domenica 27 gennaio 2019


NOI
Evgenij Zamjàtin
Il capolavoro (che inaugura il filone anti-utopico) di Zamjàtin, col quale cento anni fa l'autore emise un giudizio implacabile sul regime sovietico che era appena nato.

[...] Spetterà
a voi  di  piegare  al benefico  giogo  della  ragione  gli esseri  ignoti  che  abitano sugli  altri
pianeti,  forse  ancora  nello stato selvaggio della  libertà.  Se essi  non comprenderanno  che  noi  portiamo loro  la  felicità  matematicamente esatta,  è nostro  dovere  costringerli ad
essere  felici.[...]

Dalla Prefazione di Ettore Lo Gatto (edizione Feltrinelli)
[...] Zamjàtin già nel 1922 prevedeva quel che sarebbe stata la trasformazione della Russia rivoluzionaria sotto il regime di Stalin.
Ci sono in "Noi" due punti che
servono da chiave per la
concezione della rivoluzione in Zamjàtin: uno è il seguente: "Nel mondo ci sono due forze: l'entropia e l'energia. Una significa beato riposo, felice equilibrio; l'altra il rovesciamento dell'equilibrio, un penoso movimento senza fine." L'altro punto, che è come un sviluppo di questo primo, è il dialogo tra l'eroe e l'eroina del romanzo, a proposito appunto di ciò che debba intendersi per rivoluzione. Quando I-330 confessaa D-503 che ciò che si prepara è una rivoluzione, egli le risponde:
" La nostra rivoluzione è stata
l'ultima. E non ci possono più
essere rivoluzioni." Ella gli chiede di nominare "l'ultimo numero," al che egli dichiara che si tratta di un domanda assurda: "Dal momento che il numero dei numeri è senza
f i n e , come si può indicarne
l'ultimo?" E I-330, trionfante: "E come pretendi tu l'ultima
rivoluzione? Non c'è un'ultima
rivoluzione — le rivoluzioni sono senza fine."
Né il romanzo di Huxley, né
quello di Orwell, pubblicati nel 1931 il primo e n e l 1948 il
secondo, ebbero il carattere di
previsione del prossimo futuro che ebbe quello di Zamjàtin. Quello di Huxley non fu neppure scritto con
l'intento di fare una satira della Russia sovietica, intento che ebbe invece quello di Orwell, il quale alla Russia sovietica appunto mirò anche nella satira La fattoria degli
animali.
Legati o non tra loro da dirette o indirette reciproche derivazioni, i tre romanzi utopistici sul totalitarismo, tra i quali Noi occupa, almeno cronologicamente, il primo posto, sono stati avvicinati
tra loro, in un recente studio del già citato Struve [4] per una comune derivazione ideologica dalle idee che Dostoevskij pone sulle labbra
di uno degli eroi de I demoni,
Šigalëv. Dopo aver affermato che le vere radici dell'"utopia a rovescio" di Zamjàtin bisogna cercarle in Dostoèvskij, nella leggenda del
Grande Inquisitore, de I fratelli Karamàzov, nella quale è posto il dilemma di libertà e felicità, e nella
fantasia di Šigalëv ne I demoni, lo Struve osserva che ancor più alle formule di Dostoèvskij si avvicina il romanzo di Huxley, sebbene
questo autore non ricordi il nome dello scrittore russo né nel romanzo né nella prefazione che egli scrisse
per la nuova edizione di esso nel 1946.[5]
Nonostante le molte differenze di struttura artistica e nonostante la
maggiore asprezza del tono politico in Zamjàtin, non v'è dubbio che i due scrittori si richiamano nella loro affermazione che la felicità
dell'umanità non è conciliabile né con la verità, né con Dio, né con la libertà, al dialogo tra Cristo e il Grande Inquisitore. Solo che, in
contrasto col "Benefattore" dello "Sta to Unico" del romanzo di Zamjàtin, figura astratta e priva di umanità, rappresentato addirittura
come una specie di ragno bianco, il "Controllore" dell'Europa Occidentale nello "Stato Mondiale" di Huxley è piuttosto un cinico bonario che tiene nel suo studio libri proibiti nello "Stato Mondiale" , tra gli altri la Bibbia.
Ora il dialogo tra lui e il Selvaggio, in uno dei capitoli conclusivi del romanzo, quando egli socchiude la porta su alcuni segreti del governo
dello "Stato Mondiale," potrebbe, secondo lo Struve, essere considerato come una parodia del dialogo tra il Grande Inquisitore e Cristo in Dostoèvskij. In Zamjàtin non è certo il caso di parlare di
parodia, in quanto l'assioma che la felicità è possibile solo senza libertà, assioma che è alla base della struttura dello "Stato Unico," è oggetto di feroce ironia, non di bonaria parodia. A tal proposito ci par comunque giusto ricordare che Zamjàtin non solo mette in relazione questo assioma con quello della meccanicizzazione dell'uomo e della sua vita, ma che di quest'ultimo aveva in un certo
senso fatto una parodia nei racconti di vita inglese.
Nel racconto Gli isolani, per
esempio, il vicario Dully, autore del libro "Il testamento della salvezza obbligatoria" vuole escludere dalla vita tutti i ''sentimenti inaspettati," perché l'uomo deve diventare una macchina, nella quale tutto è prescritto: i giorni della penitenza e della preghiera, le ore dei pasti e dell'amore, in modo che in seguito alla meccanicizzazione sia distrutta ogni cosa spiacevole: il libero pensiero, le passioni, l'ingiusta sincerità.
Ricordiamo questo legame tra
Noi e i racconti inglesi per notare che un qualsiasi critico sovietico avrebbe potuto farvi cenno, se non altro per mostrare come le idee di Zamjàtin nel loro valore universale non erano dirette soltanto contro il regime sovietico e che l'accusa di
tendenziosità preconcetta finiva col ricadere su chi se ne serviva.

Per quanto riguarda il romanzo di Orwell, ritorniamo alle osservazioni dello Struve.
"Anche il romanzo di Orwell,"
scrive egli, "appartiene alla
letteratura utopistica ed è proiettato nel futuro. Solo che mentre Zamjàtin profeticamente mostrava il
c o r s o dell'evoluzione o della
rivoluzione comunista in Russia, il suo inevitabile passaggio dall'energia' all"entropia,' la sua tendenza al totalitarismo, e Huxley dava libero volo alla sua fantasia
scientifica e disegnava uno Stato, nel quale la 'felicità' è in funzione della perdita della libertà, Orwell scriveva avendo già dietro di sé
l'esperienza di molti anni di
totalitarismo comunista, nazista e fascista. Quel che egli descriveva non era perciò, in sostanza, profezia o frutto della fantasia, ma semplicemente una trasfigurazione della realtà, una certa sua riduzione ad iperbole artistica. Per i russi
questo quadro di un ipotetico futuro non è che il riflesso della realtà sovietica in uno specchio leggermente storto. Ciò non hanno capito e non hanno voluto capire molti critici americani ed europei
che hanno scritto sul romanzo di Orwell, ingannati dal fatto che l'azione si svolge in Inghilterra. Orwell stesso negò che il suo romanzo fosse una specie di ammonimento al partito laburista.
Non a caso, a differenza di
Zamjàtin e di Huxley, egli lega lo stato sviluppato fino ai limiti di un'organizzazione totalitaria, non col progresso. ma col regresso tecnico e materiale, sottolineando
così di non scrivere un"utopia' sul futuro, ma una satira del presente. Ma come i romanzi di Zamjàtin e di Huxley, anche quello di Orwell si
richiama a Dostoèvskij, la cui
influenza diretta si sente anche più fortemente, specialmente nell'ultima
parte del romanzo: nelle scene
penose, in cui è descritta la
'elaborazione,' fisica e psicologica, nelle celle e nei sotterranei del 'Ministero dell'amore' dell'eroe del romanzo, un piccolo uomo che ha osato levarsi contro la dittatura onnipotente. Lo scopo di questa 'elaborazione' è farlo tornare alla vera fede, al conclusivo stadio di essa — la suggestione nella vittima,
dell'amore per il dittatore e
l'organizzazione di cui egli è alla testa. Motivo anche questo che si rifà al Grande Inquisitore."
Il lettore di Noi non potrà tuttavia non rilevare anche le molte coincidenze del romanzo di Orwell con quello di Zamjàtin, anche se il tono ne è abbastanza diverso.[...]

[4] Gleb Struve, Soviet Russian Literature
1917-1950, University of Oklahoma Press,
Norman, 1951, pp. 37-45. Su Noi in particolare
le pp. 39-45.
[5] Gleb Struve, Novye varianty šigalevšèiny,
in "Novyj urnal," New York, n° XXX, 1952, pp.152-163


Noi

NOTA PRIMA
Sommario: Un avviso. La linea più saggia. Un poema.



Trascrivo    semplicemente — parola per parola — quel che è stato pubblicato oggi nel Giornale Statale:
"Tra 120 giorni sarà portata a
termine la costruzione dell'Integrale. È vicina la grande ora storica,  in  cui  il  primo Integrale si lancerà nello spazio dei mondi. Mille  anni  or sono i  vostri eroici  antenati piegarono al potere dello   Stato Unico tutta la  sfera terrestre. Una gesta ancor più gloriosa vi  attende:  integrare  la sconfinata equazione dell'universo  per mezzo dell'Integrale elettrico
di  vetro,  dal  respiro  di  fuoco. Spetterà a voi   di   piegare   al benefico  giogo  della  ragione  gli  esseri ignoti che abitano sugli altri  pianeti,  forse  ancora  nello  stato  selvaggio della libertà. Se essi non  comprenderanno che noi portiamo  loro  la  felicità  matematicamente
esatta, è nostro dovere costringerli  ad   essere   felici.   Ma   prima  dell'arma   noi   sperimentiamo   la parola.
"In   nome   del   Benefattore   si  portano  a  conoscenza  di  tutti  i numeri dello Stato Unico:
"Chiunque ne senta in sé la forza è tenuto a comporre trattati, poemi, manifesti, odi  o  altre opere sulla bellezza  e  grandezza  dello  Stato Unico.
"Sarà questo il primo carico che l'Integrale trasporterà.
"Evviva lo Stato Unico, evviva i numeri, evviva il Benefattore!" Scrivo —  sento:  mi ardono le gote.  Sì:  integrare  la  grandiosa
equazione universale. Sì:
 raddrizzare   la   selvaggia   curva, raddrizzarla secondo la tangente— asintote — seguendo la linea retta.  Perché la linea dello Stato Unico è quella   retta.   La grande,  divina, precisa saggia linea retta — la più saggia delle linee...
Io, D-503, costruttore
dell'Integrale, io sono soltanto uno dei  matematici dello Stato Unico. La mia  penna,  abituata alle cifre, non è capace di creare la musica
delle assonanze e delle rime. Io cerco  soltanto  di prender nota di ciò che vedo, di ciò che penso — più precisamente  di  ciò che noi
 pensiamo (appunto: noi e che Noi sia il titolo delle mie note). Ma essendo appunto un prodotto della
nostra vita, della vita
matematicamente perfetta dello Stato Unico,  non  sarà,  già  per questa semplice ragione, opera di poesia? Sì — lo credo e lo so. Scrivo ciò e sento: mi ardono le gote. Probabilmente ciò somiglia a
quel che prova una donna quando
per la prima volta sente in sé il
polso di un nuovo uomo - ancora
minuscolo e cieco. Sono io e nello

stesso  tempo  non  sono  io.  Per
lunghi mesi ancora dovrò nutrirlo
col mio succo, col mio sangue e poi
con   dolore   staccarlo   da   me   e
metterlo ai piedi dello Stato Unico.
Ma io sono pronto, come ognuno
— o quasi ognuno di noi. Sono
pronto.
NOTA SECONDA

Sommario: Il balletto. L'armonia
quadrata. L'X.




Primavera. Dall'al di là del Muro
Verde,   dalle   selvagge   pianure
invisibili, il vento porta il polline
giallo e melato di non so quali fiori.
A causa di questo polline dolce le
labbra si seccano — vi passi sopra
la  lingua  ad  ogni  istante —  e
probabilmente tutte le donne che si
incontrano hanno le labbra dolci (e
anche gli uomini naturalmente). Ciò

disturba un po' il pensare logico.
Ma   in   compenso   che   cielo!
Azzurro, non turbalo da una sola
nuvola (fino a che punto doveva
essere  selvaggio  il  gusto  degli
antichi, se i loro poeti potevano
ispirarsi   a   questi   disordinati,
assurdi ammassi di vapore che si
urtano l'un l'altro stupidamente). Io
amo —  e  sono  sicuro  di  non
sbagliarmi se dico: noi amiamo —
soltanto   questo   ciclo   sterile   e
irreprensibile. In simili giorni tutto
il mondo sembra fuso dello stesso
vetro eterno e impassibile del Muro
Verde e di tutti i nostri edifici. In

giorni   come   questi   si   vede   la
profondità azzurra delle cose e le
loro stupefacenti equazioni, ignote
fino ad ora - anche in ciò che vi è
di più abituale, quotidiano.
Ecco un esempio. Questa mattina
io mi trovavo sul cantiere dove si
costruisce l'integrale, e ad un tratto
ho visto  le  macchine:  con  occhi
chiusi, come in uno stato di oblio,
giravano le sfere dei regolatori: i
pistoni,  luccicando  oscillavano  a
destra  e  a  sinistra;  il  bilanciere
superbamente muoveva le spalle; e
al ritmo di una musica inudibile
strideva  lo  scalpello  del  banco

d'intaglio. E a un tratto io vidi tutta la  bellezza  di  questo  grandioso balletto di macchine, inondato da un leggero sole azzurro.
E più avanti ho domandato a me
stesso: perché è bello? Perché la
danza è bella? Risposta: perché è
un movimento non libero, perché il
senso   profondo   della   danza   è
appunto   nell'assoluta   dipendenza
estetica ad una costrizione ideale.


E se è vero che i nostri antenati si
abbandonavano alla  danza nei più

ispirati momenti della loro vita (i
misteri religiosi, le parate
guerresche), ciò significa una cosa
sola: che ristinto della costrizione è
esistito sempre organicamente
nell'uomo, e noi, nella nostra vita attuale, ne abbiamo coscienza...
Dovrò finire più   tardi:   il
numeratore ha schioccato. Alzo gli
occhi: O-90,  naturalmente.  E tra
mezzo minuto ella sarà qui: viene a
prendermi per una passeggiata.
Cara O! — mi è sembrato sempre
che essa somigliasse al suo nome:
10 centimetri di meno per la Norma

Materna —  e per questo è tutta
rotondetta e un O roseo — la bocca
—  s'apre  in  attesa  di ogni  mia
parola. E    ancora: u n a piega
rotonda, paffuta ai polsi — come
l'hanno di solito i bambini.
Quando ella entrò in me ancora
rombava il volante della logica e
per inerzia parlai della formula da
me    allora fi s s a ta , nella   quale
rientravamo   e   noi   tutti   e   le
macchine e la danza.
"Meraviglioso.   Non   è   vero?" domandai.

"Sì, meraviglioso. È primavera,"
mi sorrise d'un suo sorriso roseo O-
90.
Ah, è così: la primavera... Ella
parla della primavera... Le donne...
E tacqui.
In basso. Il viale era pieno: con
un  tempo   simile   di   solito   noi
trascorriamo   l'ora personale  che
segue ai pasti, in una passeggiata
supplementare. Come sempre,
l'Officina musicale con tutte le sue
trombe   cantava   la Marcia  dello
Stato Unico. In file regolari, per
quattro, segnando con entusiasmo il

tempo,  i  numeri  marciavano
centinaia,  migliaia  di  numeri,  in
"unif"[6] azzurrognole, c o n sul
petto le placche d'oro — il numero
statale   di   ognuno   e   di ognuna.
Anch'io — o meglio noi quattro —
formavamo una delle innumerevoli
onde di questo torrente possente.
Alla  mia  sinistra c'era O-90 (se
questo   lo scrivesse   uno dei miei
pelosi   antenati   di mille   anni fa,
probabilmente la chiamerebbe con
la  ridicola  parola  "la  mia");  a
destra due  numeri  sconosciuti,
femminile e maschile.
Il  cielo  beatamente  azzurro,  i

minuscoli   infantili s o l i in ognuna
delle   nostre placche, i volti non
offuscati dalla follia dei pensieri...
I raggi — capite: tutto era come di
u n a unica,  raggiante,  sorridente
materia. E i ritmi bronzei: " Tra-ta-
t a - t a m. Tra-ta-ta-tam," questi
gradini bronzei luccicanti al sole e
ad ogni gradino vi sollevate più in
alto, in un   azzurro   che   dà   le
vertigini...
Ed  ecco,    proprio così,  come
questa   mattina   nel cantiere, di
nuovo ho visto, come per la prima
volta nella vita — ho visto tutto: le
vie immutabilmente dritte, il vetro

delle carreggiate spruzzante raggi, i
divini parallelepipedi delle
abitazioni   trasparenti,   l'armonia
quadrata    dei    ranghi grigio-blu.
Come se non si trattasse di intere
generazioni, ma di me, — appunto
soltanto di me — ad aver vinto il
vecchio Dio e la vecchia vita e ad
aver creato tutto ciò, come se fossi
stato   una   torre   avevo   paura   a
muovere   il   gomito   perché   non
crollassero   giù   in bricioli  muri,
cupole, macchine...
E   poi   un istante —  un  salto
attraverso i secoli con + su —. Mi
ricordai (evidentemente

un'associazione   per contrasto)
mi  ricordai  ad  un  tratto  di  un
quadro in un museo: un loro viale
del   tempo, del secolo ventesimo,
così variopinto da dare il capogiro,
pieno   di    una confusa    folla di
persone, di ruote,  di  animali,  di
manifesti,  di  alberi,  di colori, di
uccelli.  E  si  dice  che    ciò sia
esistito davvero, c h e ciò  abbia
potuto essere. Ciò mi sembrò tanto
inverosimile, tanto assurdo, che non
potei trattenere uno scoppio di riso.
E immediatamente un'eco — una
risata —  a  destra?  Mi voltai  e
sentii negli occhi dei denti bianchi,

straordinariamente bianchi e aguzzi, un volto femminile sconosciuto.
"Scusatemi," mi disse ella, "ma
voi avete guardato tutto in un modo
così ispirato — come il Dio del
mi t o nel settimo giorno   della
creazione. Ho l'impressione che voi siate convinto di aver voi e non altri creato anche me. Me ne sento molto lusingata..."
Tutto ciò — senza un sorriso,
direi   quasi con un certo rispetto
(forse ella sapeva che io ero il
costruttore dell'Integrale). Ma non
s o quale strano ed irritante X negli

occhi o nelle sopracciglia — non
mi   riesce   in   nessun modo   di
comprenderlo, di dargli una
espressione cifrata.
Chissà perché  mi  turbai  e,
leggermente   confuso,   cercai di
motivare logicamente il   suo riso.
E r a del   tutto chiaro  che  questo
contrasto, questo insuperabile
abisso tra quelli di oggi e quelli di
allora...
"Ma perché dunque
insuperabile?" (Che denti bianchi!).
"Attraverso un abisso si può gettare
un ponte. Pensate soltanto un po': i

tamburi, i battaglioni, i ranghi, tutto ciò già c'era allora, e perciò..."
"Ma sì: è chiaro!"  esclamò ella
(fu   un sorprendente incrocio  di
pensieri: ella aveva detto — quasi
con le mie stesse parole — ciò che
i o avevo   annotato   prima della
passeggiata). "Capite: perfino   i
pensieri. Questo, perché nessuno è
'uno,' ma 'uno dei'. Noi siamo così
simili..."
Ella:

"Ne siete convinto?"

Io vidi le sopracciglia tirate in su
verso le tempia ad angolo acuto —
come gli acuti cornetti dell'X e di
nuovo, chissà  perché,  mi  turbai;
gettai  uno  sguardo  a  destra,  a
sinistra — e...
Alla   mia destra,  ella,  sottile,
tagliente, dritta e pieghevole come
un frustino, I-330 (vedo adesso il
suo  numero); a  sinistra, O — del
tutto diversa, tutta fatta di curve,
c on l'infantile  piega  al polso;  e
all'estremo  della  nostra  fila  di
quattro un numero a me ignoto, un
tale ripiegato due volte su se stesso,
come la  lettera  S.  Eravamo  tutti

diversi...
Quella di destra, I-330, afferrò,
evidentemente,   il   mio   sguardo
smarrito  e  con  un sospiro: "Sì...
ahimè!"
In sostanza, questo "ahimè" era
del  tutto  a  posto.  Ma di  nuovo
qualcosa    sul suo   viso   o   nella
voce...
C o n una   asprezza   per   me inconsueta dissi:
"Niente ahimè! La scienza cresce
ed   è   chiaro che   se non  subito,

almeno fra cinquanta, cento anni."

"Perfino i nasi di tutti quanti..."
"Sì, i nasi," io quasi gridai. "Dal
momento   che c ' è egualmente  una
base per l'invidia... Dal momento
che io ho il naso come un bottone, e
un altro.,."
"Bene,   il   naso voi  ce  l'avete,
perfino  'classico,'  come dicevano
nei  tempi  antichi.  Ma  le  mani,
ecco... Su, via, mostrate, mostrate
dunque le mani!"
Non posso sopportare che mi si

guardino le mani: sono tutte pelose, irsute — un assurdo atavismo. Tesi la mano e con una voce per quanto possibile estranea dissi:

"Da scimmia."
Ella guardò le mani, poi  la mia
faccia:
" S ì , c'è un accordo   molto
curioso," ella  mi  pesò  con  gli
occhi, come su di una bilancia, e di
nuovo    i    cornetti    dell'X    si
disegnarono   negli   angoli   delle
sopracciglia.

"Egli è iscritto per me," aprì la rosea bocca O-90.
Avrebbe fatto meglio a tacere —
e r a d e l tutto  fuori  luogo.  In
generale,   questa   cara O...  come
dire... Ha una rapidità di lingua mal
calcolata;  la  velocità della lingua
calcolata   a secondi  deve  essere
sempre   minore   di   almeno   un
secondo alla rapidità del pensiero,
e non il contrario.
Alla fine del viale, sulla torre
degli   accumulatori,   la   campana
batté    sordamente    le 17.   L'ora
individuale finì. I-330 andò via con

quel numero maschile simile ad una
S. Egli aveva un viso che incuteva
rispetto  e,  a  quanto credo, a me
noto. Debbo averlo incontrato in
qualche posto — ma adesso non
ricordo.
Salutandoci, I — sempre come
una  X —  mi  sorrise:  "Passate
domani l'altro all'auditorio 112."
Io mi strinsi nelle spalle.
"Se sarò convocato — proprio in
questo   auditorio   che   voi   avete
indicato..."

Ed ella con una incomprensibile sicurezza: "Lo sarete."
Questa donna agiva su di me in
modo   sgradevole, c o me un  dato
irrazionale irriducibile introdottosi
in una equazione. E fui contento di
restare, sia pure per breve tempo,
con la cara O.
Tenendoci per mano passammo
quattro  linee  di  viali. All'angolo
ella doveva andare a destra, io a
sinistra.
"Vorrei tanto venire oggi da voi ed abbassar le tende.

Proprio oggi,   subito..." O  alzò
timidamente su di me i suoi occhi
tondi di un azzurro cristallino.
Buffa. Che cosa potevo dirle? È
stata da me solo ieri e sa bene
quanto me che il nostro prossimo
giorno sessuale è doman l'altro. È
proprio ancora il suo avanzar sul
pensiero — così come (talvolta con
danno) una scintilla può scoppiare
in anticipo in un motore.
Separandoci io baciai due... no,
s a r ò preciso,  tre volte i   suoi
meravigliosi   occhi azzurri   non
turbati da nessuna nuvola.