martedì 14 maggio 2024

MATURARE TARDI Mo Yan



MATURARE TARDI

 Mo Yan

Pseudonimo dello scrittore cinese Guan Moye, Premio Nobel per la Letteratura nel 2012. Mo Yan significa, «colui che non vuole parlare» ed è una sorta di risposta scherzosa alla nonna che lo zittiva.

MATURARE TARDI

Il falcetto da mancino

Premessa.

Gentili lettori, è con un certo imbarazzo che ammetto di aver già scritto di fabbri e di forge, l’ho fatto nel romanzo Grande seno, fianchi larghi, nel romanzo breve Il ravanello trasparente e nel racconto Il coltello prezioso della zia. Nella storia che state per leggere, la prima prodotta dopo una lunga pausa, mi sono ritrovato senza volerlo a trattare di nuovo quel tema. Perché mi piace cosí tanto? Per prima cosa, perché da piccolo ho azionato il mantice della forgia nel cantiere di costruzione di un ponte e, anche se il ferro non ho mai imparato a batterlo, ho sentito il vecchio artigiano dire che gli sarebbe piaciuto prendermi come apprendista e chiamarmi suo allievo di fronte a molti, compreso un alto funzionario venuto a fare un sopralluogo. Il secondo motivo è che, quando lavoravo come operaio in un cotonificio, ho forgiato il ferro con mastro Zhang della squadra di manutenzione. Quella volta ho fatto mulinare il martello sul serio e, nonostante mi fossi accorto che mentre lavoravo lui alzava al massimo la guardia, in fin dei conti non l’ho ferito. Mastro Zhang era dotato di una manualità straordinaria, ma aveva poca dimestichezza con i caratteri cinesi. Chiedeva a me di scrivere le lettere indirizzate a suo figlio, che era capo di stato maggiore di un reggimento. In seguito, quando mi sono arruolato nell’esercito e lavoravo al quartier generale negli uffici dell’amministrazione, una volta che sono andato sul campo a visitare le truppe, ho incontrato un generale di divisione e, sentendo l’accento delle mie parti, ho capito che eravamo compaesani e, approfondendo, ho scoperto che era il figlio di mastro Zhang.

Se uno prova il forte desiderio di diventare qualcosa e per tutta la vita ci prova senza riuscirci, quel qualcosa rimane per sempre ad attanagliare la sua anima e a tormentare i suoi sogni. Per questo ogni volta che vedo un fabbro provo una forte simpatia e se sento il frastuono dei suoi colpi sul ferro mi commuovo fino alle lacrime. Ecco perché, da quando ho iniziato a scrivere, amo parlare di fabbri e di forge.

1.

Ogni estate, quando la sofora si riempiva di fiori, ricompariva il fabbro Lao Han, del distretto di Zhangqiu, portandosi dietro i suoi due apprendisti. All’ombra del grande albero che si ergeva al margine del villaggio scaricavano il carretto, montavano una bancarella, costruivano la forgia e, ding ding dang dang, si mettevano all’opera. Il primo lavoro non era su un utensile, ma su un pezzo di ghisa. Lo arroventavano e cominciavano a batterlo, lo riarroventavano e lo battevano di nuovo e cosí per piú volte di seguito; lo piegavano e lo allungavano, poi lo piegavano nuovamente e lo riallungavano. Sotto i colpi dei loro martelli il ferro arroventato assumeva qualunque forma, come un impasto nelle mani di una donna. Tempravano il pezzo di ghisa fino a farlo diventare acciaio. Da piccolo, nel libro di cinese delle medie di mio fratello, trovai la frase: «temprato cento volte l’acciaio diventa cosí duttile che si può avvolgere attorno a un dito»; nel mio cervello affiorarono allora immagini di fabbri mentre sentivo risuonare nell’orecchio il clangore dei colpi. Il fabbro avrebbe poi tagliato in strisce quel pezzo di acciaio, che successivamente avrebbe applicato alle lame delle mannaie e dei falcetti che gli abitanti del villaggio portavano a riparare. Purché l’acciaio fosse stato temprato alla temperatura giusta, gli attrezzi rafforzati in quel modo avrebbero mantenuto a lungo l’affilatura, sarebbero stati facili da maneggiare e avrebbero incrementato cosí in modo considerevole la produttività di chi li usava. Per questo gli abitanti del nostro villaggio non acquistavano mai gli attrezzi agricoli di scarsa qualità prodotti dalla fabbrica del distretto e venduti allo spaccio della comune. E sempre per questo ogni anno Lao Han doveva assolutamente venirci a trovare. Certo, pensavo io, nei tanti villaggi che popolano il cantone nord-est di Gaomi devono esserci ragazzini come me che, ogni anno, al tempo della fioritura della sofora, non vedono l’ora che arrivi Lao Han e sono i suoi piú fedeli spettatori.

Il vecchio aveva due apprendisti: uno era Xiao Han, suo nipote, l’altro si chiamava Lao San. Lao Han era alto e magro, con la testa calva e il collo lungo, gli occhi sempre lucidi e lacrimosi. Xiao Han era un ragazzo alto dal fisico robusto. Lao San era un mezzo nano con il corpo tozzo, le gambe corte e le braccia lunghe, faceva pensare a un orango. Aveva un carattere gioviale, gli piaceva chiacchierare e ridere, tutte caratteristiche in eclatante contrasto con Xiao Han, di solito taciturno. Durante il lavoro, Lao Han reggeva le pinze, Xiao Han faceva roteare il martello e Lao San azionava il mantice e alimentava il fuoco; inoltre, quando i lavori erano grossi, dava una mano impugnando un martello da dodici jin, creando cosí l’eccitante spettacolo di tre martelli che si alternavano a dare colpi. Quello di Xiao Han pesava diciotto jin.


2.

Mio nonno era un falegname provetto, un artigiano molto esigente. Percepivo distintamente l’avversione che i fabbri provavano nei suoi confronti e in cuor mio me ne facevo un cruccio. Un giorno portò un’ascia e chiese loro di rinforzarla con un’aggiunta di acciaio. La usava da anni e la lama era quasi del tutto consumata, sembrava come rientrata nel legno del manico. Lao Han la prese e la osservò ben bene: – E questa la chiami un’ascia?

Mio nonno ribatté: – Perché secondo te cos’è?

Lao Han suggerí: – Te ne faccio un’altra.

– Non ne voglio una nuova, se non siete capaci vado da qualcun altro.

– Sta’ tranquillo, nonno, – intervenne Lao San. – Dalle falci piú grandi alle forbici piú piccole, noi siamo in grado di fare tutto.

Mio nonno lo provocò: – Pure i ricami?

– Quelli no –. Lao San scoppiò a ridere. – Nonno, non siamo praticamente colleghi? Tu fai il falegname.

– Un’ascia nuova costa uno yuan; rimessa a nuovo uno e cinquanta, – Lao Han pronunciò il verdetto.

– Smettetela di battere il ferro e mettetevi a fare i briganti che vi riesce meglio.

– Se ti va lasciala, sennò riportatela a casa! – disse Lao Han perentorio.

– E va bene, – acconsentí mio nonno, – però fate un buon lavoro, questa non è un’ascia come le altre.

– Non sarà quella di Lu Ban? – lo scherní Lao Han.

– Lu Ban è una leggenda, Guan una persona vera, – rispose mio nonno.

Guan Er era il suo nome.

Lao San inclinò la testa e con un gessetto scrisse sulla lastra di ferro arrugginita poggiata contro il tronco di un salice: Funzionario Er, fortunato aggiungere acciaio, uno yuan e cinquanta.

Urlai: – Hai sbagliato, il cognome è Guan come «tubo», non come «funzionario». E poi il carattere fu è quello di «ascia», mica di «fortunato»!

Mi ignorarono.

Arrivò Zhao Dashu, l’addetto all’allevamento del bestiame, che gettò a terra un vecchio tagliafieno ed esclamò: – Lao Han, quest’anno sei in ritardo!

– No, è lo stesso giorno dell’anno scorso, – borbottò lui.

– Rimettimi a nuovo questa lama, aggiungi acciaio, sbrigati che mi serve subito.

– Dieci yuan!

– Lao Han, – sbottò Zhao Dashu, – la miseria t’ha fatto dare di volta il cervello?

– Dieci yuan!

– Non mi sbilancio a dirti di sí, fra un po’ arriva il capobrigata e ne parli con lui.

– Con o senza capobrigata, sempre dieci sono, – intervenne Lao San.

– Lao San, ti trovo moglie, – disse Zhao Dashu.

– Lao Zhao, i polli e le anatre si mettono a marinare, a me quanto pensi di tenermi in sospeso? Hai detto la stessa cosa l’anno scorso.

– Ma dai?! – fece Zhao Dashu. – Quest’anno però dico sul serio, al paese della mia vecchia c’è una sua lontana nipote, pelle candida e aria pulita, è alta e formosa, ha solo un difettuccio agli occhi.

– Quello non sarebbe d’impaccio, – gli assicurò Lao San, – se sa far da mangiare a tentoni.

– Allora puoi star tranquillo, – rispose Zhao Dashu, – non solo sa cucinare, ma sa anche cucire le scarpe di pezza.

– Forza, allora, vedi di darti una mossa, – disse Lao San. – Quanto al resto non mi manca niente, mi serve solo una donna.

Lao Han gli lanciò un’occhiata e mandò un profondo sospiro.

Tian Qianmu, scuro in volto, si parò davanti alla forgia: – Voglio un falcetto.

– Aggiungiamo acciaio a uno vecchio? – chiese Lao San.

– Non ne ho uno vecchio.

– Lo vuoi «alla Jiao» o «alla Ye»? – si informò Lao Han.

I falcetti del distretto di Jiao hanno la lama stretta, quelli di Ye piú larga. A Jiao li fanno leggeri, a Ye piú pesanti. C’è chi ne preferisce un tipo e chi un altro.

– Mi serve un falcetto da mancino.

– Da mancino?

– Uno di quelli che si usano con la sinistra.

– Un falcetto per un mancino! – esclamò Lao San. – Ma un mancino può anche falciare con la destra!

– Ho capito, – aggiunse Lao Han, – ti faremo un falcetto per un mancino.

In quel mentre, lungo la strada maestra passò di corsa Xizi, il figlio scemo di Liu Laosan, inseguito dalla sorella che gli portava i vestiti.

Lao San disse: – Ma l’anno scorso non l’hanno fatto visitare dal guaritore ambulante?

– Ma che guaritore, – disse Zhao Dashu, – quello era solo un cialtrone!

Tian Qianmu stava a testa bassa, senza dire una parola.

– L’anno scorso ve l’ho detto: chi sa fare i miracoli non va in giro scampanellando ad annunciare i suoi servizi nei vicoli. Lo vedi che vi siete fatti imbrogliare? – li scherní Lao San.

– Al lavoro! – ingiunse Lao Han infastidito, estraendo un pezzo di ferro incandescente dalla forgia.

3.

Il ragazzo che impugnava il falcetto da mancino e, accucciato in un boschetto, stava tagliando l’erba si chiamava Tian Kui ed era l’unico figlio di Tian Qianmu. Aveva cinque anni piú di me ed era stato compagno di classe del mio secondo fratello. Poi mio fratello era andato a fare le medie a Madian, che dista diciotto li da casa nostra. Tian Kui, invece, che a scuola era piú bravo di lui, aveva smesso di studiare e ogni giorno andava a tagliare l’erba.

Nel nostro villaggio lo facevano un mucchio di ragazzini. Uscito da scuola, mi ci mettevo anch’io. La portavamo al capanno dell’allevamento della brigata di produzione, per dieci jin ci davano un punto lavoro. Con i punti lavoro si misurava la produttività dei membri delle comuni popolari, erano un fattore importante per stabilire le retribuzioni di fine anno. Un detto popolare dell’epoca recitava: «punti lavoro, punti lavoro, del contadino sono l’oro».

Io non avevo proprio la stoffa del falciatore. La mia sorella maggiore in un giorno poteva raccogliere piú di cento jin d’erba, guadagnava oltre dieci punti lavoro, ancor piú degli uomini. Un giorno io ne feci appena un jin e, quando la portai al capanno, provocai l’ilarità generale. Zhao Dashu, l’addetto all’allevamento, indicò il mio bottino esclamando: – Be’, un autentico lavoratore modello! – e da quel momento diventò il mio soprannome.

Quella sera, davanti alla famiglia raccolta per cena, si tenne la sessione di critica.

Mio nonno esordí: – Chi se lo sarebbe immaginato che da casa nostra uscisse un «lavoratore modello». Pensavi di star raccogliendo il lingzhi, il fungo magico?

Mio padre rincarò la dose: – Se ti fossi seduto per terra e l’avessi tagliata coi piedi, in un pomeriggio di sicuro ne avresti fatta piú di un jin.

Mia madre aggiunse: – Che stavi facendo in realtà?

Mia sorella suggerí: – Sarà andato a rubare zucche e giuggiole.

Io frignavo: – Ho cercato l’erba tutto il pomeriggio, non l’ho trovata da nessuna parte…

Mia sorella concluse: – Invece di andartene in giro, domani vieni con me.

Io non volevo tagliare l’erba con mia sorella, volevo andare in cerca di Tian Kui.

Lo trovavi sempre in quel boschetto. Lí c’erano alcuni tumuli e lui si aggirava nei paraggi. Sulle tombe crescevano stentati ciuffi riarsi di imperata e si trovava anche il jiancao, l’erba del canguro. Erbe che io non degnavo neanche di uno sguardo. Tian Kui se ne stava accovacciato, oppure in piedi a schiena curva, e con il suo falcetto da mancino sembrava rasare con pazienza i tumuli, come fossero delle teste. Per falciare l’erba, noi impugnavamo il falcetto nella destra e con la sinistra reggevamo il fascio da tagliare. Lui teneva l’attrezzo nella sinistra e, non avendo la mano destra, aveva fissato al braccio un uncino di ferro che gli serviva per raccogliere l’erba tagliata. Avevo l’impressione che quell’uncino fosse piú agile della mia mano. Una volta provai a usare il suo falcetto, ma lo trovai estremamente scomodo. Chiesi a Tian Kui: – Usi la sinistra fin da piccolo?

Mi rispose: – Appena entrato a scuola, reggevo la penna con la sinistra, poi il maestro me l’ha proibito e mi ha costretto a correggermi. Ma quando non ero in sua presenza preferivo usare quella. Con la sinistra scrivo piú velocemente e ho una bella calligrafia, con la destra ero piú lento e scrivevo male.

– Mio fratello ha detto che eri bravo a scuola.

– Niente di eccezionale

– Perché non hai fatto l’esame per andare alle medie?

Con l’uncino indicò uno dei tumuli di fronte a noi e disse a voce bassa: – In quella tomba c’è un grosso serpente.

– Quanto grosso? – In preda al terrore mi toccai i capelli. La leggenda dice che i serpenti contano i capelli dei bambini e, quando hanno finito di contare, se li portano via. Quindi, se c’è un serpente ti devi subito scompigliare i capelli.

– Vuoi vederlo?

Seppur esitante, lo seguii in direzione della tomba.

Lui mi indicò un buco grande quanto un pugno in mezzo ad altri buchi.

Trattenendo il fiato e continuando a passarmi la mano sulla testa, mi avvicinai. All’inizio non vedevo nulla, poi pian piano riuscii a distinguere meglio l’interno della tana. In effetti c’era un grosso serpente del diametro di una ciotola da tè, dalla livrea nera a screziature bianche. Lo vedevo solo in parte, non in tutta la sua lunghezza. Mi sentii raggelare e, lentamente, cominciai a fare marcia indietro finché non fui a grande distanza, e solo allora osai parlargli.

– L’hai visto uscire?

– Un paio di volte.

– Quant’è lungo?

– Quanto il bastone di un bilanciere per trasportare l’acqua.

– Com’è fatto? Sulla testa ha una cresta?

– Sí.

– Di che colore?

– Rosso scuro.

– Come i frutti del gelso maturi?

– Proprio cosí.

– Hai sentito il suo verso?

– L’ho sentito.

– A che assomiglia?

– Fa un gege, che pare un gracidare di rane.

– Non hai paura a stare qui da solo tutti i giorni?

– Da quando mio padre mi ha tagliato la mano, io non ho piú paura di niente.

4.

Spesso mi torna in mente quel torrido pomeriggio d’estate quando Tian Kui aveva ancora tutt’e due le mani.

Ci eravamo radunati in riva allo stagno a sud del villaggio e, appesi i vestiti agli alberi, ci eravamo messi a giocare con l’acqua e ad acchiappare i pesci.

Nello stagno crescevano steli di lisca e canne, dove andavamo a infilarci per giocare. D’un tratto qualcuno gridò:

– C’è Xizi!

Xizi era l’unico figlio maschio di Liu Laosan, un idiota.

Completamente nudo, ci correva incontro sul sentiero lungo lo stagno. La sorellina lo inseguiva reggendo in mano i suoi vestiti.

All’epoca avrà avuto diciassette o diciotto anni, era pienamente sviluppato. I genitali di grandi dimensioni spiccavano tra i peli corvini del pube. Giunto a riva, si fermò davanti a noi e si mise a ridere stupidamente.

Proprio non ricordo chi lanciò il primo grido:

– Forza, tiriamo il fango allo scemo!

Prendemmo manate di melma nera dal fondo e gliele lanciammo addosso.

Una palla di fango lo prese in pieno petto. Lui non si scostò, continuando a ridere come un idiota.

Un altro colpo lo beccò sui genitali. Allora, per il dolore, si piegò in due.

Ci stavamo divertendo un mondo, ridevamo come matti.

– Colpisci! Prendilo! Addosso allo scemo!

Il fango gli imbrattò la faccia. Si riparò con entrambe le mani.

A quel punto arrivò la sorellina con i vestiti. Gli si mise davanti per fargli da scudo. Colpita al petto da una palla di fango, scoppiò a piangere e gridò:

– Smettetela, è uno scemo!

Fu centrata alla testa e, sempre piangendo, urlò:

– Non lo colpite, è un idiota, non capisce niente…

La sorella minore di Xizi si chiamava Huanzi, aveva piú o meno la stessa età del mio secondo fratello. Era molto carina, anche Xizi era un bel ragazzo, nel villaggio lo dicevano tutti, peccato che fosse un idiota.

Siccome proteggeva Xizi con il suo corpo, Huanzi fu colpita molte volte. Piangendo si mise a insultarci:

– Bastardi, fate i prepotenti con uno scemo, il Signore del Cielo scaglierà un fulmine che vi incenerirà… Bastardi che non siete altro…

Forse temendo quel castigo dal Cielo, forse perché alla fine la nostra coscienza aveva preso il sopravvento oppure semplicemente perché eravamo stanchi, ci fermammo e, chi gridando e chi in silenzio, ci infilammo tra la lisca e le canne.

5.

La sera, mentre stavamo mangiando in cortile, Liu Laosan si precipitò dentro come una furia.

– Fratello, sei arrivato in tempo per la cena, – disse mio padre e ordinò alla mia sorella maggiore: – Figliola, vai a prendere uno sgabello per il terzo zio.

Liu Laosan si rivolse con impeto a mio nonno: – Secondo zio, tra le nostre famiglie non ci sono rancori, giusto?

Mio nonno rimase un attimo stupito, poi disse: – Laosan, ma che dici? Io e tuo padre siamo come fratelli, eravamo insieme sul monte Yimeng a fare i portatori per l’Ottava Armata, io mi sono beccato la dissenteria e, se non fosse stato per lui, lassú in quel fosso di montagna ci avrei lasciato la pelle.

– Se le cose stanno cosí, – ora Liu Laosan si rivolse a mio padre, – mi spieghi perché a mezzogiorno questi miei due nipoti si sono accaniti con tale ferocia contro Xizi e Huanzi?

– Cos’è successo? – Con un urlo mio padre saltò su dalla sedia e, puntando il dito verso di me e il mio secondo fratello, ci chiese infuriato: – Cosa avete combinato, voi due?

Ci alzammo in piedi e, stringendoci l’uno all’altro, replicammo in un balbettio: – Noi… non abbiamo fatto niente…

Liu Laosan, la voce rotta dal pianto, continuò: – Nella mia vita precedente, devo essermi macchiato di qualche nefandezza per aver messo al mondo un figlio idiota che ancora adesso, a diciotto anni, se ne va correndo per il villaggio nudo come un verme. È una grande umiliazione per me, ho provato a legarlo con una corda ma non serve a niente, è il castigo inflittomi dal Cielo… Ma in fin dei conti lui non è che un povero scemo, perché altrimenti se ne andrebbe in giro nudo? Voi invece perché ve la siete presa con un idiota? Huanzi si è persino messa a pregarvi in ginocchio e voi non avete smesso

Ora Liu Laosan si era accovacciato a terra con la testa fra le mani.

Afferrato uno sgabello, mio padre prese a picchiarci.

Mio nonno ci intimò: – Venite qua e inginocchiatevi di fronte al terzo zio.

Ci affrettammo a obbedirgli. Mio fratello disse piangendo: – Terzo zio, perdonaci, abbiamo sbagliato, ma non siamo stati noi a cominciare…

– Chi è stato, allora? – Mio padre si fermò con lo sgabello a mezz’aria e, con tono duro, ci chiese: – Chi ha cominciato?

– È stato… – Mio fratello balbettava.

– Parla! – Lo sgabello in mano a mio padre stava riprendendo quota.

– Tian Kui, – disse mio fratello, – Tian Kui è stato il primo…

Mio padre mi diede una sgabellata e chiese perentorio: – Dimmelo, chi ha colpito per primo?

– Tian Kui… – confermai. – È stato Tian Kui a cominciare, se non ubbidivamo ce le avrebbe suonate… È piú forte, non saremmo mai riusciti a batterlo…

– Se state mentendo, – disse mio padre, – vi taglio la lingua!

- Non diciamo bugie… – ripeté mio fratello. – Ho rotto la sua torcia elettrica. Se non avessi colpito Xizi, me l’avrebbe fatta ripagare…

– Hai sentito Tian Kui che diceva proprio cosí? – mi chiese mio padre, con la voce già lievemente addolcita.

– Sí, – confermai, – diceva che, se non avessimo colpito Xizi, ai vecchi conti si sarebbero aggiunti quelli nuovi.

– Fratello Laosan, – disse mio padre sempre con lo sgabello in mano, – non ho educato bene i miei figli e te ne chiedo perdono. Che pensi, questa storia…

– Fratello, – rispose lui, – tra le nostre famiglie esiste un legame che va al di là della vita e della morte, queste sono stupidaggini senza importanza. C’è solo una cosa che non capisco, cosa avrebbe spinto Tian Kui a farlo? Loro sono latifondisti, noi contadini poveri, questo è un dato di fatto. Inoltre, durante una sessione di lotta suo nonno Tian Yuan sarebbe stato giustiziato seduta stante, se mio padre non l’avesse difeso offrendosi come garante. Adesso si sono messi a ripagare la bontà con l’odio? Non va bene, devo assolutamente andare a chiedere spiegazioni!

E Liu Laosan, furioso, si lanciò fuori.

Qualcosa di tiepido mi scorreva sul collo, ci passai la mano, era sangue.

Mio padre con grande solennità ripeté: – Ve lo chiedo ancora una volta, è stato Tian Kui a iniziare?


La luce della luna gli illuminava il viso tingendolo del rosso scuro del ferro.


Mia madre applicò della calce sulla ferita di mio fratello, dicendo a mio padre: – C’è mancato poco che mi ammazzassi il figlio a forza di botte, ma quand’è che la fai finita?


Io singhiozzavo: – Mamma, anch’io sono ferito alla testa.


– Quel Liu Laosan, – sbottò rabbiosa la mia sorella maggiore, – con la scusa del figlio scemo se ne va in giro a fare il prepotente.


Mio padre gettò lo sgabello a terra e intimò: – Chiudi il becco!


6.

Sono trascorsi molti anni ma io spesso sogno ancora la scena in cui venne temprato il falcetto, sotto l’albero di sofora ai margini del villaggio. Aveva incominciato a prendere forma e stava per diventare incandescente nel forno. No, incandescente lo era già. Per l’alta temperatura anche la lamina d’acciaio che sarebbe andata a rinforzare la lama era diventata bianca. Lao San manovrava il mantice con energia, si curvava in avanti e si piegava all’indietro al ritmo di quel movimento. Tenendo con entrambe le mani una lunga pinza, Lao Han estrasse il falcetto e lo mise sull’incudine, poi prese una lamina di acciaio e la posò sulla lama. Con un martelletto di piccole dimensioni, che ricordava la bacchetta di un direttore d’orchestra, diede il primo colpo all’attrezzo splendente. Xiao Han mulinò il pesante martello da diciotto jin e lo calò esattamente nel punto battuto da Lao Han; l’oggetto mandò un rumore sordo, anche un po’ vischioso. Le due parti si fusero. Lao San mise da parte il mantice, afferrò il secondo martello e, accompagnato dal fruscio dell’aria che si spostava, calò la mazza sul duttile acciaio. Lo sfavillio delle fiamme nella forgia si fondeva con il bagliore accecante che proveniva dall’incudine illuminando i loro volti e tingendoli di una patina ferrigna rosso scuro. I tre formavano un triangolo e picchiavano con i martelli senza posa, con una forza capace di abbattere le montagne e rovesciare i mari, simile ai tuoni e ai lampi. Il punto piú morbido e il piú duro, il piú freddo e il piú caldo, il piú crudele e il piú tenero si fusero come una musica che combina i toni alti ed eccitati a quelli bassi e intimi. In questo consisteva il lavoro, la creazione, la vita. Questo è il modo in cui i giovani diventano adulti, il modo in cui i sogni diventano realtà, è in questo fragoroso processo di forgiatura che l’amore e l’odio appaiono e scompaiono.


Il falcetto da mancino fu forgiato. Uno strumento creato con cura straordinaria e fatto su misura per il committente, la massima espressione del talento dei fabbri.


7.

Molti anni dopo, Yuan Chunhua, la sensale del villaggio, propose a Tian Kui di prendere in moglie Huanzi, che era ormai vedova ed era tornata a vivere nella casa di famiglia. Suo padre Liu Laosan e Xizi, il fratello maggiore, erano ormai morti. Prima Huanzi aveva sposato il fabbro Xiao Han, alla sua morte si era maritata con Lao San e, quando era morto pure lui, era tornata a casa insieme al figlio. Yuan Chunhua disse a Tian Kui: – Pare che Huanzi sia un’affossa-mariti, nessuno ha il coraggio di prendersela. La vuoi tu?

Tian Kui disse: – La voglio!

Maturare tardi

1.

Appena il sorgo comincia a farsi rosso, la stagione turistica nei siti cinematografici del mio cantone raggiunge il picco. Dopo che sulla riva nord del fiume Jiao avevano girato lo sceneggiato televisivo Granturco giallo, il governo locale aveva rapidamente trasformato i luoghi in cui erano state realizzate le scene nell’attrattiva turistica piú visitata della penisola dello Shandong. In occasione dei periodi di vacanza piú lunghi, fosse il Primo maggio o il Primo ottobre, si formavano file interminabili di auto e i turisti arrivavano a frotte. Quel bailamme mi lasciava ogni volta perplesso. Erano tutte scenografie create sul momento, cosa ci sarà stato da vedere nel covo dei banditi oppure nello yamen, la sede del governo distrettuale? C’era anche casa mia: persino quella catapecchia traballante di cinque stanze sull’orlo del collasso sfoggiava con sussiego una targa ufficiale ed era diventata un sito d’interesse. Ogni giorno orde di visitatori venivano dai quattro angoli del Paese, e persino dall’estero, per vederla. Francamente non riuscivo a immaginare cosa ci fosse di tanto interessante. Tuttavia anch’io mi ero ritrovato ad accompagnarci ospiti importanti venuti da lontano e mi ero dilungato in ricche spiegazioni con una pretesa di serietà. Certo, avrei potuto risparmiarmelo, ma lo facevo lo stesso.

Saranno passati cinque anni dall’ultima volta che ci avevo portato un amico, uno scrittore francese. Sulla porta ci eravamo imbattuti nel mio vicino Jiang Er, Jiang Numero due. In origine si chiamava Jiang Tianxia, Jiang Tutto sotto il cielo, ma all’epoca della Rivoluzione culturale, in cui la lotta di classe era all’ordine del giorno, un nome del genere avrebbe potuto avere conseguenze terribili. Per fortuna suo padre era un militare smobilitato e in famiglia erano tutti braccianti stagionali, dunque aveva indiscutibili radici rosse. La scelta del nome era stata frutto di una svista, non c’era altro da dire, bisognava cambiarlo al piú presto. Suo padre disse: – Manteniamo il carattere tian che significa «cielo» e chiamiamolo Jiang Tian, Jiang Cielo –. Qualcuno disse che non andava bene. – Togliamo un tratto a tian e trasformiamolo in da che significa «grande», cosí diventa Jiang Il Grande –. Neanche quello poteva andare. Alla fine decisero di togliere al carattere «cielo» i due tratti che significano «uomo», cosí rimase solo er, che vuol dire Numero due, e fu in questo modo che Jiang Tianxia diventò Jiang Er. Ero presente quando si era lamentato con suo padre: – Papà, papà, persino chiamarci Cane oppure Gatto sarebbe stato meglio. Ma proprio Jiang, come Jiang Jieshi cioè il generalissimo Chiang Kai-shek, dovevamo chiamarci? – Suo padre gli aveva risposto: – Questo è il nome del nostro clan, inutile che te la prendi con me!

– Jiang Er! – lo chiamai. – Ultimamente che combini?

Avevo sentito dire che aveva approfittato del mio premio Nobel per arricchirsi. Qualcuno aveva commentato: – Ma tu guarda Jiang Er, proprio vero che quando la fortuna ti sorride non puoi far niente per fermarla. Prima ha piazzato una bancarella vicino alla tua vecchia casa per vendere i tuoi libri, poi ci ha aggiunto i prodotti di artigianato locale, carte ritagliate, statuine di fango, sandali di paglia, sculture in legno… – Ma la mossa cruciale era stata, prima che gli altri si rendessero conto di cosa stava succedendo, comprare a prezzi stracciati l’acquitrino pieno di rifiuti a ovest di casa nostra. L’aveva fatto riempire di terra, aveva costruito al volo cinque stanze, poi aveva alzato una tettoia tra la vecchia casa e quella nuova, sotto aveva installato decine di bancarelle e le aveva noleggiate ai commercianti. Aveva affittato le cinque stanze della casa nuova a uno scrittore di Qingdao per diverse migliaia di yuan all’anno. Ultimamente aveva sparso la voce che voleva pure prendersi una concubina. Parecchi anni fa, aveva avuto qualche problema di salute mentale e in paese lo trattavano da idiota, ma i fatti hanno dimostrato che invece è il piú scaltro di tutti. Proprio perché faceva lo scemo, prima che abolissero le tasse agrarie e altre imposte, a lui non hanno mai chiesto niente.

– Eh, eh, mi do da fare, – rispose in imbarazzo grattandosi il collo.

– Come va? Hai fatto i soldi? – gli chiesi, spiegando poi all’amico francese che mi stava a fianco: – Lui è il mio vicino, siamo cresciuti insieme, insieme abbiamo tagliato l’erba, portato le mucche al pascolo, siamo scesi al fiume a lavarci e ad acchiappare i pesci. Veri amici d’infanzia!

– Diciamo che me la cavo, – rispose. – Molto meglio che zappare.

– E le terre? Hai trasferito i diritti di utilizzo?

– Macché! Ti danno duecento yuan all’anno per ogni mu, non ci ripaghi neanche il disturbo. Meglio mandarle in malora, ci cresce l’erba per le cavallette.

– Si vede che sei proprio diventato ricco! – esclamai.

– Fratello maggiore, – mi disse, – qui nel villaggio brilliamo tutti di luce riflessa grazie al tuo successo. Voglio invitarti a pranzo! Oggi a mezzogiorno, che ne dici? Al ristorante Da Zhao Zhi, il migliore del cantone, c’è ogni bendidio, sia pollame di allevamento che uccelli selvatici.

Gli dissi: – Hai un anno piú di me, dovrei essere io a chiamarti fratello maggiore!

Si mise a ridere: – Il maggiore non lo è necessariamente per l’età, non sei d’accordo? Devi farmi questo onore. Oggi ti invito insieme ai tuoi amici.

– Grazie del pensiero, lasciamo stare. Fammi solo il piacere di non vendere piú copie pirata dei miei libri.

– Fratello, quando mai ho fatto una cosa cosí disonorevole! – Indicò i commercianti appostati tutt’intorno alla mia vecchia casa. – Sono stati loro. A dire il vero, li ho anche criticati per questo.

– Bene, allora te ne sono grato!

– Niente di che, fratello mio! – E aggiunse: – Però devi assolutamente farmi l’onore di accettare l’invito a pranzo. In realtà è una scusa per parlarti del mio progetto. Come sai, il gundilong quan, il pugilato del Lombrico elaborato dalla mia famiglia, è uno stile formidabile, sin da piccolo l’ho praticato con mio nonno, sono l’erede della scuola…

Spirava un vento gelido, mi accorsi che il mio amico francese aveva le orecchie paonazze per il freddo, cosí dissi in fretta: – Jiang Er, ne parliamo un’altra volta.

Mentre accompagnavo il francese a visitare la mia vecchia casa, sentii Jiang Er che mi strillava dietro: – Da oggi smettiamola con Jiang Er, io mi chiamo Jiang Tianxia.

2.

Jiang Qishan, il nonno di Jiang Tianxia, era soprannominato Lombrico. Era un piccoletto di aspetto insignificante, ma nel nostro villaggio lo veneravano tutti. Succedeva per due ragioni: la prima era perché era un campione di arti marziali, la seconda perché si narrava che avesse ammazzato un soldato giapponese a mani nude e gli avesse anche preso la Mauser. Benché esistessero numerose versioni di questa storia, noi ci credevamo senza ombra di dubbio.

Nei primi anni Settanta del XX secolo l’azienda agricola statale di Jiaohe, confinante con il nostro villaggio, era stata trasformata nel battaglione indipendente del Corpo di produzione e costruzione del distretto militare di Jinan. Accoglieva oltre cinquecento giovani istruiti provenienti dalla città di Qingdao, che erano considerati una forza paramilitare e ai quali erano state distribuite divise, prive però di mostrine ed emblema sul cappello.

Ciononostante, quei giovani erano piú privilegiati dei soldati, e questo era dovuto all’audacia di un insegnante del Fujian che aveva scritto una lettera al presidente Mao, denunciando la dura vita che il figlio doveva affrontare lavorando in una squadra di produzione in campagna.

Quello che piú invidiavamo loro era che, ogni sabato sera, potevano vedere un film proiettato nel campo di pallacanestro. Noi ragazzini del villaggio ne approfittavamo e anche per noi il sabato era diventato un giorno di festa. Già dal pomeriggio perdevamo la voglia di lavorare e aspettavamo solo che il caposquadra desse l’ordine di smontare. Ma lui, bastian contrario per partito preso, se di solito ci lasciava andare un po’ prima, il sabato non ci mollava fino a quando il sole ormai rosso non premeva sull’orizzonte. Sebbene fosse un cugino di mio padre, lo odiavo a morte e, con me, anche tutti gli altri ragazzi della squadra di produzione. A quel punto, se fossimo tornati a casa per lasciare gli attrezzi e agguantare una galletta, anche scapicollandoci fino alla fattoria non avremmo fatto in tempo ad arrivare prima dell’inizio del film. Perché i giovani istruiti, che detestavano noi ragazzotti di campagna venuti a scroccare lo spettacolo, iniziavano di proposito la proiezione in anticipo; per questo abbiamo visto un sacco di film a metà.

Perciò, noi a casa non ci tornavamo proprio e, appena il caposquadra dava l’ordine, ci precipitavamo verso il campo di pallacanestro portando gli attrezzi in spalla. Facevamo tutta la strada di corsa, in una marcetta veloce, con il respiro spezzato. Dopo un pomeriggio a sgobbare nei campi avevamo sete ed eravamo esausti; se a questo si sommano sette o otto miglia di corsa, arrivavamo al campo di pallacanestro con la schiena zuppa di sudore, quale che fosse la stagione, e immagino che emanassimo un odore particolarmente sgradevole. Quella puzza doveva essere uno dei motivi per cui non eravamo ben accolti dai giovani istruiti, in particolare dalle femmine, sempre profumate dalla testa ai piedi. Aggiungiamo anche il fatto che eravamo privi di cultura e mancavamo di buone maniere e, davanti ad alcune scene dei film, specialmente se stranieri, mandavamo urla e strepiti e, a volte, facevamo commenti inopportuni. Per esempio, durante la proiezione di Lenin nel 1918, alla scena del balletto del Lago dei cigni ci mettemmo a gridare come scalmanati. Chang Lin, il piú discolo ed esagitato di tutti, commentò a voce alta: – Ma porca…, quelle camminano sulla punta dei piedi e c’hanno un ombrello aperto intorno al sedere, che roba è? – Con la nostra ignoranza e rozzezza ci procurammo continue occhiatacce da parte dei giovani istruiti. Quando accesero le luci per cambiare la bobina, un tizio grande e grosso dai capelli vaporosi si alzò in piedi e gridò: – Compaesani, non ci dispiace se venite a vedere il film, però dovete stare zitti e non disturbare gli altri.

Aveva senza dubbio ragione, ma le sue parole causarono in Chang Lin una reazione opposta. La bobina era stata cambiata, il film era ricominciato, nell’oscurità si muovevano e parlavano soltanto i personaggi sullo schermo. A quel punto Chang Lin mollò una forte scoreggia. Di solito i peti piú sono sonori e meno puzzano, ma la scoreggia di Chang Lin possedeva entrambe le caratteristiche. Noi stavamo in piedi attorno ai giovani istruiti (ognuno seduto sul proprio sgabelletto) e quel miasma velenoso in un attimo saturò totalmente l’aria e quelli che erano seduti davanti a Chang Lin mandarono un urlo turandosi il naso, qualcuno saltò anche in piedi come se avesse preso la scossa.

Non siamo tutti uguali, qualcuno nasce con i superpoteri. C’è, per esempio, chi è in grado di sentire suoni impercettibili, chi vede cose invisibili o fiuta odori che agli altri sfuggono. Chang Lin sapeva fare a comando scoregge tonanti e mefitiche e per via di quel suo talento speciale nessuno nel villaggio si azzardava a provocarlo, per evitare di esserne investito. La gente di nascosto commentava che Chang Lin doveva essere la reincarnazione di una donnola, ma quell’animale non si avvicina neppure minimamente ai suoi livelli di pericolosità. La donnola emette un odore pungente per difendersi quando si sente minacciata, Chang Lin poteva produrre le sue scoregge a piacimento. Un talento soprannaturale che probabilmente era il frutto delle anomalie della nostra società; la mancanza di equilibrio può essere fonte di grande bontà o focolaio per la proliferazione di ogni male. I tempi travagliati producono eroi, una nazione sconfitta produce personaggi eccentrici, è cosí che vanno le cose. Potremmo quindi affermare che la cattiveria di Chang Lin fosse un prodotto dei tempi.

Il viso di Chang Lin fu illuminato dai fasci di luce intrecciati di varie torce elettriche, alcuni giovani istruiti sbucarono dal mucchio e uno di loro gli sferrò un pugno facendogli sanguinare il naso. A quel punto, Chang Lin si sparse il sangue sulla faccia e con un ruggito si avventò contro gli aggressori, avvinghiandosi a loro fino a formare un groviglio. Chang Lin era grande e grosso come un cavallo e veniva da una famiglia dalle ottime origini di classe, suo nonno era stato a capo dell’associazione dei contadini poveri, sempre in prima linea nelle lotte contro i latifondisti e per la ridistribuzione delle terre. Era stato assassinato da una banda di proprietari terrieri che volevano annullare la riforma agraria e riprendersi la terra. Le origini di Chang Lin lo rendevano uno dei favoriti dell’epoca ed eravamo abituati a vedere lui picchiare gli altri, non viceversa. Di solito si vantava di essere l’allievo preferito di Jiang Qishan, esibendosi in mosse di gongfu, ma attaccato da quella torma di giovani istruiti non poté che soccombere, senza riuscire a mettere a segno un solo colpo. Noi, i suoi scagnozzi, che lo seguivamo per fare danni, ora ce ne stavamo in disparte senza fiatare, con la testa incassata fra le spalle.

A un certo punto, un uomo di età avanzata con l’aria del quadro di Partito si alzò per persuadere i giovani istruiti a smetterla, poi disse con la forza di chi è nel giusto: – Tu ti chiami Chang Lin, io ti conosco e ti conoscono anche gli addetti alla sicurezza del battaglione, l’anno scorso hai rubato due pesi della nostra bascula e hai tagliato la coda allo stallone di razza russa della stazione di monta. Hai pure trafugato alcuni pezzi di ricambio dei trattori. Sei già stato schedato e, se non fosse per le ottime origini della tua famiglia, ti avremmo consegnato alla polizia da un pezzo. Adesso disturbi di nuovo l’ordine pubblico, attacchi con il gas i nostri soldati: ti sei macchiato di un crimine gravissimo! Riconosci le tue colpe?

Chang Lin, spargendosi di nuovo il sangue sulla faccia (l’avevano strapazzato per bene ma non per questo aveva addolcito il tono), ruggí: – Già fate il bello e il cattivo tempo, ora volete anche decidere quando cago e scoreggio? Se voglio, con i miei gas letali posso asfissiare queste merde di gallina!

L’uomo rispose: – Chang Lin, ti avverto, pagherai care le tue parole: se qualcuno dei nostri soldati si ammalerà per le esalazioni, ti riterremo responsabile!

Chang Lin replicò: – Responsabile un corno, io vi asfissierò tutti!

Il quadro sbottò: – La tua ostinazione non ci mette paura! La vedremo!

E Chang Lin: – Proprio cosí, voglio proprio stare a vedere!

Intanto il film era finito e, quando si accesero le luci illuminando a giorno lo spiazzo, vedemmo la faccia imbrattata di sangue di Chang Lin, i capelli scarmigliati, gli sanguinavano persino le gengive, pareva uno spettro, piú orrendo che patetico.

Il quadro di Partito annunciò: – A nome della sezione per la sicurezza ti dichiaro persona non grata! D’ora in poi, sarai interdetto dal territorio dell’azienda agricola.

Tra i giovani istruiti ci fu chi gridò: – E se torni a dare fastidio, ti spezziamo quelle zampe di cane.

– Tanti contro uno, bel comportamento da eroi! Soldati, macché... Siete scoregge di cane! Un oltraggio alla divisa! Se avete fegato, la prossima volta facciamo uno contro uno, vi affronto uno alla volta! Tutti voi contro me da solo, ma che scoregge di cane… – Chang Lin non la finiva piú, poi scoppiò in singhiozzi: – Una banda contro uno, bravi che siete… Certo, proprio bravi…

Se Chang Lin fosse andato avanti a blaterare non ci saremmo meravigliati, ma il suo pianto ci spiazzò, per lo meno spiazzò me. Si era messo paura? Gli avevano fatto male veramente? Oppure era uno dei trentasei stratagemmi, «ferisciti per avere la fiducia del nemico»?

I giovani istruiti, in una cacofonia di voci, lo sbeffeggiarono ridendo: – Benissimo, la prossima volta sarà uno contro uno, bada bene però che qui abbiamo il campione di arti marziali dell’Istituto di educazione fisica di Qingdao, il campione della squadra di lotta libera e anche un interprete di ruoli marziali dell’Accademia di teatro tradizionale, uno qualsiasi di loro può strapazzarti fino a che non te la fai sotto…

– Basta che non scoreggi... Se ne molla una soffoca qualunque campione!

Tra gli sghignazzi della folla, l’ostilità poco per volta si sciolse in dileggio. Chang Lin disse: – Chi è stato a darmele io me lo ricordo benissimo. Al gentiluomo sono sufficienti dieci giorni per vendicarsi. Starete a vedere.

Il quadro di Partito scoppiò a ridere: – Chang Lin, basta cosí, ora sparisci. Se non fai ricorso al tuo talento nell’arte della scoreggia, qui senza problemi troviamo uno che ti manda a gambe all’aria e ti fa mangiare la polvere!

Chang Lin ribatté: – Pensi che basti dirmi di non scoreggiare perché io non lo faccia? Ma nemmeno per sogno! Vi faccio morire di puzze, bastardi che non siete altro!

Parlando si massaggiava la pancia con entrambe le mani, aspirando l’aria a bocca spalancata. Poi, si voltò di scatto e puntò il sedere nella loro direzione.

3.

Il pomeriggio del sabato seguente, ricevemmo una notizia da fonti attendibili: quella sera nella fattoria avrebbero proiettato il film albanese Guerriglia sotterranea. Dal nome capimmo che era un film di guerra: stupendo, fantastico!

Continuavamo a tenere d’occhio il sole, ma era come saldato nel cielo a occidente, a tre canne di altezza sull’orizzonte, e non accennava a spostarsi. Ricordo che stavamo piantando l’avena nel campo piú lontano dal villaggio. Lavoravamo la terra con il corpo, ma con il cuore eravamo già volati via da un pezzo. Senza fare scene dissi al caposquadra: – Zio, stasera alla fattoria danno un film albanese, Guerriglia sotterranea. È un film di guerra, non è che potremmo staccare un po’ prima? – Lui, che era il cugino di mio padre, sgranò gli occhi e rispose: – Che m’importa se i guerriglieri stanno sotto o sopra la terra? Qui abbiamo da lavorare, prima finite e prima ve ne andate. Oggi è il sedicesimo giorno dell’ottavo mese, quando la luna è al massimo della sua pienezza –. Poi alzò la testa a guardare il cielo e noi lo imitammo. Il sole, sempre appeso a occidente, aveva iniziato a tingersi di rosso, mentre a oriente stava già sorgendo una enorme luna.

– Dateci dentro, se volete vedere il film! Se non avete finito quando il sole sarà tramontato, lavorerete con la luna! – minacciò il caposquadra.

– Compari, mettiamocela tutta! – urlò Chang Lin.

– Forza, lavoriamo! – facemmo eco noi.

In primavera c’era stata un’epidemia di peste tra i bovini della squadra di produzione e ne erano morti piú della metà. Siccome le bestie non bastavano dovevano essere gli uomini a trainare l’aratro seminatore. Eravamo in tre per ogni attrezzo: Chang Lin, il piú robusto, stava al centro con entrambe le mani sull’asse; io e Jiang Er, piú piccolini, eravamo le forze ausiliarie e gli stavamo al fianco per aiutarlo. Dopo aver seminato, bisogna spargere il concime e il fertilizzante, e alla fine ricoprire i solchi, perciò la velocità con cui si compie il lavoro sta tutta nel ritmo con cui si manovra l’attrezzo. A tirare l’altro c’erano Gou Lin al centro e Xiao Qi e Lao Jiu come assistenti. Lao Jiu non era vecchio come suggerirebbe il suo nome, aveva solo sedici anni. Noi sei urlammo in coro: – Compari, per la Guerriglia sotterranea, all’assalto! – Lavorammo con tutta la forza che avevamo in corpo, nel cuore ci accompagnava una melodia tragica tratta da un’opera del passato in cui si ricordavano le sofferenze patite prima della rivoluzione. Se in cuore ti risuona una musica, procedi spedito. Calpestavamo la terra soffice con i piedi scalzi, la corda attaccata all’aratro seminatore ci segava i muscoli delle spalle. Procedevamo a passi grandi e cadenzati, il caposquadra che ci stava dietro per imprimere la direzione all’attrezzo arrancava e ansimava per lo sforzo. Oggettivamente, guidare un aratro seminatore era difficile quanto tirarlo, servivano perizia e forza fisica. Bisognava mantenere la punta del coltro a una profondità regolare nel terreno e si dovevano scuotere ininterrottamente i manici per permettere al sasso ovale chiamato «uovo di pietra» di sbattere contro la tavoletta che regolava la fuoriuscita dei semi dalla tramoggia. Nella parte superiore dell’uovo di pietra era avvitata una lamella di metallo che andava scossa con un ritmo regolare, senza fermarsi mai, per permettere ai semi di scivolare nei solchi. L’addetto al letame lo doveva versare nell’apposito piatto affinché scendesse nei buchi prodotti dal coltro. Piú noi eravamo veloci, piú il caposquadra doveva accelerare il ritmo con cui scuoteva l’aratro. Quando il sole rosso e enorme si avvicinò all’orizzonte e dai confini orientali del cielo il grande cerchio della luna piena sprigionò i suoi raggi di luce candida, al suono secco e pressante della pietra che sbatteva, accompagnati da due addetti al letame che facevano a gara nel distribuirlo, portammo a termine il lavoro di semina. Normalmente avremmo dovuto caricarci a turno gli aratri seminatori insieme al caposquadra per riportarli indietro, ma c’era il film e non ci importava che ci togliesse punti lavoro! Sfilate le corde dalle spalle, corremmo al limitare del campo per rimetterci le scarpe e, incuranti delle sue urla, ci precipitammo tutti insieme verso la fattoria di Jiaohe.

Sebbene fossimo stremati dalla fatica, per quel film, per Guerriglia sotterranea, corremmo a perdifiato usando l’ultima briciola di energia che ci era rimasta. Stava calando la sera di quel sedicesimo giorno dell’ottavo mese, la vasta distesa dei campi aveva la bellezza di una poesia, di un dipinto, il vento d’autunno soffiava in piacevoli folate fresche, il grano era stato mietuto, soltanto il sorgo, che matura piú tardi, si stagliava solenne nella luce lunare. Correvamo con tutte le nostre forze, ma avevamo le gambe sempre piú pesanti, le pance sempre piú affamate, le gole riarse dalla sete e non un goccio di sudore da versare. Già vedevamo il fascio di luce della lampada al mercurio sul tetto del granaio della fattoria, lo splendore della luna lo faceva sembrare meno luminoso. Giungemmo correndo al nuovo ponte sul fiume Jiao, attraversato quello sarebbero mancati solo trecento metri per raggiungere lo spiazzo per le esercitazioni dove si proiettava il film. Il granaio ce ne ostacolava la vista, non riuscivamo a vedere lo schermo ma ci sembrò di sentire il rumore della pellicola che girava.

– Fratelli, – ci disse Chang Lin, – laviamoci il viso nel fiume, beviamo un po’ d’acqua, rassettiamoci i vestiti, non facciamoci ridere dietro da quelle merde di gallina.

Scendendo i gradini alle due estremità del ponte raggiungemmo la riva; appollaiati sulle pietre che emergevano dalla corrente, raccogliemmo l’acqua con entrambe le mani e lavammo via la spessa crosta di fango che ci imbrattava il viso, ne prendemmo ancora per dissetarci e irrorare le nostre budella prosciugate. Mentre il liquido mi riempiva la pancia, le viscere mi si contorcevano dolorosamente e a ogni movimento producevano uno sciacquio gorgogliante. Quando si riempiono d’acqua, le mucche mandano un suono del genere a ogni passo. Ero affamato e sapevo che anche gli altri lo erano. Chang Lin disse: – Compari, prima vediamo il film, poi vi porto al «distributore».

Il «distributore» era un nostro termine segreto, voleva dire che saremmo andati a rubare qualcosa da mettere nello stomaco. Prima che il grano fosse maturo, andavamo nei campi a strofinare le spighe fra le mani per mangiarci i chicchi; quando il granturco non era ancora pronto, rubavamo le pannocchie e le facevamo arrosto; se le arachidi erano giunte a maturazione, facevamo bottino anche di quelle, era un banchetto ancora piú delizioso; in quella stagione, c’erano ancora duecento mu di patate dolci a pasta gialla di ottima qualità.

Dalla pancia di tutti si levavano brontolii, Chang Lin mandò un rutto fragoroso e disse: – Stasera l’acqua fredda che ho dentro stimolerà la produzione del mio gas venefico. Eh, ma porca…, se insistono con le prepotenze, sferrerò il mio attacco.

Avremmo voluto ridere ma non ne avevamo la forza. Aggirammo il granaio, ora eravamo davanti al campo di pallacanestro, la lampada al mercurio e il cerchio argenteo della luna illuminavano insieme la liscia superficie di cemento, ma lo schermo non c’era, non c’erano neppure i giovani istruiti seduti insieme. Dov’era il film? Che fine aveva fatto? La notizia era falsa, ci avevano preso in giro. D’un tratto, mi sentii completamente privo di forze, la delusione era tale che mi sarei buttato per terra a piangere a dirotto, ma a che sarebbe servito? All’improvviso, sentimmo uscire dal granaio una forte esplosione, seguita da una raffica di colpi di fucile… Cielo! Stavano proiettando il film nel granaio! Per impedirci di scroccare lo spettacolo quei bastardi avevano deciso di farlo al chiuso. Raggiungemmo il portone, era accostato e lo presidiavano due giovani istruiti armati di fucile. Lo schermo, che mandava una luce accecante, era appeso a una parete e centinaia di giovani istruiti, seduti in file ordinate, stavano con il viso alzato a guardare.

– … ragazzina, ho sentito che sei stata per quarantotto ore senza bere? Non era mia intenzione…

– Anche i bambini qui sono soldati rivoluzionari!

Eravamo arrivati tardi, il film era già alla seconda metà, ma anche se fossimo arrivati prima, non sarebbe servito a niente, perché loro si erano chiusi nel granaio per vederlo. Non eravamo i benvenuti, questo era chiaro come il sole, e di chi era la colpa? Direi tutta di Chang Lin, lo scoreggione.

Ora stava cercando di infilarsi nella fessura del portone, mentre i due ragazzi di guardia lo spingevano fuori con il calcio dei fucili.

Infuriato ruggí: – Voi, soldati di battaglione, osate alzare il calcio dei fucili su un figlio di contadini poveri? Dov’è finita la vostra coscienza di classe? E sostenete ancora che «il popolo e l’esercito sono uniti come i pesci e l’acqua»? Che «siamo uniti come un sol uomo»? Non siete altro che una banda di faine nazionaliste, scagnozzi di Chiang Kai-shek! Se non ci fate entrare, non vi lasceremo vedere il film in pace. Compari, all’attacco, vediamo che si inventano stavolta, se avranno il fegato di spararci addosso!

Con quell’incitamento da parte di Chang Lin, l’odio sbocciò nei nostri cuori e anche il coraggio e, strillando, ci lanciammo in avanti per infilarci nel portone. Una delle guardie imbracciò il fucile, sentimmo scattare l’otturatore, la pallottola sembrava in canna – scoprii poi che erano attrezzi da palcoscenico, l’otturatore si muoveva ma il caricatore non c’era e, ovviamente, neanche le pallottole.

Chang Lin si chinò in avanti trattenendo il respiro e si massaggiò la pancia: il gas letale era pronto. Per paura di venirne soffocati, ci tappammo il naso e ci scansammo.

Prima che rilasciasse il gas, Chang Lin si buscò un calcio nel sedere. Lo vedemmo partire in avanti e finire a terra bocconi. Mandò uno strano urlo che, mescolandosi al tonfo della faccia contro il terreno, produsse un suono umido e appiccicoso, particolarmente inquietante. La luna illuminò l’aggressore, era alto e robusto, con i capelli scarmigliati; la faccia bitorzoluta sprizzava luce tutt’intorno, sul labbro superiore gli cresceva un paio di baffetti neri lucidi. Era uno di quelli che la volta precedente era uscito dalla folla per criticare Chang Lin. Poi venimmo a sapere che si chiamava Shan Xiongfei, il padre e il nonno erano operai delle ferrovie, origini di classe che all’epoca gli conferivano una nobiltà suprema: proveniva da una vera e propria stirpe proletaria. Quelli come lui avrebbero dovuto avere la precedenza per l’ammissione all’università, l’arruolamento nell’esercito e l’assunzione nelle fabbriche, ma siccome a quei tempi la pratica delle raccomandazioni era molto diffusa, fu uno dei pochi che non riuscirono a tornare a Qingdao; tanto che alla fine decise di sposare Wu Guihua, una del nostro villaggio. Quando fu sgominata la Banda dei quattro, lo assegnarono non senza difficoltà alla fabbrica di fertilizzanti del distretto. Quella sera, mentre pieno di rabbia sferrava un calcio nel sedere a Chang Lin, non immaginava certo che anni dopo sarebbe andato a vivere in casa del suocero Wu Laoer, un vicino della famiglia di Chang Lin, e che loro due sarebbero diventati grandi amici.

Chang Lin era stato attaccato da Shan Xiongfei alle spalle. Le scoregge puzzolenti che gli riempivano la pancia sembravano fuoriuscirgli dalla bocca: inginocchiato a terra, scosso dai conati, vomitava l’acqua di fiume che poco prima aveva bevuto a volontà e il liquido spruzzava fuori come… lasciamo perdere. Alla fine si rimise in piedi, aveva le labbra spaccate, gli incisivi ballavano e tra le fessure dei denti gli scorreva il sangue; gridò come una furia: – Chi è stato a darmi un calcio?

Shan Xiongfei, senza scomporsi, rispose: – Sono stato io!

– Il qui presente ha tirato l’aratro seminatore tutto il giorno, ha fatto otto li di corsa per venire a vedere il film, a pranzo ha mangiato una galletta e due cipollotti e neppure un chicco di riso. Sono stanco e affamato, mi fa male la pancia, e pure i denti, ma anche se mi trovo sul vostro territorio, vi sfiderò fino a spaccarmi la testa! – Immagino che con questa veemente tirata Chang Lin abbia fatto vergognare i giovani istruiti che avevano frequentato le medie e il liceo. Poi, rivolgendosi a noi, fece: – Compari, se oggi questo coniglio arruffato dovesse farmi fuori, portatemi in riva al fiume e gettatemi in acqua, per vent’anni ho vissuto senza sapere cosa sia l’oceano, la corrente mi porterà al Mare Orientale e finalmente potrò vedere i cavalloni. Se mi ucciderà e non potrò tornare a casa, vi prego di portare un messaggio ai miei genitori: sono morto per difendere la dignità dei contadini poveri e medio poveri! – Quindi si strinse la cinta dei pantaloni, indietreggiò di qualche passo, si voltò di scatto e si diresse verso il campo di pallacanestro, illuminato a giorno dalla lampada al mercurio e dai raggi argentei della luna, e disse: – Forza, coniglio arruffato, fatti avanti!

Tutti noi seguimmo Chang Lin, e anche numerosi giovani istruiti, fra cui parecchie ragazze profumate di crema idratante, si raccolsero tutt’intorno, alcuni gridavano eccitati.

– Vieni, coniglio arruffato, – disse Chang Lin a denti stretti. – Qui o il pesce muore o si strappa la rete!

– Ehi, ti avevo sottovalutato, – ribatté Shan Xiongfei, – non mi aspettavo tanta magniloquenza! Dove l’hai imparata?

– C’è bisogno di studiarla? – replicò Chang Lin. – Io sono maturato presto, è una mia dote innata.

– Come vuoi lottare? Vuoi un duello secondo le regole oppure una semplice scazzottata?

– Ma quale duello? – rispose Chang Lin. – Voglio una lotta all’ultimo sangue!

– Fatti sotto allora, forza, – Shan Xiongfei incrociò le braccia con aria spavalda.

– Vieni prima tu! – Chang Lin strinse i pugni e assunse la posizione del cavaliere, gambe aperte e baricentro abbassato: – Forza, fatti avanti!

– Eccomi! – Lanciando un urlo selvaggio, Shan Xiongfei fece partire un pugno in direzione di Chang Lin, che si affrettò a incrociare le braccia per pararlo. Ma Shan a metà strada lo ritirò, si stava prendendo gioco di lui.

Dalla folla di giovani istruiti si levò un potente coro di risate.

Anche il secondo pugno fu una finta, Chang Lin però faceva sul serio: con la mossa «il cane rognoso si infila sotto l’inguine» si caricò Shan Xiongfei sulle spalle, gli fece fare un giro e stava per scaraventarlo lontano. A quel punto l’altro l’afferrò per l’avambraccio, gli infilò il piede destro tra le gambe allargandogliele e finirono a terra entrambi. Shan stava sopra, quindi secondo le regole della lotta libera, Chang Lin era sconfitto. Ormai avevo capito, infatti, che il combattimento all’ultimo sangue che strombazzavano di continuo non era altro che un incontro di lotta libera. Chang Lin conosceva soltanto la forza bruta, non era certo un avversario all’altezza di Shan Xiongfei, che aveva imparato a praticare la lotta nell’Istituto di educazione fisica.

I giovani istruiti esultavano facendo il tifo per Shan, noi lamentammo la disparità di condizioni: – Non vale, Chang Lin ha sgobbato tutto il giorno ed è a digiuno da oltre dieci ore! Mica come te, che a cena ti sei mangiato due mantou al vapore e una ciotola di carne!

Shan Xiongfei allora rispose: – Ehi, scoreggione, per oggi fermiamoci qui. Ci vediamo quando avrai la pancia piena?

Chang Lin ordinò a Jiang Er: – Vai a prendere una manciata di foglie di cencio molle.

Sul bordo del campo di pallacanestro, vicino a una pila di legno marcio, c’era una distesa di piante dalle foglie grandi e spesse, i fiori gialli e tenere capsule piene di semi. Come un nugolo di vespe ci lanciammo in quella direzione e ognuno di noi raccolse la punta delle foglie e le capsule piú morbide. Le conoscevamo, gli avevamo dato il nome di bobo, fagottini di cencio molle.

Chang Lin si sedette a terra, sistemò le foglie e le capsule davanti a sé, poi cominciò a ficcarsele in bocca. Un aroma fresco e acerbo mi assalí le narici, riportandomi alla mente quando ero a scuola e nutrivo il coniglio del maestro. Lui diceva che quello era mangime prelibato, i bobo erano ricchi di sostanze nutritive.

Immagino che la rozzezza e la brutalità con cui Chang Lin si stava strafogando di foglie abbia fatto aprire gli occhi a quella massa di giovani istruiti. Di sicuro non avevano mai incontrato uno come lui. Fra loro c’era una ragazza che in seguito divenne una scrittrice di una certa fama, ho letto il suo saggio L’uomo che mangiava le foglie di cencio molle, che contiene una descrizione vivida e trascinante del pasto di Chang Lin. «Poteva essere un uomo quello? Era in tutta evidenza un montone affamato! Guardando il succo verde che gli colava dagli angoli della bocca e gli occhi rovesciati all’indietro a mostrare il bianco, mentre si sforzava di trangugiare bocconi enormi, d’un tratto mi parve che in testa gli fossero spuntate le corna…»

Dopo averla riempita di foglie e capsule, Chang Lin si massaggiò la pancia, si diede qualche manata sul petto, sciolse le articolazioni e, con un ruggito, si lanciò su Shan Xiongfei. Lui lo afferrò per le braccia, allora Chang Lin si buttò rigido all’indietro, sollevò le gambe e le appoggiò sul ventre di Shan; quindi, con uno scatto violento, le stese. Chiunque altro colpito a quel modo avrebbe fatto un salto di centottanta gradi e sarebbe rovinato a terra miseramente. Ma Shan Xiongfei praticava le arti marziali e sapeva che con un salto del genere si sarebbe spiaccicato sul cemento come un rospo, splat!, spezzandosi il collo o spaccandosi la nuca. Perciò si affrettò a intrecciare le gambe intorno a quelle di Chang Lin, cosí che vennero a trovarsi in una posizione di stallo. Con le foglie e le capsule in pancia, l’energia di Chang Lin era visibilmente aumentata. La sua forza poderosa era rinomata nei villaggi del circondario, ma Shan Xiongfei era un vero campione e conosceva mille trucchi che snocciolava uno dopo l’altro in modo imprevedibile. Per il resto del tempo Chang Lin rimase a rotolarsi per terra, puntellandosi sulle mani e sui gomiti, facendo roteare le lunghe gambe a destra e a manca come uno dei bastoni del correggiato; stringendole e piegandole come un’enorme tenaglia, alla fine riuscí a colpire Shan Xiongfei con un calcio sullo stinco, lui mandò un urlo di dolore e curvando la schiena cadde seduto per terra.

– Ti ho mostrato il «calcio dell’anatra mandarina», una mossa del gongfu del Lombrico! – annunciò Chang Lin con il fiato grosso: – Il gongfu del Lombrico ne comprende ventiquattro. Io ne ho praticate solo due, il «calcio dell’anatra mandarina» e il «passo della forbice», ne ho soltanto un’infarinatura. Se qui ci fosse il mio maestro, non basterebbero cinquecento di voi giovani istruiti per batterlo.

– Chi è il tuo maestro? – chiese Shan Xiongfei terreo in viso.

– Jiang Qishan, il Lombrico magico! – rispose solenne Chang Lin.

E Jiang Er aggiunse con orgoglio: – È mio nonno!

4.

Quando fece un viaggio in Cina, sapendo che ero a Gaomi, lo scrittore giapponese Tsuruta Sawakei, originario di Kitakyūshū, prese il treno ad alta velocità e venne a trovarmi. Che felicità l’incontro di due vecchi amici! Desiderava visitare il mio paese d’origine, mi ricordò che glielo avevo promesso dieci anni prima, quando lui mi aveva fatto vedere il suo.

A sua richiesta lo condussi alla vecchia casa dei miei e gli occhi gli si riempirono di lacrime. Gli spiegai che, all’epoca, nel nostro villaggio poteva essere considerato un alloggio di livello medio, le condizioni erano uguali per tutti, non ci consideravamo svantaggiati e poi, e poi, continuai, lí ero stato persino felice! Jiang Er, anzi no, Jiang Tianxia, presidente dell’associazione culturale Lombrico del cantone nord-est di Gaomi, che ci seguiva passo passo, confermò: – Infatti, è proprio cosí, scendevamo al fiume per acchiappare i pesci, salivamo sugli alberi per rubare le giuggiole, andavamo alla fattoria a vedere i film, sfidavamo i giovani istruiti alle arti marziali, i divertimenti erano talmente tanti che sarebbe impossibile elencarli tutti! – Osservando quello strano personaggio dalla testa rasata – oggi un vezzo comune tra gli uomini di cultura – che indossava scarpe di pezza, pantaloni neri a gamba larga e una tonaca nera in stile tradizionale con un drago che mostrava le zanne e sfoderava gli artigli ricamato in oro sul petto, e sulla schiena la scritta in corsivo «Pugilato del Lombrico»; che sprizzava energia da tutti i pori e parlava come un libro stampato, non potei fare a meno di sospirare con meraviglia: – Fratello Jiang, sono solo cinque anni che non ci vediamo, non mi sarei aspettato di ritrovarti imprenditore di successo e che il tuo livello culturale si fosse elevato tanto –. In realtà lo dicevo con una punta di sarcasmo, perché alle elementari Jiang Tianxia era considerato uno tardo di comprendonio, in cinque anni era faticosamente riuscito ad arrivare alla terza e ogni volta che il nostro maestro lo vedeva gli scoppiava il mal di testa. – Fratello, – mi rispose lui, – si dice che le sorti degli uomini sono mutevoli. La mia buona sorte è arrivata e, fratello mio, sei stato tu a portarla. Perciò oggi voglio assolutamente invitarti a pranzo insieme al tuo amico straniero.

Con mille blandizie e insistenze il presidente Jiang e la sua segretaria Xiao Shan riuscirono a trascinarci alla sede della loro ditta, che era la nuova casa di cinque stanze costruita con un colpo di mano. Gli chiesi: – Non l’avevi affittata allo scrittore di Qingdao? – L’ho sbattuto fuori da un pezzo! – rispose. – E poi non era uno scrittore, era un cialtrone! Fratello, sarò sincero, stava tutto il giorno chiuso in casa a contraffare le tue opere calligrafiche e poi chiedeva a quelli delle bancarelle di smerciarle per lui –. Mi meravigliai: – Oh, succede anche questo? – Fratello mio, te lo dico francamente, i suoi caratteri erano molto piú belli dei tuoi! In ogni caso, sono andato a denunciarlo alla sezione legale della sovrintendenza alla cultura e, con l’occasione, ho cancellato il contratto d’affitto. Quelli volevano fargli una multa ma lui non ci stava mica, diceva che con il suo contributo ti stava dando lustro! Gli ho detto: «Puah, contaballe! La calligrafia di mio fratello sarà anche inguardabile ma in quei caratteri c’è tutto il suo spirito, è come il tofu puzzolente, per quanto fetido c’è sempre qualcuno che lo apprezza!» – Gli dissi: – Jiang Er, chiudi il becco. Ti pare questo il modo di fare un complimento?

Io e lo scrittore giapponese ci sedemmo nella stanza adibita ai banchetti e arredata sontuosamente, e la segretaria Shan ci versò il tè. Aveva occhi grandi e sopracciglia ben disegnate, una testa di vaporosi boccoli corvini che mi fecero pensare a Shan Xiongfei, e, osservandola piú attentamente, notai che gli somigliava molto e parlava con l’accento di Qingdao. Quando Jiang Er stava per presentarmela, intervenni: – Non c’è bisogno. Ti chiami Zoya, vero? – Lei si mise a ridere: – Zio, Zoya è la mia sorella maggiore, io sono Shura. – Tuo padre, come sta? È già in pensione? – Da un pezzo. – Vive a Qingdao? – No, il presidente Jiang lo ha chiamato per fare l’istruttore di arti marziali, oggi pomeriggio lo incontrerai.

Il cameriere del ristorante Da Zhao Zhi arrivò in motorino portando il pranzo che Jiang Er aveva ordinato: pollo, anatra, pesce, carne, tutto ciò che si poteva desiderare. Dissi: – Certo, se ci fosse anche qualche cipollotto sarebbe il massimo! – Jiang Er ordinò subito al ragazzo che aveva portato le pietanze: – Presto, vai a prendere dei cipollotti di Zhangqiu. E non dimenticarti la salsa –. Poi, rivolgendosi a me: – Fratello, dopo tanti anni fuori casa hai ancora un debole per questi sapori! – Gli risposi: – Cielo e terra possono cambiare, ma i gusti rimangono gli stessi. Ricordi ancora cosa mangiò Chang Lin la sera del combattimento contro Shan Xiongfei? – Come potrei dimenticarlo? È un ricordo che porto inciso nel cuore! – rispose Jiang Er. – Si rimpinzò di foglie e capsule di cencio molle e poi, con la mossa detta «calcio dell’anatra mandarina», mandò Shan Xiongfei a gambe all’aria –. Ridendo continuò: – Quando ha avuto due figlie una dopo l’altra, Shan ha dato la colpa a Chang Lin che, con quel calcio, gli aveva rovinato il serbatoio del seme. Chang Lin gli ha risposto: «Se il tuo non funziona puoi sempre usare il mio». – Presidente Jiang! – protestò Shura: – Non deve insultare mio padre. – Ti sembra che lo stia calunniando? – ribatté lui. – Questi sono complimenti belli e buoni! Venite, fratello, tu e il tuo ospite di riguardo giunto da lontano, vi prego di assaggiare il liquore Lombrico, distillato secondo la ricetta segreta tramandata dai nostri antenati –. Stappò una bottiglia con l’etichetta del Lombrico e versò nei nostri bicchieri un liquido verde chiaro; il profumo pungente e aggressivo che ci assalí le narici aveva qualcosa di bizzarro. – Di che si tratta? Non sarà mica velenoso? – Fratello, ringrazia che sei tu. Se qualcun altro avesse fatto un commento del genere, gli avrei dato un ceffone e ora starebbe cercando i denti caduti sul pavimento! Questo liquore ha la capacità di rilassare i muscoli e stimolare la circolazione del sangue, liberare i meridiani jing, che sono i principali, e rinvigorire quelli luo, i collaterali. Cura le ferite da caduta, le fratture, le contusioni e gli stiramenti, ha poteri antinfiammatori, insomma dove arriva scaccia i malanni. Ma ancor piú miracolosa è la sua proprietà, verificata dall’esperienza clinica del professor Li Wenhai, nostro compaesano esperto di patologie cardiocerebrovascolari, di sciogliere le placche arteriosclerotiche depositate sulle pareti delle arterie. Sai cosa sono? Se non lo sai lasciamo stare. In ogni caso, per sintetizzare, il liquore Lombrico di nostra produzione è un vero toccasana e una delizia per il palato! – Smettila di vantarti e dicci cosa c’è dentro! – Fratello, – rispose Jiang Er fissando Tsuruta Sawakei, – è un segreto di Stato, quando saremo a quattr’occhi te lo dirò, ora leviamo i calici –. Aggiunse: – Xiao Shan, brinda anche tu. – Presidente Jiang, io non bevo. – Stupidaggini, sai bere l’acqua? Chi beve acqua sa bere vino, forza, devi bere in nome di tuo padre! – Presidente Jiang, ma non è pericoloso? – chiesi io, con sospetto. – Cosa? – ribatté Jiang Er strabuzzando gli occhi. – Fratello, la vita del governatore della provincia e del sindaco della città non è piú preziosa della tua? Be’, loro conoscono la marca e ordinano il mio liquore per nome! Sul serio ti reputi un pezzo grosso? Ti sei scordato quando bevevamo l’acqua del fiume e ci ritrovavamo in pancia pure i girini? Bevo per primo, cosí se è avvelenato morirò io! – Ciò detto si scolò un bel bicchiere fino all’ultima goccia! Per non farlo arrabbiare, bevvi la maggior parte del mio. Tsuruta, che era un uomo schietto, vedendo che il padrone di casa aveva vuotato il bicchiere fece subito altrettanto. Shan Shura si bagnò le labbra. Jiang Er le lanciò un’occhiata significativa e lei si affrettò a dire: – Presidente, posso essere scusata? – Nient’affatto, – disse lui, – devi bere in nome di tuo padre, in tutto il cantone nord-est tutti sanno quanto regge l’alcol –. Shan Shura insisteva: – Ma lui è lui e io sono io! – Cosa vorresti dire? – la rimbeccò Jiang Er. – Se non ci fosse il cielo non ci sarebbe la terra. Senza di lui come potresti esserci tu? Dal drago nasce un drago, dalla fenice una fenice, la prole dei topi è destinata in eterno a stare nelle tane! La figlia di Shan Xiongfei non beve? Ti faccio il test del Dna per controllare che sia tuo padre! – E sia, ma solo un bicchiere, e se oggi pomeriggio sul palco mi dimentico le battute non prendetevela con me. – Va bene, solo un bicchiere –. Shan Shura lo bevve, l’improvvisa fierezza che sprizzò nel suo sguardo la fece assomigliare ancor di piú a Shan Xiongfei. Le chiesi: – Tuo padre al tempo lavorava nella fabbrica di fertilizzanti, non aveva bisogno di coltivare la terra per nutrirsi, ma come ha potuto permettersi di fare una seconda figlia? – Se è per questo ne ha fatti tre, di figli! Zio, non dare retta al presidente, anche se mio padre aveva la residenza in città, mia madre era rimasta contadina, e poteva averne due. – Appunto, due figli. Da dove viene il terzo? – Adesso non è piú un problema e posso dirtelo. Appena nata mi hanno portato di nascosto a casa di mia zia e hanno detto che ero morta in fasce, e cosí è arrivato mio fratello. – Il sistema del controllo delle nascite favorisce gli impavidi mentre i codardi soccombono, – sospirai. – Che pensavi? Nel mondo va tutto in questo modo: per quanto sia alto un monte, c’è sempre un uccello che riesce a sorvolarlo; per quanto sia fitta la rete, c’è sempre un pesce che riesce a sfuggire. Bene, sono arrivati i cipollotti e la salsa. Il cielo e la terra non sono vasti come la bocca, padre e madre ti sono cari ma mai quanto il cibo. Su, fratello, mangia e non fare tanto lo schizzinoso.

Afferrai un gambo di cipollotto, lo intinsi nella salsa di soia fermentata e ne morsi un pezzo con uno scrocchio: quel pezzo mi risvegliò l’appetito, la baldanza e la nostalgia di casa. Con il cipollotto e la salsa in bocca, il liquore piccante si fece dolce e aromatico. Tsuruta Sawakei, che era un tipo verace, un bravo ragazzo ingenuo, ci imitava mangiando e bevendo e presto si ubriacò. Aveva la sbronza mite, non piangeva e non faceva chiasso, non sbraitava, non urlava, socchiudeva gli occhietti e sorrideva. Aveva quasi cinquant’anni, ma io mi ostinavo a chiamarlo «ragazzo». Sorreggendolo, Xiao Shan lo accompagnò al divano per fargli fare un pisolino, io e Jiang Er continuammo a mangiare, a bere e a ricordare i tempi andati. Jiang Er, un idiota che quando facevamo lezione di cinese non conosceva i caratteri e durante le lezioni di aritmetica non sapeva fare i calcoli, ora citava i classici, snocciolando espressioni forbite, ad esempio: – Fratello, come diceva nonno Mao Zedong? «Ricordo anni impegnati, mesi di fatiche». E nonno Su Dongpo? «I miei pensieri vanno al generale Zhou, era con Xiao Qiao la sua nuova sposa, il piglio eroico espressione di valore». E tu stesso non hai scritto: il cantone nord-est di Gaomi è il posto «piú eroico e piú vile, il Paese dei piú grandi bevitori e dei migliori amanti»? Nonno Mao e nonno Su avevano una gran cultura e si esprimevano in modo molto profondo, niente a che vedere con te, uno zotico che parla agli zotici, con un sapore simile a quello dell’uovo marcio mischiato al pesto d’aglio: un sapore speciale che ti colpisce l’anima! Quando ero piccolo dicevate che facevo l’idiota, ma non era cosí, il fatto era che nella mia famiglia abbiamo una caratteristica: maturiamo tardi! Quando gli altri sono intelligenti e brillanti, noi siamo stupidi e letargici. Poi, quando gli altri esauriscono le loro risorse ed entrano in una fase di declino, a noi puntualmente viene l’ispirazione, qualsiasi cosa sfiori le nostre orecchie o cada sotto i nostri occhi ci rimane impressa nella memoria, la vista da torbida si fa limpida e a chi era pelato spuntano i capelli, io ne sono una testimonianza.

Anche se le sue parole non erano del tutto credibili, bisogna ammettere che un certo senso ce l’avevano. Nel cantone nord-est di Gaomi chi non conosceva quell’idiota di Jiang Er? Ricordo una volta che ero tornato a casa in visita e, attraversando il ponte di pietra sul fiume, mi era capitato di vedere quattro persone a torso nudo, sedute con i piedi immersi nell’acqua, l’orlo dei pantaloni rimboccato. Avevo chiesto loro cosa stavano facendo, mi avevano risposto che pescavano con i piedi. I quattro erano: Erman di Wujiazhuang, un tale che aveva subito uno shock perché la moglie era scappata con un altro, ogni giorno indossava i vestiti variopinti di lei e con la faccia truccata andava al mercato a cantare l’opera; Liu Yue di Liujiazhuang, un vecchio scapolo dal cervello ottenebrato che sosteneva di essere la reincarnazione di Liu Bang; Gao Danian di Gaojiadian, che prima della Liberazione pare tirasse il risciò a Qingdao e poi era arrivato secondo in una maratona, ma, alla fine, non si sa come era impazzito; e, per ultimo, Jiang Er. Seduti sul bordo del ponte pescavano con i piedi e, a furia di pescare, si erano messi a litigare e si insultavano: – Scemo, idiota, malato di mente –, si erano separati di malumore, ma non erano passati due giorni che erano di nuovo insieme. Erano i quattro grandi immortali del cantone nord-est di Gaomi. All’epoca avevo pensato: «È proprio vero, chi si somiglia si piglia», ma oggi Erman e Liu Yue sono morti, Gao Danian se n’è andato a vagabondare e non si sa che fine abbia fatto; rimane Jiang Er, che non solo è vivo e vegeto, ma è resuscitato, ringiovanito, si è fatto brillante. Allora, confrontandomi con lui, ho capito che l’idiota sono io.

– Fratello, – mi disse Jiang Er, – mio nonno è nato nel 1903, quindi nel 1973 aveva settant’anni. Nel villaggio i suoi coetanei erano tutti curvi e gobbi, mezzi sordi e con gli occhi annebbiati, lui invece aveva una folta capigliatura corvina, una dentatura di ferro, l’udito fine e la vista acuta, gambe forti e passo atletico. Quando si beccò il calcio da Chang Lin e scoprí il pugilato del Lombrico praticato da mio nonno, Shan Xiongfei gli chiese di prenderlo come allievo. A quel tempo eri già andato via per arruolarti nell’esercito e non conosci questa storia. Mio nonno era addetto all’allevamento del bestiame della brigata di produzione, viveva nel capanno e io ogni sera andavo a dormire con lui. Ti ricordi il pozzo ottagonale davanti alla porta del capanno? E il salice piangente vicino al pozzo? E l’aia davanti al capanno? Ricordi che ogni sera, specialmente quando la luna era piú luminosa, noi ragazzi del villaggio praticavamo le arti marziali sullo spiazzo liscio della trebbiatura? Chang Lin sosteneva di essere stato allievo di mio nonno, ma era pura vanteria. Tuttavia sono certo che quando mio nonno, nel silenzio della notte, si esercitava nelle ventiquattro mosse del pugilato del Lombrico sullo spiazzo dell’aia, lui l’aveva spiato e osservandolo gli aveva rubato l’arte. Anche chi si limita a osservare può battere un paio di scalmanati che non hanno mai praticato. La prima volta che era venuto a chiedere a mio nonno di diventare suo discepolo, Shan Xiongfei era insieme ad altri tre giovani istruiti. Avevano chiesto a mio nonno in modo irrispettoso: «Tu sei Jiang Lombrico, quello del pugilato del Lombrico?» Mio nonno aveva alzato gli occhi al cielo, fingendo di essere sordo e non aveva risposto. Ovviamente non poteva rispondere, gli si erano rivolti usando il suo soprannome. Poi avevano aggiunto: «Abbiamo sentito da Chang Lin che pratichi il pugilato del Lombrico, perché non ci insegni?» Mentre parlavano, mio nonno era intento a spalare letame e gli lanciò davanti ai piedi una palata di sterco liquido inzaccherandogli i vestiti con gli schizzi. Uno di loro disse: «Il vecchio è sordo e pure muto, com’è possibile che conosca le arti marziali? Altro che pugilato del Lombrico! Piuttosto è uno scarabeo che fa rotolare palle di merda». Io ero presente e reagii con rabbia: «Nonno, fagli vedere cosa sai fare!» Lui continuava a fingersi sordo. Allora mi misi a insultarli: «Gli scarafaggi sarete voi, sparite. Se mio nonno si arrabbia, con un calcio vi spezza braccia e gambe».

Dopo qualche giorno, Shan Xiongfei tornò, ma stavolta da solo e si scusò con mio nonno: «Maestro Jiang, i giovani non conoscono le buone maniere, la scorsa volta siamo stati irrispettosi e l’abbiamo fatta arrabbiare». Dalla sacca a tracolla tirò fuori una bottiglia di grappa di Zhanqiao e un pacchetto di sigarette marca Dengta, e li posò sulla stufa. Mio nonno gli disse severo: «Riprenditeli!» Ma Shan Xiongfei era determinato a imparare e, ignorando l’atteggiamento di mio nonno, accese una sigaretta e gliela mise in bocca, costringendolo ad accettarla. Lo incalzò: «Maestro Jiang, la prego mi prenda come allievo». E mio nonno, fingendo estremo imbarazzo: «Giovanotto, non dar retta alle balle di quel bastardo di Chang Lin. Io sono solo un contadino, cosa vuoi che ne sappia di gongfu? Al massimo riesco a rannicchiare le gambe quando dormo, niente di piú». Shan Xiongfei gli rispose: «Nonno Jiang, io so che lei ne è capace, ho praticato le arti marziali e me ne intendo, a oltre settant’anni ha ancora l’occhio vispo, i capelli neri come la pece e le tempie piene, segno di grande vitalità. Come potrebbe chi non pratica essere dotato di tanta energia?» Mio nonno gli chiese: «Ragazzo, se fossi capace pensi che me ne starei qui a nutrire mucche e cavalli?» «Non sarebbe strano, sin dai tempi antichi i campioni piú grandi si sono nascosti tra il popolo. Non me ne vado di qui finché non mi prende come allievo». Mio nonno lo ammoní: «Ascolta il consiglio di un vecchio, torna subito alla fattoria e non compromettere il tuo futuro. E poi, a che ti serve praticare il gongfu? Assolutamente a niente. Al villaggio di Lijiaguan c’erano decine di praticanti che armati di lance, sciabole, spade e alabarde andarono ad affrontare i giapponesi. Uno sbarbatello impugnò una mitraglietta con il treppiede e, ta ta ta, con una raffica li stese tutti, causando morti e feriti. Perciò ti dico, ragazzo mio, che l’era delle arti marziali ormai è finita». Shan Xiongfei gli rispose: «Ah, allora lo ammette che conosce l’arte». «No, non ne sono capace, non conosco le arti marziali neanche un po’. E adesso vattene, non ho tempo da perdere».

Qualche giorno dopo, Shan Xiongfei tornò, stavolta portando due bottiglie di grappa Jingzhi. A quei tempi era il liquore migliore! Portò anche un pezzo di maiale incartato nel giornale, saranno stati almeno quattro jin! Cielo, quello sí che era un regalo importante! Posò le bottiglie e la carne in una delle mangiatoie vuote e con un tonfo si inginocchiò a terra: «Maestro, se non mi prende come allievo, rimango qui e non me ne vado».

Io ne fui molto commosso, Shan Xiongfei secondo me era onesto di cuore e sincero di intenti, altrimenti perché avrebbe portato un dono cosí importante? E perché si sarebbe prostrato in quel modo? Oltretutto era la sua terza visita alla stalla, e si era messo in ginocchio. «Nonno!» urlai. Lui mi ignorò, continuando a setacciare la paglia di riso per i cavalli. «Nonno, dai, accettalo». Ma lui borbottava tra sé e sé e non interrompeva il lavoro. Andai a tirare Shan Xiongfei per un braccio, ma lui testardo non si mosse. Mio nonno, finito di setacciare la paglia, si sedette sul bordo del kang, il letto di mattoni riscaldato, a succhiare rumorosamente dalla pipa. Dopo parecchio tempo, chiese: «Sul serio vuoi imparare il gongfu?» Shan Xiongfei ancora in ginocchio gridò: «Lo voglio». «Conosci le regole dei praticanti?» Shan rispose: «Certo, si pratica per rafforzare il corpo, non per fare prepotenze. Piú diventi forte, piú dovresti esercitare l’umiltà». «Quelle sono le vostre regole, le mie sono: timido come un topo in tempi d’inazione, feroce come una tigre in tempo di azione». Shan Xiongfei replicò: «Maestro, il suo allievo l’ha memorizzato». Mio nonno sentenziò: «Sei venuto tre volte a chiedermelo. Se ti avessi ignorato, sarebbe stato troppo offensivo. Alzati, ragazzo». Shan Xiongfei batté rispettosamente la fronte a terra tre volte. Mio nonno si fece avanti per tirarlo su, poi disse: «Ti prendo come allievo, ma non voglio i tuoi regali». Shan Xiongfei disse: «Anche Confucio riceveva un compenso dai suoi allievi. Maestro, la prego di accettarli». A quel punto il nonno non seppe piú che dire.

Da allora, ogni sabato sera Shan Xiongfei veniva a praticare il pugilato del Lombrico, io sono stato suo compagno d’allenamento. Secondo la consuetudine delle arti marziali maestro e allievo sono come padre e figlio, ma mio nonno voleva mettere una generazione tra me e Shan Xiongfei, quindi da lui non si faceva chiamare «maestro» ma «gran maestro» e Shan Xiongfei era il mio «fratello maggiore nell’arte».

In un anno mio nonno gli insegnò le ventiquattro mosse del Lombrico e, cosí facendo, le tramandò anche a me. Qualcuno sosteneva che l’intera sequenza era formata da ventotto mosse e che mio nonno ne aveva tenute quattro per sé: avrà preso spunto dalla storia del gatto leopardo che insegna alla tigre tutti i trucchi, ma non come arrampicarsi sugli alberi.

Jiang Er era preso dal suo racconto e io lo ascoltavo rapito, quando Shan Shura ci mostrò l’orologio da polso: – Presidente Jiang, sono le due e mezza e alle tre inizia il torneo, dobbiamo proprio andare.

5.

A bordo della limousine di Jiang Er facemmo un giro dei principali luoghi di interesse. La sede del governo distrettuale, il covo dei banditi, la distilleria e altri posti scorsero veloci fuori dai finestrini. Ripresosi dalla sbornia, Tsuruta non la smetteva di esclamare: – Yoshi, yoshi! – Da quando era arrivato avrà pronunciato quella parola per lo meno tremila volte e il numero non faceva che aumentare a gran velocità. Scorgemmo una folla riunita intorno a un gruppo di persone vestite da guerriglieri e soldati giapponesi che interpretavano un episodio dello sceneggiato televisivo Granturco giallo. Qualcuno era in groppa al somaro che era stato cavalcato dalla protagonista, altri erano seduti nel palanchino nuziale, i portatori e il padrone del somaro erano contadini del circondario, alcuni avevano fatto le elementari con me, altri erano i loro discendenti. A quei tempi c’era una notevole differenza di età tra gli alunni della stessa classe; il piú grande tra noi, Gu Mancang, era diventato bisnonno e tutte e quattro le generazioni della sua famiglia vivevano sotto lo stesso tetto. Da uno spiraglio dei finestrini entrava il profumo delle pannocchie e delle patate arrostite, sentimmo anche l’odore della «frittella strozzata» attorno al cipollotto oppure all’uovo, un pasto abituale dei banditi come Collo bianco. Finora ho descritto odori piacevoli, ma ce n’erano anche di sgradevoli, come quello di vernice. All’ingresso del parco stavano montando un enorme e sontuoso cancello con due draghi avvinghiati. Su un’alta impalcatura alcuni operai spruzzavano vernice sui draghi. Shan Shura ci condusse ai posti riservati davanti al palco su cui si sarebbe svolto il torneo e ci accomodammo insieme a Jiang Er. Erano quattro sedie pieghevoli circondate da lunghe panche fissate a terra.

– I biglietti si vendono a parte? – chiesi io.

– No, sono compresi nell’ingresso, a me spetta una percentuale del ricavato, – fu la risposta di Jiang Er.

Shan Shura prese alcune bottiglie di acqua marca Lombrico da una busta di plastica e ce le distribuí. Chiesi a Jiang Er: – La tua ditta produce anche queste?

Jiang Er si limitò a sorridere.

Shan Shura disse: – Zio, voi mettetevi comodi, io vado dietro le quinte a prepararmi.

– Chiedi a tuo padre di venire un attimo, – le ordinò Jiang Er. – Ma non gli dire chi c’è, è una sorpresa!

Shan Xiongfei saltò giú dal palco con l’agilità di un ragazzo e correndo a piccoli passi ci raggiunse: era evidente che Shan Shura non aveva obbedito alle istruzioni di Jiang Er. Balzai in piedi, lui mi afferrò la mano e la scosse con forza, poi disse: – Mio nobile fratello! Non ci vediamo da tanto, e da tanto mi manchi!

Vedendo la sua capigliatura vaporosa e il colorito rubizzo, sospirai: – Proprio vero che praticando le arti marziali si rimane per sempre giovani, il tempo non ti ha lasciato nessun segno!

Lui rimase un attimo interdetto, poi capí a cosa mi riferivo, sollevando una mano se la passò tra i capelli e sussurrò: – Sono tinti!

Gli dissi: – Sí, ma una cera cosí non può essere finta, guarda che viso senza rughe!

Lui, sempre sottovoce: – Mia figlia ha trovato un salone di bellezza per eliminare le borse sotto gli occhi e ha comprato dieci flaconi di acido ialuronico, faccio due applicazioni al giorno. Funzionano piuttosto bene.

– Ora capisco, – scoppiai a ridere. – Non immaginavo che un pezzo d’uomo come te si trasformasse in una donnicciola.

– Non siamo diventati anche noi personaggi di spettacolo? – rispose e aggiunse ridendo: – Andiamo sul palco e ci mettiamo in posa, mi sono sistemato un po’ per far fare bella figura al presidente Jiang, in questo modo mi sento piú a mio agio.

– Proprio cosí, fratello, – intervenne Jiang Er, – anche tu appartieni alla varietà che matura tardi!

– Nossignore, – scherzai io, – lui ha già fatto parecchi raccolti.

– Questo è vero, quando ha lottato con Chang Lin era maturo al punto giusto, – disse Jiang Er, – e si è anche parecchio divertito con le giovani istruite!

– Non dire stupidaggini, – reagí Shan Xiongfei, – se il gran maestro fosse ancora tra noi, sarei andato subito a fare la spia, ti avrebbe picchiato con il fornello della pipa.

– Peccato che Chang Lin non ci sia piú… – commentò Jiang Er. – Altrimenti gli avrei trovato qualcosa da fare.

– Com’è morto? – chiesi.

– Come? Si è bevuto una bottiglia di Paraquat!

– Il Paraquat è velenoso? – Ero sorpreso.

– Un diserbante che elimina cento varietà di erbacce non sarebbe in grado di ammazzare un uomo? – rispose Jiang Er. – E con quali sofferenze! Ma anche vicino alla morte Chang Lin aveva conservato l’umorismo. Quando sono andato a trovarlo e me la sono presa con lui per quello che aveva fatto, ha detto che in effetti anche lui era un allievo di mio nonno. Non voleva uccidersi, il Paraquat era una cura per non fare piú scoregge puzzolenti –. Mentre lo raccontava, Jiang Er aveva gli occhi rossi. – Oh, ma porca…, quello sfigato apparteneva alla varietà di quelli che maturano presto, crescendo poi si è rincoglionito. Persino il coraggio di bere il Paraquat ha avuto, di cosa poteva aver paura?

– Perché? Aveva paura di qualcosa? Cosa gli è successo? – chiesi io.

Shan Xiongfei diede un’occhiata al cellulare e disse: – Fratelli, rimanete pure comodi, io vado dietro le quinte a prepararmi.

– In fin dei conti, di cosa aveva paura? – ripetei la domanda di un attimo prima.

E Jiang Er: – Aveva paura di strozzarsi con le spine se mangiava il pesce, di schiacciarsi il naso mentre chiudeva la porta, di storcersi il collo quando era sdraiato a dormire.

– Ma non era un vigliacco, ricordi che aveva rubato la penna stilografica dalla scrivania dell’istruttore del campo? – dissi io. – Se avesse tenuto una pistola sotto al cuscino, gli avrebbe preso pure quella.

– C’è chi da piccolo ha paura di tutto e da grande diventa coraggioso, e chi invece nasce temerario e crescendo diventa un vigliacco. È questa la differenza tra chi matura presto e chi matura tardi.

Avevo altre domande da fare, ma mi accorsi che Shan Shura, vestita sontuosamente e bella come un fiore, era appena comparsa sul ring allestito sul palco.

Era fatto di tavole e pali di legno e rialzato da terra di un metro e mezzo; sotto, una torma di gatti randagi si aggirava emettendo richiami agghiaccianti. Sulle tavole era disteso un tappeto sintetico color rosso acceso, sul pannello di fondo, in dimensioni cubitali, campeggiava il carattere «arti marziali» e ai suoi lati erano appesi i versi di un distico in corsivo: «Il pugno abbatte la feroce tigre dei monti del Sud, il calcio colpisce il drago acquatico nel mare del Nord». Ai due pali anteriori era legato uno striscione con la scritta: «Primo torneo internazionale del pugilato del Lombrico». In fondo al ring erano sospesi quattro palloni aerostatici rossi con lunghi nastri di stoffa fluttuanti; candidi batuffoli di nuvole nuotavano nell’azzurro terso del cielo. Ce n’era uno a forma di drago e tra gli spettatori seduti attorno a me ci fu chi sollevò il telefonino per fare una fotografia. Anche Jiang Er tutto eccitato ne scattò qualcuna: – Ottimo! Un drago nel cielo è propizio agli incontri, un lombrico sul ring porta fortuna!

– Gentili dirigenti, gentili ospiti, amici, buon pomeriggio! – annunciò Shan Shura con un abito rosso lungo fino a terra e una voce squillante con quell’accento tipico di Qingdao che trovavo cosí familiare. D’un tratto un fischio penetrante si alzò dagli amplificatori piazzati sulla parte anteriore del palco. Cosa succedeva? Jiang Er urlò: – Dov’è il tecnico? – Oggi nel cantone nord-est di Gaomi si inaugura il Primo torneo internazionale del pugilato del Lombrico! Per prima cosa presenterò gli ospiti intervenuti alla cerimonia di apertura –. Poco opportunamente due gatti si misero a litigare sotto il palco lanciando grida stridule. – Merda, domani mi porto il topicida e li spedisco all’altro mondo, – sibilò Jiang Er con odio. – Venuto appositamente da Pechino, il noto scrittore Mo Yan, nostro amato compaesano e autore del romanzo Granturco giallo –. In mezzo al fragore degli applausi, tutti gli sguardi del pubblico si rivolsero verso di me e decine di telefonini mi inquadrarono: fui costretto ad alzarmi e ad agitare la mano in segno di saluto. Sentii qualcuno che diceva: – Com’è invecchiato. – In visita dal Giappone, il noto scrittore Tsuruta Sawakei, grande amico di Mo Yan –. Diedi una gomitata a Tsuruta e lui meccanicamente si alzò in piedi e fece un inchino alla folla. – Ora invitiamo il maestro Mo Yan sul palco per un discorso! – Che diavolo succedeva? Mollai un calcio allo stinco di Jiang Er e dissi sottovoce: – Avresti dovuto avvertirmi –. E lui, con un sogghigno: – Sei molto mancato ai tuoi compaesani. – Invitiamo il maestro Mo Yan, – ripeté Shan Shura con una voce squillante che, amplificata dagli altoparlanti, raggiungeva picchi che ti squassavano le orecchie facendoti desiderare di essere sordo. – Vi preghiamo di accoglierlo con un applauso –. Accompagnato da un applauso scrosciante, girai attorno al ring e ne raggiunsi il retro dove, sorretto da alcuni giovani in divisa gialla da arti marziali, salii le scale di legno. Il ring era rivolto verso sud, i raggi del sole a occidente erano sfolgoranti e mi abbagliavano costringendomi a chiudere gli occhi. Shan Shura mi porse il microfono e io dissi: – Cari compaesani, non ci vediamo da tanto e a lungo mi siete mancati! Grazie alla grande generosità di Jiang Tianxia, in queste splendide giornate autunnali dal cielo terso e limpido per diecimila li, ho l’onore di assistere a questa sfida amichevole internazionale, un evento di massima importanza nella storia del nostro cantone. I miei compaesani, uomini industriosi e coraggiosi, esperti nelle lettere e versati nella lotta, hanno creato una gloriosa cultura di cui fa parte anche il pugilato del Lombrico… Quello di oggi è un grande incontro di arti marziali, ma anche di cultura… Auguro al torneo grande successo e che possa proseguire negli anni a venire…

Mi ero appena rimesso a sedere che Jiang Er esclamò: – Fratello mio, ne ho conosciuti di personaggi di talento, ma mai uno come te! Senza alcuna preparazione vai sul palco e pronunci un discorso allo stesso tempo elevato e profondo. Ti ammiro davvero, sei un degnissimo rappresentante di coloro che sono maturati tardi!

– Bastardo! – sibilai sottovoce. – Sono molto seccato, ma come vedi ti ho aiutato a recitare questa commedia.

– So bene come sei fatto, – disse Jiang Er, – e se non avessi il polso della situazione, non mi sarei permesso di fare le cose in questo modo.

– Ma che non succeda piú, altrimenti si rompe l’amicizia.

– Stai tranquillo, fratello, non te ne pentirai. La tua parcella per l’apparizione è duecentomila yuan, li ho investiti per te in azioni della nostra ditta, devi solo aspettare la distribuzione dei dividendi. In un anno noi maturati tardi raggiungiamo risultati che gli altri ottengono in dieci. Guarda, Lao Shan è salito sul ring!

Shan Xiongfei, con indosso un’uniforme da allenamento bianca, ampia e svolazzante, aveva l’aspetto di un immortale. Lo affiancavano due ragazzi, uno vestito di verde come una mantide, l’altro di rosso come un lombrico. Shan Xiongfei interpretava Jiang Qishan, il gran maestro del pugilato. – Un giorno, praticando in cortile, il gran maestro notò una mantide che lottava contro un lombrico, – spiegava la voce fuori campo di Shan Shura. – La mantide faceva danzare le zampe rostrate in alto e in basso, a destra e a sinistra, tagliava, affondava, squarciava, agguantava, ghermiva, attaccando senza posa –. Seguendo il racconto, il ragazzo-mantide mostrava le mosse attaccando il ragazzo-lombrico. – Il lombrico si difendeva, si sottraeva, indietreggiava, agitava la testa e la coda, si inclinava in avanti e all’indietro, rotolava a destra e a sinistra e a ogni occasione usava la coda per frustare, afferrare, avvinghiarsi, allacciarsi, avvilupparsi, torcersi, neutralizzando cosí ogni attacco della mantide. Alla fine le assestò un colpo di coda sul collo –. Il ragazzo-lombrico si appoggiò a terra con la spalla e il braccio sinistro, sollevò la gamba destra e colpí al collo il ragazzo-mantide. – Ispirato da quello che aveva visto, il gran maestro creò lo stile del magico pugilato del Lombrico –. Shan Xiongfei e i due ragazzi si inchinarono verso il pubblico, accolti da un coro di applausi. – Invitiamo ora Shan Xiongfei, erede del pugilato del Lombrico, a dare una dimostrazione delle ventiquattro mosse della sequenza –. Shan Xiongfei, rimasto solo sul ring, si rotolava e saltava, i suoi movimenti erano fluidi, il fisico elegante, un vero eroe. Applaudii con entusiasmo, acclamando quei maturati tardi, lo scontento per essere stato costretto a salire sul ring si dileguò poco a poco. A quel punto diedero inizio al torneo vero e proprio: ecco Fang Jiang, erede di quarta generazione del pugilato del Lombrico, sfidato da Fan Tong, ottava generazione dello stile della Mantide nera e vincitore della sesta edizione del Torneo di arti marziali della città di Qingdao. Fang Jiang, dalla postura leggermente gobba, indossava un’uniforme da allenamento con in vita una fusciacca di seta gialla bordata di rosso. – Dovrebbe essere il nipote di Fang Jinhou, il mio compagno delle elementari, – mi informò Jiang Er. – Ha un’ottima tecnica di gambe ma è poco determinato, non sa perdere –. Arbitrava Zhang Kun, l’allenatore di arti marziali dell’Istituto di educazione fisica della città. Fan Tong eseguí la mossa della «mantide che cattura la cicala», tese il braccio destro per bloccare il collo di Fang Jiang ma lui con la mano sinistra gli afferrò il polso destro, poi con la destra gli agguantò il braccio destro, lo spinse con forza verso l’esterno mentre con le gambe gli stringeva a tenaglia la gamba destra. Fan Tong afferrò il collo di Fang Jiang con la sinistra ma lui fece una rapida capriola verso destra e si liberò; con il lato esterno della gamba destra colpí l’interno della gamba sinistra di Fan Tong, che perse l’equilibrio e finí col sedere per terra. Rapido rotolò verso sinistra, pensando di schiacciare Fang Jiang al tappeto ma lui gli aveva già messo le mani sulle spalle e gli spingeva il ginocchio destro contro il ventre, inchiodandolo sul ring. L’arbitro suonò il fischietto indicando agli atleti di separarsi. Io applaudii con forza, avevo capito che il pugilato del Lombrico aveva vinto il primo round. – Come si chiama quella mossa? – chiesi. – È un trucchetto, si chiama «intagliare la carta», – mi rispose Jiang Er. Fan Tong vinse il secondo round. Ora erano pari. Nel terzo round Fang Jiang usò la mossa detta «piccolo giro del tempio» e subito dopo, ricorrendo a quella detta «la bella allo specchio», riuscí ad atterrare l’avversario. Due vittorie in tre round, la Mantide nera si dichiarò sconfitta e scese dal ring. – Bene, bene, la prima battaglia è vinta! – Jiang Er applaudí entusiasta. Fang Jiang fece un giro del ring, coprendo il pugno chiuso con l’altra mano, ringraziò il pubblico che lo acclamava. Lo sfidante successivo era Ma Mingchuan di Nanyang nello Henan, erede di sedicesima generazione del taijiquan di stile Ma. Gli bastarono alcuni round per dichiararsi sconfitto e scendere dal ring, un’altra vittoria per Fang Jiang. – Il ragazzo oggi è in ottima forma, direi che anche lui è un maturato tardi, vedo ottime prospettive, – sentenziò Jiang Er. Il prossimo era Hou Shangshu di Qin’an, erede di diciottesima generazione del pugilato della Scimmia. Ottimo nome il suo, Hou Shangshu, la «scimmia che si arrampica sull’albero»! Per rendere pienamente giustizia a quel nome, avrebbe dovuto essere un tipo eccentrico, furbo come una scimmia e con un corpo scheletrico, tutto pelle e ossa. Invece era un omone dalle sopracciglia folte e nere e feroci occhi di tigre; ricordava una torre di ferro. Sarà stato perché Fang Jiang era un po’ stanco o forse non era all’altezza dell’avversario, fatto sta che in un unico round Hou Shangshu lo scaraventò giú dal ring con un colpo diretto chiamato «pugno canaglia». Fortuna che sotto c’erano alcuni custodi pronti a raccoglierlo che gli evitarono di farsi male cadendo a terra. – Con la merda di cane non si costruiscono i muri, se non vali niente alla fine si scopre, – sospirò Jiang Er. – Non può essere sempre il Lombrico a vincere, altrimenti che gusto c’è! – dissi. Hou Shangshu non stava affatto combattendo nello stile del pugilato della Scimmia, era un gradasso che aveva imparato qualche mossa di boxe e usava la forza bruta. E infatti fu subito sconfitto da Kuang Siping, il secondo concorrente dello stile del Lombrico. Poi salí sul ring il giapponese Ichiro Watanabe, che era un tipo onesto e disse subito che suo nonno, Shinogu Watanabe, aveva fatto parte del primo battaglione che invase la Cina, aveva partecipato a molte battaglie e ottenuto numerosi riconoscimenti al valore, come dire, le sue mani erano intrise di sangue cinese. Nell’agosto del 1938, sul piccolo ponte di pietra di Qingshakou nel cantone nord-est di Gaomi, quell’assassino si era battuto con Jiang Qishan, il nostro gran maestro, che con un calcio l’aveva scaraventato giú dal ponte, dove aveva battuto la testa su una pietra ed era morto sul colpo. – Cari amici spettatori, ieri pomeriggio Watanabe insieme all’interprete ha visitato il memoriale della battaglia di Qingshakou che abbiamo appena costruito e, tra i trofei recuperati da privati, ha trovato la giacca di suo nonno, l’ha riconosciuta perché nella fodera interna c’era scritto il suo nome. Gentili spettatori e amici, non possiamo sapere cosa provi il concorrente giapponese in questo momento, sappiamo però che Kuang Siping, il candidato scelto del pugilato del Lombrico, avanza impavido, deciso a vincere e a non cedere mai. Questo adesso non è piú un semplice incontro di arti marziali, è diventato una vendetta nazionale e una faida di famiglia. Prego, amici spettatori, tifiamo per il concorrente del pugilato del Lombrico! – Dal fondo del ring, Shan Shura con il suo trascinante accento di Qingdao era determinata a incendiare gli animi. – Non ritengo sia una buona cosa, – commentai, – le arti marziali dovrebbero essere fini a se stesse, non legate alla politica! – Ti sbagli fratello, nel mondo tutto ha a che vedere con la politica. Vale per la cultura, per lo sport, e ancora di piú per le arti marziali, – enunciò Jiang Er, non senza un certo orgoglio. – Questa è vera e propria «energia positiva»! Fratello, continua cosí, a maturare tardi! – Gettai un’occhiata in direzione di Tsuruta, per fortuna la sua conoscenza del cinese non superava le cinquanta parole, ma dalla sua espressione trapelava comunque un certo imbarazzo. Dissi: – Dovreste essere meno diretti –. Jiang Er sussurrò: – Fratello, con questi coglioni maturati presto non si può andare troppo per il sottile, piú sei diretto e li tratti da cani, e piú quelli vanno in visibilio! – Watanabe non era alto, aveva le gambe corte e le braccia lunghe, i muscoli sviluppati e il piglio feroce, indossava un’uniforme da allenamento nera in stile dichiaratamente giapponese, anche se non era un kimono vero e proprio, e sulla fronte portava legata una fascia di tessuto bianco con un cerchio rosso. Si era messo a girare in tondo sul ring per sfoggiare la sua potenza, come una belva che marca il territorio. Prima di affrontarsi, i concorrenti si salutarono alla maniera tradizionale e, al fischio dell’arbitro, iniziarono il combattimento. Watanabe aveva una formazione di sanda e di boxe, lanciava pugni veloci come il vento e calci fulminei, assestava colpi a raffica senza offrire a Kuang Siping il benché minimo spiraglio. Anche se non avevo praticato le arti marziali con il nonno di Jiang Er, sapevo che il punto di forza del Lombrico sta proprio nella lotta corpo a corpo; con un avversario che salta da tutte le parti e lo evita è impossibile per il Lombrico dispiegare la sua arte, può solo difendersi, non è in grado di restituire i colpi. Vedemmo i passi di Kuang Siping farsi sempre piú disordinati, lo vedemmo prendere pugni sulla testa, sul viso, ricevere calci nel ventre: la sconfitta era certa. Watanabe picchiava come una furia, con un diretto colpí sul naso Kuang Siping, che cadde all’indietro e giacque disteso e rigido sul tappeto rosso, immobile. Il mio cuore si strinse in una morsa, cominciavo a odiare il giapponese per la sua ferocia. Non era un torneo, era uno sfoggio di brutalità! Osservai il pubblico intorno a me, sapevo che provava gli stessi sentimenti, vidi che Tsuruta addolorato si era coperto gli occhi con le mani; quel maturato tardi di Jiang Er, invece, sorrideva come se si stesse godendo lo spettacolo. L’arbitro contava e Kuang Siping non si muoveva. Ero preoccupato, speravo che non ci scappasse il morto! Salirono sul palco alcuni uomini e portarono via Kuang Siping. Watanabe si mise le dita in bocca con arroganza ed emise un fischio acuto. Poi a passi da scimmione fece un giro del ring. – Amici spettatori, siamo spiacenti, ignoravamo che il nonno di Watanabe fosse uno dei demoni giapponesi uccisi dal gran maestro, di certo suo nipote è venuto per vendicarsi, notate come si mostra aggressivo. Sono convinta che molti vorrebbero salire sul ring per dargli una bella ripassata e fargli abbassare la cresta, mostrargli che non siamo gente che si fa intimidire. Compagni, compaesani dal sangue caldo, salite sul ring, venite a dare una lezione al piccolo giapponese! – Dalla platea si alzò un giovane aitante e, con passi atletici, saltò sul ring. Indossava casacca e pantaloni aderenti, portava un paio di scarpe da ginnastica, aveva i capelli tagliati a «cuore di pollo», molto corti e a punta sulla nuca, si vedeva che praticava le arti marziali. – Invitiamo questo eroe a dirci il suo nome! – Ma l’eroe ignorò la richiesta di Shan Shura: appena salito sul ring fece due capriole a mezz’aria, poi poggiò la mano sinistra a terra, distese il corpo in parallelo e, dopo un avvitamento, colpí il tallone di Watanabe con la gamba destra. A dir la verità, era stato un attacco a tradimento, contro ogni regola del torneo, ma gli spettatori esultarono lo stesso. E poi non era piú un torneo, ma una pagliacciata, era tutto predisposto in anticipo o era un imprevisto? Il mio cervello dalla maturazione ancora non adeguatamente tardiva faticava a capire. Watanabe si riprese e ricominciò a saltare, schivando il giovanotto che rotolava sul ring. Passati alcuni minuti la velocità delle giravolte di Cuore di pollo diminuí, allora Watanabe, come un enorme rospo, spiccò un salto e atterrò sul ragazzo proprio mentre l’ultima capriola l’aveva portato a pancia all’aria. Una mossa inguardabile, ridicola, che era scesa al livello piú infimo della lotta, persino una rissa tra ubriaconi sarebbe stata piú elegante. Qualcuno alle mie spalle commentò: – Ma quale torneo di arti marziali, sembra una lite fra rospi! – Dalla platea si levò un coro di risate, che però si acquietarono appena la gente si accorse che Watanabe aveva afferrato il ragazzo per il collo: non era affatto uno scherzo, lo stringeva con tutte le sue forze! Un fischio non serví a fermarlo, allora l’arbitro andò a tirarlo per un braccio, ma neppure quello funzionò; quando Cuore di pollo sembrava ormai impotente, alcuni uomini salirono sul ring, spinsero via Watanabe e lo portarono via. L’arbitro ammoní il giapponese, che sembrò aver capito o forse non esattamente, in ogni caso pronunciò una sfilza di parole confuse: – Yoshi, yoshiyes yes, molto bene, – poi, gonfio di arroganza, si mise di nuovo a fischiare e a fare il giro del ring, sentendosi il migliore del mondo. Tsuruta, che era stato tutto il tempo seduto accanto a me, mi sussurrò: – Maestro, ma lui, no, lui non è giapponese –. D’un tratto, la mia tardiva maturazione raggiunse un livello superiore, capii che era tutta una commedia il cui sceneggiatore e regista mi stava seduto a fianco: era Jiang Tianxia, il presidente Jiang, il maturato tardi. A quel punto non mi restava che godermi lo spettacolo, diedi una pacca sul ginocchio a Tsuruta e dissi sottovoce: – È kabuki, teatro! – Lui mandò un «ohhh» tutto eccitato e aggiunse: – Yoshi, yoshi, yoshi…

La faccenda si concluse in questo modo: Shan Xiongfei, l’autentico erede della tradizione del pugilato del Lombrico del cantone nord-est di Gaomi, salí sul ring e ingaggiò una lotta all’ultimo sangue con il giapponese Ichiro Watanabe, assetato di vendetta. Sebbene il nostro anziano incassasse qualche pugno di Watanabe, alla fine, colpito ripetutamente dalle tante mosse del gran maestro, come il «piccolo giro del tempio» e il «grande giro del tempio», il «calcio dell’anatra mandarina», la «sforbiciata suprema», il «pellegrino si separa dal mondo», il «cavallo selvaggio agita gli zoccoli», «mettere a soqquadro la corte celeste e rubare il sigillo imperiale», la «frustata alta che chiude gli occhi», il «drago vola rasente il mare», il pugile giapponese Watanabe, che si riteneva il migliore del mondo, crollò miseramente a terra, come un cane morto.

Per tutta la durata del movimentato incontro di pugilato appena descritto, Shan Shura non aveva mai smesso di urlare e sbraitare per infiammare gli animi e portare al parossismo l’umore del pubblico e l’atmosfera del torneo, attizzando l’odio di classe e la discriminazione di razza. Il pubblico sembrava impazzito, qualcuno si mise anche a piangere. Alla fine, si udí provenire dagli altoparlanti la colonna sonora in cantonese La Grande muraglia mai crollerà dello sceneggiato televisivo L’eroe Hou Yuanjia:

Dopo un letargo di cento anni, il popolo si sveglierà,

apri gli occhi, guarda bene, chi può accettare la schiavitú…

… Bocche spalancate, urla disperate…

… La Grande muraglia mai crollerà,

il Fiume giallo scorre impetuoso per diecimila li…

… apri un varco con il sangue, agita le mani avanzando,

la rinascita del Paese ci impegnerà fino in fondo…

Accompagnati dal coro del pubblico, alcuni uomini trascinarono Watanabe giú dal ring come una carcassa di cane.

– Sai chi è? – mi chiese Jiang Er.

– Chi?

– Il figlio di Chang Lin, quello che chiamano Cinque veleni.

6.

Ieri all’alba, quando grazie a un paio di Stilnox ero finalmente riuscito a prendere sonno, il telefono del salotto si è messo a suonare. Mi sono alzato borbottando: – Ma chi può essere? – e, incespicando, sono andato a rispondere.

– Fratello, è successa una disgrazia, – piagnucolava Jiang Er, – le ruspe stanno demolendo il ring e la sala di esposizione del pugilato del Lombrico…

– Perché? – ho chiesto confuso.

– Dicono che è «uso illegale del territorio», – ha risposto infuriato. – Ma quando costruivo, loro…

– Insomma, è contro la legge oppure no?

– Come posso spiegartelo? – si è messo a balbettare: – È illegale ma allo stesso tempo non lo è… negli anni Sessanta del secolo scorso era «zona di contenimento delle esondazioni», ma sono trent’anni che il fiume si è prosciugato…

– Continua a maturare tardi! – Ho messo giú la cornetta e me ne sono tornato a dormire.

Il combattente

1.

Sono tornato al paese a trovare mio padre. Lui, premuroso, mi ha preparato il tè. Si dice che «con il passare del tempo, padre e figlio diventano fratelli», io direi piuttosto «amici».


Mio padre mi ha detto che Fang Mingde è morto. La cosa mi ha sorpreso perché il vecchio, che era stato segretario di Partito del nostro villaggio, era passato a trovarmi quando ero a casa il mese scorso. Si era entusiasmato parlando delle grandi imprese compiute ai tempi delle comuni popolari mentre, parlando degli abusi attuali, aveva tremato d’indignazione. Mi aveva incalzato: – Dimmi, nipote, secondo te è stato piú grande Mao Zedong oppure Deng Xiaoping?


Avevo risposto in modo ambiguo: – Potremmo dire… insomma… che lo sono stati… entrambi…


Mio padre era venuto in mio soccorso: – Lao Fang, Lao Fang, bevi il tè. Tutti sono stati grandi, Mao Zedong, Deng Xiaoping e pure tu.


Fang aveva risposto: – Mio vecchio fratello, prendimi pure in giro, tanto io a questa situazione non mi rassegno.


Mio padre aveva replicato: – Hai piú di ottant’anni e queste inezie ti fanno ancora arrabbiare? Ma pensa a mangiare e a bere ora che puoi permettertelo. Ho sentito che ti hanno aumentato il sussidio per meriti militari. Piú di diecimila yuan all’anno.


– I soldi non mi mancano, ma il mio cuore non è in pace.


Mio padre insisteva: – Ogni giorno puoi mangiare, bere e divertirti. Lo Stato ti dà tutti quei soldi, ma di che ti lamenti?


– Tu non mi capisci, – aveva risposto Lao Fang; poi si era girato verso di me. – Nipote, tu lo sai cosa provo. Tuo padre non ci ha mai capito niente di politica, fa parte delle masse ignoranti.


Mio padre era scoppiato a ridere: – Non siamo ignoranti, ma obbedienti. Chiunque sia al potere, io resto un contadino e lavoro la terra.


– È una tragedia, ma che ci possiamo fare? Io sono un membro del Partito e tu no, tu puoi fare il cittadino obbediente ma io devo lottare!


– Va bene, va bene, – l’aveva blandito mio padre, – «finché c’è vita c’è lotta», «se la carriola non si rovescia, pensa solo a spingere»! All’epoca non facevi che pronunciare frasi del genere.


– «Quando invecchia, la tigre perde i denti», – aveva risposto sconsolato Lao Fang. – «Passato l’autunno la cavalletta non salterà ancora per molto!» – Poi con aria misteriosa aveva detto a mio padre: – Fratello, la scorsa notte ho sognato il presidente Mao…


Mio padre si era messo a ridere: – Ti ha invitato a pranzo?


– Mi ha detto: «Xiao Fang, devi lottare!»


Ho chiesto a mio padre quando è morto, ma lui non è sicuro. Sono un po’ perplesso. In un piccolo villaggio come il nostro, se muore qualcuno, foss’anche un cane, lo sanno subito tutti. Figuriamoci un pezzo grosso come Fang Mingde, che era stato segretario di Partito per decenni. Mio padre ha detto che aveva commesso non poche cattiverie, ma che di base era un uomo onesto. Mentre eravamo presi dalla conversazione, un uomo si è infilato in casa come uno spettro.


Si trattava di Wugong, Meriti militari, un mio lontano cugino. Ha un fratello piú grande che si chiama Wenzhi, Governo civile. Pare che a scegliere i loro nomi sia stato uno degli anziani del nostro clan che aveva fatto scorpacciate di libri.


Mi sono alzato e gli sono andato incontro. Erano anni che non lo vedevo, ha i capelli bianchi e l’aspetto di un vecchio. – Fratello, sei tornato? – mi ha chiesto, con lo stesso tono piatto di sempre. Ha una voce asessuata, a sentirla non sapresti dire se è maschio o femmina, probabilmente è quella a rendermelo antipatico.


– Sei invecchiato anche tu, – ha detto lasciandosi cadere su un panchetto. Sorseggiando il tè che mio padre gli aveva appena versato, mi ha lanciato un’occhiata: – Quasi sessanta?


Non mi sentivo cosí vecchio, poi mi sono fatto due conti e, sí, era proprio cosí, ho ammesso: – Cinquantasei.


Ha alzato il tono come se volesse litigare: – Niente affatto, sei del segno della pecora e compi gli anni il venticinquesimo giorno del primo mese, quindi sono cinquantotto!


– Va bene, va bene, – ho riconosciuto con un certo disappunto. – Cinquantotto, hai ragione, in un attimo saranno sessanta. Tu invece? Quasi settanta, giusto?


– Se non sono sessantotto, sono sessantanove, mia madre è rimbambita, non si ricorda la mia data di nascita e neanche l’età.


È intervenuto mio padre: – Luglio del 1944. Secondo il calendario lunare ne hai sessantanove.


– Sessantanove o settanta fa lo stesso, – ha detto lui, – è una vita che combatto contro quel bastardo di Fang Mingde, finalmente sono riuscito a batterlo.


Mio padre: – Non mi pare che con te se la sia presa piú di tanto.


Lui ha risposto: – Ma tu che ne sai, zio. Nell’agosto 1970 furono rubate due ruote di carriola alla seconda squadra, lui sospettò di me e mi fece arrestare dal nipote Fang Baoshan, il comandante di compagnia della milizia popolare. Mi portarono alla brigata di produzione e mi appesero a una trave, rimasi lassú tutta la notte.


Mio padre ha commentato: – A quei tempi c’era la lotta di classe, non eravamo piú uomini.


– Ne aveva approfittato per vendicarsi! Il bastardo sapeva che avevo un set di scacchi d’avorio e voleva che glielo vendessi. Gli avevo detto che piuttosto li avrei buttati nel fiume. Glielo dissi mentre mi trovavo sull’argine a giocare con Huang il Sorcio e allora Fang Mingde, furioso, mi intimò: «Wugong, fallo se sei un uomo!» E io li avvolsi nel telo di plastica che usavamo come scacchiera e li gettai in acqua. Mi era sfuggito un elefante blu, lo raccolsi e lanciai in acqua pure quello. I pezzi rotolarono nel fiume con un rumore di ciottoli. I presenti rimasero di stucco. Zio, ne avrai sentito parlare, no?


Mio padre ha annuito: – Certo, è stato qualche decennio fa.


– Un’impresa epica! – ha esclamato Wugong gonfio di orgoglio. – A quei tempi, bastava che Fang Mingde battesse un piede a terra perché tutto il villaggio si mettesse a tremare. Sono stato l’unico che ha osato sfidarlo.


– Quel set di scacchi ora avrebbe un gran valore, – ho commentato.


– Infatti, – ha risposto Wugong. – Una volta Huang il Sorcio andò a lavarsi al fiume e recuperò una decina di pezzi. Qualche giorno fa sono venuti quelli del programma Caccia al tesoro e il figlio del Sorcio glieli ha portati a stimare. Gli esperti hanno detto che il set veniva dal palazzo imperiale e che, se fosse stato completo, avresti potuto comprarci una Mercedes!


– Che peccato, – ho commentato, – per una stupida ripicca hai buttato in acqua una Mercedes.


– Non dire cosí, – ha replicato lui. – Si vive una volta sola e bisogna lottare per la propria dignità.


– Non sei pentito neanche un po’?


– E perché dovrei? Non ho rimorsi. Per tutta la vita sono stato un fallito, quello è stato il mio unico gesto eroico.


– M’immagino la scena, – ho detto. – Lao Fang ci sarà rimasto di stucco.


– Fratello, – mi ha risposto, – sei uno scrittore, dovresti raccontare questa storia. Saranno state presenti almeno dieci persone, la faccia da frittella di Fang Mingde da pallida si fece giallastra e, alla fine, diventò verde. Si era messo a battere i piedi: «Wugong, hai un bel fegato! La vedremo!» E io gli risposi: «E vabbè, stiamo a vedere. Se non infrango la legge, voglio proprio sapere che mi fai». I fatti invece hanno dimostrato che in quell’epoca buia anche se rispettavi le leggi finivi nei guai.


– Basta adesso, – ha detto mio padre vedendo che lui si stava alterando, e lo ha ammonito: – Fang Mingde ormai è morto, a che serve rivangare la faccenda?


– Zio, – ha risposto lui, – tu non sai quanto era spietato! Aveva detto a suo nipote di legarmi le braccia dietro la schiena e appendermi alla trave. Quei banditi mi fecero un processo sommario nel loro tribunale privato, avevano fissato una carrucola al soffitto e gli bastava tirare un po’ per sollevarmi a un metro da terra. «Wugong, ormai ti tengo in pugno. Forza, confessa: dove hai nascosto le ruote della carriola?» disse e io replicai: «Non ci sto, mi state accusando ingiustamente». «Sei l’osso piú duro del villaggio, se non ti do una lezione adesso, non saprai mai quant’è formidabile la dittatura del proletariato». Zio, tu non hai idea, voi non ve lo potete neanche immaginare. Ordinò al nipote di tirarmi su e poi di mollare la presa e io, splat, caddi a terra, quello mi tirò su di nuovo e di nuovo mi mollò, e cosí via, ancora su e poi di nuovo giú… Nonostante tutto, non cedetti, e gli dissi: «Fang Mingde, ammettilo, in fin dei conti è tutto per quel set di scacchi? Ammazzami se ne hai il coraggio, perché se mi lasci vivo la faccenda non finisce qui». Poi, forse per paura che ci scappasse il morto, mi liberò.


Il ricordo di quelle vicende dolorose gli ha fatto affiorare sul viso rabbia e sofferenza. Per un attimo sono rimasto senza parole, gli ho offerto una sigaretta.


– Prima di essere torturato, fumavo. L’unica prova che addussero contro di me era una borsa per il tabacco trovata sulla scena del furto, era proprio la mia. Sapevo benissimo chi me l’aveva rubata per incastrarmi, e gliel’ho già fatta pagare! Da allora, non fumo piú.


– Con la politica delle riforme, Lao Fang ha avuto dei ripensamenti, – ha detto mio padre. – Ti ricordi che mi ha chiesto di farti avere un messaggio? Voleva invitarti a pranzo.


– Zio, – gli ha risposto Wugong, – l’ha fatto solo quando l’hanno rimosso dall’incarico.


– Veramente non è stato rimosso dall’incarico, – ha chiarito mio padre, – è andato in pensione.


– In ogni caso non era piú funzionario, – ha precisato Wugong. – Altrimenti, come avrebbe potuto chiedermi scusa!


– Wugong, – mio padre è scoppiato a ridere, – neanche tu sei stato esattamente uno stinco di santo, quante gliene hai fatte passare!


– In effetti, – ha riso lui, – quel vecchio farabutto aveva il terrore di me. E non lo lascio in pace neanche da morto.


2.

Spesso mi torna in mente quell’estate, quando Wugong litigò con Wang Kui, l’uomo piú forte del villaggio. Era mezzogiorno e stavo seduto insieme a mia madre sotto il mandorlo del cortile di casa nostra a separare le spighe dalla paglia, quando d’un tratto udimmo uno schiamazzo per strada. Mia madre commentò: – È di nuovo Wugong. Ma perché gli piace tanto litigare?


Le dissi: – Ha un nome militaresco, ma in realtà è un gran coglione. Ogni volta si fa pestare fino ad avere il viso tumefatto.


– Poveretto, se per tre giorni non le becca, si sente male –. Mia madre mi lanciò un’occhiata e disse: – È come il picchio che per colpa del becco muore incastrato nel buco che fa nell’albero. Stai attento pure tu. Se parli meno, nessuno ti prenderà per muto.


In strada le urla e gli insulti si erano fatti sempre piú forti, ora li accompagnava una serie di scrocchi e strappi. Ero un ragazzino e mi piaceva assistere alle risse, con lo sguardo supplicai mia madre che, in silenzio, mi diede il permesso.


Mi precipitai in strada, trovai un mucchio di gente che si affrettava verso lo spiazzo della trebbiatura e la seguii correndo. La folla si era radunata attorno all’aia e io mi ci infilai dentro. Il sole era accecante e a malapena riuscii a scorgere Wang Kui in pantaloni corti, aveva braccia molto muscolose e stava prendendo a calci Wugong, steso a terra.


Wugong si proteggeva la testa con entrambe le mani, urlando e imprecando in quella posizione. Era una scena davvero tragica.


– Forza, insulta, continua a insultare! – Wang Kui, urlando come un ossesso, prendeva Wugong a calci nel sedere alternando il destro e il sinistro.


Un vecchio stava tentando di fare da paciere: – Wang Kui, dai, lascialo stare.


Wang Kui, con il fiato grosso, rispose: – Digli di chiudere quella fetida bocca!


Il vecchio urlò: – Wugong, stai zitto!


Ma Wugong urlava i suoi insulti con voce sempre piú alta, lanciava offese che riempivano di vergogna chi ascoltava.


Wang Kui gli si parò davanti e gli mollò un calcio sulla testa; quello strillò ma non smise di inveire. Alla fine, colpito da un altro calcio in testa, tacque. Un intenso fetore si diffuse nell’aria.


Tutti pensarono che fosse morto, ma si sbagliavano.


Alcuni giorni dopo a mezzogiorno, Wugong, reggendosi a un bastone, si presentò alla porta di Wang Kui e ricominciò a inveire, al che Wang Kui si precipitò fuori brandendo una vanga.


Wugong gridava sempre piú forte, si sentiva in tutto il villaggio.


Wang Kui lo minacciò alzando la vanga: – Chiudi il becco!


– Wang Kui, bastardo che non sei altro, se oggi non mi ammazzi a palate, non sei figlio di tuo padre e tua madre.


Tremando tutto, Wang Kui puntò la vanga di taglio verso la gola di Wugong.


Wugong si calmò e si mise a ridacchiare: – Forza, bastardo, fammi fuori, altrimenti ci andrà di mezzo tutta la tua famiglia. Hai una forza poderosa e non riuscirei mai a batterti, ma tua figlia ha tre anni e posso picchiare lei, tuo figlio ha due anni, è ancora piú facile da malmenare, tua moglie porta un figlio in pancia e non è certo alla mia altezza. Perciò a meno che tu non sia pronto a rimanere tutti i giorni in casa a fare la guardia, preparati a raccogliere i loro cadaveri!


Mantenendo un’espressione feroce ma sentendosi debole, Wang Kui replicò: – Provaci!


Wugong rispose: – Perché non dovrei? Sono scapolo, ho solo una vecchia madre di ottant’anni e le ho preparato un pacchetto di veleno per topi. La mia vita contro quattro delle vostre, che dovrei temere?


– Per prima cosa distruggo te, bastardo! – ruggí Wang Kui.


– Fa’ pure, – disse Wugong. – Se mi ammazzi a colpi di vanga, la polizia ti arresterà e ti condanneranno a morte, la mia vita contro la tua.


In quel momento, arrivò mio padre. Era il contabile della brigata di produzione e godeva di un certo prestigio. Prima ammoní Wugong: – Chiudi quella boccaccia e tornatene a casa! – Poi si rivolse a Wang Kui: – Wang Kui, tu sei un brav’uomo, non dovresti immischiarti con uno come lui.


Wang Kui mise via la vanga: – Zio, non sai quanto mi fa infuriare, dice che quello non è figlio mio…


E Wugong, a voce alta: – Infatti, non è tuo, è di Fang Mingde.


Mio padre gli mollò un ceffone, strillando: – Tappati quella lurida bocca!


– Zio, tu sei un anziano, puoi picchiarmi quanto vuoi ma non puoi impedirmi di parlare –. Wugong indicò la casa di Wang Kui: – La finestra posteriore dà sul mio cortile. Per caso ho assistito a quelle losche manovre, anche se avrei preferito di no. Wang Kui, di’ a tuo figlio di uscire fuori, cosí vedranno tutti a chi assomiglia.


Mio padre gli mollò un altro ceffone. A Wugong prese a sanguinare il naso, ma alzò ancora il tono di voce: – Wang Kui, anche il bambino nella pancia di tua moglie potrebbe non essere tuo!


Wang Kui conficcò con violenza la vanga in terra, si accucciò e, coprendosi il viso con le mani, scoppiò a piangere.


3.

In seguito mio padre mi disse che quelli come Wugong sono veramente degli ossi duri, se li provochi non te ne liberi per tutta la vita. Da quel momento Wang Kui fece di tutto per evitarlo. Ma spesso Wugong si piantava in mezzo al proprio cortile e, rivolto verso la finestra posteriore del vicino, lanciava allusioni pesantemente offensive. Poi Wang Kui murò la finestra, che rimase sigillata anche durante i torridi giorni del sesto mese. Con la politica delle riforme, quando la gente fu finalmente libera di circolare all’interno del Paese, Wang Kui prese la sua famiglia e se ne andò. Non tornò piú e nessuno sapeva dove fosse andato. Nel cortile l’artemisia crebbe diventando piú alta delle gronde della casa, che stava per crollare e presto sarebbe diventata un cumulo di macerie. Questa era la potenza di Wugong!


A proposito di Fang Mingde, era entrato nel Partito nel 1948, aveva partecipato alla guerra in aiuto della Corea contro l’aggressione degli Stati Uniti, era un invalido militare di terzo livello, aveva tre figli e una decina di nipoti forti come lupi e tigri: chi avrebbe osato provocarlo? Eppure neanche lui era riuscito a piegare Wugong. Perché Wugong aveva perso ogni dignità, sapeva di essere un miserabile e di avere pessime origini di classe, sapeva che non avrebbe mai preso moglie e che aveva un aspetto rivoltante. Tutto questo, d’altro canto, era diventato il suo talismano, perché nessuno era disposto a pagare con la propria vita per quella sua esistenza ignobile.


Mio padre mi raccontò che, quando morí Fang Mingde, i figli senza dirlo a nessuno andarono a seppellirlo di notte. Volevano continuare a ricevere i diecimila yuan di sussidio per meriti militari. L’imbroglio tuttavia non sfuggí a Wugong che corse a denunciarli al governo del distretto. Loro lo odiavano a morte, ma che potevano fare contro uno cosí?


4.

La prima volta che vidi Wugong litigare con qualcuno ero in seconda elementare. Se io avevo otto anni, secondo i calcoli di mio padre Wugong doveva averne diciannove.


A quei tempi, gli inverni erano rigidi e le estati torride. Al mezzodí dei giorni d’estate, gli uomini del villaggio, giovani o vecchi che fossero, andavano a fare il bagno al fiume. Persino quell’acqua era calda e tutti si concentravano nei pochi metri all’ombra dei salici lungo la riva, dove si trovava un po’ di frescura. Una volta, Wugong saltò su all’improvviso e vomitò un torrente di improperi in direzione di un piccoletto che chiamavano Huang il Sorcio, che gli si lanciò contro per picchiarlo. Wugong era alto, il Sorcio era basso, si accapigliarono nell’acqua senza che si capisse chi aveva vinto. Il Sorcio saltò sulla riva, Wugong lo inseguí e continuarono ad azzuffarsi lí. Erano entrambi a chiappe nude e avevano il fisico già completamente sviluppato, una vista orribile.


Fuori dall’acqua il Sorcio aveva chiaramente preso il sopravvento: fece cadere a terra Wugong e poi gli riversò addosso un fiotto di piscio marrone.


Ricordo che Wugong saltò in acqua dall’alto dell’argine sollevando una colonna di schizzi. Dopo un bel po’, riemerse e imprecò: – Sorcio, la faccenda non finisce qui!


5.

Durante un altro viaggio di ritorno a casa, dal pullman vidi sulla strada un vecchio che camminava barcollando appoggiandosi a un bastone. L’autobus lo superò e, attraverso il vetro del finestrino, notai la faccia gonfia e invecchiata di Wugong. Avevo sentito dire da mio padre che gli era stato accordato lo status di «nucleo familiare dalle cinque garanzie», il che significava che avrebbe avuto cibo, abiti, alloggio, cure mediche e spese funebri pagate. In sostanza, gli veniva garantita la sussistenza per il resto dei suoi giorni. Il suo cuore, che era stato a marinare nell’odio e nell’umiliazione per metà della sua esistenza, ora avrebbe potuto placarsi, no? Ma non era cosí: mentre il nostro pullman lo superava, lui sputò un bolo di catarro che atterrò sul tetto. Sono sicuro che non si fosse accorto che in uno dei sedili c’ero io. L’autista, furioso, voleva scendere e conciarlo per le feste. Ma io gli dissi: – Presto, andiamocene, non provocarlo, è uno del nostro villaggio che è meglio non stuzzicare.


Ripensai alle parole che mia madre mi aveva detto in confidenza: – Wugong è un farabutto. Se gli fai uno sgarbo, te la farà pagare per tutta la vita.


Le aveva raccontato che, il tal giorno del tale mese del tale anno, aveva avvelenato con un mantou intriso di pesticida un maiale di oltre trecento jin allevato dal figlio maggiore di Fang Mingde. Una certa notte di un certo mese di un certo anno, con un falcetto aveva tagliato a metà i bellissimi fusti di granturco che riempivano un mu di terra di Huang il Sorcio. Un’altra notte aveva preso fuoco un covone di paglia nel cortile di Wang Dengke, le fiamme erano arrivate a lambire il cielo: anche quella era stata opera di Wugong. Per dieci anni di fila durante la notte di Capodanno, nei due villaggi vicini al nostro, erano bruciati i covoni, sempre grazie a Wugong. Le chiesi: – Possibile che anche negli altri villaggi ci fosse qualcuno che l’aveva offeso? – Mia madre rispose: – Con quel carattere bizzarro, poteva offendersi persino se gli starnutivi davanti. Sapeva anche fare i sortilegi: ti ricordi quando dieci anni fa Gu Mingyi, il calzolaio, si era imbattuto negli spettri all’imbocco del ponte ed era uscito di testa? Be’, pure in quel caso c’era di mezzo Wugong –. Sospirò: – Se continua cosí, uno di questi giorni lo tolgono di mezzo –. Ma i fatti hanno dimostrato che non solo Wugong è ancora vivo e vegeto, ma gli hanno anche attribuito le cinque garanzie. Chissà quanti incendi avrà appiccato e quante malefatte avrà commesso, eppure nessuno l’ha mai acciuffato, questo è il vero prodigio. Mia madre disse: – Di sicuro sarà punito per tutte le nefandezze che ha combinato, tu però devi mantenere il segreto, perché le ha confessate solo a me, non lo sa neanche tuo padre.


Penso di aver capito la psicologia di Wugong, spero però che, d’ora in avanti, smetta di compiere cattive azioni. Fra i suoi nemici, alcuni sono morti, altri sono andati via, altri ancora sono malati. Lui è rimasto a ridere per ultimo: un debole feroce che si vendica persino per un’occhiata di traverso.