giovedì 24 gennaio 2019


SEROTONINA
Michel Houllebecq

  Per il protagonista Florent la profonda frattura fra se stesso e il mondo può essere sanata solo dalla figura femminile. Ma questo avviene solo nel ricordo della donna, insieme con  la scoperta che il recupero della memoria genera a sua volta un circolo vizioso di emozioni, che diventa un ulteriore contributo all’apatia del  vivere. Questo perché essendo impossibile ricreare il passato nel presente, si viene inghiottiti dalla disperazione generata dall’assenza. Il racconto di Houllebecq si sviluppa come percorso che, attraverso il ricordo delle donne del passato, diventa un viaggio dentro gli angoli bui del proprio male di vivere.


SEROTONINA. 
È una piccola compressa bianca, ovale, divisibile. Verso le cinque o a volte le sei di mattina mi sveglio, il bisogno è al culmine, è il momento più doloroso della mia giornata. Il mio primo gesto è attivare la caffettiera elettrica; la sera prima ho riempito il serbatoio di acqua e il filtro di caffè macinato (di solito è Malongo, sono rimasto piuttosto esigente in fatto di caffè). Mi accendo una sigaretta solo dopo aver bevuto un primo sorso; è una costrizione che mi impongo, un successo quotidiano che è diventato il mio principale motivo di orgoglio (va comunque detto che il funzionamento delle caffettiere elettriche è rapido). Il sollievo che mi dà la prima boccata è immediato, di una violenza stupefacente. La nicotina è una droga perfetta, una droga semplice e dura, che non dà nessuna gioia, che si definisce interamente con l’astinenza, e con la cessazione dell’astinenza. Qualche minuto più tardi, dopo due o tre sigarette, prendo una compressa di Captorix con un quarto di bicchiere di acqua minerale –in genere Volvic. Ho quarantasei anni, mi chiamo Florent-Claude Labrouste e detesto il mio nome, credo che derivi da due parenti che mio padre e mia madre, ciascuno dal proprio lato, volevano onorare; la cosa è ancor più spiacevole dal momento che non ho nulla da rimproverare ai miei genitori, sono stati genitori eccellenti sotto ogni aspetto, hanno fatto del proprio meglio per darmi le armi necessarie nella lotta per la vita, e se alla fine ho fallito, se la mia vita si conclude nella tristezza e nella sofferenza, non posso imputarlo a loro bensì a una spiacevole concatenazione di circostanze sulla quale avrò modo di tornare –e che a dire il vero costituisce proprio l’argomento di questo libro –non ho assolutamente niente da rimproverare ai miei genitori a parte questo minimo, questo fastidioso ma minimo episodio del nome, non solo trovo ridicola la combinazione Florent-Claude ma mi disturbano di per sé i suoi elementi, insomma considero questo nome del tutto sbagliato. Florent è troppo dolce, troppo vicino al femminile Florence, in un senso quasi androgino. Non corrisponde affatto al mio viso dai lineamenti energici, perfino brutali per certi versi, che è stato spesso (almeno da alcune donne) considerato virile ma mai, proprio mai, il viso di un finocchio botticelliano. Quanto a Claude neanche a parlarne, mi fa pensare subito alle Claudettes, e appena sento pronunciare questo nome mi torna in mente un agghiacciante video vintage di Claude François ripassato a ripetizione in una serata di vecchi froci. Cambiare nome non è difficile, ovviamente non intendo dal punto di vista amministrativo, dal punto di vista amministrativo non è possibile quasi niente, l’amministrazione ha come scopo ridurre al massimo le tue possibilità di vita, sempre che non riesca molto semplicemente a distruggerla, dal punto di vista dell’amministrazione un buon amministrato è un amministrato morto, parlo più semplicemente dal punto di vista dell’uso: basta presentarsi con un nome nuovo e nel giro di qualche mese o perfino di qualche settimana si adeguano tutti, non viene neanche più in mente a nessuno che in passato ti sia potuto chiamare in maniera diversa. Nel mio caso l’operazione sarebbe stata tanto più semplice in quanto il mio secondo nome, Pierre, corrispondeva appieno all’immagine di fermezza e virilità che avrei voluto comunicare al mondo. Però non ho fatto niente, ho continuato a lasciarmi chiamare con questo schifoso nome Florent-Claude, sono solo riuscito a ottenere da alcune donne (per la precisione da Camille e da Kate, ma ci tornerò, ci tornerò) che si limitassero a Florent, dalla società in generale non ho ottenuto niente, su questo punto come su quasi tutti gli altri mi sono lasciato sballottare dalle circostanze, ho dimostrato la mia incapacità di riprendere in mano la mia vita, in realtà la virilità che sembrava sprigionarsi dal mio viso squadrato coi suoi spigoli schietti e dai miei tratti marcati era solo un inganno, una pura e semplice fregatura –della quale, certo, non ero responsabile, Dio aveva disposto di me ma io ero soltanto, in realtà ero soltanto, ero sempre stato soltanto un inconsistente culattone, e ormai avevo quarantasei anni, non ero mai stato capace di controllare la mia vita, in poche parole mi sembrava molto probabile che la seconda parte della mia esistenza fosse destinata a essere, come la prima, solo un’estenuata e dolorosa prostrazione. I primi antidepressivi noti (Seroplex, Prozac) aumentavano il tasso di serotonina nel sangue inibendone la ricaptazione da parte dei neuroni 5-HT1. All’inizio del 2017, la scoperta del Capton D-L aprì la strada a una nuova generazione di antidepressivi dal meccanismo in fondo più semplice, dato che si trattava di favorire la liberazione per esocitosi della serotonina prodotta a livello della mucosa gastrointestinale. Alla fine di quell’anno il Capton D-L fu messo in commercio con il nome di Captorix. Si rivelò subito di un’efficacia sorprendente, permettendo ai pazienti di affrontare con inedita spigliatezza i principali riti di una vita normale in seno a una società evoluta (toeletta, vita sociale ridotta al buon vicinato, pratiche amministrative semplici) senza minimamente favorire, come gli antidepressivi della generazione precedente, le tendenze al suicidio o all’automutilazione. Gli effetti secondari indesiderabili del Captorix riscontrati più spesso erano la nausea, la scomparsa della libido, l’impotenza. Io non avevo mai sofferto di nausea. La storia comincia in Spagna, nella provincia di Almería, esattamente cinque chilometri a nord di El Alquián, sulla N340. Eravamo all’inizio dell’estate, di sicuro verso metà luglio, decisamente sul finire degli anni 2010 –credo che Emmanuel Macron fosse presidente della Repubblica. C’era bel tempo e faceva molto caldo, come sempre nel Sud della Spagna in quella stagione. Era primo pomeriggio e il mio 4 × 4 Mercedes G350 TD era fermo nel parcheggio della stazione di servizio Repsol. Avevo appena fatto il pieno e stavo lentamente bevendo una Coca Zero, addossato alla carrozzeria, in preda a una crescente tristezza al pensiero che l’indomani sarebbe arrivata Yuzu, quando un Maggiolino Volkswagen si fermò nell’area per il gonfiaggio degli pneumatici. Ne scesero due ragazze sulla ventina, già da lontano si vedeva che erano stupende, in quegli ultimi tempi avevo dimenticato fino a che punto potessero essere stupende le ragazze, quella vista mi scioccò, come una specie di colpo di scena esagerato, fasullo. L’aria era così calda da sembrare animata da una leggera vibrazione, così come l’asfalto del parcheggio, erano le condizioni ideali per l’apparizione di un miraggio. Ma le ragazze erano reali, e fui preso da un leggero panico quando una delle due venne verso di me. Aveva i capelli castano chiari, lunghi e leggermente ondulati, la fronte cinta da una stretta striscia di cuoio con motivi geometrici colorati. Una striscia di cotone bianco le copriva alla bell’e meglio il seno, e la gonna corta, ondeggiante, anch’essa di cotone bianco, sembrava pronta a sollevarsi al minimo soffio d’aria –ma non c’era il minimo soffio d’aria, Dio è clemente e misericordioso. Era calma, sorridente, e non sembrava avere affatto paura –la paura, diciamolo chiaramente, era sul mio versante. Nei suoi occhi c’erano bontà e felicità –capii al primo sguardo che nella sua vita c’erano state solo esperienze felici con gli animali, gli uomini e perfino i datori di lavoro. Perché mi veniva incontro, giovane e desiderabile, in quel pomeriggio d’estate? Lei e l’amica volevano controllare la pressione dei loro pneumatici (cioè degli pneumatici della loro auto, mi sono espresso male). È un accertamento cautelare raccomandato dagli enti di tutela stradale in quasi tutti i paesi civili, e perfino in alcuni altri. Quella ragazza, dunque, non era solo bella e desiderabile, era altresì prudente e assennata, la mia ammirazione per lei aumentava a ogni istante. Potevo rifiutarle il mio aiuto? Evidentemente no. La sua amica era più conforme agli standard che ci si aspetta nelle spagnole –capelli di un nero intenso, occhi di un bruno profondo, pelle olivastra. Il suo look era un po’meno hippy cool, o meglio sembrava anche lei molto cool ma meno hippy e con un leggero tocco da zoccola, un anello d’argento trapassava la sua narice sinistra, la striscia che le copriva il seno era policroma, di un grafismo aggressivo, attraversata da slogan che potremmo definire punk, o rock, ho dimenticato la differenza, diciamo slogan punk-rock per semplificare. Diversamente dall’amica aveva gli shorts, e questo era perfino peggio, non so perché si fabbrichino shorts così aderenti, era impossibile non essere ipnotizzato dal suo culo. Era impossibile, e non lo feci, però tornai quasi subito a concentrarmi sulla situazione. La prima cosa da fare, spiegai, era individuare la pressione di gonfiaggio consigliata in base al modello dell’auto in questione: di solito era riportata su una targhetta metallica avvitata sulla parte inferiore dello sportello anteriore sinistro. La targhetta si rivelò essere proprio nel punto indicato, e sentii gonfiarsi la loro considerazione per le mie competenze virili. La macchina non era molto carica –in effetti i loro bagagli erano incredibilmente pochi, due borse leggere che dovevano contenere qualche perizoma e i consueti prodotti di bellezza –una pressione di 2,2 Bar era più che sufficiente. Restava da provvedere all’operazione di gonfiaggio vera e propria. La pressione dello pneumatico anteriore sinistro, constatai in prima battuta, era di appena 1,0 Bar. Mi rivolsi loro con gravità, ossia con la leggera severità consentita dalla mia età: avevano fatto bene a consultarmi, non c’era tempo da perdere, senza saperlo si trovavano in serio pericolo: il gonfiaggio insufficiente poteva causare perdita di aderenza, imprecisione nella traiettoria, l’incombere di un incidente era quasi certo. Loro reagirono con emozione e innocenza, la castana mi mise una mano sull’avambraccio. Va comunque detto che servirsi di quegli affari è una gran rottura di palle, bisogna spiare il sibilo del meccanismo e spesso tocca annaspare per riuscire a infilare il raccordo sulla valvola, in realtà è più facile scopare, è più intuitivo, ero sicuro che sarebbero state d’accordo con me ma non vedevo come affrontare l’argomento, insomma gonfiai lo pneumatico anteriore sinistro, poi di seguito quello posteriore sinistro, loro erano accoccolate accanto a me, seguivano i miei gesti con estrema attenzione, ciangottando nella loro lingua di “Chulo”e di “Claro que sí”, poi passai loro l’arnese invitandole risolutamente a occuparsi degli altri pneumatici sotto la mia paterna supervisione. La bruna, che intuivo più impulsiva, si dedicò immediatamente allo pneumatico anteriore destro, e a quel punto diventò durissimo, con lei inginocchiata e le sue natiche fasciate dai minishort, di una rotondità davvero perfetta, che si muovevano seguendo i suoi tentativi di tenere a bada il raccordo, credo che la castana compatisse il mio turbamento, per qualche istante mi passò perfino il braccio intorno alla vita, un braccio sororale. Infine arrivò il momento dello pneumatico posteriore destro, di cui s’incaricò la castana. La tensione erotica era meno intensa, ma vi si sovrapponeva dolcemente una tensione amorosa, giacché sapevamo tutti e tre che quello era l’ultimo pneumatico, e che poi non avrebbero avuto altra scelta che riprendere la strada. Tuttavia rimasero con me ancora per qualche minuto, intrecciando ringraziamenti e gesti graziosi, e il loro atteggiamento non era interamente teorico, o almeno questo è quanto mi dico adesso, a molti anni di distanza, quando mi capita di ricordare che ho avuto, in passato, una vita erotica. Si soffermarono sulla mia nazionalità –francese, non credo di averlo detto –, su quanto trovassi piacevole quella regione e in particolare mi chiesero se conoscessi qualche posto carino. In un certo senso sì, proprio di fronte alla mia residenza c’era un bar di tapas, che serviva anche abbondanti prime colazioni. C’era pure un locale notturno, un po’più distante, che con una certa generosità si poteva definire carino. Da me avevo posto, avrei potuto ospitarle almeno una notte, e ho la netta sensazione (ma sto sicuramente fantasticando a posteriori) che la cosa avrebbe potuto essere davvero carina. Ma non dissi niente di tutto ciò, mi limitai a sintetizzare, spiegando a grandi linee che la regione era piacevole (il che era vero) e che mi ci sentivo felice (il che era falso, e l’imminente arrivo di Yuzu non avrebbe migliorato le cose). Infine se ne andarono, con ampi gesti di saluto, il Maggiolino Volkswagen fece inversione nel parcheggio e imboccò la via d’accesso alla nazionale. A quel punto avrebbero potuto succedere varie cose. Se fossimo stati in una commedia romantica, dopo qualche secondo di esitazione drammatica (cruciale in quella fase la mimica dell’attore, penso che Kev Adams se la sarebbe cavata bene) sarei balzato al volante del mio 4 × 4 Mercedes, avrei rapidamente raggiunto il Maggiolino sull’autostrada e l’avrei sorpassato facendo ampi gesti un po’fessi col braccio (di quelli che fanno gli attori nelle commedie romantiche), il Maggiolino si sarebbe fermato nella corsia d’emergenza (in realtà, credo che in una commedia romantica classica ci sarebbe stata solo una ragazza, di sicuro la castana) e a quel punto ci sarebbero state varie azioni umane commoventi, tra le folate dei tir che sfrecciavano a qualche metro da noi. Per quella scena, l’autore dei dialoghi avrebbe dovuto darsi molto da fare. Se fossimo stati in un film porno, il seguito sarebbe stato ancor più prevedibile, ma minore l’importanza del dialogo. Tutti gli uomini vorrebbero ragazze fresche, ecologiche e disposte al trio –cioè, quasi tutti gli uomini, io di sicuro. Eravamo nella realtà, perciò tornai a casa. Avevo un’erezione, cosa tutt’altro che sorprendente alla luce di com’era andato quel pomeriggio. La affrontai con i mezzi consueti. Quelle ragazze, e in particolar modo la castana, avrebbero potuto dare un senso al mio soggiorno spagnolo, e la conclusione deludente e banale del mio pomeriggio non fece che sottolineare crudelmente un’evidenza: non avevo nessun motivo di essere lì. Avevo acquistato quell’appartamento con Camille, e per lei. Era il periodo in cui pensavamo a progetti di coppia, un ancoraggio familiare, un mulino romantico nella Creuse o chissà cos’altro, forse l’unica cosa cui non avessimo pensato era produrre figli –ma a un certo punto ci mancò poco. Fu il mio primo acquisto immobiliare, ed è rimasto l’unico. Il posto le era piaciuto subito. Era una piccola stazione naturista, calma, lontana dagli enormi complessi turistici che si susseguono dall’Andalusia verso occidente, e la cui popolazione era costituita essenzialmente da pensionati dell’Europa del Nord –tedeschi, olandesi, in via accessoria svedesi, con ovviamente gli inevitabili inglesi, mentre stranamente non c’erano belgi, sebbene tutto in quella stazione –l’architettura dei villini, la strutturazione dei centri commerciali, l’arredamento dei bar –sembrasse reclamare la loro presenza, in effetti era proprio un posto da belgi. I residenti avevano lavorato perlopiù nell’insegnamento, nella pubblica amministrazione in senso lato o nelle professioni intermedie. Adesso vivevano i loro ultimi anni serenamente, non erano mai gli ultimi all’ora dell’aperitivo, e trascinavano bonariamente dal bar alla spiaggia e dalla spiaggia al bar le loro natiche cascanti, i loro seni ridondanti e i loro cazzi inattivi. Non facevano storie, non provocavano nessun conflitto di vicinato, stendevano con civismo un asciugamano sulle sedie di plastica del No Problemo prima di immergersi, con attenzione esagerata, nell’esame di un menu peraltro breve (all’interno della stazione era mutuo riguardo, tramite l’apposizione di un asciugamano, evitare il contatto tra un mobile di uso collettivo e le parti intime, probabilmente umide, degli avventori). Un’altra clientela, meno numerosa ma più attiva, era costituita da alcuni hippy spagnoli (adeguatamente rappresentati, me ne rendevo conto con dolore, dalle due ragazze che mi avevano requisito per il gonfiaggio dei loro pneumatici). A questo punto non sarà inutile una breve divagazione sulla storia recente della Spagna. Alla morte del generale Franco, nel 1975, la Spagna (la gioventù spagnola, per essere più precisi) si trovò di fronte a due tendenze opposte. La prima, prodotta direttamente dagli anni sessanta, teneva in gran conto il libero amore, la nudità, l’emancipazione dei lavoratori e cose del genere. La seconda, che si sarebbe imposta definitivamente negli anni ottanta, valorizzava invece la competizione, il porno estremo, il cinismo e le stock options, chiaramente sto semplificando ma se non si semplifica non si conclude niente. I rappresentanti della prima tendenza, la cui sconfitta era programmata in partenza, andarono via via ripiegando verso riserve naturali simili alla modesta stazione naturista nella quale avevo acquistato un appartamento. Ma quella sconfitta programmata era davvero avvenuta? Alcuni fenomeni ben posteriori alla morte del generale Franco potevano far pensare il contrario, vedi il movimento degli Indignados. Così come, più recentemente, la presenza delle due ragazze nella stazione di servizio Repsol di El Alquián in quel pomeriggio sconcertante e funesto –la femmina dell’indignado era un’indignada? dunque mi ero trovato in presenza di due stupende indignadas? Non lo saprò mai, non ero stato capace di avvicinare la mia vita alla loro, eppure avrei potuto proporre a entrambe di visitare il mio villaggio naturista, lì si sarebbero trovate nel loro habitat naturale, forse la bruna se ne sarebbe andata ma io sarei stato felice con la castana, in effetti alla mia età la faccenda delle promesse di felicità era un po’confusa, ma per diverse notti dopo quell’incontro sognai che la castana venisse a bussare alla mia porta. Era venuta a cercarmi, la mia erranza in questo mondo era finita, la castana era tornata per salvare con un singolo gesto il mio cazzo, il mio essere e la mia anima. “E nella mia casa, liberamente e audacemente, entra da padrona.”In alcuni di quei sogni mi diceva che l’amica bruna aspettava in macchina per sapere se potesse salire e unirsi a noi; ma quella versione di sogno andò facendosi sempre più rara, la trama si semplificava e alla fine non ci fu neanche più trama, subito dopo averle aperto la porta entravamo in uno spazio luminoso, irriferibile. Quelle fantasticherie si susseguirono per poco più di due anni –ma non anticipiamo. Per adesso c’era che l’indomani pomeriggio mi toccava andare a prendere Yuzu all’aeroporto di Almería. Non era mai venuta nella stazione naturista ma ero certo che l’avrebbe odiata. Per i pensionati nordici avrebbe provato solo schifo, per gli hippy spagnoli solo disprezzo, nessuna di quelle due categorie (che coabitavano tra loro senza grandi difficoltà) poteva integrarsi nella sua visione elitaria della vita sociale e del mondo in generale, tutta quella gente era chiaramente priva di classe, d’altronde io stesso ero privo di classe, avevo solo soldi, perfino un bel po’di soldi, in seguito a circostanze che forse riferirò quando avrò tempo, e una volta detto questo si era praticamente detto tutto ciò che ci fosse da dire sulla mia relazione con Yuzu, ovviamente dovevo lasciarla, era evidente e in realtà non avremmo mai dovuto neppure convivere, solo che mi ci voleva molto tempo, moltissimo tempo, per riprendere in mano la mia vita, come ho già detto, e per la maggior parte del tempo non ero neanche in grado di provarci. Trovai facilmente posto all’aeroporto, il parcheggio era sovradimensionato, come d’altronde qualsiasi cosa in quella regione, concepita a misura di un successo turistico colossale che non era mai arrivato. Era da mesi che non andavo a letto con Yuzu, e soprattutto non pensavo di ricominciare a farlo in nessun caso, per vari motivi che sicuramente spiegherò più avanti, in fondo non riuscivo proprio a capire perché avessi organizzato quelle vacanze, ed ero già dell’idea, mentre aspettavo sul sedile di plastica nell’atrio degli arrivi, di dar loro una scadenza più ravvicinata –avevo previsto due settimane, una settimana sarebbe stata più che sufficiente, avrei mentito riguardo ai miei impegni professionali, quella stronza non avrebbe potuto obiettare niente, dipendeva interamente dalla mia grana, il che mi dava quantomeno qualche diritto. L’aereo da Parigi-Orly era in orario, la sala degli arrivi era piacevolmente climatizzata e semideserta –era chiaro che nella provincia di Almería il turismo sprofondava sempre di più. Quando il tabellone elettronico annunciò che l’aereo era appena atterrato, fui tentato di alzarmi e raggiungere il parcheggio –Yuzu non aveva la minima idea dell’indirizzo, non poteva rintracciarmi in nessun modo. Riflettei rapidamente: prima o poi dovevo pur tornare a Parigi, anche solo per motivi professionali, d’altronde il mio lavoro al ministero dell’Agricoltura mi aveva stufato più o meno quanto la mia compagna giapponese, stavo attraversando un gran brutto momento, c’è gente che si suicida per molto meno. Era come al solito spietatamente truccata, quasi verniciata, il rossetto scarlatto e l’ombretto purpureo sottolineavano il suo pallore, la sua pelle “di porcellana”come si dice nei romanzi di Yves Simon, in quel momento ricordai che non si esponeva mai al sole, la pelle smorta (la pelle di porcellana, per dirla con le parole di Yves Simon) era considerata il massimo della distinzione dai
 giapponesi, ma cosa si fa in una località balneare spagnola se ci si rifiuta di esporsi al sole, quel progetto di vacanze era decisamente assurdo, quella sera stessa mi sarei occupato di cambiare le prenotazioni degli alberghi sulla strada del ritorno, una settimana era già troppo, perché non conservarsi qualche giorno in primavera per i ciliegi in fiore a Kyoto? Con la castana sarebbe stato tutto diverso, si sarebbe spogliata sulla spiaggia senza risentimento né disprezzo, come un’obbediente figlia di Israele, i rotolini di ciccia delle grosse pensionate tedesche non l’avrebbero infastidita (sapeva bene che quello era il destino delle donne, fino all’avvento del Cristo in gloria), avrebbe offerto al sole (e ai pensionati tedeschi, che non ne avrebbero perso neppure un millimetro) il sontuoso spettacolo delle sue natiche perfettamente rotonde, della sua fica pura e tuttavia depilata (poiché Dio ha permesso l’abbinamento), e io mi sarei arrapato di nuovo, mi sarei arrapato come un mammifero, ma lei non me l’avrebbe preso in bocca direttamente in spiaggia, quella era una stazione naturista per famiglie, avrebbe evitato di scioccare le pensionate tedesche che facevano esercizi di hatha yoga sulla spiaggia all’alba, tuttavia avrei sentito che desiderava farlo e la mia virilità ne sarebbe stata come rigenerata, ma lei avrebbe aspettato che fossimo in acqua, a una cinquantina di metri dalla riva (la pendenza della spiaggia era molto leggera) per offrire le sue parti umide al mio fallo trionfante, e successivamente avremmo cenato con arroz con bogavante in un ristorante di Garrucha, romanticismo e pornografia non sarebbero stati più divisi, la bontà del Creatore si sarebbe manifestata con forza, insomma i miei pensieri se ne andavano qua e là ma riuscii comunque a mimare una vaga espressione di soddisfazione vedendo Yuzu entrare nell’atrio degli arrivi in mezzo a un’orda compatta di saccopelisti australiani. Ci scambiammo un bacetto, in pratica le nostre guance si sfiorarono ma di sicuro era già troppo, lei si sedette subito, aprì il beauty (il cui contenuto era strettamente conforme alle norme imposte ai bagagli a mano da tutte le compagnie aeree) e cominciò a rifarsi il trucco senza prestare la minima attenzione al nastro di riconsegna dei bagagli –chiaramente toccava a me sobbarcarmeli. I suoi bagagli li conoscevo bene, dai e ridai, erano di una marca famosa che avevo dimenticato, Zadig & Voltaire o forse Pascal & Blaise, la cui idea era stata comunque riprodurre su tessuto una di quelle carte geografiche del Rinascimento in cui l’orbe terraqueo era rappresentato in maniera molto approssimativa, ma con didascalie vintage del tipo “Colà ànno da esserci le tighri”, insomma erano bagagli chic, la loro esclusività era confermata dal fatto di non essere dotati di rotelle, contrariamente alle volgari Samsonite per quadri medi, quindi bisognava proprio sobbarcarseli, come i bauli delle dame vittoriane. Come tutte le nazioni dell’Europa occidentale, la Spagna, impegnata in un fatale processo di incremento della produttività, aveva a poco a poco soppresso tutti i lavori non qualificati che un tempo contribuivano a rendere la vita un po’meno spiacevole, condannando al tempo stesso la maggior parte della sua popolazione alla disoccupazione di massa. Bagagli come quelli, che fossero firmati Zadig & Voltaire oppure Pascal & Blaise, avevano senso solo in una società in cui esistesse ancora il ruolo di facchino. Sembrava che non fosse più quello il caso, e invece lo era, mi dissi prendendo uno dopo l’altro dal nastro trasportatore i due bagagli di Yuzu (una valigia e un borsone da viaggio di peso pressoché identico, insieme dovevano pesare una quarantina di chili): il facchino ero io. Svolgevo anche il ruolo di autista. Poco dopo esserci immessi nell’autostrada A7, lei accese l’iPhone e collegò gli auricolari per poi coprirsi gli occhi con una mascherina impregnata di lozione decongestionante all’aloe vera. In direzione sud, quella che andava verso l’aeroporto, era un’autostrada che poteva essere pericolosa, non era raro che un autista di tir lettone o bulgaro perdesse il controllo dell’automezzo. Nella direzione opposta, le flottiglie di camion che alimentavano l’Europa del Nord con ortaggi da serra raccolti da clandestini maliani si erano appena messe in viaggio, gli autisti non erano ancora in carenza di sonno, e superai una trentina di camion senza alcun problema prima di raggiungere l’uscita 537. All’ingresso della lunga curva che portava al viadotto a strapiombo sulla Rambla del Tesoro, la strada era priva di guardrail per quasi mezzo chilometro; per farla finita bastava che evitassi di girare il volante. In quel punto il pendio era molto ripido, tenendo conto della velocità acquisita ci si poteva aspettare un percorso netto, la vettura non avrebbe neanche toccato il declivio roccioso, si sarebbe direttamente schiantata cento metri più in basso, un istante di terrore puro e poi sarebbe finita, avrei reso al Signore la mia anima incerta. Il cielo era sereno e l’aria tersa, mi avvicinai rapidamente all’ingresso della curva. Chiusi gli occhi stringendo le mani sul volante, ci furono alcuni secondi di equilibrio paradossale e pace assoluta, di sicuro meno di cinque, in cui ebbi l’impressione di essere uscito dal tempo. Con un movimento convulso, assolutamente involontario, sterzai violentemente a sinistra. Appena in tempo, la ruota anteriore destra morse per pochi istanti la banchina sassosa. Yuzu si strappò la mascherina e gli auricolari. “Che succede? Che succede?”ripeté con rabbia ma anche con un po’di paura, e io cominciai giocare un po’su quella paura. “Va tutto bene...”dissi più sommessamente che potevo, con l’intonazione untuosa di un serial killer educato, per me Anthony Hopkins era un modello, entusiasmante e quasi insuperabile, insomma uno di quegli uomini che a un certo punto della vita hai bisogno di incontrare. Ripetei ancor più sommessamente, quasi subliminalmente: “Va tutto bene...”In realtà non andava affatto bene. Avevo appena fallito il mio secondo tentativo di liberazione. Come mi aspettavo, Yuzu accolse con calma la mia decisione di ridurre a una settimana il nostro periodo di vacanza, tentando solo di non manifestare una soddisfazione esagerata, e i miei impegni di lavoro sembrarono convincerla all’istante; la verità è che non gliene fregava assolutamente niente. Peraltro il mio pretesto non era del tutto tale, dato che ero partito senza aver consegnato la nota di sintesi sui produttori di albicocche del Roussillon, nauseato dall’inutilità del mio compito, essendo evidente che, appena gli accordi di libero scambio attualmente in fase di negoziazione con i paesi del Mercosur fossero stati firmati, i produttori di albicocche non avrebbero avuto più nessuna speranza, la protezione offerta dalla DOP “albicocca rossa del Roussillon”era solo una ridicola presa in giro, l’invasione delle albicocche argentine era inevitabile, i produttori di albicocche del Roussillon potevano considerarsi sin d’ora virtualmente morti, non ne sarebbe rimasto neanche uno, non uno soltanto, neppure un sopravvissuto per contare i cadaveri. Lavoravo, credo di non averlo ancora detto, al ministero dell’Agricoltura, il mio compito principale consisteva nel redigere note e rapporti destinati a consulenti negoziatori perlopiù in seno alle amministrazioni europee, talvolta nell’ambito di cerchie commerciali più ampie, il cui ruolo era “definire, sostenere e rappresentare le posizioni dell’agricoltura francese”. Il mio contratto a termine mi garantiva uno stipendio alto, ben superiore a quello che le norme vigenti avrebbero permesso di assegnare a un funzionario. Quello stipendio era per certi versi giustificato, l’agricoltura francese è complessa e composita, sono pochi quelli in grado di padroneggiare le specificità di tutti i vari rami, in genere i miei rapporti erano apprezzati, si lodava la mia capacità di andare all’essenziale, di non perdermi in una miriade di cifre, e piuttosto di saper isolare gli elementi chiave. Per contro, nella mia difesa delle posizioni agricole della Francia avevo inanellato solo un’impressionante serie di fallimenti, ma in fondo quei fallimenti non erano miei, erano ben più direttamente quelli dei consulenti negoziatori, specie rara e inutile la cui boria non era minimamente intaccata dai ripetuti fiaschi, avevo avuto a che fare personalmente con alcuni di loro (molto di rado, in genere comunicavamo via e-mail) ed ero uscito scoraggiato da quegli incontri, di solito si trattava non di ingegneri agronomi bensì di ex allievi di scuole di commercio, ho sempre provato solo ribrezzo per il commercio e tutto ciò che abbia che fare con esso, ai miei occhi l’idea di “studi commerciali superiori”è una profanazione del concetto stesso di studi, ma in fondo era normale che per il ruolo di consulente negoziatore ci si affidasse a gente giovane che proveniva dalle HEC, 1 la negoziazione è sempre la stessa, che si negozino albicocche o pasticcini di Aix o cellulari o razzi Ariane, la negoziazione è un universo autonomo, che obbedisce a leggi sue proprie, un universo per sempre inaccessibile ai non-negoziatori. Ripresi comunque i miei appunti sui produttori di albicocche del Roussillon, andai nella stanza di sopra (era un duplex) e per una settimana non vidi quasi per niente Yuzu, nei primi due giorni mi sforzai di scendere da lei, di mantenere l’illusione di un letto coniugale, ma poi rinunciai, presi l’abitudine di mangiare per conto mio in quel bar di tapas che in effetti era proprio carino e nel quale mi ero lasciato sfuggire l’occasione di portare la castana di El Alquián, e col passare dei giorni mi rassegnai a passarci tutti i pomeriggi, quel lasso di tempo commercialmente informe ma socialmente incomprimibile che in Europa separa il pranzo dalla cena. L’atmosfera era rilassante, c’erano persone un po’come me ma in peggio, nel senso che avevano venti o trent’anni più di me e per loro il verdetto era stato emesso, erano sconfitti, di pomeriggio c’erano molti vedovi in quel bar di tapas, i naturisti conoscono anche la vedovanza, in realtà c’erano soprattutto vedove, e anche un certo numero di vedovi omosessuali il cui compagno più fragile si era involato nel paradiso dei finocchi, peraltro in quel bar di tapas manifestamente plebiscitato dagli ultracinquantenni per concludervi la propria vita sembrava che le distinzioni di orientamento sessuale si fossero dissolte, a vantaggio di distinzioni più piattamente nazionali: tra i tavoli in terrazza si poteva facilmente distinguere l’angolo degli inglesi da quello dei tedeschi; io ero l’unico francese; quanto agli olandesi, erano praticamente delle puttane che andavano a sedersi dove capitava, non si dirà mai abbastanza quanto gli olandesi siano una razza di commercianti poliglotti e opportunisti. E il tutto si abbrutiva tranquillamente a colpi di cervezas e di platos combinados, di solito l’atmosfera era molto calma e il tono delle conversazioni misurato. Ma ogni tanto si abbatteva un’ondata giovanile di indignados proveniente direttamente dalla spiaggia, i capelli delle ragazze erano ancora bagnati e nel locale il livello sonoro saliva di colpo. Non ho idea di cosa facesse nel frattempo Yuzu giacché non si esponeva al sole, di sicuro guardava qualche serie giapponese on-line; mi chiedo ancora oggi cosa potesse davvero capire della situazione. Un semplice gaijin come me, neppure proveniente da un ambiente fuori dal comune ma semplicemente in grado di portare a casa uno stipendio buono pur senza essere mirabolante, avrebbe dovuto sentirsi infinitamente onorato di condividere l’esistenza già solo di una giapponese, ma nel suo caso per giunta di una giapponese giovane, sexy, appartenente a una famiglia giapponese illustre e perfino in contatto con gli ambienti artistici più avanzati dei due emisferi, su quel piano la teoria era inattaccabile, non c’era dubbio che fossi appena degno di allacciarle i sandali, il problema è che manifestavo un’indifferenza sempre più villana nei confronti sia della sua condizione sia della mia, una sera che ero sceso in cucina a prendere un paio di birre nel frigo la urtai e mi lasciai sfuggire uno “scansati razza di stronza”per poi afferrare la confezione da sei di San Miguel e un chorizo sbocconcellato. Immagino che in quella settimana si sia sentita un po’disorientata, ricordare l’eccellenza della propria condizione sociale non è certo facile quando l’altro rischia per tutta risposta di ruttarti in faccia o