Björn Larsson
Per gli amanti dei thriller, Björn Larsson scrive "una specie di giallo" che è un gioco letterario di ironia e autoironia, per indagare sulla scrittura e sulla vocazione artistica. In una graffiante satira di un mondo editoriale
alla spasmodica ricerca del prossimo successo, solo un "poliziotto-poeta" è in
grado di scoprire le associazioni nascoste, di rivelare l'inaspettato, di scoprire le verità che si nascondono dietro le apparenze.
1
Karl Petersén, direttore editoriale e responsabile del settore narrativa della prestigiosa casa editrice Arnefors & Söner, guardò i suoi due collaboratori più fidati, gli editor Sund e Berg. Sapeva che erano sulle spine e si stavano domandando perché li avesse convocati per una riunione straordinaria dopo l'orario d'ufficio, con l'espresso divieto di farne parola a chiunque altro, per quanto fidato. Petersén si divertiva un mondo a vedere le loro facce perplesse e li avrebbe tenuti volentieri sulla corda ancora un po', se non avesse fatto tanta fatica a mantenere la maschera
"Vi state certo chiedendo perché vi ho convocati in questo modo così poco convenzionale."
Era più un'affermazione che una domanda, ma i due annuirono.
"Ovviamente conoscete entrambi Jan Y. Nilsson."
Berg allargò le braccia.
"Uno dei migliori poeti del paese", disse.
"Ma probabilmente anche uno degli autori meno venduti in assoluto", aggiunse Sund. "Detto tra noi, potremmo definirlo uno che scrive buoni libri che nessuno vuole leggere, a parte qualche decina di intenditori."
"E che quasi nessuno vuole pubblicare", proseguì Berg. "Tranne un certo Karl Petersén, apparentemente sordo alle sirene della venalità della nostra epoca."
L'ultima affermazione era stata pronunciata in un tono che assomigliava molto all'ammirazione.
"Più che essere sordo, faccio finta di non sentire", precisò Petersén.
Sapeva bene che i due collaboratori lo stimavano per l'ostinato rifiuto di scendere a compromessi sulla qualità delle sue pubblicazioni, benché nessuno dei due possedesse il suo fiuto per opere che venivano immediatamente riconosciute, e spesso a ragione, come dei classici contemporanei, contribuendo così alla reputazione della casa editrice, se non alle sue casse. Perciò entrambi ogni tanto erano costretti a pubblicare libri di qualità inferiore ma con buone prospettive di vendita, in modo da conquistarsi la possibilità di stampare testi davvero validi, di quelli che si lasciano leggere e rileggere più volte, o che addirittura rischiano di cambiare la vita del lettore, nel migliore dei casi.
"Stavamo parlando di Jan Y. Nilsson", ripeté Petersén. "Ma lasciatemi cominciare da un'altra parte, cioè dall'incredibile successo di Conto alla rovescia del nostro Sven Marklind: milioni di copie vendute in tutto il mondo, con enormi guadagni per la casa editrice e i titolari dei diritti. Era prevedibile che un trionfo del genere sarebbe stato come fumo negli occhi per i nostri principali concorrenti. Non conosco tutti i dettagli, ma a quanto pare gli è capitato tra le mani il manoscritto di un thriller ben congegnato e hanno subito intravisto la possibilità di recuperare il terreno perduto. Hanno lanciato un'imponente campagna pubblicitaria e stuzzicato la curiosità generale dando importanza al fatto che l'autore ha scelto di scrivere sotto pseudonimo. Alla Fiera di Francoforte hanno spudoratamente fatto correre la voce di avere in mano una nuova serie di gialli in grado di eguagliare il successo di Marklind. Si è andati all'asta e sono riusciti a portare un paio di grandi editori europei a fare offerte dell'ordine del mezzo milione di corone. Ma il libro li valeva davvero? Non dico in termini commerciali. Se una casa editrice paga un anticipo di mezzo milione di corone per un libro, è ovvio che poi è costretta a dar fiato alle trombe del marketing. Qualsiasi critico che ne parli bene viene citato come arbitro del gusto, di lunga e consolidata esperienza. In certi paesi si arriva perfino a pagare le librerie perché espongano il volume in vetrina: tutto per recuperare le spese sostenute. Ma non è quello il vero pericolo: è se mai il rischio di deludere i lettori. Pubblicare in pompa magna libri che poi non mantengono le promesse è come minare la fiducia nella letteratura. E alla lunga equivale a scavarsi la fossa con le proprie mani.
"Forse penserete che per me sia facile parlare così, visto che me la cavo pubblicando in generale solo letteratura di qualità. Ma ricordate che non ho nessun tipo di snobismo sui generi: ritengo il giallo o il fantasy rispettabili quanto la poesia o il romanzo. Marklind era un totale sconosciuto quando si è ritrovato esposto in tutte le librerie, ottenendo un meritato successo con le sue sole forze, come la Rowling con Harry Potter o Eco con Il nome della rosa. Dico solo che dobbiamo fare il possibile per pubblicare il meglio di ogni genere. Dobbiamo imitare i produttori di vini e investire sulla qualità, perché è una scelta che paga. Chi produce più ormai quei vinacci acidi in bottiglioni con il tappo a vite? Nessuno. Perfino i vini bag-in-box sono migliori della feccia a buon mercato di una volta. E perché? Perché i consumatori hanno imparato che ci guadagnano di più a bere vini buoni che cattivi, indipendentemente che si tratti di rossi o bianchi, di Bordeaux o vini del Rodano, di vini tedeschi o bulgari. Perché il mercato editoriale dovrebbe essere diverso?"
Petersén non si aspettava una risposta, senza contare che si era scaldato inutilmente perché i due editor erano già dalla sua parte.
"Sai bene che l'ostacolo principale è la proprietà", disse Berg in tono affabile. "Se avessimo potuto tenerci tutti i milioni guadagnati con Larsson, Tolkien o Dan Brown, avremmo potuto scommettere di più sul lungo termine, prendere qualche rischio, far crescere gli autori e magari elargire anche qualche piccolo bonus per le loro fatiche. Ora come ora, invece, i guadagni spariscono nelle casse centrali del gruppo per coprire le perdite di altre attività, tipo la catena di librerie o i negozi alimentari in perenne difficoltà, tanto per fare un esempio."
"Lo so benissimo, ma ciò non toglie che dobbiamo comunque fare del nostro meglio. Giusto per potersi guardare allo specchio quando ci si alza al mattino."
"Scusa se ti interrompo", intervenne Sund, "ma non capisco cosa c'entri Jan Y. in tutto questo."
"Jan Y. sa scrivere", rispose Petersén con una certa enfasi.
"Ma è in grado di scrivere qualcosa che abbia una trama?"
"Senti: sono anni che seguo Jan Y. da vicino, sia in presentazioni e reading che a tu per tu, davanti a un bicchiere di vino in qualche squallido bar d'albergo dopo un incontro in biblioteca in angoli sperduti tipo Kiruna o Vetlanda. E ti assicuro che ho constatato con le mie proprie orecchie che ha anche uno spiccato talento narrativo. Nessuno sa raccontare meglio di lui episodi di vita vissuta, riuscendo insieme a commuovere e a divertire, ma finora si era sempre fermato agli aneddoti, come se gli mancasse il coraggio di lasciar intervenire l'immaginazione quando la realtà scade nella monotonia quotidiana. Jan Y. si attiene sempre meticolosamente a quello che sa, a quello che ha visto o sentito. La poesia dev'essere verità, dice sempre."
"Ma..."
Era stato Sund a intervenire, mostrando i primi segni di impazienza.
"Per farla breve", concluse Petersén con un sorriso malizioso, "ho convinto Jan Y. a scrivere un giallo."
"Questa poi!" esclamò Berg.
"Non l'avrei mai detto", commentò Sund.
"Nemmeno io", ammise Petersén. "Ma gli ho promesso l'aiuto di uno dei nostri più abili scrittori di genere, Anders Bergsten, che è anche un suo caro amico, e gli ho concesso di non firmare il contratto fino a quando non si fosse sentito sicuro - e io con lui - di poter riuscire nell'impresa, ovvero di scrivere un giallo che si distinguesse dalla massa per qualità letteraria. E ci è riuscito, ve lo posso garantire."
Petersén si chinò a prendere la ventiquattrore e ne estrasse uno spesso dattiloscritto che depositò rumorosamente sul tavolo.
"Ecco qui il giallo capolavoro di Jan Y. Manca solo il finale, non più di una cinquantina di pagine. Ma so che ce l'ha già chiaro in testa, e domani mattina quando andrò a trovarlo sul suo peschereccio a Helsingborg, potremo finalmente firmare il contratto."
"Posso chiederti di cosa parla?" si informò Berg.
"Certo che puoi, tanto io non ti rispondo. Preferisco che voi due leggiate il manoscritto quando sarà del tutto finito, e che veniate dopo a dirmi i vostri commenti e suggerimenti."
"Non è un po' eccessivo mettere tre editor esperti a lavorare su un giallo?" chiese Sund. "Perché non affidarlo a un normale lettore?"
"Perché questa sarà vera letteratura, non solo un abile prodotto commerciale come tanti altri. È quello che ho promesso ai colleghi stranieri che hanno già comprato i diritti, poco meno di una decina per essere più precisi, e per somme considerevoli."
Sund emise un fischio d'ammirazione.
"Come ci sei riuscito?"
"È questione di fiducia e affidabilità, come sapete. Non bisogna mai cercare di rifilargli a tutti i costi un titolo solo perché si pensa che possa vendere, per esempio. Gli editori stranieri, a parte rare eccezioni, non leggono lo svedese così ho tradotto io stesso i primi capitoli in inglese e li ho passati ai miei colleghi più stimati. Ne sono rimasti entusiasti quanto me. Ma fa parte dell'accordo mantenere il massimo riserbo fino all'uscita del romanzo, che verrà lanciato in contemporanea in diversi paesi europei. Non solo per creare interesse, ma anche perché contiene materiali scottanti che potrebbero suscitare malumori da più parti. Non è da escludere che ci ritroveremo con qualche querela, ma sono convinto che Jan Y. abbia abbastanza prove concrete per vincere qualsiasi causa che ci verrà intentata. Come dicevo prima, fa fatica a mentire."
Questa volta né Sund né Berg replicarono.
"Adesso capite perché la discrezione è fondamentale in questa faccenda. E gli unici di cui mi fido totalmente siete voi due."
Petersén posò una mano sul manoscritto.
"Un'ultima cosa. Nella mia cassaforte personale c'è una chiavetta USB con una copia del manoscritto, salvata sotto il modesto titolo di 'Capolavoro', senza il nome dell'autore. La chiavetta contiene anche le copie dei contratti con gli editori stranieri. Tanto per sicurezza."
"Perché ce lo dici?"
"Alla mia età non si può escludere la possibilità di morire d'infarto da un giorno all'altro. Naturalmente ho intenzione di sopravvivere ancora un po', almeno fino a che Jan Y. firmerà il contratto. Ma per il suo bene non voglio che la pubblicazione del libro dipenda da una sola persona, cioè da me. I cimiteri sono pieni di persone indispensabili, come ha scritto il poeta francese Charles Peguy, e ovviamente vale anche per il sottoscritto. Se mi dovesse capitare qualcosa, che Dio non voglia, sempre che Dio c'entri qualcosa, potrete andare avanti al posto mio. Jan Y. deve finalmente poter godere i frutti dei suoi sacrifici. Se lo merita. Ha già avuto abbastanza rimorsi di coscienza per essersi lasciato convincere."
"Di che cifra si tratta?"
"Un paio di milioni di corone di anticipi per i diritti stranieri. Non è una somma spropositata, e non è nemmeno la cosa più importante, anche se la casa editrice ha sempre bisogno di best seller. La cosa più importante è che solleveremo la qualità letteraria di un intero genere. So che suona presuntuoso, ma è questa la mia ambizione."
"E quanto hai pensato di dare a Jan Y. come anticipo per l'edizione svedese?" chiese Sund.
"Duecentomila corone."
"Sono un sacco di soldi."
"Sì, ma se teniamo conto delle vendite previste in Svezia e all'estero, il rischio è minimo."
Petersén prese il manoscritto e lo infilò nella ventiquattrore che lo seguiva ovunque.
"È tutto", disse, come se si trattasse di una bazzecola. "Domani pomeriggio prendo l'aereo per Helsingborg per incontrare Jan Y. e comunicargli le buone notizie. Avrei voluto farlo prima, ma ho preferito aspettare la risposta dalla Germania, che è arrivata solo oggi. Fischer paga sessantamila euro per i diritti."
"E sei sicuro che Jan Y. firmerà?" chiese Berg. "In fondo è famoso per la sua integrità estetica."
"Sicuro al cento per cento", rispose Petersén.
Ma non era del tutto sincero: sotto sotto sapeva che Jan Y. esitava ancora e che avrebbe dovuto mettercela tutta per fargli firmare il contratto. Petersén però aveva un paio di buoni argomenti nella manica, per esempio che la casa editrice non poteva continuare in eterno a pubblicare raccolte di poesia in perdita. Aveva anche avvisato Anders Bergsten, che era pronto a correre in suo aiuto. Ma sperava che Jan Y. firmasse spontaneamente, senza doverlo mettere con le spalle al muro. Non aveva scritto un bel libro, nonostante tutto?
2
Quando Jan Y. Nilsson si svegliò sul suo peschereccio trasformato in casa galleggiante, mezz'ora prima dell'alba di martedì 7 febbraio, non era sicuro di voler essere quello che era, un poeta a tempo pieno che aveva tradito tutto ciò in cui aveva creduto e per cui aveva lottato fin da quando, sedicenne, aveva deciso di dedicare la sua vita alla poesia. Cosa che in effetti aveva fatto. Ma a che prezzo? Nei primi dieci anni era vissuto praticamente in miseria: nessun giornale o rivista voleva comprare le sue poesie, nessuna casa editrice era interessata alle sue raccolte, nessuna scuola era disposta a pagare un poeta sconosciuto per parlare agli alunni dell'importanza della bellezza e del conforto, nessun teatro osava affidargli il palcoscenico per le sue letture, nessun cantautore voleva musicare i suoi testi. I suoi unici introiti derivavano dalle traduzioni che faceva, con le sue rudimentali conoscenze linguistiche e l'aiuto dei dizionari della biblioteca comunale, di celebri poeti italiani e spagnoli e di qualche romanziere. Per anni era vissuto di pasta al pomodoro, a parte i rari giorni al mese in cui percorreva a piedi i dieci chilometri che lo separavano dalla casa d'infanzia, per andare a trovare la madre, quando il padre non c'era. In quelle occasioni veniva imbandita una tavola luculliana in suo onore, solo che il suo stomaco si era ormai talmente ristretto che al ritorno gli capitava spesso di doversi fermare a vomitare. Abitava in un seminterrato che gli lasciava gratis un amico - perché qualcuno ne aveva, nonostante tutto - che credeva nel suo futuro di poeta, contro ogni probabilità e ragionevolezza. L'amico, Johan Svensson, arrivava perfino a leggere le sue poesie e a sostenere che gli piacevano. Ma Jan Y. non si faceva illusioni: Johan era un amico d'infanzia che aveva studiato economia e lavorava in banca. Era possibile che in qualche modo, se non altro per empatia, fosse davvero convinto di apprezzare i suoi versi, ma in realtà si intendeva di poesia quanto Jan Y. di economia, ovvero niente. Il che non impediva a Jan di essergli grato per quel suo ex locale commerciale al seminterrato. Lì almeno poteva tirare avanti, anche se d'inverno era dura, non potendosi neanche permettere di accendere i termosifoni. Si limitava a bruciare in una vecchia stufa di ghisa giornali vecchi e pezzi di legno che trovava nelle sue interminabili passeggiate in giro per la città in cerca di ispirazione e di versi. Perché ahimè era incapace di scrivere poesie seduto a un tavolo, per esempio in un caffè o in biblioteca, o almeno non la prima stesura, la più difficile. Doveva essere in perenne movimento e davanti alla realtà, senza che la fantasia si frapponesse come un filtro tra le parole e il mondo esterno. Ricordava bene il giorno in cui, a casa di sua madre, aveva scritto i suoi due primi veri versi. La madre gli aveva chiesto di prendere delle lenzuola nel comò in camera da letto. All'improvviso, aprendo il primo cassetto, fu colpito dal profumo di lenzuola pulite e la poesia era bell'e pronta:
Perfino ripiegato in un cassetto il paradiso odora di buono.
Ogni volta che pensava a quel momento si commuoveva. Fino ad allora aveva scritto migliaia di versi, ma nessuno che pensasse davvero di chiamare poesia. Adesso sapeva in cosa consiste: esprimere il mondo in modo da renderlo visibile. Fino a quel momento, come tanti altri poeti prima di lui, era caduto nella tentazione di immaginare nuove realtà, emozionanti e originali, nella convinzione che il compito della poesia fosse competere con lo stato delle cose, offrire una via di fuga dalla grigia quotidianità, far filtrare il sole attraverso le nubi grevi di pioggia della Scania a metà novembre. Invece era esattamente il contrario. Il segreto era trovare le parole che accerchiassero l'amore e l'odio, l'allegria e il dolore, la felicità e la sofferenza, l'insignificante e l'invisibile, in modo da renderli palpabili, percettibili e inevitabili. Nessuno dopo aver letto le sue poesie doveva essere in grado di passare accanto a quei frammenti di realtà senza vederli, senza prenderli sul serio - o almeno quello era il suo obiettivo. Il suo compito era far sì che il lettore notasse l'unica foglia rimasta verde in un bosco d'autunno, l'unica barca con la prua puntata in direzione opposta alle altre, l'unico merlo che continua a cantare anche sotto la pioggia, o ricordasse il tempo in cui ancora non si rizzavano antenne radio.
Per arrivarci bisognava rinunciare a ogni compromesso, come per esempio vivere a casa di suo fratello, che probabilmente lo avrebbe ospitato nonostante il divieto del padre, accettare qualsiasi altro lavoro per mantenersi o farsi invitare a cena da amici a intervalli troppo ravvicinati. Per scrivere versi che esprimessero l'essenza stessa della vita doveva stare in ascolto della realtà senza che nulla vi si frapponesse. Tutto ciò che era quotidiano, abitudinario e prevedibile era nemico della poesia, e perciò anche suo. "Sappiamo poco", aveva scritto Rilke nelle sue Lettere a un giovane poeta che Jan Y. teneva sempre sul comodino, "ma che dobbiamo attenerci al difficile è una certezza che non ci deve abbandonare; è bene essere soli, poiché la solitudine è difficile; che una cosa sia difficile deve essere per noi un motivo in più per farla." Tra i sentimenti della vita quotidiana forse solo l'amore, la nostalgia, la morte e il dolore sono compatibili con la poesia, e tutti sono ugualmente difficili da trattare ed esprimere a parole. Forse l'amore è addirittura troppo difficile. Perché altrimenti Rilke avrebbe consigliato al suo giovane poeta di non scriverne mai?
I sacrifici di Jan Y. avevano comunque finito per portare i loro frutti: alcune sue poesie erano state pubblicate in un'antologia di esordienti e notate in qualche riga di recensione sulla stampa. La casa editrice gli aveva perfino pagato un compenso di tremila corone: una vittoria! La prima cosa che aveva fatto con i soldi dell'assegno era andarsi a comprare un intero pacco di cotolette di maiale, che si era cotto e mangiato seduta stante. La seconda, una visita dal dentista. La dieta monotona seguita per anni gli aveva creato problemi di carie e infiammazioni alle gengive. Si può dire che i suoi primi guadagni di poeta se n'erano andati tutti in spese dentistiche, ma ne era valsa la pena: com'era possibile cogliere singole voci e suoni nel costante frastuono dell'epoca contemporanea, osservare l'ombra di una sterna o leggere le gioie e i dolori negli occhi di un essere umano, se si aveva mal di denti? Più o meno un anno dopo un piccolo editore aveva pubblicato una sua raccolta. Il suo primo vero libro! Accompagnato perfino da un modesto anticipo. Si era anche guadagnato un paio di recensioni, una delle quali a dir poco entusiasta. Per la prima volta da quando era diventato poeta, sentì che c'erano persone che capivano i suoi sforzi e che la sua vita non doveva necessariamente finire come quella di Van Gogh, che ammirava per la sua perseveranza, ma il cui destino disperato lo riempiva di profonda angoscia. Dove aveva trovato la forza di dedicare tutta la sua esistenza alla pittura quando nessuno, dico nessuno, voleva saperne della sua arte?
A passi lenti ma costanti, Jan Y. si era costruito una certa fama come poeta. Pubblicava in media una raccolta ogni due anni, ultimamente da Arnefors, e aveva ottenuto varie borse dall'Associazione Scrittori Svedesi e da altre benemerite istituzioni. Scriveva recensioni, organizzava giornate della poesia con il finanziamento di comuni e province, teneva lezioni in corsi di scrittura creativa e si era addirittura conquistato un fidato drappello di ammiratori che si presentavano regolarmente alle sue letture, ben contenti di pagare un biglietto d'ingresso. Di sicuro non era diventato ricco, ma almeno poteva permettersi di aggiungere il ragù al sugo della pasta e di offrire un bicchiere di vino o due agli amici che andavano a trovarlo. Quando, con suo profondo dolore, morì sua madre, scoprì che gli aveva lasciato un discreto gruzzolo, che aveva risparmiato per lui negli anni all'insaputa del padre. Era con quell'eredità che aveva comprato il peschereccio e ne aveva fatto la sua casa, la prima che avesse mai avuto.
Quella mattina, mentre beveva il suo caffè nella tuga guardando il porto industriale di Helsingborg, dov'era riuscito a trovare un ormeggio a buon mercato nel bacino sud, non poteva fare a meno di ripensare alla sua vita e di cercare di fare il punto. Molto probabilmente non sarebbe più stata la stessa: la sera prima Petersén, il suo editore da ormai parecchi anni, l'aveva chiamato annunciandogli che sarebbe arrivato con il primo aereo disponibile per portargli buone notizie. Non poteva significare altro che era riuscito a vendere i diritti esteri del giallo che lo aveva convinto a scrivere.
Jan Y. Nilsson, autore di thriller! La sola parola gli dava i brividi. Come aveva potuto cedere alle lusinghe di Petersén? La risposta era semplice: voleva ripagare tutto ciò che l'editore aveva fatto per la sua poesia. Ormai aveva pubblicato sette sue raccolte, tutte osannate dalla critica, e tutte in perdita. Le vendite medie si attestavano intorno alle cinquecento copie, di sicuro non sufficienti per compensare i generosi anticipi che riceveva ogni volta dalla casa editrice. E dunque, come avrebbe potuto voltare le spalle a Petersén quando gli aveva chiesto di provare a cimentarsi in un giallo?
"Sarebbe ora che un vero scrittore prendesse in mano la penna per dare finalmente dignità letteraria al genere", gli aveva presentato con una certa furbizia la questione.
"Ma perché proprio io?" aveva ribattuto Jan Y. "So a malapena mettere insieme due frasi normali separate da un punto."
"Semplicemente perché sei uno dei maggiori virtuosi della parola della Svezia contemporanea, senza contare che ti conosco abbastanza bene da sapere che hai un talento naturale di affabulatore. Hai per caso dimenticato tutti i brillanti aneddoti che mi hai raccontato negli anni?"
No, non se n'era dimenticato. E sotto sotto anche lui aveva accarezzato l'idea di scrivere un romanzo, come tanti altri poeti che guardano con invidia alle vendite della narrativa, trascurando il dettaglio che anche molti romanzi non vendono più di qualche centinaio di esemplari. Inoltre il suo amico Anders aveva promesso di aiutarlo, se mai si fosse deciso a scrivere qualcosa in cui l'inchiostro fosse più fitto degli spazi bianchi. Anders lo prendeva spesso in giro dicendo che otteneva fin troppa attenzione e troppi soldi, in proporzione al numero di parole delle sue raccolte: in fondo erano poco più che pagine bianche! Trasformate in prosa, sarebbero state comodamente su pochi fogli A4; una in particolare, con una trentina di haiku, addirittura in un foglio solo. Prima o poi avrebbe dovuto dare ai suoi lettori qualcosa che valesse il prezzo!
Era stato proprio quello il punto più dolente, quando Petersén aveva iniziato la sua campagna di convincimento, anche se, come sempre, era troppo elegante per ricorrere all'argomento delle perdite causate dai suoi libri. Aveva invece sottolineato che non c'era niente di male nel successo commerciale, anche per un poeta, e che Jan Y. avrebbe dovuto iniziare a pensare alla vecchiaia. Prima o poi non avrebbe più potuto accontentarsi di vivere su un peschereccio senza le più normali comodità. E aveva mai pensato a una forma di pensione integrativa? Jan Y. fu costretto ad ammettere di no. E se prima o poi gli fosse venuto il desiderio di mettere su famiglia? Come avrebbe contribuito al sostentamento dei figli? Non sarebbe stato dignitoso pesare sulle spalle della moglie o della convivente, o far crescere i propri figli su un peschereccio in un porto industriale, no?
Lì senza saperlo Petersén aveva toccato un altro nervo scoperto: dalla morte della madre non era passato praticamente giorno senza che Jan Y. pensasse ad avere un figlio. Ci aveva anche provato con la donna del momento, ma senza riuscirci. Le analisi avevano detto che le possibilità di avere un figlio in modo naturale erano scarse: a quanto pareva anche la sua fertilità era stata sacrificata sull'altare della poesia.
Il fallimento aveva condotto a una dolorosa separazione, ma Jan Y. sperava ancora di riuscire a incontrare una donna disposta ad affrontare il faticoso percorso di stimolazioni ormonali e fecondazione in vitro necessario per dare al suo seme una possibilità di raggiungere l'ovulo senza soccombere lungo il percorso. E forse se avesse sistemato le sue finanze grazie al romanzo, le possibilità di incontrarla sarebbero perfino aumentate: per definizione i poeti poveri e infelici sono più ricercati come amanti che come padri di famiglia.
Alla fine, pungolato dal suo editore e incoraggiato da Anders, si era arreso e aveva iniziato a scrivere una sorta di thriller politico, all'inizio quasi controvoglia, ma poi con qualcosa che assomigliava sempre più alla frenesia. Era da parecchio tempo che si indignava per come i ricchi diventavano sempre più ricchi e si crogiolavano nel lusso senza che nessuno reagisse. La goccia era stata quando l'amministratore delegato dell'ABB, Percy Barnevik, aveva ricevuto un miliardo di corone di buonuscita mentre l'azienda licenziava diecimila dipendenti. La cosa peggiore forse non era nemmeno la cifra spropositata, ma il fatto che Barnevik non si rendesse nemmeno conto dell'indecenza che una sola persona potesse godere di una somma così abnorme. In tutte le interviste non faceva che ripetere che non era stato lui a stilare il contratto e le sue condizioni, ma il consiglio di amministrazione della ABB. Quello che si guardava bene dal dire era che anche lui aveva una responsabilità personale per averle accettate: in fondo un contratto è valido solo se sottoscritto da entrambe le parti.
Ma da quell'orecchio non ci sentiva nessuno. Quando qualche politico o giornalista osava criticare gli accordi di buonuscita, i presidenti dei consigli di amministrazione si difendevano dicendo che era il "mercato" a decidere. Era colpa del "mercato" se gli stipendi dei manager sembravano non avere un limite. Ma cos'era il "mercato" se non un numero limitato di ricchi finanzieri che si coprivano le spalle a vicenda? E a quanto pareva non serviva a niente che scoppiasse uno scandalo dopo l'altro o che fosse sempre più evidente che pochi si arricchivano spudoratamente a spese degli altri.
Jan Y. aveva sperato che la crisi finanziaria facesse scattare un campanello d'allarme, e in effetti alcuni politici avevano provato ad alzare la voce. Il governo svedese aveva preteso che le banche in difficoltà tagliassero i generosi bonus promessi ai loro manager, se volevano godere degli aiuti di stato. E cos'aveva fatto allora la SEB, uno dei principali gruppi bancari del paese? Gli aveva aumentato lo stipendio. Ancora una volta il presidente del consiglio di amministrazione aveva dato la colpa al mercato. Ancora una volta nessuno aveva avuto il coraggio di dire che i manager dovevano essere messi di fronte alle loro responsabilità per aver accettato quelle somme astronomiche, che per esempio l'amministratore delegato della SEB avrebbe potuto rispondere al suo consiglio di amministrazione che uno stipendio annuo di venti milioni di corone era eccessivo rispetto al lavoro che svolgeva e che era inappropriato che guadagnasse quindici volte più del primo ministro svedese. Ma no. C'erano delle eccezioni, è vero, il direttore di una compagnia aerea o il manager di un operatore telefonico che si erano abbassati spontaneamente stipendio e bonus, ma per la maggior parte di loro il più triste e il più meschino dei peccati capitali, l'avarizia, era solo una questione di presunta abilità in affari.
Jan Y. non aveva mai scritto poesia politica. Quando era giovane, all'inizio degli anni Settanta, gli era capitato di declamare versi impegnati in qualche incontro di protesta contro la guerra del Vietnam o l'energia nucleare. Ma poi, come tutti i veri scrittori, si era reso conto che il compito della poesia non era propagandare messaggi o indicare soluzioni politiche, quanto piuttosto mettere in discussione il potere, di qualsiasi colore fosse. Aveva perfettamente ragione Gao Xingjian, che sapeva bene di cosa stava parlando, quando sosteneva che ogni forma di associazione o movimento politico implicava già una sorta di repressione della libertà di pensiero e di espressione.
Ma questa volta Jan Y. doveva scrivere prosa, non poesia, e poteva dunque trovare un altro modo per dare libero corso alla sua indignazione. Nonostante la riluttanza all'idea di scrivere un giallo, aveva chiaro l'argomento fin dall'inizio. Sembrava quasi che una parte del suo cervello avesse iniziato a lavorarci sopra di sua spontanea volontà, e in breve si ritrovò con un abbozzo di intrigo, un assassino, un poliziotto e un'indagine - non era quello che serviva per scrivere un giallo? La storia assunse contorni ancora più definiti quando contattò il suo amico d'infanzia Johan, quello che gli aveva dato una mano nella fase delle ristrettezze giovanili, ormai diventato un esperto in transazioni finanziarie internazionali. Da lui Jan Y. ottenne più carne putrida da mettere al fuoco, e le sue ricerche lo convinsero che quello di cui parlavano i media non era che la punta dell'iceberg. Dopo qualche mese si rese conto che gli sarebbe dispiaciuto parecchio rinunciare a scrivere quel romanzo: ormai non si trattava più soltanto di ripagare un debito nei confronti del suo editore, ma di fare il suo dovere di cittadino. Cercava di ripetersi che scrivere un libro non vuol dire per forza pubblicarlo, ma questo non faceva che metterlo in una posizione ancora più difficile nei confronti del suo io di scrittore: come rinunciare a farlo uscire, se fosse davvero diventato quel duro attacco all'avidità che sperava?
E la sera prima Petersén l'aveva chiamato dicendo di avere grandi novità che gli avrebbero cambiato la vita, e in meglio! Probabilmente era riuscito a convincere gli editori stranieri di avere fra le mani un nuovo Marklind o un nuovo Linell. Ma davvero era riuscito a vendere un libro prima ancora che fosse finito? Jan Y. calcolava che gli mancassero ancora una cinquantina di pagine. Non che fosse un problema: aveva già un'idea chiara del finale. Quello che lo preoccupava era cosa sarebbe successo dopo. Non c'era il rischio che il suo pubblico affezionato di lettori e di critici lo considerasse un ipocrita? E non solo perché aveva cercato di fare soldi con la scrittura, perché era così che l'avrebbero messa i recensori. L'ennesimo autore serio che cede alla chimera della speculazione letteraria! I critici, i lettori e i suoi colleghi poeti non avrebbero capito che l'aveva fatto per Petersén - ai loro occhi gli editori erano capitalisti affamati di denaro che facevano del loro meglio per fare profitti a spese degli scrittori - o che era spinto da una legittima indignazione per le ingiustizie della società. Peggio ancora, rischiava di far soldi proprio con un romanzo che se la prendeva con i ricchi.
Ma non doveva neanche esagerare. Se davvero aveva indovinato che Petersén, con il suo fascino e il suo buon nome, era riuscito a convincere i colleghi stranieri che Jan Y. aveva scritto un futuro best seller, di sicuro non si trattava di decine di milioni di corone, forse nemmeno di un milione. Cinquecentomila sembrava più verosimile.
Mezzo milione di corone! Agli occhi di Jan Y. era una quantità spropositata di denaro, anche se le tasse, i contributi previdenziali e le percentuali della casa editrice avrebbero ridotto la cifra a meno della metà. Ma duecentocinquantamila corone nette restavano comunque una somma eccezionale per lui, quasi irreale.
Jan Y. si guardò attorno e ripensò a tutte le piccole magagne che non aveva potuto permettersi di riparare. Il bagno andava sostituito, la stufa a gasolio anche. Gli osteriggi sul ponte non erano stagni e quindi restavano perennemente coperti da una cerata che impediva alla luce del giorno di entrare nel quadrato. Per non parlare del motore! L'aveva curato al meglio delle sue possibilità, facendolo girare per qualche ora ogni due settimane in tutti quegli anni, ma si sentiva da lontano che i pistoni andavano puliti e che le prese a mare e le pompe avevano bisogno di una controllata; tutti lavori che richiedevano un abile - e costoso - specialista. Anche le batterie erano ormai al canto del cigno. Ma con duecentocinquantamila corone avrebbe potuto far tornare la Fröken Ti al suo splendore.
Accese il fornello ad alcol con una mano che non riusciva a tenere salda. Il pensiero di poter ristrutturare la barca una volta tanto scacciò ogni rimorso. Se Petersén fosse davvero arrivato con le buone notizie che il suo tono sembrava annunciare, in futuro sarebbe anche potuto uscire sull'Øresund con qualche esca per merluzzo alla traina, nelle belle giornate. E vedere l'alba sul mare.
L'alba! Era così immerso nei suoi pensieri da rischiare di dimenticare perché si era alzato così presto. Con la tazza di caffè stretta in mano per sentire il calore che si diffondeva nelle dita, come al solito, uscì sul ponte e aspettò. Cosa avrebbe rivelato l'alba quel giorno? Un cielo sereno o una cappa grigia e uniforme? Grandi cumuli gonfi o cirri eterei come veli? Un caos variegato o un'armonia ideale? Una delicata acquerugiola o una foschia sottile come garza?
Qualche minuto dopo cominciò a indovinare la prima luce. Ben presto intravide una sfumatura blu scuro farsi strada nel nero della notte, per poi trasformarsi impercettibilmente in azzurro e diffondersi da est a ovest. Il cielo era chiaro e limpido, a parte una grande nuvola torreggiante a nord che il sole tingeva di giallo. Sarebbe stata una bella giornata, ma per quanto tempo? In lontananza a ovest, sopra la Danimarca, si snodavano nastri sottili di nubi sfrangiate in alto che annunciavano venti forti e un fronte in avvicinamento.
Più di vent'anni prima aveva scritto una poesia sul passaggio dal buio alla luce e sull'impossibilità di catturare l'istante esatto in cui finalmente si comincia a vedere qualcosa. Era stato un totale fallimento. Da allora, tranne rare eccezioni, si era sempre alzato mezz'ora prima del sorgere del sole per cercare di catturare la cosa più fuggevole del mondo e descriverla nel modo più vero e più bello di cui fosse capace. Prima o poi gli sarebbe piaciuto pubblicare tutte quelle albe in forma di libro, ma a chi sarebbe interessato sapere che non ce n'era una uguale all'altra? Probabilmente a nessuno. Certi marinai collezionavano donne, altri etichette o cartoline, perché almeno qualcosa nella loro vita apparisse immutabile. Lui collezionava albe, la cosa più inafferrabile.
Quante gliene restavano da vedere, prima che fosse ora di sbarcare una volta per tutte? Meglio non fare previsioni. Poteva morire quel giorno, come fra trent'anni. Ma il suo sogno era riuscire a scrivere almeno una poesia che esprimesse l'impossibilità di catturare il passaggio dall'oscurità alla luce. "Non chiedo a una stella cadente di fermarsi nel cielo", aveva scritto in una. Avrebbe anche potuto scrivere che non chiedeva a un'alba di durare più a lungo di quanto non facesse, un istante vertiginosamente breve.
Finito di bere il caffè, si infilò la giacca e uscì per la sua passeggiata mattutina. Forse per fare da contraltare all'imprevedibile volubilità dell'alba, percorreva sempre lo stesso tragitto. La novità non stava nel percorso, ma in ciò che era cambiato dal giorno prima, a volte un semplice pallet spostato, altre una nuova nave che aveva attraccato o una che era scomparsa per ignota destinazione.
Salutò diversi portuali che aveva conosciuto negli anni.
"Ciao poeta!" esclamò Axel Johnson, uno scaricatore in pensione con cui aveva stretto amicizia. "Hai scritto qualche nuova poesia di recente?"
"No, un giallo", si lasciò sfuggire Jan Y., pentendosene all'istante.
Fino a quel momento nessuno sapeva dell'esistenza del romanzo, a parte Anders, il suo amico e consulente per la prosa, e Tina, la sua... già, la sua cosa? La sua compagna di vita? Ammiratrice? Amante? Alleata? Be', tutto questo messo insieme.
Lui e Tina si erano incontrati più di vent'anni prima e da allora lei l'aveva sempre seguito nella buona e nella cattiva sorte. La loro relazione era allo stesso tempo grandiosa e terribile: sapeva che Tina sognava che prima o poi si innamorasse di lei e le desse un figlio. Ma sapeva anche che non sarebbe mai successo, benché non potesse fare a meno di lei. Nei momenti più bui, quando non riusciva a scrivere o aveva lasciato l'ennesima donna che credeva di aver amato più di ogni altra cosa al mondo, Tina era al suo fianco. Nella loro cerchia di conoscenti, molti pensavano che lei fosse una vittima compiacente e masochista, e lui la sfruttasse per la sua arte. Ma si sbagliavano: lui e Tina erano reciprocamente dipendenti. Inoltre Tina aveva una sua personalità e forti opinioni individuali, in particolare sulla sua poesia. Nessuno più di lei sapeva puntare il dito su un verso sciatto e indifferente; in quello era perfino più severa di Petersén. Fin dall'inizio si era opposta strenuamente all'idea che scrivesse un romanzo, ed era davanti a lei, più ancora che a se stesso, che faceva fatica a difendersi.
Il suo unico contro-argomento nelle discussioni con Tina erano i dubbi che nutriva sul vero valore della sua poesia. Agli occhi non imparziali dell'amica, lui era un grande poeta e niente doveva mettere a rischio la sua arte. Ma c'erano giorni in cui Jan Y. dubitava di aver mai scritto un solo verso meritevole di essere conservato per i posteri. O anche per i contemporanei. Le loro discussioni sul romanzo si erano sempre concluse con lui che deprezzava la sua poesia e lei che la portava alle stelle. Allo stesso tempo era anche costretto ad ammettere, se non altro per poter continuare a scrivere e a vivere, di aver composto anche alcune poesie piuttosto riuscite: l'idea di aver dedicato tutta la sua vita adulta a un'opera priva di qualsiasi valore era semplicemente insopportabile.
Il fatto che alla fine si fosse deciso a scrivere il romanzo, incoraggiato da Petersén e da Anders, era stato un duro colpo per Tina. Jan Y. sospettava che l'idea che potesse iniziare a mantenersi con la scrittura la spaventasse: questo lo avrebbe reso meno dipendente da lei, che a intervalli regolari gli trasferiva piccole somme sul conto corrente, quando si avvicinava al livello di guardia.
"Che cosa?" chiese Axel.
Jan Y. trasalì. Era molto lontano con la mente.
"Un romanzo poliziesco", ripeté.
"È la cosa più assurda che abbia mai sentito", rispose Axel indignato.
Jan Y. lo guardò stupito. Che Tina lo criticasse non era una sorpresa, ma da Axel, che aveva letto al massimo un paio delle sue poesie, non se lo aspettava proprio!
"Sei un poeta, che diamine!" proseguì Axel. "Una persona seria. Non devi scrivere le stesse stronzate di tutti gli altri."
"Ma..." iniziò Jan Y., per poi richiudere immediatamente la bocca.
Non aveva la forza di ripetere ancora una volta tutta la storia. Ci sarebbe voluta l'intera mattina, e a cosa sarebbe servito? A procurargli altri sensi di colpa. Nuovi rimorsi. Ulteriori dubbi di coscienza.
A volte gli sarebbe piaciuto essere nato cattolico, per poter ricevere il perdono dei peccati su questa terra invece di dover temere il giudizio che lo aspettava dall'altra parte, quando ormai era troppo tardi. Aveva piena comprensione per le proteste di Lutero sulla compravendita delle indulgenze, ma che non si potesse in alcun modo ottenere il perdono o espiare i propri peccati da vivi era un po' troppo. Perfino un poeta che aveva scritto un romanzo giallo si meritava una seconda chance...
"Ma cosa?" insistette Axel.
"Ma è un bel romanzo", si limitò a dire Jan Y. lasciandosi alle spalle uno stupefatto Axel Johnson.
In genere la passeggiata attorno al porto durava un'oretta, ma quel giorno proseguì verso sud, oltre la mostruosa ciminiera della fabbrica chimica Kemira, sulle rive del fiume Råå. In quella stagione la spiaggia nudista era deserta, e meno male, perché Jan Y. non sapeva mai da che parte guardare quando ci passava d'estate. Da un lato aveva la tentazione di dare una sbirciatina, se nessuno era nelle vicinanze; dall'altra restava sempre deluso: non c'è niente di meno erotico di un assembramento di uomini e donne di una certa età che si esibiscono in tutta la loro flaccida nudità.
Al campeggio di Råå vide alcune roulotte abbandonate, in attesa della primavera. Il chiosco dei gelati era sprangato, ovviamente. Solo l'isola di Ven appariva seducente, calata in mezzo all'Øresund come la speranza di un'altra vita. Del tutto deserta comunque non era, quella mattina di febbraio sotto quel sole anemico che filtrava tra le nubi sottili, messaggere di un temporale. Di tanto in tanto Jan Y. incrociava una donna che portava a spasso il cane, o veniva superato da qualche corridore ansimante. Dove trovavano il tempo di andare a correre di martedì mattina? Non potevano essere tutti dei poeti vagabondi come lui. Alcuni erano pensionati, è vero, ma gli altri? Potevano essere infermiere che lavoravano di notte come Tina, o autisti con il turno serale. Altri erano sicuramente disoccupati o casalinghe. Se solo tutti quelli che avevano tempo libero avessero letto poesie, invece di uscire a prendere aria! Magari avrebbe venduto migliaia di copie dei suoi libri e non avrebbe avuto bisogno di scrivere un giallo.
Sulla via del ritorno si chiese se non fare un salto da Anders, che abitava in un appartamentino dalle parti del cimitero di Råå, ma sapeva già come sarebbe andata a finire: Anders gli avrebbe chiesto notizie del romanzo, e per la centesima volta si sarebbero ritrovati a parlare del rapporto tra prosa e poesia. Non che avesse qualcosa in contrario a quelle conversazioni, anzi le riteneva momenti di festa. Ma quel giorno non aveva la tranquillità necessaria per un dialogo attento su questioni di vitale importanza. Era anche per quello che aveva prolungato la passeggiata, mentre avrebbe dovuto essere già da un pezzo alla scrivania! A volte gli sarebbe piaciuto che suo padre lo vedesse lavorare, se non proprio con il sudore della fronte, almeno ininterrottamente dal mattino alla sera, compresi i giorni festivi. Quel padre che aveva troncato ogni rapporto con lui nel momento stesso in cui gli aveva annunciato di voler diventare poeta. Ai suoi occhi un poeta era un perdigiorno, un approfittatore, uno che campava di sussidi pubblici, sulle spalle della società; senza contare che le uniche poesie che servivano erano i salmi a gloria di Dio.
Jan Y. tornò alla Fröken Ti verso le undici, molto più tardi del solito. Andò dritto nel suo studiolo dietro la plancia dei comandi della tuga, accese il computer e aprì il file del romanzo. Alcuni secondi dopo, il titolo riempì lo schermo:
Uomini che odiano i ricchi
Romanzo poliziesco
Jan Y. Nilsson
Ancora una volta si chiese se fosse il titolo giusto, o se invece non fosse troppo esplicito. Non era imprudente far partire il lettore dal presupposto che l'assassino fosse un uomo? E non c'era il rischio che venisse preso come una strumentalizzazione, o un'espressione della grande invidia svedese, un poeta di secondo piano che non sa rallegrarsi dei successi altrui? Ma Jan Y. era pronto a correre il rischio. In fondo quel titolo rispecchiava il contenuto del romanzo: la storia di un uomo, Nils Yngvesson, che nel corso degli anni aveva accumulato una rabbia incontrollata verso i ricchi che si crogiolano nel lusso, un uomo che aveva finito per prendere la giustizia nelle sue mani uccidendo dei miliardari che avevano accumulato le loro fortune a scapito di altri e ne facevano uso senza la minima decenza.
Jan Y. fece scorrere il documento fin dove iniziava il finale. In realtà avrebbe potuto concludere il libro da un pezzo, ma era restio a lasciare che l'assassino andasse incontro alla punizione. In fondo condivideva molto dello sdegno di Yngvesson. Quello che aveva salvato il romanzo dal trasformarsi in un bellicoso libello votato al rapido oblio era solo la sua convinzione che la violenza non era la strada per arrivare a una maggiore giustizia. Nessuna rivoluzione violenta aveva mai portato a una società più democratica e solidale. Estrapolando da Nils Yngvesson una collettività, non si otteneva la rivoluzione dei garofani portoghese o la liberazione dell'India dal potere coloniale inglese, né la disobbedienza civile di Mandela o di Gandhi, ma i khmer rossi, i soviet bolscevichi di Stalin o il nazionalsocialismo di Hitler.
Tuttavia, malgrado Yngvesson avesse tratto conclusioni sbagliate dalla sua legittima rabbia, Jan Y. era stato dalla parte del suo eroe per tutto il romanzo, il che forse costituiva allo stesso tempo la sua forza e la sua debolezza. Da un punto di vista morale aveva ragione il colpevole, ma i suoi metodi erano da condannare. Purtroppo Yngvesson non poteva nemmeno sostenere che si fosse trattato di legittima difesa - anche se lui personalmente la pensava così - e quindi Jan Y. si sentiva obbligato a fargli scontare in un modo o nell'altro i suoi crimini. In realtà avrebbe preferito evitargli la prigione, ma con la consapevolezza che gli omicidi erano stati del tutto inutili, che aveva cancellato diverse vite per niente, e fargli dunque vivere il resto dei suoi giorni tormentato da feroci rimorsi; una tipica conclusione protestante, si rese conto all'improvviso Jan Y. Anche lì niente perdono dei peccati!
Ma era arrivato il momento di prendere una decisione. Indipendentemente dalle notizie che gli avrebbe portato Petersén, non poteva più rimandare la firma del contratto. La scusa di non volerlo fare prima di essere sicuro di poter scrivere un romanzo decente non reggeva più. Petersén aveva letto il manoscritto e se n'era detto a dir poco entusiasta, anche se Jan Y. dubitava della sua sincerità. Anders era stato quasi altrettanto incoraggiante, malgrado la serie di critiche che gli aveva rivolto, per esempio che doveva dare maggior peso all'ambientazione e alla vita quotidiana, oltre che aumentare il numero dei sospettati per solleticare la curiosità dei lettori, tutte cose su cui Jan Y. si era trovato d'accordo. Gli aveva dato parzialmente ragione anche quando aveva evidenziato la sua tendenza a esporre idee più che a rappresentarle.
Aveva invece puntato i piedi quando Anders gli aveva fatto notare che nei gialli svedesi quasi tutti gli assassini avevano avuto un'infanzia difficile: avevano subito violenze o abusi sessuali, i genitori ovviamente erano separati e molto spesso tossici. Forse non era un caso: a volte sembrava che ogni scrittore svedese fosse costretto a raccontare la propria infanzia infelice per poter essere preso sul serio. Omicidi e traumi infantili, più abuso di alcol o droghe, il tutto condito con una buona dose di angoscia: era quella la specialità svedese nel campo letterario.
I commenti incoraggianti servivano però solo in parte contro i suoi dubbi. Nell'istante in cui avesse messo la firma al contratto, avrebbe siglato il tradimento verso se stesso e i suoi lettori. E verso Tina, che gli aveva permesso di sopravvivere come poeta per tutti quegli anni, e che forse era il motivo principale per cui era ancora vivo. Era davvero pronto a sacrificare tutta quella fiducia per guadagnare quattro soldi, fosse pure per riportare la Fröken Ti all'antico splendore e ripagare il suo debito di riconoscenza nei confronti di Petersén? Era davvero quello che voleva dalla vita? All'improvviso risentì la voce indignata di Axel: "Sei un poeta, che diamine!" Una cosa ad ogni modo era sicura: qualsiasi scelta avesse fatto, avrebbe sicuramente deluso qualcuno.
E se avesse mandato tutto a monte e si fosse gettato in mare? Così almeno non avrebbe avuto bisogno di difendere la decisione di cavalcare l'onda dei gialli. Tina l'avrebbe presa male, e forse anche qualcun altro, ma la sua reputazione sarebbe stata salva. Forse sulla scia del suicidio le sue poesie avrebbero perfino cominciato a vendere, mettendo un cerotto sulla ferita dei conti in rosso di Petersén alla voce Jan Y. C'era solo un problema: non credeva in un'altra vita e aveva sempre sostenuto che il peccato più grande fosse alzare le mani su se stessi o su un altro, se non in caso di assoluta autodifesa. Ma né il suo protagonista né lui potevano sostenere di trovarsi in una situazione estrema di vita o di morte. Cosa importava al mondo se un poeta come lui spariva da questa terra, o se grazie al suicidio la sua poesia gli sarebbe forse sopravvissuta di qualche decina d'anni? Niente. E se anche avesse scritto un giallo che avrebbe fatto indignare qualche critico, fino al momento di scagliarsi sulla vittima successiva, uno scrittore da quattro soldi senza pelo sullo stomaco, una bisbetica inacidita che metteva in giro calunnie per combattere i propri demoni? Presto sarebbe stato tutto dimenticato.
Quando spense il computer, Jan Y. si sentiva stranamente calmo, anche se lontano dall'essere felice. In qualche modo quelle riflessioni l'avevano aiutato a ridare le giuste proporzioni alle cose: il suo posto nel mondo, il peso della sua poesia nel caos della vita e il suo legittimo desiderio di poter vivere almeno qualche anno senza doversi chiedere ogni volta se poteva permettersi un bicchiere di vino a cena o se doveva stampare sul retro di fogli già usati per risparmiare carta, o se era in grado di invitare a pranzo un amico senza essere costretto a non offrirgli altro che spaghetti al pomodoro.
Entrò nella tuga e rimase in contemplazione del porto. Il vantaggio di un peschereccio nei confronti di una normale barca a vela o a motore - almeno delle dimensioni che lui avrebbe potuto permettersi - era l'altezza, tale da consentirgli di vedere il mare oltre i frangiflutti anche dalla plancia. Per un collezionista di albe, era fondamentale. Ma stava lì anche quando gli girava e rigirava in mente qualche verso o espressione, o anche solo quando aveva bisogno di rivolgere lo sguardo all'esterno invece che all'interno, la maledizione dei poeti.
Con il passare delle ore dall'alba, il cielo a sud-ovest aveva assunto una tonalità grigio scuro. Era la bassa pressione annunciata che mandava le sue truppe in avanscoperta per saggiare la volontà di difesa dell'anticiclone. Ancora un'ora o due e sarebbe cominciato a piovere, mentre il vento sarebbe girato a sud-ovest. Dopo, passato il fronte freddo, sarebbe rigirato a nord-ovest rinforzando fino a 30 nodi, mentre la pioggia continua avrebbe lasciato il posto a scrosci irregolari. Quella era l'evoluzione nel novanta per cento dei casi, e niente sembrava indicare che ci fossero in serbo sorprese.
Al largo, sull'Øresund, incrociavano mercantili diretti a sud, o a nord. Fin dall'adolescenza Jan Y. aveva coltivato il sogno romantico di andare per mare, non ultimo per via di Harry Martinson, uno dei suoi poeti maestri. Ma non era un sogno ispirato dall'amore per l'avventura, come in Martinson, o dal desiderio di vedere il mondo, quanto dalla volontà, soprattutto all'inizio, di evadere da una realtà in cui si era continuamente costretti a rispondere di se stessi e degli altri.
Delle aspirazioni marittime di Jan Y. ormai restavano solo la Fröken Ti, quasi sempre ormeggiata in banchina, e la vista delle navi che entravano e uscivano dal porto di Helsingborg e dall'Øresund. Quello di diventare un vero marinaio era rimasto un sogno, era più semplice così. D'altra parte, chi avrebbe imbarcato un poeta di mezza età, fosse pure come mozzo o scrostaruggine? Leggere di grandi viaggi per mare e passeggiare per il porto erano la sua fuga nostalgica in un mondo irraggiungibile che si era già lasciato alle spalle. Del resto pochi sogni sono seducenti come quelli impossibili da realizzare, tra i quali annoverava anche scrivere un capolavoro destinato a rimanere nei secoli e a parlare a generazioni di lettori.
Perché gli venivano quei pensieri proprio adesso, come se dovesse fare un bilancio della sua vita? In realtà non era poi così strano. Forse la sua vita sarebbe davvero cambiata al punto da non riconoscerla più. La questione era se per il meglio.
Rimase un attimo a fissare lo schermo nero, prima di alzarsi e scendere sottocoperta. Per fare cosa? Ad ogni modo non aveva l'intenzione di escludere niente a priori, né nel bene né nel male. Era una lezione che aveva imparato come poeta: è quasi sempre inutile cercare di anticipare i fatti.
Non appena mise piede sulla scaletta che portava sottocoperta, Jan Y. ebbe la sensazione di non essere solo. Chiamò ad alta voce Tina e Anders: entrambi avevano le chiavi e andavano e venivano come volevano, anche se in genere si facevano riconoscere prima di salire a bordo.
Scese rapidamente fino all'ultimo scalino, dove si fermò di colpo. Sul tavolo del quadrato c'era una bottiglia di champagne aperta con un bicchiere pieno accanto. Che storia era? Chi poteva sapere che c'era qualcosa da festeggiare, a parte Petersén? Del resto a Tina non sarebbe mai passato per la testa di brindare, in una giornata come quella. Un banchetto funebre sarebbe stato più adatto al suo umore.
"Anders! Tina!" ripeté, senza ottenere risposta.
Che Petersén gli avesse fatto una sorpresa anticipando il suo arrivo?
"Karl?" tentò, a voce leggermente più bassa.
Silenzio. D'altra parte dove potevano nascondersi in una barca di quelle dimensioni, in bagno? Uno di loro doveva essere salito a bordo mentre lui faceva la sua passeggiata, e prima o poi sarebbe tornato a spiegare cosa aveva in mente.
Ma perché aspettare? Un bicchiere di champagne non gli avrebbe fatto male. In fondo non aveva davvero qualcosa da festeggiare? Fece i pochi passi che lo separavano dal tavolo, prese la bottiglia e osservò l'etichetta. Vero champagne, in ogni caso. Era da parecchio che non ne beveva. L'ultima volta doveva essere stata quando gliel'aveva offerto Tina, qualche anno prima, per festeggiare la borsa che gli era stata assegnata dall'Associazione Scrittori. Si sedette al tavolo, fece ruotare il liquido nel bicchiere e ne bevve un sorso. Era buono, per non dire delizioso.
"Congratulazioni per la mia nuova vita!" declamò a bassa voce, per poi svuotare il bicchiere d'un fiato.
Se ne versò un altro e svuotò anche quello, stavolta a sorsi lenti. Man mano che l'alcol gli si diffondeva nelle vene, i suoi dubbi sembravano dissolversi. Perché doveva sempre rimuginare su tutto? Perché non aveva mai scritto poesie sulla felicità e sull'amore, per esempio? Perché doveva sempre prendere la vita in modo così pesante? Non poteva cercare di essere come Anders, che si era rassegnato all'idea che la vita non è che un breve istante e che bisogna approfittarne al meglio, finché dura? Jan Y. si sentiva piacevolmente insonnolito, come se fosse già entrato nella sua nuova esistenza. Con cura, come se il tempo avesse rallentato, si versò un terzo bicchiere di champagne. Poche ore dopo sarebbe arrivato Petersén. Jan Y. l'avrebbe accolto con un sorriso e avrebbe firmato senza esitare il loro accordo. Era il momento di pensare anche a se stesso, non solo alla sua poesia.
Mentre posava la bottiglia, la Fröken Ti oscillò e Jan Y. sentì un leggero cigolio alle sue spalle.
Si voltò, ma non vide nessuno. Però c'era un cappio appeso al soffitto, con uno sgabello sotto.
Che razza di macabro scherzo era? Cercò di fare qualche passo avanti, ma tutto era diventato confuso e instabile. L'ultima cosa di cui si accorse prima di perdere conoscenza, fu il bicchiere che gli sfuggiva di mano e si frantumava sul pavimento
3
Quando Karl Petersén atterrò all'aeroporto di Ängelholm, alle 16.34 del 6 febbraio, faceva già buio. Le giornate si erano certo notevolmente allungate dal solstizio d'inverno, ma non abbastanza da essere molto più che poche ore di fiochi segnali di luce tra due notti. Petersén odiava l'inverno e nei mesi più tetri dell'anno non faceva che lamentarsi, in silenzio o ad alta voce, di essere nato a nord delle Alpi. Vero che le lunghe e chiare serate estive erano un dono del cielo per gli infreddoliti abitanti del nord, ma non gli bastavano per tirare avanti tutto l'inverno. L'inizio di febbraio era il momento peggiore e, approfittando del periodo in cui in Svezia imperversavano i saldi di libri, aveva l'abitudine di passare qualche settimana sotto i più miti cieli del sud, magari con la scusa di incontrare qualche editore straniero, il che, già che c'era, ogni tanto faceva davvero.
Ma quell'inverno non aveva avuto il tempo di ricaricare le batterie al sole dei caffè all'aperto di Marsiglia. In parte per colpa del mercato editoriale che, come ogni altro settore, era stato preso dal demone della velocità. Tutto doveva andare a un ritmo folle. Ma era anche per via del manoscritto di Jan Y.: aveva lavorato molto, soprattutto per convincere i colleghi stranieri che si trattava di uno dei migliori libri prodotti in Svezia, dove la concorrenza non manca. Già la presentazione e la traduzione dei primi capitoli gli avevano richiesto un paio di mesi di attività serale. Per fortuna non aveva bisogno di ricorrere a mezze verità o ipocrisie: credeva davvero che il romanzo di Jan Y. fosse eccellente, almeno all'altezza delle prime duecento pagine del Senso di Smilla per la neve di Høeg o dei migliori Le Carré. Stilisticamente batteva i concorrenti di parecchie lunghezze e Petersén era non poco orgoglioso di veder confermata la sua intuizione. Jan Y. era un narratore nato, ma era anche un poeta che non poteva fare a meno di dare alla sua storia una duttilità e una verve linguistica, per non parlare di eleganza, che sarebbero state l'invidia dei suoi colleghi, sempre che si fossero presi la briga di leggerlo. Alla qualità dello stile si aggiungeva il fatto che il romanzo traboccava di materiale scottante. Per ogni evenienza, Petersén aveva dato da leggere il manoscritto a Krongård, l'avvocato della casa editrice, che l'aveva però rassicurato che non correvano alcun rischio, visto che tutto ciò che si diceva di persone realmente esistenti era già di pubblico dominio. Un magistrato ci avrebbe pensato due volte prima di avviare un procedimento, e una causa civile era destinata a chiudersi con un nulla di fatto, almeno in Svezia, dove le querele per diffamazione sotto forma di romanzo finivano di rado in tribunale, a differenza di altri paesi europei.
Pur essendo convinto che il romanzo non avesse bisogno del traino di scandali o campagne mediatiche, Petersén aveva accarezzato l'idea di divulgare alcuni dettagli compromettenti prima dell'uscita. D'altra parte non aveva intenzione di fare qualcosa sopra la testa di Jan Y., o alle sue spalle: gli aveva già chiesto un grosso sacrificio spingendolo a scrivere un giallo. A tratti se n'era quasi pentito ed era stato sul punto di dirgli di lasciar perdere: era una pena vederlo dibattersi tra scrupoli di coscienza ogni volta che discutevano dell'accoglienza che critici e lettori gli avrebbero riservato; perché che lui lo considerasse un tradimento non c'era alcun dubbio.
Ma ormai il romanzo era quasi finito e perfino Jan Y. doveva rendersi conto che ne era valsa la pena. Perché nella ventiquattrore di Petersén c'erano sette contratti firmati con altrettante note case editrici straniere, compresa una americana, che si erano impegnate a pubblicarlo pagando un totale di poco più di tre milioni di corone di anticipo!
Petersén non stava nella pelle. In coda per il taxi, batteva i piedi nella frenesia di avanzare più in fretta. Quando finalmente salì sulla prima auto libera, chiese al tassista di spingere pure al massimo sull'acceleratore.
"Dove andiamo?"
"Al porto industriale di Helsingborg. Ma prima passi da una rivendita del Monopolio, devo comprare una bottiglia di champagne."
Quando il taxi lo scaricò al porto, erano appena passate le sei. L'editore cercò riparo dal vento e dal nevischio sotto la tettoia di un magazzino e aprì la mappa che Jan Y. gli aveva mandato via e-mail. Non era la prima volta che andava a trovarlo, ma era noto per avere un pessimo senso dell'orientamento, o meglio per esserne del tutto privo. In effetti aveva un senso della realtà poco sviluppato in generale. La letteratura in cui era sempre vissuto immerso poteva anche dire una parola di verità su questo e su quello, ma garanzie non ne dava.
Per esempio, perché non aveva ascoltato le previsioni del tempo prima di mettersi in viaggio, o almeno preso con sé un ombrello? Invece no, si era limitato a salire sull'aereo senza pensarci. Non che fosse la prima volta che gli capitava, ma questo non lo rendeva meno frustrante. Tanto era abile e sicuro sul lavoro, quanto incerto e impacciato nell'organizzazione quotidiana. Si riteneva un ottimo direttore editoriale, senza falsa modestia; ma perché doveva mancargli qualsiasi senso pratico in cose come pagare l'affitto, ricordarsi dove aveva messo le chiavi della macchina, memorizzare numeri di telefono o digitare il PIN della carta di credito, quando era in grado di dire senza la minima esitazione dove si trovava ogni singolo manoscritto della casa editrice, sulla scrivania di quale redattore, in quale cassetto della posta, da quale correttore di bozze?
Ben presto si rese conto di non sapere dov'era. Ma in fondo non era tutta colpa sua: in quella pioggia sferzante non si vedeva niente. Tirò fuori di nuovo la mappa, ma comunque la girasse e rigirasse non riusciva a orientarsi. Alla fine ci rinunciò, pescò il telefono dalla tasca e digitò il numero di Jan Y. Non era così che aveva immaginato il suo arrivo, senza contare che avrebbe costretto l'amico a uscire con quel tempaccio per andare in cerca di un direttore editoriale incapace di cavarsela da solo. D'altra parte non aveva nessuna voglia di girare a vuoto per un porto industriale deserto sotto un diluvio del genere. Solo che Jan Y. non rispondeva. Petersén lasciò un messaggio in segreteria, poi si guardò attorno nella speranza che passasse qualcuno a cui chiedere indicazioni.
Mentre se ne stava al riparo della tettoia, cercando inutilmente di trasformare gli occhi in occhiali a infrarossi, ebbe un senso di déjà vu, o meglio di déjà lu: doveva essere più o meno lì che Jan Y. aveva ambientato l'inizio del suo romanzo. Riconobbe le gru con i loro ganci d'acciaio penzolanti, le porte dei prefabbricati in lamiera che sbattevano, i generatori e i motori ausiliari che ronzavano; perfino la pioggia battente sembrava la stessa. L'unica cosa che mancava era la vittima, Bo Palmgren, direttore di una società di fondi d'investimento che si era costruito una fortuna con operazioni alquanto dubbie, anche se probabilmente lecite, o per lo meno non dichiaratamente illegali. E l'assassino, naturalmente! Nils Yngvesson, un modesto operaio, socialdemocratico convinto, che non ne poteva più delle ingiustizie e aveva deciso di vendicarsi personalmente di quelli che si arricchivano senza scrupoli, minando tutto ciò per cui la classe operaia aveva lottato per oltre un secolo.
Petersén si guardò attorno leggermente preoccupato, come se da un momento all'altro potesse spuntare dal buio qualche brutto ceffo intenzionato a uccidere un direttore editoriale di successo. Era ridicolo, ovviamente. È vero che nel corso degli anni aveva pubblicato diversi libri e autori controversi, come Salman Rushdie o Taslima Nasreen, e aveva anche ricevuto qualche lettera minatoria, ma era acqua passata. E chi mai poteva volerlo uccidere perché aveva intenzione di pubblicare un libro che ancora non esisteva? Nel caso, poteva essere solo uno di quelli che Jan Y. intendeva denunciare nel suo romanzo.
All'improvviso si sentì a disagio. Sollevò il bavero del cappotto, come se servisse a qualcosa sotto quella pioggia, e abbandonò il suo riparo sotto la tettoia. Qualche minuto dopo si fermò di scatto: gli sembrava di intravedere un'ombra che avanzava verso di lui nell'oscurità. Fu quasi sul punto di fare dietro-front e mettersi a correre nella direzione da cui era venuto, sempre che la ritrovasse. Un attimo dopo l'ombra si trasformò in un vecchio che non aveva per niente l'aria di un assassino. Petersén si fece coraggio e gli chiese se per caso sapeva dove fosse ormeggiato un peschereccio di nome Fröken Ti.
"Se lo so!" strombazzò l'uomo. "Ma è la barca del poeta, lo conosco da anni. Ha perfino scritto dei versi apposta per me, Axel Johnson, pescatore convertito in scaricatore quando il pesce è finito. Stia a sentire, li so a memoria:
nel porto, una barca
nella barca, un pescatore
nel pescatore, la sua anima
nella sua anima
il sale, il vento, il freddo
nel mio piatto, un pesce
nel pesce, il mio appetito
nel mio appetito, la mia forza
nella mia forza
la fatica del pescatore
"Cosa ne dice?" chiese Axel Johnson. "Non male, eh?"
Petersén si limitò a sorridere. Di colpo tutti i suoi timori erano svaniti.
"Ne so anche altre", disse il vecchio.
"Sarà per la prossima volta."
Petersén era tornato a essere l'autorevole editore che voleva dare una magnifica notizia al suo autore.
"Dov'è la Fröken Ti?"
"Laggiù", rispose Axel Johnson indicando con un dito.
"Dove? Non si vede niente con questa pioggia."
"Segua la banchina, sempre dritto per cento metri. Non può mancarla."
Petersén non rivelò che, dato il caso, poteva eccome.
"Sempre che prima non finisca a mollo", aggiunse Axel Johnson. "La banchina è scivolosa."
"Starò attento."
Poi non riuscì più a trattenersi.
"Ho una splendida notizia per Jan Y.", aggiunse.
"Era ora", rispose il vecchio con enfasi. "Janne è una brava persona, ma non ha avuto vita facile."
"Adesso l'avrà, glielo assicuro."
"E lei chi è, per promettere mari e monti?"
"Il suo editore."
Axel Johnson lo scrutò attentamente.
"Allora si chiama Petersén."
"Esatto."
"E si merita un bicchiere. Janne parla sempre molto bene di lei, sa?"
"No, o meglio lo immagino, a dir la verità. Abbiamo sempre avuto un buon rapporto, anche se non mi ha mai dedicato una poesia. Ma il bicchiere dovrà aspettare. Ho portato una bottiglia di champagne."
"Crede che a Janne piaccia quella roba da signorine?"
In effetti non ci aveva pensato. Un'altra delle sue omissioni.
"Non credo che abbia molta importanza. Jan Y. resterà così sconvolto da non far caso a cosa manda giù."
"Non ci conti. Janne è una persona precisa, non fa mai le cose a metà."
"Grazie per avermelo ricordato."
Di nuovo Petersén provò un senso di inquietudine. E se Jan Y. all'improvviso avesse cambiato idea e si fosse rifiutato di concludere il libro? Se gli scrupoli di coscienza avessero avuto la meglio sul senso del dovere, se si fosse messo in testa di aver buttato via la sua integrità estetica e morale per vendere l'anima al diavolo, cioè al mercato!? Petersén si era preparato allo scenario peggiore, ma sperava con tutto il suo cuore di editore, che riteneva piuttosto capace, di non essere costretto a ricorrere all'argomento più convincente, ovvero che la casa editrice non poteva continuare in eterno a pubblicare le sue raccolte in perdita. La cosa più spaventosa era che era vero. Alle ultime riunioni di redazione aveva dovuto far ricorso a tutto il suo fascino e la sua persuasione per convincere i colleghi e il direttore marketing che dovevano continuare a pubblicare le poesie di Jan Y. Per fortuna la sua produzione aveva sempre mantenuto un elevato livello di qualità. Era quello che lo aveva salvato fino a quel momento, ma i margini diventavano sempre più stretti.
Proprio per quel motivo l'incontro di quella sera era così importante. Per prima cosa Jan Y. doveva finire il suo romanzo, poi doveva approvare gli accordi con gli editori stranieri... e alla fine decidersi a firmare il contratto, compresa la parte relativa agli accordi di rappresentanza. Perché quando avevano concluso il loro patto tra gentiluomini, la condizione era che Jan Y. non fosse obbligato a sottoscrivere alcun impegno finché non fosse sicuro di aver scritto qualcosa di cui poteva garantire la qualità; una sorta di diritto di recesso, insomma.
Petersén poteva capirlo. Ma adesso c'erano in gioco più di tre milioni di corone, sia per Jan Y. che per la casa editrice. Sarebbe stato un peccato se si fosse impuntato all'ultimo momento.
Petersén guardò l'uomo che aveva di fronte. Chi era? Ah sì, l'amico di Jan Y., Axel Johnson, una specie di portuale o qualcosa del genere.
"Mi scusi!" disse. "Mi ero perso nei miei pensieri."
"Me ne sono accorto. Adesso comunque non può più sbagliare, ecco la Fröken Ti."
Axel Johnson indicò ancora una volta la banchina. Aveva smesso di piovere e attraverso uno squarcio tra le nuvole si intravedeva addirittura la luna che riversava un debole chiarore sul porto. In effetti un centinaio di metri più in là si distingueva la sagoma del peschereccio di Jan Y., con una luce invitante che brillava a uno degli oblò.
"Grazie per l'aiuto!" esclamò Petersén di cuore. "Ma non posso proprio trattenermi oltre."
Percorse l'ultimo tratto quasi di corsa, scavalcò la battagliola e si diresse verso la tuga a poppa. Era lì, nella piccola cabina sul ponte di comando, che Jan Y. si era organizzato lo studio, mentre la camera da letto, il soggiorno e il bagno erano sottocoperta. Petersén bussò una volta, poi due, ma non ottenne risposta. Provò la porta, la trovò aperta e guardò dentro: nessuno!
Richiuse la porta e si diresse a prua, si chinò e spinse avanti il tambuccio. Perché in barca doveva essere tutto così scomodo? Jan Y. avrebbe potuto almeno avere una porta decente, in modo da non essere costretto a fare il contorsionista. Una volta gli aveva chiesto perché non si fosse fatto costruire una scala che scendeva direttamente dalla tuga, in modo da non essere costretto a uscire ogni volta in coperta.
"Anche un poeta ha diritto a una vita privata", era stata la sua risposta. "Qua sopra lavoro, sottocoperta voglio essere una persona normale."
Petersén lo chiamò, ma non ci fu reazione. Chiamò ancora, a voce più alta, e aspettò. Jan Y. poteva essere in bagno, per esempio. Ma davanti a quel prolungato silenzio iniziò a preoccuparsi. E se fosse uscito? Magari non voleva incontrarlo per non dover firmare il contratto!
Petersén scese la ripida scala più veloce che poté. La prima cosa che entrò nel suo campo visivo fu il tavolo del quadrato, con al centro una bottiglia aperta di champagne.
Cosa significava? Jan Y. aveva già cominciato a festeggiare? Per quale motivo? Petersén era sicuro di non essersi lasciato sfuggire il minimo accenno ai milioni in arrivo. L'unica cosa che gli aveva detto era che la sua vita non sarebbe più stata la stessa, se voleva.
Ma poi la Fröken Ti beccheggiò sull'onda di scia di qualche nave che passava sull'Øresund. Petersén sentì un cigolio alle sue spalle e intravide un'ombra che si muoveva sulla parete della barca. Si voltò.
Jan Y. dondolava da un cappio, oscillando rigido avanti e indietro al ritmo della Fröken Ti. Gli occhi morti fissavano il vuoto, come se all'ultimo momento, quando era troppo tardi, avesse capito che la sua vita stava per finire.
Sul pavimento c'era uno sgabello rovesciato.
4
La sera del 6 febbraio al commissario Martin Barck della polizia portuale di Helsingborg toccava il turno di notte. O meglio, toccava non era esattamente la parola giusta. Non era un caso se, in piena notte, era nella torre di controllo a seguire il traffico delle navi su e giù per l'Øresund, o a fare un giro d'ispezione al porto industriale per vedere se tutto era a posto. Era lui che preparava lo schema dei turni, e lavorare di notte aveva i suoi vantaggi. I suoi quattro sottoposti, per esempio, erano ben felici di evitarlo, in modo da poter restare a casa con la famiglia o a vedere le partite casalinghe dell'HIF allo stadio Olympia. Inoltre, dato che come funzionario superiore non aveva diritto agli straordinari, la sua disponibilità aveva effetti positivi anche sul budget della stazione, che poi tornava a suo vantaggio sotto forma di buona volontà... o goodwill, come ormai lo si intende sempre in svedese. Ma la conseguenza più positiva era non essere costretto a passare ogni pomeriggio e sera con sua moglie Anna. Trent'anni di convivenza, gran parte dei quali dedicati ad accompagnare i loro due figli dall'infanzia all'età adulta, avevano lasciato il segno. Nota bene, amava ancora Anna, in un certo senso anche più di quando c'erano a casa i figli, e aveva motivo di credere che la cosa fosse reciproca. Solo che non avevano più così tante cose da dirsi: ormai si conoscevano come le loro tasche.
Quello che aveva salvato il loro matrimonio, secondo Barck, era proprio il non aver mai cercato di fondere in una le loro due imprese di vita. Le fusioni, a quanto aveva capito, andavano regolarmente a finire in litigi per stabilire chi doveva essere l'amministratore delegato e chi il presidente, chi doveva stare al timone e chi decidere la rotta, per non parlare di chi doveva cambiare l'olio al motore o pulire la sentina. Si sprecavano inutilmente un sacco di energie nello smussare angoli e spigoli in modo da non riempirsi di lividi ogni volta che si andava a sbattere l'uno nell'altro. I compromessi erano essenziali, certo, ma non significava doversi fare in quattro per assomigliare il più possibile all'altro, e viceversa.
Forse era proprio perché lui e Anna non avevano mai cercato di intrecciarsi in un unico rampicante che non avevano mai perso il desiderio reciproco, nemmeno in mezzo a pannolini e pianti di neonati. Fin dall'inizio i loro corpi erano stati come due elettromagneti che a qualche metro di distanza venivano inesorabilmente attratti uno verso l'altro. Da subito avevano fissato alcune regole che si erano rivelate un vero e proprio toccasana per la loro vita amorosa: mai girare nudi in presenza dell'altro se non per fare l'amore, andare sempre in bagno da soli e con la porta chiusa, vestirsi sempre con cura per piacere all'altro, non lasciare che con l'età la pancetta prendesse il sopravvento, curare sempre l'igiene orale e personale, sorprendere sempre l'altro con nuove iniziative e invenzioni, e mai, mai e poi mai vergognarsi dei propri desideri e delle proprie voglie. Il risultato era che negli ultimi tempi la loro vita sessuale si era addirittura intensificata; Anna in particolare era sempre più insaziabile, tanto che a volte Barck faceva fatica a seguirla. Ogni tanto era dovuto ricorrere al viagra o ad anelli fallici per essere all'altezza, ma che importanza aveva? Quanti erano gli ultracinquantenni che potevano vantare una vita amorosa eccitante, innovativa e avventurosa dopo trent'anni di matrimonio? Perché lui e Anna avrebbero dovuto correre il rischio di passare insieme più ore possibile, sforzandosi di tirar fuori argomenti insignificanti che non interessavano a nessuno dei due? Era perfettamente legittimo che ad Anna non importasse nulla di navigazione marittima, come lei non gli rinfacciava la mancanza di interesse per il suo lavoro di architetto o il suo impegno nella politica locale, con particolare attenzione alla pianificazione urbana - a meno che si trattasse di questioni che riguardavano il porto, ma capitava di rado.
C'era solo un campo in cui Barck avrebbe voluto confrontarsi di più con la moglie: la poesia. Fin da quando era ragazzo, aveva sempre sognato di diventare uno scrittore, e più precisamente un poeta. I suoi cassetti traboccavano di composizioni scritte nel corso degli anni, novecentotrentasette, per essere precisi. E preciso Barck lo era sempre, quando si trattava di poesia. Tutte le composizioni che riteneva concluse venivano trascritte in un taccuino Moleskine con una stilografica a inchiostro nero. Quattro raccolte, conservate in cartellette in pelle, erano pronte per essere spedite a un editore, cosa che faceva a intervalli regolari.
Purtroppo il cassetto con le lettere di rifiuto era pieno quasi quanto l'altro, ma questo non implicava che si fosse arreso. Non si diventa poeti perché si desidera il successo di pubblico; si è poeti nel corpo, nell'anima e nello spirito. È una vocazione, una missione, qualcosa a cui si dedica la vita, indipendentemente da mode e tendenze. Sul tabellone appeso accanto alla scrivania aveva appuntato un foglio con una citazione dello scrittore norvegese Jens Bjørneboe:
Scrivi in modo che ogni tua parola
possa essere usata contro di te!
Il modo più semplice di mettere in pratica quel consiglio era scrivere poesie talmente brutte che nessuno avrebbe avuto voglia di leggerle, ma chiaramente non era quello il senso. Bjørneboe voleva dire che la letteratura deve attaccar briga con la realtà, i pregiudizi della gente, le frasi fatte, le generalizzazioni e gli stereotipi; dev'essere scomoda, inaspettata, indisciplinata, irritante, ribelle, una costante boccata d'aria fresca. Ma Barck non era così ingenuo - in fondo aveva letto montagne di poesia e non si riteneva particolarmente lento di comprendonio - da pensare che bastasse andare controcorrente per scrivere buone poesie.
Gli era però capitato di chiedersi se l'obbligo di obbedienza e di riservatezza della polizia fosse compatibile con la buona poesia, o se fosse possibile scrivere belle poesie facendo il poliziotto. Conosceva parecchi esempi di militari o diplomatici che erano diventati ottimi poeti, arrivando addirittura al Nobel, ma per quanto a fondo fosse andato nelle ricerche, aveva trovato pochissimi casi di poeti poliziotti. Nella sua autobiografia, il poeta svedese Jan Mårtenson nominava il commissario Åke Glas, la cui più grande impresa, a parte essere una bravissima persona, era essersi visto pubblicare alcune poesie sulla rivista specializzata Lyrikvännen. Aveva poi trovato due poliziotti francesi, Lucien Becker e Charles Pennequin, che a quanto pareva erano riusciti a mettere insieme qualche buon verso. Su internet aveva anche letto di Philippe Pichon, sospeso dal servizio e denunciato per aver infranto l'obbligo di riservatezza con il suo Journal d'un flic. Quest'ultimo era anche presidente di una Associazione dei poeti poliziotti. E per finire, c'era il poeta poliziotto di Helsingborg, un tale Martin Barck, che aveva creato una pagina internet su cui aveva pubblicato alcune poesie... ma in un certo senso non contava... per il momento.
Del resto, anche se i poeti poliziotti, a quanto pareva, erano una rarità, Barck era convinto di essere diventato un poliziotto migliore scrivendo e leggendo versi. La poesia lo costringeva a pensare seguendo percorsi insoliti e diversi, lo preparava all'inaspettato, lo allenava a non dare niente per scontato, a tenere gli occhi aperti per vedere collegamenti che altrimenti sarebbero rimasti invisibili. Ampliava la sua capacità di immaginazione, gli insegnava che gli esseri umani possono essere e comportarsi nei modi più diversi, nel bene e nel male, a seconda delle circostanze, che un amore infelice può portare a una catastrofe, e un dolore in certe condizioni può sconfiggere qualsiasi predisposizione genetica.
Purtroppo - o meglio per fortuna, perché era proprio lì la sfida - non esisteva una ricetta per scrivere poesie belle e rilevanti. Come lettore non aveva alcuna difficoltà a distinguere la buona dalla cattiva poesia; ma era tutt'altra cosa creare lui stesso un verso che risvegliasse immediatamente pensieri e sensazioni così forti e conturbanti da non potersi difendere neanche volendo.
Era per quello, tra le altre cose, che avrebbe voluto che sua moglie fosse disposta a leggere le sue poesie: per andare avanti aveva bisogno di critiche e opposizione. Ma Anna sosteneva strenuamente di non capire niente di poesia e di non essere la persona adatta a giudicare. Se gli avesse detto che le sue poesie erano buone, l'avrebbe accusata di lasciarsi accecare dall'amore. Se gli avesse detto che non valevano niente, l'avrebbe ferito. Perciò era meglio lasciar perdere, per il bene del loro rapporto.
Forse in fondo aveva ragione. Scrivere e leggere poesie è un'esperienza talmente personale da rendere difficile essere obiettivi. Barck si domandava se non era alla sua attività poetica che Harry Martinson pensava quando aveva scritto che "le persone peggiori sono anche i peggiori romanzi". Anche se in realtà non era così semplice. C'erano mezze cartucce e stronzi patentati che scrivevano buone poesie, e bravissime persone che producevano montagne di versi tronfi e pretenziosi. Gli sarebbe piaciuto credere che sotto sotto ci fosse qualcosa di buono in ogni poeta di fama, ma non era detto nemmeno quello.
Barck lanciò un'occhiata stanca allo schermo del computer per vedere se fosse successo qualcosa che richiedesse la sua attenzione, ma tutto sembrava normale. La guardia costiera teneva d'occhio le grandi navi che attraversavano l'Øresund, e sul radar non si vedevano imbarcazioni più piccole. Con tutta probabilità aveva davanti qualche ora di pace e tranquillità, e aveva intenzione di dedicarle a un libro di un critico letterario dell'università di Lund, Niklas Schiöler, che in un capitolo metteva a confronto Tranströmer e Martinson. Non era certo il primo libro del genere che leggeva, ma era la prima volta che trovava qualcuno che avesse scoperto un'affinità tra i due.
Sfogliò le pagine per vedere cosa lo aspettava, come un bambino che sparge sul tavolo il contenuto di un sacchetto di caramelle per vedere quali ci sono dentro. E ben presto ebbe la conferma che era pieno di leccornie. L'aspettativa aumentò ulteriormente quando gli cadde l'occhio su una dichiarazione di Tranströmer, che a una domanda diretta di Schiöler aveva detto che "il poeta svedese a cui si sentiva più vicino era Harry Martinson".
Barck posò il libro per godersi ancora un po' la tortura dell'attesa. Si mise a riordinare dei documenti che andavano spediti il giorno dopo, finì di scrivere un rapporto su un caso di pesca di frodo nell'Øresund e archiviò quello su un turno di pattuglia privo di eventi di due giorni prima. Alla fine aprì la sua casella di posta elettronica per vedere se c'erano novità: voleva essere il più sicuro possibile di non essere disturbato, quando non avrebbe più resistito alla tentazione di mettersi a leggere.
5
Karl Petersén non aveva mai visto un morto in vita sua, e il fatto che il primo che gli toccava fosse un caro amico e un eccellente poeta non rendeva le cose più facili. In un primo momento restò paralizzato dal terrore a fissare il cadavere che dondolava avanti e indietro. Perché lo era un cadavere, vero? Jan Y. era morto, no? Con un enorme sforzo di volontà, raccolse tutto il suo coraggio, si avvicinò e afferrò il braccio destro dell'amico. Appoggiò il pollice all'interno del polso e cercò il battito: niente. Poi alzò gli occhi sul viso bluastro. Non poteva esserci alcun dubbio: Jan Y. era morto. Irrevocabilmente morto.
Petersén indietreggiò e si accasciò sulla sedia più vicina. A quel punto crollò: Jan Y. si era suicidato per colpa sua. Aveva insistito troppo, lo aveva convinto a svendere quanto aveva di più sacro. Non avrebbe dovuto prevederlo che potesse succedere, un editore navigato come lui, per di più noto per il suo rapporto con gli scrittori e non privo di comprensione umana? Certo che avrebbe dovuto. È vero che era animato dalle migliori intenzioni, ma avrebbe dovuto rendersi conto che il prezzo da pagare era troppo alto.
Tentò invano di convincersi che Jan Y. non avrebbe mai voluto addossare a qualcun altro la responsabilità del suo suicidio. Era vulnerabile, sensibile, fragile, ma tra tutte le persone che conosceva, era sempre... sempre stato, si corresse... il più pronto a rispondere delle sue azioni. Era uno dei pochi che non si lamentavano mai, per esempio, che la casa editrice non facesse abbastanza per promuovere i suoi libri. E uno degli ancora più rari che non incolpavano mai gli altri dei propri errori, mancanze, carenze, o peccati. Se si era tolto la vita, si sarebbe anche assunto la piena responsabilità del suo gesto.
Quel pensiero diede a Petersén un certo sollievo, sufficiente perché dopo un'ora o due - aveva completamente perso il senso del tempo - iniziasse a guardarsi attorno in cerca di una lettera d'addio. Dopo tutto Jan Y. lo stava aspettando. All'improvviso si rese conto che evidentemente aveva voluto che fosse proprio lui a trovarlo. Ma perché? Per vendicarsi di averlo convinto a scrivere il romanzo? Non era da lui.
Petersén si alzò dalla sedia e si incamminò verso la cabina di poppa. Dopo pochi passi sentì uno scricchiolio sotto i piedi: il pavimento era coperto di frammenti di vetro, un calice da champagne rotto, a quanto poteva vedere. Si immaginò Jan Y. che iniziava a festeggiare la sua nuova vita, per poi essere sopraffatto dai rimorsi di coscienza, scagliare a terra il bicchiere e prendere la fatale decisione. Era da piangere.
Il letto nella cabina era accuratamente rifatto. Sul comodino c'erano due libri, uno spesso e uno sottile. Petersén si infilò gli occhiali: quello spesso era La dea bianca di Robert Graves. Non l'aveva mai letto, ma sapeva che Graves cercava di dimostrare che la ragion d'essere della poesia consiste nel rendere omaggio alla dea madre scrivendo delle sole cose che contano: la vita, la morte e ciò che resta di chi si è amato. L'altro era naturalmente Lettere a un giovane poeta di Rilke. Petersén lo aprì. Qua e là Jan Y. aveva tracciato sottili linee a matita sul margine, soprattutto dove Rilke sosteneva l'importanza che il giovane si dedicasse alla poesia come a una vocazione. Se proprio si trovava nella comprensibile necessità di lavorare, doveva essere in un campo che non avesse niente a che fare con la letteratura. In particolare, precisava, bisognava evitare come la peste il giornalismo e la critica letteraria. In un passaggio sottolineato con tre tratti, Rilke metteva in guardia il suo giovane poeta dal dedicarsi a "irreali professioni semiartistiche, le quali, mentre si fingono vicine all'arte, in pratica ne negano e confutano l'esistenza; così è ad esempio del giornalismo nella sua totalità, di quasi tutta la critica, e di tre quarti di ciò che si chiama e vorrebbe chiamarsi letteratura". Non era azzardato supporre che Rilke - e Jan Y. con lui - avrebbe messo i romanzi gialli nei tre quarti di letteratura che minacciano l'esistenza dell'arte.
Petersén tornò nel quadrato. Per salire in coperta era costretto a passare davanti al cadavere, e nel farlo abbassò gli occhi al pavimento per non vedere il volto distorto di Jan Y. Ma proprio mentre afferrava il corrimano della scaletta, la Fröken Ti beccheggiò all'improvviso, mandando il cadavere, con suo orrore, a rimbalzargli contro con un tonfo. Sentì qualcosa cadere a terra: era la penna stilografica con cui Jan Y. aveva scritto tutte le sue ultime poesie, un'Aurora che gli aveva regalato una delle sue ammiratrici. Da dove saltava fuori? Fu allora che notò la macchia di sangue sotto il cadavere. Nonostante il suo abituale coraggio e autocontrollo, l'editore lanciò un grido lacerato e corse su per la scala rifugiandosi in coperta, dove vomitò tutto il suo dolore e la sua angoscia.
Gli ci volle parecchio per riprendersi a sufficienza da riuscire a pensare al dopo. Ovviamente doveva chiamare la polizia. E poi? Poi sarebbe tornato a Stoccolma con le pive nel sacco. Niente contratto, niente finale del romanzo. Tutto quel lavoro buttato via! E un romanzo fantastico sarebbe rimasto inedito, senza essere letto da nessuno. In mezzo al dolore, provò una sorta di rabbia nei confronti di Jan Y.: con che diritto si era erto a giudice delle reazioni dei lettori e dei critici? Quante volte gli aveva lui stesso assicurato che aveva scritto un capolavoro del genere poliziesco e che non aveva niente di cui vergognarsi? Era possibile che Jan Y. avesse tradito se stesso, ma così aveva tradito anche lui, l'editore Petersén. E il debito di denaro e gratitudine che aveva detto di voler ripagare? Era più che giusto che Petersén si prendesse quel che era suo: il contratto e il finale del romanzo.
Si mise subito a frugare nei cassetti in cerca di pagine stampate, appunti o qualsiasi cosa potesse indicare come Jan Y. aveva immaginato il finale del romanzo. Cercò di accendere il computer, ma lo schermo rimase spento e nero, per quanti tasti premesse e per quante volte togliesse e reinserisse la spina. Scese perfino un'altra volta sottocoperta a controllare in cabina e nelle librerie.
Dopo un'ora di febbrili ricerche, non aveva trovato niente. I cassetti non contenevano altro che vestiti e oggetti che non avevano niente a che vedere con la letteratura. Nessun blocco di appunti, niente fogli stampati né foglietti promemoria. Niente di niente.
Petersén tornò nello studio sul ponte di comando e si accasciò su una sedia. Il suicidio non era stato un gesto impulsivo: era meditato e pianificato. Jan Y. si era accuratamente liberato di tutto ciò che aveva a che fare con la sua opera di scrittore. Ma poi gli cadde lo sguardo su un post-it giallo appeso alla finestra sopra la plancia dei comandi. Si alzò, si avvicinò e lesse: "Il mio più bel ricordo sarà la mia morte!"
Era un messaggio d'addio? Se sì, era spaventoso nella sua disperazione. Davvero Jan Y. aveva un'opinione così bassa di tutto ciò che aveva creato? Davvero nutriva dubbi così profondi sul valore della sua poesia? Petersén non riusciva a farlo quadrare con quello che sapeva di lui. Ma era poi stato davvero lui a scrivere il biglietto?
Si appoggiò alla plancia con entrambe le mani e si chinò in avanti, miope com'era. La calligrafia era irregolare e nervosa, non elegante come quella di Jan Y. Ma chi si preoccupa della sua calligrafia sull'orlo della morte, un attimo prima di fare il salto nell'ignoto? Petersén strinse più forte il bordo della plancia e si accorse che c'era un listello che sembrava staccarsi sotto la sua pressione. Si chinò e scoprì che era un cassettino: all'interno c'era il diario di bordo della Fröken Ti.
Petersén posò il volume sulla plancia, lo sfogliò e lesse qualche frase qua e là. Era chiaro che non era un normale diario di bordo; ogni tanto c'erano annotazioni sulla barca, quando era stata tirata in secco per ridipingere la carena, quando era stato acceso e revisionato il motore, e così via. Ma gran parte del quaderno consisteva in descrizioni di albe, a volte in versi, a volte in prosa. Doveva essere uno dei tanti progetti di Jan Y., l'unico che sembrava essergli sopravvissuto.
Stava per richiudere il quaderno quando gli cadde lo sguardo su un foglio staccato che spuntava tra due pagine. Lo tirò fuori, lo sollevò verso la luce e lesse: "Se dovessi morire, come d'altra parte può capitare in qualunque momento, voglio che Tina Sandell si prenda cura della mia eredità letteraria. In cambio avrà il cinquanta per cento dei miei inesistenti diritti d'autore (chissà, la fama postuma ha colpito anche scrittori dimenticati, perché questa dubbia fortuna non dovrebbe capitare anche a me?)." Firmato Jan Y. Nilsson.
Petersén rilesse il testo diverse volte. "Se dovessi morire" poteva significare una cosa sola, che era stato scritto prima di pensare al suicidio. Ma chi era questa Tina Sandell? Ricordava vagamente che Jan Y. aveva una sorta di musa, un'amica che lo aveva sostenuto in tutti quegli anni quando le cose andavano particolarmente male con la vita o la letteratura. Se lui, Petersén, era rimasto così colpito, come avrebbe reagito lei? L'istante successivo si rese conto che non sarebbe però rimasta a mani vuote, se il romanzo fosse stato pubblicato. Anzi, avrebbe avuto i mezzi per amministrare al meglio la sua vita postuma. Non era un altro buon motivo per pubblicarlo?
In pochi minuti Petersén prese la sua decisione. Posò il foglio davanti a sé e iniziò a copiare la firma di Jan Y. Dopo varie decine di tentativi era abbastanza soddisfatto: del resto chi mai avrebbe richiesto un'analisi grafologica della firma del contratto? Fece una prima traccia a matita e la ripassò con la sua penna a sfera Schaefer, per poi cancellare accuratamente ogni traccia di matita. Infine rimise la lettera di Jan Y. dove l'aveva trovata, nel diario di bordo, tra tutte le albe che forse un giorno Tina Sandell avrebbe pubblicato in forma di libro, se tutto andava come doveva.
Solo allora chiamò la polizia.
6
Per più di un'ora Barck era riuscito a resistere alla tentazione di leggere quel che Schiöler scriveva su Martinson e Tranströmer nel suo Le possibilità del limite, alla fine però non ce la fece più: aveva teso a sufficienza la corda dell'aspettativa. Ma non aveva neanche letto le prime righe, che suonò il telefono. Eh no, eh!
Sul display vide che la chiamata arrivava dalla centrale di Helsingborg, sulla linea protetta. Poteva significare una sola cosa: era successo un incidente che richiedeva il suo intervento. Un marinaio che aveva bevuto troppo e si credeva il padrone del mondo, mentre non era nemmeno in grado di tornare a casa sulle sue gambe; un peschereccio danese che pescava di frodo nell'Øresund a cui bisognava sequestrare le reti; una traversata notturna su un motoscafo superveloce che poteva indicare qualche traffico illecito, ma anche solo una banda di ragazzini sfacciati andati a Helsingør per fare il pieno di birra a buon mercato senza pensare che il consumo di carburante e la debolezza della corona controbilanciavano abbondantemente il risparmio.
Barck non aveva molta voglia di uscire in mare: fuori il nevischio si era fatto sferzante, spinto da un gelido vento da nord-ovest che doveva aver alzato un'onda lunga increspata e disordinata. D'altra parte era proprio in notti come quelle che i pescatori di frodo e i contrabbandieri ne approfittavano, convinti che la guardia costiera e la polizia portuale preferissero girarsi i pollici al caldo piuttosto che affrontare gli elementi scatenati. Ma si sbagliavano: se c'era una cosa di cui le divisioni marittime giustamente si vantavano, era proprio di uscire in mare con qualsiasi tempo.
Il commissario sollevò riluttante il ricevitore.
"Barck", annunciò in tono brusco.
"Come se non lo sapessi", disse una voce che riconobbe per quella di Petterson, un agente rozzo e ottuso che non aveva mai fatto carriera e si rivaleva comportandosi da bullo. "Visto che ti chiamo sulla linea protetta."
"Cosa vuoi?" chiese Barck.
"Pochi minuti fa abbiamo ricevuto una telefonata piuttosto confusa da parte di un certo Petersén, di professione editore."
Barck aguzzò le orecchie.
"Chiamava da un peschereccio ormeggiato nel porto industriale, la tua zona, quindi."
"E?"
"Ha detto che uno dei suoi poeti si è impiccato."
"Jan Y.!" si lasciò sfuggire Barck.
"Esatto. Come fai a saperlo?"
"A quanto ne so c'è un solo poeta che vive nel porto."
"Dovresti occuparti del cadavere del poeta e del suo editore."
"Vado immediatamente. Se succede qualcos'altro, fate entrare in servizio Killund, è reperibile."
"D'accordo. Chiama la centrale, se hai bisogno d'aiuto."
"Certo!"
Ma se c'era qualcosa che Barck non aveva la minima intenzione di fare era coinvolgere quei terraioli della polizia regolare. Quello era un caso suo, e per due motivi: un poeta che si era tolto la vita e un editore che l'aveva trovato. Quasi troppo bello per essere vero!
A parte il suicidio di un bravo poeta, ovviamente. Barck non solo aveva letto e apprezzato varie raccolte di Jan Y., ma l'aveva anche incrociato più volte nei suoi giri d'ispezione al porto e ogni tanto avevano addirittura scambiato qualche parola. O per essere più precisi, era Barck che si aggirava intorno alla Fröken Ti cercando l'occasione per conversare su argomenti come la vita e la poesia contemporanea, o ancor meglio Harry Martinson, che ammiravano entrambi. Non più tardi di una settimana prima aveva bussato al peschereccio con il cuore in gola e delle poesie in tasca, insieme a una copia dell'ultima raccolta di Jan Y. Il piano era partire chiedendo una dedica, per poi domandargli se non poteva dare un'occhiata senza impegno alle sue fatiche. Ma quando si era trovato davanti a uno dei più stimati poeti del paese, gli era mancato il coraggio. Aveva semplicemente avuto paura che Jan Y. liquidasse le sue creazioni con un sorriso leggermente imbarazzato come tragicomica retorica o filastrocche buone tutt'al più per accompagnare i regali di Natale. E adesso ormai era morto. Che tragedia.
D'altra parte Barck non poteva fare a meno di provare una certa emozione all'idea di incontrare l'editore di Jan Y., uno dei più influenti del paese. Chissà dove poteva portare quel contatto. Si sarebbe preso tutto il tempo necessario a chiarire le circostanze del suicidio, in modo da avere l'occasione di conoscerlo meglio.
L'istante dopo si vergognò di aver pensato a se stesso in un momento così tragico. In fondo era morto un grande poeta, e non è che quelli come lui crescano sugli alberi!
Barck corse giù per le scale, salì in macchina e accese i tergicristalli. Non pioveva più forte come prima, ma scendeva un pesante nevischio che si accumulava in fretta sul parabrezza.
All'interno del porto non vide anima viva, a parte il solito Axel Johnson che continuava ad aggirarsi per le banchine, per buona grazia della capitaneria, anche dopo essere andato in pensione già da qualche anno, l'ultimo scaricatore a giornata. Dava una mano qua e là quando serviva e faceva per così dire da guardia notturna volontaria. E in effetti i furti erano diminuiti da quando il vecchio lupo di mare si era incaricato della sorveglianza.
Quando vide la macchina di Barck che si avvicinava, Axel si mise ad agitare le braccia come un mulino a vento. Barck si fermò e abbassò il finestrino.
"Hai sentito l'ultima?" chiese Axel.
"Dipende", rispose Barck.
"Buone notizie per Jan Y.", proseguì Axel. "Qualche ora fa ho incontrato il suo editore sulla banchina. Cercava la Fröken Ti e aveva in ballo qualcosa di grosso. Mi domando cosa. Spero solo che non c'entri il giallo di Janne."
"Che giallo?"
"Quel matto si è messo in testa di scrivere un poliziesco o qualcosa del genere. O almeno è quello che mi ha detto stamattina quando l'ho incontrato."
Un giallo? Questa di sicuro non era una buona notizia. Ma poi il cervello da poliziotto di Barck si mise in moto.
"Hai detto che hai incontrato Petersén qualche ora fa?"
"Sì, intorno alle sette, più o meno."
Barck guardò l'orologio del cruscotto: mezzanotte e un quarto. Perché Petersén non si era fatto vivo prima? Lo shock? O poteva magari essere qualcosa di diverso da un suicidio? Un incidente? Una lite per un contratto o i diritti d'autore andata a finir male? O addirittura un omicidio? Nessuna ipotesi suonava particolarmente credibile: l'editore, secondo Axel, era venuto a portare buone notizie. Però era strano che avesse aspettato più di cinque ore a chiamare la polizia. Doveva esserci qualcosa, sotto quel ritardo. Ma cosa? Per quanto Barck si sentisse poeta nell'animo, era poliziotto fin nel midollo e sapeva di dover esaminare tutte le eventualità. L'idea di poliziotto-poeta in fondo non gli spiaceva affatto, nonostante il suo nome in questo senso gli giocasse contro. Da quando il commissario Martin Beck di Sjöwall e Wahlöö era diventato protagonista di una serie televisiva, i colleghi non facevano che prenderlo in giro. Ma gli piaceva pensare di non essere come gli altri. La maggior parte dei poliziotti che aveva conosciuto, nella realtà come in letteratura, erano tipi relativamente noiosi: lavoravano troppo, bevevano più di quanto fosse salutare, erano troppo soli, avevano problemi con le mogli o i figli. Una dose di bellezza e di poesia non gli avrebbe fatto male, anche se non era facile trovare qualcosa di bello in un caso di omicidio.
Tutt'a un tratto fu preso dall'impazienza, premette sull'acceleratore e piantò in asso lo sbigottito Axel Johnson. Poco dopo parcheggiò accanto alla Fröken Ti e salì a bordo. Sul ponte si guardò attorno, alla fioca luce di un lampione sulla banchina: niente degno di nota, e soprattutto nessun poeta che dondolava dall'albero maestro. Poteva solo significare che Jan Y. si era impiccato sottocoperta, perché nella tuga l'altezza di caduta non sarebbe bastata. Il che a sua volta implicava che l'editore dovesse trovarsi nella tuga: era improbabile che volesse passare la serata con un poeta impiccato come unica compagnia. Barck salì in un solo balzo i pochi gradini che portavano al ponte di comando e spalancò la porta.
Lo spettacolo che si trovò davanti era esattamente quello che si aspettava: il rispettato e rispettabile editore accasciato su una sedia con la testa appoggiata al tavolo. Davanti a lui c'era una pila di fogli. Solo quando Barck richiuse la porta, sembrò riprendersi a sufficienza da alzare almeno lo sguardo.
"Sottocoperta", disse con voce spezzata.
"Non se ne vada!" ordinò Barck, anche se il rischio che potesse muoversi da lì sembrava irrisorio.
Tornò verso prua e scese nel quadrato, fermandosi ai piedi della scala per osservare la scena: il cadavere di Jan Y. che oscillava debolmente avanti e indietro, la bottiglia di champagne sul tavolo, lo sgabello rovesciato, la macchia di sangue sul pavimento. Nella disputa che divideva i poliziotti svedesi, Barck aveva sempre parteggiato per gli olisti, secondo i quali ci si deve fare un'impressione d'insieme prima di addentrarsi nei dettagli. Aveva avuto spesso discussioni sull'argomento con Rydberg, della polizia di Ystad, che era invece partigiano della teoria opposta: secondo lui bisognava esaminare subito tutto nei minimi dettagli. Probabilmente non era possibile stabilire chi avesse ragione: Rydberg era un buon poliziotto, e Barck aveva la presunzione di non ritenersi troppo male nemmeno lui. Comunque se l'era cavata con un certo successo sulle scene del crimine su cui si era trovato a esercitare i suoi talenti fino a quel momento.
Ma in questo caso non c'era nessun reato, a meno di non considerare il suicidio un crimine, come in effetti Barck era tentato di fare. Provava un'istintiva avversione per i suicidi, soprattutto se si toglievano la vita sotto gli occhi di altri. Un conto era essere talmente disperati da non riuscire più a immaginare che la vita possa cambiare per il meglio, un altro esporre gli altri alla propria angoscia. Non pensavano che poteva anche esserci un bambino di dieci anni sul marciapiede del binario, nel momento in cui si buttavano sotto un treno e venivano ridotti a brandelli? O al macchinista costretto a vivere con l'incubo di poter investire in qualsiasi momento un poveraccio, senza poter fare niente per impedirlo? D'accordo togliersi la vita, se proprio era assolutamente necessario, ma cosa gli dava il diritto di far pagare le conseguenze a qualcun altro? Almeno Jan Y. si era suicidato con discrezione, anche se veniva da chiedersi perché avesse costretto il suo editore alla macabra scoperta. Ma forse non sapeva che avrebbe avuto visite.
Al tempo stesso Barck sentiva che c'era qualcosa che non quadrava. La macchia di sangue? Perché avrebbe dovuto ferirsi, se aveva intenzione di impiccarsi? Fece qualche passo per osservare il pavimento ai piedi di Jan Y. e vide qualcosa che luccicava sotto la scala. Si chinò e raccolse una penna stilografica, di lusso, se non sbagliava. Girò attorno al cadavere: il sangue, che aveva già fatto in tempo a seccare, proveniva da una ferita al collo. Che Jan Y. avesse cambiato idea all'ultimo momento e avesse cercato di tagliare la corda con l'unico attrezzo che aveva a portata di mano, la sua penna da poeta? O al contrario, aveva magari cercato di pugnalarsi per accelerare il processo. Non sembrava impossibile. Comunque Barck non notava segni sulla corda, una cima di canapa sintetica da sedici millimetri a tre legnoli, se vedeva bene, con un carico di rottura di circa quattro tonnellate, molto più di quanto servisse per impiccare un poeta magrolino, e di sicuro non la scelta migliore per un cappio che doveva stringersi rapidamente. Jan Y. doveva aver avuto qualche problema con il nodo scorsoio. Vivendo in barca, non avrebbe dovuto essere abbastanza esperto da evitare di scegliere una cima così sovradimensionata, al limite del ridicolo? Per finire, c'era un altro dettaglio che lo sorprendeva: il cappio pendeva da un bozzello che rinviava a un paranco a quattro vie fissato alla fiancata. Ma chi aveva mai sentito parlare di un aspirante suicida che si issa al soffitto?
Solo allora notò i frammenti di vetro sotto il cadavere. Riconobbe il piede di un calice. Cosa significava? Che Jan Y. si era fatto un goccio di champagne per trovare il coraggio? Barck cercò accuratamente in giro il tappo della bottiglia, senza trovarlo.
Tutto sommato era una scena molto contraddittoria per un suicidio. Forse Jan Y. aveva voluto fare il poeta fino in fondo, scegliendo di impiccarsi invece di mandare giù un più prosaico flacone di pillole.
Insomma, c'erano molte domande e poche risposte, a parte che Jan Y. era senza dubbio morto.
Barck si infilò dei guanti di lattice e tastò delicatamente le tasche del cadavere: da una proveniva un tintinnio. Vi infilò cautamente una mano e ne estrasse un mazzo di chiavi. Bene! Così avrebbe potuto chiudere la barca invece di far venire la sorveglianza. Non era affatto detto che il medico legale e il tecnico della scientifica potessero arrivare in piena notte, anzi era piuttosto improbabile. Quanto a lui, doveva assicurarsi che Petersén raggiungesse un letto il più presto possibile, dopo un breve interrogatorio.
Risalito in coperta, respirò a fondo più volte contro il vento che soffiava forte da nord-ovest, poi chiuse il tambuccio e tornò nella tuga.
Petersén era ancora seduto nella posizione in cui l'aveva lasciato, ma il mucchio di carte davanti a lui era sparito, probabilmente nella ventiquattrore ai suoi piedi.
"Le faccio le mie più sincere condoglianze", disse Barck. "È davvero una grande perdita per la letteratura svedese."
Petersén lo guardò con un velo di confuso stupore sul volto. Non si era certo aspettato che un poliziotto in uniforme si preoccupasse della letteratura svedese.
"Anch'io scrivo qualcosa, nel tempo libero", confessò Barck imbarazzato. "Niente di paragonabile a Jan Y., ovviamente."
"Quindi lo conosceva?"
"Dire che lo conoscevo è forse troppo, ma è capitato che scambiassimo qualche parola. Sono in servizio alla polizia marittima e l'area del porto è sotto la mia giurisdizione. È per questo che hanno mandato me."
Petersén abbozzò un cenno del capo.
"Sono costretto a farle qualche domanda", disse Barck, "anche se so che può essere difficile. Non ci vorrà molto, poi la accompagnerò in albergo."
"In albergo?" ripeté Petersén con voce atona.
"È ospite di conoscenti?"
"No. Mi ero semplicemente dimenticato che devo dormire da qualche parte. Mi spiace."
Barck ebbe una fulminazione. Era decisamente fuori dalle regole, ma non riuscì a resistere alla tentazione.
"Posso offrirle una stanza a casa mia", disse.
"Non voglio disturbare."
"Nessun disturbo."
Barck prese il silenzio dell'editore per un sì.
"Faccio un paio di telefonate e ce ne possiamo andare."
Uscì sul ponte e chiamò prima un medico legale che conosceva da anni, poi un tecnico della scientifica di cui si fidava ciecamente. Spiegò cos'era successo, dicendo che l'unica ipotesi plausibile era che Jan Y. si fosse impiccato. Ma voleva esserne del tutto sicuro, il suo fiuto e dieci anni di esperienza nell'investigativa gli dicevano che non si trattava di un normale suicidio. Avrebbe anche potuto essere un incidente: un poeta disperato che vuole provare che impressione fa sentirsi un cappio attorno al collo e che poi scivola e cade dalla sedia. Ma non c'era alcun sospetto di reato, perciò Barck voleva che facessero rapporto direttamente a lui e non al comando di Helsingborg. Il tecnico gli disse che sarebbe arrivato nel giro di mezz'ora perché era di turno, mentre il medico legale non poteva prima del mattino dopo intorno alle nove. Barck promise al primo di aspettarlo e al secondo di tornare lì ad accoglierlo.
Poi chiamò la moglie, che rispose assonnata e leggermente preoccupata: non succedeva spesso che il marito le telefonasse in piena notte. Ma Barck riuscì a mantenere un tono calmo e concreto e le spiegò che il mattino dopo avrebbe trovato un editore nella loro stanza degli ospiti.
"Non dovrebbe anche esserci un marito nel mio letto?"
"Anche, ma non è detto che abbia il tempo di dormire. Devo vedere il medico legale alle nove."
Poi tornò da Petersén, che non si era ancora mosso di un millimetro.
"Ho avvisato mia moglie. Devo solo aspettare che arrivi il tecnico per esaminare la scena del crimine, poi possiamo andare."
"La scena del crimine?"
Un'ombra spaventata attraversò gli occhi di Petersén.
"Si chiama così. Dobbiamo solo assicurarci che si tratti davvero di suicidio."
"Cos'altro potrebbe essere?"
"Un incidente. Un poeta disperato davanti all'alternativa finale, il cappio o lo champagne: infila la testa nel primo dopo aver bevuto il secondo, scivola e si impicca per errore. Ovviamente lascia cadere il bicchiere che si rompe e cerca disperatamente di liberarsi con l'unica cosa che ha a portata di mano, la penna stilografica, ma riesce solo a ferirsi e suggella così il suo destino. Può anche essere andata in questo modo."
"Dice sul serio?"
Barck annuì, perché sentiva che era la risposta che poteva calmare Petersén in quel momento. In realtà c'era un punto che non quadrava in quella ricostruzione: i frammenti di vetro non avrebbero dovuto essere dov'erano, a più di due metri dal cappio e in parte nascosti sotto il tavolo.
"Comunque è tutta colpa mia!" esclamò Petersén.
"In che senso?"
Barck tirò fuori il dittafono e lo posò sul tavolo.
"Dovrò scrivere un rapporto e sarà più facile se ho le sue parole registrate."
Petersén fece un gesto vago.
"Non ho molto da dire, in realtà. Ho preso l'aereo per Ängelholm, sono atterrato verso le cinque e sono venuto direttamente qui in taxi, cioè, prima mi sono fermato al Monopolio per comprare una bottiglia di champagne."
Cercò di sorridere, ma tutto quello che ottenne fu una smorfia amara.
"Avrei potuto risparmiarmelo. Quando sono arrivato ce n'era già una aperta sul tavolo. Stiamo parlando delle sei, sei e mezzo circa. E poi ho trovato Jan Y. Morto."
Petersén lo guardò con aria impotente, come se solo allora se ne rendesse davvero conto. Barck aspettò che l'editore si riprendesse a sufficienza per proseguire la conversazione.
"Qual era la buona notizia che doveva dargli?" gli chiese poi.
Petersén gli lanciò un'occhiata sorpresa.
"Come lo sa?"
"Ho incontrato Axel Johnson mentre venivo qui."
"Axel Johnson?"
"Il portuale con cui ha parlato."
"Ah, certo."
"Quindi, questa buona notizia?"
"Preferirei non rivelarla. Potrebbe andare a discapito di Jan Y...."
"La situazione è diversa, adesso."
"Be', può ben dirlo."
Petersén esitò un paio di secondi, poi si decise:
"Ero riuscito a convincere Jan Y. a scrivere un giallo. Ma non uno qualsiasi, uno dei migliori mai scritti, talmente buono che ho già venduto i diritti esteri per cifre considerevoli. L'accordo però era che il libro sarebbe uscito contemporaneamente in diversi paesi europei, senza che nessuno, tanto meno la stampa, sapesse di cosa parlava, soprattutto perché denuncia una serie di imbrogli e truffe che potrebbero irritare vari pezzi grossi della finanza, e non solo in Svezia."
"In altre parole, Jan Y. sarebbe diventato ricco nel giro di una notte."
"Secondo i suoi parametri, sì."
"I suoi eredi ne saranno felici. Sa chi sono?"
"Sua madre, che amava sopra ogni cosa, è morta qualche anno fa. Il padre non voleva avere niente a che fare con lui per le sue scelte di vita. Poi c'è un fratello, di cui non so molto."
"Jan Y. non aveva una convivente, vero?"
"Perché me lo chiede?"
"Non è la Arnefors che pubblica i libri di Marklind?"
Petersén lo guardò sorpreso.
"Sono io, in quanto poliziotto, che posso trarre conclusioni inaspettate, non lei", osservò Barck.
"Sì, è la Arnefors a pubblicare i libri di Marklind. Speriamo che non ci tocchi una replica... I soldi non tirano certo fuori il meglio dalla gente."
"Allora, questa convivente?"
"Ne ha avuta più di una. Ma attualmente vive solo, credo."
Petersén abbassò gli occhi sul tavolo.
"... viveva."
L'editore deglutì diverse volte prima di riuscire a risollevare lo sguardo.
"Ma aveva una cara amica, Tina Sandell, che lo seguiva nella buona e nella cattiva sorte; voleva essere una specie di musa, e lo era davvero, se ho capito bene. Partecipava spesso alle sue letture e lo aiutava con le trascrizioni e tutto il resto. Però non vivevano insieme, e credo che non avessero neanche una relazione. Intima, intendo."
"C'è un testamento?"
Lo sguardo di Petersén ondeggiò, agitato.
"Non che io sappia", rispose in fretta.
"Relazioni amorose? Amici?"
"Ne aveva di sicuro. Jan Y. era una persona cordiale e sapeva essere decisamente seducente, quando era dell'umore giusto, anche se a volte poteva risultare timido. Io comunque ne conosco solo due: Anders Bergsten, un altro autore della casa editrice, e quella Tina. Io e Jan Y. ci conoscevamo piuttosto bene, e avevamo grande rispetto uno per l'altro... voglio dire, immagino che anche lui mi rispettasse... ma non eravamo amici intimi. Quando ci incontravamo, era sempre per i suoi libri e la sua poesia."
"Domani dovrò parlare con loro."
"Sì, la prego! Prima che lo vengano a sapere dalla stampa."
"La stampa non saprà nulla finché non la informerò io. E il padre e il fratello come si chiamano?"
"Non ne ho idea."
"D'accordo, posso verificarlo più tardi."
Barck si rese conto all'improvviso che non sarebbe stato divertente comunicare ai parenti che Jan Y. si era suicidato. Aveva dimenticato che anche essere messaggeri di cattive notizie faceva parte dei suoi compiti.
"E che ne sarà del romanzo?"
"Dobbiamo procedere alla pubblicazione, tutti i contratti ormai sono firmati. Se decidessimo di fermarci dovremmo pagare grosse penali."
Barck sentì una macchina che si fermava fuori, probabilmente quella del tecnico.
"E secondo lei perché Jan Y. ha deciso di suicidarsi?"
"Davvero non lo so."
"Ma prima ha detto che era colpa sua."
"Forse l'ho forzato troppo, spingendolo a scrivere qualcosa che non voleva. Ma come avrei potuto immaginare che sarebbe arrivato a questo?"
"Già, come avrebbe potuto?"
Barck si accorse che c'era un velo di rimprovero nella sua voce.
"Aspetti qui mentre do le indicazioni al tecnico", aggiunse in tono più gentile.
Il collega aspettava sulla banchina con la sua attrezzatura. Barck gli fece segno di salire a bordo, per poi accompagnarlo sottocoperta, dove gli riferì tutte le sue osservazioni.
"Voglio un esame completo della scena del crimine. Controlla se c'è qualcosa nello champagne, se è stata davvero la stilografica a produrre la ferita sul collo, se è possibile che se la sia inferta da solo, le impronte digitali."
"Insomma, credi che possa trattarsi di omicidio."
"Non credo niente. I bravi poliziotti non hanno preconcetti, ma devono avere abbastanza fantasia da immaginare qualsiasi possibile evenienza. Anche la più inverosimile."
"Forse avresti dovuto lavorare nell'investigativa", osservò il tecnico.
"L'ho fatto per dieci anni, e mi sono bastati! Troppe morti violente e troppo poca vita, per i miei gusti. Ci sono poliziotti che trovano eccitante catturare degli assassini, io no."
Avrebbe potuto aggiungere che c'era troppo poca bellezza nelle indagini per omicidio, o per essere più precisi non ce n'era proprio, ma lasciò perdere. Non voleva passare per un tipo stravagante.
"Queste sono le chiavi del quadrato e della tuga. Quando te ne vai chiudi tutto, poi passa da casa mia e infilale nella cassetta della posta. Ho appuntamento con il medico legale domani mattina alle nove."
Gli passò un foglietto con il codice per aprire il portone.
"E ricorda: nessuno deve sapere niente tranne me."
"Muto come un pesce", lo rassicurò il tecnico prima di sparire giù la scala.
7
Erano le tre del mattino quando Barck scivolò tra le lenzuola accanto alla moglie, che borbottò qualcosa senza svegliarsi. Guardò la sveglia: era puntata sulle sette, come tutte le altre mattine. Di solito non la sentiva nemmeno e si limitava a continuare a dormire. Era poi Anna a telefonargli dal lavoro per svegliarlo con qualche parola gentile. Ma quella non era una mattina come le altre: prima di tutto c'era un editore che dormiva nella camera degli ospiti, e poi doveva essere di nuovo alla Fröken Ti per le nove. Valeva la pena di dormire? Ma sì, era sempre meglio che niente. Da giovane gli capitava di saltare intere notti di sonno, soprattutto quando Anna iniziava a stuzzicarlo nei suoi punti più sensibili. Ma era ormai acqua passata, cioè, non che la moglie non lo solleticasse più, ma era raro che lo facesse quando aveva il turno di notte.
Mezz'ora dopo però era ancora perfettamente sveglio. Pensieri su Jan Y. e la scena della sua morte continuavano a girargli in testa senza che riuscisse a liberarsene. Perché diavolo avrebbe dovuto uccidersi proprio quando stava per ottenere il successo che meritava? Come romanziere, è vero, ma comunque. E sapendo che Petersén era in arrivo? Perché infliggere al suo editore, con cui aveva lavorato per anni e che aveva contribuito a farlo diventare l'influente poeta che era, lo shock di vedere uno dei suoi autori impiccato al soffitto?
Barck si alzò, si infilò la vestaglia, preparò una tazza di caffè, andò nel suo studio - o nella sua tana di scrittore, come preferiva chiamarlo - e prese dalla libreria le raccolte di Jan Y. che aveva comprato nel corso degli anni, soprattutto da quando aveva saputo che viveva al porto.
Mezz'ora dopo si era chiarito un po' le idee. Come poeta Jan Y. non era di sicuro un allegrone, ma la disperazione che esprimeva in alcuni versi riguardava soprattutto le sofferenze altrui o le proprie pene amorose. In effetti non era particolarmente incoraggiante leggere frasi come:
A volte ho trapassato il foglio
perché nel suo corpo
si unissero il mio desiderio e il mio amore
come i morti e le parole
si ritrovano
nella poesia
Oppure:
A non vederti soffro
Perché la mia sete non si placa che sulle tue labbra
A vederti troppo ho paura
che la fame mi spinga a strapparti il cuore
O ancora:
prima c'è stato il dolore
il dolore incredibile
di non aver creduto
che si nasce insieme alla propria morte
Era evidente che la morte era sempre in agguato nei suoi versi; "La morte può arrivare ogni mattina", aveva scritto in un altro. Anche nelle composizioni più positive c'era una corrente sotterranea di infelicità e di dolore. La morte era una presenza reale e costante, mentre la felicità era un sogno, una speranza, una diceria, un'alba, un vano desiderio di fermare una stella cadente nel cielo notturno. Ma Barck non trovò nessun indizio che il poeta fosse stanco della vita. Anzi, qua e là spuntava anche una luce, sebbene a lunghi intervalli. "La vita è meravigliosa", era l'inizio di una sua poesia; ed era difficile non sentirsi rincuorati leggendo:
Se hai bisogno di neve in primavera
apri un libro
Se hai bisogno di primavera in primavera
apri la finestra
La morte non era mai evocata come un invitante luogo di riposo o di fuga, piuttosto come una bilancia su cui la vita viene pesata e assume un senso. Jan Y. non sembrava nemmeno essere un poeta incline ad affidare la propria vita ai lettori: preferiva scrivere dei dolori altrui che dei suoi, dell'ombra di una sterna che della propria, della poesia che delle sue poesie:
in pochi passi si recita un verso
in pochi versi si recita una vita
Insomma, quel che scriveva era intimo ma non privato. E comunque era inutile leggere le sue poesie per cercare di spiegare il suo gesto.
Una cosa ad ogni modo Barck l'aveva capita: ci sono poeti che si mettono a nudo e altri che indossano una maschera. Jan Y. si piazzava più o meno a metà strada. Da un lato i suoi versi davano l'impressione di essere vissuti in prima persona, anche se non parlavano di lui. Dall'altro era impossibile dire quando, dove, come e con chi avesse vissuto quelle esperienze. Dava l'impressione di voler parlare di sé, e forse lo faceva, ma sempre come se ci fosse qualcosa che lo tratteneva.
Dopo aver sfogliato a caso le raccolte, si sdraiò sul divano del soggiorno e si appisolò. Si svegliò al rumore di una porta che si apriva: era Petersén che brancolava in cerca del bagno. Nella pallida luce dell'alba vide che aveva il volto cereo e due cerchi scuri sotto gli occhi.
Alle sette fu di nuovo svegliato dalla moglie che lo baciò sulle palpebre.
"Cosa ci fai qui?" gli chiese.
"Non riuscivo a dormire e non volevo svegliarti."
"È stata così dura?"
"Sì."
"Poveretto! Ti preparo la colazione?"
"Grazie."
Barck si sentì invadere dalla tenerezza. Non finiva mai di stupirsi della capacità che aveva Anna di mostrare empatia e comprensione nelle esatte proporzioni e al momento giusto. Era una donna di grande precisione emotiva: se si arrabbiava, era perché ne aveva motivo. Se iniziava a baciarlo e carezzarlo, era perché lo desiderava. Se rideva, era perché trovava divertente qualcosa. Non le sarebbe mai passato per la testa di sorridere solo per educazione o per essere accondiscendente. Con lei Barck poteva star certo che l'apparenza non ingannava mai: era quello che era. I suoi lati brillanti e seducenti non erano mai simulati, mai artificiosi; in questo senso era come una buona poesia. E doveva essere anche il motivo per cui non aveva mai avuto molto successo nella politica locale.
"Alle nove devo essere sul peschereccio per incontrare il medico legale", disse.
"E l'editore?"
"Credo che sia abbastanza stanco da dormire fino a quando non tornerò. Altrimenti non avrà che da cercare nel frigo o negli armadietti qualcosa da mettere sotto i denti. Non dev'essere stato facile per lui. Prova a immaginarti: arriva in aereo da Stoccolma per comunicare a Jan Y. di aver venduto i diritti del suo romanzo, e si trova davanti un poeta impiccato. E per di più pensa che sia tutta colpa sua."
"Perché?"
"Perché ha convinto Jan Y. a tradire se stesso e la sua poesia."
"E tu cosa ne pensi?"
"Per il momento niente. Se non che non è sempre facile essere un poeta. Ma se sarà confermato il suicidio, la polizia avrà esaurito il suo ruolo, a parte comunicare la triste notizia ai parenti."
"Se è stato un suicidio? Non è così facile uccidere qualcuno impiccandolo."
"Lo so. Voglio solo essere sicuro. Cosa mi costa?"
Due ore e una doccia fredda dopo, Barck era di nuovo sulla Fröken Ti. La perturbazione della sera prima era passata lasciando il posto a un sole invernale così basso sull'orizzonte che si restava abbagliati senza nemmeno alzare gli occhi al cielo. La temperatura era scesa a qualche grado sotto zero, ma quella percepita era considerevolmente più bassa per via del vento. Barck non avrebbe saputo dire cosa preferiva a terra: un clima più mite ma umido, o temperature sotto zero. In mare non aveva dubbi: meglio il cielo sereno e soleggiato che una coltre grigiastra. Non gli importava di avere a bordo tutta la strumentazione moderna, voleva vedere con i suoi occhi dove si trovava e cosa lo aspettava.
Il medico legale arrivò in perfetto orario. Barck aprì e lo accompagnò sottocoperta. Adesso che la luce del giorno entrava a fiotti dagli osteriggi sul ponte, la vista del poeta impiccato era ancora più spaventosa che alla luce della lampada in piena notte: si vedeva la morte com'era davvero, nuda e repellente, senza l'ombra di romanticismo o misticismo.
Barck non si era mai abituato alla vista di un cadavere, per lo meno di una persona giovane e sana. Quando se ne va un malato o un anziano, si vede che la vita aveva già iniziato ad abbandonare il corpo, e la morte appare in un certo senso più comprensibile. Quando invece è qualcuno in piena salute che muore all'improvviso, nelle prime ore quasi non si nota che il soffio vitale si è estinto, sembra di poter richiamare il morto in vita in qualsiasi momento. Ma la morte è definitiva, il vicolo cieco dell'eternità. Perché sia così, nessuno lo sa spiegare, né i poeti, né i preti, né gli scienziati, e tanto meno i poliziotti. Nessuno è in grado di rispondere alla domanda del perché ogni cosa vivente abbia insita in sé la morte, come se l'idea stessa fosse proprio che l'esistenza dovesse avere una fine.
Nel complesso Barck era un uomo sereno, che aveva accettato il fatto che fosse assurdo desiderare una vita dopo questa. Eppure davanti alla vittima di un omicidio restava disarmato. Ogni tanto aveva provato a esprimere in versi la sua angoscia, ma fino a quel momento non ne era risultato altro che una sorta di scrittura terapeutica, senza alcun valore artistico. La morte, aveva concluso, era brutta come il peccato. Abbellirla, celebrarla e cantarne le lodi, come avevano fatto tanti poeti, era fondamentalmente tradire l'essenza più profonda della poesia, e di sicuro non aveva nessuna intenzione di abbassarsi a farlo, nemmeno se fosse stato un poeta più dotato di quel che era.
Il medico legale iniziò a esaminare la zona attorno al collo, annotando escoriazioni e lividi. Osservò la ferita e la confrontò con la stilografica ancora sul pavimento.
"La ferita è stata senz'altro procurata dalla penna", concluse. "Ma c'è qualcosa che non mi convince."
"Cosa?"
"Per conficcare una penna così in profondità è necessaria una certa forza. E ho qualche difficoltà a credere che possa essere stata la vittima a farlo, tenuto conto della posizione della ferita."
Il medico legale indicò con la matita.
"Vedi? Lo slancio non può essere stato più di venti centimetri, e con un angolo molto inclinato. Inoltre non ci sono lesioni da difesa, come avviene quando qualcuno viene impiccato contro la sua volontà o cambia idea all'ultimo momento."
"Stai dicendo che qualcun altro lo avrebbe pugnalato con la penna?"
"È una possibile variante. C'è un'altra cosa che contrasta con l'ipotesi di suicidio: l'altezza di caduta piuttosto limitata, forse troppo. Nelle impiccagioni si distingue tra caduta lunga e caduta corta. Nel primo caso si verifica la frattura delle vertebre cervicali e la morte è quasi istantanea. Con la caduta corta invece la vittima viene soffocata tramite l'occlusione delle vie respiratorie, ma può volerci del tempo. Se Jan Y. si è impiccato spontaneamente deve aver avuto una forza di volontà inverosimile per non tentare di liberarsi quando ha iniziato a sentirsi soffocare. Eppure sul collo ci sono solo le escoriazioni provocate dalla corda, non dalle sue unghie. Inoltre, in genere in caso di impiccagione la vescica e l'intestino tendono a svuotarsi. Nell'Inghilterra puritana per esempio le donne che venivano impiccate erano provviste di una sorta di pannolone perché il pubblico non dovesse assistere a quello spettacolo indecoroso. Ma qui non c'è traccia di svuotamento dell'intestino. C'è qualcosa di poco chiaro, questo è certo. Suggerisco di effettuare un'autopsia."
"Ma per farla ci serve un sospetto di reato. Non possiamo richiedere un'autopsia solo perché qualcuno ha cercato di uccidersi, almeno non senza un'autorizzazione dei famigliari."
In quell'istante squillò il cellulare di Barck: era il tecnico della scientifica.
"Abbiamo il nostro sospetto di reato!" constatò risolutamente dopo aver chiuso la conversazione. "Il tecnico ha rilevato un sedimento nella bottiglia di champagne, ne ha portato un campione al laboratorio e ha chiesto che lo analizzassero."
"E?"
"Un potente anestetico, il Propofol, usato negli ospedali. Normalmente viene somministrato per via endovenosa, ma secondo il laboratorio se ingerito può causare una breve perdita di coscienza. Se dai un'occhiata più approfondita al cadavere, mi gioco la testa che era privo di sensi, quando è stato impiccato... con l'aiuto di quel paranco, scommetto."
"Accidenti, non l'avevo notato."
Ben presto il medico legale fu in grado di confermare che Barck aveva ragione.
"Con tutta probabilità ci troviamo di fronte a un omicidio mascherato da suicidio", concluse. "Farò in modo di iniziare l'autopsia non appena il cadavere verrà portato all'obitorio."
"Hai idea del perché la vittima sia stata colpita al collo con la penna?"
"La prima cosa che mi passa per la testa: forse l'assassino ha avuto paura che l'effetto dell'anestetico non durasse abbastanza e che la vittima potesse risvegliarsi e opporre resistenza. C'è almeno un litro di sangue in quella pozza sul pavimento."
"L'assassino?" chiese Barck. "Come fai a sapere che è un uomo?"
"Non lo so. Ma se è stata una donna, dev'essere bella muscolosa."
"Ci sono anche quelle", commentò Barck.
"E l'editore com'è? Ha un po' di bicipiti, a furia di sollevare libri?"
"Cazzo!" esclamò Barck, normalmente molto attento a evitare qualsiasi trita imprecazione indegna di un poeta.
Si era reso conto all'improvviso che Petersén non poteva che essere considerato il principale sospettato. E lui l'aveva portato a dormire a casa sua! Non andava per niente bene. E se si fosse saputo in giro? Non poteva certo dire la verità, cioè che aveva vergognosamente approfittato della possibilità di conoscere meglio uno dei più influenti editori del paese. Quando lavorava nell'investigativa non avrebbe mai commesso un errore del genere: era chiaro che aveva perso la mano. Per essere un buon poliziotto, come per tutto il resto, bisogna tenersi in allenamento. Non si può vivere sugli allori, esattamente come nel campo della poesia.
Chiamò subito uno dei suoi collaboratori più fidati, l'agente Jensen, e gli spiegò la situazione.
"Devi aiutarmi a tenere la barca sigillata finché non avremo riesaminato la scena, ma senza nastri di delimitazione che attirino l'attenzione. E di' al tecnico di tornare, deve passare al setaccio anche la coperta e il ponte di comando. Tu ti occuperai dei cassetti e dei ripostigli. E possibilmente anche del cellulare di Jan Y. Vedi se trovi qualcosa nel computer, esamina tutti i file e le e-mail. Un'altra cosa: non una parola con la stampa. Anzi, con nessuno, per il momento."
Poi chiamò il suo capo a Göteborg.
"Abbiamo un omicidio al porto", annunciò Barck, per poi riassumergli la situazione. "Mi farebbe piacere occuparmi dell'indagine, ma in tal caso dovrai mandare qualcuno a sostituirmi nel pattugliamento costiero."
Il responsabile del distretto del Västra Götaland rifletté un attimo sulle parole di Barck.
"D'accordo", concesse poi. "Condurrai tu l'indagine. Dimostreremo a quei marinai d'acqua dolce che non siamo solo capaci di manovrare una barca. Ma se insorgono problemi dovrai contattare la direzione anticrimine regionale della Scania."
"Certo."
Poi Barck salì in macchina e tornò a casa il più in fretta possibile. Quando infilò la chiave nella toppa si accorse che la porta esterna non era chiusa. Affrettò il passo, ma era successo quello che aveva temuto: Petersén se n'era già andato. Sul tavolo della cucina era posato un biglietto:
"Grazie per l'ospitalità!"
Accanto al messaggio c'era la bottiglia di champagne che aveva comprato per berla insieme a Jan Y. Ormai in effetti non c'era molto da festeggiare.
La domanda era solo se per tornare a Stoccolma avesse preso il treno o l'aereo. Barck accese il computer e controllò gli orari su internet: la SAS aveva un volo in partenza da Ängelholm alle 11.15, le ferrovie un treno mezz'ora prima, ma bisognava cambiare a Lund e Petersén non sarebbe arrivato a Stoccolma prima della chiusura degli uffici. Barck scommise sul volo, si lanciò giù per le scale e si diresse a tutta velocità verso l'aeroporto, a sirene spiegate.
Quando comparve affannato sulla pista, i passeggeri erano già saliti a bordo. Per fortuna era in uniforme, così non rischiò di essere scambiato per un pazzo fuggito dal manicomio. Mentre aspettava che riaprissero il portellone e posizionassero la scaletta, gli sembrò di vedere Petersén a uno dei finestrini, più stupefatto che spaventato, se era possibile interpretare la sua espressione a quella distanza. Poi telefonò a Jensen chiedendogli di tornare in fretta alla centrale per assistere a un interrogatorio.
Stupefatto comunque lo era senza dubbio Petersén, quando Barck lo raggiunse sull'aereo per dirgli che non poteva partire.
"Ma perché?" chiese poi, leggermente preoccupato.
"Ci sono novità", rispose Barck.
"A che proposito?" insistette l'editore, senza ottenere risposta, mentre seguiva il commissario fino alla macchina stringendo spasmodicamente la ventiquattrore. Aveva un'aria pietosa.
"Ma di cosa si tratta, esattamente?" chiese mentre si dirigevano verso la città.
Barck rimase sul vago, dicendo solo che era tenuto a sottoporlo a un interrogatorio più formale, visto che era stato lui a scoprire il cadavere.
Arrivati in ufficio, Barck tirò fuori il dittafono. Senza che Petersén se ne accorgesse, attivò anche il viva-voce sull'interfono, in modo che Jensen potesse seguire la conversazione dalla stanza accanto. Non avevano a disposizione una vera e propria sala interrogatori.
"Sono sospettato di qualcosa?" chiese Petersén.
"Non ancora", rispose Barck. "Ma è possibile che lo diventi."
"Posso spiegare tutto. Ero scioccato, triste e disperato. Il tempo passava e non sapevo cosa fare e... e poi c'è un'altra cosa."
"Cosa?"
"Il romanzo di Jan Y. non è completo. Manca il finale, le ultime trenta pagine che aveva promesso di consegnarmi ieri. Confesso di essermi messo a frugare nel computer e nei cassetti della scrivania, e perfino in camera da letto."
"E?"
"Niente. Non ho trovato niente. Nei cassetti non c'era niente, il computer non sono nemmeno riuscito ad accenderlo. Adesso ho un contratto firmato con sette editori stranieri per pubblicare il romanzo di Jan Y. e mi manca il finale."
"È per questo che aveva così fretta di tornare a casa?"
"Può ben dirlo. Devo discutere le prossime mosse con i miei colleghi, se dobbiamo chiedere a qualcun altro di scrivere il finale o cosa."
"Jan Y. sapeva che sarebbe arrivato?"
"L'ho chiamato il giorno prima per avvisarlo. E annunciargli che avevo belle notizie."
E così la faccenda era chiarita. Era un'altra indicazione che Jan Y. non si era suicidato.
"Mi racconti in dettaglio cos'ha fatto e cosa ha visto mentre frugava in giro."
"Non c'è molto da dire. Sembrava quasi che Jan Y. avesse appena svuotato i cassetti. Non c'era nemmeno un biglietto d'addio o qualche spiegazione, a parte un post-it giallo appeso alla finestra della tuga.
"Che ha lasciato dov'era?"
"Ovviamente."
"Si ricorda cosa diceva?"
"Il mio più bel ricordo sarà la mia morte!"
"E come lo interpreta?"
"Non lo so. Non so più niente."
Barck non era sicuro che fosse la strategia giusta, ma era difficile non credere che Petersén stesse dicendo la verità.
"Non è strano che non abbia trovato una lettera d'addio."
"Perché?"
"Perché molte cose indicano che non è stato un suicidio."
"E allora cos'è stato? Un incidente, come ha detto ieri? Il poeta che gioca con lo champagne e la morte?"
"No, peggio."
Barck osservò il viso di Petersén, ma non vi lesse altro che stupore e confusione.
"Tutto sembra indicare che Jan Y. sia stato assassinato", concluse poi.
Petersén spalancò gli occhi.
"Cosa? Può ripetere, per piacere!"
"Abbiamo fondati motivi di credere che Jan Y. sia stato ucciso."
Petersén fissava le labbra di Barck come se il poliziotto stesse pronunciando la battuta sbagliata.
"Ma chi mai potrebbe voler uccidere un poeta?"
"È esattamente quello che vorremmo sapere anche noi. Lei cosa ne pensa? Questioni di eredità? Gelosia?"
"Aspetti un attimo!" esclamò Petersén in tono quasi frenetico. "Devo pensare."
"Prego!"
Dopo un lungo silenzio, riprese:
"Non conosco tutte le relazioni di Jan Y., ma non ho mai sentito parlare di storie tumultuose. Anzi, mi pare che fosse in buoni rapporti con parecchie delle sue ex. Ma dovrebbe chiedere ad Anders Bergsten."
"Lo scrittore?"
"Sì, è... era molto amico di Jan Y. In realtà vedo solo due possibilità: una è che qualcuno volesse i soldi che Jan Y. avrebbe guadagnato grazie al suo romanzo, l'altra che qualcuno volesse impedirne la pubblicazione. Ma entrambe le ipotesi hanno una grave lacuna."
"Quale?"
"Il progetto è stato tenuto segreto dall'inizio alla fine. Dei contratti con le case editrici estere siamo al corrente solo io, i miei colleghi stranieri e due tra i miei più fidati collaboratori, che tra l'altro ne sono stati informati solo l'altro ieri. Ah sì, e un avvocato a cui ho fatto leggere il manoscritto per capire se poteva attirarci qualche querela."
"Come si chiama l'avvocato?"
"Devo proprio dirglielo? Avevamo concordato di non rivelare che aveva letto il romanzo prima che uscisse."
"Temo che non sia più un argomento valido, ormai."
"Michael Krongård."
Barck si appuntò il nome, poi invitò l'editore a proseguire.
"Ma nemmeno Jan Y. sapeva quanto avrebbe guadagnato dai contratti esteri, era proprio quello che ero venuto a dirgli. Dubito fortemente che qualcuno degli editori stranieri abbia lasciato trapelare qualcosa. E per quanto riguarda l'altra ipotesi, presenta lo stesso problema: è vero che ci sono pezzi grossi della finanza che preferirebbero che il romanzo non uscisse, ma come avrebbero fatto a sapere di cosa parla? L'unica possibilità è che Jan Y. stesso o Anders Bergsten si siano lasciati sfuggire qualcosa."
"O l'avvocato, Michael Krongård."
"Lo escludo! Lavoriamo insieme da decenni e so di potermi fidare della sua parola."
"Eppure Jan Y. è stato ucciso."
"Il che almeno mi scagiona."
"In che senso?"
"Credevo che fosse colpa mia se si era ucciso, perché lo avevo spinto a vendere la sua anima da poeta alle forze oscure del mercato."
Petersén aveva l'aria sollevata.
"Se non le spiace", disse Barck, "vorrei dare un'occhiata alla sua ventiquattrore."
"Ma certo."
Barck aprì la borsa e ne estrasse due plichi di documenti ordinatamente raccolti in una cartelletta.
"Uno è il romanzo quasi completo, l'altro i contratti", spiegò Petersén. "Volevo mostrarli a Jan Y. Sono gli originali."
"Dovrò farne una copia", disse Barck.
"È proprio necessario?"
Petersén sembrava preoccupato. Non c'era da stupirsene, quei contratti valevano un sacco di soldi.
"Può stare tranquillo, compariranno solo nel fascicolo dell'inchiesta."
Barck uscì in corridoio e mise i plichi nella fotocopiatrice. Mentre i fogli scorrevano, entrò da Jensen.
"Cosa ne pensi?" gli chiese.
"Be', ad ogni modo non è stato lui a ucciderlo. Guarda qui!"
Jensen gli porse il rapporto del medico legale: la morte era avvenuta tra le undici e le tredici.
"Ha un alibi e nessun movente", proseguì. "Anzi. Sembra quasi più probabile che qualcuno abbia voluto mettergli il bastone tra le ruote uccidendo il suo autore."
"Mi sembra un po' forzato."
"Ma non impossibile."
Barck tornò da Petersén.
"Ho appena ricevuto il rapporto del medico legale. Jan Y. è morto tra le undici e l'una di ieri. Se può dimostrare di aver passato la mattinata a Stoccolma ed essere davvero arrivato con l'aereo delle cinque, per il momento può considerarsi escluso dalla lista dei sospettati."
"Per il momento? È facile verificare che ero in casa editrice all'ora dell'omicidio."
"E stia certo che lo faremo. Sarebbe troppo semplice fare il poliziotto se tutti dicessero la verità."
"Ma perché avrei dovuto...?"
Petersén scosse la testa, rassegnato.
"Se c'è qualcuno che proprio non aveva motivo di uccidere Jan Y., sono io", aggiunse.
"A volte la realtà supera la fantasia."
"Questo è vero", rispose Petersén, quasi grato di un'imbeccata che gli permetteva di passare al suo campo. "È terribilmente difficile rendere credibili in letteratura le cose più assurde o catastrofiche che avvengono nella realtà. Sei mesi dopo l'affondamento dell'Estonia, lo scrittore francese Yann Queffélec pubblicò un romanzo intitolato Happy Birthday Sarah, basato sulla storia di due sopravvissuti. La casa editrice contava su un sicuro successo e ne stampò trentamila copie. Ne vendette duemila. Lo stesso anno in cui Titanic sbancava i botteghini! Questo per dimostrare che..."
Petersén si bloccò di colpo, rendendosi conto che non era né il luogo né il momento di tenere una conferenza sull'intricata essenza della letteratura.
"Non appena avremo controllato il suo alibi l'agente Jensen la accompagnerà all'aeroporto", disse Barck. "C'è un volo che parte tra poco più di un'ora."
"Grazie! Immagino che avrete parecchie cose su cui riflettere."
"Può ben dirlo."
Barck non aveva dimenticato che dopo tutto Petersén era un editore e che forse, chissà, in futuro, magari avrebbe acconsentito a leggere una selezione dei suoi versi migliori.
"Anche se avrei preferito potermi dedicare alla poesia", aggiunse.
Un quarto d'ora dopo Jensen aveva avuto conferma che Petersén aveva passato l'intera mattina in casa editrice. Anzi, era arrivato all'aeroporto appena in tempo per prendere il volo. "Come al solito", aveva aggiunto la sua segretaria.
"Spero che troviate l'assassino", disse l'editore alzandosi per seguire Jensen. "Jan Y. era una brava persona, oltre che un ottimo poeta. Non capisco chi potesse avere un motivo per ucciderlo. I poeti non vengono assassinati. Si suicidano."
"C'è sempre una prima volta", commentò Barck.
Quando Petersén se ne andò, Barck pensò alle mosse successive. Prima di tutto doveva rintracciare i parenti e comunicare loro nel modo più delicato possibile che Jan Y. era morto. Poi bisognava convocare una conferenza stampa per il giorno dopo. Era importante prepararsi bene le cose da dire, in modo da non complicare ulteriormente l'indagine. In terzo luogo doveva incaricare Jensen di recuperare tutte le informazioni possibili su Anders Bergsten e Tina Sandell e di convocarli per un interrogatorio. Quarto, avrebbe iniziato a leggere il romanzo di Jan Y. per farsi un'idea di che genere di persona potesse arrivare a uccidere per impedirne la pubblicazione, se davvero era quello il movente dell'omicidio. Quinto, doveva avvisare sua moglie che il prossimo periodo sarebbe stato piuttosto frenetico.
A dire la verità Barck era piuttosto soddisfatto di se stesso, nonostante l'amarezza per il triste destino di Jan Y. Sapeva bene di avere davanti una grossa sfida. Si era già occupato di omicidi nella sua vita precedente, all'investigativa, e gli era anche capitato di arrestare qualche assassino, ma si era sempre trattato di delitti commessi in preda a raptus improvvisi. Era la prima volta che doveva affrontare un omicidio premeditato e accuratamente pianificato. Avrebbe potuto scegliere la soluzione più semplice, ovvero passare il caso all'anticrimine regionale e riprendere il suo solito trantran alla polizia portuale, con un sacco di tempo per scrivere e leggere poesie. Si sarebbe comportato diversamente se la vittima non fosse stato un poeta e chi l'aveva trovato un editore? Gli sarebbe piaciuto poter rispondere di no, ma si rendeva conto che la risposta giusta era un'altra. D'altra parte non era solo un male, se si sentiva personalmente coinvolto. Chi meglio di lui, tra tutti i commissari del paese, avrebbe saputo intuire come viveva e pensava un poeta? Perché, a giudicare dalla scarsità di indizi trovati fino a quel momento, ci sarebbe stato parecchio bisogno di intuizione.
Inoltre Petersén aveva indubbiamente ragione nel dire che in genere i poeti non vengono uccisi, ma si suicidano. Lì per lì, non gli veniva in mente il nome di un solo poeta che fosse stato assassinato, e dire che non era del tutto digiuno di storia della letteratura. In quel caso l'indagine sarebbe stata ulteriormente complicata dalla mancanza di precedenti. Ma era poi vero? Come poteva verificarlo, senza dover sfogliare immani enciclopedie della letteratura mondiale? Gli venne in mente il professore dell'università di Lund, Schiöler. Perché non consultarlo? Come esperto di poesia avrebbe dovuto sapergli dire qualcosa sui poeti assassinati. E poi chissà dove poteva portare un contatto del genere. Doveva essere il consulente perfetto per un poeta amatoriale come Martin Barck, nel tempo libero commissario di polizia... Se prendersi a bacchettate sulle dita fosse servito a qualcosa, Barck lo avrebbe fatto, ma sapeva che era inutile. Il sogno di scrivere una poesia bella e importante, anche una sola, e di vederla stampata, era più forte di tutto il resto, a parte l'amore per la moglie e i figli. Il che non gli impediva di fare del suo meglio anche come poliziotto. Cercò dunque l'indirizzo e-mail di Schiöler e gli scrisse un messaggio in cui si presentava e gli chiedeva di aiutarlo a scoprire quali poeti erano stati assassinati nel corso della storia, in particolare nell'epoca moderna. Si scusò per non potergli spiegare meglio le ragioni della sua richiesta, ma gli suggerì che se avesse ascoltato i notiziari del giorno dopo avrebbe capito di cosa si trattava.
Per citare diversi casi di suicidio tra i poeti invece non aveva bisogno dell'aiuto di un esperto: erano talmente numerosi da poterlo quasi considerare un incidente sul lavoro, qualcosa che fa naturalmente parte dell'immagine del poeta infelice e maledetto, che non ha la forza di vivere. Tra le sue carte conservava un ritaglio di giornale con i risultati di un'indagine sull'aspettativa di vita media dei vari autori, pubblicata sul Journal of Death Studies. A voler credere all'inchiesta, gli autori di saggi vivevano in media sessantotto anni, i romanzieri sessantasei, mentre i poeti segnavano il passo con un mediocre sessantadue. E adesso, grazie a Jan Y., il punteggio dei poeti sarebbe ulteriormente peggiorato.
Poi gli venne in mente che forse era proprio per la propensione dei poeti a togliersi la vita che l'assassino aveva cercato di ingannare la polizia simulando un suicidio. Doveva aver pensato che gli inquirenti sarebbero caduti vittima dei pregiudizi come tutti gli altri, senza vedere più in là del loro naso. Ma non aveva previsto di imbattersi in un commissario particolarmente perspicace, oltre che esperto di poesia, che nei momenti migliori riusciva a non dare niente per scontato!
Ad ogni modo, quello di cui si era assunto la responsabilità era un caso insolito, che forse avrebbe addirittura potuto portargli un pezzettino di fama e onore, se fosse riuscito a prendere l'assassino. Ovviamente avrebbe preferito farsi notare per le sue poesie, ma chissà? Si vedeva già davanti i titoli dei giornali: "Il commissario Martin Barck, dopo aver risolto il caso dell'omicidio del poeta Jan Y., debutta a sua volta con una raccolta di versi".
7
Erano le tre del mattino quando Barck scivolò tra le lenzuola accanto alla moglie, che borbottò qualcosa senza svegliarsi. Guardò la sveglia: era puntata sulle sette, come tutte le altre mattine. Di solito non la sentiva nemmeno e si limitava a continuare a dormire. Era poi Anna a telefonargli dal lavoro per svegliarlo con qualche parola gentile. Ma quella non era una mattina come le altre: prima di tutto c'era un editore che dormiva nella camera degli ospiti, e poi doveva essere di nuovo alla Fröken Ti per le nove. Valeva la pena di dormire? Ma sì, era sempre meglio che niente. Da giovane gli capitava di saltare intere notti di sonno, soprattutto quando Anna iniziava a stuzzicarlo nei suoi punti più sensibili. Ma era ormai acqua passata, cioè, non che la moglie non lo solleticasse più, ma era raro che lo facesse quando aveva il turno di notte.
Mezz'ora dopo però era ancora perfettamente sveglio. Pensieri su Jan Y. e la scena della sua morte continuavano a girargli in testa senza che riuscisse a liberarsene. Perché diavolo avrebbe dovuto uccidersi proprio quando stava per ottenere il successo che meritava? Come romanziere, è vero, ma comunque. E sapendo che Petersén era in arrivo? Perché infliggere al suo editore, con cui aveva lavorato per anni e che aveva contribuito a farlo diventare l'influente poeta che era, lo shock di vedere uno dei suoi autori impiccato al soffitto?
Barck si alzò, si infilò la vestaglia, preparò una tazza di caffè, andò nel suo studio - o nella sua tana di scrittore, come preferiva chiamarlo - e prese dalla libreria le raccolte di Jan Y. che aveva comprato nel corso degli anni, soprattutto da quando aveva saputo che viveva al porto.
Mezz'ora dopo si era chiarito un po' le idee. Come poeta Jan Y. non era di sicuro un allegrone, ma la disperazione che esprimeva in alcuni versi riguardava soprattutto le sofferenze altrui o le proprie pene amorose. In effetti non era particolarmente incoraggiante leggere frasi come:
A volte ho trapassato il foglio
perché nel suo corpo
si unissero il mio desiderio e il mio amore
come i morti e le parole
si ritrovano
nella poesia
Oppure:
A non vederti soffro
Perché la mia sete non si placa che sulle tue labbra
A vederti troppo ho paura
che la fame mi spinga a strapparti il cuore
O ancora:
prima c'è stato il dolore
il dolore incredibile
di non aver creduto
che si nasce insieme alla propria morte
Era evidente che la morte era sempre in agguato nei suoi versi; "La morte può arrivare ogni mattina", aveva scritto in un altro. Anche nelle composizioni più positive c'era una corrente sotterranea di infelicità e di dolore. La morte era una presenza reale e costante, mentre la felicità era un sogno, una speranza, una diceria, un'alba, un vano desiderio di fermare una stella cadente nel cielo notturno. Ma Barck non trovò nessun indizio che il poeta fosse stanco della vita. Anzi, qua e là spuntava anche una luce, sebbene a lunghi intervalli. "La vita è meravigliosa", era l'inizio di una sua poesia; ed era difficile non sentirsi rincuorati leggendo:
Se hai bisogno di neve in primavera
apri un libro
Se hai bisogno di primavera in primavera
apri la finestra
La morte non era mai evocata come un invitante luogo di riposo o di fuga, piuttosto come una bilancia su cui la vita viene pesata e assume un senso. Jan Y. non sembrava nemmeno essere un poeta incline ad affidare la propria vita ai lettori: preferiva scrivere dei dolori altrui che dei suoi, dell'ombra di una sterna che della propria, della poesia che delle sue poesie:
in pochi passi si recita un verso
in pochi versi si recita una vita
Insomma, quel che scriveva era intimo ma non privato. E comunque era inutile leggere le sue poesie per cercare di spiegare il suo gesto.
Una cosa ad ogni modo Barck l'aveva capita: ci sono poeti che si mettono a nudo e altri che indossano una maschera. Jan Y. si piazzava più o meno a metà strada. Da un lato i suoi versi davano l'impressione di essere vissuti in prima persona, anche se non parlavano di lui. Dall'altro era impossibile dire quando, dove, come e con chi avesse vissuto quelle esperienze. Dava l'impressione di voler parlare di sé, e forse lo faceva, ma sempre come se ci fosse qualcosa che lo tratteneva.
Dopo aver sfogliato a caso le raccolte, si sdraiò sul divano del soggiorno e si appisolò. Si svegliò al rumore di una porta che si apriva: era Petersén che brancolava in cerca del bagno. Nella pallida luce dell'alba vide che aveva il volto cereo e due cerchi scuri sotto gli occhi.
Alle sette fu di nuovo svegliato dalla moglie che lo baciò sulle palpebre.
"Cosa ci fai qui?" gli chiese.
"Non riuscivo a dormire e non volevo svegliarti."
"È stata così dura?"
"Sì."
"Poveretto! Ti preparo la colazione?"
"Grazie."
Barck si sentì invadere dalla tenerezza. Non finiva mai di stupirsi della capacità che aveva Anna di mostrare empatia e comprensione nelle esatte proporzioni e al momento giusto. Era una donna di grande precisione emotiva: se si arrabbiava, era perché ne aveva motivo. Se iniziava a baciarlo e carezzarlo, era perché lo desiderava. Se rideva, era perché trovava divertente qualcosa. Non le sarebbe mai passato per la testa di sorridere solo per educazione o per essere accondiscendente. Con lei Barck poteva star certo che l'apparenza non ingannava mai: era quello che era. I suoi lati brillanti e seducenti non erano mai simulati, mai artificiosi; in questo senso era come una buona poesia. E doveva essere anche il motivo per cui non aveva mai avuto molto successo nella politica locale.
"Alle nove devo essere sul peschereccio per incontrare il medico legale", disse.
"E l'editore?"
"Credo che sia abbastanza stanco da dormire fino a quando non tornerò. Altrimenti non avrà che da cercare nel frigo o negli armadietti qualcosa da mettere sotto i denti. Non dev'essere stato facile per lui. Prova a immaginarti: arriva in aereo da Stoccolma per comunicare a Jan Y. di aver venduto i diritti del suo romanzo, e si trova davanti un poeta impiccato. E per di più pensa che sia tutta colpa sua."
"Perché?"
"Perché ha convinto Jan Y. a tradire se stesso e la sua poesia."
"E tu cosa ne pensi?"
"Per il momento niente. Se non che non è sempre facile essere un poeta. Ma se sarà confermato il suicidio, la polizia avrà esaurito il suo ruolo, a parte comunicare la triste notizia ai parenti."
"Se è stato un suicidio? Non è così facile uccidere qualcuno impiccandolo."
"Lo so. Voglio solo essere sicuro. Cosa mi costa?"
Due ore e una doccia fredda dopo, Barck era di nuovo sulla Fröken Ti. La perturbazione della sera prima era passata lasciando il posto a un sole invernale così basso sull'orizzonte che si restava abbagliati senza nemmeno alzare gli occhi al cielo. La temperatura era scesa a qualche grado sotto zero, ma quella percepita era considerevolmente più bassa per via del vento. Barck non avrebbe saputo dire cosa preferiva a terra: un clima più mite ma umido, o temperature sotto zero. In mare non aveva dubbi: meglio il cielo sereno e soleggiato che una coltre grigiastra. Non gli importava di avere a bordo tutta la strumentazione moderna, voleva vedere con i suoi occhi dove si trovava e cosa lo aspettava.
Il medico legale arrivò in perfetto orario. Barck aprì e lo accompagnò sottocoperta. Adesso che la luce del giorno entrava a fiotti dagli osteriggi sul ponte, la vista del poeta impiccato era ancora più spaventosa che alla luce della lampada in piena notte: si vedeva la morte com'era davvero, nuda e repellente, senza l'ombra di romanticismo o misticismo.
Barck non si era mai abituato alla vista di un cadavere, per lo meno di una persona giovane e sana. Quando se ne va un malato o un anziano, si vede che la vita aveva già iniziato ad abbandonare il corpo, e la morte appare in un certo senso più comprensibile. Quando invece è qualcuno in piena salute che muore all'improvviso, nelle prime ore quasi non si nota che il soffio vitale si è estinto, sembra di poter richiamare il morto in vita in qualsiasi momento. Ma la morte è definitiva, il vicolo cieco dell'eternità. Perché sia così, nessuno lo sa spiegare, né i poeti, né i preti, né gli scienziati, e tanto meno i poliziotti. Nessuno è in grado di rispondere alla domanda del perché ogni cosa vivente abbia insita in sé la morte, come se l'idea stessa fosse proprio che l'esistenza dovesse avere una fine.
Nel complesso Barck era un uomo sereno, che aveva accettato il fatto che fosse assurdo desiderare una vita dopo questa. Eppure davanti alla vittima di un omicidio restava disarmato. Ogni tanto aveva provato a esprimere in versi la sua angoscia, ma fino a quel momento non ne era risultato altro che una sorta di scrittura terapeutica, senza alcun valore artistico. La morte, aveva concluso, era brutta come il peccato. Abbellirla, celebrarla e cantarne le lodi, come avevano fatto tanti poeti, era fondamentalmente tradire l'essenza più profonda della poesia, e di sicuro non aveva nessuna intenzione di abbassarsi a farlo, nemmeno se fosse stato un poeta più dotato di quel che era.
Il medico legale iniziò a esaminare la zona attorno al collo, annotando escoriazioni e lividi. Osservò la ferita e la confrontò con la stilografica ancora sul pavimento.
"La ferita è stata senz'altro procurata dalla penna", concluse. "Ma c'è qualcosa che non mi convince."
"Cosa?"
"Per conficcare una penna così in profondità è necessaria una certa forza. E ho qualche difficoltà a credere che possa essere stata la vittima a farlo, tenuto conto della posizione della ferita."
Il medico legale indicò con la matita.
"Vedi? Lo slancio non può essere stato più di venti centimetri, e con un angolo molto inclinato. Inoltre non ci sono lesioni da difesa, come avviene quando qualcuno viene impiccato contro la sua volontà o cambia idea all'ultimo momento."
"Stai dicendo che qualcun altro lo avrebbe pugnalato con la penna?"
"È una possibile variante. C'è un'altra cosa che contrasta con l'ipotesi di suicidio: l'altezza di caduta piuttosto limitata, forse troppo. Nelle impiccagioni si distingue tra caduta lunga e caduta corta. Nel primo caso si verifica la frattura delle vertebre cervicali e la morte è quasi istantanea. Con la caduta corta invece la vittima viene soffocata tramite l'occlusione delle vie respiratorie, ma può volerci del tempo. Se Jan Y. si è impiccato spontaneamente deve aver avuto una forza di volontà inverosimile per non tentare di liberarsi quando ha iniziato a sentirsi soffocare. Eppure sul collo ci sono solo le escoriazioni provocate dalla corda, non dalle sue unghie. Inoltre, in genere in caso di impiccagione la vescica e l'intestino tendono a svuotarsi. Nell'Inghilterra puritana per esempio le donne che venivano impiccate erano provviste di una sorta di pannolone perché il pubblico non dovesse assistere a quello spettacolo indecoroso. Ma qui non c'è traccia di svuotamento dell'intestino. C'è qualcosa di poco chiaro, questo è certo. Suggerisco di effettuare un'autopsia."
"Ma per farla ci serve un sospetto di reato. Non possiamo richiedere un'autopsia solo perché qualcuno ha cercato di uccidersi, almeno non senza un'autorizzazione dei famigliari."
In quell'istante squillò il cellulare di Barck: era il tecnico della scientifica.
"Abbiamo il nostro sospetto di reato!" constatò risolutamente dopo aver chiuso la conversazione. "Il tecnico ha rilevato un sedimento nella bottiglia di champagne, ne ha portato un campione al laboratorio e ha chiesto che lo analizzassero."
"E?"
"Un potente anestetico, il Propofol, usato negli ospedali. Normalmente viene somministrato per via endovenosa, ma secondo il laboratorio se ingerito può causare una breve perdita di coscienza. Se dai un'occhiata più approfondita al cadavere, mi gioco la testa che era privo di sensi, quando è stato impiccato... con l'aiuto di quel paranco, scommetto."
"Accidenti, non l'avevo notato."
Ben presto il medico legale fu in grado di confermare che Barck aveva ragione.
"Con tutta probabilità ci troviamo di fronte a un omicidio mascherato da suicidio", concluse. "Farò in modo di iniziare l'autopsia non appena il cadavere verrà portato all'obitorio."
"Hai idea del perché la vittima sia stata colpita al collo con la penna?"
"La prima cosa che mi passa per la testa: forse l'assassino ha avuto paura che l'effetto dell'anestetico non durasse abbastanza e che la vittima potesse risvegliarsi e opporre resistenza. C'è almeno un litro di sangue in quella pozza sul pavimento."
"L'assassino?" chiese Barck. "Come fai a sapere che è un uomo?"
"Non lo so. Ma se è stata una donna, dev'essere bella muscolosa."
"Ci sono anche quelle", commentò Barck.
"E l'editore com'è? Ha un po' di bicipiti, a furia di sollevare libri?"
"Cazzo!" esclamò Barck, normalmente molto attento a evitare qualsiasi trita imprecazione indegna di un poeta.
Si era reso conto all'improvviso che Petersén non poteva che essere considerato il principale sospettato. E lui l'aveva portato a dormire a casa sua! Non andava per niente bene. E se si fosse saputo in giro? Non poteva certo dire la verità, cioè che aveva vergognosamente approfittato della possibilità di conoscere meglio uno dei più influenti editori del paese. Quando lavorava nell'investigativa non avrebbe mai commesso un errore del genere: era chiaro che aveva perso la mano. Per essere un buon poliziotto, come per tutto il resto, bisogna tenersi in allenamento. Non si può vivere sugli allori, esattamente come nel campo della poesia.
Chiamò subito uno dei suoi collaboratori più fidati, l'agente Jensen, e gli spiegò la situazione.
"Devi aiutarmi a tenere la barca sigillata finché non avremo riesaminato la scena, ma senza nastri di delimitazione che attirino l'attenzione. E di' al tecnico di tornare, deve passare al setaccio anche la coperta e il ponte di comando. Tu ti occuperai dei cassetti e dei ripostigli. E possibilmente anche del cellulare di Jan Y. Vedi se trovi qualcosa nel computer, esamina tutti i file e le e-mail. Un'altra cosa: non una parola con la stampa. Anzi, con nessuno, per il momento."
Poi chiamò il suo capo a Göteborg.
"Abbiamo un omicidio al porto", annunciò Barck, per poi riassumergli la situazione. "Mi farebbe piacere occuparmi dell'indagine, ma in tal caso dovrai mandare qualcuno a sostituirmi nel pattugliamento costiero."
Il responsabile del distretto del Västra Götaland rifletté un attimo sulle parole di Barck.
"D'accordo", concesse poi. "Condurrai tu l'indagine. Dimostreremo a quei marinai d'acqua dolce che non siamo solo capaci di manovrare una barca. Ma se insorgono problemi dovrai contattare la direzione anticrimine regionale della Scania."
"Certo."
Poi Barck salì in macchina e tornò a casa il più in fretta possibile. Quando infilò la chiave nella toppa si accorse che la porta esterna non era chiusa. Affrettò il passo, ma era successo quello che aveva temuto: Petersén se n'era già andato. Sul tavolo della cucina era posato un biglietto:
"Grazie per l'ospitalità!"
Accanto al messaggio c'era la bottiglia di champagne che aveva comprato per berla insieme a Jan Y. Ormai in effetti non c'era molto da festeggiare.
La domanda era solo se per tornare a Stoccolma avesse preso il treno o l'aereo. Barck accese il computer e controllò gli orari su internet: la SAS aveva un volo in partenza da Ängelholm alle 11.15, le ferrovie un treno mezz'ora prima, ma bisognava cambiare a Lund e Petersén non sarebbe arrivato a Stoccolma prima della chiusura degli uffici. Barck scommise sul volo, si lanciò giù per le scale e si diresse a tutta velocità verso l'aeroporto, a sirene spiegate.
Quando comparve affannato sulla pista, i passeggeri erano già saliti a bordo. Per fortuna era in uniforme, così non rischiò di essere scambiato per un pazzo fuggito dal manicomio. Mentre aspettava che riaprissero il portellone e posizionassero la scaletta, gli sembrò di vedere Petersén a uno dei finestrini, più stupefatto che spaventato, se era possibile interpretare la sua espressione a quella distanza. Poi telefonò a Jensen chiedendogli di tornare in fretta alla centrale per assistere a un interrogatorio.
Stupefatto comunque lo era senza dubbio Petersén, quando Barck lo raggiunse sull'aereo per dirgli che non poteva partire.
"Ma perché?" chiese poi, leggermente preoccupato.
"Ci sono novità", rispose Barck.
"A che proposito?" insistette l'editore, senza ottenere risposta, mentre seguiva il commissario fino alla macchina stringendo spasmodicamente la ventiquattrore. Aveva un'aria pietosa.
"Ma di cosa si tratta, esattamente?" chiese mentre si dirigevano verso la città.
Barck rimase sul vago, dicendo solo che era tenuto a sottoporlo a un interrogatorio più formale, visto che era stato lui a scoprire il cadavere.
Arrivati in ufficio, Barck tirò fuori il dittafono. Senza che Petersén se ne accorgesse, attivò anche il viva-voce sull'interfono, in modo che Jensen potesse seguire la conversazione dalla stanza accanto. Non avevano a disposizione una vera e propria sala interrogatori.
"Sono sospettato di qualcosa?" chiese Petersén.
"Non ancora", rispose Barck. "Ma è possibile che lo diventi."
"Posso spiegare tutto. Ero scioccato, triste e disperato. Il tempo passava e non sapevo cosa fare e... e poi c'è un'altra cosa."
"Cosa?"
"Il romanzo di Jan Y. non è completo. Manca il finale, le ultime trenta pagine che aveva promesso di consegnarmi ieri. Confesso di essermi messo a frugare nel computer e nei cassetti della scrivania, e perfino in camera da letto."
"E?"
"Niente. Non ho trovato niente. Nei cassetti non c'era niente, il computer non sono nemmeno riuscito ad accenderlo. Adesso ho un contratto firmato con sette editori stranieri per pubblicare il romanzo di Jan Y. e mi manca il finale."
"È per questo che aveva così fretta di tornare a casa?"
"Può ben dirlo. Devo discutere le prossime mosse con i miei colleghi, se dobbiamo chiedere a qualcun altro di scrivere il finale o cosa."
"Jan Y. sapeva che sarebbe arrivato?"
"L'ho chiamato il giorno prima per avvisarlo. E annunciargli che avevo belle notizie."
E così la faccenda era chiarita. Era un'altra indicazione che Jan Y. non si era suicidato.
"Mi racconti in dettaglio cos'ha fatto e cosa ha visto mentre frugava in giro."
"Non c'è molto da dire. Sembrava quasi che Jan Y. avesse appena svuotato i cassetti. Non c'era nemmeno un biglietto d'addio o qualche spiegazione, a parte un post-it giallo appeso alla finestra della tuga.
"Che ha lasciato dov'era?"
"Ovviamente."
"Si ricorda cosa diceva?"
"Il mio più bel ricordo sarà la mia morte!"
"E come lo interpreta?"
"Non lo so. Non so più niente."
Barck non era sicuro che fosse la strategia giusta, ma era difficile non credere che Petersén stesse dicendo la verità.
"Non è strano che non abbia trovato una lettera d'addio."
"Perché?"
"Perché molte cose indicano che non è stato un suicidio."
"E allora cos'è stato? Un incidente, come ha detto ieri? Il poeta che gioca con lo champagne e la morte?"
"No, peggio."
Barck osservò il viso di Petersén, ma non vi lesse altro che stupore e confusione.
"Tutto sembra indicare che Jan Y. sia stato assassinato", concluse poi.
Petersén spalancò gli occhi.
"Cosa? Può ripetere, per piacere!"
"Abbiamo fondati motivi di credere che Jan Y. sia stato ucciso."
Petersén fissava le labbra di Barck come se il poliziotto stesse pronunciando la battuta sbagliata.
"Ma chi mai potrebbe voler uccidere un poeta?"
"È esattamente quello che vorremmo sapere anche noi. Lei cosa ne pensa? Questioni di eredità? Gelosia?"
"Aspetti un attimo!" esclamò Petersén in tono quasi frenetico. "Devo pensare."
"Prego!"
Dopo un lungo silenzio, riprese:
"Non conosco tutte le relazioni di Jan Y., ma non ho mai sentito parlare di storie tumultuose. Anzi, mi pare che fosse in buoni rapporti con parecchie delle sue ex. Ma dovrebbe chiedere ad Anders Bergsten."
"Lo scrittore?"
"Sì, è... era molto amico di Jan Y. In realtà vedo solo due possibilità: una è che qualcuno volesse i soldi che Jan Y. avrebbe guadagnato grazie al suo romanzo, l'altra che qualcuno volesse impedirne la pubblicazione. Ma entrambe le ipotesi hanno una grave lacuna."
"Quale?"
"Il progetto è stato tenuto segreto dall'inizio alla fine. Dei contratti con le case editrici estere siamo al corrente solo io, i miei colleghi stranieri e due tra i miei più fidati collaboratori, che tra l'altro ne sono stati informati solo l'altro ieri. Ah sì, e un avvocato a cui ho fatto leggere il manoscritto per capire se poteva attirarci qualche querela."
"Come si chiama l'avvocato?"
"Devo proprio dirglielo? Avevamo concordato di non rivelare che aveva letto il romanzo prima che uscisse."
"Temo che non sia più un argomento valido, ormai."
"Michael Krongård."
Barck si appuntò il nome, poi invitò l'editore a proseguire.
"Ma nemmeno Jan Y. sapeva quanto avrebbe guadagnato dai contratti esteri, era proprio quello che ero venuto a dirgli. Dubito fortemente che qualcuno degli editori stranieri abbia lasciato trapelare qualcosa. E per quanto riguarda l'altra ipotesi, presenta lo stesso problema: è vero che ci sono pezzi grossi della finanza che preferirebbero che il romanzo non uscisse, ma come avrebbero fatto a sapere di cosa parla? L'unica possibilità è che Jan Y. stesso o Anders Bergsten si siano lasciati sfuggire qualcosa."
"O l'avvocato, Michael Krongård."
"Lo escludo! Lavoriamo insieme da decenni e so di potermi fidare della sua parola."
"Eppure Jan Y. è stato ucciso."
"Il che almeno mi scagiona."
"In che senso?"
"Credevo che fosse colpa mia se si era ucciso, perché lo avevo spinto a vendere la sua anima da poeta alle forze oscure del mercato."
Petersén aveva l'aria sollevata.
"Se non le spiace", disse Barck, "vorrei dare un'occhiata alla sua ventiquattrore."
"Ma certo."
Barck aprì la borsa e ne estrasse due plichi di documenti ordinatamente raccolti in una cartelletta.
"Uno è il romanzo quasi completo, l'altro i contratti", spiegò Petersén. "Volevo mostrarli a Jan Y. Sono gli originali."
"Dovrò farne una copia", disse Barck.
"È proprio necessario?"
Petersén sembrava preoccupato. Non c'era da stupirsene, quei contratti valevano un sacco di soldi.
"Può stare tranquillo, compariranno solo nel fascicolo dell'inchiesta."
Barck uscì in corridoio e mise i plichi nella fotocopiatrice. Mentre i fogli scorrevano, entrò da Jensen.
"Cosa ne pensi?" gli chiese.
"Be', ad ogni modo non è stato lui a ucciderlo. Guarda qui!"
Jensen gli porse il rapporto del medico legale: la morte era avvenuta tra le undici e le tredici.
"Ha un alibi e nessun movente", proseguì. "Anzi. Sembra quasi più probabile che qualcuno abbia voluto mettergli il bastone tra le ruote uccidendo il suo autore."
"Mi sembra un po' forzato."
"Ma non impossibile."
Barck tornò da Petersén.
"Ho appena ricevuto il rapporto del medico legale. Jan Y. è morto tra le undici e l'una di ieri. Se può dimostrare di aver passato la mattinata a Stoccolma ed essere davvero arrivato con l'aereo delle cinque, per il momento può considerarsi escluso dalla lista dei sospettati."
"Per il momento? È facile verificare che ero in casa editrice all'ora dell'omicidio."
"E stia certo che lo faremo. Sarebbe troppo semplice fare il poliziotto se tutti dicessero la verità."
"Ma perché avrei dovuto...?"
Petersén scosse la testa, rassegnato.
"Se c'è qualcuno che proprio non aveva motivo di uccidere Jan Y., sono io", aggiunse.
"A volte la realtà supera la fantasia."
"Questo è vero", rispose Petersén, quasi grato di un'imbeccata che gli permetteva di passare al suo campo. "È terribilmente difficile rendere credibili in letteratura le cose più assurde o catastrofiche che avvengono nella realtà. Sei mesi dopo l'affondamento dell'Estonia, lo scrittore francese Yann Queffélec pubblicò un romanzo intitolato Happy Birthday Sarah, basato sulla storia di due sopravvissuti. La casa editrice contava su un sicuro successo e ne stampò trentamila copie. Ne vendette duemila. Lo stesso anno in cui Titanic sbancava i botteghini! Questo per dimostrare che..."
Petersén si bloccò di colpo, rendendosi conto che non era né il luogo né il momento di tenere una conferenza sull'intricata essenza della letteratura.
"Non appena avremo controllato il suo alibi l'agente Jensen la accompagnerà all'aeroporto", disse Barck. "C'è un volo che parte tra poco più di un'ora."
"Grazie! Immagino che avrete parecchie cose su cui riflettere."
"Può ben dirlo."
Barck non aveva dimenticato che dopo tutto Petersén era un editore e che forse, chissà, in futuro, magari avrebbe acconsentito a leggere una selezione dei suoi versi migliori.
"Anche se avrei preferito potermi dedicare alla poesia", aggiunse.
Un quarto d'ora dopo Jensen aveva avuto conferma che Petersén aveva passato l'intera mattina in casa editrice. Anzi, era arrivato all'aeroporto appena in tempo per prendere il volo. "Come al solito", aveva aggiunto la sua segretaria.
"Spero che troviate l'assassino", disse l'editore alzandosi per seguire Jensen. "Jan Y. era una brava persona, oltre che un ottimo poeta. Non capisco chi potesse avere un motivo per ucciderlo. I poeti non vengono assassinati. Si suicidano."
"C'è sempre una prima volta", commentò Barck.
Quando Petersén se ne andò, Barck pensò alle mosse successive. Prima di tutto doveva rintracciare i parenti e comunicare loro nel modo più delicato possibile che Jan Y. era morto. Poi bisognava convocare una conferenza stampa per il giorno dopo. Era importante prepararsi bene le cose da dire, in modo da non complicare ulteriormente l'indagine. In terzo luogo doveva incaricare Jensen di recuperare tutte le informazioni possibili su Anders Bergsten e Tina Sandell e di convocarli per un interrogatorio. Quarto, avrebbe iniziato a leggere il romanzo di Jan Y. per farsi un'idea di che genere di persona potesse arrivare a uccidere per impedirne la pubblicazione, se davvero era quello il movente dell'omicidio. Quinto, doveva avvisare sua moglie che il prossimo periodo sarebbe stato piuttosto frenetico.
A dire la verità Barck era piuttosto soddisfatto di se stesso, nonostante l'amarezza per il triste destino di Jan Y. Sapeva bene di avere davanti una grossa sfida. Si era già occupato di omicidi nella sua vita precedente, all'investigativa, e gli era anche capitato di arrestare qualche assassino, ma si era sempre trattato di delitti commessi in preda a raptus improvvisi. Era la prima volta che doveva affrontare un omicidio premeditato e accuratamente pianificato. Avrebbe potuto scegliere la soluzione più semplice, ovvero passare il caso all'anticrimine regionale e riprendere il suo solito trantran alla polizia portuale, con un sacco di tempo per scrivere e leggere poesie. Si sarebbe comportato diversamente se la vittima non fosse stato un poeta e chi l'aveva trovato un editore? Gli sarebbe piaciuto poter rispondere di no, ma si rendeva conto che la risposta giusta era un'altra. D'altra parte non era solo un male, se si sentiva personalmente coinvolto. Chi meglio di lui, tra tutti i commissari del paese, avrebbe saputo intuire come viveva e pensava un poeta? Perché, a giudicare dalla scarsità di indizi trovati fino a quel momento, ci sarebbe stato parecchio bisogno di intuizione.
Inoltre Petersén aveva indubbiamente ragione nel dire che in genere i poeti non vengono uccisi, ma si suicidano. Lì per lì, non gli veniva in mente il nome di un solo poeta che fosse stato assassinato, e dire che non era del tutto digiuno di storia della letteratura. In quel caso l'indagine sarebbe stata ulteriormente complicata dalla mancanza di precedenti. Ma era poi vero? Come poteva verificarlo, senza dover sfogliare immani enciclopedie della letteratura mondiale? Gli venne in mente il professore dell'università di Lund, Schiöler. Perché non consultarlo? Come esperto di poesia avrebbe dovuto sapergli dire qualcosa sui poeti assassinati. E poi chissà dove poteva portare un contatto del genere. Doveva essere il consulente perfetto per un poeta amatoriale come Martin Barck, nel tempo libero commissario di polizia... Se prendersi a bacchettate sulle dita fosse servito a qualcosa, Barck lo avrebbe fatto, ma sapeva che era inutile. Il sogno di scrivere una poesia bella e importante, anche una sola, e di vederla stampata, era più forte di tutto il resto, a parte l'amore per la moglie e i figli. Il che non gli impediva di fare del suo meglio anche come poliziotto. Cercò dunque l'indirizzo e-mail di Schiöler e gli scrisse un messaggio in cui si presentava e gli chiedeva di aiutarlo a scoprire quali poeti erano stati assassinati nel corso della storia, in particolare nell'epoca moderna. Si scusò per non potergli spiegare meglio le ragioni della sua richiesta, ma gli suggerì che se avesse ascoltato i notiziari del giorno dopo avrebbe capito di cosa si trattava.
Per citare diversi casi di suicidio tra i poeti invece non aveva bisogno dell'aiuto di un esperto: erano talmente numerosi da poterlo quasi considerare un incidente sul lavoro, qualcosa che fa naturalmente parte dell'immagine del poeta infelice e maledetto, che non ha la forza di vivere. Tra le sue carte conservava un ritaglio di giornale con i risultati di un'indagine sull'aspettativa di vita media dei vari autori, pubblicata sul Journal of Death Studies. A voler credere all'inchiesta, gli autori di saggi vivevano in media sessantotto anni, i romanzieri sessantasei, mentre i poeti segnavano il passo con un mediocre sessantadue. E adesso, grazie a Jan Y., il punteggio dei poeti sarebbe ulteriormente peggiorato.
Poi gli venne in mente che forse era proprio per la propensione dei poeti a togliersi la vita che l'assassino aveva cercato di ingannare la polizia simulando un suicidio. Doveva aver pensato che gli inquirenti sarebbero caduti vittima dei pregiudizi come tutti gli altri, senza vedere più in là del loro naso. Ma non aveva previsto di imbattersi in un commissario particolarmente perspicace, oltre che esperto di poesia, che nei momenti migliori riusciva a non dare niente per scontato!
Ad ogni modo, quello di cui si era assunto la responsabilità era un caso insolito, che forse avrebbe addirittura potuto portargli un pezzettino di fama e onore, se fosse riuscito a prendere l'assassino. Ovviamente avrebbe preferito farsi notare per le sue poesie, ma chissà? Si vedeva già davanti i titoli dei giornali: "Il commissario Martin Barck, dopo aver risolto il caso dell'omicidio del poeta Jan Y., debutta a sua volta con una raccolta di versi".