domenica 29 dicembre 2019


BUCHE-PROFONDE
 Estratto da "Troppa felicità"
Alice Munro
[...] La scritta abbozzata a vernice su un’insegna di legno sarebbe stata da ritoccare. Pericolo: buche-profonde.[...]

BUCHE PROFONDE
Sally preparò delle uova ripiene, anche se detestava portarle ai picnic perché sporcavano ovunque. Tramezzini al prosciutto, insalata di granchio, tartine al limone, anche queste difficili da impacchettare. Kool-Aid per i bambini, una bottiglia da mezzo litro di Mumm per sé e per Alex. Lei ne avrebbe giusto assaggiato un sorso, perché stava ancora allattando. Per l’occasione, aveva comprato bicchieri di plastica da champagne, ma quando Alex glieli vide in mano andò alla cristalliera a prendere quelli veri, un regalo di nozze. Sally protestò, ma lui insistette, e si assunse personalmente l’incarico di incartarli bene e metterli nel cestino. 
– Papà è un autentico «bourgeois gentilhomme», – le avrebbe detto qualche anno dopo Kent, ormai adolescente ed eterno primo della classe. Talmente certo del proprio futuro da scienziato da potersi permettere di girare per casa a sputare sentenze in francese. 
– Non prendere in giro tuo padre, – replicava Sally automaticamente. 
– Non lo prendo in giro. È che i geologi hanno quasi sempre un’aria cosí scarruffata. 
Il picnic doveva festeggiare la pubblicazione del primo articolo a firma unica di Alex sulla «Zeitschrift für Geomorphologie». Sarebbero andati a Osler Bluff: primo, perché la località veniva nominata piú volte nel testo e, secondo, perché Sally e i bambini non c’erano mai stati. 
Percorsero un paio di miglia accidentate di pista campestre, dopo essersi lasciati alle spalle una decorosa carrozzabile non asfaltata, e si trovarono in uno spiazzo adibito a parcheggio, in quel momento deserto. La scritta abbozzata a vernice su un’insegna di legno sarebbe stata da ritoccare. pericolo: buche-profonde. 
Perché poi il trattino?, pensò Sally. Ma sí, cosa importa? 
L’ingresso al bosco aveva un’aria consueta e nient’affatto minacciosa. Ovviamente Sally sapeva che boschi come questo crescevano in cima a un alto scoscendimento, e aveva messo in conto un punto di osservazione da brivido prima o poi. Ma non si aspettava certo quel che si trovarono quasi subito a dover costeggiare. 
Profonde cavità, in effetti, alcune delle dimensioni di una bara, altre anche molto piú spaziose, come stanze scavate nella roccia. Separate da tortuosi corridoi e ricoperte di muschio e di felci sui lati. Una vegetazione comunque insufficiente a ovattare il pietrisco che si intravedeva sul fondo. Il sentiero serpeggiava in mezzo a tutto questo, alternando terra compatta a sporgenze di roccia ineguale. – Fiiuu, – esclamarono correndo avanti i bambini, Kent e Peter, rispettivamente di nove e sei anni. 
– Non si corre, qui, – gridò Alex. – Sentito? Niente spacconate. Intesi? Voglio una risposta. Dissero di sí, e Alex proseguí con il cestino del picnic, apparentemente convinto che non occorressero ulteriori raccomandazioni paterne. Sally arrancava piú svelta del proprio passo, con la borsa del cambio e la piccola Savanna in braccio. Non poté rallentare prima di aver avvistato i figli che intanto trottavano l’uno a fianco dell’altro scrutando nelle cavità buie e continuando a prodursi in esclamazioni di orrore appena piú contenute. Avrebbe quasi pianto per la stanchezza, l’ansia e per una specie di ben nota rabbia che le si andava depositando dentro. 
Il punto panoramico non comparve se non quando ebbero percorso piste di terra e roccia per una distanza che a lei parve di mezzo miglio, anche se probabilmente era la metà. A quel punto ci fu una schiarita, un’irruzione di cielo, e l’alt del marito, piú avanti. Alex diede in un grido che significava, ci siamo e guardate!, e i bambini risposero con espressioni di autentica meraviglia. Emergendo dal bosco, Sally se li trovò allineati su un masso sovrastante le cime degli alberi, diversi piani di cime d’alberi, anzi, con le coltivazioni estive a distesa giú in basso, in un tremolio di verde e di giallo. Appena adagiata sulla coperta, Savanna cominciò a piangere. 
– Ha fame, – disse Sally. 
E Alex: – Credevo che avesse mangiato in macchina. 
– Infatti. Ma ha di nuovo fame. 
Si agganciò Savanna su un fianco e, con la mano libera, slegò le cinghie del cestino da picnic. Naturalmente non era cosí che Alex aveva programmato la cosa, ma si limitò a emettere un sospiro indulgente e a recuperare dalle tasche i bicchieri da champagne incartati, che appoggiò rovesciati su un piccolo spiazzo erboso. 
– Glu-glu, ho sete anch’io, – disse Kent, immediatamente imitato da Peter. 
– Glu-glu, sí, anch’io, glu-glu. 
– Zitti, – disse Alex. 
E Kent: – Sta’ zitto, Peter. 
Alex domandò a Sally: – Per loro cosa hai portato da bere? 
– C’è il Kool-Aid nella caraffa azzurra. E sotto, i bicchieri di plastica avvolti in una salvietta di carta. 
Naturalmente era opinione di Alex che Kent si fosse messo a fare lo stupido non perché avesse davvero sete, ma solo perché si era eccitato alla vista del seno di Sally. A suo parere era piú che ora di passare al biberon: Savanna aveva ormai quasi sei mesi. Inoltre, pensava che Sally fosse decisamente troppo disinvolta riguardo a quella prassi: certe volte se ne andava in giro per la cucina a sbrigare faccende con una mano sola, mentre la bambina si ingozzava al seno. Intanto, Kent sbirciava di nascosto, e Peter faceva commenti sulla latteria della mamma. Il responsabile era sempre Kent, per Alex. Kent era subdolo, piantagrane, e aveva la testa piena di porcherie. 
– Be’, devo pur farle lo stesso, le cose, – diceva Sally. 
– Non allattare, però. Potresti passarla al biberon anche domani. 
– Tra poco, sí. Non domani, magari, ma tra poco. 
E invece, macché. Perciò Savanna e la latteria continuarono a essere al centro dell’attenzione anche durante il picnic. 
Viene versato prima il Kool-Aid, poi lo champagne. Sally e Alex si toccano i bicchieri, con Savanna di mezzo. Sally beve il suo sorso, ma vorrebbe concedersene di piú. Sorride ad Alex per comunicargli quel desiderio, e forse anche come sarebbe bello se fossero soli. Lui beve e, come se la sorsata e il sorriso di Sally bastassero a pacificarlo, dà inizio al picnic. Riceve istruzioni riguardo a quali tramezzini abbiano la mostarda che piace a lui, quali quella preferita da lei e Peter, e quali siano per Kent che invece non la vuole affatto. 
Mentre avviene tutto ciò, Kent riesce a intrufolarsi alle spalle di Sally e a scolarsi il suo avanzo di champagne. Peter deve averlo visto, ma per qualche ignota ragione decide di non denunciarlo. Sally se ne accorgerà di lí a poco, mentre Alex non verrà mai a saperlo, perché si è già scordato che era rimasto del vino nel bicchiere e lo ritira con cura, insieme al suo, mentre spiega ai bambini che cos’è una dolomia. I figli lo ascoltano, si presume, divorando panini e ignorando le uova ripiene e l’insalata di granchio, per avventarsi sulle tartine. 
Dolomia, dice Alex. Si chiama cosí la spessa roccia di copertura che hanno di fronte. Sotto, si trova lo scisto, vale a dire l’argilla trasformata in roccia, a grana finissima. L’acqua penetra lo strato della dolomia e quando raggiunge lo scisto si deposita, non riuscendo a infiltrarsi nelle falde sottili, a grana fine. Perciò l’erosione, cioè il lento consumarsi della dolomia, si scava lentamente una via di ritorno, incide dei solchi, e nella roccia di copertura si formano delle faglie verticali; sanno che cosa vuol dire verticale? 
– Da su a giú, – replica Kent distrattamente. 
– Delicate faglie verticali che tendono a raggiungere la superficie e si lasciano dei crepacci alle spalle, per cui, nel giro di qualche milione di anni, si sgretolano e ruzzolano giú dal pendio. 
– Devo andare, – fa Kent. 
– Andare dove? 
– A fare pipí. 
– Oh, santo cielo, va’, allora. 
– Anch’io, – dice Peter. 
Sally serra le labbra per bloccare una raccomandazione automatica. Alex la guarda e approva l’autocensura. Si scambiano un mezzo sorriso. 
Savanna si è addormentata con le labbra socchiuse intorno al capezzolo. Senza i bambini intorno, staccarla è piú agevole. Sally può farle fare il ruttino e stenderla sulla coperta senza preoccuparsi del seno nudo. Se Alex non trova lo spettacolo di suo gusto – sa che è cosí; non sopporta l’associazione sesso-nutrimento, il seno della moglie trasformato in mammella – può sempre girarsi dall’altra parte, come sta facendo, in effetti. 
Mentre Sally si riabbottona, sentono un grido, non forte, anzi, lontano, evanescente, e Alex scatta in piedi prima di lei e prende a correre sul sentiero. Poi, ecco un secondo grido che si avvicina. È Peter. 
– Kent ha volato giú. Kent ha volato giú. 
Il padre gli urla: – Arrivo. 
Sally resterà per sempre convinta di averlo saputo subito cos’era successo, ancor prima di aver sentito la voce di Peter. Se doveva capitare un incidente non sarebbe toccato al figlio di sei anni, che era impavido ma poco ingegnoso e non esibizionista. Sarebbe successo a Kent. E sapeva anche esattamente come. Pisciando nella buca, sporgendosi oltre il bordo, sfidando Peter, sfidando se stesso. Era vivo. Stava sdraiato laggiú, sul pietrisco in fondo al crepaccio, ma agitava le braccia, nello sforzo di rimettersi in piedi. Uno sforzo debolissimo. Aveva una gamba sotto il peso del corpo e l’altra piegata a un’angolatura strana. 
– Ce la fai a portare la bambina? – domandò a Peter. – Torna dove abbiamo mangiato, la metti giú e rimani a guardarla. Sei il mio bravo bambino. Bravo e forte. 
Alex intanto si calava strisciando nella buca e diceva a Kent di non muoversi. Ce la si faceva appena ad arrivar giú tutti interi. Il difficile sarebbe stato tirar fuori Kent. 
Che fare? Correre fino alla macchina per vedere se c’era una corda? Legare la corda al tronco di un albero? Magari legarla intorno al corpo di Kent e provare a tirarlo su, mentre Alex lo sollevava verso di lei? 
Figuriamoci se c’era una corda. Perché avrebbe dovuto esserci? 
Alex lo aveva raggiunto. Si chinò a sollevarlo. Kent emise un grido straziante. Alex se lo caricò sulle spalle, con la testa ciondoloni da un lato e le gambe – una delle quali piegata in modo cosí grottesco – inerti dall’altro. Si alzò, arrancò di un paio di passi e, senza mollare Kent, cadde in ginocchio. Aveva deciso di avanzare carponi e si dirigeva – ora Sally capiva le sue intenzioni – verso la pietraia che in parte riempiva l’estremità opposta del crepaccio. Le urlò un ordine senza alzare la testa e Sally capí, sebbene non riuscisse a distinguere una sola parola. Si alzò – come mai era finita in ginocchio? – e si fece largo tra gli arbusti fino al punto del bordo dove il pietrisco saliva a meno di un metro dalla superficie. Alex si avvicinava strisciando, con Kent appeso al collo come un cerbiatto appena cacciato. 
Sally gridò: – Sono qui. Sono qui. 
Kent doveva essere issato dal padre e trascinato sulla sporgenza di roccia solida dalla madre. Era un bambino magrissimo che non aveva ancora avuto la prima impennata di crescita, eppure sembrava pesare come un sacco di cemento. Le braccia di Sally non ce la fecero, al primo tentativo. Allora cambiò posizione, si mise accucciata anziché distesa a pancia in giú e, con tutta la forza di spalle e petto e con Alex che sosteneva e spingeva il corpo di Kent da sotto, lo tirarono fuori. Sally ricadde all’indietro con il bambino tra le braccia e lo vide aprire gli occhi, prima di rovesciarli nelle orbite e svenire di nuovo. 
Appena Alex si fu arrampicato fuori a sua volta, radunarono gli altri figli e si precipitarono al Collingwood Hospital. Lesioni interne sembrava non ce ne fossero. Le gambe erano tutte e due rotte. 
Una frattura era netta, disse il dottore; ma l’altra gamba era in briciole. 
– I bambini vanno tenuti d’occhio costantemente da quelle parti, – disse a Sally, che era entrata in ambulatorio con Kent mentre Alex si occupava degli altri. – Non ci sono dei cartelli di pericolo? Con Alex, pensò Sally, si sarebbe espresso in modo diverso. I bambini sono fatti cosí. Basta voltare lo sguardo un secondo e se ne vanno in giro dove non dovrebbero. – I bambini fanno i bambini. Ma la sua gratitudine – per Dio in cui non credeva, e per Alex in cui invece credeva – era talmente incommensurabile, che non se la prese affatto. 
Kent non poté tornare a scuola per la metà seguente dell’anno, e per il primo periodo fu costretto in trazione in un letto d’ospedale a noleggio. Sally andava a prendere e portare i compiti a scuola, e Kent li svolgeva a casa alla velocità del fulmine. Lo incoraggiarono quindi a procedere con qualche Progetto extracurricolare. Uno di questi si intitolava Viaggi ed esplorazioni – Studia un paese a tua scelta. 
– Ne voglio uno che nessuno sceglierebbe mai, – disse. 
E allora Sally gli confidò una cosa che non aveva mai detto ad anima viva. E cioè della sua passione per le isole sperdute. Non come le Hawaii, le Canarie, le Ebridi o le isole greche dove tutti volevano andare, bensí quelle isole sconosciute di cui non si parlava mai e che ben di rado qualcuno visitava. Ascension, Tristan da Cunha, le Chatham, l’isola del Natale, Desolation, le Faerøer. Lei e Kent cominciarono a collezionare qualsiasi frammento di informazione su quei posti, senza concedersi di inventare niente. E senza mai dire ad Alex che cosa facevano. 
– Penserebbe che siamo fuori di testa, – disse Sally. 
Il principale vanto dell’isola Desolation era un ortaggio antichissimo, un cavolo assolutamente speciale. Immaginarono riti di culto, costumi, processioni sacre in tributo al cavolo. 
E prima che lui nascesse, raccontò Sally al figlio, aveva visto in tv gli abitanti di Tristan da Cunha sbarcare all’aeroporto di Heathrow, dopo essere stati evacuati a causa di un terremoto che aveva sconvolto la loro isola. Che strani le erano sembrati, mansueti e dignitosi come esseri umani di un altro secolo. Dovevano essersi piú o meno adeguati alla vita di Londra, ma appena il vulcano si era placato, avevano voluto tornarsene a casa. 
Quando Kent poté rientrare a scuola naturalmente le cose cambiarono, ma continuò a sembrare un bambino piú grande della sua età, paziente con Savanna che si era fatta testarda e spericolata, e con Peter, sempre pronto a irrompere in casa come un uragano. E, soprattutto, estremamente sussiegoso con il padre, al quale portava il giornale strappato alle grinfie di Savanna e ripiegato con cura, e per il quale spostava indietro la seggiola all’ora di cena. 
«Sia reso onore a colui che mi ha salvato la vita», diceva a volte, oppure: «Il nostro eroe è tornato a casa». 
Pronunciava queste frasi in modo piuttosto solenne, ma senza il minimo sarcasmo. Alex, tuttavia, si innervosiva. Era proprio Kent a innervosirlo, da ben prima del grave incidente nella buca-profonda. 
«Piantala», gli diceva, e si lamentava in privato con Sally. 
– Sta solo dicendo che dovevi volergli bene, visto che lo hai salvato. 
– Cristo, avrei salvato chiunque. 
– Non fartelo scappare di fronte a lui. Ti prego. 
Quando Kent iniziò il liceo, le cose con suo padre migliorarono. Scelse studi scientifici. Optò per le scienze ostiche, non quelle piú accessibili, come scienze della terra, ma anche questo non suscitò alcuna obiezione in Alex. Piú difficili erano, meglio era. 
Dopo sei mesi di college, però, scomparve. Chi lo conosceva un poco – sembrava che non ci fosse nessuno disposto a definirsi davvero suo amico – riferí di avergli sentito dire che voleva andare sulla West Coast. Poi arrivò una lettera, proprio quando i genitori stavano decidendo di rivolgersi alla polizia. Kent lavorava in un negozio Canadian Tire, alla periferia nord di Toronto. Alex andò a trovarlo per ordinargli di riprendere gli studi. Kent tuttavia rifiutò, disse che era contentissimo del lavoro che si era trovato e che guadagnava bene, o che comunque avrebbe guadagnato bene, appena lo avessero promosso. Poi andò Sally a trovarlo, senza dire niente ad Alex, e lo trovò ben pasciuto, con addosso cinque chili piú di quando era partito. Lui disse che era la birra. Si era fatto degli amici, ormai. – Attraversa una fase, – spiegò Sally ad Alex quando gli confessò la visita. – Vuole avere un assaggio di indipendenza. 
– Può anche fare indigestione, per quanto mi riguarda. 
Kent non le aveva detto dove abitava, ma non aveva importanza dal momento che, alla visita successiva, Sally scoprí che si era licenziato. La notizia la imbarazzò – le parve di cogliere un sorrisetto sarcastico sulla faccia dell’impiegato che la informò dell’accaduto –, perciò non gli chiese dove fosse Kent. Era convinta che si sarebbe messo in contatto, in ogni caso, non appena si fosse trovato una nuova sistemazione. 
Lo fece tre anni dopo. La lettera risultava spedita da Needles, in California, ma vi si diceva di non darsi pena a cercare di rintracciarlo da quelle parti, perché era solo di passaggio. Come Blanche, aggiungeva, e Alex commentò, E chi diavolo è Blanche? – È una battuta, – rispose Sally. – Non ha importanza. 
Kent non diceva che lavoro facesse né dove fosse stato e nemmeno se si fosse legato a qualcuno. Non si scusava di averli lasciati cosí a lungo senza notizie e non si informava della loro salute, né di quella di fratello e sorella. In compenso, si dilungava per pagine e pagine sulla sua vita. Non sugli aspetti pratici, bensí su quanto riteneva opportuno fare della propria esistenza e su quanto in effetti stava realizzando. 
«Mi sembra talmente ridicola – diceva – la prospettiva di rinchiudersi nei panni di qualcuno. Voglio dire, nei panni di un ingegnere, di un medico o di un geologo; va a finire che è la pelle a crescere intorno ai vestiti, e non viceversa, e cosí non ce li si può piú levare di dosso. Quando invece abbiamo la possibilità di esplorare il mondo della realtà interiore oltre che esteriore, e di vivere secondo principî che contemplino il piano fisico e quello spirituale e l’intera gamma della bellezza come del terrore destinati al genere umano, vale a dire della sofferenza, ma anche della gioia e del turbamento. Immagino che questo modo di esprimersi vi sembri presuntuoso, ma se c’è una cosa alla quale ho imparato a rinunciare è la superbia intellettuale…» 
– Si droga, – disse Alex. – Si sente lontano un miglio. Gli è marcito il cervello a furia di droga. 
E a metà della notte se ne uscí con: – È il sesso. 
Sally, sdraiata al suo fianco, era sveglissima. 
– Che c’entra il sesso? 
– È il sesso che ti porta a parlare cosí. Che ti fa voler essere una cosa qualunque pur di guadagnarti da vivere. Cosí puoi permetterti sesso regolare e tutto ciò che ne consegue. Non è farina del suo sacco. 
Sally commentò. – Be’, alla faccia del romanticismo. 
– I bisogni primari non sono mai tanto romantici. Kent non è normale, è questo che sto cercando di dire. 
Piú avanti nella lettera – o anzi nell’invettiva, come la chiamò Alex – Kent dichiarava di essere stato piú fortunato di tanti altri, perché a lui era toccata quella che definí un’esperienza di pre-morte che gli aveva garantito una consapevolezza maggiore. Sarebbe quindi rimasto per sempre in debito di riconoscenza con suo padre, per averlo rimesso nel mondo, e con sua madre, per avercelo amorevolmente accolto. 
«Forse in quegli attimi sono nato per la seconda volta». 
A quel punto, Alex aveva emesso un grugnito. 
– No. Non lo voglio dire. 
– Ecco, non dirlo, – ribatté Sally. – Tanto non lo pensi. 
– Non lo so neanch’io, se lo penso o no. 
La lettera si concludeva «con affetto» e la firma: fu l’ultima volta che ebbero sue notizie. 
Peter si iscrisse a Medicina, Savanna a Giurisprudenza. 
Sally si scoprí un inatteso interesse per la geologia. Una volta, in uno slancio fiducioso dopo aver fatto sesso, raccontò ad Alex la storia delle isole, seppure omettendo la fantasticheria che ora Kent abitasse in uno qualsiasi di quei posti. Disse di aver dimenticato molti dettagli che un tempo conosceva e si ripromise di consultare di nuovo l’enciclopedia sulla quale aveva scovato le informazioni. Alex disse che ormai probabilmente avrebbe trovato tutto quel che cercava su internet. Non certo località cosí oscure e remote, disse lei, perciò Alex la tirò giú dal letto e la portò al piano di sotto dove, in un lampo, le comparve davanti agli occhi Tristan da Cunha, un verde pianoro in pieno oceano Atlantico meridionale, piú una ridda di informazioni. Sally ne fu sconvolta e si ritrasse, mentre Alex, prevedibilmente deluso di lei, le chiese perché. 
– Non so. Mi sembra di averla persa, adesso. 
Lui disse che cosí non andava bene, che le occorreva qualcosa di vero da fare. Al tempo, era appena andato in pensione dall’insegnamento e progettava di scrivere un libro. Aveva bisogno di un’assistente, ma non poteva piú avvalersi dell’aiuto dei laureandi, come faceva quando stava ancora in facoltà. (Sally non era sicura che le cose stessero proprio in quei termini). Gli fece notare che lei di rocce non sapeva niente e lui disse che non aveva importanza, che l’avrebbe usata nelle fotografie, per avere il senso delle proporzioni. 
E cosí Sally diventò la figuretta vestita di nero o a colori sgargianti fotografata in contrasto con le strisce di roccia del Siluriano o del Devoniano. O con lo gneiss formatosi per intensa compressione, piegato e deformato dalle collisioni delle placche Atlantica e Pacifica da cui aveva avuto origine l’attuale continente. A poco a poco Sally imparò a usare gli occhi e ad applicare le conoscenze acquisite, finché fu in grado di calpestare una strada deserta di periferia con la consapevolezza che, a grande distanza, sotto i suoi piedi, si trovava un cratere colmo di detrito che nessuno aveva né avrebbe mai visto, perché non c’erano stati occhi a constatarne la creazione, né a seguire l’interminabile storia del suo costruirsi e riempirsi di rocce e seppellirsi e andare perduto. Alex rendeva onore a cose del genere conoscendole, fin dove era possibile conoscerle, e lei lo ammirava per questo, sebbene fosse abbastanza saggia da non dirlo esplicitamente. Furono buoni amici in quei loro ultimi anni, che Sally non immaginava fossero tali, ma lui forse sí. Entrò in ospedale per un intervento, portandosi appresso carte e fotografie e, il giorno in cui doveva tornare a casa, morí. 
Questo succedeva d’estate; nell’autunno a Toronto scoppiò un terribile incendio. Sally sedette per un po’ davanti alla televisione a guardare le fiamme. Il fuoco era divampato in un quartiere che lei conosceva, almeno una volta, al tempo in cui lo popolavano hippy armati di mazzi di tarocchi e collanine di semi e fiori di carta grandi come zucche. E anche dopo, per un po’, quando i ristoranti vegetariani vennero trasformati uno dopo l’altro in costosi bistrò e boutique. Ora un intero isolato di quegli edifici ottocenteschi stava per essere cancellato, con grande rammarico del cronista il quale raccontava di quegli occupanti dei vecchi alloggi sopra le botteghe che avrebbero perso la casa per essere messi in salvo in mezzo a una strada. 
Ma nessuno faceva parola dei proprietari degli stessi appartamenti, pensò Sally, che molto probabilmente l’avevano sempre fatta franca, a dispetto di impianti elettrici fuori norma e invasioni di scarafaggi e cimici, mentre i poveri inquilini ingannati e timorosi non si potevano neanche lamentare. Negli ultimi tempi, capitava che Sally sentisse Alex parlarle nella testa, come di sicuro stava accadendo ora. Spense la tv. 
Non piú di dieci minuti dopo, squillò il telefono. Era Savanna. 
– Mamma. Hai la tv accesa? Hai visto? 
– L’incendio, vuoi dire? Sí, ma l’ho spenta. 
No. Se hai visto… Io lo sto cercando, l’ho visto meno di cinque minuti fa. Mamma, è Kent. 
Adesso non lo trovo piú. Ma l’ho visto. 
– È ferito? Accendo subito. Era ferito? 
– No, è un soccorritore. Reggeva una barella con qualcuno sopra, non so se un morto o un ferito. Però era Kent. Era lui. Si vedeva perfino che zoppicava. Hai acceso? 
– Sí. 
– Bene, ora mi calmo. Deve essere tornato dentro l’edificio. 
– Ma non permetteranno che… 
– Potrebbe essere un medico, per quel che ne sappiamo. Oh merda, stanno rimandando in onda l’intervista allo stesso vecchio di prima, quello con la famiglia che aveva un negozio lí da cent’anni. Senti, attacchiamo e restiamo con gli occhi incollati allo schermo. Lo devono inquadrare di nuovo, prima o poi. 
E invece no. I filmati si fecero ripetitivi. 
Savanna richiamò. 
– Voglio andare in fondo a questa storia. Conosco un tizio che lavora al telegiornale. Posso chiedergli di rivedere il servizio, dobbiamo trovarlo. 
Savanna non aveva mai conosciuto bene suo fratello: perché agitarsi tanto? Che la morte del padre le avesse fatto sentire il bisogno di una famiglia? Meglio che si sposasse presto, che mettesse al mondo dei figli. Certo che quando si cacciava in testa una cosa saltava fuori la sua vena testarda… e se fosse riuscita a rintracciare Kent? Quando aveva una decina d’anni, suo padre le aveva detto che doveva fare l’avvocato, perché era capace di spolpare un’idea fino all’osso. E da quel momento Savanna aveva detto: farò l’avvocato. 
Sally fu sopraffatta da un tremore, una smania, uno sfinimento. 
Era proprio Kent e, nel giro di una settimana, Savanna aveva scoperto tutto sul suo conto. Anzi, no. Diciamo che aveva scoperto tutto quello che lui aveva deciso di farle sapere. Abitava a Toronto da anni. Gli era capitato spesso di passare davanti al palazzo dove lavorava Savanna e un paio di volte l’aveva vista per strada. In una occasione si erano ritrovati quasi faccia a faccia, a un incrocio. Non stupiva che non l’avesse riconosciuto, perché indossava una tunica. 
– Un Hare Krishna? – domandò Sally. 
– Oh, mamma, non è che tutti i monaci siano Hare Krishna. Comunque non lo è piú. 
– E cos’è? 
– Dice che vive nel presente. E allora io gli ho detto, perché, non lo facciamo tutti, al giorno d’oggi, ma lui mi ha detto, no, che intendeva nel presente vero. 
Proprio quello in cui si trovavano, aveva specificato, e Savanna aveva chiesto: – Vuoi dire in questo buco? – Perché in effetti era cosí: il caffè nel quale le aveva chiesto di incontrarsi era davvero un buco. 
– Io la vedo diversamente, – aveva ribattuto lui, ma aveva poi aggiunto che non intendeva criticare la sua visione delle cose, né quella di chiunque altro. 
– Be’, come sei magnanimo, – aveva risposto Savanna, ma in tono ironico e lui aveva quasi riso. 
Disse di aver visto il necrologio di Alex sul giornale e di averlo trovato ben scritto. Era convinto che Alex avrebbe gradito i riferimenti geologici. Si era chiesto se sarebbe comparso anche il proprio tra i nomi dei famigliari, e poi si era sorpreso di trovarlo. Si era domandato se fosse stato il padre a fornire loro l’elenco dei nomi che voleva, prima di morire. 
Savanna disse di no, che non si aspettava affatto di morire cosí presto. C’era stata una riunione di famiglia e si era deciso che dovesse esserci anche Kent. 
– Ah, non papà, – disse Kent. – Certo che no. 
Poi chiese di Sally. 
Sally si sentí nel petto una specie di pallone gonfio d’aria. 
– E tu cosa gli hai detto? 
– Che te la cavi, a volte un po’ smarrita, magari, dato quanto eravate uniti tu e papà e il poco tempo che hai avuto per abituarti a stare da sola. Poi mi ha detto, falle sapere che può venire a trovarmi, se vuole, e io gli ho detto che te l’avrei chiesto. 
Sally non rispose. 
– Mamma? Ci sei? 
– Ha detto quando? dove? 

– No. Devo rivederlo tra una settimana nello stesso posto e fargli sapere. Ho la sensazione che gli piaccia decidere per gli altri. Pensavo che avresti subito detto di sí. 

– Certo, infatti. 

– Non ti fa paura andarci da sola? 

– Non dire stupidaggini. Era proprio lui quello che avevi visto nell’incendio? 

– Non ha detto né sí né no. Ma a me risulta di sí. A quanto pare è piuttosto noto in certe zone della città e tra certa gente. 

Sally riceve un biglietto. Il che era già un fatto particolare, dato che quasi tutta la gente che conosceva ormai usava il telefono o la posta elettronica. Fu contenta di evitare il telefono. Non era ancora in grado di valutare la propria reazione di fronte alla sua voce. Nel biglietto le diceva di lasciare la macchina in un parcheggio sotterraneo a un capolinea del metrò, e di proseguire fino a una determinata stazione, dove lui sarebbe andato a prenderla. 

Pensava di vederlo sul lato opposto del tornello, ma non c’era. Forse intendeva che l’avrebbe aspettata fuori. Salí le scale e si ritrovò nel sole, dove si fermò, mentre persone di tutti i tipi le passavano accanto, di fretta. Si sentí sgomenta e a disagio. Sgomenta per l’apparente assenza di Kent, e a disagio perché provava esattamente quello che spesso sembravano provare gli abitanti della sua zona di mondo, anche se non avrebbe mai usato le loro parole per dirlo. Pareva di stare in Congo o in India, o in Vietnam, avrebbero detto. Dovunque, tranne che in Ontario. Turbanti, sari e dashiki davano molto nell’occhio, e a Sally piacevano tutti quei colori sgargianti e quei fruscii. Ma lí non venivano portati come costumi stranieri. La gente che li indossava non era appena arrivata; aveva da un pezzo attraversato la fase dell’adattamento. Era lei l’intrusa. 

Sui gradini di una vecchia banca, poco oltre l’ingresso del metrò, c’erano degli uomini, chi seduto chi disteso, qualcuno addormentato. La banca non c’era piú, naturalmente, sebbene il nome restasse inciso nella pietra. Sally pose lo sguardo su quel nome piú che sugli uomini le cui posture stracche, reclinate e dormienti stridevano con il precedente impiego dell’edificio e con la fretta di chi usciva dalla metropolitana. 

– Mamma. 

Uno degli uomini sugli scalini le venne incontro con calma, trascinando un po’ un piede, e lei si rese conto che era Kent e lo aspettò. 

Lí per lí avrebbe voluto scappar via. Poi però vide che non tutti gli sconosciuti erano sporchi o derelitti e che qualcuno non la guardava con aria di sfida o di disprezzo, ma quasi con bonaria indulgenza adesso che era stata identificata come madre di Kent. 

Kent non aveva la tunica. Indossava dei pantaloni grigi fuori taglia, stretti in vita da una cintura, una maglietta senza scritte e una giacca logora. Portava i capelli talmente corti che non si vedevano nemmeno i ricci. Era grigio, con il viso segnato, qualche dente in meno e un corpo magrissimo che gli dava piú anni di quelli che aveva. 

Non l’abbracciò – del resto non si era aspettata che lo facesse –, però le posò una mano leggera sulla schiena per pilotarla nella direzione giusta. 

– Fumi sempre la pipa? – chiese lei, annusando l’aria e ricordando che al liceo Kent si era messo a fumarla. 

La pipa? Ah. No. L’odore che senti è il fumo dell’incendio. Noi non ce ne accorgiamo piú. 



Temo che aumenterà, man mano che procediamo. 

– Dobbiamo attraversare il posto dov’è scoppiato? 

– No, no. Anche volendo, non potremmo. È tutto transennato. Troppo pericoloso. Certi palazzi devono essere demoliti. Sta’ tranquilla, dove siamo noi è sicuro. Quasi due isolati dal casino. 

– Il vostro condominio? – disse, messa in guardia da quel «noi». 

– Piú o meno. Sí. Adesso vedrai. 

Si mostrava disponibile e gentile, ma parlava con una certa fatica, come chi si esprima, per educazione, in una lingua straniera. E le stava un po’ addosso, per essere sicuro che sentisse. Quello sforzo particolare, il leggero affaticamento che gli costava parlarle, quello di un traduttore meticoloso, sembrava non doverle passare inosservato. 

Il prezzo. 

Scendendo dal marciapiede, le sfiorò il braccio – forse stava per inciampare – e disse: – Pardon –. E a Sally parve di registrare un debolissimo tremito. 

Aids. Come aveva potuto non pensarci prima? 

– No, – disse lui, benché Sally non avesse certo parlato ad alta voce. – Attualmente sto abbastanza bene. Non sono sieropositivo, né niente di simile. Anni fa mi sono preso la malaria, ma ora è sotto controllo. Magari sono un po’ stanco, niente di preoccupante. Ecco, qui dobbiamo girare, stiamo in questo isolato. 

Di nuovo il plurale. 

– Non sono un sensitivo, – disse. – Ho solo immaginato dove voleva andare a parare Savanna e ho pensato di tranquillizzarti. Eccoci arrivati. 

Era uno di quegli edifici con la porta d’ingresso a pochi passi dal marciapiede. 

– Sono casto, in effetti, – disse, tenendo aperta la porta, alla quale mancava un pannello di vetro. Al suo posto era stato fissato un pezzo di cartone con le puntine da disegno. 

Le assi del pavimento erano nuove e scricchiolavano. L’odore era un misto molto penetrante. Si era insinuato in casa il fumo della via, naturalmente, ma era mescolato al lezzo stantio di cucina, caffè bruciato, gabinetto, malattia, marciume. 

– Forse «casto» non è il termine giusto. Dà l’idea che ci sia di mezzo un atto di volontà. Credo che avrei dovuto dire sessualmente «inattivo». Non lo considero un traguardo. Non lo è. 

Intanto la conduceva in cucina, facendo il giro intorno alla scala. Qui, un donnone gigantesco dava loro la schiena, rimestando qualcosa sul fornello. 

Kent disse: – Ciao, Marnie. Ti presento mia madre. Ti va di salutarla? 

Sally notò un cambiamento nella voce. Una pacificazione, una sincerità, forse un rispetto, diversi dai toni forzatamente leggeri che riservava a lei. 

Disse: – Salve, Marnie, – e la donna si girò appena senza riuscire a mettere a fuoco lo sguardo e mostrando una faccia da bambola schiacciata dentro una massa di carne. 

– Marnie è la nostra cuoca questa settimana, – disse Kent. – L’odore è buono, Marnie. Poi, a sua madre, disse: – Andiamo a sederci nel mio sancta sanctorum, ti va? – e la condusse giú da un paio di gradini, lungo il corridoio posteriore. Non era facile muoversi, per via delle pile di giornali, volantini e riviste, tutti legati assieme. 

– Bisogna sgomberare questa roba da qui, – disse Kent. – L’ho detto a Steve stamattina. C’è rischio di incendio. Cristo, quante volte l’ho ripetuto. E adesso l’ho toccato con mano. 

Cristo. Sally si era domandata se Kent fosse membro di un ordine religioso che non imponeva l’abito talare, ma in tal caso non si sarebbe di certo espresso in quel modo, no? D’altra parte, poteva sempre trattarsi di una setta non cristiana. 

La sua stanza era in fondo a un’ulteriore rampa di scale, in una cantina, in effetti. C’erano una branda, una vecchia scrivania a scomparti assai malridotta, e un paio di sedie rigide senza poggiapiedi. 

Le sedie reggono, sta’ tranquilla, – le disse. – Quasi tutto quello che abbiamo è rimediato in 

discarica, ma sulle sedie esigo che ci si possa sedere. 

Con un senso di sfinimento, Sally sedette. 

– Che cosa sei? – chiese. – Che cos’è quello che fai? È una specie di casa di accoglienza per detenuti o malati di mente, questa? 

– Ma no. Qui accogliamo proprio chiunque arrivi. 

– Compresa me. 

– Compresa te, – disse lui, senza sorridere. – Non abbiamo nessuno che ci finanzi, tranne noi stessi. Ci arrangiamo con un po’ di riciclaggio dei rifiuti che raccogliamo in giro. Quei giornali. Bottiglie. Tiriamo su qualcosa qui e là. E, a turno, sollecitiamo gesti di solidarietà. 

– Cioè, chiedete l’elemosina? 

– Mendichiamo, – fece lui. 

– Per strada? 

– Quale posto migliore? Sí, per strada. Ma entriamo pure in qualche locale con cui abbiamo un accordo, anche se non sarebbe legale. 

– Lo fai anche tu? 

– Non potrei chiederlo agli altri, se non lo facessi personalmente. Ho dovuto vincermi. Quasi tutti abbiamo dovuto vincere qualcosa. Poteva essere la vergogna. O magari il concetto di «mio». Se qualcuno ti scuce un biglietto da dieci o anche solo un dollaro, ecco che spunta fuori il concetto di proprietà privata. Di chi sono quei soldi, eh? Sono miei, oppure – aiuto, aiuto – sono nostri? Se la risposta che ci si dà è sono miei, di solito la persona se li spende subito e poi torna col fiato che puzza di alcol e dice, non so come mai, ma oggi non ho rimediato un centesimo. Poi capita che si senta in colpa e finisca per confessare. Oppure no, non importa. Li vediamo sparire per giorni di seguito – settimane – e poi ricompaiono quando si mette male. Qualche volta invece li vedi battere le strade per conto loro, facendo sempre finta di non riconoscerti. E non tornano piú. Il che va benissimo. Sono i nostri ex allievi, diciamo cosí. Se si crede nel sistema, ovvio. 

– Kent… 

– Da queste parti mi chiamo Giona. 

– Giona? 

– L’ho scelto io. Avevo pensato a Lazzaro, ma mi pareva troppo compiaciuto. Puoi chiamarmi Kent, se preferisci. 

– Vorrei sapere che cosa è successo alla tua vita. Non tanto cosa ci fai con queste persone… – Queste persone sono la mia vita. 

– Sapevo che l’avresti detto. 

– D’accordo, era un po’ scontata. Però è questo che faccio da… quanto? sette anni? Nove. Nove anni. 

Sally insistette. – E prima? 

– E che ne so? Prima? Prima. I giorni dell’uomo sono come l’erba, no? Che oggi c’è e domani si getta nel forno. Ma sentimi. Ti ho appena incontrata e già ricomincio a darmi delle arie. Oggi c’è e domani si getta nel forno… non mi interessano piú queste cose. Io vivo alla giornata. Davvero. Non puoi capire. Non faccio parte del tuo mondo, e tu non fai parte del mio – lo sai perché ho voluto vederti qui, oggi? 

– No. Non ci ho neanche pensato. Cioè, mi pareva che potesse essere arrivato il momento, naturalmente. 

– Naturalmente. Be’, quando ho letto della morte di mio padre sul giornale, naturalmente mi sono detto, E i soldi, dove saranno finiti? E poi ho pensato, Be’, lei me lo può dire. 

– Ce li ho io, – disse Sally, sopraffatta dalla delusione, ma ostentando grande autocontrollo. – Per il momento. Anche la casa, se ti interessa. 

Immaginavo che fosse cosí. Va bene. 

– E alla mia morte, andranno a Peter e ai suoi figli, e a Savanna. 

– Benissimo. 

– Non sapeva nemmeno se eri vivo o morto… 

– Credi che lo chieda per me? Mi consideri idiota al punto da volere i soldi per me? Comunque, l’errore di pensare come avrei potuto usarli, l’ho fatto. Con l’idea che erano soldi di famiglia, e che potevo disporne. Ecco la tentazione. Adesso sono contento, però, contento di non poterli avere. 

– Potrei… 

– Il fatto è che questa casa ha i giorni contati… – Potrei farti un prestito. 

– Un prestito? Qui non funziona cosí. Non utilizziamo il sistema dei prestiti da queste parti. Scusa, bisogna che ritrovi la calma. Hai fame? Ti va un po’ di zuppa? 

– No, grazie. 

Appena Kent se ne andò, Sally pensò di scappare. Se solo fosse riuscita a individuare una porta sul retro, un percorso che non prevedesse il passaggio in cucina. Ma non poteva, perché avrebbe significato non rivederlo mai piú. Senza contare che il cortile di una casa del genere, costruita prima dell’era automobilistica, non doveva avere accessi alla strada. 

Passò piú o meno mezz’ora prima che ritornasse. Sally non si era messa l’orologio. Pensava che potesse risultare fuori luogo nella vita attuale di Kent e, a quanto pare, aveva colto nel segno. Se non altro su questo. 

Lui parve un po’ sorpreso e disorientato di trovarla ancora lí. 

– Scusami, ho dovuto sistemare una faccenda. E poi ho parlato un po’ con Marnie: mi tranquillizza sempre. 

– Ci avevi scritto una lettera, – disse Sally. – È stata l’ultima volta che abbiamo avuto tue notizie. 

– Oh, non me la ricordare. 

– No, era una bella lettera, invece. Un buon tentativo di spiegarci che cosa pensavi. 

– Ti prego. Non ricordarmela. 

– Stavi cercando di impostare la tua vita… 

– La mia vita, la mia vita, il mio percorso, e tutto quel che potevo scoprire del mio schifoso io. Obiettivo me stesso. Le mie stronzate. La mia spiritualità. Il mio cammino intellettuale. Non esistono tutte queste fesserie interiori, Sally. Ti dispiace se ti chiamo Sally? Mi riesce piú naturale. Esiste soltanto l’esterno, quello che uno fa, in ogni istante della vita. Da quando l’ho capito sono felice. 

– Lo sei davvero? Sei felice? 

– Certo. Ho abbandonato tutte quelle fesserie su me stesso. Penso, Cosa posso fare per dare una mano? È tutto il pensare che mi concedo. 

– Vivi nel presente, insomma. 

– Non m’importa se pensi che sono banale. Se mi trovi ridicolo. 

– Io non… 

– Non importa. Senti. Se credi che voglia i tuoi soldi, d’accordo. Voglio i tuoi soldi. E voglio anche te. Non ti interessa una vita diversa? Non sto dicendo che ti voglio bene, non uso parole idiote, io. O che ti voglio salvare. Sai bene che solo tu puoi salvare te stessa. E allora il punto qual è? Di solito non cerco di arrivare da nessuna parte, quando parlo con qualcuno. Di solito evito i rapporti personali. 

Dico sul serio. Li evito. 

Rapporti. 

– Perché ti sforzi di non ridere? – disse. – Perché ho usato la parola «rapporti»? Ti suona fasulla? Non bado troppo alle parole, io. 

Sally disse: – Pensavo a Gesú. «Che c’è tra me e te, donna?» Lo sguardo che gli balenò negli occhi era quasi furioso. 



– Ma non ti stanchi mai, Sally? Non ti stanchi mai di essere intelligente? Scusa, non posso star qui a parlare con te. Ho da fare. 
– Anch’io, – disse Sally. Era del tutto falso. – Allora ci… – Non lo dire. Non dire: «Allora ci sentiamo». 
– Magari, ci sentiamo. Va meglio cosí? 
Sally si perde, poi ritrova la strada. Di nuovo la banca, lo stesso esercito di perdigiorno, o forse tutto un altro. Il tragitto in metropolitana, il parcheggio, le chiavi, l’autostrada, il traffico. Poi la statale, il tramonto che arriva presto, ancora niente neve, gli alberi spogli e il buio sui campi. Le piace quel tratto di campagna, le piace questo periodo dell’anno. Deve cominciare a considerarsi indegna? 
La gatta è contenta di vederla. Ci sono due o tre messaggi di amici, in segreteria. Si mette a scaldare una porzione singola di lasagne. Ormai si compra queste vaschette precotte e surgelate. Sono abbastanza buone e non costano care, se si considera che non c’è spreco. Nei sette minuti di attesa, sorseggia un bicchiere di vino. 

Giona. 
Sta fremendo di rabbia. Che cosa ci si aspetta da lei, che torni in quella casa per condannati e si metta a sfregare il linoleum marcio e a cuocere avanzi di pollo che qualcuno ha buttato via perché erano scaduti? Per farsi ricordare ogni giorno quanto lei sia da meno di Marnie e di qualunque altra creatura afflitta? Il tutto, per il privilegio di essere utile alla vita che un altro – Kent – si è scelto? È malato. Si sta logorando, forse sta morendo. Non le direbbe certo grazie per un paio di lenzuola pulite e un buon piatto di cibo. Oh no. Preferirebbe morire su quella branda sotto la coperta col buco della bruciatura di sigaretta. 
Un assegno, però, può staccarlo. Non una cifra pazzesca. Né troppo, né troppo poco. Tanto lui non lo userà per sé, figuriamoci. E continuerà a disprezzarla, ovviamente. 
Disprezzarla. Macché. Non è quello il punto. Niente di personale. 
C’era comunque qualcosa che salvava quella giornata dal disastro assoluto. No? Lei aveva detto magari. Lui non l’aveva corretta.