venerdì 4 gennaio 2019


LA PROSPETTIVA NEVSKIJ
I racconti di Pietroburgo
Nicolaj Gogol'

Non c'è niente di meglio della Prospettiva Nevskij, almeno a Pietroburgo, dove essa è tutto. Di che cosa non brilla questa strada, meraviglia della nostra capitale! So con certezza che non uno dei suoi pallidi e impiegatizi abitanti cambierebbe la Prospettiva Nevskij con tutti i beni della terra. Non solamente chi ha venticinque anni d'età, magnifici baffi e un soprabito dal taglio perfetto, ma anche chi si vede già spuntare sul mento i peli bianchi e ha la testa liscia come un piatto d'argento, va in estasi davanti alla Prospettiva Nevskij. E le signore! Oh, per le signore la Prospettiva Nevskij è qualcosa di ancora più piacevole. E per chi del resto non è piacevole? Non appena imbocchi la Prospettiva Nevskij, non senti altro che odore di passeggio. Anche se hai un affare importante e improrogabile da sbrigare, ecco che, dopo aver messo piede qui, te ne dimentichi subito. Questo è l'unico luogo dove la gente non si fa vedere perchè spinta dal bisogno e dall'interesse che coinvolgono l'intera Pietroburgo. Sembra che le persone incontrate sulla Prospettiva Nevskij siano meno egoiste che non sulla Morskàja, sulla Gorochòvaja, sulla Litèjnaja, sulla Mešèànskaja e nelle altre vie, dove l'avidità, il profitto e il bisogno si manifestano sia in quelli che camminano, sia in quelli che volano in carrozze e calessini. La Prospettiva Nevskij è il punto universale di confluenza di Pietroburgo. Qui l'abitante del rione Peterbùrgskij o del rione Vybòrgskoj, che da vari anni non è più stato a trovare il suo amico a Peski o alla Barriera di Mosca, può star certo che lo incontrerà senza fallo. Nessun elenco di indirizzi e nessun ufficio informazioni procureranno mai notizie così sicure come la Prospettiva Nevskij. Onnipotente Prospettiva Nevskij! Unica distrazione del poveraccio a passeggio per Pietroburgo! Come sono spazzati con cura i suoi marciapiedi e, Dio mio quanti piedi vi hanno lasciato le loro orme! Il rozzo sudicio stivale del soldato in congedo, sotto il cui peso sembra debba incrinarsi persino il granito; la minuscola scarpetta, leggera come fumo, della giovane dama che volge il viso verso le vetrine scintillanti di un negozio, come il girasole verso l'astro; e la sciabola tintinnante dell'alfiere pieno di speranze che vi lascia un graffio, tutto fonde sulla Prospettiva Nevskij il potere della forza e il potere della debolezza. Quale veloce fantasmagoria si svolge qui nel corso d'una giornata! Quanti mutamenti in sole ventiquattr'ore! Cominceremo dal primissimo mattino, quando tutta Pietroburgo odora di panini ancor caldi, appena sfornati, ed è invasa da vecchie in abiti e pellicciotti laceri che compiono le loro incursioni nelle chiese e contro i passanti pietosi. Allora la Prospettiva Nevskij è vuota: i solidi proprietari dei negozi e i loro commessi dormono ancora nelle loro camicie di tela d'Olanda oppure insaponano le loro nobili guance e bevono il caffè; i mendicanti si radunano davanti alle porte delle pasticcerie, dove un garzone sonnolento, che il giorno prima svolazzava come una mosca servendo la cioccolata, adesso esce furtivo, senza cravatta, con una scopa in mano, e butta loro dei pasticcini raffermi e altri avanzi di cibo. Per le vie si trascina gente povera; talvolta passano anche dei contadini russi che s'affrettano al lavoro con stivali così inzaccherati di fango che nemmeno il Canale Ekaterìnskij, pur celebre per la sua pulizia, riuscirebbe a lavare. A quest'ora di solito non sta bene che le signore escano di casa, perchè il popolo russo ama esprimersi con termini così violenti che di certo non si odono nemmeno a teatro. Ogni tanto, se la Prospettiva Nevskij si trova sul suo tragitto alla volta dell'ufficio ministeriale, si vedrà passare un funzionario sonnacchioso con la borsa sotto il braccio. Si può dire senz'altro che a quest'ora, ossia fino alle dodici, la Prospettiva Nevskij per nessuno rappresenta uno scopo ma serve soltanto come mezzo: a poco a poco essa si riempie di persone che hanno le loro occupazioni, le loro preoccupazioni, i loro fastidi, ma non pensano per nulla alla strada. Il contadino russo parla di grivnje, ovvero di monete di rame da sette centesimi; vecchi e vecchie agitano le braccia o parlano da soli, talvolta con gesti abbastanza bizzarri, ma nessuno li ascolta e neppure ride, esclusi forse i ragazzini in camiciotti variopinti che corrono come saette per la Prospettiva Nevskij con bottiglie vuote o stivali da consegnare. A quest'ora, qualunque cosa vi mettiate indosso, abbiate pure in testa un berretto in luogo d'un cappello, o sporga troppo il vostro colletto rispetto alla cravatta, nessuno lo noterebbe.
Alle dodici sulla Prospettiva Nevskij arrivano gli istitutori di tutte le nazionalità con i loro pupilli dai colletti di batista. I Jones inglesi e i Coques francesi vanno a braccetto con i discepoli affidati alla loro paterna tutela e, con rispettabile gravità, spiegano che le insegne sopra i negozi sono fatte allo scopo di sapere che cosa si trova nei negozi stessi. Le governanti, pallide miss e rosee slave, camminano maestose dietro le loro sottili e irrequiete fanciulle alle quali ordinano di tirar giù una spalla o di tenersi più dritte; insomma, a quest'ora la Prospettiva Nevskij è una Prospettiva pedagogica. Ma, quanto più ci si avvicina alle due, tanto più diminuisce il numero degli istitutori, dei pedagoghi e dei bambini, finchè ad essi subentrano i loro cari genitori che camminano sottobraccio alle loro variopinte, multicolori e isteriche consorti. A poco a poco si uniscono alla compagnia tutti quelli che hanno terminato le loro importanti occupazioni domestiche, e cioè hanno chiacchierato con il dottore a proposito del tempo e di un piccolo foruncolo comparso sul naso, si sono informati della salute dei cavalli e dei figli che peraltro rivelano grandi doti, hanno letto un affisso e un importante articolo sul giornale a proposito di chi arriva o di chi parte, e, infine, hanno bevuto una tazza di caffè o di tè; ad essi si aggiungono anche quelli cui una sorte invidiabile ha dato il titolo di funzionari con incarichi speciali. Vengono poi quelli che prestano servizio al Ministero degli Esteri e si distinguono per la nobiltà delle loro occupazioni e abitudini. Dio, quali magnifici impieghi e incarichi esistono! Come elevano e deliziano l'anima! Ma, ahimè! io non presto servizio al Ministero degli Esteri e sono quindi privato del piacere di vedere il fine tratto dei superiori nei miei confronti. Tutto ciò che incontrate sulla Prospettiva Nevskij, tutto è pervaso di distinzione: uomini dai lunghi soprabiti con le mani sprofondate nelle tasche; signore in redingotes di raso, rosse, bianche e celeste chiaro, e cappellini. Qui incontrerete basettoni davvero unici, fatti scendere sotto la cravatta, con arte straordinaria e stupefacente, basettoni di velluto, di raso, neri come lo zibellino o come il carbone; e però, ahimè! appartenenti soltanto al Ministero degli Esteri. Agli impiegati degli altri ministeri la provvidenza ha negato i basettoni neri; con loro sommo disappunto essi debbono portarli fulvi. Qui incontrerete baffi meravigliosi, che nessuna penna, nessun pennello sanno raffigurare; baffi ai quali è stata dedicata la metà migliore della vita: oggetto di lunghe cure durante il giorno e durante la notte, baffi sui quali sono stati versati i profumi e gli aromi più sorprendenti e che tutte le più preziose e rare qualità di unguenti hanno impomatato, baffi che durante la notte vengono avvolti in fine carta velina, baffi a cui sono rivolte le più commoventi attenzioni dei loro possessori, e che i passanti invidiano. Ognuno sulla Prospettiva Nevskij è poi abbagliato dalle mille varietà di cappellini, di abiti, di fazzoletti variopinti e leggeri, ai quali le rispettive proprietarie restano a volte affezionate anche per due giorni. Sembra che un intero mare di farfalle si sia sollevato improvvisamente dai fiori e si libri come una nube scintillante sopra gli scarafaggi neri che sono gli uomini. Qui incontrerete vitini come neppure avete mai sognato: vitini esili, sottili, non più grossi d'un collo di bottiglia, vedendo i quali vi fate rispettosamente da parte perchè non si dia il caso di urtarli inavvertitamente con un gomito scortese; il vostro cuore è preso dalla timidezza e dal timore che magari anche soltanto un vostro incauto respiro possa infrangere queste incantevoli creazioni della natura e dell'arte. E quali maniche femminili incontrate sulla Prospettiva Nevskij! Ah, che incanto! Esse assomigliano un poco a due aerostati, tanto che la dama potrebbe d'improvviso sollevarsi in aria, se non la tenesse il suo cavaliere; giacchè sollevare in aria la dama è facile e piacevole come portare alle labbra una coppa di champagne. In nessun luogo come sulla Prospettiva Nevskij, incontrandosi, ci si saluta in modo così nobile e disinvolto. Qui troverete un sorriso unico, un sorriso all'apice dell'arte, che può farvi liquefare dal piacere, oppure, al contrario, farvi sentire a un tratto più in basso dell'erba, costringendovi a chinare il capo; oppure, ancora, trasportarvi più in alto della guglia dell'Ammiragliato e farvi sollevare la testa. Qui incontrerete gente che discorre d'un concerto o del tempo con eccezionale nobiltà e senso della propria dignità. Qui incontrerete migliaia di caratteri e di fenomeni incomprensibili. Creatore! In quali strani caratteri ci s'imbatte sulla Prospettiva Nevskij! C'è una quantità di gente che, incontrandovi, immancabilmente vi guarderà le scarpe e, quando voi passate oltre, si volterà indietro per guardare le vostre falde. Ancor oggi non riesco a capire perchè accada questo. In un primo tempo pensavo che si trattasse di calzolai, eppure non era affatto così; per la maggior parte sono persone che prestano servizio in vari ministeri, molte di loro possono scrivere in maniera stupenda un rapporto da un ufficio statale a un altro; oppure sono persone che si occupano d'andare a passeggio, di leggere i giornali nelle pasticcerie, insomma per la maggior parte persone proprio a modo. In quest'ora benedetta, dalle due alle tre del pomeriggio, quando la Prospettiva Nevskij può definirsi una capitale che deambula, ha luogo la principale esposizione di tutte le migliori opere dell'uomo. Uno mostra un elegante soprabito del miglior castoro; l'altro un magnifico naso greco; un terzo porta splendidi basettoni; una quarta ha un paio di occhi assassini e un mirabile cappellino; un quinto, un anello col talismano sull'elegante mignolo; una sesta, un'incantevole scarpetta; un settimo, una cravatta che eccita lo stupore; un ottavo, dei baffi che suscitano la tua grande ammirazione. Ma suonano le tre e l'esposizione finisce, la folla si dirada... Alle tre, un nuovo mutamento. Sulla Prospettiva Nevskij d'improvviso sorge la primavera: tutta la strada si ricopre di funzionari in uniformi verdi. Affamati consiglieri titolari, consiglieri di corte e d'ogni altro genere si sforzano con tutte le loro energie di accelerare il passo. I giovani registratori di collegio, i segretari provinciali e di collegio si affrettano ad approfittare del tempo che resta e a passeggiare per la Prospettiva Nevskij con sussiego, dando a divedere che non sono stati affatto per sei ore in ufficio. Ma i vecchi segretari di collegio, i consiglieri titolari e di corte camminano svelti: essi hanno altro da fare che dedicarsi alla contemplazione dei passanti, ancora non si sono pienamente distaccati dalle loro preoccupazioni; nelle loro teste c'è un guazzabuglio, c'è un intero archivio di pratiche cominciate e non terminate; invece di un'insegna per molto tempo essi vedono ancora una cartella piena di incartamenti o la faccia grassoccia del capufficio.
Dopo le quattro, la Prospettiva Nevskij è vuota e difficilmente vi incontrerete anche un solo impiegato. Magari la sartina di un negozio attraversa la Prospettiva con uno scatolone fra le mani, qualche misero relitto di capufficio umanitario che va in giro per il mondo in cappotto di frisia, qualche stravagante di passaggio per il quale tutte le ore sono uguali, qualche lunga e allampanata inglese con il ridicule e un libro in mano, qualche artigiano, uomo russo in soprabito di mezzo cotone stretto dietro e la barbetta a punta, che vive una vita di stenti e nel quale tutto è in movimento: la schiena, le braccia, le gambe, la testa, mentre egli passa cerimoniosamente sul marciapiede; talvolta anche un lavoratore di fatica; sulla Prospettiva Nevskij non incontrerete nessun altro.
Ma, non appena cade il crepuscolo sulle case e sulle strade, e la guardia, riparandosi sotto una stuoia, s'arrampica sulla scala ad accendere il lampione, e dalle basse vetrinette dei negozi occhieggiano quelle stampe che non ardiscono mostrarsi alla luce del giorno, allora la Prospettiva Nevskij di nuovo si rianima e si mette in movimento. Allora viene quel momento misterioso in cui le lampade danno ad ogni cosa una certa luce seducente, misteriosa. Incontrerete moltissimi giovani, per la maggior parte scapoli, in soprabiti pesanti e cappotti. A quest'ora si avverte un certo scopo nel passeggio o, meglio, qualcosa di simile a uno scopo. C'è un'aria straordinariamente spensierata, i passi di tutti accelerano e in genere si fanno assai irregolari. Lunghe ombre balenano sui muri e sul selciato e per poco non raggiungono con le loro teste il Ponte della Polizia. I giovani registratori di collegio, i segretari di provincia e di collegio, i consiglieri titolari e di corte stanno per lo più a casa, sia perché questa gente è ammogliata, sia perchè le cuoche tedesche che vivono nelle loro case fanno da mangiare molto bene. Qui incontrerete invece rispettabili vecchi che per due ore passeggiano lungo la Prospettiva Nevskij con un'aria di grande importanza e di straordinaria nobiltà. Li vedrete correre come giovani registratori di collegio allo scopo di sbirciare sotto il cappellino d'una signora adocchiata da lontano, le cui grosse labbra e le guance impiastricciate di belletti tanto piacciono a molti di quelli che vanno a passeggio, e più di tutto ai commessi di negozio, agli artigiani, ai mercanti che a passeggio ci vanno sempre in gruppo e solitamente a braccetto, con i soprabiti di taglio tedesco.
«Fermati!» gridò in quel momento il tenente Pirogòv dando uno strattone al giovanotto in frac e mantello che camminava con lui. «L'hai vista?»
«L'ho vista, è stupenda, proprio la Bianca del Perugino.»
«Ma tu di chi stai parlando?»
«Di lei, di quella con i capelli scuri. E che occhi! Dio, che occhi! Tutto il portamento, e i lineamenti, e l'ovale del viso... un portento!»
«Io invece ti sto parlando della bionda che è passata dietro di lei, da quella parte. Ma perchè non segui la bruna, se ti è piaciuta tanto?»
«Oh, com'è possibile!» esclamò il giovane in frac, diventando rosso. «Come se fosse una di quelle che battono di sera la Prospettiva; questa dev'essere una signora altolocata,» continuò con un sospiro, «soltanto, il mantello che ha indosso costa ottanta rubli!»
«Ingenuo!» gridò Pirogòv, spingendolo dalla parte dove sventolava il mantello vivace della signora, «sbrigati, sciocco, altrimenti ti scappa! Io intanto seguo la bionda!»
I due amici si separarono.
«Vi conosciamo bene, noi,» pensava fra sè Pirogòv con un sorriso presuntuoso e soddisfatto, convinto che non ci fosse bellezza che potesse resistergli.
Il giovane in frac e mantello si avviò con passo timido e trepidante nella direzione in cui sventolava lontano il mantello variopinto, che ora mandava riflessi brillanti, quando si avvicinava alla luce d'un lampione, ora di colpo si ricopriva di tenebra quando si allontanava. Il cuore gli batteva e senza volerlo accelerò il passo. Non osava nemmeno pensare di poter ottenere un qualche diritto all'attenzione della bella donna che svolazzava lontano e tanto più d'ammettere un pensiero così nero come quello cui gli aveva accennato il tenente Pirogòv; ma voleva soltanto vedere la casa, osservare dove abitava quella deliziosa creatura che pareva esser caduta direttamente dal cielo sulla Prospettiva Nevskij e sicuramente sarebbe poi volata chissà dove. Anche lui andava così rapido che di continuo sospingeva giù dal marciapiede gravi signori coi basettoni bigi. Questo giovanotto faceva parte d'una categoria che da noi costituisce un fenomeno alquanto strano e non appartiene alla cittadinanza di Pietroburgo più di quanto una persona apparsaci in sogno appartenga al mondo reale. Questo ceto eccezionale è assai insolito in questa città dove tutti sono funzionari o mercanti o artigiani tedeschi. Era infatti un artista. Uno strano fenomeno, non è vero? Un artista pietroburghese! Un artista nella terra delle nevi, un artista nel paese dei Finni, dove tutto è umido, piatto, uguale, grigio, nebbioso. Questi artisti non assomigliano affatto agli artisti italiani, fieri e ardenti come l'Italia e il suo cielo; al contrario, si tratta per la maggior parte di gente buona e mite, timida, indolente, che ama in silenzio la propria arte, che beve il tè con un paio di amici in una piccola stanza, che discute con modestia dell'oggetto amato e disprezza in modo assoluto il superfluo. Eternamente invita in casa qualche vecchia mendicante e la obbliga a star seduta per sei ore buone al fine di trasferire sulla tela la sua misera e insensibile faccia. Disegna la prospettiva della propria stanza, dove si trova ogni genere di cianfrusaglia artistica: mani e piedi di gesso divenuti color del caffè per il tempo e la polvere, cavalletti spezzati, una tavolozza rovesciata, un amico che suona la chitarra, pareti sporche di colori, la finestra spalancata oltre la quale si scorgono la pallida Neva e poveri pescatori con le camicie rosse. In quasi tutto ciò che fanno domina un torbido colore grigio: impronta incancellabile del settentrione. Con tutto ciò, essi si dedicano con vera gioia al loro lavoro. Non di rado coltivano in sè un autentico talento e se soltanto soffiasse su di essi l'aria fresca d'Italia, essi si svilupperebbero in modo libero, ampio e luminoso come una pianta che da una camera viene finalmente esposta all'aria aperta. In genere sono molto timidi; una decorazione o una spallina dorata li mettono in un tale smarrimento che senza volerlo abbassano il prezzo delle loro opere. Talvolta amano far sfoggio d'eleganza, ma su di loro quest'eleganza sembra sempre troppo vistosa e dà un po' l'impressione di un rattoppo. A volte li vedete con un ottimo frac e un mantello sudicio, con un costoso panciotto di velluto e una finanziera sporca di colori. Nella stessa maniera in cui su un loro paesaggio non finito certe volte scorgete una ninfa disegnata con la testa in giù, perchè, non trovando altro luogo, l'artista l'ha abbozzata sullo sfondo sporco di un'opera precedente che un tempo aveva pur dipinto con soddisfazione. Non vi guardano mai dritto negli occhi; e se vi guardano, lo fanno in modo vago, indeterminato; non vi trafiggono con lo sguardo d'avvoltoio dell'osservatore o con lo sguardo di falco di un ufficiale di cavalleria. Questo avviene perchè loro vedono nel medesimo tempo i lineamenti vostri e i lineamenti di qualche Ercole di gesso che sta nella loro stanza; oppure perchè appare loro un quadro, che per il momento soltanto pensano di realizzare. Per questo rispondono sovente in modo sconnesso, a volte a sproposito, e gli oggetti che si confondono nella loro testa aumentano ancor più la loro timidezza. A questa stirpe apparteneva il giovane da noi descritto, l'artista Pìskarev, contegnoso, timido, ma che portava nella sua anima faville di sentimento, pronte a trasformarsi in fiamma alla prima occasione favorevole.
Con segreta trepidazione egli si affrettava dietro l'oggetto che l'aveva tanto fortemente colpito, e pareva stupirsi lui stesso della propria temerarietà. L'ignota creatura verso la quale erano così attratti i suoi sguardi, pensieri e sentimenti, a un tratto voltò la testa e lo guardò. Dio, che divini lineamenti! La deliziosa fronte d'abbagliante candore era ombreggiata da capelli stupendi come l'agata. Essi s'avvolgevano in riccioli meravigliosi, e una parte, cadendo di sotto al cappellino, sfiorava una guancia soffusa d'un tenue rossore causato dalla frescura serale. Le labbra erano suggellate da un intero sciame di deliziosi sogni. Tutto ciò che resta dei ricordi dell'infanzia, tutto ciò che produce la fantasticheria e la quieta ispirazione davanti al lume della lampada, tutto ciò sembrava essersi concentrato, fuso e riflesso nelle sue armoniose labbra. Ella guardò Pìskarev e a questo sguardo il cuore di lui tremò; l'aveva guardato con severità, sul suo viso trasparì un sentimento d'indignazione per un inseguimento così sfrontato; ma su quel viso meraviglioso persino l'ira era affascinante. Colto da vergogna e da timidezza, egli si fermò ad occhi bassi; ma come perdere quella divinità e non conoscere neppure il sacrario dove ella s'era abbassata ad alloggiare? Questi pensieri passarono per il capo del giovane sognatore ed egli decise di continuare l'inseguimento. Ma, per non farsi scoprire, lasciò una certa distanza; si mise a guardare distrattamente di qua e di là e ad osservare le insegne, senza tuttavia perdere di vista neanche un solo passo della sconosciuta. I passanti cominciarono a farsi più radi, la via diventava più tranquilla; la bella si guardò intorno ed egli ebbe l'impressione che un leggero sorriso brillasse sulle labbra di lei. Allora cominciò a tremare tutto: non credeva ai propri occhi. No, era quel lampione che con la sua ingannevole luce aveva disegnato sul volto di lei un simile sorriso; no, erano gli stessi suoi sogni che si facevano beffa di lui. Ma il respiro gli mancò, tutto dentro di lui si trasformò in un vago tremito, tutti i suoi sentimenti presero fuoco e tutto dinanzi a lui s'avvolse in una specie di nebbia. Il marciapiede correva sotto di lui, le carrozze con i cavalli galoppanti sembravano immobili, il ponte si allungava e si spezzava al culmine dell'arcata, la casa aveva il tetto in giù, la garitta gli crollava addosso e l'alabarda della sentinella sembrava scintillare proprio sulle ciglia dei suoi occhi insieme con le parole dorate dell'insegna e con le forbici che v'erano disegnate. E tutto questo l'aveva prodotto un solo sguardo, un solo movimento della graziosa testolina. Senza udire, senza vedere, senza percepire, egli correva sulle orme leggere dei meravigliosi piedini, sforzandosi di moderare la velocità del proprio passo che volava col ritmo del cuore. Neppure s'accorse che, a un tratto, dinanzi a lui era sorta una casa di quattro piani; che le quattro file di finestre, scintillanti di luci, lo guardavano tutte insieme, e la ringhiera presso l'ingresso lo respingeva con ferrea fermezza. A momenti lo assaliva il dubbio: l'espressione del viso di lei era davvero così benevola come sembrava? Allora si fermava per un istante, ma il battito del cuore, la forza invincibile e l'ansia di tutti i suoi sensi lo spingevano avanti. Vide la sconosciuta correre su per la scala, voltarsi, portare un dito alle labbra e fargli segno di seguirla. Gli tremarono le ginocchia; i sensi, i pensieri bruciavano; un fulmine di gioia penetrò nel suo cuore con una fitta intollerabile. No, non era più un sogno! Dio, quanta felicità in un istante! Quanta meravigliosa vita in due minuti!
Non stava sognando? Possibile che quella donna per la quale era pronto a dare tutta la vita pur di ottenerne uno sguardo e il cui pensiero gli procurava un'inesprimibile beatitudine non appena si avvicinava alla sua abitazione, possibile che adesso fosse così benevola e premurosa nei suoi confronti? Salì volando le scale. Non nutriva alcun pensiero terreno; non era scaldato dalla fiamma di una passione terrena, no, in quel momento era puro e immacolato come un vergine adolescente che ancora respira un'indistinta esigenza spirituale d'amore. E ciò che in un uomo corrotto avrebbe eccitato intenzioni sfrontate, proprio ciò, al contrario, santificava ancor più i suoi pensieri. Questa fiducia che gli dimostrava la debole magnifica creatura, questa fiducia gli imponeva l'obbligo d'un rigore cavalleresco, l'obbligo di eseguire come uno schiavo tutti i comandi di lei. Desiderava soltanto che questi comandi fossero i più ardui possibili, difficili da eseguire, per poter volare a superarli con la maggior tensione delle sue energie. Non dubitava che qualche evento segreto e insieme vitale avesse indotto la sconosciuta ad affidarsi a lui; che da lui, di certo, sarebbero stati sollecitati importanti servigi, e già avvertiva in sè la forza e la decisione a tutto.
La scala s'avvolgeva e insieme con essa si avvolgevano i suoi veloci sogni. «State attento nel salire!» echeggiò come un'arpa la voce, e riempì tutte le sue vene di nuova trepidazione. Alla buia sommità del quarto piano la sconosciuta bussò a una porta: essa si aprì ed entrarono insieme. Una donna d'aspetto abbastanza piacevole li accolse con una candela in mano, ma guardò in modo così strano e sfrontato Pìskarev che senza volerlo egli abbassò gli occhi. Entrarono in una stanza. Ai suoi occhi apparvero tre figure femminili negli angoli. Una disponeva su un tavolo delle carte; un'altra era seduta al pianoforte e suonava con due dita qualcosa che rassomigliava miseramente a un'antica polonaise; la terza era seduta davanti a uno specchio e pettinava i suoi lunghi capelli senza che la sfiorasse il pensiero di interrompere la propria toilette all'ingresso dello sconosciuto. Su tutto regnava un inverosimile disordine, come si può trovare soltanto nella stanza d'uno scapolo indolente. I mobili, abbastanza belli, erano coperti di polvere; un ragno aveva intessuto la sua tela sul cornicione scolpito; attraverso la porta socchiusa che dava in un'altra stanza si vedeva luccicare uno stivale con lo sperone e rosseggiare il colletto di un'uniforme; una fragorosa voce maschile e una risata di donna risonavano senza alcun ritegno.
Dio, dov'era capitato? Dapprima non volle crederci e cominciò a osservare più attentamente gli oggetti che riempivano la camera; ma le nude pareti e le finestre senza tendine non indicavano in alcun modo la presenza di un'ordinata padrona di casa; le facce sciupate di quelle misere creature, una delle quali stava seduta quasi sotto il suo naso e lo guardava con l'imperturbabilità con cui si guarda una macchia su un vestito altrui, tutto questo lo persuase che era capitato nel repugnante asilo dove ha dimora la triste dissolutezza generata da un'educazione sbagliata e dal terribile affollamento della capitale. L'asilo in cui l'uomo calpesta e deride in modo sacrilego tutto ciò che è puro e santo, che rende bella la vita; dove la donna, questa bellezza del mondo, questa corona della creazione, si trasforma in essere strano e ambiguo, e insieme con la purezza dell'anima, essa perde tutto ciò che è femminile, assimila in maniera repugnante i modi e le villanie dell'uomo e cessa ormai d'essere una debole creatura, così meravigliosa e così diversa da noi. Pìskarev la misurava dalla testa ai piedi con occhi stupiti come se non volesse convincersi che era lei quella che l'aveva stregato e fatto correre sulla Prospettiva Nevskij. Ma lei gli stava dinanzi bella come prima; i suoi capelli erano splendidi come prima; i suoi occhi apparivano celesti come prima. Lei era fresca, aveva solamente diciassette anni; si vedeva che quell'orribile corruzione l'aveva toccata da poco tempo, che ancora non era giunta a sfiorare le sue guance; esse erano fresche e lievemente soffuse da un delicato rossore. Era stupenda.
Egli stava immobile, in piedi dinanzi a lei, ed era già pronto a dimenticare tutto, ingenuamente, così come aveva dimenticato prima. Ma la bella si stancò di quel lungo silenzio e sorrise in maniera allusiva, guardandolo dritto negli occhi. Era un sorriso strano, pieno di inerme impudenza, e tanto poco si addiceva al viso di lei quanto un'espressione devota alla grinta di un usuraio o un libro di conti a un poeta. Egli sussultò. Lei dischiuse le sue graziose labbra e si mise a dire qualcosa, ma tutto ciò che diceva era così stupido, così volgare... Come se con l'innocenza avesse perso anche l'intelligenza. Ma lui non volle udire più nulla. Fu straordinariamente ingenuo e ridicolo, come un bambino. Invece di approfittare di tanta benevolenza, invece di rallegrarsi d'un caso simile, come chiunque altro al suo posto avrebbe senza dubbio fatto, scappò via a gambe levate, come una capra selvatica, e si precipitò nella strada.
La testa bassa e le braccia abbandonate, se ne stava seduto nella sua stanza, come un poveraccio che abbia trovato una perla inestimabile e subito gli sia ricaduta in mare.
«Com'era bella, che divini lineamenti, e dove? In che posto!...»
Ecco tutto ciò che riusciva a mormorare.
In realtà, mai la compassione ci assale così fortemente come alla vista della bellezza contaminata dall'esiziale alito della corruzione. Fosse almeno la deformità a convivere con questa, ma la bellezza, la tenera bellezza... nei nostri pensieri si fonde solamente con l'innocenza e con la purezza. La bella che aveva così stregato il povero Pìskarev era effettivamente un fenomeno stupendo, eccezionale. La sua presenza in quell'ambiente spregevole sembrava ancor più straordinaria. Tutti i suoi lineamenti erano così finemente modellati, tutta l'espressione del suo meraviglioso viso era improntata a tale nobiltà che era impossibile pensare che la corruzione avesse allungato sopra di lei i suoi terribili artigli. Essa avrebbe potuto essere l'inestimabile perla, tutto l'universo, tutto il paradiso, tutta la ricchezza d'un marito appassionato; avrebbe potuto essere la meravigliosa e tranquilla stella d'un poco appariscente circolo familiare, e con un solo movimento delle sue incantevoli labbra dare dolci disposizioni. Avrebbe potuto essere una divinità in una sala affollata, sul parquet luminoso, nello scintillio delle candele, fra la muta venerazione degli adoratori prostrati al suoi piedi; e invece, ahimè! per la mostruosa volontà d'uno spirito infernale avido di distruggere l'armonia della vita, con un ghigno era stata gettata nell'abisso.
Pervaso da una straziante compassione, egli continuava a star seduto dinanzi alla candela che bruciava. Era già passata la mezzanotte; la campana della torre battè la mezz'ora ed egli sedeva immobile, senza dormire, vegliando senza scopo. La sonnolenza, approfittando della sua immobilità, cominciava pian piano a vincerlo, la stanza cominciava a scomparire, soltanto il lume della candela traspariva attraverso i sogni che lo sopraffacevano, quando a un tratto un colpo alla porta lo fece trasalire e ritornare in sè. La porta si aprì ed entrò un servitore che indossava una ricca livrea. Mai nella sua stanza solitaria s'era affacciata una ricca livrea e per di più a un'ora così insolita... Egli rimase perplesso guardando con impaziente curiosità il servitore.
«Quella signora,» disse con un rispettoso inchino il servitore, «dalla quale vi siete degnato di recarvi alcune ore fa, ha ordinato di pregarvi d'andare da lei e ha mandato la carrozza a prendervi.»
Pìskarev era in piedi, in preda allo stupore: la carrozza, il servitore in livrea... No, di sicuro lì c'era uno sbaglio...
«Sentite, carissimo,» rispose con timidezza, «di certo non era qui che dovevate venire. Senza dubbio la signora vi ha mandato da qualcun altro, non da me.»
«Nossignore, non mi sono sbagliato. Siete ben voi che vi siete degnato d'accompagnare a piedi la signora fino alla casa sulla Litejnaja, in una camera al quarto piano, no?»
«Sì, io.»
«Bene, allora favorite al più presto, la signora desidera assolutamente vedervi e vi prega di favorire a casa sua.»
Pìskarev scese le scale di corsa. In cortile c'era appunto una carrozza. Egli vi salì.. gli sportelli sbatterono, le pietre del selciato rintronarono sotto le ruote e gli zoccoli, e la Prospettiva illuminata delle case con le insegne splendenti volò via dietro i finestrini della carrozza. Pìskarev riflettè per tutto il tragitto e non sapeva come spiegarsi quell'avventura. Una casa di proprietà, la carrozza, il servitore con la ricca livrea... non riusciva in alcun modo a metter d'accordo tutto questo con la camera al quarto piano, con le finestre polverose e il pianoforte scordato.
La carrozza si fermò davanti a un ingresso lussuosamente illuminato e di colpo fu preso da sbigottimento per la fila di carrozze, il chiacchiericcio dei cocchieri, le finestre illuminate a giorno e le note d'una musica. Il servitore con la ricca livrea lo fece scendere dalla carrozza e l'accompagnò rispettosamente in un vestibolo con colonne di marmo, dove stava un portiere gallonato d'oro, e mantelli e pellicce sparsi qua e là, rischiarato da una lampada sfolgorante. Un'aerea scalinata con le balaustre scintillanti, odorosa di profumi, correva verso l'alto. Era già su di essa, stava già entrando nella prima sala, quando si spaventò e arretrò d'un passo per il terribile affollamento. L'eccezionale varietà dei visi lo gettò in un totale smarrimento; gli sembrava che qualche demone avesse ritagliato tutto il mondo in un'infinità di pezzi diversi e poi avesse rimescolato tutti quei pezzi senza senso, senza nesso. Scintillanti spalle femminili e neri frac, lampadari, lampade, aerei veli svolazzanti, eterei nastri e il pingue contrabbasso che si affacciava dietro la balaustra del coro stupendo, tutto per lui era splendore. Mai in una sola volta aveva visto tanti rispettabili vecchi e anziani con le decorazioni sul frac; signore che camminavano lievi, orgogliose e graziose sul parquet, oppure stavano sedute in fila; mai aveva udito tante parole francesi e inglesi; e per giunta i giovani in frac erano pieni di tanta nobiltà, parlavano o tacevano con tanta dignità, sembravano così incapaci di dire alcunchè di superfluo, scherzavano così austeramente, sorridevano così cortesemente, portavano basettoni così magnifici, sapevano così abilmente mostrare le belle mani aggiustandosi la cravatta, e le signore erano così eteree, così immerse in una beatitudine e in un'ebbrezza assolute, abbassavano gli occhi in modo così seducente, che... l'aspetto stesso, dimesso e trasognato di Pìskarev, che per il timore si era appoggiato a una colonna, mostrava che egli era completamente sperduto. In quel momento la folla attorniò un gruppo che ballava. Le fanciulle roteavano, avvolte in trasparenti creazioni di Parigi, in abiti tessuti d'aria; sfioravano con noncuranza il pavimento con i piedini splendenti ed erano così leggere che sembrava volassero. Ma una fra loro era certamente la più bella, quella vestita nella maniera più sontuosa e scintillante. Tutta la sua persona esprimeva un gusto perfetto, del quale ella pareva del tutto ignara. Ella guardava e non guardava la folla di spettatori che l'attorniava; le lunghe ciglia meravigliose si abbassavano con indifferenza e lo scintillante candore del suo volto colpiva in modo ancor più abbagliante lo sguardo quando, al chinarsi del capo, un'ombra leggera ricopriva l'affascinante fronte.
Pìskarev fece ogni sforzo per aprirsi un varco nella gente e guardarla; ma, con suo sommo dispetto, una testa immensa con scuri capelli ricciuti gliela nascondeva; inoltre la folla lo stringeva così da vicino che egli non osava farsi avanti nè retrocedere, temendo in qualche modo di urtare un consigliere segreto. Ma ecco che riuscì alla fine a liberarsi, e diede un'occhiata al proprio vestito desiderando rimettersi in ordine. Celeste creatore, che era questo? Aveva indosso il soprabito, e per di più tutto imbrattato di colore: nella fretta di uscire s'era persino dimenticato di cambiarsi, di mettersi un abito decente. Diventò rosso fino alle orecchie e, chinata la testa, avrebbe voluto sprofondare, ma non c'era in verità luogo dove sprofondare: gentiluomini da camera in scintillante uniforme s'erano messi dietro di lui formando un muro compatto. Ora non desiderava altro che trovarsi il più lontano possibile dalla bella con quelle ciglia e la stupenda fronte. Con terrore alzò gli occhi per vedere se lei lo guardasse: Dio! Lei era proprio davanti a lui... Ma cos'era questo? cos'era questo? «È lei!» gridò quasi ad alta voce. In realtà era lei, la stessa che aveva incontrato sulla Prospettiva Nevskij e che aveva accompagnato fino a casa.
Poi ella sollevò le ciglia e guardò tutti col suo limpido sguardo. «Ah, ah, ah, com'è bella!...» potè soltanto mormorare Pìskarev con il fiato mozzo. Lei abbracciò con gli occhi tutta la cerchia di gente che a gara bramava d'attrarre la sua attenzione, ma con una certa stanchezza e noncuranza tosto distolse lo sguardo e incontrò gli occhi di Pìskarev. Oh, che cielo! che paradiso! dammi le forze, Creatore, di sopportare tutto questo! La vita non è in grado di contenerlo, esso distruggerà e porterà via la mia anima! Ella infatti gli fece un segno, ma non con la mano, non con un cenno del capo; no, quel segno apparve nel suoi occhi fatali, e con un'espressione così sottile e impercettibile che nessuno potè vederlo, ma lui lo vide, lui lo capì. Il ballo durò a lungo; la musica, esausta, sembrava spegnersi e morire del tutto, ma poi di nuovo esplodeva, strideva e rimbombava; finalmente: fine! Ella sedette, il suo petto si sollevava sotto la fine nube del velo; la sua mano (Creatore, che mano stupenda!) cadde su un ginocchio, premette sotto di sè il delicato abito e l'abito sotto di essa parve spirare musica e il suo fine color lilla delineò in modo ancor più visibile il candore di quella meravigliosa mano. Toccarla e nulla più! Nessun altro desiderio, erano tutti troppo temerari... Egli stava in piedi vicino a lei, dietro la sedia, non osando parlare, non osando respirare.
«Vi annoiate?» disse lei, «anch'io mi annoio. Vedo che voi mi odiate...» aggiunse, abbassando le sue lunghe ciglia.
«Odiare voi! Io? Io...» avrebbe voluto dire Pìskarev, completamente smarrito, e di certo avrebbe detto un mucchio di parole sconclusionate, ma in quel momento si avvicinò un camerlengo con le sue osservazioni acute e piacevoli e un magnifico ciuffo ondulato In testa. In modo abbastanza gradevole egli metteva in mostra una fila di denti discretamente belli e con ognuna delle sue spiritosaggini piantava un aguzzo chiodo nel cuore di Pìskarev.
Finalmente, per fortuna, uno dei presenti chiese qualcosa al camerlengo.
«Com'è insopportabile tutto questo!» disse lei, sollevando su Pìskarev i suoi occhi celestiali. «Andrò a sedermi dall'altra parte della sala; siate là!»
Scivolò via fra la folla e scomparve. Come un pazzo, egli si aprì un passaggio fra la folla e fu subito là.
C'era anche lei, seduta come una regina, di tutte la migliore, di tutte la più bella, e lo cercava con gli occhi.
«Siete qui,» disse piano. «Sarò sincera con voi: di certo vi sono sembrate strane le circostanze del nostro incontro. Ma come potete pensare che io appartenga a quella spregevole categoria di creature fra cui mi avete incontrato? Le mie azioni vi sembreranno strane, ma io vi svelerò il mistero: saprete,» aggiunse, puntando gli occhi attenti su di lui, «non tradirlo mai?»
«Oh, saprò, saprò, saprò!...»
Ma in quel momento si avvicinò un uomo piuttosto anziano, si mise a parlare con lei in una lingua incomprensibile per Pìskarev e le porse la mano. Ella guardò Pìskarev con occhi supplichevoli e gli fece segno di restare al suo posto e di attendere il suo ritorno; ma in preda all'impazienza, egli non era in grado di ascoltare alcun ordine fosse pure dalle labbra di lei. Si mosse per seguirla, ma la folla li separò. Ormai aveva perso di vista l'abito lilla; passava con inquietudine da una stanza all'altra e urtava senza misericordia tutti quelli che incontrava, ma in tutte le stanze c'erano sempre seduti degli alti papaveri che giocavano a whist, immersi in un silenzio di morte. In un angolo alcuni uomini anziani discutevano della superiorità della carriera militare rispetto a quella civile; in un altro angolo, uomini in magnifici frac lasciavano cadere osservazioni leggere sull'opera in molti volumi d'un poeta infaticabile. Pìskarev sentì che un uomo anziano dall'aspetto rispettabile lo afferrava per un bottone del frac e chiedeva il suo giudizio su un'osservazione assai giusta che aveva fatta, ma lui lo respinse con villania senza neppure far caso al fatto che quello aveva al collo un'onoreficenza importante. Scappò di corsa in un'altra stanza: ma lei non era neppure lì e neppure in una terza.
«Dov'è? Datemela! Non posso vivere senza darle un'occhiata! Voglio sapere cosa intendeva dirmi.»
Ma tutte le sue ricerche restavano vane. Inquieto, spossato, si addossò a un angolo e si mise a guardare la folla, ma i suoi occhi tesi per lo sforzo gli presentavano le cose in modo sempre più confuso. Finalmente cominciarono ad apparirgli nettamente le pareti della sua camera. Sollevò gli occhi: davanti a lui stava il candeliere con la fiamma ormai quasi spenta sul fondo; tutta la candela era consumata; il sego era colato sul tavolo.
Dunque aveva dormito! Dio, che sogno! E che bisogno c'era di svegliarsi? Perchè non era durato anche un solo minuto di più? di certo lei sarebbe riapparsa! Una luce fastidiosa e sgradevole penetrava attraverso i vetri delle finestre. La stanza era in preda a un grigio torbido disordine... Com'è repugnante la realtà! Che cosa è in confronto al sogno? Si svestì in fretta e si mise a letto, avvolgendosi tutto nella coperta, nel desiderio di richiamare per un istante le visioni del sogno che erano volate via. E, infatti, il sogno non tardò a ritornare, ma non gli mostrò affatto ciò che egli voleva vedere: ora compariva il tenente Pìrogov con la pipa, ora il custode dell'Accademia, ora un consigliere di stato, ora la testa d'una finlandese alla quale un tempo aveva fatto il ritratto, e altre balordaggini del genere.
Rimase a letto fino a mezzogiorno, sempre cercando di dormire, ma lei non comparve. Gli avesse almeno mostrato per un momento i suoi meravigliosi lineamenti, fatto sentire solo per un momento il fruscio del suo passo leggero, gli fosse almeno balenata dinanzi la sua mano nuda, candida come neve...
Era seduto con un'aria affranta e disperata, pieno soltanto della visione del suo sogno, estraneo a tutto, dimentico di tutto. Non pensava di metter mano a nulla; i suoi occhi guardavano senz'alcun interesse, senza vita nella finestra che dava nel cortile, dove un sudicio acquaiolo versava dell'acqua che subito si gelava nell'aria, e risuonava la voce asinina di un venditore ambulante: «Abitivecchicomproo!» Ciò che era quotidiano, ciò che era della realtà colpiva stranamente il suo udito. Rimase così seduto fino a sera, quando si gettò con avidità sul letto. Combattè a lungo contro l'insonia, ma finalmente la vinse. Daccapo un sogno, un sogno volgare, abbietto. Dio, abbi misericordia: almeno per un momento, almeno per un solo istante mostramela!
E poi attese di nuovo la sera, di nuovo si addormentò, di nuovo sognò un funzionario che era nello stesso tempo un funzionario e un fagotto; oh, cosa intollerabile! Finalmente, apparve lei! La sua testolina e i riccioli... lo guardava... oh, per quanto poco tempo! Di nuovo nebbia, di nuovo chissà quale sogno stupido.
I sogni diventarono infine tutta la sua vita e da allora la sua esistenza prese uno strano andamento: si può dire che dormisse quand'era sveglio e vivesse quando dormiva. Se qualcuno lo avesse visto sedere in silenzio davanti al tavolo vuoto o camminare per strada, certamente l'avrebbe preso per un sonnambulo o per un uomo distrutto dall'eccessivo bere; il suo sguardo divenne del tutto privo d'espressione, la sua innata svagatezza prese alla fine il sopravvento e fugò imperiosamente dalla sua faccia ogni sentimento, ogni guizzo.
Una simile condizione distrusse le sue energie, e il tormento più spaventoso fu per lui il fatto che, alla fine, il sonno cominciò ad abbandonarlo. Per salvare quella sua ultima ricchezza, egli impiegò ogni mezzo. Aveva sentito che c'è un sistema sicuro per dormire: basta prendere l'oppio. Ma dove trovare quest'oppio? Si ricordò d'un persiano che teneva un negozio di scialli e che ogni volta che l'incontrava lo pregava di dipingergli una bella donna. Decise di recarsi da lui, pensando che avesse dell'oppio. Il persiano lo ricevette seduto sul divano, con le gambe ripiegate sotto di sè.
«A che ti serve l'oppio?» gli domandò.
Pìskarev gli raccontò della sua insonnia.
«Bene, io ti darò l'oppio, ma tu devi dipingere per me una bellissima donna. Che i sopraccigli siano neri e gli occhi grandi come olive; e anch'io voglio esserci, sdraiato accanto a lei, mentre fumo la pipa. Capito? Che sia bella! Che sia uno splendore!»
Pìskarev promise tutto. Il persiano uscì per un momento e ritornò con una boccetta piena d'un liquido scuro, ne versò con cura una parte in un'altra boccetta e la diede a Pìskarev con l'ammonizione di non usarne più di sette gocce, nell'acqua. Egli afferrò la boccetta, che non avrebbe ceduto per un mucchio d'oro, e corse all'impazzata verso casa.
Giunto a casa, versò alcune gocce in un bicchiere con dell'acqua e, inghiottitala, si buttò sul letto.
Dio, quale felicità! Lei! di nuovo lei! Ma già sotto tutt'altro aspetto. Oh com'era incantevolmente seduta vicino alla finestra d'una luminosa casetta di campagna! Il suo abbigliamento aleggiava quella semplicità che solo la mente di un poeta può immaginare. L'acconciatura della sua testa... Creatore, com'era semplice quella pettinatura e come le stava bene! La corta treccia era gettata con leggerezza sul suo collo armonioso; tutto in lei era modesto, tutto in lei nasceva da un misterioso, inspiegabile senso del gusto. Com'era delizioso il suo grazioso portamento! Com'era musicale il fruscio dei suoi passi e dell'abito così semplice!
Com'era bello il suo braccio cinto da un braccialetto di crine! Lei gli parla con le lacrime agli occhi: «Non disprezzatemi: non sono affatto quella che voi credete. Guardatemi, guardatemi con più attenzione e dite: sono forse capace di fare ciò che voi pensate? Oh, no! no! Chi osa pensare una cosa simile, costui...»
Ma egli si destò! Commosso, dilaniato, con le lacrime agli occhi. «Meglio che tu non fossi mai esistita! Che tu non fossi venuta al mondo, che fossi soltanto la creazione di un artista ispirato! Io non mi allontanerei dalla tela, ti guarderei eternamente e ti bacerei. Vivrei e respirerei di te come d'un meraviglioso sogno, e sarei felice. Non avrei altro desiderio. Ti invocherei come l'angelo custode prima del sonno e della veglia, ti attenderei ogni volta che dovessi raffigurarmi ciò che è divino e santo. Mentre adesso... com'è spaventosa la vita! A che serve che lei viva? La vita d'un pazzo è forse piacevole per i suoi parenti e amici che un tempo gli hanno voluto bene? Dio, che cos'è la nostra vita! Un eterno conflitto del sogno con la realtà!» Pensieri del genere lo tenevano incessantemente occupato. Non pensava a null'altro, non mangiava quasi più e, con impazienza, con la passione d'un amante, attendeva la sera e la visione agognata. La tensione della mente verso un unico punto assunse infine un potere tale su tutta la sua vita e sulla sua immaginazione, che l'agognata immagine gli appariva quasi ogni giorno, sempre sotto un aspetto contrastante con la realtà, perchè i suoi pensieri erano puri come quelli d'un bambino. Attraverso quelle visioni anche l'oggetto in un certo senso si faceva ancor più puro e si trasfigurava del tutto.
Le dosi d'oppio rendevano ancor più incandescenti i suoi pensieri e se c'era un uomo innamorato all'ultimo stadio della follia, in modo precipitoso, spaventoso, distruttivo, tempestoso, quest'infelice era lui.
Di tutte le visioni di sogno una fu per lui più esaltante di tutte. Essa gli apparve nel suo studio: lui era così contento, sedeva con tanto piacere con la tavolozza fra le mani! E lei era lì. Era già sua moglie. Era seduta accanto a lui, il grazioso gomito appoggiato alla spalliera della sua sedia, e guardava il suo lavoro. Nei suoi occhi, languidi, stanchi, era scritto il peso della felicità: tutto nella stanza di lui respirava un'aria di paradiso; tutto era così luminoso, così in ordine. Dio! lei chinava sul suo petto la graziosa testolina... Non aveva mai fatto un sogno più bello. Da esso si svegliò in un certo senso più fresco e meno svagato di quanto fosse prima. Nella sua testa nascevano strani pensieri : forse, pensava, ella è stata trascinata nella corruzione da qualche terribile avvenimento di cui non ha colpa; forse la sua anima tende al pentimento; forse lei stessa vorrebbe strapparsi dalla sua spaventosa condizione. E come posso accettare con indifferenza che si perda, e, per giunta, quando basterebbe porgerle la mano per salvarla dall'annegare? I suoi pensieri andavano anche più in là.
«Me, nessuno mi conosce,» diceva a se stesso, «e chi si interessa di me? nè io m'interesso degli altri. Se lei manifestasse un pentimento sincero e cambiasse vita, io la sposerei. Devo sposarla e di certo farei molto meglio di quelli che si sposano con le loro governanti e spesso addirittura con le persone più spregevoli. Il mio gesto sarebbe invece disinteressato e persino grande. Restituirei al mondo il suo più stupendo ornamento.»
Concepito un piano così sconsiderato, sentì una vampa di rossore salirgli al viso; si avvicinò allo specchio e si spaventò delle proprie guance incavate e del pallore del volto. Cominciò con cura ad abbigliarsi; si lavò, si pettinò, indossò un frac nuovo, un elegante panciotto, si buttò addosso il mantello e uscì nella strada. Aspirò l'aria fresca e sentì una freschezza nel cuore, come un convalescente che abbia deciso di uscire per la prima volta dopo una lunga malattia. Il cuore gli batteva mentre si avvicinava alla via dove non aveva più messo piede dal tempo del fatale incontro.
Cercò lungamente la casa: sembrava che la memoria l'avesse tradito. Percorse due volte la strada e non sapeva di fronte a quale casa fermarsi. Finalmente una gli parve familiare. Corse rapidamente per la scala, bussò alla porta: la porta si aprì e chi gli venne incontro? Il suo ideale, la sua immagine misteriosa, l'originale dei quadri che vedeva in sogno, la donna per la quale egli viveva, viveva così spaventosamente, tormentosamente, dolcemente. Lei in persona era lì dinanzi a lui. Si mise a tremare; poteva appena reggersi sulle gambe per la debolezza, assalito da un impeto di felicità. Ella stava lì dinanzi a lui, sempre così bella, benchè i suoi occhi fossero assonnati, benchè il pallore coprisse il suo viso, non più così fresco ormai; ma era lo stesso, era sempre meravigliosa.
«Ah!» gridò, vedendo Pìskarev e soffregandosi gli occhi. Erano già le due. «Perchè quella volta siete scappato via?»
Pìskarev s'era lasciato cadere senza forze su una sedia e la guardava.
«Io mi sono svegliata appena adesso; mi hanno riportato qui alle sette di questa mattina. Ero completamente ubriaca,» aggiunse con un sorriso.
Oh, meglio che tu fossi muta, priva del tutto di favella, piuttosto che dire simili cose! D'un tratto, con queste parole, gli aveva mostrato come in una lanterna magica tutta la sua vita. Comunque, malgrado ciò, facendo forza al suo cuore, egli decise di provare se le sue esortazioni avrebbero avuto effetto su di lei. Fattosi animo, con voce tremante e nello stesso tempo infiammata, cominciò a dipingerle la spaventosa condizione in cui ella si trovava. Lei lo ascoltava con aria attenta e con quell'espressione di stupore che sempre manifestiamo di fronte a qualcosa d'inatteso e di strano. Con un sorriso lanciò anche un'occhiata a una sua amica seduta in un angolo, che, smettendo di pulire un pettine, s'era messa ad ascoltare attenta quel nuovo predicatore.
«È vero, io sono povero,» disse infine, dopo la sua lunga e istruttiva predica, Pìskarev, «ma ci metteremo d'impegno a migliorare la nostra vita. Non c'è nulla di più bello che essere debitori di tutto solamente a se stessi. Io lavorerò ai miei quadri; tu, seduta accanto a me, ispirerai le mie opere, ricamerai, oppure ti dedicherai a qualche lavoro di cucito, e non avremo bisogno di nulla.»
«Com'è possibile!» l'interruppe lei con un'espressione di disprezzo. «Io non sono una lavandaia o una sartina, perchè debba mettermi a lavorare.» Dio! In quelle parole s'esprimeva tutta una vita abbietta, spregevole, una vita fatta di vuoto e di vanità, fedeli compagni della corruzione.
«Sposate me!» disse pronta, con tono sfrontato, la sua amica nell'angolo, che sino allora era rimasta in silenzio. «Quando sarò maritata, me ne starò seduta così!» e, nel dir questo, la sua misera faccia assunse un'aria stolida che fece molto ridere la bella di Pìskarev.
Oh! Questo poi era troppo! Sopportare questo era al di sopra delle sue forze. Egli si precipitò fuori senza più coscienza di sè, nè pensieri. Aveva la mente sconvolta: follemente, senza meta, senza vedere, senza udire, senza sentire nulla, vagabondò per tutto il giorno. Nessuno seppe mai se avesse pernottato in qualche posto oppure no; solo il giorno dopo, per uno sciocco istinto, tornò a casa sua, pallido, con un aspetto spaventoso, i capelli scarmigliati, i segni della follia sulla faccia. Si chiuse nella sua stanza e non fece entrare nessuno, non chiese di nessuno. Passarono quattro giorni e la sua stanza chiusa a chiave non si aprì nemmeno una volta; passò infine una settimana e la stanza era sempre chiusa a chiave. Accorse gente alla sua porta, si cominciò a chiamarlo, ma non vi fu nessuna risposta; finalmente la porta fu sfondata e fu trovato il suo corpo esanime con la gola tagliata. Sul pavimento c'era un rasoio insanguinato. Dalle braccia spasmodicamente aperte e dalla faccia terribilmente contratta si potè dedurre che la sua mano aveva vacillato e che egli aveva ancora lungamente sofferto prima che la sua anima peccatrice lasciasse il corpo.
Così perì, vittima di una folle passione, il povero Pìskarev, quieto, timido, modesto, infantilmente ingenuo, che forse recava in sè la scintilla di un talento che con il tempo sarebbe divampato in modo ampio e fulgente. Nessuno pianse su di lui; vicino al suo corpo esanime non si vide nessuno, eccetto la solita figura del commissario del quartiere e la faccia indifferente del medico municipale. Portarono la sua bara a Ochtà, in silenzio, persino senza i riti della religione seguendola, piangeva soltanto il soldato di sorveglianza e anche lui perchè aveva bevuto un boccale di vodka di troppo. Nemmeno il tenente Pìrogov venne a vedere il cadavere dell'infelice al quale in vita aveva concesso la sua alta protezione. Del resto, egli aveva ben altro da fare: era preso da un avvenimento eccezionale. Volgiamoci pertanto a lui.
A me non piacciono i cadaveri e i morti, e provo sempre un senso di fastidio quando un lungo corteo funebre attraversa la mia strada, e un soldato invalido, incappucciato, annusa del tabacco con la mano sinistra perchè la destra è occupata dalla fiaccola. Sento sempre una specie di disagio nell'anima alla vista d'un ricco catafalco e d'una bara di velluto; ma il mio dispetto si mescola alla tristezza quando vedo un vetturino da noleggio che porta la bara rossa d'un povero, priva d'ogni copertura, dietro la quale si trascina solamente una mendicante che non ha altro da fare e l'ha incontrata a un crocicchio.
Abbiamo dunque lasciato il tenente Pìrogov nel momento in cui si separava dal povero Pìskarev per precipitarsi dietro la bionda. Questa bionda era una creatura leggerina, abbastanza interessante. Si fermava davanti a ogni negozio a osservare le cinture, i fazzoletti, gli orecchini, i guanti e le altre cosette esposte nelle vetrine, si rigirava di continuo, guardava da tutte le parti e si voltava indietro.
«Sei mia, colombella!» si diceva convinto Pìrogov mentre continuava il suo inseguimento e nascondeva la faccia nel bavero del cappotto. È forse opportuno, tuttavia, informare i lettori su chi fosse il tenente Pìrogov.
Prima di dire, però, chi fosse il tenente Pìrogov, dobbiamo forse raccontare qualcosa a proposito dell'ambiente a cui Pìrogov apparteneva. A Pietroburgo ci sono ufficiali che nella società costituiscono una specie di gruppo intermedio. Troverete sempre uno di loro a una serata, al pranzo di un consigliere di stato o di un consigliere effettivo che s'è meritato questo grado con quarant'anni di fatiche. Alcune figlie pallide, assolutamente incolori come lo è Pietroburgo, certune già troppo mature, un tavolino da tè, un pianoforte, balli casalinghi, tutto ciò è inseparabile dalla spallina luccicante che brilla sotto la lampada fra una biondina per bene e il nero frac del fratello o di un amico di casa. Queste ragazze dal sangue freddino sono terribilmente difficili da smuovere e far ridere; per far questo ci vuole o una grande arte o, meglio, non averne alcuna. Bisogna parlare in maniera che non sia nè troppo intelligente, nè troppo spiritosa, e che in tutto vi sia quel nonnulla che piace alle donne. In ciò bisogna render giustizia ai suddetti signori. Essi possiedono il particolare dono di farsi ascoltare e di far ridere queste incolori bellezze. Esclamazioni soffocate dal riso: «Ah, smettetela! Non vi vergognate di farmi ridere così!» sono sovente la loro migliore ricompensa. Nella classe più elevata essi capitano molto di rado o, per meglio dire, mai. Ne sono completamente respinti da coloro che in questa so cietà sono chiamati aristocratici. Per il resto, vengono considerati persone istruite ed educate. Amano discorrere di letteratura; lodano Bulgàrin, Pùškin e Greè, e parlano con disprezzo e con spiritose frecciate di A.A. Orlòv. Non si lasciano scappare una sola conferenza, fosse pure sulla computisteria o addirittura sull'economia forestale. A teatro, qualunque sia la rappresentazione, troverete sempre uno di loro, escluso forse soltanto il caso in cui si reciti qualche commedia con «Filatka», cosa che assai offenderebbe il loro gusto schizzinoso. A teatro vanno in continuazione; sono le persone più vantaggiose per le amministrazioni teatrali. Nelle commedie amano in particolar modo i buoni versi; e si divertono assai anche a chiamar fuori ad alta voce gli attori. Molti di loro, insegnando in istituti statali o preparando i giovani per questi istituti, alla fine riescono a farsi un calessino e un paio di cavalli. La loro cerchia allora si fa più ampia: finalmente giungono al punto di sposare la figlia d'un mercante che sa suonare il pianoforte, ha un centinaio di migliaia di rubli di dote in contanti e un mucchio di parenti barbuti. Non possono ottenere tuttavia questo onore prima d'aver prestato servizio almeno fino al grado di colonnello. Perchè le barbe russe, sebbene ancora puzzino alquanto di cavolo, non vogliono vedere le loro figlie se non sposate con dei generali o almeno dei colonnelli. Tali sono dunque le principali caratteristiche di questo tipo di giovani. Ma il tenente Pìrogov aveva una quantità di altri requisiti che appartenevano precipuamente a lui. Declamava magnificamente i versi del Dmìtrij Donskòj e di Che disgrazia l'ingegno; possedeva l'arte speciale di emettere dalla pipa il fumo in forma di anelli con tanta maestria da poterne infilare lì per lì una diecina uno nell'altro. Sapeva narrare molto piacevelmente la storiella della differenza che c'è fra il cannone e il rinoceronte. E difficile, insomma, enumerare tutti i pregi di cui la sorte aveva dotato Pìrogov. Gli piaceva parlare di un'attrice o di una ballerina, ma non sfacciatamente come fanno di solito su quest'argomento i giovani sottotenenti. Era molto soddisfatto del suo grado, al quale era stato promosso assai di recente, e, quantunque certe volte nello sdraiarsi su un divano, dicesse: «Oh, oh! Vanità, tutto è vanità! Che ne viene dal fatto che sia tenente?» questa dignità in segreto lo lusingava molto; nelle conversazioni cercava spesso di accennarvi di sfuggita, e, una volta che gli capitò per strada un certo scrivano che gli sembrò irrispettoso, immediatamente lo fermò e, con poche ma brusche parole, gli fece notare che aveva di fronte un tenente e non un qualsiasi altro ufficiale. E espose la cosa nel modo più eloquente in quanto gli stavano passando vicino due signore per nulla brutte. Pìrogov in genere aveva passione per ogni cosa bella e incoraggiava l'artista Pìskarev; ciò, è probabile, anche per il fatto che desiderava vedere la propria virile fisionomia rappresentata in un ritratto. Ma basta con le doti di Pìrogov. L'uomo è un essere così sorprendente che non si possono mai enumerare insieme tutte le sue qualità e, quanto più lo scruti, tanto più numerose sono le nuove peculiarità che appaiono, sicchè a descriverle non si finirebbe mai.
Pìrogov, dunque, non desisteva dall'inseguire la sconosciuta, infastidendola di tanto in tanto con domande alle quali essa rispondeva in modo brusco, a scatti e con certi suoni indistinti. Attraverso la buia Porta di Kazàn' imboccarono la Via Mešèànskaja, via di botteghe di tabacco e di cosucce varie, di artigiani tedeschi e di ninfe finniche. La biondina si mise a correre più svelta e svolazzò dentro il portone d'una casa abbastanza sudicia. Pìrogov, dietro di lei. Essa corse su per la stretta e buia scala ed entrò in una porta nella quale pure Pìrogov s'intrufolò arditamente. Si vide allora in una grande stanza con le pareti nere e il soffitto affumicato. Sul tavolo c'era un mucchio di viti di ferro, di attrezzi da fabbro, di caffettiere e di candelieri luccicanti; il pavimento era sporco di limatura di rame e di ferro. Pìrogov intuì subito che si trattava dell'alloggio d'un artigiano, La sconosciuta svolazzò oltre, in una porta laterale. Per un momento egli pensò cosa dovesse fare, ma, seguendo la regola russa, si decise ad andare avanti. Entrò allora in una stanza che non assomigliava affatto alla prima: era rassettata con molta cura, così da mostrare che il padrone era un tedesco. E qui rimase sbigottito da una scena strana, del tutto insolita.
Davanti a lui stava seduto Schiller, non lo Schiller che ha scritto il Guglielmo Tell e la Storia della guerra dei trent'anni, ma il famoso Schiller maestro lattoniere della Via Mešèànskaja. Accanto a Schiller stava in piedi Hoffman, non lo scrittore Hoffman, ma il calzolaio piuttosto bravo della Via Ofièèrskaja, grande amico di Schiller. Schiller era ubriaco e stava seduto sulla sedia battendo un piede e parlando animatamente. Tutto questo non avrebbe ancora stupito Pìrogov; a stupirlo fu la posizione eccezionalmente strana delle due figure. Schiller era seduto con la testa rivolta in su in modo da protendere il suo naso piuttosto grosso; Hoffman lo teneva per quel naso con due dita, e su di esso roteava la lama del suo trincetto da calzolaio. Entrambi gli individui parlavano in idioma tedesco e perciò il tenente Pìrogov, che in tedesco sapeva dire solamente Gut Morgen, non riusciva a capire nulla di tutta quella storia. Le parole di Schiller, d'altronde, eran di questo tenore:
«Io non lo voglio, non ho bisogno del naso 'io!'» diceva agitando le braccia... «Solamente per il naso mi vanno tre libbre di tabacco al mese. E in uno schifoso negozio russo pago, perchè un negozio tedesco non tiene il tabacco russo, in uno schifoso negozio russo pago quaranta copechi la libbra; questo fa un rublo e venti copechi e poi fa quattordici rubli e quaranta copechi. Capisci, amico mio Hoffman?' Solamente per il naso quattordici rubli e quaranta copechi. E nei giorni di festa fiuto del râpé, perchè nei giorni di festa non ho voglia di fiutare schifoso tabacco russo. In un anno fiuto due libbre di râpé a due rubli la libbra. Sei più quattordici fa venti rubli e quaranta copechi, soltanto per il tabacco! È un brigantaggio: io ti domando, amico mio Hoffman, non è così forse?»
Hoffman, pure lui ubriaco, acconsentiva.
«Venti rubli e quaranta copechi! Io sono un tedesco della Svevia, ho il mio re in Germania. Io non voglio avere il naso! Tagliami il naso! Ecco qui il mio naso!»
E se non fosse stato per l'improvvisa apparizione del tenente Pìrogov, senza dubbio Hoffman avrebbe tagliato lì per lì il naso a Schiller, perchè aveva già messo il suo trincetto in posizione, come se volesse ritagliare una suola.
A Schiller parve assai seccante che tutt'a un tratto una persona sconosciuta e non richiesta lo disturbasse così a sproposito. Benchè fosse in preda agli inebrianti fumi della birra e del vino, sentì che era alquanto sconveniente trovarsi in quella posizione e in quell'atto in presenza d'un testimone estraneo. Nel frattempo Pìrogov fece un leggero inchino e, con la giovialità che gli era propria, disse:
«Voi mi scuserete...»
«Fuori!» rispose Schiller strascicando la voce.
Questo sconcertò il tenente Pìrogov. Un siffatto modo di trattarlo gli riusciva completamente nuovo. Il sorriso che aveva fatto capolino sulla sua faccia improvvisamente scomparve. Con un senso di dignità amareggiata egli disse:
«Mi pare strano, egregio signore... di certo voi non avete notato... io sono un ufficiale...»
«E che cos'è un ufficiale! Io sono un tedesco di Svevia. Io stesso», nel dir questo Schiller diede un pugno sul tavolo, «essere ufficiale: un anno e mezzo junker, due anni tenente, e io domani subito di nuovo ufficiale. Ma io non voglio servire. Io con ufficiale fare così: fu!» e nel dir questo Schiller portò il palmo alla bocca e vi soffiò sopra.
Il tenente Pìrogov vide che non gli restava altro da fare che allontanarsi; ma il trattamento, del tutto sconveniente per il suo grado, lo aveva ferito. Si fermò varie volte sulle scale, sconcertato, riflettendo su come si dovesse far capire a Schiller la sua impertinenza. Alla fine ragionò che Schiller si poteva perdonare, perchè la sua testa era piena di birra: inoltre gli tornò alla mente la graziosa biondina e decise di abbandonare all'oblio questo fatto.
Il giorno dopo il tenente Pìrogov si presentò di buon mattino nella bottega del mastro lattonaio. Nell'anticamera l'accolse la graziosa biondina e con una voce piuttosto severa, che assai si addiceva al suo visino, gli domandò:
«Che cosa volete?»
«Ah, salve, mia cara! Non mi riconoscete? Birichina, che begli occhietti!»
Così dicendo il tenente Pìrogov avrebbe voluto assai graziosamente sollevarle il mento con un dito. Ma la biondina emise un'esclamazione impaurita e con la stessa severità domandò di nuovo:
«Che cosa volete?»
«Vedere voi, non mi occorre nient'altro,» disse il tenente Pìrogov, sorridendo in maniera abbastanza piacevole e avvicinandosi; ma, avendo notato che la timorosa biondina voleva sgattaiolare per la porta, soggiunse:
«Ho bisogno, mia cara, di ordinare degli speroni. Voi potete farmi degli speroni? Sebbene per amarvi non occorrano affatto degli speroni, ma piuttosto una briglia. Ma che belle manine!»
Il tenente Pìrogov era sempre molto gentile quando faceva dichiarazioni di questo genere.
«Chiamo subito mio marito,» gridò la tedesca e se ne andò; dopo qualche minuto Pìrogov vide uscire Schiller con gli occhi sonnolenti, appena sveglio dopo la sbornia della sera prima. Data un'occhiata all'ufficiale, egli rammentò come in un sogno il fatto del giorno prima. Non ricordava bene come precisamente fossero andate le cose, ma sentiva che doveva aver fatto qualche sciocchezza e perciò accolse l'ufficiale con aria severa.
«Per degli speroni non posso prendere meno di quindici rubli,» disse per sbarazzarsi di Pìrogov, perchè per lui, onesto tedesco, era motivo di grande vergogna guardare chi l'aveva visto in una situazione sconveniente. A Schiller piaceva bere senza testimoni, con due o tre amici, e in quei momenti si nascondeva anche ai suoi lavoranti.
«Perchè mai così caro?» chiese affabilmente Pìrogov.
«Lavoro tedesco,» rispose gelidamente Schiller, carezzandosi il mento. «Un russo accetterebbe di farli per due rubli.»
«Scusate, per dimostrarvi che vi voglio bene e desidero fare la vostra conoscenza, pagherò i quindici rubli.»
Schiller rimase sovrappensiero: proprio perchè era un tedesco onesto sentì un po' di vergogna. Desiderava che Pìrogov rinunciasse all'ordinazione, e per questo dichiarò che prima di due settimane non avrebbe potuto far nulla. Ma, senz'alcuna obiezione, Pìrogov si disse d'accordo.
Il tedesco rimase pensieroso e si mise a riflettere come meglio eseguire il proprio lavoro affinchè valesse effettivamente quindici rubli. In quel momento la biondina entrò nella bottega e cominciò a cercare qualcosa sul tavolo ingombro di caffettiere. Il tenente approfittò della pensierosità di Schiller, si avvicinò a lei e le strinse il braccio nudo fino alla spalla. Ciò non piacque per nulla a Schiller.
«Main frau!» si mise a gridare.
«Vass vollen si doch?» strillò la biondina.
«Gheensì in cucina!»
La biondina uscì.
«Allora, fra due settimane?» disse Pìrogov.
«Sì, fra due settimane,» rispose soprapensiero Schiller. «adesso ho molto lavoro.»
«Arrivederci! Passerò da voi.»
«Arrivederci,» rispose Schiller chiudendo la porta alle sue spalle.
Il tenente Pìrogov decise di non abbandonare i suoi tentativi sebbene la tedesca gli avesse opposto un evidente rifiuto. Egli non riusciva a capacitarsi che gli si potesse resistere, tanto più che la sua amabilità e il suo brillante grado gli davano pieno diritto all'attenzione. Occorre dire però che la moglie di Schiller, nonostante tutta la sua avvenenza, era molto stupida. Del resto, la stupidità dà un fascino particolare a una donna graziosa. Io, almeno, ho conosciuto molti mariti che vanno in estasi per la stupidità delle loro mogli e vi vedono tutti i segni di un'innocenza infantile. La bellezza produce dei veri miracoli. Tutti i difetti spirituali, invece di causare repulsione, in una bella donna diventano, chissà perchè, straordinariamente attraenti; il vizio stesso, in esse, emana leggiadria, ma se la bellezza non c'è, una donna dev'essere venti volte più intelligente di un uomo per ispirare non dico amore, ma almeno della stima. La moglie di Schiller, del resto, nonostante tutta la sua stupidità, era sempre stata fedele ai suoi doveri e perciò era abbastanza difficile che Pìrogov riuscisse nella sua audace impresa. Ma al superamento degli ostacoli è sempre legata la gioia della conquista, e da quel giorno la biondina diventò per lui ancor più interessante. Egli cominciò a chiedere abbastanza spesso notizie dei suoi speroni, tanto che questo finì per venire a noia a Schiller, il quale fece di tutto per terminare al più presto gli speroni incominciati. Finalmente gli speroni furono pronti.
«Ah, che ottimo lavoro!» si mise a esclamare il tenente Pìrogov quando vide gli speroni. «Signoriddio, com'è fatto bene questo lavoro! Il nostro generale non ha degli speroni come questi.»
Sulla faccia di Schiller si diffuse un sentimento di soddisfazione. Nei suoi occhi comparve uno sguardo di felicità ed egli si riconciliò pienamente con Pìrogov.
«L'ufficiale russo è un uomo intelligente,» pensò fra sè.
«Sicchè voi, dunque, potete fare anche una montatura, per esempio per un pugnale o per altri oggetti?»
«Oh, io posso fare moltissimo,» disse Schiller con un sorriso.
«Allora mi farete una montatura per un pugnale. Ve lo porterò: ho un bellissimo pugnale turco, ma vorrei cambiargli montatura.»
Schiller fu come colpito da una bomba. Subito la sua fronte si corrugò. «Ti sta bene!» pensò fra sè, insultandosi in cuor suo per il fatto d'essersi attirato da sè quel lavoro. Rifiutare era ormai, a suo parere, disonorevole; per di più l'ufficiale russo aveva lodato il suo lavoro. Dopo aver scosso un po' la testa, espresse il proprio consenso, ma il bacio che, andandosene, Pìrogov impresse sfrontatamente proprio sulle labbra della graziosa biondina gli causò una grande perplessità.
Mi pare doveroso far conoscere un po' più da vicino Schiller al lettore. Schiller era un perfetto tedesco nel pieno senso di questa parola. Fin dall'età di vent'anni, quell'epoca felice in cui il russo vive alla giornata, Schiller aveva pianificato tutta la propria vita e non faceva strappi alla regola per nessun motivo. Aveva stabilito di alzarsi alle sette, di pranzare alle due, d'essere preciso in ogni cosa e ubriaco ogni domenica. Aveva stabilito di costituirsi in dieci anni un capitale di cinquantamila rubli e questa cosa era già sicura e inevitabile come il destino, perchè è più facile che un funzionario dimentichi di gettare un'occhiata nell'anticamera del proprio direttore che un tedesco si decida a cambiare ciò che si è ripromesso. Egli non aumentava in alcun caso le proprie spese e se il prezzo delle patate saliva troppo rispetto al solito, non aggiungeva un solo copeco ma semplicemente diminuiva la quantità e, quantunque certe volte restasse un po' affamato, tuttavia ci si era abituato. La sua meticolosità si spingeva al punto che aveva stabilito di non baciare sua moglie più di due volte nelle ventiquattro ore, e per non baciarla una volta di più, metteva sempre soltanto un cucchiaino di pepe nella minestra; di domenica, tuttavia, questa regola non veniva osservata così rigorosamente, perchè Schiller beveva due bottiglie di birra e una bottiglia di Kümmeln, che poi sempre malediceva. Non beveva come un inglese, che dopo il pranzo spranga la porta con il catenaccio e si ubriaca da solo. Al contrario, da bravo tedesco, beveva sempre in modo ispirato in compagnia del calzolaio Hoffman oppure del falegname Kunz, anche lui tedesco e grande ubriacone. Tale era il carattere del nobile Schiller, che alla fine si vide ridotto in una situazione molto difficile. Benchè fosse flemmatico e tedesco, le azioni di Pìrogov suscitarono in lui qualcosa di simile alla gelosia. Si rompeva la testa e non riusciva a escogitare un modo per sbarazzarsi di quell'ufficiale russo. Intanto Pìrogov, fumando la pipa nella cerchia dei suoi compagni - giacchè così ha disposto la provvidenza: che dove ci sono ufficiali, ci sono anche pipe - fumando dunque la pipa nella cerchia dei suoi compagni, alludeva significativamente e con un piacevole sorriso al suo intrigo con la graziosa tedeschina, con la quale, a sentir lui, era già prossimo a concludere, mentre in realtà aveva già quasi perduto la speranza di tirarla a sè.
Un giorno egli passeggiava per la Via Mešèànskaja sbirciando la casa dove faceva bella mostra l'insegna di Schiller con le caffettiere e i samovàr; con sua somma gioia scorse la testolina della biondina che si sporgeva dalla finestrella a guardare i passanti. Allora si fermò, le fece un segno con la mano e disse:
«Gut Morgen!»
La biondina rispose al suo saluto come si fa con un conoscente.
«Allora, vostro marito è in casa?»
«Sì,» rispose la biondina.
«E quand'è che non è in casa?»
«Di domenica non è in casa,» disse la stupida biondina.
«Questo non è male,» pensò fra sè Pìrogov, «di questo bisogna approfittare.»
E la domenica seguente si presentò alla biondina come un fulmine a ciel sereno. Schiller effettivamente non era in casa. La graziosa padrona di casa si spaventò, ma questa volta Pìrogov agì in maniera abbastanza cauta, si comportò in modo assai rispettoso e, facendo un inchino, mise in mostra tutta la bellezza del suo portamento agile e slanciato. Scherzò in modo molto piacevole e rispettoso, ma la sciocca tedesca a tutto rispondeva con dei monosillabi. Infine, dopo avere affrontato diversi argomenti e aver visto che nulla poteva interessarla, le propose di ballare. La tedesca acconsentì immediatamente, perchè le tedesche sono sempre felici di ballare. Su questo Pìrogov fondava grandi speranze: in primo luogo, a lei questo faceva piacere; in secondo luogo, egli così poteva mostrare i suoi modi e la sua abilità; in terzo luogo, nel ballo poteva starle più vicino, poteva abbracciare la graziosa tedesca e dar inizio a tutto; insomma, da questo si riprometteva un completo successo. Cominciò una gavotta, ben sapendo che le tedesche hanno bisogno di andar per gradi. La graziosa tedesca avanzò al centro della stanza e sollevò il meraviglioso piedino. Questa posizione entusiasmò a tal punto Pìrogov che si precipitò a baciarlo. La tedesca cominciò a gridare e con questo aumentò ancor più il proprio fascino agli occhi di Pìrogov; egli la tempestò di baci. Ma ecco che, d'improvviso, si aprì la porta ed entrò Schiller insieme con Hoffman e con il falegname Kunz. Tutti quei degni artigiani erano ubriachi come calzolai.
Lascio ai lettori giudicare dell'ira e dell'indignazione di Schiller.
«Insolente!» si mise a gridare in preda a estremo sdegno, «come osi baciare mia moglie! Tu sei un mascalzone e non un ufficiale russo. Che il diavolo ti pigli! Amico mio Hoffman, io sono un tedesco e non un porco russo!»
Hoffman rispose affermativamente.
«Oh, io non voglio avere corna! Prendilo, amico mio Hoffman, per il colletto, io non voglio,» continuò, agitando violentemente le braccia, mentre il suo viso andava assomigliando al panno rosso del suo panciotto. «Sono otto anni che vivo a Pietroburgo, in Svevia ho mia madre, mio zio sta a Norimberga, io sono un tedesco e non carne di vitello cornuto! Levagli tutto di dosso, amico mio Hoffman! Tienilo per braccia e gambe, kamarad mio Kunz!»
E i tedeschi afferrarono Pìrogov per le braccia e per le gambe.
Invano egli si sforzò di difendersi: quei tre artigiani erano la gente più robusta fra tutti i tedeschi di Pietroburgo. Se Pìrogov fosse stato in piena uniforme, probabilmente il rispetto per il suo grado e il suo titolo avrebbe fermato i tempestosi teutoni. Ma lui era venuto lì assolutamente a scopo personale e privato, con un soprabitino e senza spalline. Con grandissimo furore i tedeschi gli strapparono di dosso tutti gli abiti. Hoffman gli si sedette sulle gambe con tutto il suo peso. Kunz l'afferrò per la testa e Schiller diede di piglio a un fascio di verghe che servivano da ramazza. Debbo riconoscere con rammarico che il tenente Pìrogov venne fustigato assai dolorosamente.
Sono sicuro che il giorno dopo Schiller dovette cader preda di una violenta febbre, e tremò come una foglia aspettando da un momento all'altro l'arrivo della polizia; che solo Dio sa che cosa non avrebbe dato affinchè tutto ciò che era accaduto il giorno prima fosse stato solo un sogno. Ma ciò che è stato è stato. Nulla potrebbe reggere il confronto con l'ira e l'indignazione di Pìrogov. Il solo pensare a una così spaventosa offesa lo rendeva idrofobo. La Siberia e la fustigazione erano secondo lui una piccola punizione per Schiller. Volò a casa per recarsi di là, una volta cambiatosi, direttamente dal generale e descrivergli con le tinte più fosche la ribalderia degli artigiani tedeschi. Contemporaneamente voleva inoltrare anche una richiesta scritta allo Stato maggiore. Se poi lo Stato maggiore avesse stabilito una punizione insufficiente, allora rivolgersi direttamente al Consiglio di stato e magari all'Imperatore in persona.
Ma tutto questo finì in un certo modo piuttosto strano: strada facendo, egli entrò in una pasticceria, si mangiò due pasticcini di pasta sfoglia, leggiucchiò qualcosa sull'Ape del Nord, e ne uscì che non era più così furioso. Per giunta, la sera fresca e piuttosto gradevole lo indusse a passeggiare un poco per la Prospettiva Nevskij; verso le nove egli si calmò e trovò che di domenica non stava bene disturbare il generale, tanto più che senza dubbio era stato invitato in qualche posto, e perciò andò a passare la serata da un direttore del collegio di controllo, dove c'era una riunione molto piacevole di funzionari e di ufficiali. Qui trascorse con soddisfazione la serata e si distinse talmente nella mazurca che estasiò non soltanto le signore, ma persino i cavalieri.
«Curioso mondo è il nostro!» pensavo l'altro ieri, camminando per la Prospettiva Nevskij e riandando con la memoria a questi due avvenimenti. «In che strano, incomprensibile modo gioca il nostro destino! Riceviamo mai ciò che desideriamo? Raggiungiamo ciò a cui sembrano preparate apposta le nostre forze? Tutto va al contrario. A uno il destino ha dato degli stupendi cavalli ed egli li usa per andarsene indifferente in carrozza, senza accorgersi affatto della loro bellezza , mentre un altro il cui cuore arde di passione equina, va a piedi e si accontenta di far schioccare la lingua quando gli passa accanto un trottatore. Quello ha un ottimo cuoco, ma purtroppo una bocca così piccola che non può mandar giù più d'un paio di bocconcini; l'altro ha la bocca grande come l'arcata dello Stato maggiore, eppure deve accontentarsi di un qualsiasi pranzo tedesco a base di patate. Come gioca stranamente il nostro destino!»
Ma più strani di tutto sono gli avvenimenti che si svolgono sulla Prospettiva Nevskij. Oh, non credete alla Prospettiva Nevskij! Quando l'attraverso, sempre io m'avvolgo quanto più posso nel mio mantello e cerco di non guardare affatto gli oggetti che mi cadon sotto gli occhi. Tutto è inganno, tutto è sogno, nulla è ciò che sembra! Credete che quel signore che passeggia con un soprabito d'ottima fattura sia molto ricco? Neanche per sogno: tutti i suoi averi consistono in quel soprabito. Vi immaginate che quei due grassoni che si sono fermati davanti a quella chiesa in costruzione stiano ragionando della sua architettura? Nient'affatto: parlano di quelle due cornacchie che si sono posate in modo così curioso una di fronte all'altra. Credete che quel tipo agitato che muove le braccia stia parlando di come sua moglie ha buttato dalla finestra una pallina su un ufficiale che lui non conosce affatto? Neanche per sogno: sta dimostrando in che cosa consistesse il principale errore di Lafayette. Credete che quelle signore... no, alle signore credeteci meno che a ogni altro. Guardate le vetrine dei negozi: i ninnoli che vi sono esposti sono magnifici, ma puzzano d'una terribile quantità di biglietti di banca. E Dio vi guardi dallo sbirciare sotto i cappellini delle signore! Sventoli pure in lontananza il mantello d'una bella donna; a nessun costo io la seguirò per curiosare. Lontano, per amor di Dio, lontano dal lampione! E, se ci passate vicino, fatelo in fretta, più in fretta possibile. E già una fortuna se non lascierà gocciolare del grasso maleodorante sul vostro elegante soprabito. Ma, lampioni a parte, tutto alita inganno. Essa mente a ogni ora, questa Prospettiva Nevskij, ma più che mai quando la notte cala sopra di essa come una massa densa e fa spiccare i muri bianchi e giallastri delle case, quando l'intera città si trasforma in un solo tuono e lampo, miriadi di carrozze rotolano giù dai ponti, i postiglioni gridano e sobbalzano sui cavalli, e un demone in persona accende le lampade solo per mostrare ogni cosa sotto un aspetto che non è il suo.