. – Voglio chiederti un favore. 
D’accordo? 
  Certo, dissi io. 
– Sai tenere un segreto? 
  Avevo avuto paura che potesse chiedermi di aiutarlo a mettersi sulla comoda che era da poco comparsa in camera sua, ma quello non avrei dovuto sicuramente tenerlo segreto. 
  Sí. 
  Mi disse di andare allo scrittoio che stava di fronte al suo letto, di aprire il cassettino sulla sinistra e vedere se ci trovavo una chiave. 
  Feci quanto richiesto. Trovai una vecchia chiave pesante. 
  Voleva che uscissi dalla stanza e chiudessi a chiave la porta. Poi che nascondessi la chiave in un posto sicuro, magari nella tasca dei pantaloncini. 
  E non dovevo dire a nessuno che cosa avevo fatto. 
  Non dovevo far sapere a nessuno che avevo la chiave, finché non tornava sua moglie, e a quel punto dovevo consegnarla a lei. Tutto chiaro? 
  D’accordo. 
  Mi ringraziò. 
  D’accordo. 
  Per tutto il tempo in cui mi parlò notai che un velo di sudore gli copriva la faccia e che aveva gli occhi lustri come se avesse la febbre. 
– Non deve entrare nessuno. 
– Non deve entrare nessuno, – ripetei. 
– Né la mia matrigna, né… Roxanne. Soltanto mia moglie. 
  Chiusi la porta dall’esterno e misi la chiave nella tasca dei pantaloncini. Poi però ebbi paura che si potesse vedere attraverso il tessuto in cotone leggero, perciò scesi nel salottino sul retro e la infilai in mezzo alle pagine dei Promessi Sposi. Sapevo che Roxanne e la vecchia Crozier non mi avrebbero sentita, perché era in corso il massaggio, e Roxanne commentava con il solito tono professionale. 
– Ho il mio bel daffare qui, oggi, a scioglierle ’sti nodi… 
  E udii la vecchia Mrs Crozier ribattere, con una contrarietà tutta nuova: 
– … e ci dai dentro a farmi male anche piú del solito, eh? 
– Be’, non posso fare diversamente. 
  Stavo per tornare di sopra, ma ebbi un ripensamento. 
  Se fosse stato lui e non io a chiudere a chiave la porta – come era evidente che Mr Crozier voleva dare a intendere –, e io fossi stata seduta come sempre in cima alle scale, lo avrei certamente sentito e dato l’allarme, avvisando chi era in casa. Perciò ridiscesi e mi andai a sedere sul gradino piú basso davanti alla porta d’ingresso, una postazione dalla quale era possibile che non avessi sentito niente. 
  Il massaggio sembrava energico e poco confidenziale quel giorno; era chiaro che nessuna aveva voglia di ridere e di scambiare battute. Di lí a poco, udii Roxanne salire di corsa le scale sul retro. 
  Si fermò. Disse: – Ehi, Bruce. 
  Bruce. 
  Girò piú volte la maniglia della porta. 
  – Bruce. 
  A quel punto, dovette accostare la bocca al buco della serratura nella speranza che la sentisse soltanto lui, e nessun altro. Non riuscivo a distinguere bene che cosa dicesse, ma capii che lo supplicava. Dapprima scherzando, poi seriamente. Di lí a poco sembrò che stesse dicendo le preghiere. 
  Quando rinunciò, si mise a battere i pugni su tutta la porta, non molto forte, ma con affanno. 
  Dopo un po’, smise di fare anche quello. 
– Andiamo, – disse con voce piú ferma. – Se ti sei alzato per chiudere la porta, puoi anche venire ad aprirla. 
  Nessuna risposta. Roxanne si sporse dal mancorrente e mi vide. 
– Hai portato l’acqua in camera a Mr Crozier? 
  Dissi di sí. 
– Perciò la porta non era chiusa, no? 
  No. 
– Ti ha detto qualcosa? 
– Ha solo detto grazie. 
– Be’, adesso si è chiuso a chiave e non riesco a farmi aprire. 
  Udii il bastone della vecchia Mrs Crozier battere in cima alle scale. 
– Cos’è tutto questo baccano? 
– Si è chiuso dentro e non riesco a farmi rispondere. 
– Cosa vuol dire, si è chiuso dentro? Si sarà incastrata la porta. L’avrà sbattuta il vento e si sarà incastrata. 
  Quel giorno il vento non c’era. 
– Ci provi lei, – disse Roxanne. – È chiusa a chiave. 
– Non sapevo neanche ci fosse, la chiave di questa porta, – disse la vecchia Mrs Crozier, come se il suo non saperlo potesse cambiare la realtà dei fatti. Dopodiché fece un tentativo pro forma con la maniglia e disse: – Be’, sembra proprio che sia chiusa a chiave. 
  Mr Crozier doveva aver calcolato tutto questo. Che nessuno avrebbe sospettato di me, e che avrebbero considerato lui responsabile. E di fatto lo era. 
– Dobbiamo entrare, – disse Roxanne. Sferrò un calcio alla porta. 
– Basta cosí, – disse la vecchia Mrs Crozier. – Vuoi sfondarla? Non ce la faresti, comunque, è in quercia massiccia. Come tutte le altre porte di questa casa. 
– Allora dobbiamo chiamare la polizia. 
  Ci fu un attimo di silenzio. 
– Possono entrare dalla finestra, – disse Roxanne. 
  La vecchia Crozier tirò un gran respiro e parlò decisa. 
– Non sai quel che dici. La polizia in questa casa non ce la voglio. Non ho intenzione che si mettano a strisciarmi sui muri come lombrichi. 
– Ma non sappiamo che cosa potrebbe fare là dentro. 
– Be’, in definitiva sono fatti suoi, no? 
  Altro silenzio. 
  Poi qualche passo – di Roxanne – che se ne andava scendendo le scale. 
– Ma sí, è meglio, – disse Mrs Crozier. – Meglio che porti fuori i tuoi stracci, prima che ti dimentichi che sei in casa d’altri. 
  Roxanne intanto scendeva. Il bastone pestò su un paio di scalini, seguendola, ma poi desistette. 
– E non metterti in testa di andare in commissariato di nascosto. Tanto non prenderanno certo 
ordini da te. Chi è che comanda qui dentro? Non tu, di sicuro. Mi senti? 
  Poco dopo, udii la porta della cucina che si chiudeva sbattendo. E l’auto di Roxanne che partiva. 
  L’idea della polizia lasciava tiepida me non meno della vecchia Crozier. In paese polizia voleva dire l’agente McClarty, quello che veniva a scuola a dirci che non dovevamo andare in slitta sulle strade d’inverno e fare il bagno nella roggia d’estate, cose che noi continuavamo a fare tranquillamente. Era ridicolo immaginarselo appeso a un muro in cima a una scala, o impegnato a convincere Mr Crozier attraverso una porta chiusa. 
  Avrebbe detto a Roxanne di farsi gli affari suoi e di lasciare che i Crozier badassero ai propri.  Tutt’altro che ridicolo invece era pensare alla vecchia Crozier che impartiva ordini, e considerai che avrebbe potuto cominciare a farlo ora che se n’era andata Roxanne, la quale sembrava non essere piú di suo gradimento. Poteva prendersela con me e pretendere di sapere se avevo qualcosa a che fare con questa vicenda. 
 Invece non provò nemmeno a girare la maniglia. Si limitò a piazzarsi davanti alla porta chiusa per dire una sola cosa. 
  – Piú forte di quel che pareva, – mormorò. 
  Dopodiché si incamminò per le scale. Accompagnata dai soliti colpi sinistri del suo martellante bastone. 
  Aspettai un poco e poi uscii, diretta in cucina. La vecchia Crozier non c’era. Non era neanche in salotto, né in sala da pranzo o in veranda. Mi feci coraggio e bussai alla porta del gabinetto, poi l’aprii, ma non era nemmeno lí. Guardai dalla finestra sopra l’acquaio in cucina e vidi il cappello di paglia avanzare piano lungo la siepe di bosso. Stava fuori in giardino, nella canicola, a misurare con passo pesante le sue aiuole fiorite. 
  Il pensiero che aveva sconvolto Roxanne non mi turbava. Non l’avevo nemmeno preso in considerazione, perché ritenevo del tutto assurdo che una persona alla quale restava cosí poco da vivere potesse suicidarsi. Non era possibile. 
 Ciononostante, ero nervosa. Mangiai due biscotti alla mandorla rimasti sul tavolo di cucina. Li mangiai sperando che il piacere mi riconsegnasse alla normalità, ma a malapena riuscii a sentirne il sapore. Ritirai la scatola dentro il frigo per evitarmi la speranza di raggiungere lo scopo, mangiandone altri. 
  La vecchia Mrs Crozier era ancora fuori, quando arrivò Sylvia. E non rientrò neanche allora.   Non appena sentii la macchina andai a recuperare la chiave tra le pagine del libro e la consegnai subito a Sylvia. Le raccontai rapidamente quanto era successo, tralasciando gran parte del trambusto. 
Non avrebbe comunque ascoltato fino alla fine. Si precipitò di sopra. 
  Restai in fondo alle scale a sentire quello che potevo. 
  Niente. Niente. 
  Poi, ecco la voce di Sylvia, sconvolta e stupita ma non disperata, e troppo flebile perché potessi 
distinguere quel che diceva. In capo a cinque minuti era di sotto, e mi diceva che era ora di riaccompagnarmi a casa. Era rossa, come se le solite chiazze si fossero sparse su tutta la faccia, e sembrava agitata, ma incapace di mascherare la gioia. 
  Poi disse: – Ah, già. Dov’è la signora? 
– In giardino, credo. 
– Be’, penso sia meglio se le parlo un momento. 
  Dopo averle parlato non sembrava piú contenta come prima. 
– Penso tu sappia, – disse mentre faceva manovra con l’auto, – penso tu possa immaginare che la mamma di Mr Crozier è sconvolta. Non ti rimprovero, intendiamoci. Sei stata molto buona e leale a fare quello che Mr Crozier ti ha chiesto. Non hai avuto paura che potesse succedere qualcosa? A Mr Crozier? No? 
  No, dissi. 
  Poi aggiunsi: – Credo che Roxanne abbia avuto paura, invece. 
– Mrs Hoy. Ah, sí? Che peccato. 
  Mentre percorrevamo quello che allora si chiamava Croziers’ Hill, disse: – Non penso che volesse spaventarle per dispetto. Sai, quando si è ammalati da tanto tempo può capitare di non apprezzare l’affetto delle persone. Di provare rancore per certa gente anche se è buona e fa del suo meglio per aiutarti. Mrs Crozier e Mrs Hoy ce la mettevano tutta senz’altro, ma Mr Crozier semplicemente non le voleva piú intorno. Ne aveva avuto abbastanza. Mi capisci? 
  Sembrava non rendersi conto di sorridere, mentre diceva queste parole. 
  Mrs Hoy. 
  Avevo mai sentito prima quel nome? 
  Pronunciato con tanto garbato rispetto e con siderale indulgenza. 
  Credevo sul serio a quello che Sylvia mi aveva detto? 
  Ero certa che fosse quanto le aveva detto lui. 
  In effetti Roxanne, la rividi, quel giorno. Proprio mentre Sylvia mi stava parlando e mi metteva a parte di quel nome nuovo. Mrs Hoy. 
  Lei – Roxanne – era in macchina, ferma al primo incrocio al fondo di Croziers’ Hill per vederci passare. Non mi voltai a guardarla, perché ero troppo frastornata, mentre Sylvia mi faceva il suo discorso. 
  Sylvia naturalmente non poteva sapere di chi fosse quella macchina. Non poteva sapere che Roxanne doveva essere tornata indietro per farsi un’idea di che cosa stesse succedendo. O che magari non avesse fatto altro che continuare a girare intorno all’isolato – possibile? – da quando era uscita da casa Crozier. 
  Roxanne invece aveva probabilmente riconosciuto l’auto di Sylvia. E notato me. Doveva aver capito che era tutto a posto, visto che Sylvia mi stava parlando con aria seria e gentile, accennando perfino un sorriso. 
  Non svoltò l’angolo per risalire il colle e tornare a casa Crozier. Oh no. Attraversò la strada – la guardai nello specchietto retrovisore – e si diresse verso la zona orientale del paese, dove avevano costruito in tempo di guerra. Abitava lí. 
  – Senti la brezza, – disse Sylvia. – Magari quelle nuvole ci portano un po’ di pioggia.  Erano nuvole alte, bianchissime, luminose, tutt’altro che da pioggia; e la brezza era solo aria che entrava dai finestrini abbassati di un’auto in corsa. 
  Comprendevo abbastanza bene il tiro alla fune che si era svolto tra Sylvia e Roxanne, ma era strano pensare all’oggetto pressoché distrutto di quel contendere, Mr Crozier, e pensare che avesse potuto trovare la volontà di prendere una decisione, perfino di imporsi delle privazioni, quando era ormai cosí avanti nella vita. Quella passione carnale – o vero amore che fosse – alle soglie della morte era qualcosa che dovevo distogliere dalla mente, perché mi dava i brividi. 
 Sylvia portò Mr Crozier in uno chalet in affitto in riva al lago, dove lui morí poco prima della caduta delle foglie. 
  La famiglia Hoy fece fortuna, come spesso succedeva a chi aveva un’officina meccanica. 
  Mia madre lottò con un male debilitante, che mise fine a tutti i suoi sogni di diventare ricca.   Dorothy Crozier ebbe un ictus, ma si riprese e divenne celebre per aver iniziato a comprare dolcetti di Halloween da consegnare ai fratelli minori di quei bambini che aveva cacciato dalla porta di casa. 
  Io sono diventata adulta, e poi vecchia. 

BUCHE-PROFONDE Estratto da "Troppa felicità" Alice Munro


BUCHE-PROFONDE
 Estratto da "Troppa felicità"
Alice Munro
[...] La scritta abbozzata a vernice su un’insegna di legno sarebbe stata da ritoccare. Pericolo: buche-profonde.[...]

BUCHE PROFONDE
Sally preparò delle uova ripiene, anche se detestava portarle ai picnic perché sporcavano ovunque. Tramezzini al prosciutto, insalata di granchio, tartine al limone, anche queste difficili da impacchettare. Kool-Aid per i bambini, una bottiglia da mezzo litro di Mumm per sé e per Alex. Lei ne avrebbe giusto assaggiato un sorso, perché stava ancora allattando. Per l’occasione, aveva comprato bicchieri di plastica da champagne, ma quando Alex glieli vide in mano andò alla cristalliera a prendere quelli veri, un regalo di nozze. Sally protestò, ma lui insistette, e si assunse personalmente l’incarico di incartarli bene e metterli nel cestino. 
– Papà è un autentico «bourgeois gentilhomme», – le avrebbe detto qualche anno dopo Kent, ormai adolescente ed eterno primo della classe. Talmente certo del proprio futuro da scienziato da potersi permettere di girare per casa a sputare sentenze in francese. 
– Non prendere in giro tuo padre, – replicava Sally automaticamente. 
– Non lo prendo in giro. È che i geologi hanno quasi sempre un’aria cosí scarruffata. 
Il picnic doveva festeggiare la pubblicazione del primo articolo a firma unica di Alex sulla «Zeitschrift für Geomorphologie». Sarebbero andati a Osler Bluff: primo, perché la località veniva nominata piú volte nel testo e, secondo, perché Sally e i bambini non c’erano mai stati. 
Percorsero un paio di miglia accidentate di pista campestre, dopo essersi lasciati alle spalle una decorosa carrozzabile non asfaltata, e si trovarono in uno spiazzo adibito a parcheggio, in quel momento deserto. La scritta abbozzata a vernice su un’insegna di legno sarebbe stata da ritoccare. pericolo: buche-profonde. 
Perché poi il trattino?, pensò Sally. Ma sí, cosa importa? 
L’ingresso al bosco aveva un’aria consueta e nient’affatto minacciosa. Ovviamente Sally sapeva che boschi come questo crescevano in cima a un alto scoscendimento, e aveva messo in conto un punto di osservazione da brivido prima o poi. Ma non si aspettava certo quel che si trovarono quasi subito a dover costeggiare. 
Profonde cavità, in effetti, alcune delle dimensioni di una bara, altre anche molto piú spaziose, come stanze scavate nella roccia. Separate da tortuosi corridoi e ricoperte di muschio e di felci sui lati. Una vegetazione comunque insufficiente a ovattare il pietrisco che si intravedeva sul fondo. Il sentiero serpeggiava in mezzo a tutto questo, alternando terra compatta a sporgenze di roccia ineguale. – Fiiuu, – esclamarono correndo avanti i bambini, Kent e Peter, rispettivamente di nove e sei anni. 
– Non si corre, qui, – gridò Alex. – Sentito? Niente spacconate. Intesi? Voglio una risposta. Dissero di sí, e Alex proseguí con il cestino del picnic, apparentemente convinto che non occorressero ulteriori raccomandazioni paterne. Sally arrancava piú svelta del proprio passo, con la borsa del cambio e la piccola Savanna in braccio. Non poté rallentare prima di aver avvistato i figli che intanto trottavano l’uno a fianco dell’altro scrutando nelle cavità buie e continuando a prodursi in esclamazioni di orrore appena piú contenute. Avrebbe quasi pianto per la stanchezza, l’ansia e per una specie di ben nota rabbia che le si andava depositando dentro. 
Il punto panoramico non comparve se non quando ebbero percorso piste di terra e roccia per una distanza che a lei parve di mezzo miglio, anche se probabilmente era la metà. A quel punto ci fu una schiarita, un’irruzione di cielo, e l’alt del marito, piú avanti. Alex diede in un grido che significava, ci siamo e guardate!, e i bambini risposero con espressioni di autentica meraviglia. Emergendo dal bosco, Sally se li trovò allineati su un masso sovrastante le cime degli alberi, diversi piani di cime d’alberi, anzi, con le coltivazioni estive a distesa giú in basso, in un tremolio di verde e di giallo. Appena adagiata sulla coperta, Savanna cominciò a piangere. 
– Ha fame, – disse Sally. 
E Alex: – Credevo che avesse mangiato in macchina. 
– Infatti. Ma ha di nuovo fame. 
Si agganciò Savanna su un fianco e, con la mano libera, slegò le cinghie del cestino da picnic. Naturalmente non era cosí che Alex aveva programmato la cosa, ma si limitò a emettere un sospiro indulgente e a recuperare dalle tasche i bicchieri da champagne incartati, che appoggiò rovesciati su un piccolo spiazzo erboso. 
– Glu-glu, ho sete anch’io, – disse Kent, immediatamente imitato da Peter. 
– Glu-glu, sí, anch’io, glu-glu. 
– Zitti, – disse Alex. 
E Kent: – Sta’ zitto, Peter. 
Alex domandò a Sally: – Per loro cosa hai portato da bere? 
– C’è il Kool-Aid nella caraffa azzurra. E sotto, i bicchieri di plastica avvolti in una salvietta di carta. 
Naturalmente era opinione di Alex che Kent si fosse messo a fare lo stupido non perché avesse davvero sete, ma solo perché si era eccitato alla vista del seno di Sally. A suo parere era piú che ora di passare al biberon: Savanna aveva ormai quasi sei mesi. Inoltre, pensava che Sally fosse decisamente troppo disinvolta riguardo a quella prassi: certe volte se ne andava in giro per la cucina a sbrigare faccende con una mano sola, mentre la bambina si ingozzava al seno. Intanto, Kent sbirciava di nascosto, e Peter faceva commenti sulla latteria della mamma. Il responsabile era sempre Kent, per Alex. Kent era subdolo, piantagrane, e aveva la testa piena di porcherie. 
– Be’, devo pur farle lo stesso, le cose, – diceva Sally. 
– Non allattare, però. Potresti passarla al biberon anche domani. 
– Tra poco, sí. Non domani, magari, ma tra poco. 
E invece, macché. Perciò Savanna e la latteria continuarono a essere al centro dell’attenzione anche durante il picnic. 
Viene versato prima il Kool-Aid, poi lo champagne. Sally e Alex si toccano i bicchieri, con Savanna di mezzo. Sally beve il suo sorso, ma vorrebbe concedersene di piú. Sorride ad Alex per comunicargli quel desiderio, e forse anche come sarebbe bello se fossero soli. Lui beve e, come se la sorsata e il sorriso di Sally bastassero a pacificarlo, dà inizio al picnic. Riceve istruzioni riguardo a quali tramezzini abbiano la mostarda che piace a lui, quali quella preferita da lei e Peter, e quali siano per Kent che invece non la vuole affatto. 
Mentre avviene tutto ciò, Kent riesce a intrufolarsi alle spalle di Sally e a scolarsi il suo avanzo di champagne. Peter deve averlo visto, ma per qualche ignota ragione decide di non denunciarlo. Sally se ne accorgerà di lí a poco, mentre Alex non verrà mai a saperlo, perché si è già scordato che era rimasto del vino nel bicchiere e lo ritira con cura, insieme al suo, mentre spiega ai bambini che cos’è una dolomia. I figli lo ascoltano, si presume, divorando panini e ignorando le uova ripiene e l’insalata di granchio, per avventarsi sulle tartine. 
Dolomia, dice Alex. Si chiama cosí la spessa roccia di copertura che hanno di fronte. Sotto, si trova lo scisto, vale a dire l’argilla trasformata in roccia, a grana finissima. L’acqua penetra lo strato della dolomia e quando raggiunge lo scisto si deposita, non riuscendo a infiltrarsi nelle falde sottili, a grana fine. Perciò l’erosione, cioè il lento consumarsi della dolomia, si scava lentamente una via di ritorno, incide dei solchi, e nella roccia di copertura si formano delle faglie verticali; sanno che cosa vuol dire verticale? 
– Da su a giú, – replica Kent distrattamente. 
– Delicate faglie verticali che tendono a raggiungere la superficie e si lasciano dei crepacci alle spalle, per cui, nel giro di qualche milione di anni, si sgretolano e ruzzolano giú dal pendio. 
– Devo andare, – fa Kent. 
– Andare dove? 
– A fare pipí. 
– Oh, santo cielo, va’, allora. 
– Anch’io, – dice Peter. 
Sally serra le labbra per bloccare una raccomandazione automatica. Alex la guarda e approva l’autocensura. Si scambiano un mezzo sorriso. 
Savanna si è addormentata con le labbra socchiuse intorno al capezzolo. Senza i bambini intorno, staccarla è piú agevole. Sally può farle fare il ruttino e stenderla sulla coperta senza preoccuparsi del seno nudo. Se Alex non trova lo spettacolo di suo gusto – sa che è cosí; non sopporta l’associazione sesso-nutrimento, il seno della moglie trasformato in mammella – può sempre girarsi dall’altra parte, come sta facendo, in effetti. 
Mentre Sally si riabbottona, sentono un grido, non forte, anzi, lontano, evanescente, e Alex scatta in piedi prima di lei e prende a correre sul sentiero. Poi, ecco un secondo grido che si avvicina. È Peter. 
– Kent ha volato giú. Kent ha volato giú. 
Il padre gli urla: – Arrivo. 
Sally resterà per sempre convinta di averlo saputo subito cos’era successo, ancor prima di aver sentito la voce di Peter. Se doveva capitare un incidente non sarebbe toccato al figlio di sei anni, che era impavido ma poco ingegnoso e non esibizionista. Sarebbe successo a Kent. E sapeva anche esattamente come. Pisciando nella buca, sporgendosi oltre il bordo, sfidando Peter, sfidando se stesso. Era vivo. Stava sdraiato laggiú, sul pietrisco in fondo al crepaccio, ma agitava le braccia, nello sforzo di rimettersi in piedi. Uno sforzo debolissimo. Aveva una gamba sotto il peso del corpo e l’altra piegata a un’angolatura strana. 
– Ce la fai a portare la bambina? – domandò a Peter. – Torna dove abbiamo mangiato, la metti giú e rimani a guardarla. Sei il mio bravo bambino. Bravo e forte. 
Alex intanto si calava strisciando nella buca e diceva a Kent di non muoversi. Ce la si faceva appena ad arrivar giú tutti interi. Il difficile sarebbe stato tirar fuori Kent. 
Che fare? Correre fino alla macchina per vedere se c’era una corda? Legare la corda al tronco di un albero? Magari legarla intorno al corpo di Kent e provare a tirarlo su, mentre Alex lo sollevava verso di lei? 
Figuriamoci se c’era una corda. Perché avrebbe dovuto esserci? 
Alex lo aveva raggiunto. Si chinò a sollevarlo. Kent emise un grido straziante. Alex se lo caricò sulle spalle, con la testa ciondoloni da un lato e le gambe – una delle quali piegata in modo cosí grottesco – inerti dall’altro. Si alzò, arrancò di un paio di passi e, senza mollare Kent, cadde in ginocchio. Aveva deciso di avanzare carponi e si dirigeva – ora Sally capiva le sue intenzioni – verso la pietraia che in parte riempiva l’estremità opposta del crepaccio. Le urlò un ordine senza alzare la testa e Sally capí, sebbene non riuscisse a distinguere una sola parola. Si alzò – come mai era finita in ginocchio? – e si fece largo tra gli arbusti fino al punto del bordo dove il pietrisco saliva a meno di un metro dalla superficie. Alex si avvicinava strisciando, con Kent appeso al collo come un cerbiatto appena cacciato. 
Sally gridò: – Sono qui. Sono qui. 
Kent doveva essere issato dal padre e trascinato sulla sporgenza di roccia solida dalla madre. Era un bambino magrissimo che non aveva ancora avuto la prima impennata di crescita, eppure sembrava pesare come un sacco di cemento. Le braccia di Sally non ce la fecero, al primo tentativo. Allora cambiò posizione, si mise accucciata anziché distesa a pancia in giú e, con tutta la forza di spalle e petto e con Alex che sosteneva e spingeva il corpo di Kent da sotto, lo tirarono fuori. Sally ricadde all’indietro con il bambino tra le braccia e lo vide aprire gli occhi, prima di rovesciarli nelle orbite e svenire di nuovo. 
Appena Alex si fu arrampicato fuori a sua volta, radunarono gli altri figli e si precipitarono al Collingwood Hospital. Lesioni interne sembrava non ce ne fossero. Le gambe erano tutte e due rotte. 
Una frattura era netta, disse il dottore; ma l’altra gamba era in briciole. 
– I bambini vanno tenuti d’occhio costantemente da quelle parti, – disse a Sally, che era entrata in ambulatorio con Kent mentre Alex si occupava degli altri. – Non ci sono dei cartelli di pericolo? Con Alex, pensò Sally, si sarebbe espresso in modo diverso. I bambini sono fatti cosí. Basta voltare lo sguardo un secondo e se ne vanno in giro dove non dovrebbero. – I bambini fanno i bambini. Ma la sua gratitudine – per Dio in cui non credeva, e per Alex in cui invece credeva – era talmente incommensurabile, che non se la prese affatto. 
Kent non poté tornare a scuola per la metà seguente dell’anno, e per il primo periodo fu costretto in trazione in un letto d’ospedale a noleggio. Sally andava a prendere e portare i compiti a scuola, e Kent li svolgeva a casa alla velocità del fulmine. Lo incoraggiarono quindi a procedere con qualche Progetto extracurricolare. Uno di questi si intitolava Viaggi ed esplorazioni – Studia un paese a tua scelta. 
– Ne voglio uno che nessuno sceglierebbe mai, – disse. 
E allora Sally gli confidò una cosa che non aveva mai detto ad anima viva. E cioè della sua passione per le isole sperdute. Non come le Hawaii, le Canarie, le Ebridi o le isole greche dove tutti volevano andare, bensí quelle isole sconosciute di cui non si parlava mai e che ben di rado qualcuno visitava. Ascension, Tristan da Cunha, le Chatham, l’isola del Natale, Desolation, le Faerøer. Lei e Kent cominciarono a collezionare qualsiasi frammento di informazione su quei posti, senza concedersi di inventare niente. E senza mai dire ad Alex che cosa facevano. 
– Penserebbe che siamo fuori di testa, – disse Sally. 
Il principale vanto dell’isola Desolation era un ortaggio antichissimo, un cavolo assolutamente speciale. Immaginarono riti di culto, costumi, processioni sacre in tributo al cavolo. 
E prima che lui nascesse, raccontò Sally al figlio, aveva visto in tv gli abitanti di Tristan da Cunha sbarcare all’aeroporto di Heathrow, dopo essere stati evacuati a causa di un terremoto che aveva sconvolto la loro isola. Che strani le erano sembrati, mansueti e dignitosi come esseri umani di un altro secolo. Dovevano essersi piú o meno adeguati alla vita di Londra, ma appena il vulcano si era placato, avevano voluto tornarsene a casa. 
Quando Kent poté rientrare a scuola naturalmente le cose cambiarono, ma continuò a sembrare un bambino piú grande della sua età, paziente con Savanna che si era fatta testarda e spericolata, e con Peter, sempre pronto a irrompere in casa come un uragano. E, soprattutto, estremamente sussiegoso con il padre, al quale portava il giornale strappato alle grinfie di Savanna e ripiegato con cura, e per il quale spostava indietro la seggiola all’ora di cena. 
«Sia reso onore a colui che mi ha salvato la vita», diceva a volte, oppure: «Il nostro eroe è tornato a casa». 
Pronunciava queste frasi in modo piuttosto solenne, ma senza il minimo sarcasmo. Alex, tuttavia, si innervosiva. Era proprio Kent a innervosirlo, da ben prima del grave incidente nella buca-profonda. 
«Piantala», gli diceva, e si lamentava in privato con Sally. 
– Sta solo dicendo che dovevi volergli bene, visto che lo hai salvato. 
– Cristo, avrei salvato chiunque. 
– Non fartelo scappare di fronte a lui. Ti prego. 
Quando Kent iniziò il liceo, le cose con suo padre migliorarono. Scelse studi scientifici. Optò per le scienze ostiche, non quelle piú accessibili, come scienze della terra, ma anche questo non suscitò alcuna obiezione in Alex. Piú difficili erano, meglio era. 
Dopo sei mesi di college, però, scomparve. Chi lo conosceva un poco – sembrava che non ci fosse nessuno disposto a definirsi davvero suo amico – riferí di avergli sentito dire che voleva andare sulla West Coast. Poi arrivò una lettera, proprio quando i genitori stavano decidendo di rivolgersi alla polizia. Kent lavorava in un negozio Canadian Tire, alla periferia nord di Toronto. Alex andò a trovarlo per ordinargli di riprendere gli studi. Kent tuttavia rifiutò, disse che era contentissimo del lavoro che si era trovato e che guadagnava bene, o che comunque avrebbe guadagnato bene, appena lo avessero promosso. Poi andò Sally a trovarlo, senza dire niente ad Alex, e lo trovò ben pasciuto, con addosso cinque chili piú di quando era partito. Lui disse che era la birra. Si era fatto degli amici, ormai. – Attraversa una fase, – spiegò Sally ad Alex quando gli confessò la visita. – Vuole avere un assaggio di indipendenza. 
– Può anche fare indigestione, per quanto mi riguarda. 
Kent non le aveva detto dove abitava, ma non aveva importanza dal momento che, alla visita successiva, Sally scoprí che si era licenziato. La notizia la imbarazzò – le parve di cogliere un sorrisetto sarcastico sulla faccia dell’impiegato che la informò dell’accaduto –, perciò non gli chiese dove fosse Kent. Era convinta che si sarebbe messo in contatto, in ogni caso, non appena si fosse trovato una nuova sistemazione. 
Lo fece tre anni dopo. La lettera risultava spedita da Needles, in California, ma vi si diceva di non darsi pena a cercare di rintracciarlo da quelle parti, perché era solo di passaggio. Come Blanche, aggiungeva, e Alex commentò, E chi diavolo è Blanche? – È una battuta, – rispose Sally. – Non ha importanza. 
Kent non diceva che lavoro facesse né dove fosse stato e nemmeno se si fosse legato a qualcuno. Non si scusava di averli lasciati cosí a lungo senza notizie e non si informava della loro salute, né di quella di fratello e sorella. In compenso, si dilungava per pagine e pagine sulla sua vita. Non sugli aspetti pratici, bensí su quanto riteneva opportuno fare della propria esistenza e su quanto in effetti stava realizzando. 
«Mi sembra talmente ridicola – diceva – la prospettiva di rinchiudersi nei panni di qualcuno. Voglio dire, nei panni di un ingegnere, di un medico o di un geologo; va a finire che è la pelle a crescere intorno ai vestiti, e non viceversa, e cosí non ce li si può piú levare di dosso. Quando invece abbiamo la possibilità di esplorare il mondo della realtà interiore oltre che esteriore, e di vivere secondo principî che contemplino il piano fisico e quello spirituale e l’intera gamma della bellezza come del terrore destinati al genere umano, vale a dire della sofferenza, ma anche della gioia e del turbamento. Immagino che questo modo di esprimersi vi sembri presuntuoso, ma se c’è una cosa alla quale ho imparato a rinunciare è la superbia intellettuale…» 
– Si droga, – disse Alex. – Si sente lontano un miglio. Gli è marcito il cervello a furia di droga. 
E a metà della notte se ne uscí con: – È il sesso. 
Sally, sdraiata al suo fianco, era sveglissima. 
– Che c’entra il sesso? 
– È il sesso che ti porta a parlare cosí. Che ti fa voler essere una cosa qualunque pur di guadagnarti da vivere. Cosí puoi permetterti sesso regolare e tutto ciò che ne consegue. Non è farina del suo sacco. 
Sally commentò. – Be’, alla faccia del romanticismo. 
– I bisogni primari non sono mai tanto romantici. Kent non è normale, è questo che sto cercando di dire. 
Piú avanti nella lettera – o anzi nell’invettiva, come la chiamò Alex – Kent dichiarava di essere stato piú fortunato di tanti altri, perché a lui era toccata quella che definí un’esperienza di pre-morte che gli aveva garantito una consapevolezza maggiore. Sarebbe quindi rimasto per sempre in debito di riconoscenza con suo padre, per averlo rimesso nel mondo, e con sua madre, per avercelo amorevolmente accolto. 
«Forse in quegli attimi sono nato per la seconda volta». 
A quel punto, Alex aveva emesso un grugnito. 
– No. Non lo voglio dire. 
– Ecco, non dirlo, – ribatté Sally. – Tanto non lo pensi. 
– Non lo so neanch’io, se lo penso o no. 
La lettera si concludeva «con affetto» e la firma: fu l’ultima volta che ebbero sue notizie. 
Peter si iscrisse a Medicina, Savanna a Giurisprudenza. 
Sally si scoprí un inatteso interesse per la geologia. Una volta, in uno slancio fiducioso dopo aver fatto sesso, raccontò ad Alex la storia delle isole, seppure omettendo la fantasticheria che ora Kent abitasse in uno qualsiasi di quei posti. Disse di aver dimenticato molti dettagli che un tempo conosceva e si ripromise di consultare di nuovo l’enciclopedia sulla quale aveva scovato le informazioni. Alex disse che ormai probabilmente avrebbe trovato tutto quel che cercava su internet. Non certo località cosí oscure e remote, disse lei, perciò Alex la tirò giú dal letto e la portò al piano di sotto dove, in un lampo, le comparve davanti agli occhi Tristan da Cunha, un verde pianoro in pieno oceano Atlantico meridionale, piú una ridda di informazioni. Sally ne fu sconvolta e si ritrasse, mentre Alex, prevedibilmente deluso di lei, le chiese perché. 
– Non so. Mi sembra di averla persa, adesso. 
Lui disse che cosí non andava bene, che le occorreva qualcosa di vero da fare. Al tempo, era appena andato in pensione dall’insegnamento e progettava di scrivere un libro. Aveva bisogno di un’assistente, ma non poteva piú avvalersi dell’aiuto dei laureandi, come faceva quando stava ancora in facoltà. (Sally non era sicura che le cose stessero proprio in quei termini). Gli fece notare che lei di rocce non sapeva niente e lui disse che non aveva importanza, che l’avrebbe usata nelle fotografie, per avere il senso delle proporzioni. 
E cosí Sally diventò la figuretta vestita di nero o a colori sgargianti fotografata in contrasto con le strisce di roccia del Siluriano o del Devoniano. O con lo gneiss formatosi per intensa compressione, piegato e deformato dalle collisioni delle placche Atlantica e Pacifica da cui aveva avuto origine l’attuale continente. A poco a poco Sally imparò a usare gli occhi e ad applicare le conoscenze acquisite, finché fu in grado di calpestare una strada deserta di periferia con la consapevolezza che, a grande distanza, sotto i suoi piedi, si trovava un cratere colmo di detrito che nessuno aveva né avrebbe mai visto, perché non c’erano stati occhi a constatarne la creazione, né a seguire l’interminabile storia del suo costruirsi e riempirsi di rocce e seppellirsi e andare perduto. Alex rendeva onore a cose del genere conoscendole, fin dove era possibile conoscerle, e lei lo ammirava per questo, sebbene fosse abbastanza saggia da non dirlo esplicitamente. Furono buoni amici in quei loro ultimi anni, che Sally non immaginava fossero tali, ma lui forse sí. Entrò in ospedale per un intervento, portandosi appresso carte e fotografie e, il giorno in cui doveva tornare a casa, morí. 
Questo succedeva d’estate; nell’autunno a Toronto scoppiò un terribile incendio. Sally sedette per un po’ davanti alla televisione a guardare le fiamme. Il fuoco era divampato in un quartiere che lei conosceva, almeno una volta, al tempo in cui lo popolavano hippy armati di mazzi di tarocchi e collanine di semi e fiori di carta grandi come zucche. E anche dopo, per un po’, quando i ristoranti vegetariani vennero trasformati uno dopo l’altro in costosi bistrò e boutique. Ora un intero isolato di quegli edifici ottocenteschi stava per essere cancellato, con grande rammarico del cronista il quale raccontava di quegli occupanti dei vecchi alloggi sopra le botteghe che avrebbero perso la casa per essere messi in salvo in mezzo a una strada. 
Ma nessuno faceva parola dei proprietari degli stessi appartamenti, pensò Sally, che molto probabilmente l’avevano sempre fatta franca, a dispetto di impianti elettrici fuori norma e invasioni di scarafaggi e cimici, mentre i poveri inquilini ingannati e timorosi non si potevano neanche lamentare. Negli ultimi tempi, capitava che Sally sentisse Alex parlarle nella testa, come di sicuro stava accadendo ora. Spense la tv. 
Non piú di dieci minuti dopo, squillò il telefono. Era Savanna. 
– Mamma. Hai la tv accesa? Hai visto? 
– L’incendio, vuoi dire? Sí, ma l’ho spenta. 
No. Se hai visto… Io lo sto cercando, l’ho visto meno di cinque minuti fa. Mamma, è Kent. 
Adesso non lo trovo piú. Ma l’ho visto. 
– È ferito? Accendo subito. Era ferito? 
– No, è un soccorritore. Reggeva una barella con qualcuno sopra, non so se un morto o un ferito. Però era Kent. Era lui. Si vedeva perfino che zoppicava. Hai acceso? 
– Sí. 
– Bene, ora mi calmo. Deve essere tornato dentro l’edificio. 
– Ma non permetteranno che… 
– Potrebbe essere un medico, per quel che ne sappiamo. Oh merda, stanno rimandando in onda l’intervista allo stesso vecchio di prima, quello con la famiglia che aveva un negozio lí da cent’anni. Senti, attacchiamo e restiamo con gli occhi incollati allo schermo. Lo devono inquadrare di nuovo, prima o poi. 
E invece no. I filmati si fecero ripetitivi. 
Savanna richiamò. 
– Voglio andare in fondo a questa storia. Conosco un tizio che lavora al telegiornale. Posso chiedergli di rivedere il servizio, dobbiamo trovarlo. 
Savanna non aveva mai conosciuto bene suo fratello: perché agitarsi tanto? Che la morte del padre le avesse fatto sentire il bisogno di una famiglia? Meglio che si sposasse presto, che mettesse al mondo dei figli. Certo che quando si cacciava in testa una cosa saltava fuori la sua vena testarda… e se fosse riuscita a rintracciare Kent? Quando aveva una decina d’anni, suo padre le aveva detto che doveva fare l’avvocato, perché era capace di spolpare un’idea fino all’osso. E da quel momento Savanna aveva detto: farò l’avvocato. 
Sally fu sopraffatta da un tremore, una smania, uno sfinimento. 
Era proprio Kent e, nel giro di una settimana, Savanna aveva scoperto tutto sul suo conto. Anzi, no. Diciamo che aveva scoperto tutto quello che lui aveva deciso di farle sapere. Abitava a Toronto da anni. Gli era capitato spesso di passare davanti al palazzo dove lavorava Savanna e un paio di volte l’aveva vista per strada. In una occasione si erano ritrovati quasi faccia a faccia, a un incrocio. Non stupiva che non l’avesse riconosciuto, perché indossava una tunica. 
– Un Hare Krishna? – domandò Sally. 
– Oh, mamma, non è che tutti i monaci siano Hare Krishna. Comunque non lo è piú. 
– E cos’è? 
– Dice che vive nel presente. E allora io gli ho detto, perché, non lo facciamo tutti, al giorno d’oggi, ma lui mi ha detto, no, che intendeva nel presente vero. 
Proprio quello in cui si trovavano, aveva specificato, e Savanna aveva chiesto: – Vuoi dire in questo buco? – Perché in effetti era cosí: il caffè nel quale le aveva chiesto di incontrarsi era davvero un buco. 
– Io la vedo diversamente, – aveva ribattuto lui, ma aveva poi aggiunto che non intendeva criticare la sua visione delle cose, né quella di chiunque altro. 
– Be’, come sei magnanimo, – aveva risposto Savanna, ma in tono ironico e lui aveva quasi riso. 
Disse di aver visto il necrologio di Alex sul giornale e di averlo trovato ben scritto. Era convinto che Alex avrebbe gradito i riferimenti geologici. Si era chiesto se sarebbe comparso anche il proprio tra i nomi dei famigliari, e poi si era sorpreso di trovarlo. Si era domandato se fosse stato il padre a fornire loro l’elenco dei nomi che voleva, prima di morire. 
Savanna disse di no, che non si aspettava affatto di morire cosí presto. C’era stata una riunione di famiglia e si era deciso che dovesse esserci anche Kent. 
– Ah, non papà, – disse Kent. – Certo che no. 
Poi chiese di Sally. 
Sally si sentí nel petto una specie di pallone gonfio d’aria. 
– E tu cosa gli hai detto? 
– Che te la cavi, a volte un po’ smarrita, magari, dato quanto eravate uniti tu e papà e il poco tempo che hai avuto per abituarti a stare da sola. Poi mi ha detto, falle sapere che può venire a trovarmi, se vuole, e io gli ho detto che te l’avrei chiesto. 
Sally non rispose. 
– Mamma? Ci sei? 
– Ha detto quando? dove? 

– No. Devo rivederlo tra una settimana nello stesso posto e fargli sapere. Ho la sensazione che gli piaccia decidere per gli altri. Pensavo che avresti subito detto di sí. 

– Certo, infatti. 

– Non ti fa paura andarci da sola? 

– Non dire stupidaggini. Era proprio lui quello che avevi visto nell’incendio? 

– Non ha detto né sí né no. Ma a me risulta di sí. A quanto pare è piuttosto noto in certe zone della città e tra certa gente. 

Sally riceve un biglietto. Il che era già un fatto particolare, dato che quasi tutta la gente che conosceva ormai usava il telefono o la posta elettronica. Fu contenta di evitare il telefono. Non era ancora in grado di valutare la propria reazione di fronte alla sua voce. Nel biglietto le diceva di lasciare la macchina in un parcheggio sotterraneo a un capolinea del metrò, e di proseguire fino a una determinata stazione, dove lui sarebbe andato a prenderla. 

Pensava di vederlo sul lato opposto del tornello, ma non c’era. Forse intendeva che l’avrebbe aspettata fuori. Salí le scale e si ritrovò nel sole, dove si fermò, mentre persone di tutti i tipi le passavano accanto, di fretta. Si sentí sgomenta e a disagio. Sgomenta per l’apparente assenza di Kent, e a disagio perché provava esattamente quello che spesso sembravano provare gli abitanti della sua zona di mondo, anche se non avrebbe mai usato le loro parole per dirlo. Pareva di stare in Congo o in India, o in Vietnam, avrebbero detto. Dovunque, tranne che in Ontario. Turbanti, sari e dashiki davano molto nell’occhio, e a Sally piacevano tutti quei colori sgargianti e quei fruscii. Ma lí non venivano portati come costumi stranieri. La gente che li indossava non era appena arrivata; aveva da un pezzo attraversato la fase dell’adattamento. Era lei l’intrusa. 

Sui gradini di una vecchia banca, poco oltre l’ingresso del metrò, c’erano degli uomini, chi seduto chi disteso, qualcuno addormentato. La banca non c’era piú, naturalmente, sebbene il nome restasse inciso nella pietra. Sally pose lo sguardo su quel nome piú che sugli uomini le cui posture stracche, reclinate e dormienti stridevano con il precedente impiego dell’edificio e con la fretta di chi usciva dalla metropolitana. 

– Mamma. 

Uno degli uomini sugli scalini le venne incontro con calma, trascinando un po’ un piede, e lei si rese conto che era Kent e lo aspettò. 

Lí per lí avrebbe voluto scappar via. Poi però vide che non tutti gli sconosciuti erano sporchi o derelitti e che qualcuno non la guardava con aria di sfida o di disprezzo, ma quasi con bonaria indulgenza adesso che era stata identificata come madre di Kent. 

Kent non aveva la tunica. Indossava dei pantaloni grigi fuori taglia, stretti in vita da una cintura, una maglietta senza scritte e una giacca logora. Portava i capelli talmente corti che non si vedevano nemmeno i ricci. Era grigio, con il viso segnato, qualche dente in meno e un corpo magrissimo che gli dava piú anni di quelli che aveva. 

Non l’abbracciò – del resto non si era aspettata che lo facesse –, però le posò una mano leggera sulla schiena per pilotarla nella direzione giusta. 

– Fumi sempre la pipa? – chiese lei, annusando l’aria e ricordando che al liceo Kent si era messo a fumarla. 

La pipa? Ah. No. L’odore che senti è il fumo dell’incendio. Noi non ce ne accorgiamo piú. 



Temo che aumenterà, man mano che procediamo. 

– Dobbiamo attraversare il posto dov’è scoppiato? 

– No, no. Anche volendo, non potremmo. È tutto transennato. Troppo pericoloso. Certi palazzi devono essere demoliti. Sta’ tranquilla, dove siamo noi è sicuro. Quasi due isolati dal casino. 

– Il vostro condominio? – disse, messa in guardia da quel «noi». 

– Piú o meno. Sí. Adesso vedrai. 

Si mostrava disponibile e gentile, ma parlava con una certa fatica, come chi si esprima, per educazione, in una lingua straniera. E le stava un po’ addosso, per essere sicuro che sentisse. Quello sforzo particolare, il leggero affaticamento che gli costava parlarle, quello di un traduttore meticoloso, sembrava non doverle passare inosservato. 

Il prezzo. 

Scendendo dal marciapiede, le sfiorò il braccio – forse stava per inciampare – e disse: – Pardon –. E a Sally parve di registrare un debolissimo tremito. 

Aids. Come aveva potuto non pensarci prima? 

– No, – disse lui, benché Sally non avesse certo parlato ad alta voce. – Attualmente sto abbastanza bene. Non sono sieropositivo, né niente di simile. Anni fa mi sono preso la malaria, ma ora è sotto controllo. Magari sono un po’ stanco, niente di preoccupante. Ecco, qui dobbiamo girare, stiamo in questo isolato. 

Di nuovo il plurale. 

– Non sono un sensitivo, – disse. – Ho solo immaginato dove voleva andare a parare Savanna e ho pensato di tranquillizzarti. Eccoci arrivati. 

Era uno di quegli edifici con la porta d’ingresso a pochi passi dal marciapiede. 

– Sono casto, in effetti, – disse, tenendo aperta la porta, alla quale mancava un pannello di vetro. Al suo posto era stato fissato un pezzo di cartone con le puntine da disegno. 

Le assi del pavimento erano nuove e scricchiolavano. L’odore era un misto molto penetrante. Si era insinuato in casa il fumo della via, naturalmente, ma era mescolato al lezzo stantio di cucina, caffè bruciato, gabinetto, malattia, marciume. 

– Forse «casto» non è il termine giusto. Dà l’idea che ci sia di mezzo un atto di volontà. Credo che avrei dovuto dire sessualmente «inattivo». Non lo considero un traguardo. Non lo è. 

Intanto la conduceva in cucina, facendo il giro intorno alla scala. Qui, un donnone gigantesco dava loro la schiena, rimestando qualcosa sul fornello. 

Kent disse: – Ciao, Marnie. Ti presento mia madre. Ti va di salutarla? 

Sally notò un cambiamento nella voce. Una pacificazione, una sincerità, forse un rispetto, diversi dai toni forzatamente leggeri che riservava a lei. 

Disse: – Salve, Marnie, – e la donna si girò appena senza riuscire a mettere a fuoco lo sguardo e mostrando una faccia da bambola schiacciata dentro una massa di carne. 

– Marnie è la nostra cuoca questa settimana, – disse Kent. – L’odore è buono, Marnie. Poi, a sua madre, disse: – Andiamo a sederci nel mio sancta sanctorum, ti va? – e la condusse giú da un paio di gradini, lungo il corridoio posteriore. Non era facile muoversi, per via delle pile di giornali, volantini e riviste, tutti legati assieme. 

– Bisogna sgomberare questa roba da qui, – disse Kent. – L’ho detto a Steve stamattina. C’è rischio di incendio. Cristo, quante volte l’ho ripetuto. E adesso l’ho toccato con mano. 

Cristo. Sally si era domandata se Kent fosse membro di un ordine religioso che non imponeva l’abito talare, ma in tal caso non si sarebbe di certo espresso in quel modo, no? D’altra parte, poteva sempre trattarsi di una setta non cristiana. 

La sua stanza era in fondo a un’ulteriore rampa di scale, in una cantina, in effetti. C’erano una branda, una vecchia scrivania a scomparti assai malridotta, e un paio di sedie rigide senza poggiapiedi. 

Le sedie reggono, sta’ tranquilla, – le disse. – Quasi tutto quello che abbiamo è rimediato in 

discarica, ma sulle sedie esigo che ci si possa sedere. 

Con un senso di sfinimento, Sally sedette. 

– Che cosa sei? – chiese. – Che cos’è quello che fai? È una specie di casa di accoglienza per detenuti o malati di mente, questa? 

– Ma no. Qui accogliamo proprio chiunque arrivi. 

– Compresa me. 

– Compresa te, – disse lui, senza sorridere. – Non abbiamo nessuno che ci finanzi, tranne noi stessi. Ci arrangiamo con un po’ di riciclaggio dei rifiuti che raccogliamo in giro. Quei giornali. Bottiglie. Tiriamo su qualcosa qui e là. E, a turno, sollecitiamo gesti di solidarietà. 

– Cioè, chiedete l’elemosina? 

– Mendichiamo, – fece lui. 

– Per strada? 

– Quale posto migliore? Sí, per strada. Ma entriamo pure in qualche locale con cui abbiamo un accordo, anche se non sarebbe legale. 

– Lo fai anche tu? 

– Non potrei chiederlo agli altri, se non lo facessi personalmente. Ho dovuto vincermi. Quasi tutti abbiamo dovuto vincere qualcosa. Poteva essere la vergogna. O magari il concetto di «mio». Se qualcuno ti scuce un biglietto da dieci o anche solo un dollaro, ecco che spunta fuori il concetto di proprietà privata. Di chi sono quei soldi, eh? Sono miei, oppure – aiuto, aiuto – sono nostri? Se la risposta che ci si dà è sono miei, di solito la persona se li spende subito e poi torna col fiato che puzza di alcol e dice, non so come mai, ma oggi non ho rimediato un centesimo. Poi capita che si senta in colpa e finisca per confessare. Oppure no, non importa. Li vediamo sparire per giorni di seguito – settimane – e poi ricompaiono quando si mette male. Qualche volta invece li vedi battere le strade per conto loro, facendo sempre finta di non riconoscerti. E non tornano piú. Il che va benissimo. Sono i nostri ex allievi, diciamo cosí. Se si crede nel sistema, ovvio. 

– Kent… 

– Da queste parti mi chiamo Giona. 

– Giona? 

– L’ho scelto io. Avevo pensato a Lazzaro, ma mi pareva troppo compiaciuto. Puoi chiamarmi Kent, se preferisci. 

– Vorrei sapere che cosa è successo alla tua vita. Non tanto cosa ci fai con queste persone… – Queste persone sono la mia vita. 

– Sapevo che l’avresti detto. 

– D’accordo, era un po’ scontata. Però è questo che faccio da… quanto? sette anni? Nove. Nove anni. 

Sally insistette. – E prima? 

– E che ne so? Prima? Prima. I giorni dell’uomo sono come l’erba, no? Che oggi c’è e domani si getta nel forno. Ma sentimi. Ti ho appena incontrata e già ricomincio a darmi delle arie. Oggi c’è e domani si getta nel forno… non mi interessano piú queste cose. Io vivo alla giornata. Davvero. Non puoi capire. Non faccio parte del tuo mondo, e tu non fai parte del mio – lo sai perché ho voluto vederti qui, oggi? 

– No. Non ci ho neanche pensato. Cioè, mi pareva che potesse essere arrivato il momento, naturalmente. 

– Naturalmente. Be’, quando ho letto della morte di mio padre sul giornale, naturalmente mi sono detto, E i soldi, dove saranno finiti? E poi ho pensato, Be’, lei me lo può dire. 

– Ce li ho io, – disse Sally, sopraffatta dalla delusione, ma ostentando grande autocontrollo. – Per il momento. Anche la casa, se ti interessa. 

Immaginavo che fosse cosí. Va bene. 

– E alla mia morte, andranno a Peter e ai suoi figli, e a Savanna. 

– Benissimo. 

– Non sapeva nemmeno se eri vivo o morto… 

– Credi che lo chieda per me? Mi consideri idiota al punto da volere i soldi per me? Comunque, l’errore di pensare come avrei potuto usarli, l’ho fatto. Con l’idea che erano soldi di famiglia, e che potevo disporne. Ecco la tentazione. Adesso sono contento, però, contento di non poterli avere. 

– Potrei… 

– Il fatto è che questa casa ha i giorni contati… – Potrei farti un prestito. 

– Un prestito? Qui non funziona cosí. Non utilizziamo il sistema dei prestiti da queste parti. Scusa, bisogna che ritrovi la calma. Hai fame? Ti va un po’ di zuppa? 

– No, grazie. 

Appena Kent se ne andò, Sally pensò di scappare. Se solo fosse riuscita a individuare una porta sul retro, un percorso che non prevedesse il passaggio in cucina. Ma non poteva, perché avrebbe significato non rivederlo mai piú. Senza contare che il cortile di una casa del genere, costruita prima dell’era automobilistica, non doveva avere accessi alla strada. 

Passò piú o meno mezz’ora prima che ritornasse. Sally non si era messa l’orologio. Pensava che potesse risultare fuori luogo nella vita attuale di Kent e, a quanto pare, aveva colto nel segno. Se non altro su questo. 

Lui parve un po’ sorpreso e disorientato di trovarla ancora lí. 

– Scusami, ho dovuto sistemare una faccenda. E poi ho parlato un po’ con Marnie: mi tranquillizza sempre. 

– Ci avevi scritto una lettera, – disse Sally. – È stata l’ultima volta che abbiamo avuto tue notizie. 

– Oh, non me la ricordare. 

– No, era una bella lettera, invece. Un buon tentativo di spiegarci che cosa pensavi. 

– Ti prego. Non ricordarmela. 

– Stavi cercando di impostare la tua vita… 

– La mia vita, la mia vita, il mio percorso, e tutto quel che potevo scoprire del mio schifoso io. Obiettivo me stesso. Le mie stronzate. La mia spiritualità. Il mio cammino intellettuale. Non esistono tutte queste fesserie interiori, Sally. Ti dispiace se ti chiamo Sally? Mi riesce piú naturale. Esiste soltanto l’esterno, quello che uno fa, in ogni istante della vita. Da quando l’ho capito sono felice. 

– Lo sei davvero? Sei felice? 

– Certo. Ho abbandonato tutte quelle fesserie su me stesso. Penso, Cosa posso fare per dare una mano? È tutto il pensare che mi concedo. 

– Vivi nel presente, insomma. 

– Non m’importa se pensi che sono banale. Se mi trovi ridicolo. 

– Io non… 

– Non importa. Senti. Se credi che voglia i tuoi soldi, d’accordo. Voglio i tuoi soldi. E voglio anche te. Non ti interessa una vita diversa? Non sto dicendo che ti voglio bene, non uso parole idiote, io. O che ti voglio salvare. Sai bene che solo tu puoi salvare te stessa. E allora il punto qual è? Di solito non cerco di arrivare da nessuna parte, quando parlo con qualcuno. Di solito evito i rapporti personali. 

Dico sul serio. Li evito. 

Rapporti. 

– Perché ti sforzi di non ridere? – disse. – Perché ho usato la parola «rapporti»? Ti suona fasulla? Non bado troppo alle parole, io. 

Sally disse: – Pensavo a Gesú. «Che c’è tra me e te, donna?» Lo sguardo che gli balenò negli occhi era quasi furioso. 



– Ma non ti stanchi mai, Sally? Non ti stanchi mai di essere intelligente? Scusa, non posso star qui a parlare con te. Ho da fare. 
– Anch’io, – disse Sally. Era del tutto falso. – Allora ci… – Non lo dire. Non dire: «Allora ci sentiamo». 
– Magari, ci sentiamo. Va meglio cosí? 
Sally si perde, poi ritrova la strada. Di nuovo la banca, lo stesso esercito di perdigiorno, o forse tutto un altro. Il tragitto in metropolitana, il parcheggio, le chiavi, l’autostrada, il traffico. Poi la statale, il tramonto che arriva presto, ancora niente neve, gli alberi spogli e il buio sui campi. Le piace quel tratto di campagna, le piace questo periodo dell’anno. Deve cominciare a considerarsi indegna? 
La gatta è contenta di vederla. Ci sono due o tre messaggi di amici, in segreteria. Si mette a scaldare una porzione singola di lasagne. Ormai si compra queste vaschette precotte e surgelate. Sono abbastanza buone e non costano care, se si considera che non c’è spreco. Nei sette minuti di attesa, sorseggia un bicchiere di vino. 

Giona. 
Sta fremendo di rabbia. Che cosa ci si aspetta da lei, che torni in quella casa per condannati e si metta a sfregare il linoleum marcio e a cuocere avanzi di pollo che qualcuno ha buttato via perché erano scaduti? Per farsi ricordare ogni giorno quanto lei sia da meno di Marnie e di qualunque altra creatura afflitta? Il tutto, per il privilegio di essere utile alla vita che un altro – Kent – si è scelto? È malato. Si sta logorando, forse sta morendo. Non le direbbe certo grazie per un paio di lenzuola pulite e un buon piatto di cibo. Oh no. Preferirebbe morire su quella branda sotto la coperta col buco della bruciatura di sigaretta. 
Un assegno, però, può staccarlo. Non una cifra pazzesca. Né troppo, né troppo poco. Tanto lui non lo userà per sé, figuriamoci. E continuerà a disprezzarla, ovviamente. 
Disprezzarla. Macché. Non è quello il punto. Niente di personale. 
C’era comunque qualcosa che salvava quella giornata dal disastro assoluto. No? Lei aveva detto magari. Lui non l’aveva corretta.