giovedì 24 gennaio 2019

MORIMONDO
Paolo Rumiz
La mappa infinita Dopo Cremona, si levò il buon vento e Paolo Lodigiani spense il motore per issare la vela. Fummo investiti da un inatteso, stupefatto silenzio. Eravamo nella pancia della locomotiva industriale italiana; poco oltre l’argine sferragliavano acciaierie, scoreggiavano maiali e tuonavano mastodonti su gomma, ma sul fiume regnava una quiete talmente assoluta che ci venne spontaneo parlare a bassa voce. A bordo era sceso il silenzio: Valentina e Alex erano rimasti a terra e noi eravamo lontani da tutto, tra muri di vegetazione come sul Mekong o il Mississippi. La randa si era messa di trequarti, l’aria soffiava obliqua rispetto alla corrente. Paolo disse: “Il vento di poppa non serve, perché ha la stessa velocità dell’acqua”. Non c’era portanza, capii, per questo gli aerei decollano sempre controvento. Issai il picco e la vela si riempì, spingendoci verso l’argine sinistro e una cascina di nome Bandera. Andare a motore su un fiume, ci avevano avvertito, è come entrare in scooter agli Uffizi. Una porcheria, un sacrilegio. Non senti la voce del Dio che vi abita. Ogni fiume ha il suo Dio, la sua voce e la corrente non canta mai allo stesso modo. L’Eufrate non ha il timbro della Senna. Nella virata tra i monti, fra Esztergom e Budapest, il Danubio ruggisce, ma già dopo duecento chilometri diventa un flauto di Pan mormorante, una siringa balcanica, un canto sommesso che si sperde dilagando nelle terre di confluenza fra Ungheria, Serbia, Croazia e Romania, là dove Drava, Mures, Sava, Tibisco e Morava formano un unico mare. E il Nilo, che avevo sentito una sera, solo un anno prima, all’ora dei leoni, nella sterminata regione di acque tra l’Uganda e l’oasi di Khartoum, era polifonia pura, uno spartito dove ogni rigagnolo era pentagramma. Ganga, il fiume degli indù, canta già nel nome che indica il fluire. Per avvertire la voce di Po ho dovuto attendere molto, nonostante infiniti attraversamenti. Ero dalle parti di Ficarolo e una serie di temporali sulle Alpi avevano scatenato una piena. Avevo trovato da dormire in una locanda a cento metri dalla riva, e la notte un tuono lungo mi aveva strappato alle coperte e fatto salire di gran corsa fin sull’argine. Oltre quel limite si celebrava l’epifania del Terribile. Milioni di bisonti galoppavano sotto la Luna, fiutavano sangue, sentivano il mattatoio, si calpestavano travolgendo ogni cosa. Il baricentro del Nord, il labirintico Padus capace di intrappolare legioni romane, era diventato un canalone, uno scolatoio rettilineo, un interminabile Niagara. Ero davanti a una vendetta del Soprannaturale contro il saccheggio delle acque, uno spaventoso mutamento che zittiva l’intera pianura. Nei villaggi, nelle stalle, lungo le strade e nei boschi, uomini e animali tacevano di paura. Eppure l’argine pullulava di creature vive. Figure intabarrate e guardinghe, uscite da chissà quale secolo. “Nessun dorma,”ordinava Po con voce da baritono, e per chilometri l’umanità vegliava in silenzio, atterrita dal tuono planetario. Un fiume non è un luogo, ma una persona, e in questo viaggio mi è accaduto di sentirlo cantare. Stavo vogando in piedi sul barcè assieme al grande Angelo Bosio, quando avvertii improvvisamente sotto la chiglia un canto di cicale, o di grilli. “Che roba è?”chiesi stupefatto. “Il rotolare della ghiaia,”rispose Angelo, “è il letto del fiume che cammina.”In quei fondali sonori stava il segreto del Dio. Quando attraccammo, quella sera, oltre un “pennello”di ciottoli che formava una piccola darsena di acqua cristallina sotto un pendio boscoso, vidi che il fiume, filtrato da quella ghiaia, si era depurato. Guizzava di pesci, un metro sotto. Dopo due, al massimo tre chilometri un colpo come di bora strattonò la vela del Gatto chiorbone. Ormai lo sapevamo: sul Po, per motivi misteriosi, la brezza diurna va quasi sempre controcorrente, e in quel momento noi ce l’avevamo sul muso. La velocità dell’acqua si sommò a quella del vento, che subito rinfrescò. Spiegammo anche il fiocco, la barca fremette, si gonfiò dalla cima del piccolo bompresso fino al timone e ingaggiò col fiume una danza di bolina che ci mise ancor più di buonumore, facendoci carambolare da un argine all’altro. L’acqua cantava rotolando sotto il legno della chiglia, e il Gatto miagolò come mai prima, vibrando nei suoi cinque metri e mezzo di carenatura. In quella sinfonia, il compassato Paolo diventava un’altra persona: tracimava di felicità, viveva il “qui e ora”col fatalismo gioioso di un’iniziazione, abbandonandosi a quel tappeto verdegrigio che grandiosamente scendeva fra i salici. Stolti, tentammo di fare il punto nave, ignorando che il fiume non è mare. A bordo avevamo una decina di mappe, e le due più affidabili erano targate Touring Club e Aipo, l’agenzia interregionale del Po. Ma queste, stranamente, indicavano distanze diverse: chilometro 382 e chilometro 395 dalla sorgente. Possibile? Non perdemmo troppo tempo a cavillare su quella differenza: ci bastava avere il campanile di Cremona alle spalle e quello di Polesine Parmense a prua. Che altro serviva? Tutto era al suo posto: le Alpi degli Insubri a nord e l’Appennino parmense a sud-est. Capimmo che quel punto nave era una miserabile ansia della modernità tecnologica, e ci abbandonammo alla lussuosa incertezza dei pionieri. Fu allora che Po si mostrò per quello che è: un serpente che va dove vuole, si accorcia e si allunga, cambia continuamente direzione sul suo letto di ghiaie. Qualcosa che è superfluo e vano misurare. So dall’adolescenza che le mappe giuste non servono a orientarsi ma a sognare percorsi, e magari a ricordarli ad avventura conclusa. Per l’avventura padana ne avevo fatta una a mano, come già altre volte nei miei viaggi importanti: una striscia di carta di tre metri per sessanta centimetri, apribile a fisarmonica. Ci avevo speso sopra parecchie settimane, riempiendola maniacalmente di annotazioni, ma non era mai finita perché ci aggiungevo ancora nomi e luoghi, forse nel tentativo di farla diventare anch’essa fiume, su scala uno a uno. L’idea me l’aveva data Marlow in Cuore di tenebra. “C’era un fiume di enorme grandezza,”dice l’eroe conradiano, “e tu potevi vederlo sulla carta simile a un gigantesco serpente interamente snodato, con la testa nel mare, il corpo adagiato lungo una lontana linea sinuosa per quella vasta plaga, e la coda perduta nelle profondità del territorio. Davanti a quella carta nella vetrina di quel negozio restavo affascinato come un serpente davanti a un uccello.”La aprivamo spesso in navigazione, ma ancor più spesso la sera, con ostentata noncuranza, sui tavoli delle osterie. Lì diventava sogliola, anguilla o lampreda a seconda dei momenti o dei settori esaminati. Stesa tra piatti di lasagne e bicchieri di Bonarda, quella perfetta bisettrice diventava un succulento piatto di portata, un pesce con la sua lisca centrale e il pettine doppio delle spine laterali, segnate ciascuna da un nome come Oglio, Adda, Panaro. Era il mio arazzo di Bayeux, il mio maniacale Talmud topografico, il serpentone cinese, il mostro di Loch Ness da baraccone, la nebbiosa creatura da esibire su un tavolo anatomico alle tribù rivierasche. Durante le cene continuava a infittirsi di annotazioni e immagini, e così attirava avventori e passanti, strappava esclamazioni, memorie e notizie dalla bocca stupefatta degli indigeni, obbligandomi ad apporre ulteriori ritocchi. Ah, le osterie, queste favolose stazioni del pellegrino fluviale! In mare è impossibile trovarne. È questa la prima differenza tra i due regni delle acque. Per questo, più che per la sua vastità incommensurabile, la gente di pianura teme il pelago. E per questo i marinai d’acqua salata bramano le taverne più delle donne loro e dei bordelli. In mezo al mare xe un’osteria, xe l’alegria del marinar, si canta sulle coste adriatiche d’Oriente, da Trieste al Montenegro, evocando qualcosa di apparentemente impossibile. In realtà l’Adriatico, che è la continuazione del Po, è l’unico mare al mondo che ha sempre un’osteria raggiungibile in giornata. Giacomo De Stefano, un veneto che passa la vita in barca senza motore, e senza motore ha percorso sia il Po sia il Danubio, ama raccontare la leggenda dei trabaccoli, antiche barche veneziane che non andarono mai in Atlantico non perché banalmente esso era grande e pericoloso, ma perché quando il primo trabaccolo arrivò alle Colonne d’Ercole e vide la sterminata distesa desertica dell’oceano, capì al volo che in Atlantico non c’erano osterie e tornò indietro. Nella maggior parte dei casi la taverna, nei sogni dei marinai impegnati in navigazioni transcontinentali, è la fata morgana; l’oste è il portatore del primo e più fondamentale dei sapori di terra; il vino è il sacramento da celebrare alla fine del viaggio. Giacomo preferisce il fiume al mare perché il primo ha le osterie. A tiro di imbarcadero o a due passi dall’argine, le hai sempre a disposizione, e ogni sera il pellegrino navigante può sfilarsi dalla corrente per degustare il suo antidoto all’acqua dolce (fatta, come noto, per i perversi, come dimostra il Diluvio), agganciarsi alla terraferma e fare il punto del suo andare anche solo per un bicchiere, e magari smaltire la bevuta dormendo agganciato allo scheletro di un pontone. A viaggio concluso da un pezzo, mi scopro ad aggiungere ancora e ancora dettagli a questa complicata pergamena. L’acqua è il più perfetto dei fili narrativi, e poiché i viaggi si perpetuano infinitamente nella memoria, era fatale che anche la mappa diventasse la mia storia infinita. A furia di aggiornamenti, ne ho fatto un labirinto da esplorare in sé e per sé, prima ancora che la rappresentazione di una realtà geografica. Che godimento riaprirla ad avventura conclusa! Mi ci perdo ancora, quando trovo didascalie tipo “Trappola dell’albero storto”, “I lamenti funebri del Delta”, “L’affluente scomparso”, “La scarpata delle lucciole”, “Il villaggio sommerso”, “La mascella del mastodonte”, “L’orrenda pirodraga”, oppure “L’ombra di Annibale”. Non luoghi, ma storie. La mappa non di un fiume, ma di un’Isola del Tesoro, una guida tra insidie, fantasmi e pirati. Ma torniamo a quando spiegammo la vela dopo il curvone di Cremona. Vidi Paolo scendere sottocoperta e rovistare nel bagaglio ammonticchiato in uno spaventoso disordine sul lato di prua. Dopo qualche minuto il capitano riapparve con un aggeggio strano per riprodurre la musica delle orchestre, lo depose alla base dell’albero, lo accese, mise nella pipa una manciata di tabacco olandese, poi si sedette come un satrapo accanto al timone e disse: “Ascolta”. Era Il ballo in maschera di Giuseppe Verdi, e noi stavamo giusto entrando nelle terre verdiane. Per salutare il Maestro, una voce si fece strada nel vento. “La rivedrà nell’estasi / raggiante di pallore.”Le rive deserte risposero ai deboli altoparlanti del Gatto con una nevicata di fiori di ippocastano. Cercavo di seguire il dialogo sul libretto. “Ormai tre volte l’upupa / dall’alto sospirò / la salamandra ignivora / tre volte sibilò.”Voci, timpani e violini si perdevano nella pianura, Verdi riempiva di sé un incommensurabile silenzio. Pareva una scena di Fitzcarraldo, quella in cui il protagonista accende un grammofono e incanta i selvaggi seminudi sulla riva del fiume. L’acqua, il vento e la musica ci risucchiavano nel tempo. Attraverso le pagine del libretto, Paolo mi guidò in una trama ottocentesca di amori impossibili, congiure e macchinazioni, poi fece saltare un tappo di Barbera e con la pipa costruì spirali ambrate di fumo nel cielo che diventava incendio alle nostre spalle. Fu così che il barchino, cantando a vele spiegate, si perse nelle spire immense del Dio Serpente, nella sua discesa verso la notte. “Ti annoierai, è un fiume sempre uguale.”Così, prima della partenza, mi avevano detto dei canoisti abituati all’adrenalina delle rapide. “È un fiume di veleni”era stato il vaticinio della gente che mi vedeva deciso a partire. A navigazione finita posso dire che nulla di tutto questo si è avverato. Il viaggio sul Po è stato una grandiosa avventura. Oltre ogni speranza, ogni immaginazione. Ogni chilometro è stato una scoperta. Abbiamo registrato, mappato, ascoltato e trascritto una meraviglia. Settecento chilometri –inclusi i rami del Delta, che abbiamo percorso in lungo e in largo –fanno, moltiplicati per le due rive, millequattrocento chilometri di riviera, la più selvaggia, la più solitaria, la più libera della Penisola. Mentre milioni si accalcavano sotto gli ombrelloni,

sotto lo stesso carro del Sole le spiagge del Po restavano deserte e luccicanti come quelle della Namibia. Non è affatto insensato dire: “Vado alla scoperta del Po”. Del Po vero si sa poco o nulla, anche se è stato inondato di letteratura. Prima ho detto “pirati”, e non per scherzo. Ce ne sono anche lì, come sul Mekong o le coste della Somalia. Misteriose barche veloci che vanno di notte senza luci di posizione, bracconieri in mimetica, corrieri notturni della droga, ladri di motori, trafficanti e contrabbandieri; gente che, se ti avvicini, ti fa il segno del coltello sotto la gola. In compenso non ci siamo imbattuti mai, dico mai, in motovedette della polizia o dei carabinieri, e tantomeno nelle ronde locali strombazzate dai federalisti. Non c’è legge sul grande fiume. L’italico mare è intasato di capitanerie e asfissiato di divieti, ma il baricentro della potenza agricola e industriale del paese non conosce né controlli, né forza pubblica. Venezia aveva un magistrato delle Acque che sapeva tutto di fiumi e canali dall’Adda al Tagliamento. L’Italia, invece, ha abdicato alla sovranità sulle acque, non le frequenta, non le naviga, non le conosce più, le fa degradare e se le lascia alienare come una colonia centroafricana. Il crimine lo sa, e batte liberamente quelle acque. Sul Po si può fare di tutto, l’abbiamo imparato in fretta. Abbiamo potuto attraccare, attendarci su qualsiasi riva, accendere fuochi su ogni isola come in un racconto di Mark Twain. In un mese di viaggio nessuno ci ha chiesto di declinare le nostre generalità. La frase tipo dell’uomo in divisa, “Ehi voi, dove credete di andare?”, non l’abbiamo sentita mai. Po non ha rotonde né tangenziali. Non ti depista e va dove deve andare. Non lo imbrogli e non lo imbrigli. Se lo fai, deborda, si gonfia, si incazza, te la fa pagare. Odia il cemento e chiede il suo legittimo spazio. Il fiume di pianura è un selvaggio anaconda che passa ovunque, non rispetta i confini politici e amministrativi. Basta guardarlo tra Emilia e Lombardia. Vorrebbe coincidere con le spire del serpente, ma non ci riesce. Disegnato decenni fa su un corso che non esiste più, ha perso ormai il suo senso di demarcazione, è diventato una linea che divide il nulla. Pezzi di Lombardia son finiti a sud e pezzi di Emilia a nord del fiume. La linea di terra si rende semplicemente ridicola, ostinandosi a rincorrere vanamente il filo delle acque. Il fiume è la cosa più libera che ci sia. Forse per questo gli italiani, dopo secoli di baciamano e genuflessioni ai potenti, lo evitano e per questo la politica lo ignora. Eserciti di mamme tengono i loro figli lontano dall’acqua che va. A Motta Baluffi, a uno sputo dall’argine, ho incontrato gente che non aveva visto Po se non dai ponti dell’autostrada. A San Mauro Torinese c’era un nonno con nipotino che si meravigliava che mi ostinassi a cercare la sponda oltre una selva di guardrail, e non aveva mai cercato una sua strada d’accesso al fiume dove era nato. Ho trovato, sì, centinaia di pescatori sulle sponde, ma quasi tutti vivevano separatamente il loro segmento di asta fluviale. Anzi, si meravigliavano che noi venissimo da così lontano, come se il fiume nella sua interezza fosse inconcepibile e l’idea di navigarlo una demenza. Per questo abbiamo viaggiato così da soli nel Grande dimenticato, soli tra canneti e pesci siluro, ombre di Argonauti e cercatori d’oro, fisarmoniche e casette rivierasche simil-sovietiche. È un fatto che quasi nessuno fa il Po via acqua: il passaggio di qualche matto che lo scende o lo risale viene ricordato per anni, tanto è raro. Ma ancor più rara è un’esplorazione che tenti di mappare l’universo padano. A tutt’oggi non esiste una carta che lo rappresenti nella sua interezza, con ponti, locande, musei, isole, strade, affluenti, dighe, insidie e accessi da terraferma. Certo, c’è la carta degli attracchi, quella delle piste ciclabili, o quella dei ristoranti rivieraschi. Ma non c’è ancora il quadro d’insieme che dica agli italiani che cosa si perdono. Questo è stato forse il primo tentativo di averne uno. Arcipelago di memorie divise, Po ha ancora bisogno di un grande regista che lo racconti unitariamente, qualcuno che faccia un censimento sistematico dei testimoni di un mondo che scompare. I ragazzi di un’università di queste parti –Pollenzo, sull’affluente Tanaro –l’hanno seguito dall’inizio alla fine raccogliendo brandelli di storie, ma il grosso è ancora da fare. Il fiume è vita, mito, religione, lavoro, svago, trasporto, botanica, zoologia, idraulica e mille altre cose ancora, ma non esiste un tavolo dove tutti questi aspetti possano essere esaminati insieme. Si diceva che l’acqua non si gestisce a settori. Le manomissioni a valle si pagano a monte, e viceversa. A centinaia di chilometri di distanza. Trema la terra / il ciel s’oscura / ma quei dal Po i n’gha mai paura. Così mi canticchiò un mantovano della Bassa, quasi se la sentisse, poco prima che un tuono sotterraneo scuotesse Modena e Ferrara quella primavera. Ed era vero. Nel fondo della pignatta padana la gente aveva qualcosa di rassicurante cui aggrapparsi anche nei giorni del terremoto. Era il fiume, che ignora i disastri e ci galleggia sopra. Po era l’immagine della continuità della vita. Ed erano in tanti, fra Mirandola e Carpi, nei giorni dopo i crolli, a cercar conforto proprio sull’argine, in quell’acqua libera che andava imperterrita, snobbando persino la potenza distruttrice della natura, perché era essa stessa natura indomabile. A fine viaggio, dopo il disastro, siamo ritornati sul fiume, e nulla era cambiato tranne qualche crepa sull’argine. Solo le cose degli uomini lasciavano il segno della loro precarietà. L’avevo corteggiato, letto, studiato, immaginato, circumnavigato seguendo il semicerchio della sua linea pedemontana, per raccontare i mali di pancia del profondo Nord. Dalla Grande valle avevo misurato i piani inclinati degli affluenti; lunghi, potenti e regolari sulla riva sinistra, precipiti e torrentizi su quella destra. Ne avevo contato i venerabili ponti, ascoltandone le vibrazioni al passaggio dei camion e dei treni. L’avevo guadato con l’acqua alla cintola durante le magre e costeggiato sull’argine a piedi o in bicicletta nel corso delle piene. L’avevo scavalcato in automobile, sorvolato in aereo in infiniti atterraggi e decolli; ne avevo avvistato le brume nella cavalcata attorno ai miei Monti naviganti dal Golfo del Quarnero alle Alpi Marittime e dalle Marittime alle Marche lungo la Linea gotica. Credevo di conoscerlo, e invece non ne sapevo ancora nulla. Un fiume lo conosci solo se lo navighi. E poi questo voglio dire: basterebbe lasciarlo in pace. Se non fosse manomesso, sarebbe capace di ripulire le acque luride di città come Milano. Le sue ghiaie sono il più perfetto dei filtri. Invece non lo lasciamo in pace. In questo viaggio abbiamo incontrato più volte l’orrore. Sotto i ponti di Moncalieri abbiamo scavalcato ferri acuminati, lavatrici, materassi e carcasse di automobili. A Casalgrasso, tra Saluzzo e Torino, abbiamo trascinato le canoe per montagne di detriti, rovi e fanghi velenosi, perché quello era l’unico modo di superare uno sbarramento in sfacelo. Dopo Piacenza abbiamo dovuto chiamare una gru per trasbordare la barca oltre la diga di Isola Serafini, perché a valle la chiusa non funzionava a causa dello sprofondamento del letto che la diga stessa generava. L’Italia se ne fotte di chi naviga. Ebbene, nonostante queste aggressioni, il fiume si rigenerava, era sempre più pulito di quanto potessimo immaginare. Non potevo capire come conservasse pezzi della sua primordiale verginità. Persino l’orrido Lambro riviveva dopo un’alluvione di idrocarburi. I fiumi sono i reni di una nazione. Pensare, come fa la Lombardia, di immobilizzare il Po con maxi-sbarramenti, è una porcata. “È come credere che un uomo possa fare a meno di quella perfetta macchina di dialisi che sono i reni,”mi aveva detto prima della partenza l’amico Giovanni Damiani, tra i maggiori responsabili della mia insana passione fluviale. Un’ultima avvertenza per chi si appresta a questa lettura. Non siamo partiti dalle sorgenti di Pian del Re. Troppo banale. Troppo sputtanato proprio da coloro che hanno divinizzato l’acqua solo per depredarla meglio. Non ci crede più nessuno al rito dell’ampolla alle sorgenti inventato da qualche furbo capotribù della Padania. Guardate il Piave: prima l’hanno elevato a “fiume sacro”e poi ridotto a un deserto di ghiaie. Non potevamo avallare una finzione, e per questo abbiamo scartato il Po non navigabile. Ci interessava vedere la verità dell’Italia dall’acqua. Così ci siamo imbarcati nelle dolci rapide di Staffarda, quaranta chilometri sotto il monolito del Monviso, per finire tra i canneti del Po di Goro. Lì, sotto il faro del Bacucco battuto dalla tramontana, abbiamo piantato la tenda, acceso un gran fuoco di rami secchi nel crepuscolo e cantato con la chitarra Old man river. Ma nemmeno sul Delta la storia era finita: volevamo corteggiare ancora il mare, a costo di risalire altri rami del fiume e trovare un secondo, o magari un terzo finale della storia. Sono nato e vivo in una città marinara. Ho battuto a vela Adriatico, Jonio ed Egeo. Provo un piacere enorme ad affondare un remo. Ho imparato a nuotare a tre anni e ancora mi tuffo anche d’inverno, quando fa buon tempo. Eppure, dopo questa avventura sul Po, ho avuto l’impressione di non aver mai conosciuto il mare. Una cosa è saltare a bordo e prendere subito il largo. Altra cosa è entrare nel pelago dopo essere rimasti intrappolati per giorni in un’interminabile sequela di sabbie, di pioppi e meandri. Uscire da uno spazio chiuso e vedere l’immenso orizzonte. Assistere al mistero di una linea che diventa spazio. Sentire un’acqua torbida e dolce che si tramuta in laguna salmastra e si rigenera col vento, con la corrente e con la marea. Avvertire lo sperdimento di un delta senza confini. Ascoltare le voci dei naufragati che chiamano dal profondo fin nelle brume del Delta. Sentire che una cosa rinasce nel momento stesso in cui muore. Sono cose che ti cambiano la vita. Ma cominciamo dall’inizio.

Parte prima

Sei bucanieri Dal ponte, sul far della sera, contemplammo i gorghi del fiume bambino senza avere idea di cosa ci aspettasse a valle e senza percepire la distanza che ci separava dal mare. Stavamo per penetrare nello spazio più popoloso d’Italia, il più inquieto e produttivo, quello dove si decide il destino della nazione, ma quel grumo di interessi, luoghi e persone oscuramente ci sfuggiva. Nemmeno degli ostacoli avevamo un’idea chiara. Nonostante una ricognizione via terra, anche Valentina e Flavio, i navigatori più esperti del gruppo, dimostravano di non conoscerli a fondo. I canoisti italiani sono gente strana: capaci di navigare le più difficili acque del loro paese, snobbano il fiume dei fiumi. Troppo semplice, dicono; troppo ovvio e forse anche noioso. Il Po era inondato di relazioni scientifiche e guide specializzate, ma la via d’acqua restava ignota. Insomma, non ne sapevamo nulla fin dal primo chilometro. Giancarlo Nardoni, l’apicoltore che curava l’ostello del Po, garantì che fino a Villafranca l’acqua c’era, dunque era improbabile che dopo Staffarda si andasse in secca. Il resto affondava nell’incertezza. Del malfamato sbarramento di Casalgrasso, una ventina di chilometri a valle, o dei ponti di Moncalieri irti di cemento e ferri arrugginiti, solo voci di terza mano. Ma forse, pensai, era meglio così: ci sarebbe stata più avventura. In tutti i miei viaggi la cosa più viva da raccontare sono stati sempre gli imprevisti, per non dire gli inconvenienti. Si sappia subito: la spedizione fluviale è un immenso casino. Montagne di materiali si allineano sulle rive: sacche impermeabili, calzetti, mutande tecniche, contenitori d’acqua e ovviamente maglioni, nonostante il caldo, perché non si sa mai. E poi quelle maledette automobili d’appoggio, di cui non ci si riesce a liberare, e che vanno ricuperate ogni sera con l’aiuto di qualche benefattore. Per non parlare del diario di bordo a perenne rischio naufragio, che va sigillato in un’apposita tasca stagna. Noi vantavamo ulteriori complicazioni: la macchina delle immagini di Alex, il suo treppiede e un sacco di roba tecnica che temeva il fiume più della peste. Avevo sognato un viaggio libero, alla Huckleberry Finn, sacco a pelo, tendina e bivacchi volanti sulle ghiaie. E invece no, addio leggerezza. L’ombra della logistica si allungava sull’avventura e la terraferma ci invischiava fin dall’inizio con le sue complicazioni. Eravamo in tanti, forse troppi. Cinque uomini e una donna. Sei birre allineate sul bancone dell’ostello, trafitte dall’ultimo sole accanto al ponte, là dove il fiume usciva dai monti per affrontare la pianura. Più diversi non potevamo essere. Valentina, brunetta, instancabile cercatrice di montagne, di fiumi e di guai, senza la quale il viaggio non sarebbe stato nemmeno pensabile, ostentava una tranquillità irritante. Il buon Alex, taglia da orso grigio, era lì paralizzato di fronte alla scelta del bagaglio più complicato della sua vita. Pierluigi, minuto e occhi vivi, divoratore di strade, vagava ancora con la mente tra i monti alle sorgenti del Gange, dai quali era appena tornato dopo mille chilometri di cammino selvaggio. Flavio, stazza e chioma vichinga, canoista di lungo corso, taceva godendosi il nostro disorientamento. E c’era Angelo Bosio, il più vecchio del gruppo, fisico bronzeo, che masticava un toscano, felice di partire di nuovo sul fiume della sua vita. Con chi vi scrive, facevano trecentotrentadue anni in totale. Cinquantacinque a testa di media. Una spedizione di senatori, afflitti da magagne ma curiosi come adolescenti. Il sole era tramontato, attorno al Monviso si stava spegnendo il famoso ventaglio di spade di luce, ma il fiume scorreva su un materasso di pepite ancora lucenti. Po subalpino è una miniera, lo svelano le pagliuzze d’oro strappate a chissà quali altezze da Dora Baltea, Bormida e Sesia. “La Sesia,”ripetei tra me e me, al femminile. Mi ero stancato dell’articolo “il”, che militarizzava le acque d’Italia. Un libro sul sesso dei fiumi sarebbe tutto da scrivere. Chissà, pensai, forse Po è un ermafrodito, se è vero che un giorno, dalle parti di Viadana, ho sentito chiamarlo “la fiuma”. Ma è il momento che dica dove questa storia è incominciata. Fu d’inverno, con la neve e un gran fuoco acceso, in un solitario capanno sui colli del Mantovano. Da quel rifugio, l’amico Fausto De Stefani, alpinista-benefattore dai lunghi capelli e dalla lunga barba, governava un’intera collina. Era la sua arca di Noè, la sua trincea di resistenza contro la cementificazione. Aveva asini, capre, anatre, galline e decine di amici che lo aiutavano a tenere pulito il sottobosco e a proteggere gli animali dalle incursioni abusive dei cacciatori. Chiamava i bambini, soprattutto, a vedere cos’è la natura, e li incantava con i suoi racconti. Un giorno gli dissi del Po e lui mi invitò con altri candidati al viaggio. Imbastì una tavolata, accese l’ennesimo fuoco, e l’idea del viaggio prese forma. Rileggo gli appunti di quel giorno e mi pare di riviverne la febbre. Valentina buttava provocazioni sul desco imbandito come fiches sul tavolo verde di una roulette. Affluenti, cercatori d’oro, osterie, cavatori abusivi e contrabbandieri. Paolo Lodigiani fumava la pipa e seminava sane ironie. Andrea Goltara evocava ponti scoperti, escavazioni di ghiaia, il mostro idroelettrico di Isola Serafini che aveva ucciso gli storioni, l’acqua rubata del Brembo, il letto ancora vergine della Trebbia. Gli argomenti e i nomi si accumulavano in disordine, annotati su fogli sparsi. Non sapevamo ancora con che barche muoverci. Il Gatto chiorbone, la barca a vela di Paolo, era pronta all’avventura, ma dove era possibile vararla? Pescava troppo per la parte alta del fiume. Lì avremmo dovuto spostarci altrimenti, ma con cosa? Con che mezzi avremmo percorso la parte alta del fiume? Con la canoa, di quelle comunemente chiamate “canadesi”, oppure con un tranquillo gommone? Era sbucata anche l’idea di una scialuppa fluviale di quelle da trasporto di una volta, ma non avevamo idea di come trovarne una. L’unica cosa chiara era che volevamo partire. Il lumino Miliardi di stelle, Luna turca in discesa sulle Cozie. Le radure muschiose dell’abbazia di Staffarda, un tempo paludi, sfiatarono brume azzurrine e ombre di frati cistercensi in mezzo a lucciole e rane assordanti. Passammo a piedi sotto il ponte, sfiorando la corrente, per raggiungere a tentoni la locanda Ai pesci vivi, appena identificabile da un lumino acceso sull’altro lato della strada. Sotto un pergolato, un lampo di tovaglie bianche con anguilla marinata, fritto di paranza di fiume e un dolce ineguagliabile di nome bunette. Ed era solo l’antipasto dell’infinito menu che annunciava la Valle del Buon Mangiare. Tra le tante mappe del fiume, ne avevo anche una gastronomica, piena di meraviglie. Mostrava l’Italia come una geografia di goloserie federate. C’era l’area dei risotti con pesce e quella dei risotti con verdure, il territorio delle paste ripiene e quello dei tortelli cremaschi. Sul Delta trionfava la polenta, in Piemonte il fritto misto. E ancora il territorio delle rane, del culatello, della carne d’asino. C’era da perdersi. Anguilla, tartufo, e pani dai nomi sconosciuti: boslà, mica, ricciatina, semella. Il libro aveva i suoi anni, e il corso del serpentone era sensibilmente mutato da allora, ma la mappa gastronomica resisteva. In quell’Italia che vedeva sparire paesaggi e dialetti, mi sembrò che le identità locali si fossero rifugiate nei cibi. Accadeva anche lì, in quella pianura teoricamente condannata all’amalgama dei gusti. Assistevamo a un miracolo: quello di una globalizzazione “buona”. Un’ecumene fluviale capace di essere una e plurale nello stesso tempo. L’amico saluzzese Sergio Maffioli ci narrò storie di castori, martore, storioni, siluri, lamprede e a grandi gesti imitò il salto di un luccio che addentava un topo sulla riva. Valentina lo ascoltò e gli fece mille domande. Venne anche il sindaco di Saluzzo con una banda di amici, e le libagioni proseguirono finché l’incontenibile Maffioli fece scendere su tutti la benedizione dei santi subalpini Chiaffredo, Espedito e Varena vivandiera. Convenimmo che nei dintorni di Staffarda, come in altri luoghi rimasti pagani a lungo, c’era un’anomala alta densità di santi. Misterioso Piemonte. I commensali evocarono la storia dell’Uomo selvaggio, portatore del segreto della cagliatura, e le sacre rappresentazioni di un paese di nome Enve, nate chissà quando ai piedi del Monviso. Dissero che contro i demoni a Crissolo venivano ancora accesi i fuochi di San Giovanni, e che a Revello, in tempo di siccità, si continuavano a celebrare le rogazioni, santissima istituzione ormai dimenticata dalle curie. Eravamo in un sacro labirinto farcito di memorie orali, e il Libro ci diventava inutile. Sotto il dente solitario, nero tra le stelle, si sentì l’ultimo lancinante richiamo della montagna. Po raccontava, e noi rabbrividimmo nel timore di non intenderne la voce. Secoli di memorie stavano sparendo, annichilite da un infernale traffico di epigrammi sparati nel nulla, e dei quali nulla sarebbe rimasto. Venne mezzanotte e andammo a nanna malfermi dopo troppo Arquebus, un amaro subalpino quasi estinto che sapeva di rosari e baciamano, e mentre i fari del buon Maffioli scomparivano verso Saluzzo, il buio si popolò degli occhi della notte: civette, allocchi, gufi comuni. Una volpe immobile sul greto, l’ombra frusciante di un gatto, topini in allerta tra le ghiaie, lucciole vaganti a pelo d’acqua. Po mormorava, pullulava, riemergeva e tracimava dopo chilometri di percorso sotterraneo. La Luna bagnò di luce incerta le pendici del Monbracco, dove Leonardo aveva cercato le sorgenti di Eridano, e le falesie di Revello bucate da abitazioni rupestri come i canyon del New Mexico. Davanti all’ostello un vortice di scintille saliva da un falò acceso dal gestore. Le canoe dormivano affondate nell’erba a pochi metri dalla riva, ma la ciurma era sveglia. Nelle camerate le sacche erano ancora da fare e noi giravamo in mutande nel caos ridendo di nulla e senza sapere cosa caricare in barca e cosa no. Mi guardai allo specchio in mezzo a tutta quella roba e fui assalito da una spietata sensazione di ridicolo. Che ci facevo lì alla mia età? Mi ero cacciato in un viaggio per adolescenti. Non mi consolavano frasi come “I ragazzi di oggi hanno perso il senso dell’avventura”, oppure “I giovani navigano solo da seduti”. L’alibi non teneva. Per fortuna sapevo che i dubbi fanno parte dell’avventura, sono un tunnel da passare a ogni partenza. Perché ogni partenza è un salto nel vuoto. Entravo in un mondo sconosciuto. Avevo percorso mari ma mai un fiume intero. La finestra chiusa tra me e il buio era un’iconostasi che mi separava dalla celebrazione di un mistero. Mi chiesi cosa avrei trovato oltre. Forse il Tempo, che mi scappava ogni giorno tra le dita. Di una cosa però ero certo. Il Po era pieno di letteratura, ma da lì fino al mare non avrei avuto bisogno di parole scritte. Come nella storia che narra di uno studioso che danneggia un’intera biblioteca per sancire l’abbandono del Libro e scegliere al suo posto l’umanità del fiume, anch’io davanti all’occulto sentii il bisogno di dimenticare i venerabili testi e affidarmi agli incontri. Avevo solo mappe, e cercavo un linguaggio che non fosse quello notarile della prosa. Il periodare inimitabile di Sergio il saluzzese mi indicava un fiume dall’oralità ancora viva, nonostante gli anni della “malora”–così li aveva definiti Beppe Fenoglio –che avevano spinto i contadini a diventare operai e poi parassiti, derubati dell’intelligenza delle mani e della sapienza pratica dei padri. Cominciava per noi una storia d’acqua libera, in cui avremmo avuto molto da ascoltare e pochissimo da leggere. Una storia solo nostra. Il viaggio irripetibile di Valentina e Pierluigi, Angelo, Flavio, Alessandro e Paolo. Invisibili tra i salici Ci benedirono il Monviso, san Giovanni, il molto venerabile Chiaffredo e i mille martiri della legione tebea. Così partimmo, increduli di mollare gli ormeggi. Dal ponte di Staffarda, il fiume ci chiamava imperiosamente verso il mare, scivolava come una lama, trasparente e irresistibile su ghiaie lucenti. Se anche nei viaggi di terra si dice “imbarcarsi in un’avventura”, figurarsi in un viaggio d’acqua. Eravamo così trepidanti che bruciammo quattro false partenze in un quarto d’ora; lasciavamo sempre a terra qualcosa, sacche stagne, bottiglie d’acqua da distribuire tra imbarcazioni, moschettoni, cime per gli attracchi. Per un attimo rimase a terra persino Alex, sceso a celebrare il varo con
la sua macchina delle immagini. Lo vidi per sbaglio, aggrappato all’isolotto di un pilone, guardarci allibito andar via. Sei canoisti –di cui tre esordienti –sono un circo che ci impiega del tempo a mettersi in moto. Ma alla fine il battesimo si compì, e noi andammo, quasi senza rendercene conto, in mezzo a un arcipelago di massi e piccole rapide. Non eravamo noi che entravamo in acqua, era l’acqua che entrava in noi e ci prendeva. Il rumore dei Tir sopra il ponte scomparve e cominciò il mondo del silenzio. Il Piemonte ci scivolò di fianco come in un film: salici, ontani, argini muschiati, pali nerastri di vecchie pescaie. Angelo viaggiava da solo sulla sua canoa, brontolò che bastava uno starnuto a farla rovesciare e decantò il suo barcè, la scialuppa manzoniana sulla quale si proponeva di portarci da Casale a Pavia. Ma era felice lo stesso: “In acqua,”disse, “passa tutto. È a terra che cominciano i problemi”. Alessandro si era accomodato tra Flavio e Valentina, per catturare immagini libero dal remo; lo vidi filare via con i suoi cento chili di felicità in perenne stato d’allerta. Io andai con Pier nella barca dei principianti, e imparai in fretta che in un fiume non serve vogare troppo, basta correggere la rotta. Un chilometro dopo l’altro, il colpo di pagaia si faceva meno muscolare; l’acqua andava solo accarezzata. Ed era lì la cosa più bella: essere trasportati, ascoltare e guardare senza far nulla. Diventare fiume. Passò l’ammiraglia, una “Old Town”verde marcio, di diciassette piedi, segnata da cicatrici di mille avventure. Era stata prodotta nel Maine e aveva un robusto scheletro di legno, sul modello delle canoe pellerossa in betulla. Ballando tra piccole rapide, mostrò leziosi sedili in paglia di Vienna e una targa di ottone a prua con inciso il cognome del primo proprietario, Ghezzi, uno che dopo mille viaggi, morendo, aveva lasciato la sua creatura all’allievo Mainardi. A filo di ghiaie seguì una “Prospector”amaranto di sedici piedi, più tozza e capace di carico, ideale per acque difficili. “La Old Town è la Rolls-Royce della canoa,”disse Valentina, “questa invece è la Storia.”E venne per ultima “la Pignatta”, nomignolo che le fu appioppato dal primo giorno. Era roba per uomini duri: un guscio in alluminio perfettamente instabile, con ben scolpiti addosso tutti i colpi ricevuti. Le altre non esibivano nome e nemmeno soprannome. A differenza degli uomini di mare, i rivieraschi non usano battezzare i loro scafi. Le rive erano deserte. Mezzo secolo prima avremmo incontrato fabbri, mugnai, bambini, traghettatori, lavandaie, pescatori di trote e di lucci. Lì apparvero solo tre tipe nude sul greto che corsero a coprirsi, spaventate all’idea che l’acqua fosse navigabile e il fiume potesse essere abitato. Avevano tre cagnetti feroci, che si buttarono in acqua abbaiando –uno era specialmente scalmanato –per addentarci le pagaie. Alex li eccitò abbaiando a sua volta, e quelle sulle rive, rannicchiate negli asciugamani, ci guardarono come minorati mentali. La gente di terra non si aspetta, forse non può nemmeno concepire, che qualcuno possa arrivare dall’acqua. Imparammo che esiste una divisione netta fra “terricoli”e “acquatici”. I secondi seguono leggi diverse da quelle dei codici, il fiume è il loro spazio franco, il loro nascondiglio. Scendemmo invisibili tra pioppi e robinie, finché il fiume alpino incontrò i primi affluenti. Ghiandone e Cantogno, i loro nomi erano elfi allo stato puro. Mormoravano tra i salici disegnando virgole, spirali e parentesi. Li risalimmo per un tratto a lunghe palate –la curiosità era più forte della tabella di marcia –, scoprendo sulle rive un pullulare di libellule in amore. Damigelle, le chiamano da quelle parti, nome che smentisce il naturalista sessuofobo che ha dato loro un brutto nome maschile: odonati. Ma c’erano altre damigelle lì intorno: preferivano il fucsia e aspettavano sullo stradone Pinerolo-Saluzzo, incuranti dei camion, seminude e professionali, con tavolino, seggiola e ombrellone. Le nostre vestivano verde smeraldo e blu notte, erano abitatrici del silenzio, e stavano annidate negli angoli più ombrosi, là dove l’acqua scorre più pulita. Ma tutte indistintamente quelle creature erano sovrastate dal solitario prisma di cristallo del Monviso che la sera accendeva il suo ventaglio di spade di luce. Mormorava l’acqua verde del Ghiandone e nessuno pensò che quel suo placidume potesse diventare furia distruttrice. Ma poco a valle il ponte di Cardè, spazzato via da una piena, ci smentì, e il rimbombo delle auto sulle assi della passerella provvisoria in ferro ci inferse il primo choc dopo un’ora di silenzio. Fu anche l’inizio degli imprevisti. Angelo, ancora inesperto di canoa, si infilò in un gorgo sotto un albero caduto, rovesciandosi come un pero. Perse il sigaro e un lezioso cappellino di paglia con penna di civetta, sacramentò nuotando nella corrente, poi si rimise in piedi da solo. Gli ricuperammo la sacca cento metri a valle. Non avevamo a tiro né orologi né macchine fotografiche: tutto era sigillato in sacche stagne. Che ora era? E dove eravamo? Ucraina? Turchia? Paraguay? Pensai ai fiumi già visti e non trovai nulla di simile a quanto stavo vivendo. Rividi il Reno d’Alsazia fumante nei campi d’autunno, con attorno le vigne dei Vosgi e l’inutile cemento della Linea Maginot. Ripensai al Danubio d’inverno, al treno che lo supera battendo colpi lenti su campate malconce; risentii i colpi del ghiaccio navigante nella stretta dei Carpazi, il canto di un battelliere solitario prima delle Porte di Ferro, il richiamo dei migratori nel labirinto del Delta. Mi apparvero le falesie della Dordogna nel tramonto, i meandri del fiume occitano pieno di musica e profumi, visto dal maniero di Montfort. E ancora la sera violetta sul Dnestr inargentato dal vento, cicogne plananti sul mare di grano, le fortezze sul Limes d’Oriente, le scarpate di roccia giallina, gli abbeveratoi contesi da cosacchi e armate ottomane, cavalli pazzi e cammellieri. Ne avevo visti di fiumi, ma nessuno somigliava a quel Dio monosillabico che cercava la sua strada in un cerchio perfettissimo di montagne. Vento di nord-ovest. Flavio spiegò che le zampe degli uccelli di fiume sono una perfetta misura idrometrica. “Se la garzetta puccia il culo in acqua vuol dire che c’è più di mezzo metro.”La flottiglia si sgranava, ogni tanto una barca scompariva tra i salici nella ricerca impossibile di una strada solo sua. In ciascuno di noi covava il desiderio di appartarsi e cercare intimità col fiume. “Da che parte è Cavour?”, “Laggiù! Un germano reale in volo!”. Tra noi volavano brevi richiami, poi tornava il silenzio. Non c’erano che quelle voci a echeggiare tra gli argini. Nessun contatto col mondo, acustica claustrofobica e il copione del viaggio ridotto a un dialogo a sei. Song of the paddle A Villafranca, finalmente, una finestra sul mondo. Sotto un ombrello di alberi immensi, la riva, magnifica e inspiegabilmente deserta, disegnava la caricatura di un paese ridotto all’idrofobia da chissà quale pestilenza. Le conosco le mamme italiane, quando mettono in guardia i loro bambini dal demone della corrente. Mio Dio, il freddo, i gorghi, i veleni, gli insetti... Ma sì, pensai di loro, che portassero pure i loro pargoli a sfinirsi in un mare-minestrone, dopo infinite code d’autostrada. In fondo era grazie alle mamme d’Italia che la nostra avventura si preannunciava magnifica, in uno spazio incognito come lo Zambesi. Le rive erano pulitissime, la sporcizia mille volte annunciata non si mostrava. Posto perfetto per la merenda, con birre a mollo nella corrente, salame, formaggio, olive e pomodoro. Scatolette di carne uscirono dalle sacche stagne, e Flavio ne usò una come pentola per scaldare le sue cose. “Quando pescavo gamberetti o pesciolini, li cucinavo nella scatoletta, con dentro l’acqua di mare.”Così disse, e colse la palla al balzo per tenere il primo di tanti comizi sulla filosofia della canoa, “che si chiama canadese solo in Italia, perché solo in Italia la gente non ha capito che di canoa ce n’è una sola”. “Noi,”disse, “ci distinguiamo per un certo modo easy di andare in giro. Non c’è ombra di agonismo, si cerca il piacere puro del contatto con la natura. Quelli del kayak non farebbero mai il Po alla nostra maniera. Si ammalerebbero di lentezza. Invece per noi andar per fiumi è un modo per confrontarci con noi stessi e stare serenamente in compagnia. Il bello della canoa è che puoi arrivare ovunque, vedere luoghi che dalle sponde sono irraggiungibili.”Valentina: “Ho amato la canoa dopo aver letto i libri di Bill Mason, Song of the paddle e Path of the paddle, che sono considerati tuttora la Bibbia, e anche lo spirito della canoa. Parlo del concetto di viaggiare autonomi, della semplicità dell’attrezzatura che si contrappone al tecnicismo del kayak. Col kayak sembra di andare in guerra, vedo mute leopardate, caschi integrali, cose assurde... Invece l’uomo e la donna canadesi sono più basici, meno bardati”. “A parte noi,”ghignò Pierluigi, “che abbiamo un sacco di roba.”Mentre il tappeto verde scivolava su Torino, due cinciallegre litigarono come comari sul ramo basso di un acero. Sott’acqua ci salutò un salvagente sgonfio col muso di una cagnolina pezzata, e Pierluigi si fece un sonno sul ponte di una house-boat usata come traghetto e forse sognò, nel deserto fluviale del Piemonte, le affollate rive del Gange da cui era appena tornato. Io mangiai controvoglia. Avevo sullo stomaco troppe parole non scritte. Il mio taccuino era vuoto. Col remo in mano scrivere è impossibile e il taccuino, chiuso nella sacca stagna, è troppo complicato da estrarre. Scoprivo la fregatura: su un fiume bisogna tenere a mente tutto quello che si è visto e aspettare le soste per stendere il diario. A Villafranca buttai giù poche righe, e mi parvero un elenco insulso di argini, alberi, ponti. Per uno abituato a catturare al volo le immagini, quella scrittura in differita era una fregatura. Si lasciava sfuggire troppi dettagli. Ma c’era di peggio. A causa della posizione seduta non riuscivo a vedere oltre l’argine e il paesaggio mi scivolava via senza lasciar traccia nella memoria. Narrativamente, ero in trappola. Per capire, avrei dovuto sbarcare ogni chilometro, tirare in secca la canoa e arrampicarmi sull’argine. Improponibile. E non bastava ancora. Mentre il cammino via terra, passo dopo passo genera racconto, risveglia memorie e in definitiva eccita il pensiero con la metrica dell’andatura, l’acqua di un fiume è un mantra che finisce per spegnere la mente. Il remare non ha una ritmica, è solo la correzione di uno scivolamento, la resa a un fluire più grande di noi. Ripetei una formula: “Yoga chitta vritti nirodha”. Stava scritto da qualche parte in un libro: lo yoga è l’estinzione delle sovrapposizioni della mente. Anche il fiume era un lavacro del pensiero: forse questo spiegava il mio spaesamento. La quotidiana tempesta di cure si stava placando, solo che non riuscivo a farmene una ragione. Il silenzio certificato dai fogli vuoti del taccuino mi sgomentava ancora. Primi affluenti Valentina ci avvertì: arrivava un ponte difficile. In Italia i ponti poggiano sui cadaveri dei loro predecessori, abbattuti dalle piene o dalle guerre. Nessuno toglie di mezzo le pietre, perché nessuno naviga più. Per questo i canoisti, quando ne avvistano uno, entrano in trepidazione. Per studiare il varco migliore tra i piloni Flavio e Vale si alzarono in bilico sulle barche, confermandomi che su un fiume bastano pochi centimetri per allargare la visuale. Ti alzi un attimo e il mondo si svela: montagne, villaggi, campanili, filari di platani e vigne. Capii le fondate ragioni della mia claustrofobia. Solo stando in piedi come Gesù sulle acque di Tiberiade, i nostri capi-barca videro che la base del ponte spumeggiava sopra un greto di rovine e solo così poterono scegliere il varco migliore per infilarsi nella corrente. E fino a quando non fummo oltre, una famiglia di cigni ci tenne d’occhio, schierata a protezione del territorio. Quei simboli della bellezza animale erano diventati orrendi: soffiavano, si gonfiavano, protendevano i loro becchi micidiali verso gli intrusi. Il fiume si allargò, l’acqua si fece torbida. Tanta fauna sulle rive. Trote, libellule, anatre in volo radente, aironi cinerini, furetti e
e nutrie sull’argine, un falco di palude in quota. Sulle canoe si erano formate coppie nuove e l’anagrafe si era sbilanciata: Flavio e Alex facevano novantaquattro anni insieme, Valentina e Pier centoquattro, Angelo e io centotrentacinque. Ma la clemenza dell’acqua finì per smussare le differenze, spingendoci un po’tutti e pareggiando le andature fino alla confluenza col Pellice, il fiume dei valdesi, uno sposalizio che ci godemmo superbamente soli. Le due acque si affiancarono e corsero parallele per centinaia di metri senza mescolarsi, diverse in colore, velocità e temperatura. Tirammo in secca le barche e ci tuffammo passando da un fiume all’altro nello spazio di un metro. Stranamente, il tributario era più caldo del fiume maggiore pur essendo più vicino alle nevi alpine. Un enigma che non avrei più risolto. Ma le confluenze celebrano altri misteri. A monte di Torino i tributari più meridionali del Po sono anche quelli che lo raggiungono più a settentrione, perché il fiume maggiore vira appunto a nord, e loro sono obbligati a un giro più largo per raggiungerlo. Per la stessa ragione il Pellice, teoricamente ultimo, intercetta il fiume per primo perché gli arriva da sinistra. E poi c’è l’enigma della Maira: assieme alla Grana, resta a lungo in bilico sull’impercettibile spartiacque tra la Varaita e la Stura di Demonte. Alla fine prende la direzione della prima, ma se per pochi centimetri fosse catturato dalla seconda, finirebbe nel Tanaro e quindi nelle acque d’Appennino. Per non parlare del fatto che l’asta del Po non è affatto la più lunga d’Italia, perché è il Tanaro a vincere, col treno d’acque che forma assieme alla Stura, la cui valle interminabile si allunga su fin nelle Alpi provenzali. Per non parlare della Dora Baltea, nettamente più lunga. La Maira dice che in un mondo subalpino segnato da dislivelli di migliaia di metri il destino di un fiume –come sostiene uno scrittore delle mie terre –può essere davvero “questione di grondaie”. Il sole scendeva e pensai fosse cosa buona accamparsi prima della diga di Casalgrasso, portatrice di pessima fama per via dei rottami di una diga incompiuta. Avrei voluto tirar su le nostre tende per studiarne l’aggiramento con calma, da un campo base attrezzato. Ma le rive erano diventate di approdo difficile: ripide, friabili e bucherellate da nidi di topini volanti. Provai a risalire la scarpata, e il terriccio mi si sfaldò sotto i piedi. Così la navigazione riprese, nella speranza di un terreno migliore. “La Varaita!”Alex gridò il nome dell’ennesimo affluente, il primo di destra, rimasto fino all’ultimo nascosto dalla vegetazione, e sperò come me che nel segreto delle sue sponde selvose si celasse un comodo punto di sbarco, a tiro della Statale 20 ben visibile sulla mappa. Ma risalire controcorrente fu duro, il fiume era impetuoso, troppo carico di forza alpina, e le rive intasate di salici e tronchi flottanti. Ci toccò desistere dopo appena cinquecento metri, per riconfluire sul Po. L’ultima occasione per un accampamento era perduta; ora dovevamo affrontare la diga di petto, senza aver preparato come si deve la manovra di aggiramento via terra. Il cataclisma La diga ci risucchiava veloci, e l’orrore si fece annunciare da una cava di ghiaia occupata da rugginose scavatrici abbandonate. Erano i resti fossili di un cataclisma. Le benne giurassiche erano state fulminate nell’atto di addentarsi fra loro. Pensai ai rottami di cingolati distrutti nei quali mi ero imbattuto un tempo sulla strada di Kabul: sullo sfondo delle nevi immacolate dell’Hindukush, quei fantastici mucchi di ruggine nella luce senape della sera afghana sembravano avere scelto accuratamente il loro posto per meglio ammonire sulla vacuità delle dominazioni. Oltre il ponte vecchio di Casalgrasso, l’acqua si fermò di colpo: lo sbarramento della malora ci chiudeva la strada come una cerniera lampo. Smettemmo di remare per studiare la situazione. Era davvero dura: una scarpata di massi sulla destra, una cascata sulla sinistra, invalicabili entrambe, e a pelo d’acqua ferri e ponteggi mai sgomberati dai padroni dell’energia. Come uscirne? Non avevamo guide, la parola scritta ci tradiva nuovamente. Il Po restava a secco di informazioni per il navigatore. A due passi da Torino, nel cuore di una delle pianure più popolate del globo, entravamo in uno spazio bianco dell’atlante. Gli orologi segnavano le quattro, e non eravamo affatto sicuri di farcela prima di notte. Uscire dall’acqua per studiare il terreno fu un affar serio. Sulla riva destra, dove l’approdo pareva più facile, le sponde erano una viscida medusa in putrefazione, una plastilina collosa che inghiottiva fino al polpaccio risucchiando anche i sandali. Eravamo in un aborto idroelettrico, una centrale mai nata, demolita da una piena ancora in fase di costruzione, un’oscenità contro natura, desertificata dall’incuria e calcificata dal sole come le pietraie della Dancalia. Pietroni scardinati, pozze d’acqua marcia color cobalto e, al culmine dello sfacelo, un ponte scosso da un incessante passaggio di camion. Un costo ambientale apocalittico per pochi kilowatt. Eppure eravamo, secondo le mappe, nel parco del Po. Uno spazio superprotetto. Grazie a una cima annodata a un ferro del calcestruzzo uscii dal fango, e mentre esploravo quel Mare della desolazione sentii urla lancinanti, come di bimbo. Grida di disperazione da qualche parte in alto, sui piloni. Era un piccolo gatto, intrappolato nell’orrore come noi. Ci misi tempo a individuarlo: il batuffolo era in bilico tra il guardrail e le arcate, a sette-otto metri di altezza, avvinghiato a un tubo d’acquedotto fissato sotto il battistrada. Non occuparsene sarebbe stato omissione di soccorso. Assordato dal tuono degli autoarticolati, indicai a gesti il cucciolo al buon Pierluigi, che nel frattempo aveva raggiunto il ponte scavalcando sbarre e transenne del cantiere, per studiare la situazione dall’alto. Il micio urlava come un’aquila, chissà dove trovava tutta quella voce. Pier lo individuò, gli tese le braccia e quello s’arrampicò con la forza della disperazione per buttarglisi addosso appena in tempo per non essere schiacciato dai camion. Erano già le cinque e mezzo, il sole bruciava, non ne venivamo a capo. Sconfitti a destra, provammo dall’altra parte fino a un pilone intasato di sterpaglia. Tirammo su le barche per una scarpata di erbe alte e detriti, e intanto Pier fece da balia al gatto, che gli spazzolò un’intera scatoletta di carne. Eravamo sfatti, un impasto di sudore e di polvere. Avevamo speso più energie a star fermi attorno a quella diga che in nove ore di discesa. Ci aveva raggiunto Neno, un amico di Flavio venuto da Torino a darci assistenza per quel dannato ricupero auto. Camminava leggero tra il mais come l’arcangelo Gabriele, annunciatore di birre fresche, tavole imbandite e docce liberatrici. Flavio e Alex, i due driver, se ne sarebbero andati con lui. Noialtri avremmo fatto un altro pezzo di fiume. Eravamo in quattro, sufficienti per tre canoe, ma tra noi e l’acqua c’era ancora un sesto grado di macerie. Fu un lavoro da piramidi: le barche, tirate da corde e sostenute a mano, rollarono in un mare in tempesta di rovi, scollinarono su un frangente di ruderi poi franarono sul bagnasciuga, e libera nos Domine dal fango, dalla polvere e dall’orrore.

Soli nella sera

 L’acqua ci rigenerò,
 divenne fonte battesimale, miracolo che rese lieve la fatica. Via, pensammo, via dalla diga dei veleni: qualsiasi cosa era meglio di quel luogo immondo e del tormentone del ricupero automobili. Volevamo svincolarci una volta per tutte dalle vie terrestri, caricare a bordo i bagagli e dormire dove capitava, come incursori, ma non c’era tempo per pensare a soluzioni alternative, erano passate le sette e avevamo ancora una dozzina di chilometri per il rendez-vous fissato con gli altri in quel di Carignano. Saremmo arrivati col buio, ma che importava. Era magnifica la vogata nel silenzio della sera. Mancava solo il micio miracolato, scomparso nel mais in cerca di topolini durante le operazioni di imbarco. Mi ritrovai solo sulla vecchia “Prospector”, ed essere soli in canoa significa sentire la voce del fiume. Cambiava tutto, anche la vogata. Diventava rotonda come un mezzo colpo di mestolo, ed era quello l’unico movimento praticabile per mantenere la direzione spingendo sempre sullo stesso lato. Il trucco, che si impara guardando i gondolieri, è usare il remo come propulsore e allo stesso tempo come timone: immergere la pagaia molto all’esterno, tirarla verso il bordo della canoa per correggere la rotta, poi girarla in senso ortogonale alla direzione, spingerla all’indietro e sfilarla diagonalmente dall’acqua del fiume, un po’distante dallo scafo, come un coltello che ha finito di imburrare un panino. Il remo che stringevo aveva bei fianchi piallati dal sole, dall’acqua e dal vento. E forse anche da troppe mani. Scese la sera color amaranto e, mentre vogavo in silenzio, mi vennero mille idee. Il bisogno di scrivere aumentò, divenne irresistibile. Ci provai, ma fu di nuovo una pena. Dovevo mollare da capo il remo, estrarre il taccuino dalla sacca impermeabile, rovistare nel marsupio in cerca della penna, scrivere in precario equilibrio sulla corrente, riporre il taccuino e la penna, sigillare la sacca, assicurarla con un moschettone, riprendere il remo. Era troppo. Ed erano bastate quelle operazioni a farmi perdere il contatto con gli altri. Così decisi di abbandonare le precauzioni e ficcare il taccuino in tasca. Mi sentii subito a mio agio, come un cowboy con le pistole nella fondina. Ero entrato in un magnifico silenzio della mente. Pier e Valentina erano avanti di mezzo chilometro, Angelo mi aveva sorpassato con la Pignatta, e io ero rimasto felicemente in coda. Provai un brivido a chiudere la carovana, la luce diventava senape, poi sentii la notte inseguirmi a passi lievi di leopardo. Il fiume s’inargentava, era il mio Rio de la Plata, potevo quasi comunicare con lui. Sillabavo formule magiche, inseguivo il canto delle acque, facevo rotolare bisbigli sulla corrente. La rotta stessa era scrittura, forse l’unica possibile. Tracciava senza saperlo una narrazione nuova sulla pergamena della corrente. L’albero storto Ma chi naviga non deve abbandonarsi troppo alla contemplazione. È la prima regola. E così, dopo la confluenza con la Maira, che mi aveva quasi spaventato tendendomi un agguato sulla destra, sempre seguendo il filo dei pensieri presi il ramo sbagliato del fiume, sulla sinistra anziché a destra di un’isola di ghiaia che si rivelò più lunga del previsto. Nella penombra non mi ero reso conto di avere imboccato la strada più difficile, e ormai la corrente mi stava risucchiando verso un albero che pencolava dalla riva a pelo d’acqua. Da quel momento feci uno sbaglio dopo l’altro; non usai il remo come timone, remai inutilmente nella direzione contraria, nel timore di cadere non mi inclinai col peso del corpo abbastanza per favorire la virata, e soprattutto non mi appiattii sul fondo della canoa per scansare il tronco quando mi venne addosso. E così mi rovesciai, perfettamente solo nel fiume. La corrente aveva scavato un bel fondale, così finii sotto la canoa rovesciata con una pittoresca giravolta. Fu una sequenza velocissima. Uscii dalla trappola con un colpo di reni, spinsi a nuoto la barca verso la riva ghiaiosa dell’isola e cercai inutilmente di vuotarla, rovesciandola. Niente da fare, era troppo pesante. Ma ero improvvisamente lucido e tranquillo. Svegliato dall’adrenalina, l’istinto di sopravvivenza aveva annichilito ogni fantasticheria. Feci l’inventario, vidi che non avevo perso nulla, le sacche stagne erano ancora agganciate. Solo allora capii che il diario era finito sotto, perché l’avevo appena tolto dalla custodia impermeabile. Lo estrassi dalle braghe: grondava acqua e inchiostro. Era illeggibile, ma non me ne fregava niente, tanto non avevo scritto niente di speciale. Sapevo che non è sempre un dramma perdere gli appunti, anzi, a volte può essere utile a rileggere una storia. Ma stavolta il segnale di sfiducia verso la parole scritta era troppo forte. Dovevo tenerne conto in qualche modo. Valentina e Pier, che avevano assistito al naufragio da lontano, risalirono l’isola a piedi per darmi manforte. Rimettemmo la barca in assetto, e riuscii perfino a cambiarmi, grazie ai vestiti asciutti nelle sacche. Ma annottava, e mancavano cinque chilometri ancora. Pagaiare al buio fu un’esperienza. L’ultimo filo di Po si srotolò sotto un festival di lampi violetti spremuti da nubi enormi. “Quanto per Carignano?”gridammo nella notte a una coppia con barbecue, che si spaventò. Migliaia di corvi urlanti passarono diretti a sud-ovest, poi tornò il silenzio. Il fiume ci portava quietamente, ormai ne eravamo parte.