NOI
Evgenij Zamjàtin
Il capolavoro (che inaugura il filone anti-utopico) di Zamjàtin, col quale cento anni fa l'autore emise un giudizio implacabile sul regime sovietico che era appena nato.
[...] Spetterà
a voi di piegare al benefico giogo della ragione gli esseri ignoti che abitano sugli altri
pianeti, forse ancora nello stato selvaggio della libertà. Se essi non comprenderanno che noi portiamo loro la felicità matematicamente esatta, è nostro dovere costringerli ad
essere felici.[...]
Dalla Prefazione di Ettore Lo Gatto (edizione Feltrinelli)
[...] Zamjàtin già nel 1922 prevedeva quel che sarebbe stata la trasformazione della Russia rivoluzionaria sotto il regime di Stalin.
Ci sono in "Noi" due punti che
servono da chiave per la
concezione della rivoluzione in Zamjàtin: uno è il seguente: "Nel mondo ci sono due forze: l'entropia e l'energia. Una significa beato riposo, felice equilibrio; l'altra il rovesciamento dell'equilibrio, un penoso movimento senza fine." L'altro punto, che è come un sviluppo di questo primo, è il dialogo tra l'eroe e l'eroina del romanzo, a proposito appunto di ciò che debba intendersi per rivoluzione. Quando I-330 confessaa D-503 che ciò che si prepara è una rivoluzione, egli le risponde:
" La nostra rivoluzione è stata
l'ultima. E non ci possono più
essere rivoluzioni." Ella gli chiede di nominare "l'ultimo numero," al che egli dichiara che si tratta di un domanda assurda: "Dal momento che il numero dei numeri è senza
f i n e , come si può indicarne
l'ultimo?" E I-330, trionfante: "E come pretendi tu l'ultima
rivoluzione? Non c'è un'ultima
rivoluzione — le rivoluzioni sono senza fine."
Né il romanzo di Huxley, né
quello di Orwell, pubblicati nel 1931 il primo e n e l 1948 il
secondo, ebbero il carattere di
previsione del prossimo futuro che ebbe quello di Zamjàtin. Quello di Huxley non fu neppure scritto con
l'intento di fare una satira della Russia sovietica, intento che ebbe invece quello di Orwell, il quale alla Russia sovietica appunto mirò anche nella satira La fattoria degli
animali.
Legati o non tra loro da dirette o indirette reciproche derivazioni, i tre romanzi utopistici sul totalitarismo, tra i quali Noi occupa, almeno cronologicamente, il primo posto, sono stati avvicinati
tra loro, in un recente studio del già citato Struve [4] per una comune derivazione ideologica dalle idee che Dostoevskij pone sulle labbra
di uno degli eroi de I demoni,
Šigalëv. Dopo aver affermato che le vere radici dell'"utopia a rovescio" di Zamjàtin bisogna cercarle in Dostoèvskij, nella leggenda del
Grande Inquisitore, de I fratelli Karamàzov, nella quale è posto il dilemma di libertà e felicità, e nella
fantasia di Šigalëv ne I demoni, lo Struve osserva che ancor più alle formule di Dostoèvskij si avvicina il romanzo di Huxley, sebbene
questo autore non ricordi il nome dello scrittore russo né nel romanzo né nella prefazione che egli scrisse
per la nuova edizione di esso nel 1946.[5]
Nonostante le molte differenze di struttura artistica e nonostante la
maggiore asprezza del tono politico in Zamjàtin, non v'è dubbio che i due scrittori si richiamano nella loro affermazione che la felicità
dell'umanità non è conciliabile né con la verità, né con Dio, né con la libertà, al dialogo tra Cristo e il Grande Inquisitore. Solo che, in
contrasto col "Benefattore" dello "Sta to Unico" del romanzo di Zamjàtin, figura astratta e priva di umanità, rappresentato addirittura
come una specie di ragno bianco, il "Controllore" dell'Europa Occidentale nello "Stato Mondiale" di Huxley è piuttosto un cinico bonario che tiene nel suo studio libri proibiti nello "Stato Mondiale" , tra gli altri la Bibbia.
Ora il dialogo tra lui e il Selvaggio, in uno dei capitoli conclusivi del romanzo, quando egli socchiude la porta su alcuni segreti del governo
dello "Stato Mondiale," potrebbe, secondo lo Struve, essere considerato come una parodia del dialogo tra il Grande Inquisitore e Cristo in Dostoèvskij. In Zamjàtin non è certo il caso di parlare di
parodia, in quanto l'assioma che la felicità è possibile solo senza libertà, assioma che è alla base della struttura dello "Stato Unico," è oggetto di feroce ironia, non di bonaria parodia. A tal proposito ci par comunque giusto ricordare che Zamjàtin non solo mette in relazione questo assioma con quello della meccanicizzazione dell'uomo e della sua vita, ma che di quest'ultimo aveva in un certo
senso fatto una parodia nei racconti di vita inglese.
Nel racconto Gli isolani, per
esempio, il vicario Dully, autore del libro "Il testamento della salvezza obbligatoria" vuole escludere dalla vita tutti i ''sentimenti inaspettati," perché l'uomo deve diventare una macchina, nella quale tutto è prescritto: i giorni della penitenza e della preghiera, le ore dei pasti e dell'amore, in modo che in seguito alla meccanicizzazione sia distrutta ogni cosa spiacevole: il libero pensiero, le passioni, l'ingiusta sincerità.
Ricordiamo questo legame tra
Noi e i racconti inglesi per notare che un qualsiasi critico sovietico avrebbe potuto farvi cenno, se non altro per mostrare come le idee di Zamjàtin nel loro valore universale non erano dirette soltanto contro il regime sovietico e che l'accusa di
tendenziosità preconcetta finiva col ricadere su chi se ne serviva.
Per quanto riguarda il romanzo di Orwell, ritorniamo alle osservazioni dello Struve.
"Anche il romanzo di Orwell,"
scrive egli, "appartiene alla
letteratura utopistica ed è proiettato nel futuro. Solo che mentre Zamjàtin profeticamente mostrava il
c o r s o dell'evoluzione o della
rivoluzione comunista in Russia, il suo inevitabile passaggio dall'energia' all"entropia,' la sua tendenza al totalitarismo, e Huxley dava libero volo alla sua fantasia
scientifica e disegnava uno Stato, nel quale la 'felicità' è in funzione della perdita della libertà, Orwell scriveva avendo già dietro di sé
l'esperienza di molti anni di
totalitarismo comunista, nazista e fascista. Quel che egli descriveva non era perciò, in sostanza, profezia o frutto della fantasia, ma semplicemente una trasfigurazione della realtà, una certa sua riduzione ad iperbole artistica. Per i russi
questo quadro di un ipotetico futuro non è che il riflesso della realtà sovietica in uno specchio leggermente storto. Ciò non hanno capito e non hanno voluto capire molti critici americani ed europei
che hanno scritto sul romanzo di Orwell, ingannati dal fatto che l'azione si svolge in Inghilterra. Orwell stesso negò che il suo romanzo fosse una specie di ammonimento al partito laburista.
Non a caso, a differenza di
Zamjàtin e di Huxley, egli lega lo stato sviluppato fino ai limiti di un'organizzazione totalitaria, non col progresso. ma col regresso tecnico e materiale, sottolineando
così di non scrivere un"utopia' sul futuro, ma una satira del presente. Ma come i romanzi di Zamjàtin e di Huxley, anche quello di Orwell si
richiama a Dostoèvskij, la cui
influenza diretta si sente anche più fortemente, specialmente nell'ultima
parte del romanzo: nelle scene
penose, in cui è descritta la
'elaborazione,' fisica e psicologica, nelle celle e nei sotterranei del 'Ministero dell'amore' dell'eroe del romanzo, un piccolo uomo che ha osato levarsi contro la dittatura onnipotente. Lo scopo di questa 'elaborazione' è farlo tornare alla vera fede, al conclusivo stadio di essa — la suggestione nella vittima,
dell'amore per il dittatore e
l'organizzazione di cui egli è alla testa. Motivo anche questo che si rifà al Grande Inquisitore."
Il lettore di Noi non potrà tuttavia non rilevare anche le molte coincidenze del romanzo di Orwell con quello di Zamjàtin, anche se il tono ne è abbastanza diverso.[...]
[4] Gleb Struve, Soviet Russian Literature
1917-1950, University of Oklahoma Press,
Norman, 1951, pp. 37-45. Su Noi in particolare
le pp. 39-45.
[5] Gleb Struve, Novye varianty šigalevšèiny,
in "Novyj urnal," New York, n° XXX, 1952, pp.152-163
Noi
NOTA PRIMA
Sommario: Un avviso. La linea più saggia. Un poema.
Trascrivo semplicemente — parola per parola — quel che è stato pubblicato oggi nel Giornale Statale:
"Tra 120 giorni sarà portata a
termine la costruzione dell'Integrale. È vicina la grande ora storica, in cui il primo Integrale si lancerà nello spazio dei mondi. Mille anni or sono i vostri eroici antenati piegarono al potere dello Stato Unico tutta la sfera terrestre. Una gesta ancor più gloriosa vi attende: integrare la sconfinata equazione dell'universo per mezzo dell'Integrale elettrico
di vetro, dal respiro di fuoco. Spetterà a voi di piegare al benefico giogo della ragione gli esseri ignoti che abitano sugli altri pianeti, forse ancora nello stato selvaggio della libertà. Se essi non comprenderanno che noi portiamo loro la felicità matematicamente
esatta, è nostro dovere costringerli ad essere felici. Ma prima dell'arma noi sperimentiamo la parola.
"In nome del Benefattore si portano a conoscenza di tutti i numeri dello Stato Unico:
"Chiunque ne senta in sé la forza è tenuto a comporre trattati, poemi, manifesti, odi o altre opere sulla bellezza e grandezza dello Stato Unico.
"Sarà questo il primo carico che l'Integrale trasporterà.
"Evviva lo Stato Unico, evviva i numeri, evviva il Benefattore!" Scrivo — sento: mi ardono le gote. Sì: integrare la grandiosa
equazione universale. Sì:
raddrizzare la selvaggia curva, raddrizzarla secondo la tangente— asintote — seguendo la linea retta. Perché la linea dello Stato Unico è quella retta. La grande, divina, precisa saggia linea retta — la più saggia delle linee...
Io, D-503, costruttore
dell'Integrale, io sono soltanto uno dei matematici dello Stato Unico. La mia penna, abituata alle cifre, non è capace di creare la musica
delle assonanze e delle rime. Io cerco soltanto di prender nota di ciò che vedo, di ciò che penso — più precisamente di ciò che noi
pensiamo (appunto: noi e che Noi sia il titolo delle mie note). Ma essendo appunto un prodotto della
nostra vita, della vita
matematicamente perfetta dello Stato Unico, non sarà, già per questa semplice ragione, opera di poesia? Sì — lo credo e lo so. Scrivo ciò e sento: mi ardono le gote. Probabilmente ciò somiglia a
quel che prova una donna quando
per la prima volta sente in sé il
polso di un nuovo uomo - ancora
minuscolo e cieco. Sono io e nello
stesso tempo non sono io. Per
lunghi mesi ancora dovrò nutrirlo
col mio succo, col mio sangue e poi
con dolore staccarlo da me e
metterlo ai piedi dello Stato Unico.
Ma io sono pronto, come ognuno
— o quasi ognuno di noi. Sono
pronto.
NOTA SECONDA
Sommario: Il balletto. L'armonia
quadrata. L'X.
Primavera. Dall'al di là del Muro
Verde, dalle selvagge pianure
invisibili, il vento porta il polline
giallo e melato di non so quali fiori.
A causa di questo polline dolce le
labbra si seccano — vi passi sopra
la lingua ad ogni istante — e
probabilmente tutte le donne che si
incontrano hanno le labbra dolci (e
anche gli uomini naturalmente). Ciò
disturba un po' il pensare logico.
Ma in compenso che cielo!
Azzurro, non turbalo da una sola
nuvola (fino a che punto doveva
essere selvaggio il gusto degli
antichi, se i loro poeti potevano
ispirarsi a questi disordinati,
assurdi ammassi di vapore che si
urtano l'un l'altro stupidamente). Io
amo — e sono sicuro di non
sbagliarmi se dico: noi amiamo —
soltanto questo ciclo sterile e
irreprensibile. In simili giorni tutto
il mondo sembra fuso dello stesso
vetro eterno e impassibile del Muro
Verde e di tutti i nostri edifici. In
giorni come questi si vede la
profondità azzurra delle cose e le
loro stupefacenti equazioni, ignote
fino ad ora - anche in ciò che vi è
di più abituale, quotidiano.
Ecco un esempio. Questa mattina
io mi trovavo sul cantiere dove si
costruisce l'integrale, e ad un tratto
ho visto le macchine: con occhi
chiusi, come in uno stato di oblio,
giravano le sfere dei regolatori: i
pistoni, luccicando oscillavano a
destra e a sinistra; il bilanciere
superbamente muoveva le spalle; e
al ritmo di una musica inudibile
strideva lo scalpello del banco
d'intaglio. E a un tratto io vidi tutta la bellezza di questo grandioso balletto di macchine, inondato da un leggero sole azzurro.
E più avanti ho domandato a me
stesso: perché è bello? Perché la
danza è bella? Risposta: perché è
un movimento non libero, perché il
senso profondo della danza è
appunto nell'assoluta dipendenza
estetica ad una costrizione ideale.
E se è vero che i nostri antenati si
abbandonavano alla danza nei più
ispirati momenti della loro vita (i
misteri religiosi, le parate
guerresche), ciò significa una cosa
sola: che ristinto della costrizione è
esistito sempre organicamente
nell'uomo, e noi, nella nostra vita attuale, ne abbiamo coscienza...
Dovrò finire più tardi: il
numeratore ha schioccato. Alzo gli
occhi: O-90, naturalmente. E tra
mezzo minuto ella sarà qui: viene a
prendermi per una passeggiata.
Cara O! — mi è sembrato sempre
che essa somigliasse al suo nome:
10 centimetri di meno per la Norma
Materna — e per questo è tutta
rotondetta e un O roseo — la bocca
— s'apre in attesa di ogni mia
parola. E ancora: u n a piega
rotonda, paffuta ai polsi — come
l'hanno di solito i bambini.
Quando ella entrò in me ancora
rombava il volante della logica e
per inerzia parlai della formula da
me allora fi s s a ta , nella quale
rientravamo e noi tutti e le
macchine e la danza.
"Meraviglioso. Non è vero?" domandai.
"Sì, meraviglioso. È primavera,"
mi sorrise d'un suo sorriso roseo O-
90.
Ah, è così: la primavera... Ella
parla della primavera... Le donne...
E tacqui.
In basso. Il viale era pieno: con
un tempo simile di solito noi
trascorriamo l'ora personale che
segue ai pasti, in una passeggiata
supplementare. Come sempre,
l'Officina musicale con tutte le sue
trombe cantava la Marcia dello
Stato Unico. In file regolari, per
quattro, segnando con entusiasmo il
tempo, i numeri marciavano —
centinaia, migliaia di numeri, in
"unif"[6] azzurrognole, c o n sul
petto le placche d'oro — il numero
statale di ognuno e di ognuna.
Anch'io — o meglio noi quattro —
formavamo una delle innumerevoli
onde di questo torrente possente.
Alla mia sinistra c'era O-90 (se
questo lo scrivesse uno dei miei
pelosi antenati di mille anni fa,
probabilmente la chiamerebbe con
la ridicola parola "la mia"); a
destra due numeri sconosciuti,
femminile e maschile.
Il cielo beatamente azzurro, i
minuscoli infantili s o l i in ognuna
delle nostre placche, i volti non
offuscati dalla follia dei pensieri...
I raggi — capite: tutto era come di
u n a unica, raggiante, sorridente
materia. E i ritmi bronzei: " Tra-ta-
t a - t a m. Tra-ta-ta-tam," questi
gradini bronzei luccicanti al sole e
ad ogni gradino vi sollevate più in
alto, in un azzurro che dà le
vertigini...
Ed ecco, proprio così, come
questa mattina nel cantiere, di
nuovo ho visto, come per la prima
volta nella vita — ho visto tutto: le
vie immutabilmente dritte, il vetro
delle carreggiate spruzzante raggi, i
divini parallelepipedi delle
abitazioni trasparenti, l'armonia
quadrata dei ranghi grigio-blu.
Come se non si trattasse di intere
generazioni, ma di me, — appunto
soltanto di me — ad aver vinto il
vecchio Dio e la vecchia vita e ad
aver creato tutto ciò, come se fossi
stato una torre avevo paura a
muovere il gomito perché non
crollassero giù in bricioli muri,
cupole, macchine...
E poi un istante — un salto
attraverso i secoli con + su —. Mi
ricordai (evidentemente
un'associazione per contrasto) —
mi ricordai ad un tratto di un
quadro in un museo: un loro viale
del tempo, del secolo ventesimo,
così variopinto da dare il capogiro,
pieno di una confusa folla di
persone, di ruote, di animali, di
manifesti, di alberi, di colori, di
uccelli. E si dice che ciò sia
esistito davvero, c h e ciò abbia
potuto essere. Ciò mi sembrò tanto
inverosimile, tanto assurdo, che non
potei trattenere uno scoppio di riso.
E immediatamente un'eco — una
risata — a destra? Mi voltai e
sentii negli occhi dei denti bianchi,
straordinariamente bianchi e aguzzi, un volto femminile sconosciuto.
"Scusatemi," mi disse ella, "ma
voi avete guardato tutto in un modo
così ispirato — come il Dio del
mi t o nel settimo giorno della
creazione. Ho l'impressione che voi siate convinto di aver voi e non altri creato anche me. Me ne sento molto lusingata..."
Tutto ciò — senza un sorriso,
direi quasi con un certo rispetto
(forse ella sapeva che io ero il
costruttore dell'Integrale). Ma non
s o quale strano ed irritante X negli
occhi o nelle sopracciglia — non
mi riesce in nessun modo di
comprenderlo, di dargli una
espressione cifrata.
Chissà perché mi turbai e,
leggermente confuso, cercai di
motivare logicamente il suo riso.
E r a del tutto chiaro che questo
contrasto, questo insuperabile
abisso tra quelli di oggi e quelli di
allora...
"Ma perché dunque
insuperabile?" (Che denti bianchi!).
"Attraverso un abisso si può gettare
un ponte. Pensate soltanto un po': i
tamburi, i battaglioni, i ranghi, tutto ciò già c'era allora, e perciò..."
"Ma sì: è chiaro!" esclamò ella
(fu un sorprendente incrocio di
pensieri: ella aveva detto — quasi
con le mie stesse parole — ciò che
i o avevo annotato prima della
passeggiata). "Capite: perfino i
pensieri. Questo, perché nessuno è
'uno,' ma 'uno dei'. Noi siamo così
simili..."
Ella:
"Ne siete convinto?"
Io vidi le sopracciglia tirate in su
verso le tempia ad angolo acuto —
come gli acuti cornetti dell'X e di
nuovo, chissà perché, mi turbai;
gettai uno sguardo a destra, a
sinistra — e...
Alla mia destra, ella, sottile,
tagliente, dritta e pieghevole come
un frustino, I-330 (vedo adesso il
suo numero); a sinistra, O — del
tutto diversa, tutta fatta di curve,
c on l'infantile piega al polso; e
all'estremo della nostra fila di
quattro un numero a me ignoto, un
tale ripiegato due volte su se stesso,
come la lettera S. Eravamo tutti
diversi...
Quella di destra, I-330, afferrò,
evidentemente, il mio sguardo
smarrito e con un sospiro: "Sì...
ahimè!"
In sostanza, questo "ahimè" era
del tutto a posto. Ma di nuovo
qualcosa sul suo viso o nella
voce...
C o n una asprezza per me inconsueta dissi:
"Niente ahimè! La scienza cresce
ed è chiaro che se non subito,
almeno fra cinquanta, cento anni."
"Perfino i nasi di tutti quanti..."
"Sì, i nasi," io quasi gridai. "Dal
momento che c ' è egualmente una
base per l'invidia... Dal momento
che io ho il naso come un bottone, e
un altro.,."
"Bene, il naso voi ce l'avete,
perfino 'classico,' come dicevano
nei tempi antichi. Ma le mani,
ecco... Su, via, mostrate, mostrate
dunque le mani!"
Non posso sopportare che mi si
guardino le mani: sono tutte pelose, irsute — un assurdo atavismo. Tesi la mano e con una voce per quanto possibile estranea dissi:
"Da scimmia."
Ella guardò le mani, poi la mia
faccia:
" S ì , c'è un accordo molto
curioso," ella mi pesò con gli
occhi, come su di una bilancia, e di
nuovo i cornetti dell'X si
disegnarono negli angoli delle
sopracciglia.
"Egli è iscritto per me," aprì la rosea bocca O-90.
Avrebbe fatto meglio a tacere —
e r a d e l tutto fuori luogo. In
generale, questa cara O... come
dire... Ha una rapidità di lingua mal
calcolata; la velocità della lingua
calcolata a secondi deve essere
sempre minore di almeno un
secondo alla rapidità del pensiero,
e non il contrario.
Alla fine del viale, sulla torre
degli accumulatori, la campana
batté sordamente le 17. L'ora
individuale finì. I-330 andò via con
quel numero maschile simile ad una
S. Egli aveva un viso che incuteva
rispetto e, a quanto credo, a me
noto. Debbo averlo incontrato in
qualche posto — ma adesso non
ricordo.
Salutandoci, I — sempre come
una X — mi sorrise: "Passate
domani l'altro all'auditorio 112."
Io mi strinsi nelle spalle.
"Se sarò convocato — proprio in
questo auditorio che voi avete
indicato..."
Ed ella con una incomprensibile sicurezza: "Lo sarete."
Questa donna agiva su di me in
modo sgradevole, c o me un dato
irrazionale irriducibile introdottosi
in una equazione. E fui contento di
restare, sia pure per breve tempo,
con la cara O.
Tenendoci per mano passammo
quattro linee di viali. All'angolo
ella doveva andare a destra, io a
sinistra.
"Vorrei tanto venire oggi da voi ed abbassar le tende.
Proprio oggi, subito..." O alzò
timidamente su di me i suoi occhi
tondi di un azzurro cristallino.
Buffa. Che cosa potevo dirle? È
stata da me solo ieri e sa bene
quanto me che il nostro prossimo
giorno sessuale è doman l'altro. È
proprio ancora il suo avanzar sul
pensiero — così come (talvolta con
danno) una scintilla può scoppiare
in anticipo in un motore.
Separandoci io baciai due... no,
s a r ò preciso, tre volte i suoi
meravigliosi occhi azzurri non
turbati da nessuna nuvola.
Noi
NOTA PRIMA
Sommario: Un avviso. La linea più saggia. Un poema.
Trascrivo semplicemente — parola per parola — quel che è stato pubblicato oggi nel Giornale Statale:
"Tra 120 giorni sarà portata a
termine la costruzione dell'Integrale. È vicina la grande ora storica, in cui il primo Integrale si lancerà nello spazio dei mondi. Mille anni or sono i vostri eroici antenati piegarono al potere dello Stato Unico tutta la sfera terrestre. Una gesta ancor più gloriosa vi attende: integrare la sconfinata equazione dell'universo per mezzo dell'Integrale elettrico
di vetro, dal respiro di fuoco. Spetterà a voi di piegare al benefico giogo della ragione gli esseri ignoti che abitano sugli altri pianeti, forse ancora nello stato selvaggio della libertà. Se essi non comprenderanno che noi portiamo loro la felicità matematicamente
esatta, è nostro dovere costringerli ad essere felici. Ma prima dell'arma noi sperimentiamo la parola.
"In nome del Benefattore si portano a conoscenza di tutti i numeri dello Stato Unico:
"Chiunque ne senta in sé la forza è tenuto a comporre trattati, poemi, manifesti, odi o altre opere sulla bellezza e grandezza dello Stato Unico.
"Sarà questo il primo carico che l'Integrale trasporterà.
"Evviva lo Stato Unico, evviva i numeri, evviva il Benefattore!" Scrivo — sento: mi ardono le gote. Sì: integrare la grandiosa
equazione universale. Sì:
raddrizzare la selvaggia curva, raddrizzarla secondo la tangente— asintote — seguendo la linea retta. Perché la linea dello Stato Unico è quella retta. La grande, divina, precisa saggia linea retta — la più saggia delle linee...
Io, D-503, costruttore
dell'Integrale, io sono soltanto uno dei matematici dello Stato Unico. La mia penna, abituata alle cifre, non è capace di creare la musica
delle assonanze e delle rime. Io cerco soltanto di prender nota di ciò che vedo, di ciò che penso — più precisamente di ciò che noi
pensiamo (appunto: noi e che Noi sia il titolo delle mie note). Ma essendo appunto un prodotto della
nostra vita, della vita
matematicamente perfetta dello Stato Unico, non sarà, già per questa semplice ragione, opera di poesia? Sì — lo credo e lo so. Scrivo ciò e sento: mi ardono le gote. Probabilmente ciò somiglia a
quel che prova una donna quando
per la prima volta sente in sé il
polso di un nuovo uomo - ancora
minuscolo e cieco. Sono io e nello
stesso tempo non sono io. Per
lunghi mesi ancora dovrò nutrirlo
col mio succo, col mio sangue e poi
con dolore staccarlo da me e
metterlo ai piedi dello Stato Unico.
Ma io sono pronto, come ognuno
— o quasi ognuno di noi. Sono
pronto.
NOTA SECONDA
Sommario: Il balletto. L'armonia
quadrata. L'X.
Primavera. Dall'al di là del Muro
Verde, dalle selvagge pianure
invisibili, il vento porta il polline
giallo e melato di non so quali fiori.
A causa di questo polline dolce le
labbra si seccano — vi passi sopra
la lingua ad ogni istante — e
probabilmente tutte le donne che si
incontrano hanno le labbra dolci (e
anche gli uomini naturalmente). Ciò
disturba un po' il pensare logico.
Ma in compenso che cielo!
Azzurro, non turbalo da una sola
nuvola (fino a che punto doveva
essere selvaggio il gusto degli
antichi, se i loro poeti potevano
ispirarsi a questi disordinati,
assurdi ammassi di vapore che si
urtano l'un l'altro stupidamente). Io
amo — e sono sicuro di non
sbagliarmi se dico: noi amiamo —
soltanto questo ciclo sterile e
irreprensibile. In simili giorni tutto
il mondo sembra fuso dello stesso
vetro eterno e impassibile del Muro
Verde e di tutti i nostri edifici. In
giorni come questi si vede la
profondità azzurra delle cose e le
loro stupefacenti equazioni, ignote
fino ad ora - anche in ciò che vi è
di più abituale, quotidiano.
Ecco un esempio. Questa mattina
io mi trovavo sul cantiere dove si
costruisce l'integrale, e ad un tratto
ho visto le macchine: con occhi
chiusi, come in uno stato di oblio,
giravano le sfere dei regolatori: i
pistoni, luccicando oscillavano a
destra e a sinistra; il bilanciere
superbamente muoveva le spalle; e
al ritmo di una musica inudibile
strideva lo scalpello del banco
d'intaglio. E a un tratto io vidi tutta la bellezza di questo grandioso balletto di macchine, inondato da un leggero sole azzurro.
E più avanti ho domandato a me
stesso: perché è bello? Perché la
danza è bella? Risposta: perché è
un movimento non libero, perché il
senso profondo della danza è
appunto nell'assoluta dipendenza
estetica ad una costrizione ideale.
E se è vero che i nostri antenati si
abbandonavano alla danza nei più
ispirati momenti della loro vita (i
misteri religiosi, le parate
guerresche), ciò significa una cosa
sola: che ristinto della costrizione è
esistito sempre organicamente
nell'uomo, e noi, nella nostra vita attuale, ne abbiamo coscienza...
Dovrò finire più tardi: il
numeratore ha schioccato. Alzo gli
occhi: O-90, naturalmente. E tra
mezzo minuto ella sarà qui: viene a
prendermi per una passeggiata.
Cara O! — mi è sembrato sempre
che essa somigliasse al suo nome:
10 centimetri di meno per la Norma
Materna — e per questo è tutta
rotondetta e un O roseo — la bocca
— s'apre in attesa di ogni mia
parola. E ancora: u n a piega
rotonda, paffuta ai polsi — come
l'hanno di solito i bambini.
Quando ella entrò in me ancora
rombava il volante della logica e
per inerzia parlai della formula da
me allora fi s s a ta , nella quale
rientravamo e noi tutti e le
macchine e la danza.
"Meraviglioso. Non è vero?" domandai.
"Sì, meraviglioso. È primavera,"
mi sorrise d'un suo sorriso roseo O-
90.
Ah, è così: la primavera... Ella
parla della primavera... Le donne...
E tacqui.
In basso. Il viale era pieno: con
un tempo simile di solito noi
trascorriamo l'ora personale che
segue ai pasti, in una passeggiata
supplementare. Come sempre,
l'Officina musicale con tutte le sue
trombe cantava la Marcia dello
Stato Unico. In file regolari, per
quattro, segnando con entusiasmo il
tempo, i numeri marciavano —
centinaia, migliaia di numeri, in
"unif"[6] azzurrognole, c o n sul
petto le placche d'oro — il numero
statale di ognuno e di ognuna.
Anch'io — o meglio noi quattro —
formavamo una delle innumerevoli
onde di questo torrente possente.
Alla mia sinistra c'era O-90 (se
questo lo scrivesse uno dei miei
pelosi antenati di mille anni fa,
probabilmente la chiamerebbe con
la ridicola parola "la mia"); a
destra due numeri sconosciuti,
femminile e maschile.
Il cielo beatamente azzurro, i
minuscoli infantili s o l i in ognuna
delle nostre placche, i volti non
offuscati dalla follia dei pensieri...
I raggi — capite: tutto era come di
u n a unica, raggiante, sorridente
materia. E i ritmi bronzei: " Tra-ta-
t a - t a m. Tra-ta-ta-tam," questi
gradini bronzei luccicanti al sole e
ad ogni gradino vi sollevate più in
alto, in un azzurro che dà le
vertigini...
Ed ecco, proprio così, come
questa mattina nel cantiere, di
nuovo ho visto, come per la prima
volta nella vita — ho visto tutto: le
vie immutabilmente dritte, il vetro
delle carreggiate spruzzante raggi, i
divini parallelepipedi delle
abitazioni trasparenti, l'armonia
quadrata dei ranghi grigio-blu.
Come se non si trattasse di intere
generazioni, ma di me, — appunto
soltanto di me — ad aver vinto il
vecchio Dio e la vecchia vita e ad
aver creato tutto ciò, come se fossi
stato una torre avevo paura a
muovere il gomito perché non
crollassero giù in bricioli muri,
cupole, macchine...
E poi un istante — un salto
attraverso i secoli con + su —. Mi
ricordai (evidentemente
un'associazione per contrasto) —
mi ricordai ad un tratto di un
quadro in un museo: un loro viale
del tempo, del secolo ventesimo,
così variopinto da dare il capogiro,
pieno di una confusa folla di
persone, di ruote, di animali, di
manifesti, di alberi, di colori, di
uccelli. E si dice che ciò sia
esistito davvero, c h e ciò abbia
potuto essere. Ciò mi sembrò tanto
inverosimile, tanto assurdo, che non
potei trattenere uno scoppio di riso.
E immediatamente un'eco — una
risata — a destra? Mi voltai e
sentii negli occhi dei denti bianchi,
straordinariamente bianchi e aguzzi, un volto femminile sconosciuto.
"Scusatemi," mi disse ella, "ma
voi avete guardato tutto in un modo
così ispirato — come il Dio del
mi t o nel settimo giorno della
creazione. Ho l'impressione che voi siate convinto di aver voi e non altri creato anche me. Me ne sento molto lusingata..."
Tutto ciò — senza un sorriso,
direi quasi con un certo rispetto
(forse ella sapeva che io ero il
costruttore dell'Integrale). Ma non
s o quale strano ed irritante X negli
occhi o nelle sopracciglia — non
mi riesce in nessun modo di
comprenderlo, di dargli una
espressione cifrata.
Chissà perché mi turbai e,
leggermente confuso, cercai di
motivare logicamente il suo riso.
E r a del tutto chiaro che questo
contrasto, questo insuperabile
abisso tra quelli di oggi e quelli di
allora...
"Ma perché dunque
insuperabile?" (Che denti bianchi!).
"Attraverso un abisso si può gettare
un ponte. Pensate soltanto un po': i
tamburi, i battaglioni, i ranghi, tutto ciò già c'era allora, e perciò..."
"Ma sì: è chiaro!" esclamò ella
(fu un sorprendente incrocio di
pensieri: ella aveva detto — quasi
con le mie stesse parole — ciò che
i o avevo annotato prima della
passeggiata). "Capite: perfino i
pensieri. Questo, perché nessuno è
'uno,' ma 'uno dei'. Noi siamo così
simili..."
Ella:
"Ne siete convinto?"
Io vidi le sopracciglia tirate in su
verso le tempia ad angolo acuto —
come gli acuti cornetti dell'X e di
nuovo, chissà perché, mi turbai;
gettai uno sguardo a destra, a
sinistra — e...
Alla mia destra, ella, sottile,
tagliente, dritta e pieghevole come
un frustino, I-330 (vedo adesso il
suo numero); a sinistra, O — del
tutto diversa, tutta fatta di curve,
c on l'infantile piega al polso; e
all'estremo della nostra fila di
quattro un numero a me ignoto, un
tale ripiegato due volte su se stesso,
come la lettera S. Eravamo tutti
diversi...
Quella di destra, I-330, afferrò,
evidentemente, il mio sguardo
smarrito e con un sospiro: "Sì...
ahimè!"
In sostanza, questo "ahimè" era
del tutto a posto. Ma di nuovo
qualcosa sul suo viso o nella
voce...
C o n una asprezza per me inconsueta dissi:
"Niente ahimè! La scienza cresce
ed è chiaro che se non subito,
almeno fra cinquanta, cento anni."
"Perfino i nasi di tutti quanti..."
"Sì, i nasi," io quasi gridai. "Dal
momento che c ' è egualmente una
base per l'invidia... Dal momento
che io ho il naso come un bottone, e
un altro.,."
"Bene, il naso voi ce l'avete,
perfino 'classico,' come dicevano
nei tempi antichi. Ma le mani,
ecco... Su, via, mostrate, mostrate
dunque le mani!"
Non posso sopportare che mi si
guardino le mani: sono tutte pelose, irsute — un assurdo atavismo. Tesi la mano e con una voce per quanto possibile estranea dissi:
"Da scimmia."
Ella guardò le mani, poi la mia
faccia:
" S ì , c'è un accordo molto
curioso," ella mi pesò con gli
occhi, come su di una bilancia, e di
nuovo i cornetti dell'X si
disegnarono negli angoli delle
sopracciglia.
"Egli è iscritto per me," aprì la rosea bocca O-90.
Avrebbe fatto meglio a tacere —
e r a d e l tutto fuori luogo. In
generale, questa cara O... come
dire... Ha una rapidità di lingua mal
calcolata; la velocità della lingua
calcolata a secondi deve essere
sempre minore di almeno un
secondo alla rapidità del pensiero,
e non il contrario.
Alla fine del viale, sulla torre
degli accumulatori, la campana
batté sordamente le 17. L'ora
individuale finì. I-330 andò via con
quel numero maschile simile ad una
S. Egli aveva un viso che incuteva
rispetto e, a quanto credo, a me
noto. Debbo averlo incontrato in
qualche posto — ma adesso non
ricordo.
Salutandoci, I — sempre come
una X — mi sorrise: "Passate
domani l'altro all'auditorio 112."
Io mi strinsi nelle spalle.
"Se sarò convocato — proprio in
questo auditorio che voi avete
indicato..."
Ed ella con una incomprensibile sicurezza: "Lo sarete."
Questa donna agiva su di me in
modo sgradevole, c o me un dato
irrazionale irriducibile introdottosi
in una equazione. E fui contento di
restare, sia pure per breve tempo,
con la cara O.
Tenendoci per mano passammo
quattro linee di viali. All'angolo
ella doveva andare a destra, io a
sinistra.
"Vorrei tanto venire oggi da voi ed abbassar le tende.
Proprio oggi, subito..." O alzò
timidamente su di me i suoi occhi
tondi di un azzurro cristallino.
Buffa. Che cosa potevo dirle? È
stata da me solo ieri e sa bene
quanto me che il nostro prossimo
giorno sessuale è doman l'altro. È
proprio ancora il suo avanzar sul
pensiero — così come (talvolta con
danno) una scintilla può scoppiare
in anticipo in un motore.
Separandoci io baciai due... no,
s a r ò preciso, tre volte i suoi
meravigliosi occhi azzurri non
turbati da nessuna nuvola.