mercoledì 30 gennaio 2019

La libertà
Gaber
Gaber compirebbe 80 anni "

[...] Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come l'uomo più evoluto
Che si innalza con la propria intelligenza
E che sfida la natura
Con la forza incontrastata della scienza
Con addosso l'entusiasmo
Di spaziare senza limiti nel cosmo
E convinto che la forza del pensiero
Sia la sola libertà.[...]
Take a walk on a wild side
LOU REED


martedì 29 gennaio 2019


LA TORRE NERA 
(The Dark Tower, 2004)
Stephen King

Colui che parla senza un orecchio attento è muto.
Perciò, Fedele Lettore, quest'ultimo libro del
ciclo della Torre Nera è dedicato a te.
Lunghi giorni e piacevoli notti.

«Non senti? Ma se rumoreggiava il mondo! Clangore
Crescente come di campana. Nomi nelle orecchie
Di tutti gli avventurieri persi, miei pari -
Come l'uno era forte, l'altro ardito,
E un altro fortunato, ma tutti persi, perduti!
Un solo rintocco funebre per anni di lutti.

Erano laggiù, allineati ai piedi dei pendii, venuti
A vedermi per l'ultima volta, cornice vivente
All'immagine finale! In una cortina di fiamme
Li vidi e tutti riconobbi. Ciononostante intrepido
Mi portai alle labbra il corno da guerra,
E soffiai. 'Childe Roland alla Torre Nera giunse.'»
ROBERT BROWNING
Childe Roland alla Torre Nera giunse

Sono venuto al mondo
Con una sei-colpi in mano
Dietro una pistola
Darò l'ultima battaglia.
BAD COMPANY

Cosa sono diventato?
Mio dolcissimo amico
Tutti coloro che conosco
Se ne vanno alla fine
Puoi prendertelo tutto
Il mio impero di sudiciume
Io ti deluderò
Io ti tarò male
TRENT REZNOR


Riproduzione
Rivelazione
Redenzione
Ripresa

PARTE PRIMA
IL PICCOLO RE ROSSO

DAN-TETE

1
Callahan e i vampiri

1

Père Donald Callahan era stato un tempo il sacerdote cattolico di un borgo, Salem's Lot si chiamava, che non esisteva più su nessuna carta geografica. Gli era indifferente. Per lui concetti come «realtà» avevano perso ogni significato.
Questo ex prete aveva ora nel palmo un oggetto pagano, una tartarughina d'avorio. Le era saltato via un pezzettino del becco e aveva un graffio a forma di punto interrogativo sulla schiena, ma per il resto era un piccolo gioiello.
Bello e potente. Ne avvertiva la forza nella mano come energia elettrica.
«Quant'è bella», bisbigliò al ragazzo che gli era accanto. «È la Tartaruga Maturin? È lei, vero?»
Il ragazzo era Jake Chambers e aveva compiuto un lungo percorso circolare per ritrovarsi quasi al punto da cui era partito, lì a Manhattan. «Non lo so», rispose. «Lei la chiama sköldpadda, e potrebbe aiutarci, ma non può uccidere i masnadieri che ci stanno aspettando là dentro.» Indicò con un cenno della testa il Dixie Pig, domandandosi se, quando ricorreva a quel generico lei si stesse riferendo a Susannah o Mia. In passato avrebbe detto che non aveva importanza visto com'erano strettamente interconnesse tra loro le due donne. Ora però riteneva che non fosse più così, o che presto non lo sarebbe più stato.
«Lo farai?» chiese Jake al Père, intendendo ti batterai? Re¬sisterai? Ucciderai?
«Oh sì», rispose Callahan con calma. Ripose la tartarughina d'avorio con i suoi occhi saggi e il dorso graffiato nel taschino, dove teneva le munizioni di riserva per la pistola, poi tastò una volta per assicurarsi che fosse al sicuro. «Sparerò finché avrò proiettili e se resterò senza proiettili prima che mi uccidano, li pesterò con... il calcio della pistola.»
L'esitazione fu così lieve che Jake non se ne avvide. Ma in quella pausa, a Père Callahan aveva parlato il Bianco. Era una forza che conosceva da tempo, già dall'infanzia, sebbene ci fossero stati lungo la via anni di fede vacillante, anni in cui la sua comprensione di quella forza elementare si era dappri¬ma affievolita e infine dissolta. Ma quei giorni non c'erano più, il Bianco era di nuovo con lui, e Callahan disse grazie a Dio.
Jake stava annuendo, diceva qualcosa che Callahan udì appena. E ciò di cui Jake parlava non aveva importanza. Ciò che contava, invece, era quello che diceva l'altra voce, la vo¬ce di qualcosa
(Gan)
forse troppo grande perché lo si potesse chiamare Dio.
Il ragazzo deve andare avanti, gli diceva la voce. Comunque sia, comunque si risolvano le cose qui, il ragazzo deve andare avanti. La tua parte nella storia è quasi conclusa. La sua no.
Passarono sotto un cartello su un palo cromato (CHIUSO PER FUNZIONE PRIVATA), con Oy, l'amico speciale di Jake, che trotterellava tra loro, con la testa alzata e il muso inghirlan¬dato dal suo solito sorriso dentuto. In cima ai gradini, Jake affondò la mano nella sacca che Susannah-Mio aveva portato da quest'altra parte da Calla Bryn Sturgis e afferrò due dei piatti, gli Oriza. Li batté delicatamente uno contro l'altro, fe¬ce un cenno d'assenso al sordo rintocco, quindi disse: «Vedia¬mo la tua».
Callahan sollevò la Ruger che Jake aveva preso da Calla New York e che ora aveva portato indietro; la vita è una ruo¬ta e noi tutti diciamo grazie. Per un momento il Père si acco¬stò la canna della Ruger alla guancia destra come un duellan¬te. Poi si toccò il taschino, che era gonfio delle cartucce e della tartaruga. La sköldpadda.
Jake annuì. «Quando saremo dentro, resteremo insieme. Sempre insieme, con Oy tra di noi. Al tre. E quando comin¬ciamo, non smettiamo più.»
«Non smettiamo più.»
«Giusto. Sei pronto?»
«Sì. L'amore di Dio è con te, ragazzo.»
«E con te, Père. Uno... due... tre.» Jake aprì la porta e in¬sieme entrarono nella luce fioca e nell'odore dolciastro e pe¬netrante delle carni arrostite.

2

Jake andò a quella che era sicuro sarebbe stata la sua mor¬te ricordando due cose che gli aveva detto Roland Deschain, il suo vero padre. Le battaglie che durano cinque minuti generano leggende che vivono mille anni. E: Non è indispensabile che tu muoia felice quando verrà il tuo giorno, ma devi morire soddisfat¬to, perché hai vissuto la tua vita dall'inizio alla fine e sempre si ser¬ve il ka.
Jake Chambers contemplò l'interno del Dixie Pig con una mente soddisfatta.

3

E anche cristallina. I suoi sensi erano così acuiti che non solo sentiva l'odore dell'arrosto ma anche l'aroma del rosma¬rino con cui la carne era stata strofinata; non udiva solo il rit¬mo calmo del proprio respiro, ma anche il mormorio oscillan¬te del sangue che saliva verso il cervello da un lato del collo e discendeva verso il cuore dall'altro.
Ricordava anche che Roland gli aveva detto che persino la battaglia più breve, dal primo colpo all'ultimo corpo stra¬mazzato, sembrava lunga a coloro che vi prendevano parte. Il tempo diventava elastico; si estendeva fino a scomparire. Jake aveva annuito come se avesse compreso, ma così non era.
Comprendeva ora.
Il suo primo pensiero fu che ce n'erano troppi, di gran lun¬ga troppi. Calcolò il loro numero intorno al centinaio, per la maggior parte «uomini bassi», come li aveva definiti Père Callahan (c'erano anche donne basse, ma Jake era sicuro che il principio fosse il medesimo). Sparsi tra loro - tutti meno in carne del folken basso e alcuni aguzzi come lame di fioretto, con la carnagione cinerea e il corpo avvolto in diafane aure azzurre - c'erano quelli che dovevano essere vampiri.
Oy era ai piedi di Jake, con un'espressione seria seria sul musetto volpino e un guaito annidato in gola.
L'odore della carne che cuoceva non era di maiale.

4

Tre metri fra noi in qualsiasi momento, tre metri di distanza, Père, così Jake aveva detto in strada e, mentre si avvicinava¬no alla postazione del maître, Callahan svariò alla destra di Jake aprendo tra loro la distanza richiesta.
Jake gli aveva anche ordinato di urlare più forte e più a lungo che poteva e Callahan stava giusto prendendo fiato per cominciare, quando dentro di lui risuonò di nuovo la voce del Bianco. Una sola parola, ma fu sufficiente.
Sköldpadda.
Callahan aveva ancora la Ruger contro la guancia destra. Ora fece scivolare la sinistra nel taschino. La sua percezione della scena non era così acutizzata come quella del suo giova¬ne compagno, ma era pur molto ciò che vedeva: i flambeaux elettrici alle pareti, che emettevano luce rossastra, le candele in contenitori di vetro di un brillante arancione-Halloween, il nitore dei tovaglioli. Alla sinistra della sala da pranzo c'era un arazzo raffigurante cavalieri e dame seduti a un lungo ta¬volo da banchetti. C'era una sensazione in quell'immagine - Callahan non era del tutto certo di che cosa la provocasse, i vari indizi e stimoli rimanevano sottintesi - di persone appe¬na riprese da un breve eccitamento: un principio d'incendio in cucina, per esempio, o un incidente automobilistico in strada.
O una donna che ha partorito, pensò Callahan mentre chiudeva la mano sulla tartaruga. Un parto viene sempre be¬ne come interludio tra l'antipasto e la prima portata.
«Ecco che giungono i ka-mai di Gilead!» gridò una voce vibrante di nervosismo. Non umana, di questo Callahan era quasi certo. Era troppo ronzante perché fosse umana. Vide un mostruoso ibrido in parte uomo e in parte uccello fermo in fondo alla stanza. Indossava un paio di jeans e una semplice camicia bianca, ma la testa che usciva da quel colletto era or¬nata da lisce piume color giallo scuro. I suoi occhi sembrava¬no gocce di catrame liquido.
«Prendeteli!» comandò quell'essere orribilmente ridicolo, liberando un oggetto da sotto un tovagliolo. Era un'arma di qualche genere. Una pistola, pensò Callahan, ma di quelle che si vedevano in Star Trek. Come le chiamavano? Phaser? Storditori?
Non aveva importanza. Lui aveva un'arma assai migliore e voleva che tutti la vedessero. Fece volar via dal tavolo più vi¬cino i coperti e il contenitore di vetro con la candela, poi fu la volta della tovaglia come un numero di prestidigitazione. L'ultima cosa che voleva era inciampare in un ammasso di li¬no nel momento fatidico. Poi, con un'agilità che non si sa¬rebbe nemmeno sognato solo una settimana prima, montò su una sedia e da lì sul tavolo. Finalmente alzò la sköldpadda so¬stenendone la base piatta con le dita e la mostrò a tutti i pre¬senti.
Potrei cantare qualcosa, pensò. Magari Moonlight Becomes You oppure I Left My Heart in San Francisco.
A quel punto si trovavano dentro il Dixie Pig da precisa¬mente trentaquattro secondi.

5

I professori di liceo alle prese con un gruppo consistente di studenti, per esempio in un'aula magna, vi diranno che gli adolescenti, anche se freschi di doccia, emanano l'odore degli ormoni che il loro corpo fabbrica con tanta alacrità. Un odo¬re simile emette un qualsiasi gruppo di persone sotto stress e Jake, con tutti i sensi elevati al massimo della percezione, lo sentì. Quando oltrepassarono la postazione del maître (quella che a suo padre piaceva chiamare la Centrale dell'Estorsio¬ne), l'odore dei commensali del Dixie Pig era ancora debole, era l'odore di persone che tornano alla normalità dopo una baruffa. Ma quando la creatura-uccello gridò, Jake l'avvertì più forte. Era un sentore metallico, abbastanza simile a quello del sangue a scuoterlo. Sì, vide Titti spostare il tovagliolo sul tavolo; sì, vide l'arma che c'era sotto; sì, capì che Callahan, in piedi sul tavolo, era un bersaglio facile. Quel pericolo però lo preoccupava di meno di quello strumento di mobilitazione che era la bocca di Titti. Stava portando all'indietro il brac¬cio destro, preparandosi a lanciare il primo dei suoi dicianno¬ve piatti e decapitare il proprietario di quella bocca, quando Callahan alzò la tartaruga.
Non succederà niente, non qui dentro, pensò Jake, ma ancor prima che l'idea si fosse articolata del tutto nella sua men¬te, vide che in effetti funzionava. Lo capì dal loro odore. La componente dell'aggressività non c'era più. E i pochi che avevano cominciato a levarsi dai loro posti - buchi rossi aper¬ti nella fronte degli uomini bassi e aure azzurre più intense e compatte intorno ai vampiri - si risedettero, e lo fecero bruscamente, come se avessero perso all'improvviso il controllo dei muscoli.
«Prendeteli, sono quelli che Sayre...» Poi Titti smise di par¬lare. La sua mano sinistra, se si poteva definire mano quell'or¬ribile artiglio, toccò il calcio della sua futuristica pistola e sci¬volò via. La luminosità dei suoi occhi si offuscò. «Sono quelli che Sayre... S-S-Sayre...» Un'altra pausa. Poi l'essere-uccello disse: «Oh sai, cos'è quel bell'oggetto che tieni nella mano?»
«Sai cos'è», gli rispose Callahan. Jake si stava muovendo e Callahan, ricordando bene ciò che il giovane pistolero gli aveva detto in strada - ogni volta che guardo alla mia destra, fai che veda sempre la tua faccia - ridiscese dal tavolo per spostarsi con lui, sempre tenendo in alto la tartaruga. Quasi sentiva il sapore del silenzio nel locale, ma...
C'era un'altra stanza. Risa sguaiate e schiamazzi da gozzo¬viglia, una festa di qualche genere, a giudicare dal chiasso, e molto vicina. A sinistra. Oltre l'arazzo con i cavalieri e le loro dame a pranzo. Là dietro sta succedendo qualcosa, rifletté Callahan, e probabilmente non una riunione di filantropi.
Sentì il respiro veloce e sommesso di Oy attraverso il suo sorriso perpetuo, un motorino perfetto. E qualcos'altro anco¬ra. Un tramestio secco, frammisto a un rapido ticchettio, una combinazione che aggredì i nervi di Callahan e gli fece gelare la pelle. C'era qualcosa sotto i tavoli.
Fu Oy a vedere per primo gli insetti e si bloccò come un cane da punta, con una zampa sollevata da terra e il muso proteso in avanti. Per un momento di lui si mosse soltanto la pelle vellutata e scura del muso, dapprima raggricciandosi all'indietro a rivelare gli aghi serrati dei denti, poi rilassandosi a nasconderli, quindi tirandosi di nuovo.
Gli insetti vennero avanti. La Tartaruga Maturin nella mano del Père non aveva su di loro alcun effetto. Un grasso¬ne che indossava uno smoking con i risvolti a scacchi si rivol¬se all'essere-uccello in un tono timoroso, quasi interrogativo: «Non dovevano venire più avanti di così, Meiman, né andar¬sene. Ci avevano detto...»
Oy partì con un ringhio tra i denti stretti. Era un verso de¬cisamente estraneo al suo repertorio, che ricordò a Callahan la nuvoletta di un fumetto: Arrrrrr!
«No!» gridò Jake allarmato. «No, Oy!»
A quell'intimazione, gli schiamazzi e le risa dietro l'arazzo cessarono bruscamente, come se quel folken si fosse improv¬visamente reso conto che qualcosa era cambiato nell'altra stanza.
Oy non badò alla protesta di Jake. Azzannò tre degli inset¬ti in rapida successione, facendo crepitare in quel silenzio re¬pentino il rumore macabro dei loro carapaci che si spezzava¬no. Non tentò di mangiarli, limitandosi a lanciare nell'aria i cadaveri di ciascuno, grandi come topi, allentando la contra¬zione delle mandibole con una frustata del collo.
E gli altri si ritirarono sotto i tavoli.
Ha l'istinto, pensò Callahan. Forse molto tempo fa lo ave¬vano tutti i bimboli. Era predisposto come certi terrier sono predisposti a...
Un grido roco simile a uno starnuto da dietro l'arazzo in¬terruppe quei pensieri: «Um!» proruppe una voce e subito do¬po una seconda: «Ka-um!»
Callahan provò l'assurdo impulso di gridare Salute!
Prima che potesse pronunciare quella parola o un'altra, al¬l'improvviso la voce di Roland gli riempì la testa.

6

«Jake, va'.»
Il ragazzo si girò verso Père Callahan, incredulo. Cammi¬nava con le braccia incrociate davanti a sé, pronto a lanciare gli Oriza al primo essere basso che si fosse mosso, maschio o femmina. Oy era di nuovo ai suoi piedi, sebbene girasse inces¬santemente la testa di qua e di là e i suoi occhi brillassero dal desiderio di nuove prede.
«Andiamo insieme», rispose. «Hanno paura, Père! E sia¬mo vicini! L'hanno portata per di qui... per questa stanza... e poi attraverso la cucina...»
Callahan non gli prestò attenzione. Sempre tenendo in al¬to la tartarughina (come tosse una lanterna in una grotta profonda), si era girato verso l'arazzo. Il silenzio là dietro era assai più terribile delle grida e delle risa convulse di prima. Era come un'arma spianata. E il ragazzo si era fermato.
«Vai finché puoi», insisté Callahan cercando di mante¬nersi calmo. «Raggiungila se puoi. Questo è l'ordine del tuo dinh. Tale è anche la volontà del Bianco.»
«Ma tu non...»
«Vai, Jake!»
Le donne e gli uomini bassi del Dixie Pig, incantati o no dalla sköldpadda, reagirono con un mormorio di disagio all'e¬cheggiare di quel grido ed era giusto che fosse così, perché non era la voce di Callahan quella che usciva dalla bocca del Père.
«Hai quest'unica occasione e devi prenderla! Trovala! Come tuo dinh, così ti ordino!»
Jake sgranò gli occhi nell'udire la voce di Roland scaturire dalla gola di Callahan. Rimase a bocca aperta. Si guardò in¬torno stordito.
Nei secondi precedenti al momento in cui l'arazzo alla lo¬ro sinistra fu squarciato, Callahan scorse la macabra realtà ce¬lata nell'apparenza, vide quello che l'occhio disattento avreb¬be mancato a un primo sguardo: l'arrosto che era il piatto principale del banchetto aveva forma umana; i cavalieri e le loro dame mangiavano carni umane e bevevano sangue uma¬no. La scena rappresentata dall'arazzo era quella di una comu¬nione da cannibali.
Poi i vegliardi abbandonarono il proprio banchetto e strapparono l'osceno arazzo e piombarono nella sala lancian¬do strilli dalle fauci deformate e costrette dalle grandi zanne a restare costantemente aperte. I loro occhi erano neri come la cecità; la pelle di guance e fronte, persino del dorso delle ma¬ni, era deturpata dall'affiorare di denti matti. Come i vampiri della sala da pranzo, erano anch'essi circondati da un'aura, ma la loro era di un viola venefico così scuro da rasentare il nero. Dagli angoli di occhi e bocche colava una sorta di pus. Farfugliavano e alcuni di loro ridevano, dando l'impressione non già di produrre suoni, bensì di strapparli all'aria come di¬laniando cose vive.
E Callahan li conosceva. Naturale. Non era stato forse uno di loro a mostrargli la via? Lì c'erano i vampiri veri, il Tipo Uno, conservati come un segreto e ora lanciati sugli intrusi.
La tartaruga che teneva nella mano non li rallentò mini¬mamente.
Callahan vide Jake che, di fronte a quei mostri, esitava inorridito, pallido e con gli occhi lucidi e strabuzzati.
Senza sapere che cosa stesse per uscire dalla sua bocca prima di udirlo con le orecchie, Callahan urlò: «Uccideranno pri¬ma Oy! Lo uccideranno davanti a te e berranno il suo sangue!»
Sentendo il suo nome, Oy abbaiò. Il latrato parve rianima¬re gli occhi di Jake, ma Callahan non ebbe tempo di occupar¬si della sorte del ragazzo.
La tartaruga non li ferma, ma almeno tiene a bada gli altri. Le pallottole non li possono fermare, però...
Con un sensazione di déjà vu - e perché no, aveva già vis¬suto tutto questo nella casa di un ragazzo di nome Mark Petrie - Callahan infilò la mano sotto la camicia ed estrasse la croce che portava al collo. Tintinnò sul calcio della Ruger prima di rimanere sospesa nell'aria sotto la pistola. Era illumi¬nata di una brillante luce bianco-azzurra. I due esseri decrepi¬ti in testa al gruppo stavano per afferrarlo, ma a un tratto ar¬retrarono strillando di dolore. Callahan vide la loro pelle sfrigolare e cominciare a liquefarsi. Un fenomeno che lo riempì di selvaggia felicità.
«Indietro!» comandò. «Ve lo ordina il potere di Dio! Ve lo ordina il potere di Cristo! Ve lo ordina il ka del Medio-Mon¬do! Ve lo ordina il potere del Bianco!»
Uno di loro si fece sotto lo stesso, uno scheletro deforme in un vecchio abito da sera ammuffito. Al collo portava un'o¬norificenza antica... la Croce di Malta forse? Allungò la mano dalle lunghe unghie cercando di strappare il crocifisso dalle dita di Callahan, il quale lo abbassò all'ultimo istante, cosic¬ché l'artiglio del vampiro sfrecciò nell'aria vuota due centimetri sopra di esso. Allora, senza pensare, Callahan si protese e affondò l'estremità della croce nella pergamena ingiallita che rivestiva la fronte della cosa. Il crocifisso d'oro penetrò come uno spiedo rovente in un panetto di burro. La cosa nello smoking color ruggine lanciò un verso liquido di sgomento e dolore e barcollò all'indietro. Callahan estrasse la croce. Per un momento, prima che il vecchio mostro si portasse le zam¬pe alla fronte, Callahan vide lo squarcio provocato dalla sua croce. Poi fra le dita scheletriche cominciò a fluire una mate¬ria densa e giallastra. Le ginocchia della creatura cedettero. Stramazzò al suolo tra due tavoli. I suoi compagni si ritrassero urtando la loro indignazione. La faccia dell'essere si andava già disfacendo sotto le sue mani deformi. L'aura che lo circon¬dava si dissolse come la fiamma di una candela e di esso non restò che una pozza di materia gialla, che fluiva liquefatta co¬me vomito dalle maniche e dai calzoni.
Callahan avanzò deciso verso gli altri. Non aveva più pau¬ra. Era scomparsa anche l'ombra di vergogna che lo aveva perseguitato da quando, un giorno lontano, Barlow il vampi¬ro gli aveva preso la croce e gliel'aveva spezzata.
Finalmente libero, pensò. Finalmente libero, grande Dio onnipotente, sono finalmente libero. Poi: Credo che questa sia redenzione. Ed è bello, vero? Molto bello.
«'Uttala via!» gridò uno di loro, proteggendosi il volto con le mani. «Insipido fronzolo del Dio-'ecora, 'uttala via se ne hai il fegato!»
Insipido fronzolo del Dio-pecora, certo. Allora perché siete così atterriti?
Di fronte a Barlow non aveva osato rispondere a quella provocazione e ne aveva pagato un prezzo altissimo. Al Dixie Pig, Callahan rivolse la croce alla cosa che aveva avuto l'ardi¬re di sfidarlo.
«Non metterò in gioco la mia fede per la brutta faccia di un essere come te, sai», disse e le sue parole risuonarono chiare nella sala. Aveva costretto i vecchi a retrocedere fin quasi all'arco da sotto il quale erano emersi. Grossi tumori scuri erano comparsi sulle mani e il volto di quelli in prima linea, escrescenze che divoravano come un acido la carta della loro vecchia pelle. «E non getterei mai via una vecchia amica co¬me questa in ogni caso. Ma metterla via? Aye, se vi fa piace¬re.» E lasciò ricadere la croce nella camicia.
Subito alcuni dei vampiri si lanciarono in avanti, torcen¬do le bocche zeppe di denti in una smorfia che poteva essere un sogghigno. Callahan protese le mani verso di loro. Le dita (e la canna della Ruger) si accesero come fossero state intinte in un fuoco blu. Si erano riempiti di luce anche gli occhi del¬la tartaruga; il suo guscio brillava.
«Lontani da me!» tuonò Callahan. «Il potere di Dio e del Bianco ve lo comanda!»

7

Quando il terribile sciamano si girò verso gli Avi, Meiman dei taheen sentì che l'affascinante, orribile malia della tartaru¬ga perdeva una parte del suo effetto. Vide che il ragazzo non c'era più e questo lo riempì di sgomento, tuttavia forse non tutto era perduto, visto che era andato avanti, penetrando più a fondo nella scena invece che ritirarsi. Ma se avesse tro¬vato la porta per Fedic e se ne fosse servito, Meiman si sareb¬be potuto trovare in un gran brutto guaio. Perché Sayre ri¬spondeva a Walter o'Dim e Walter rispondeva solo al Re Rosso in persona.
Pazienza. Una cosa per volta. Prima di tutto bisognava neutralizzare lo sciamano. Scatenargli addosso gli Avi. Poi il ragazzo: magari gridargli che il suo amico ci aveva ripensato e lo voleva indietro, uno stratagemma che avrebbe potuto fun¬zionare...
Meiman (l'uomo canarino per Mia, Titti per Jake) avanzò di soppiatto e afferrò con una mano Andrew, il grassone con lo smoking dai risvolti a scacchi, e la sua ancor più grassa compagna con l'altra. Indicò la schiena girata di Callahan.
Tirana scosse con forza la testa. Meiman aprì il becco e le sibilò qualcosa. Lei si chinò impaurita. Detta Walker aveva già infilato le dita nella maschera di Tirana che ora le pende¬va a brandelli dal collo e dal mento. Al centro della fronte una ferita rossa si apriva e chiudeva come la branchia di un pesce in agonia.
Meiman si rivolse ad Andrew, staccandosi da lui per indi¬care lo sciamano, quindi passandosi l'artiglio che aveva per mano sulla gola pennuta in un gesto di truce eloquenza. An¬drew annuì e respinse le mani della moglie che cercavano di trattenerlo. La maschera umana che indossava l'uomo basso nel suo pacchiano smoking era abbastanza naturale da assu¬mere l'espressione tipica di chi fa appello a tutto il proprio coraggio. Dopodiché spiccò il balzo con un verso strozzato e afferrò Callahan per il collo, non con le mani, bensì con i grassi avambracci. Contemporaneamente la sua compagna si lanciò in avanti con un grido e fece volar via la tartarughina d'avorio dalla mano del Père. La sköldpadda rotolò sul tappe¬to rosso, rimbalzò su uno dei tavoli e lì (come una certa barchetta di carta che qualcuno di voi forse ricorda) uscì per sempre da questa storia.
Gli Avi ancora non intervenivano, né si muovevano i vampiri del Tipo Tre che cenavano nella sala comune, ma i tizi bassi sentirono il momento di debolezza e si fecero sotto, dapprima titubanti, poi con crescente sicurezza. Circondaro¬no Callahan, sostarono per un momento e infine gli furono addosso tutti assieme.
«Nel nome di Dio, lasciatemi andare!» proruppe Cal¬lahan, ma naturalmente non servì. A differenza dei vampiri, gli esseri con la ferita rossa sulla fronte non reagivano al no¬me della divinità invocata da Callahan. La sola cosa che po¬teva fare era sperare che Jake non si fermasse, o peggio ancora che non tornasse indietro; sperare che lui e Oy proseguissero come il vento fino a Susannah. Che la salvassero, se poteva¬no. Che morissero con lei, altrimenti. E che uccidessero il neonato, se ne avessero avuta l'occasione. Che Dio lo perdo¬nasse, ma si era sbagliato su quel conto. Avrebbero dovuto spegnere quella vita già nel Calla, quando ne avevano avuto la possibilità.
Qualcosa gli penetrò nel collo. Ora i vampiri avrebbero attaccato, nonostante la croce. Alla prima zaffata del suo san¬gue, lo avrebbero aggredito da quegli squali che erano. Dio aiutami, dammi forza, pensò e la sentì sopraggiungere. Rotolò sulla sinistra mentre cento mani gli laceravano la camicia. Per un momento la sua mano destra fu libera e in essa c'era ancora la Ruger. La ruotò verso il volto sudato e congestiona¬to dall'odio del grassone di nome Andrew e posò la canna della pistola (acquistata per protezione personale in un lontanissimo passato da quel dirigente di rete televisiva un po' pa¬ranoico che era stato il padre di Jake) sulla morbida ferita ros¬sa al centro della fronte.
«No-ooo, non t'azzardare!» sbraitò Tirana e, quando si allungò per cercare di strappargli la pistola, il vestito che indos¬sava infine si strappò, rovesciando fuori l'enorme seno. Che era coperto di dure setole.
Callahan premette il grilletto. Nella sala da pranzo la detonazione della Ruger fu assordante. La testa di Andrew esplose come una zucca piena di sangue, inondando le creatu¬re che si accalcavano dietro di lui. Ci furono grida di orrore e incredulità. Non doveva andare così, vero? ebbe tempo di pensare Callahan. E poi: Basta questo a iscrivermi al club? Ora sono un pistolero?
Forse no. Ma c'era l'uomo-uccello, proprio davanti a lui tra due dei tavoli, che apriva e chiudeva il becco sopra la gola che gli pulsava di eccitazione.
Sorridendo, sollevandosi su un gomito mentre il sangue gli usciva a fiotti dalla gola squarciata sul tappeto, Callahan puntò la Ruger di Jake.
«No!» gridò Meiman portandosi le mani deformi al volto in un gesto di protezione assolutamente inutile. «No, non puoi...»
Posso, posso, pensò Callahan con gioia infantile e fece fuoco di nuovo. Meiman indietreggiò barcollando, prima due passi, quindi un terzo. Urtò un tavolo e crollò su di esso. So¬pra di lui, librate nell'aria, dondolarono pigramente tre piume gialle.
Callahan udì urla selvagge, non di collera o di paura, ma di fame. Il profumo del sangue era finalmente penetrato nelle smunte narici dei vecchi e ora nulla avrebbe potuto fermarli. Così, se non voleva finire come loro...
Père Callahan, colui che era stato padre Callahan di Salem's Lot, girò contro di sé la canna della Ruger. Non perse tempo a cercare l'eternità nel buio della canna e senza indu¬gio se la spinse sotto la mascella.
«Hile, Roland!» disse e sentì
(l'onda sono sollevati dall'onda)
di essere udito. «Hile, pistolero!»
Il suo dito si contrasse sul grilletto nel momento in cui i mostri centenari gli piombavano addosso. Fu sepolto dal tanfo del loro alito freddo ed esangue, ma non ne fu turbato. Mai si era sentito tanto forte. Di tutti gli anni vissuti, i più fe¬lici erano stati quando aveva viaggiato da semplice vagabon¬do, non più sacerdote ma solo Callahan delle Strade, e sentì che presto sarebbe stato libero di riprendere quella vita e va¬gabondare a piacimento, avendo compiuto il suo dovere, e fu una sensazione appagante.
«Che tu possa trovare la tua Torre, Roland, ed entrarvi, e che tu possa salire fino in cima!»
I denti dei suoi vecchi nemici, quegli antichi fratelli e so¬relle di una cosa che si era fatta chiamare Kurt Barlow, affon¬darono in lui come pungiglioni. Callahan non sentì niente. Sorrideva mentre premeva il grilletto e fuggiva da loro per sempre.

2
Sollevati dall'onda

1

Sulla strada sterrata che li aveva portati all'abitazione dello scrittore nella circoscrizione di Bridgton, Eddie e Roland si imbatterono in un pick-up arancione sulle cui fiancate campeggiava la scritta CENTRAL MAINE POWER MAINTENANCE. Poco distante, un individuo in casco protettivo giallo e giub¬botto catarifrangente arancione tagliava i rami bassi che po¬tevano costituire pericolo per le linee elettriche. E non è che Eddie avvertisse qualcosa in quel momento, un'avvisaglia di energia? Forse il precursore dell'onda che scorreva lungo il Sentiero del Vettore venendo verso di loro? Così avrebbe ri-flettuto in seguito, ma lì per lì non seppe spiegarselo. Dio sa quanto fosse già in uno stato d'animo bizzarro e ne aveva ben donde: a quanti capita di fare la conoscenza del proprio crea¬tore? Be'... Stephen King non aveva propriamente creato Eddie Dean, un giovane la cui Co-Op City si trovava a Brooklyn e non nel Bronx, quanto meno ancora non lo ave¬va fatto, non nell'anno 1977, ma Eddie era certo che a tem¬po debito sarebbe accaduto. Altrimenti come si sarebbe po¬tuto trovare lì?
Eddie procedette oltre il veicolo della manutenzione, smontò e chiese all'uomo sudato con la sega a motore come arrivare in Turtleback Lane, in un posto chiamato Lovell. L'uomo della Central Maine Power lo accontentò con simpa¬tica cortesia, poi aggiunse: «Se davvero volete arrivare a Lo¬vell oggi, vi conviene prendere la Route 93. Quella che alcu¬ni chiamano la Strada Grande».
Alzò la mano e scosse la festa come per rintuzzare un'obie¬zione, sebbene Eddie non avesse più aperto bocca dopo aver chiesto le indicazioni che gli servivano.
«È sette miglia più lunga, lo so, ed è tutta sconnessa, ma oggi non si può passare per East Stoneham. Sono arrivati sbirri da tutte le parti a chiuderla. Gli statali, i locali, perfino gli uomini dello sceriffo della contea di Oxford.»
«Pazzesco», commentò Eddie, rifugiandosi nella reazione che gli sembrò più prudente.
L'addetto alla manutenzione annuì incurvando la bocca. «Nessuno sa bene che cosa sia successo, ma ci sono state spa¬ratorie, forse con armi automatiche, ed esplosioni.» Batté la mano sul walkie-talkie sporco di segatura che portava aggan¬ciato alla cintura. «Oggi pomeriggio ho perfino sentito due volte parlare di ti. E non mi sorprende.»
Eddie non aveva idea di che cosa fosse «ti», ma sapeva che Roland aveva fretta. Percepiva nella testa l'impazienza del pi¬stolero; quasi gli pareva di vedere il tipico roteare del dito, il gesto con cui Roland indicava: muoversi, muoversi.
«Sto parlando di terrorismo», precisò l'addetto alla ma¬nutenzione, quindi abbassò la voce. «La gente crede che por¬cate del genere qui in America non possano succedere, ma se vuole dar retta a me, si sbagliano. Se non è oggi, prima o poi ci toccherà. Qualcuno farà saltare in aria la Statua della Libertà o l'Empire State Building, ecco come la penso io, quel¬li di destra, quelli di sinistra, o quei dannati arabi. Troppi ba¬lordi in giro.»
Eddie, che aveva conoscenza saltuaria di un'ulteriore deci¬na d'anni, annuì. «Probabilmente ha ragione. In ogni caso grazie delle informazioni.»
«Ho solo cercato di farvi risparmiare un po' di tempo.» E, mentre Eddie apriva la portiera della Ford di John Cullum: «Ha avuto qualche problema, mister? La vedo un po' acciac¬cato. E zoppica, anche».
Sì, qualche problema Eddie lo aveva avuto: aveva ricevu¬to un colpo di striscio a un braccio ed era stato preso in pie¬no al polpaccio destro. Nessuna delle due ferite era grave e nel precipitare degli eventi, se ne era quasi scordato. Ora gli facevano di nuovo un male della malora. Perché mai aveva rifiutato il flacone di Percocet che gli aveva offerto Aaron Deepneau?
«Già», rispose, «per questo vado a Lovell. Mi ha morsica¬to un cane. Vado a fare due chiacchiere con il suo padrone.» Una storia bizzarra, un po' fiacca quanto a trama, ma non era uno scrittore. Quello era il mestiere di King. Bastò comunque a dargli il tempo di riparare dietro il volante della Ford di Cullum prima che l'uomo della manutenzione potesse rivol¬gergli altre domande e per questo Eddie la giudicò riuscita. Ripartì alla svelta.
«Ti ha spiegato dove?» chiese Roland.
«Sì.»
«Bene, i nodi stanno venendo al pettine tutti assieme, Ed¬die. Dobbiamo raggiungere Susannah il più presto possibile. E anche Jake e Père Callahan. E il bambino sta arrivando, qua¬lunque cosa sia. Può essere già nato.»
Giri a destra appena sarà tornato su Kansas Road, aveva in¬dicato a Eddie l'addetto alle manutenzioni (Kansas come in Dorothy, Toto e zia Em, un groviglio di nodi al pettine), e così fece. In quel modo procedettero verso nord. Il sole era finito dietro gli alberi alla loro sinistra, lasciando interamente nell'ombra la strada asfaltata a due corsie. Eddie provava la sensazione quasi palpabile del tempo che gli scivolava tra le dita come un tessuto di gran pregio troppo liscio per poterlo afferrare. Pigiò l'accele-ratore e la vecchia Ford di Cullum, nonostante le valvole sfiata¬te, trovò un po' di brio. Eddie la portò a cinquantacinque miglia orarie e la tenne a quell'andatura. Forse avrebbe potuto dare di più, ma Kansas Road era tortuosa e accidentata.
Roland si era tolto dal taschino della camicia un foglio, lo aveva aperto e ora lo stava studiando (sebbene Eddie dubitas¬se che il pistolero potesse leggere molto di quel documento; per lui le parole scritte di questo mondo sarebbero sempre sta¬te quanto mai misteriose). In cima al foglio, sopra la scrittura alquanto tremolante ma perfettamente leggibile di Aaron Deepneau (e l'importantissima firma di Calvin Torre), c'era¬no il disegnino di un castoro sorridente e l'intestazione COSE MALEDETTAMENTE IMPORTANTI DA FARE.
Non farmi domande sciocche, sciocchi scherzi non ti farò, pensò Eddie e a un tratto sorrise. Era un punto di vista al qua¬le Roland era ancora fedele, ne era certo, nonostante il fatto che, a bordo di Blaine il Mono, avevano avuto salva la vita da alcune tempestive domande sciocche. Aprì la bocca con l'intenzione di sottolineare come quel pezzo di foglietto spie¬gazzato avrebbe potuto rivelarsi più importante della Magna Charta o della Dichiarazione d'Indipendenza o della Teoria della Relatività di Albert Einstein, ma prima di poter pro¬nunciare una sola parola arrivò l'onda.

2

Il piede gli scivolò via dal pedale dell'acceleratore e fu un bene. Se fosse rimasto al suo posto, sicuramente avrebbero fatto entrambi una brutta fine, a rischio di restare uccisi. Quando l'onda arrivò, il mantenere il controllo della Ford di John Cullum scese a precipizio nella scala delle priorità di Eddie Dean. Fu come quando la navetta giunge al culmine della prima montagna russa ed esita per un momento... s'inclina... piomba giù... e tu cadi colpito dallo schiaffo improvviso dell'a¬ria calda dell'estate, con il petto schiacciato e lo stomaco che ti schizza all'indietro.
In quel momento Eddie vide librarsi tutto ciò che si trova¬va nell'abitacolo: cenere di pipa, due penne e un fermaglio usciti dal cruscotto, il suo dinh, e - si accorse - il ka-mai del suo dinh, il buon vecchio Eddie Dean. Ovvio che avesse per¬so lo stomaco! (Non si rese conto che l'automobile stessa, che si era fermata ai bordi della strada, si librava a sua volta, beccheggiando pigramente a una spanna dal suolo come una barchetta su un mare invisibile.)
Poi la strada di campagna e gli alberi che la costeggiavano scomparvero. Scomparve Bridgton. Scomparve il mondo. Suonarono le campanelle della contezza, ripugnanti e nau¬seanti, facendogli venire voglia di digrignare i denti per pro¬testa... se non che erano scomparsi anche i suoi denti.

3

Come Eddie, Roland provò la netta sensazione di essere dapprima sollevato e quindi tenuto sospeso, come un oggetto che ha perso i suoi legami con la gravità terrestre. Udì le campanelle e si sentì sollevato attraverso il muro dell'esisten¬za, ma capì che non era contezza reale, non certo del tipo che avevano sperimentato in precedenza. Questa era molto pro¬babilmente quella che Vannay chiamava aven kal, parole che significavano sollevati sul vento oppure trasportati dall'onda. Solo che l'espressione nella forma kal, invece della più comu¬ne kas, stava a indicare una forza naturale di proporzioni rovi¬nose: non un vento ma un uragano; non un'onda ma uno tsunami.
Il Vettore vuole parlarti, Ciarla, gli disse nella mente Van¬nay: Ciarla, il vecchio soprannome sarcastico che Vannay gli aveva appioppato per deridere la laconicità del figlio di Steven Deschain. Lo zoppo, geniale tutore aveva smesso di usar¬lo (probabilmente dietro insistenza di Cort) quando Roland aveva compiuto undici anni. Farai bene ad ascoltarlo.
Ascolterò molto bene, rispose Roland e fu lasciato ricadere a terra. Represse un conato di vomito, privo di peso e nauseato com'era.
Altre campanelle. Poi, all'improvviso, era sospeso di nuo¬vo, questa volta sopra una stanza piena di letti vuoti. Uno sguardo gli fu sufficiente per sapere che non era quella dove i Lupi avevano portato i bambini rapiti dai Calla della frontie¬ra. In fondo alla stanza...
Una mano lo afferrò per il braccio, una cosa che in quello stato Roland avrebbe ritenuto impossibile. Guardò a sinistra e trovò Eddie accanto a sé, che fluttuava nudo. Erano nudi entrambi, i loro indumenti erano rimasti nel mondo dello scrittore.
Roland aveva già visto quello che Eddie gli stava indican¬do. In fondo alla stanza, c'erano due letti ravvicinati. Su uno di essi era distesa una donna bianca. Le sue gambe, le stesse che Susannah aveva usato quando erano andate a contezza a New York, Roland ne era sicuro - erano spalancate. Tra esse si chinava una donna con la testa di topo, senz'altro una taheen.
Di fianco alla donna bianca ce n'era una dalla pelle scura, le cui gambe finivano appena sotto le ginocchia. Nudo o no, sospeso nel vuoto o no, nauseato o no, contezza o no, mai in vita sua Roland era stato tanto felice nel vedere una persona. E lo stesso sentimento era condiviso da Eddie. Roland lo sentì mandare un grido di gioia al centro della testa e allungò la mano per zittire il giovane compagno. Doveva assoluta¬mente farlo tacere, perché Susannah li stava guardando, qua¬si certamente li aveva visti, e se avesse rivolto loro la parola, era indispensabile udire tutto ciò che aveva da dire. Perché sebbene le parole sarebbero uscite dalla sua bocca, a parlare sarebbe stato con tutta probabilità il Vettore, nella Voce del¬l'Orso o in quella della Tartaruga.
Entrambe le donne avevano sulla testa una calotta metal¬lica. Le univa un tubo d'acciaio snodabile.
Un aggeggio per fondere le menti, disse Eddie, riempiendo di nuovo il centro della sua testa e oscurando tutto il resto. O magari...
Zitto! intervenne Roland. Zitto, Eddie, per l'amore di tuo padre!
Un uomo in camice bianco prese da un vassoio un forcipe dall'aspetto cruento e spinse via l'infermiera taheen con la te¬sta di topo. Si chinò a scrutare tra le gambe di Mia con il for¬cipe sospeso sopra la testa. Poco distante, con addosso una T-shirt con una scritta del mondo di Eddie e Susannah, c'era un taheen con la testa di un rapace.
Ci sentirà, pensò Roland. Se ci tratteniamo troppo, di si¬curo ci sentirà e darà l'allarme.
Ma Susannah lo stava guardando con occhi febbrili da sot¬to il peso della calotta. Occhi brillanti. Occhi che li vedevano, aye, dico il vero.
Pronunciò una sola parola e in un momento di inspiegabi¬le ma assolutamente affidabile intuizione, Roland sentì che la parola non proveniva da Susannah bensì da Mia. Ma era an¬che la Voce del Vettore, una forza forse abbastanza senziente da capire la gravità della minaccia a cui era esposta e da vo¬lersi proteggere.
Chassit fu la parola che Susannah disse; lui la udì nella te¬sta perché erano ka-tet e an-tet; la vide anche formarsi senza suono sulle labbra di lei, che guardava in alto, nel punto dov'erano sospesi loro, spettatori di qualcosa che stava avve¬nendo in un altro dove e quando in quello stesso istante.
Alzò la testa anche il taheen con la testa di falco, forse se¬guendo il suo sguardo, forse per aver sentito le campanelle grazie alla percezione soprannaturale delle sue orecchie. Poi il dottore abbassò il forcipe e lo spinse sotto la veste di Mia. Lei gridò. Susannah gridò con lei. E come se l'essere essenzial¬mente incorporeo di Roland potesse essere soffiato via dalla forza di quelle grida come un baccello in balia del vento otto¬brino, il pistolero si sentì spingere violentemente verso l'alto, perdendo contatto dal luogo su cui era affacciato, ma conser¬vandolo su quell'unica parola. Portava con sé il ricordo fulgi¬do di sua madre che si chinava su di lui sdraiato sul letto. Accadeva nella stanza dei molti colori, la nursery; e natural-mente ora li comprendeva quei colori che da bambino aveva semplicemente accettato, come è naturale che ogni cosa sia accettata da un bambino appena svezzato: con meraviglia senza riserve, con l'intima certezza che tutto fosse opera di magia.
Le finestre della nursery erano di vetri policromi che rap¬presentavano le Curve dell'Iride, naturalmente. Ricordò sua madre che si chinava su di lui, il volto di lei variegato da quel¬la bella luce policroma, il cappuccio spinto all'indietro a la¬sciargli percorrere la linea del collo con l'occhio di un bimbo
(è tutto opera di magia)
e l'animo di un innamorato; ricordò di aver pensato a co¬me l'avrebbe corteggiata e conquistata strappandola a suo pa¬dre, se lei fosse stata disposta ad averlo; come si sarebbero sposati e avrebbero avuto dei figli e sarebbero vissuti per sem¬pre in quel regno da fiaba che si chiamava Tuttosplende; e come lei avrebbe cantato per lui, come Gabrielle Deschain cantava al suo bambino, che la guardava solenne dal guancia¬le con gli occhi grandi e già disegnati sul viso i colori mutevoli della sua vita raminga; cantava una filastrocca senza senso che diceva così:

Bimbo caro, bel bambino,
Porta tanti frutti grassi.
Chussit, chissit, chassit!
Da riempire il tuo cestino!

Da riempire il mio cestino, pensò mentre veniva spinto, senza peso, attraverso la tenebra e il terribile suono delle campanelle della contezza. Le parole non erano del tutto in¬sensate, perché contenevano antichi numeri, gli aveva rive¬lato lei quando lui glielo aveva chiesto. Chussit, chissit, chas¬sis, diciassette, diciotto, diciannove.
Chassit è diciannove, pensò. Ovvio, tutto è diciannove. Poi lui e Eddie furono di nuovo nella luce, una luce arancio¬ne color della febbre, e c'erano Jake e Callahan. Vide perfino Oy contro il piede sinistro di jake, con il pelo ritto e il muso arricciato a mostrare i denti.
Chussit, chissit, chassit, pensò Roland mentre guardava suo figlio, un maschietto così piccolo, così infinitesimale di fron¬te all'orda che popolava la sala da pranzo del Dixie Pig. Chassit è diciannove. Da riempire il mio cestino. Ma quale cestino? Che cosa vuol dire?

4

A Bridgton, ai bordi di Kansas Road, la Ford di John Cullum, vecchia di dodici anni (centoseimila sul contamiglia e cominciava appena a scaldarsi, si compiaceva di dire in giro il proprietario) dondolò pigramente sul terreno soffice del ciglio, prima toccando terra con le ruote anteriori e poi sollevandole per baciare brevemente il suolo con quelle posteriori. Nell'a¬bitacolo due uomini che sembravano non solo svenuti ma tra¬sparenti oscillavano pigramente in sintonia con i movimenti dell'automobile come cadaveri in una barca affondata. E in¬torno a loro fluttuava il bric-à-brac tipico di qualunque vecchio macinino che sia stato usato e abusato: cenere e penne e fermagli e la più vecchia nocciolina americana del mondo e un soldino sbucato dal sedile posteriore e aghi di pino saliti dai tappetini e perfino uno dei tappetini stessi. Nell'oscurità dello stipetto del cruscotto tintinnavano timidamente oggetti vari.
Qualcuno che fosse passato di lì sarebbe rimasto senz'altro costernato alla vista di tutta quella roba - e di esseri umani! Persone che potevano essere morte! - che fluttuavano dentro un'automobile come relitti in una capsula spaziale. Ma non passò nessuno. La gente che abitava su quel lato di Long Lake era quasi tutta intenta ad allungare lo sguardo verso l'altra sponda, quella di East Stoneham, sebbene praticamente or¬mai non ci fosse più niente da vedere. Perfino il fumo si era quasi dissolto.
Pigramente fluttuava l'automobile e in essa Roland di Gilead salì lentamente al soffitto, dove il suo collo premette contro il rivestimento sporco e le gambe scivolarono dietro il sedile anteriore seguendolo nella sua ascensione. Eddie fu dapprima trattenuto dal volante, finché un movimento late¬rale del veicolo lo sganciò, cosicché salì a sua volta con il vol¬to disteso come sognando. Un filo argenteo di saliva gli sfuggì dall'angolo della bocca e rimase sospeso, luccicante e ricolmo di minuscole bollicine, a pochi centimetri dalla guancia in¬crostata di sangue.

5

Roland sapeva che Susannah lo aveva visto e probabil¬mente aveva visto anche Eddie. Per questo si era tanto sforzata per pronunciare quell'unica parola. Jake e Callahan invece non li videro. Il ragazzo e il Père erano entrati nel Dixie Pig, un'iniziativa che poteva essere o molto coraggiosa o molto stupida, e ora dovevano focalizzare tutta la loro concentrazione su ciò che vi avevano trovato.
Stupido o no, Roland era infinitamente fiero di Jake. Vide che il ragazzo aveva stabilito un canda, tra sé e Callahan, quel¬la distanza (mai la medesima a seconda della situazione) che scongiurava che due pistoleri in inferiorità numerica potesse¬ro essere uccisi da un unico colpo. Erano arrivati entrambi pronti al combattimento. Callahan impugnava la pistola di Jake... e aveva in mano un'altra cosa, un piccolo oggetto inta¬gliato. Roland era quasi sicuro che fosse un can-tah, uno dei piccoli dei. Il ragazzo aveva gli Oriza di Susannah e la loro sacca, recuperata da solo gli dei sapevano dove.
Il pistolero scorse una grassona la cui umanità finiva all'al¬tezza del collo. Sopra la sua tripletta di menti flaccidi, la ma¬schera che aveva indossato era a brandelli. Guardando la sot¬tostante testa da topo, Roland comprese all'improvviso molte cose. Alcune gli si sarebbero rivelate prima se la sua attenzio¬ne, come quella del ragazzo e del Père in quel preciso istante, non fosse stata concentrata su altre questioni.
Gli uomini bassi di Callahan, per esempio. Erano quasi certamente taheen, creature che non appartenevano né al Prim né al mondo naturale, bensì erano esseri miserabili di una realtà rimasta a metà strada. E non erano nemmeno della stirpe che Roland chiamava Lenti Mutanti, perché costoro erano il risultato delle guerre avventate e degli esperimenti disastrosi degli Antichi. No, erano taheen genuini, talvolta noti come «terza gente» o can-toi, e sì, Roland avrebbe dovuto saperlo. Quanti dei taheen servivano ora l'essere conosciuto come Re Rosso? Alcuni? Molti?
Tutti?
Se la terza risposta era quella giusta, allora la strada per la Torre sarebbe stata davvero ardua. Ma guardare oltre l'oriz¬zonte non era nella natura del pistolero e in questo caso la mancanza di immaginazione era sicuramente una fortuna.

6

Vide ciò che gli serviva vedere. Sebbene i can-toi - quelli che Callahan definiva la «gente bassa» - avessero circondato Jake e il Père (non si erano neppure accorti dei due che ave¬vano alle spalle, quelli che piantonavano la porta sulla Sessantunesima Strada), il Père li aveva congelati con il piccolo amuleto proprio come Jake era stato capace di congelare e stregare con la chiave trovata nel lotto vacante. Un taheen giallo, con il corpo di uomo e la testa di uccello, aveva a por¬tata di mano un'arma strana ma non tentò di afferrarla.
C'era però un altro problema, che l'occhio di Roland, alle¬nato a individuare ogni possibile trappola e imboscata, colse all'istante. Vide la blasfema parodia dell'Ultima Colleganza dell'Eld appesa alla parete e ne comprese a fondo il significato nei secondi precedenti all'attimo in cui fu lacerata. E l'odore: non solo di carni cotte, ma carni umane. Anche questo avrebbe inteso prima, avesse avuto il tempo di pensarci... ma la vita a Calla Bryn Sturgis gli aveva concesso poco tempo per pensare. Al Calla, come in un libro di fiabe, la vita era stata un maledetto susseguirsi di fatti uno via l'altro.
Ma gli era chiaro ora, non è vero? La gente bassa era costi¬tuita da semplici taheen; gli orchi di un bambino, orsì. Quelli dietro l'arazzo erano gli stessi che Callahan aveva definito vampiri di Tipo Uno e quelli che Roland conosceva come gli Avi, forse i più cruenti e potenti superstiti dell'antico recede¬re del Prim. E se forse i taheen sarebbero rimasti prigionieri dell'incantesimo a contemplare il sigul che Callahan mostra¬va loro, gli Avi non lo avrebbero degnato di un solo sguardo.
Poi da sotto il tavolo uscirono numerose orde di insetti. Erano di un tipo che Roland aveva già visto, e al loro compa¬rire scomparve ogni dubbio che potesse ancora albergare in lui di ciò che si trovava dietro quell'arazzo. Erano parassiti, bevitori di sangue, rastrellatori: i pidocchi degli Avi. Proba¬bilmente non pericolosi finché c'era un bimbolo nelle vici¬nanze, ma era pur vero che quando vedevi i piccoli dottori in tal numero, gli Avi non erano distanti.
Mentre Oy attaccava gli insetti, Roland di Gilead fece la sola cosa che seppe pensare: scese su Callahan.
Dentro Callahan.

7

Père, sono qui.
Aje, Roland. Cosa...
Non c'è tempo. MANDALO VIA. Devi. Mandalo via da qui prima che sia troppo tardi!

8

E Callahan ci provò. Naturalmente il ragazzo non voleva andare. Avrei dovuto addestrarlo meglio nell'arte del tradi¬mento, pensò con una punta di amarezza Roland guardandolo attraverso gli occhi del Père. Ma tutti gli dei sanno che ho fatto del mio meglio.
«Vai finché puoi», disse Callahan a Jake, sforzandosi di parlare con voce calma. «Raggiungila se puoi. Questo è l'ordi¬ne del tuo dinh. Tale è anche la volontà del Bianco.»
Avrebbe dovuto bastare, ma lui recalcitrava - dei del cielo, era quasi cocciuto quanto Eddie! - e Roland non poteva aspettare oltre.
Père, lasciami.
Roland assunse il controllo senza attendere una risposta. Già sentiva che l'onda, l'aven kal, cominciava a recedere. E gli Avi avrebbero attaccato da un momento all'altro.
«Vai, Jake!» gridò usando la bocca e le corde vocali del Père come un megafono. Se avesse riflettuto su come fosse pos¬sibile una cosa come quella, si sarebbe smarrito, ma la medi¬tazione non era mai stata il suo forte e guardò invece con gratitudine il lampo che si accendeva negli occhi del ragazzo. «Hai quest'unica occasione e devi prenderla! Trovala! Come tuo dinh, così ti ordino!»
Poi, come all'ospedale con Susannah, si sentì di nuovo proiettato verso l'alto come se fosse privo di peso, soffiato fuori della mente e del corpo di Callahan come una ragnatela o il soffione di un dente di leone. Per qualche istante cercò di indietreggiare, sbracciandosi come un nuotatore che resiste a una corrente forte per tornare alla spiaggia, ma fu impossibile.
Roland! Era la voce di Eddie ed era colma di sgomento. Gesù, Roland, che cosa sono quelli, nel nome di Dio?
L'arazzo era stato strappato. Le creature che stavano inva¬dendo la sala da pranzo erano vecchie e orribili, facce strego¬nesche deturpate da denti che sporgevano dalle guance, boc¬che tenute perennemente aperte da zanne enormi, rughe e barbe sporche di sangue e brandelli di carne.
E... oh dei, dei del cielo... il ragazzo era ancora lì!
«Uccìderanno prima Oy!» gridò Callahan, ma Roland ebbe l'impressione che non fosse lui e pensò che fosse invece Eddie che usava la sua voce come lui stesso aveva fatto poco prima. Eddie doveva aver trovato correnti più navigabili o una forza più sicura, una spinta sufficiente a prendere il suo posto quan-do lui era stato proiettato fuori. «Lo uccideranno davanti a te e berranno il suo sangue!»
Finalmente il ragazzo si girò e fuggì con Oy che gli correva accanto. Tagliò davanti all'uomo-uccello e tra due uomini bassi, ma nessuno tentò di fermarlo. Erano ancora incantati dalla tartaruga nel palmo di Callahan, erano come ipnotizzati.
Gli Avi non badarono minimamente al ragazzo in fuga, come Roland aveva previsto. Dal racconto di Père Callahan sapeva che uno di loro era stato nella cittadina di Salem's Lot, dove il Père aveva predicato per qualche tempo. Cal¬lahan gli era sopravvissuto, fatto non comune per coloro che si trovano a dover affrontare simili mostri dopo aver perso le loro armi e i loro sigul di potere; la creatura però lo aveva co¬stretto a bere il suo sangue infetto prima di lasciarlo andare. Con questo lo aveva segnato per gli altri.
Callahan mostrava loro il suo sigul a forma di croce, ma prima che potesse vedere altro, Roland fu risospinto nel buio. Suonarono di nuovo le campanelle, un tintinnio insopporta¬bile che gli faceva rasentare la follia. In lontananza sentì urla¬re Eddie. Lo cercò nel buio, gli sfiorò il braccio, lo perse, trovò la sua mano e gliel'afferrò. Rotolarono e rotolarono, stretti l'uno all'altro, sforzandosi di rimanere uniti, sperando di non smarrirsi nell'oscurità priva di porte tra i mondi.

3
Eddie fa una telefonata

1

Eddie si ritrovò nell'abitacolo come talvolta da adolescente emergeva dagli incubi: aggrovigliato e ansimante di pau¬ra, del tutto disorientato, avendo perso la memoria di chi era e ancor più di dov'era.
Ebbe un secondo per rendersi conto che, per quanto incre¬dibile, galleggiava nell'aria abbracciato a Roland, quasi che fossero due gemelli in un utero materno. Ma non era un utero quello in cui si trovavano, davanti agli occhi vide fluttuare una penna e un fermaglio. C'era anche un astuccio giallo di plastica, nel quale riconobbe un nastro magnetico a otto trac¬ce. Non perdere tempo, John, pensò. Quella è una bufala, non troverai nessun appiglio lì.
Qualcosa gli grattava la nuca. Era forse la luce di cortesia della vecchia caffettiera di John Cullum? Santo cielo, gli pa¬reva proprio che...
Poi fu ristabilita la forza di gravità e caddero in una piog¬gia di oggetti disparati. Il tappetino che volteggiava nell'abi¬tacolo della Ford cadde a coprire il volante. Eddie urtò con la bocca dello stomaco lo schienale del sedile anteriore e l'aria gli esplose dalla bocca in un soffio sibilante. Roland piombò giù al suo fianco, sull'anca dolente. Mandò un solo grido, quasi un latrato, poi cominciò a manovrare per riguadagnare il sedile anteriore.
Eddie aprì la bocca per parlare. Non ne ebbe il tempo, per¬ché in quel momento la voce di Callahan gli riempì la testa: Hile, Roland! Hile, pistolero!
Quale sforzo medianico doveva essere costato al Père par¬lare da quell'altro mondo! E dietro la sua voce, debole ma presente, un coro di grida bestiali e trionfanti. Versi che non erano propriamente parole.
Gli occhi sgranati e stupiti di Eddie incontrarono quelli chiari di Roland. Cercò con la propria la mano sinistra del pi¬stolero, mentre pensava: Se ne sta andando. Dio del cielo, credo che il Père stia andando.
Che tu possa trovare la tua Torre, Roland, ed entrarvi...
«... e che tu possa salire fino in cima!» mormorò Eddie.
Erano di nuovo nell'auto di John Cullum e parcheggiati, di sghimbescio ma nel complesso abbastanza serenamente, ai bordi di Kansas Road nelle ombrose prime ore della sera di una giornata d'estate, ma ciò che Eddie vide fu l'infernale lu¬ce arancione di quel ristorante che non era affatto un risto¬rante bensì una tana di cannibali. Il pensiero che cose del ge¬nere potessero esistere davvero, che ci fosse gente che tutti i giorni passava davanti al loro nascondiglio senza sapere che cosa vi si celava, senza accorgersi degli occhi avidi che forse spiavano i passanti valutandoli e scegliendoli...
Poi, prima che potesse portare a termine le sue riflessioni, mandò un grido di dolore sentendosi affondare denti fanta¬sma nel collo e nelle guance e nel ventre; sentendosi sulle labbra un bacio violento di ortiche e uno spiedo che gli infilzava i testicoli. Urlò, annaspando con la mano libera, finché Roland gliel'afferrò trascinandogliela giù.
«Smetti, Eddie. Smetti. Non ci sono più.» Una pausa. Il contatto s'interruppe e il dolore svanì. Naturalmente Roland aveva ragione. A differenza del Père, loro l'avevano scampa¬ta. Eddie vide che Roland aveva gli occhi lucidi di lacrime. «E se n'è andato anche lui. Il Père.»
«I vampiri? Quei cannibali? Lo hanno... lo hanno?...» Ed¬die non poté finire. L'idea di Père Callahan diventato uno di loro era troppo orrenda per poterla articolare.
«No, Eddie. Assolutamente no. Non...» Roland estrasse la pistola. Le incisioni nel metallo scintillarono nell'ultimo scampolo di luce. Si spinse la canna della pistola sotto il mento per un istante guardando Eddie.
«Non si è fatto prendere», mormorò Eddie.
«Aye, e chissà com'erano arrabbiati.»
Eddie annuì, improvvisamente esausto. E gli facevano di nuovo male le ferite. Era come se stessero singhiozzando. «Be¬ne», disse. «Adesso rimetti a posto quell'aggeggio prima che ti spari.» E mentre Roland riponeva la pistola: «Che cosa ci è successo poco fa? Siamo andati a contezza o c'è stato un altro vettoremoto?»
«L'uno e l'altro, credo», rispose Roland. «C'è una cosa chiamata aven kal, che è come un'onda di marea che corre lungo il Sentiero del Vettore. È stata quella a sollevarci.»
«E a permetterci di vedere quello che volevamo vedere.»
Roland rifletté per un momento su quelle parole, poi scos¬se la testa con grande fermezza. «Abbiamo visto quello che il Vettore voleva che vedessimo. Dove vuole che andiamo.»
«Roland, queste sono cose che hai studiato da ragazzo? Il vecchio Vannay teneva corsi di... non so, anatomia dei Vet¬tori e Curve dell'Iride?»
Roland stava sorridendo. «Sì, suppongo che queste cose ci siano state insegnate in Storia e Summa Logicales.»
«Logi-cosa?»
Roland tacque. Guardava dal finestrino dell'automobile di Cullum, cercando ancora di riprendere fiato, in senso fisico ma anche figurato. Non era poi molto difficile farlo, non lì; trovarsi in quel punto di Bridgton era come trovarsi nelle vi¬cinanze di un certo terreno edificabile a Manhattan. Perché c'era un generatore poco distante. Non sai King, come Ro¬land aveva creduto all'inizio, bensì il potenziale di sai King... o ciò che sai King avrebbe potuto creare, ne avesse avuto mon¬do e tempo a sufficienza. Non era forse vero che anche King veniva trasportato dall'aven kal, magari generando lui stesso l'onda che lo sollevava?
Non ci si rialza in piedi attaccandosi ai lacci dei propri stivali, per quanto forte si possa tirare, aveva sentenziato Cort, quando Roland, Cuthbert, Alain e Jamie erano ancora solo dei mar¬mocchi. Cort che parlava in un tono di allegra fiducia in se stesso, un tono che sarebbe diventato gradatamente più aspro a mano a mano che il suo ultimo gruppo di ragazzi si avvici¬nava al momento cruciale della maturità. Ma forse sui quei lacci lui non aveva visto giusto. Forse, in certe circostanze, un uomo poteva tirarsi su da solo. O dar vita all'universo dal proprio ombelico, come si diceva avesse fatto Gan. Come scrittore di storie, non era forse King un creatore? E alla resa dei conti, la creazione non era in fondo fare qualcosa dal nul¬la, vedere il mondo in un granello di sabbia o rialzarsi in piedi attaccandosi ai lacci dei propri stivali?
E che cosa stava facendo lui lì, seduto a indugiare in lun¬ghe meditazioni filosofiche, quando due membri del suo tet mancavano all'appello?
«Metti in moto questa carrozza», ordinò, cercando di ignorare la dolce armonia che gli giungeva all'orecchio, se fosse la Voce del Vettore o la Voce di Gan il Creatore non lo sapeva. «Dobbiamo trovare questa Turtleback Lane a Lovell e vedere se c'è un modo per raggiungere Susannah.»
E non solo lei. Se Jake era riuscito a eludere i mostri del Dixie Pig, anche lui era diretto alla stessa meta. Su questo Ro¬land non aveva dubbi.
Eddie allungò la mano sulla leva del cambio - nonostante le evoluzioni di poco prima, il motore della vecchia Ford di Cullum non si era spento - ma subito la ritrasse. Si girò a guardare Roland con un'espressione contrita.
«Che cosa ti angustia, Eddie? Qualunque cosa sia, parla subito. Il bambino sta nascendo, forse è già nato. Presto non avranno più bisogno di lei!»
«Lo so», ribatté Eddie. «Ma non possiamo andare a Lo¬vell.» Fece una smorfia come se dirlo gli provocasse dolore fi¬sico. Roland pensò che probabilmente soffriva davvero. «Non ancora.»

2

Rimasero in silenzio per un po' ad ascoltare l'armonico mormorio del Vettore, un mormorio che in certi momenti di¬ventava un coro di voci gioiose. Guardarono le ombre sempre più dense tra gli alberi, dove si nascondevano un milione di volti e un milione di storie, O diciamo insieme porta introva¬ta, diciamo insieme perduta.
Eddie si aspettava quasi che Roland lo prendesse a male parole, non sarebbe stata la prima volta, o che magari lo per¬cuotesse con un colpo alla testa, come Cort, il vecchio inse¬gnante del pistolero, era incline a fare quando i suoi allievi erano lenti o recalcitranti. Quasi sperava che lo facesse. Una bella botta al mento gli avrebbe schiarito il cervello, per Shardik.
Ma non c'è nulla di torbido nel tuo cervello e lo sai bene, pensò. La tua testa è più limpida della mia. Se così non fosse, potresti lasciar perdere questo mondo e correre a caccia della tua moglie perduta.
Finalmente Roland parlò. «Che cosa c'è, dunque? Que¬sto?» Si chinò a raccogliere il foglio di carta ripiegato con la scrittura contratta di Aaron Deepneau. Lo guardò per un mo¬mento, poi lo lasciò cadere sulle ginocchia di Eddie con una piccola smorfia di disgusto.
«Sai quanto la amo», mormorò Eddie in un tono teso e sommesso. «Lo sai.»
Roland annuì, ma senza guardarlo. Si stava contemplando i vecchi stivali polverosi e screpolati, guardava il pavimento sporco dell'abitacolo. Quegli occhi abbassati, quello sguardo che si rifiutava di girarsi verso l'uomo che era giunto quasi a venerare Roland di Gilead, quasi spezzò il cuore di Eddie Dean. Ma tenne duro. Se mai c'era stato spazio per gli errori, esso si era esaurito. Erano alla fine della partita.
«Correrei da lei immediatamente se pensassi che fosse la cosa giusta. Roland, in questo preciso istante! Ma noi dobbiamo finire la nostra missione in questo mondo. Perché questo mondo è a senso unico. Quando ce ne andremo da oggi, 9 lu¬glio 1977, qui non potremo tornare mai più. Dobbiamo...»
«Eddie, ci abbiamo già ragionato.» Sempre senza guardarlo.
«Sì, ma lo capisci? Solo una pallottola da sparare, un Oriza da lanciare. È per questo che siamo venuti a Bridgton! Dio sa quanto avrei voluto correre in Turtleback Lane appena John Cullum ce ne ha parlato, ma ho pensato che dovevamo prima vedere lo scrittore e parlare con lui. E avevo ragione, no?» Ora quasi supplichevole. «Non avevo ragione?»
Finalmente Roland lo guardò e Eddie ne fu felice. Era già abbastanza dura, abbastanza insopportabile, senza l'aggiunta dello sguardo abbassato del suo dinh.
«E forse non è così importante se ci intratteniamo ancora un po' qui. Se ci concentriamo sulle due donne sdraiate insie¬me su quei letti, Roland, se ci concentriamo su Suze e Mia co¬me le abbiamo viste, allora forse possiamo entrare nella loro storia in quel punto preciso. Non è vero?»
Dopo un lungo momento di riflessione durante il quale Eddie non si rese nemmeno conto di respirare, il pistolero an¬nuì. Non si sarebbe potuto avverare se in Turtleback Lane avessero trovato quella che in cuor suo il pistolero aveva ri¬battezzato «porta degli Antichi» perché quelle porte erano dedicate e sfociavano sempre nello stesso luogo. Ma se avesse¬ro trovato una porta magica, in quella Turtleback Lane di Lovell, un ingresso rimasto dai tempi in cui il Prim si era ritrat¬to, allora sì, avrebbero potuto entrare in un punto prescelto. Ma quelle erano aperture insidiose, come avevano scoperto nella Grotta delle Voci, quando la porta che si trovava in quell'antro aveva mandato a New York Jake e Callahan invece di Eddie e Roland, stravolgendo così tutti i loro piani nel Paese del Diciannove.
«Che cos'altro dobbiamo fare?» chiese Roland. Non c'era più collera nella sua voce, che alle orecchie di Eddie suonò stanca e insicura.
«Qualunque cosa sia, sarà difficile. Questo te lo garanti¬sco.»
Eddie prese l'atto di vendita e lo fissò con l'aria cupa di un Amieto che contempla il teschio del povero Yorick. Poi alzò gli occhi su Roland. «Con questo entriamo in possesso del pezzo di terra con la rosa. Dobbiamo portarlo a Moses Carver della Holmes Dental Industries. E dov'è? Non lo sappiamo.»
«Se è per questo, Eddie, non sappiamo neppure se è ancora vivo.»
Eddie fece una risata sarcastica. «Tu dici il vero, io dico grazie! Che ne dici se torniamo indietro, Roland? Torniamo a casa di Stephen King. Possiamo spillargli venti o trenta dolla¬ri, visto che, caro mio, non so se l'hai notato, ma non abbia¬mo uno straccio di centesimo tra tutti e due, ma sopratutto possiamo obbligarlo a tirar fuori dal suo cilindro uno di quegli investigatori privati a muso duro, uno con la faccia di Bogart e la spaccaculaggine di Clint Eastwood. Che ci vada lui a sco¬vare Carver per noi!»
Scosse con forza la testa come per schiarirsi le idee. Le vo¬ci gli riempivano le orecchie di un dolce sottofondo, l'antido¬to perfetto alle orribili campanelle della contezza.
«Dico: mia moglie è in grave pericolo da qualche parte, per quel che ne so ci sono dei vampiri o insetti-vampiro che se la stanno divorando viva, e io sono qui seduto in una mac¬china in una strada di campagna con un tizio che fondamentalmente sa solo ammazzare il prossimo a pistolettate, a cerca¬re di pensare a come si fa a metter su una cazzo di società!»
«Calma», disse Roland. Ora che si era rassegnato a rima¬nere ancora per un po' in quel mondo, sembrava più tranquil¬lo. «Dimmi che cosa secondo te occorre che facciamo prima che ci scrolliamo per sempre dalle scarpe la polvere di questo dove e quando.»
E Eddie glielo disse.

3

Roland ne aveva già sentita una buona parte, senza però comprendere appieno la delicatezza della posizione in cui era¬no. Possedevano il lotto vacante della Seconda Avenue, sì, ma il documento che ne attestava la proprietà era un docu¬mento olografico che difficilmente avrebbe retto il vaglio di una corte di tribunale, specialmente se i vertici della Sombra Corporation avessero contrattaccato con un plotone di avvo¬cati.
Eddie voleva portare quella carta a Moses Carver, assieme all'informazione che la sua figlioccia, Odetta Holmes, scom¬parsa da tredici anni nell'estate del 1977, era viva e in buona salute e sopra ogni altra cosa desiderava che Carver assumesse il ruolo di guardiano, non solo del pezzo di terra, ma anche di una certa rosa che cresceva selvatica entro i suoi confini.
Se era ancora vivo, bisognava convincere Moses Carver a riversare la cosiddetta Tet Corporation nella Holmes Indu¬stries (o viceversa). Di più! Era indispensabile che dedicasse quanto restava della sua vita (e secondo Eddie Carver doveva ormai avere più o meno l'età di Aaron Deepneau) alla crea¬zione di un gigante industriale il cui solo autentico scopo fos¬se quello di mettere a ogni occasione il bastone tra le ruote di altri due colossi, la Sombra e la North Central Positronics. Schiacciarli, se possibile, e impedire che si trasformassero in quel mostro che avrebbe lasciato una scia di distruzione nelle morenti distese del Medio-Mondo e avrebbe ferito a morte la Torre Nera.
«Forse avremmo dovuto lasciare a sai Deepneau l'atto di vendita», commentò Roland dopo aver ascoltato Eddie fino in fondo. «Lui almeno avrebbe potuto trovare questo Carver e raccontargli la nostra storia.»
«No, abbiamo fatto bene a tenerlo noi.» Era una delle po¬che cose di cui Eddie si sentiva assolutamente certo. «Se avessimo lasciato ad Aaron Deepneau questo pezzo di carta, a quest'ora sarebbe cenere nel vento.»
«Credi che Torre si sarebbe pentito e avrebbe persuaso il suo amico a distruggerlo?»
«Lo so», ribatté Eddie. «Ma anche se Deepneau avesse re¬sistito al tormentone del vecchio amico - me lo vedo a in¬fiammargli l'orecchio ripetendo per ore cose come: 'Brucialo, Aaron, me l'hanno strappato con la forza e adesso hanno in¬tenzione di fregarmi, lo sai bene quanto me, brucialo e faccia¬mo arrestare quei mostri dalla polizia' - credi che Moses Car¬ver avrebbe preso per buona una storia così pazzesca?»
Roland fece un sorriso amaro. «Dubito che ci saremmo dovuti preoccupare della reazione di Moses Carver, Eddie. Perché, pensaci un momento, quanto della nostra storia paz¬zesca Aaron Deepneau ha veramente sentito?»
«Non abbastanza», convenne Eddie. Chiuse gli occhi e vi premette contro la base dei palmi. Con forza. «Riesco a pen¬sare a una sola persona che potrebbe veramente convincere Moses Carver a fare le cose che dovremo chiedergli e al mo¬mento è in altre faccende affaccendata. Nell'anno 1999. Quando Carver sarà morto e defunto quanto Deepneau e for¬se anche Torre.»
«E che cosa possiamo fare senza di lei? Che cosa ti soddisferebbe?»
Eddie pensava che forse Susannah sarebbe stata in grado di tornare nel 1977 senza di loro, poiché almeno lei non ci era stata. Be'... ci sarebbe venuta a contezza, ma a suo avviso c'e¬ra il rischio di un ostacolo. Era possibile che il 1977 le fosse bandito per il solo fatto di essere ka-tet con lui e Roland. O per qualche altro motivo. Eddie non riusciva a immaginare quale: leggere le scritte in piccolo non era mai stato il suo for¬te. Si girò verso Roland per chiedergli che cosa ne pensasse, ma egli parlò prima di dargliene il tempo.
«Usiamo il nostro clan-tete», disse.
Sebbene Eddie conoscesse il termine, che significava dio neonato o piccolo salvatore, non capì lì per lì che cosa inten¬desse Roland. Poi ci arrivò. Non era stato il loro dan-tete di Waterford a prestare loro il veicolo a bordo del quale si trova¬vano in quel momento, diciamo grazie? «Cullum? È di lui che stai parlando, Roland? Quello con la mania delle palline da baseball autografate?»
«Hai detto il vero», confermò Roland. Aveva parlato in quel tono asciutto che indicava lieve esasperazione. «Non so¬praffarmi con il tuo entusiasmo per la mia proposta.»
«Ma... tu gli hai ordinato di andare via! E lui ha accetta¬to!»
«E quanto entusiasta era secondo te di andare a trovare il suo amico nel Vermong?»
«Mont», lo corresse Eddie senza riuscire a sopprimere un sorriso. Ma, con o senza sorriso, ciò che provava soprattutto era sgomento. Sospettava che il rumore sgradevole che udiva nella sua immaginazione fossero le due dita della mano destra di Roland che grattavano il fondo del barile.
Roland alzò le spalle come a dire che poco gl'importava se Cullum avesse parlato del Vermont o della Baronia di Garlan. «Rispondi alla mia domanda.»
«Be'...»
In effetti Cullum non aveva espresso molto entusiasmo al¬l'idea di quella gita. Fin da principio si era comportato più co¬me uno di loro che come uno dei mangiatori d'erba tra i quali viveva (Eddie riconosceva molto facilmente i mangiatori d'er¬ba per esserlo stato lui stesso fino a quando Roland lo aveva rapito per cominciare a impartirgli le sue lezioni omicide). Era evidente che Cullum era affascinato dai pistoleri e curioso di sapere di più dei motivi che li avevano spinti al suo piccolo borgo. Ma Roland era stato molto enfatico nell'esternare la sua volontà e la gente era solitamente propensa a ubbidirgli.
Ora fece quel movimento rotatorio con la mano destra, quel vecchio gesto d'impazienza. Muoviti, per l'amore di tuo padre. Falla o togliti dalla comoda.
«Direi che non aveva nessuna voglia di andare», ammise Eddie. «Ma questo non significa che sia ancora a casa sua a East Stoneham.»
«Invece sì. Non è partito.»
Solo con un certo sforzo Eddie riuscì a evitare di rimanere a bocca aperta. «Come fai a saperlo? Lo puoi toccare? È così?»
Roland scosse la testa.
«Allora come...»
«Ka.»
«Ka? Ka? E che cosa cazzo dovrebbe voler dire?»
La faccia di Roland era tirata e stanca, s'intravedeva il pal¬lore sotto l'abbronzatura. «Chi altri conosciamo in questa parte del mondo?»
«Nessuno, ma...»
«Allora è lui.» Era stata una sentenza, nel tono piatto con cui si enuncia a un bambino un'ovvietà della vita: su è sopra la tua testa, giù è dove i tuoi piedi toccano terra.
Eddie fu sul punto di ribattere che era una stupidaggine, nient'altro che una sciocca superstizione, ma ci ripensò. Tolti Deepneau, Torre, Stephen King e l'odioso Jack Andolini, John Cullum era davvero la sola persona che conoscevano in quella parte del mondo (o a quel livello della Torre, se si pre¬ferisce pensarla così). E dopo quello che Eddie aveva visto in quegli ultimi mesi - diavolo, in quell'ultima settimana - pote¬va veramente deridere una superstizione?
«Va bene», disse. «Vale la pena provare.»
«Come ci mettiamo in contatto?»
«Possiamo telefonargli da Bridgton. Ma in una storia, Roland, non succederebbe mai che a salvare baracca e burattini sia un personaggio marginale come John Cullum. Non ver¬rebbe considerato realistico.»
«Nella vita sono sicuro che succede in continuazione», di¬chiarò Roland.
E Eddie rise. Che cos'altro poteva fare? Era così perfetta¬mente Roland.

4

BRIDGTON HIGH STREET 1
HIGHLAND LAKE 2
HARRISON 3
WATERFORD 6
SWEDEN 9
LOVELL 18
FRYEBURG 24

Avevano da poco superato questo cartello quando Eddie disse: «Fruga un po' nel cruscotto, Roland. Vedi se il ka o il Vettore o che so io ci ha lasciato qualche spicciolo per telefo¬nare».
«Cru... Intendi questo pannello qui davanti?»
«Sì.»
Roland tentò prima di ruotare il pulsante cromato, poi capì come funzionava e lo pigiò. Nel portaoggetti c'era un caos che la momentanea perdita di peso della Ford non ave¬va certo migliorato. C'erano ricevute di carte di credito, un tubetto molto vecchio di quello che Eddie definì «dentifri¬cio» (su di esso Roland lesse distintamente le parole HOLMES DENTAL), la fottergrafia di una bambina sorridente su un pony, la nipotina di Cullum, magari, un candelotto che lì per lì pensò fosse di esplosivo (Eddie gli spiegò che era un segna¬le luminoso per i casi di emergenza), una rivista che gli parve s'intitolasse Peplo... e una scatola di sigari. La parola che c'era scritta sopra risultò incomprensibile a Roland. Frodi. Possibi¬le? Mostrò la scatola a Eddie, i cui occhi s'illuminarono. «C'è scritto 'FONDI'», disse. «Forse avevi ragione su Cullum e il ka. Aprila, Roland, se ti è gradito.»
La bimba che aveva fatto dono al vecchio di quella scato¬la, l'aveva munita di un bel fermaglio (ma non molto prati¬co). Roland l'aprì e mostrò a Eddie un notevole quantitativo di monete d'argento. «Bastano per chiamare sai Cullum?»
«Sì», rispose Eddie. «Direi che basterebbero per chiamare Fairbanks in Alaska. Ma non ci servirà a molto se Cullum è in viaggio per il Vermont.»

5

Intorno alla piazza di Bridgton c'erano un supermercato e una pizzeria da una parte; un cinematografo (The Magic Lantern) e un grande magazzino (Reny's) dall'altra. Tra il cinema e il supermercato c'era un piccolo spazio con delle panchine e tre telefoni pubblici.
Eddie consegnò a Roland sei dollari in monete da un quar¬to prelevate dalla scatola delle riserve di Cullum. «Voglio che tu vada là dentro», disse indicandogli il supermercato, «e mi prenda una scatola di aspirine. Saprai riconoscerla?»
«Astina. La conosco.»
«La più piccola che hanno è quella che voglio io, perché sei dollari non sono un gran che. Poi vai di fianco, in quel posto dove c'è scritto 'BRIDGTON PIZZA E SANDWICH'. Se ti sono rima¬ste almeno sedici di quelle monete, di' che vuoi un Hoagie.»
Roland annuì, cosa che non fu sufficiente a Eddie. «Voglio sentirtelo dire.»
«Hoggie.»
«Hoagie.»
«Hog-gie.»
«Ho...» Eddie desistette. «Roland, fammi sentire come di¬ci 'Poorboy'.»
«Poor boy.»
«Bene. Se ti restano almeno sedici monete, chiedi un Poorboy. Sei capace di dire 'con molta maio'?»
«Molta maio.»
«Bene. Se ti restano meno di sedici monete, chiedi un sandwich al salame e formaggio. Sandwich, non strozzino.»
«Sandiciamàggio.»
«Meglio che niente. E non dire assolutamente altro se non è strettamente indispensabile.»
Roland annuì. Eddie aveva ragione, meglio se non avesse parlato. Alla gente bastava un'occhiata per sapere, nel segre¬to del proprio cuore, che non era di quelle parti. Avevano an¬che la tendenza a stargli alla larga. Meglio non peggiorare la situazione.
Mentre si girava verso la strada, il pistolero abbassò la mano all'anca sinistra, una vecchia abitudine che questa volta non gli arrecò conforto: entrambe le rivoltelle erano nel ba¬gagliaio della Ford di Cullum, avvolte nei loro cinturoni.
Prima che potesse incamminarsi, Eddie lo afferrò per una spalla. Il pistolero si voltò a posare sull'amico gli occhi scolo¬riti da sotto le sopracciglia inarcate.
«Abbiamo un detto nel nostro mondo, Roland: arrampi¬carsi sugli specchi.»
«E che cosa significa?»
«Questo. Quello che stiamo facendo noi. Augurami buona fortuna, amico.»
Roland annuì. «Aye, così sia. A entrambi.»
Cominciò a girarsi di nuovo e Eddie lo richiamò. Questa volta nell'espressione di Roland comparve un principio di impazienza.
«Non farti ammazzare attraversando la strada», gli racco¬mandò Eddie. Poi imitò la parlata di Cullum aggiungendo: «I villeggianti sono più asini di un ciuco. E non vanno a caval¬lo».
«Fai la tua telefonata, Eddie», ribatté Roland, dopodiché attraversò a passo lento e sicuro, con quella camminata elasti¬ca che lo aveva portato attraverso mille altre strade principa¬li di mille cittadine.
Eddie lo guardò, poi si girò dall'altra parte e lesse le istru¬zioni sul telefono. Finalmente staccò il ricevitore e compose il numero del servizio abbonati.

6

Non era partito, aveva detto il pistolero parlando di John Cullum con serafica sicurezza. E perché? Perché Cullum era il loro capolinea, non avevano nessun altro da chiamare. Il vec¬chio dannato ka di Roland di Gilead, in altre parole.
Dopo una breve pausa, l'operatrice gli diede il numero. Eddie cercò di memorizzarlo, era sempre stato bravo a ricor¬dare i numeri, tanto che Henry lo chiamava talvolta Piccolo Einstein, ma questa volta non seppe fidarsi di se stesso. Aveva l'impressione che fosse successo qualcosa ai suoi processi mentali in generale (cosa che non credeva) o alla sua capa¬cità di ricordare certi manufatti di quel mondo (cosa che era disposto a credere). Mentre chiedeva all'operatrice di ripeter¬gli il numero - e lo scriveva nella polvere accumulatasi sulla mensolina del chiosco - si ritrovò a domandarsi se fosse anco¬ra capace di leggere un romanzo o seguire la trama di un film nella successione delle immagini su uno schermo. Ne dubita¬va. Ma aveva importanza? Al Magic Lantern lì accanto dava¬no Guerre stellari e Eddie concluse in quel momento che se fosse arrivato alla fine del sentiero della sua vita e nella radu¬ra senza più rivedere Luke Skywalker e ascoltare il respiro ru¬moroso di Darth Vader, non avrebbe avuto di che disperarsi.
«Grazie, signora», disse al telefono e mentre stava per comporre il numero che aveva ricevuto, alle sue spalle ci fu una serie di esplosioni. Ruotò su se stesso, con il cuore già in gola, mentre abbassava la mano destra, aspettandosi di vedere i Lupi, o masnadieri, o magari quel figlio di puttana di Flagg...
Ciò che vide fu una decappottabile piena di liceali con le facce tonte e scottate dal sole. Stavano ridendo. Uno di loro aveva appena buttato fuori una catena di castagnole avanzate dal Quattro di Luglio, quelle che i loro coetanei di Calla Bryn Sturgis avrebbero chiamato banger.
Avessi avuto una pistola a portata di mano, avrei potuto far fuori un paio di quei ragazzi, pensò Eddie. Se ti va di spa¬rarle grosse, puoi cominciare da qui. Già. Bene. Ma forse non lo avrebbe fatto. In ogni caso doveva ammettere che forse non era più un elemento affidabile nel mondo più civile.
«Convivici», mormorò, poi aggiunse il consiglio preferito di sua eminenza e saggezza il tossico per i piccoli problemi della vita: «Patteggia».
Compose il numero di John Cullum sul vecchio telefono a disco e quando una voce sintetizzata - la bis-bis-bis-bis-nonna di Blaine il Mono, forse - gli chiese di introdurre novanta centesimi, Eddie ci mise un dollaro intero. Che diamine, sta¬va salvando il mondo.
Il telefono squillò una volta... squillò due volte... e qualcu¬no rispose!
«John!» quasi gridò Eddie. «Che il cielo ti baci il fondoschiena! John, sono...»
Ma all'altro capo del filo una voce stava già parlando. Da figlio degli anni Ottanta, Eddie sapeva che non è un buon se¬gno.
«... l'abitazione di John Cullum del servizio di manuten¬zione e sorveglianza Cullum», recitava la voce che ben cono¬sceva nella sua familiare cantilena yankee. «Sono stato chia¬mato per un intervento urgente e non so prevedere quando sarò di ritorno. Se questo per voi è un problema, vi chiedo scusa, ma potete chiamare Gary Crowell al 926-5555, o Ju¬nior Barker al 929-4211.»
L'iniziale smarrimento di Eddie si era dissolto nel momen¬to in cui la tremolante registrazione lo aveva informato che Cullum non era in grado di prevedere quando sarebbe stato di ritorno. Perché Cullum era proprio là, nel suo piccolo cottage da hobbit sulla sponda occidentale del Keywadin Pond, sedu¬to forse sul suo iperimbottito divano da hobbit o in una delle due iperimbottite poltrone da hobbit. Seduto ad ascoltare i messaggi registrati da una segreteria telefonica degli anni Set¬tanta che non poteva non essere un mezzo catafalco. E Eddie lo sapeva perché... be'...
Perché lo sapeva.
La primitiva registrazione non poteva nascondere del tut¬to la vena sorniona che aveva trapuntato la voce di Cullum sul finire del messaggio. «Certo che se proprio non volete sa¬perne di parlare con nessun altro che con il sottoscritto, la¬sciate un messaggio dopo il segnale acustico. Siate brevi.»
Eddie attese il segnale e disse: «Sono Eddie Dean, John. So che sei lì e penso che stessi aspettando la mia chiamata. Non chiedermi perché lo penso, perché proprio non lo so, ma...»
Ci fu un clic sonoro, seguito dalla voce di Cullum, la sua vo¬ce dal vivo: «Ehi, figliolo, hai trattato bene la mia macchina?»
Per un momento Eddie fu troppo confuso per rispondere, nuovamente colto alla sprovvista dal modo in cui l'accento di Cullum storpiava tutte le parole.
«Ragazzo?» lo sollecitò Cullum, improvvisamente preoc¬cupato. «Sei ancora in linea?»
«Sì», rispose Eddie. «E ci sei anche tu. Credevo che an¬dassi nel Vermont, John.»
«Be', se vuoi saperlo, questo posto era rimasto un mortorio fin da quando nel 1923 un incendio distrusse il South Stoneham Shoe. Gli sbirri hanno bloccato tutte le strade d'usci¬ta.»
Eddie era sicuro che lasciassero transitare dai posti di bloc¬co chiunque fosse in grado di farsi adeguatamente identifica¬re, ma decise di soprassedere, per sottolineare invece un altro aspetto. «Vuoi dirmi che, se lo avessi voluto, non saresti stato capace di trovare un modo per uscire da lì senza incontrare un solo poliziotto?»
Ci fu una breve pausa. In quel mentre Eddie avvertì la pre¬senza di qualcuno al suo fianco. Non si girò a guardare; era Roland. Chi altri in quel mondo avrebbe emanato l'odore, sotterraneo ma indiscutibile, di un altro mondo?
«Oddio», rispose finalmente Cullum, «in effetti forse co¬nosco una o due strade nei boschi che sbucano a Lovell. L'e¬state è stata secca e suppongo che il mio pick-up dovrebbe farcela.»
«Una o due?»
«Be', diciamo tre o quattro.» Una pausa, che Eddie non interruppe. Si stava divertendo troppo. «Cinque o sei», si corresse Cullum e Eddie scelse di non rispondere nemmeno questa volta. «Otto», concluse finalmente Cullum e quando Eddie rise, rise con lui. «Che cos'hai in mente, figliolo?»
Eddie lanciò un'occhiata a Roland, che fra le tre dita su¬perstiti della mano destra stringeva una confezione di aspiri¬na. Eddie la prese ringraziandolo con gli occhi. «Voglio che tu venga a Lovell», disse a Cullum. «Sembra che alla fine ab¬biamo da confabulare ancora un po'.»
«Ayuh, e sembra che quasi quasi lo sapessi anch'io», ri¬batté Cullum. «Anche se non è che proprio stessi lì a pensar¬ci sopra; quello che continuavo a pensare è che era ora di mettermi in viaggio per Montpelier e invece mi veniva sem¬pre in mente un'altra cosa da fare qui. Se avessi cercato di chiamarmi cinque minuti fa, avresti trovato la linea occupa¬ta. Ero al telefono con Charlie Beemer. Erano sua moglie e sua cognata quelle due che rimasero uccise al mercato, sai? E poi ho pensato: Al diavolo, prima di mettere un po' di roba in macchina, meglio dare una bella ripulita qui dentro. Non è che stavo a ragionarci su, se mi spiego, però sotto sotto mi sa che da quando sono tornato qui non ho fatto che aspettare la tua telefonata. Dove vi trovo? In Turtleback Lane?»
Eddie aprì la confezione di aspirina e guardò le compresse pregustandole. Tossicodipendente una volta, tossicodipendente per sempre. Di qualunque cosa si trattasse. «Ayuh», disse, scherzando solo in parte; da quando aveva incontrato Roland a bordo di un Delta in procinto di atterrare al Kennedy Airport, aveva sviluppato una certa tendenza ad assimi¬lare i dialetti regionali. «Avevi detto che era solo una stradi¬na lunga un paio di miglia, un ferro di cavallo che entra ed esce dalla Route 7, vero?»
«Proprio così. Gran belle casette sulla Turtleback.» Una breve pausa riflessiva. «E molte in vendita. Ultimamente ci sono stati parecchi walk-ins da quelle parti. Come mi pare di aver già affermato. Sono cose che rendono la gente nervosa e i ricchi almeno possono permettersi di prendere le distanze da quello che gli rende difficile dormire di notte.»
Eddie non poté aspettare oltre; si mise in bocca tre aspiri¬ne e se le fece sciogliere sulla lingua gustandone il sapore amaro. Per quanto insopportabile fosse il dolore in quel mo¬mento, avrebbe resistito a sofferenze ben peggiori se solo avesse potuto sentire Susannah. Ma percepiva solo silenzio. Aveva il sospetto che le comunicazioni tra loro, già ondiva¬ghe, avessero cessato di esistere alla nascita del dannato bam¬bino di Mia.
«Voi due farete bene a tenere a portata di mano le vostre bang-bang, se intendete andare alle Turtleback», concluse Cullum. «Quanto a me, credo che butterò sul pick-up il fuci¬le prima di mettermi in moto.»
«Buona idea», convenne Eddie. «Quando sei arrivato, cerca la tua macchina, capito? La vedrai.»
«Ayuh, difficile perdere quella vecchia Ford», rispose Cul¬lum. «Ti dirò una cosa, figliolo. Non andrò nel Vermont, ma ho la sensazione che voi due abbiate intenzione di spedirmi da qualche altra parte, se sarò disposto ad andarci. Ti va di dirmi dove?»
Uno yankee del Maine alla corte del Re Rosso, pensò Eddie: così Mark Twain avrebbe probabilmente scelto di intito¬lare il prossimo capitolo della vita senza dubbio pittoresca di John Cullum. Decise di tenerlo per sé. «Sei mai stato a New York?»
«Sì, cacchio. Ci ho fatto un permesso di quarantott'ore quand'ero sotto le armi.» Nella sua parlata, «armi» si tra¬sformò in un ridicolo verso inarticolato: «Aaaam». «Andai al Radio City Music Hall e all'Empire State Building, fin qui me lo ricordo. Ma devono esserci state delle altre fermate turistiche, perché mi sono trovato un ammanco di trenta dollari nel portafogli e un paio di mesi dopo mi diagnosticarono un caso di scolo di quelli sodi.»
«Questa volta sarai troppo occupato per prendere lo scolo. Porta le carte di credito. So che ne hai, perché ho visto le ri¬cevute nel portaoggetti della macchina.»
«Hai ficcato il naso là dentro, eh?» lo apostrofò senza ma¬lanimo Cullum.
«Ayuh, ci ho trovato quel che resta di solito dopo che il cane si è masticato le scarpe. Ci vediamo a Lovell, John.» Eddie riattaccò. Guardò il sacchetto nella mano di Roland e sol¬levò le sopracciglia.
«E un 'Poorboy'», disse Roland. «Con molta 'maio', come avevi chiesto. Non so che roba è, certo che io avrei preferito una salsa che non somigliasse tanto a una venuta, ma se è gradita a te...»
Eddie alzò gli occhi. «Uuuh, questo sì che solletica l'appe¬tito.»
«Così dici?»
Eddie dovette ricordare di nuovo a se stesso che Roland era quasi privo di senso dell'umorismo. «Lo dico, lo dico. Vieni. Mangerò il mio sandwich al formaggio e venuta mentre guido. Dobbiamo discutere su come organizzarci.»

7